TennisBestMagazine n.4

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INTERVISTE | INCHIESTE | TECNICA | TEST | SQUASH

BIMESTRALE SETTEMBRE/OTTOBRE € 4,50 ITALY ONLY

beST/magazine

! S U L P CONTO DI C UN RAID FOSTER DAV LLACE WA

HANNO SCRITTO Riccardo Bisti Marco Bucciantini Lorenzo Cazzaniga Federico Ferrero Fabio Fognini Filippo Grassia Cino Marchese Massimo Sartori Emilio Sanchez Andreas Seppi

THE KILLER SERENA WILLIAMS

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Sommario settembre/ottobre 2012

Opinionisti 18 ANDREAS SEPPI

20 FABIO FOGNINI

22 EMILIO SANCHEZ

24 FILIPPO GRASSIA

40 SERENA WILLIAMS

Domina il tennis femminile, ma cosa accadrebbe giocasse un torneo Futures maschile? Lo vincerebbe come sostiene Sara Errani?

45 GRAND SLAM RANKING

Chi ha conquistato il maggior numero di punti nei tornei più importanti?

58 ANDY RODDICK

Doveroso omaggio di Federico Ferrero al campione americano che ha appena annunciato il ritiro dalle competizioni

70 USA STORIES

Gli Stati Uniti non dominano più il tennis. Ma quali sono le migliori speranze made in USA?

74 DESAPARECIDOS

Ma cosa è successo alla fantastica scuola svedese? Ce lo spiega Marco Bucciantini

80 MATS WILANDER

Il fuoriclasse svedese scoperto (e raccontato) da Cino Marchese


84 ERNESTS GULBIS

Il piĂš folle giocatore attualmente nel circuito. Tra un padre milionario, arresti e qualche bicchiere di troppo. Lo abbiamo intervistato (da sobrio...)

88 DAVID FOSTER WALLACE

Un estratto del nuovo saggio dello straordinario scrittore americano. Il tutto nasce da una sua visita allo US Open 1994...

94 LA GRANDE SFIDA

Il primo di dicembre al Forum di Milano, una mega esibizione da non perdere con Maria, Ana, Sarita, e Robertina.

98 AMARCORD

Corrado Erba ha scovato quello che abbiamo perso nel mondo del tennis negli ultimi decenni (e che non rimpiangiamo affatto)

104 INCHIESTA

Angelo Binaghi è stato rieltetto Presidente della FIT. Un bene o un male? Ha cercato di spiegarlo Riccardo Bisti


Sommario settembre/ottobre 2012

112 MAURITIUS

Filippo Ceradelli è il più invidiato dei nostri inviati. Questa volta ha visitato il Long Beach Resort di Mauritius

118 TEST CORDE

Abbiamo provato due corde interessanti: la tanto attesa Luxilon 4G e una sorprendente Starburn

122 ANDY RODDICK

Tutti i prodotti utilizzati dal neo-ritirato A-Rod

128 MICHAEL RUSSELL

Uno dei più attenti professionisti del circuito ci spiega come si allena, soprattutto dal punto di vista fisico. Senza aiuti di coach e fisioterapisti.

130 TECNICA

Il maestro Filippo Monatnari ci spiega come sfruttare cinque colpi molto sottovalutati.

136 SQUASH

Il nostro inserto sullo squash con l’intervista a Nick Matthew, uno dei più forti giocatori del mondo, attuale numero 2 del ranking. E una visita ad un luogo storico dello squash italiano, appena rinato: il Vico di Milano.


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beST/magazine beST magazine Direzione e redazione via Carlo Goldoni 5 - 20052 Monza www.tennisbest.com Direttore responsabile Lorenzo Cazzaniga lorenzo@tennisbest.com LUOGHI / 1 Austin,Texas, dove svernerà Andy Roddick. Federico Ferrero ne ha raccontato la carriera

Caporedattore Riccardo Bisti info@tennisbest.com Hanno collaborato Lorenzo Baletti, Marino Bombini, Luca Bottazzi, Marco Bucciantini, Corrado Erba, Federico Ferrero, Filippo Grassia, Marco Imarisio, Antonio Incorvaia, Cino Marchese, Jacopo Lo Monaco, Stefano Meloccaro,Filippo Montanari, Andrea Scanzi

LUOGHI / 3 Ma dove sono scomparsi i giocatori svedesi? Marco Bucciantini ha svolto una ricerca per spiegare il crollo del tennis scandinavo

Pro Player Fabio Fognini, Andreas Seppi Pro Coach Emilio Sanchez, Massimo Sartori LUOGHI / 2 Sole, mare, golf e una bellissima accademia. Emilio Sanchez ha creato a Barcellona la miglior academy europea. Ma anche quella di Naples, Usa, non scherza.

Photo editor Marco De Ponti Photo Agency Getty Images Art director Giuly Marley Der Prinz Editore XM MANAGEMENT SRL corso Garibaldi 49 - 20121 Milano Stampa Grafiche Mazzuchelli Sede Operativa: Via Ca\’ Bertoncina 37/39/41 24068 Seriate (BG), Italia Tel: +39 035 292.13.00 info@mazzucchelli.it Distributore per l’Italia m-dis S.p.A. Via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano tel. 02/25.82.1 Registrazione presso il Tribunale di Milano n.75 del 10 febbraio 2012

LUOGHI / 4 Riga è una bellissima città. Certo, per passare una serata interessante, la compagnia di Ernests Gulbis farebbe comodo...


DREAM TEAM

Giocatori, coach, manager, giornalisti, scrittori, commentatori tv: una carrellata dei complici che ci hanno permesso di sfornare questo numero di TENNISBEST Magazine. 1

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RICCARDO BISTI Il suo compito è (anche) realizzare inchieste. Questa volta si è occupato del Presidente federale, come carica generale, e in particolare di Angelo Binaghi, appena rieletto a capo della nostra Federazione per altri quattro anni.

LUCA BOTTAZZI Ottimo giocatore, apprezzato commentatore a Sky, è uno dei migliori maestri italiani. Soprattutto nella delicata fase del primo apprendimento. Ogni numero sviluppa un concetto sul tennis di base, utilissimo per i nostri maestri.

MARCO BUCCIANTINI La scomparsa di giocatori svedesi dalla top 300 ATP (dopo anni di dominio assoluto) è notizia passata inosservata sui media specializzati. Il nostro Marco Bucciantini ha provato a scavare per scoprire cosa si nasconde dietro una crisi senza precedenti.

6 FABIO FOGNINI Allo US Open è uscito sconfitto da una dura battaglia contro Andy Roddick. Lui è abituato alle maratone negli Slam, ma chi sono i dieci più grandi combattenti dell'attuale circuito ATP? Fabio ha compilato per noi la sua personale top 10.

7 FILIPPO GRASSIA Sciopero o non sciopero? I giocatori minacciano di dare forfait all'Australian Open 2013 se i tornei del Grand Slam non alzeranno i montepremi, soprattutto dei giocatori sconfitti nei primi turni che hanno maggiormente bisogno.

4 LORENZO CAZZANIGA Il nostro direttore si è occupato della Grande Sfida di Milano del prossimo 1 dicembre con Sharapova, Ivanovic, Errani e Vinci, del Grand Slam Ranking e dell'intervista a Ernests Gulbis, uno dei giocatori più stravaganti e divertenti del circuito

5 FEDERICO FERRERO La voce di Eurosport si è occupato di Andy Roddick che allo scorso US Open ha annunciato il suo ritiro. Un omaggio doveroso ad uno dei personaggi più veri dell'ultimo ventennio tennistico a livello mondiale.

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CINO MARCHESE Il più grande manager nella storia dello sport italiano, in questo numero si è occupato di Mats Wilander, ricordando il giorno in cui lo ha scoperto e messo sotto contratto. Da lì, è nata una profonda amicizia, ricca anche di curiosi aneddoti.

EMILIO SANCHEZ L'abbiamo ammirato da giocatore, ora lo apprezziamo per aver creato la più importante accademia di tennis europea a Barcellona (e a Naples, in Florida). Ci ha spiegato perché lo sport spagnolo non gode di ottime prospettive future.

ANDREAS SEPPI L'anno scorso abbiamo scoperto che nei pronostici non è esattamente il numero uno d'Italia. Però... non demorde. E anche nel 2012 metterà alla prova la sua competenza tennistica e non. «Tanto non posso far peggio!»

SPECIAL GUEST STAR In questo numero, grazie alla collaborazione con Einaudi che ha appena edito due suoi saggi, abbiamo l'onore di potervi presentare un estratto di un lavoro realizzato dal mitico DAVID FOSTER WALLACE. In questo libro sono dunque presenti due saggi: uno è la celebre ode ai Momenti Federer, l'altro un racconto nato da una sua personale esperienza allo US Open 1995. Nasce dall'incontro tra Pete Sampras e Mark Philippoussis, ma chiaramente va ben oltre. Morto suicida nel 2008, ci manca molto la penna di questo brillante scrittore. Durante lo US Open, Bret Easton Ellis, l'autore di American Psycho, lo ha attaccato bruscamente su Twitter. Il 90% dei commenti rispediva le accuse al mittente, dimostrando quanto DFW sia ancora amato.

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di LORENZO CAZZANIGA

LA NUOVA (VECCHIA) FIT Chi ha la pazienza di seguirci sul nostro sito Internet, avrà letto l'intervista al rieletto Presidente Fit, Angelo Binaghi, e la cronaca di quanto accaduto nell'Assemblea di Roma, realizzate dal nostro inviato Riccardo Bisti. L'ingegner Angelo Binaghi inizia così il suo quarto mandato e vien d'obbligo chiedersi quali siano gli aspetti sui quali sarebbe necessario lavorare maggiormente. Al di là di una legge elettorale che nemmeno Berlusconi è riuscito a rendere così ad personam (gli sbarramenti creati hanno eliminato la concorrenza, tanto che Binaghi era candidato unico alle Presidenziali, confermando o che i vincoli per tale candidatura sono troppo onerosi o che la carica non è poi così ambita), credo che questa Federazione debba garantire soprattutto due cose: trasparenza nell'utilizzo dei fondi pubblici e una evoluzione del nostro settore tecnico. Come lo stesso Governo Monti ha garantito per faccende più delicate, sarebbe doveroso per la Fit, rendere noti i contributi elargiti agli atleti professionisti e alle giovani promesse, ai coach, ai circoli. E al tanto amato canale SuperTennis. Le Federazioni sportive amministrano soldi pubblici e una maggior trasparenza dovrebbe essere obbligatoria (per i suoi conti e nei rapporti con società private a lei collegate). Tuttavia, è ancor più importante la seconda faccenda, quella legata al settore tecnico. I PIA non mi pare stiano raggiungendo lo scopo per i quali sono stati pensati: non esiste una Scuola Tennis Italiana, non esiste una precisa identità tecnica, non esiste una Scuola Nazionale Maestri che operi in maniera capillare per formare maestri doc. E tantomeno esiste un percorso formativo per quei (pochi) maestri che vogliono diventare coach professionisti. Due anni fa, Corrado Barazzutti mi diede ragione quando affermavo che bisognerebbe sostenere i migliori coach attuali perché aiutino a formare i coach di domani, accompagnandoli sottobraccio nei circuiti pro e condividendo il proprio know-how. «Bella idea - mi disse -. Lo faremo». Non mi risulta l'abbiano fatto. Anzi, il direttore marketing Fit, Marco Meneschincheri, è intervenuto sulla bacheca di Facebook (sic) del nostro Federico Ferrero, affermando che certi coach che si propongono alla Fit, dovrebbero cominciare con meno pretese (suppongo economiche). Cioè, un coach come Massimo Sartori per esempio, che ha investito tutta la sua vita professionale per crescere una giovane promessa (tale Andreas Seppi), che ha poi portato nella top 30 mondiale, dimostrando di aver imparato come si crea un tennista professionista, non è corretto che chieda quanto la legge di mercato suggerisce? Tanto più che il Presidente si vanta che money is not an issue, forte di un utile di due milioni di euro e chiedendo nell'ultimo intervento dell'Assemblea che gli venga servito una assist come nemmeno Magic Johnson: «Presidente, bisogna investire di più. Su SuperTennis». E allora, il Presidente annuncia che il 50% dei nuovi introiti verranno destinati al canale tv della Fit. Chissà, magari vedremo il torneo di Kuala Lumpur dal primo giorno, o ancora qualche degno reportage dai nostri inviati a New York. In compenso, un programma di evoluzione del settore tecnico non mi sembra sia stato presentato. Semplicemente si spera che Quinzi (nominato in Assemblea col solo nome di battesimo, Gianluigi, come conviene alle star) diventi un fenomeno. Ma senza creare maestri di ottimo livello che si occupino della formazione di base (dalla quale giungono grida di allarme) e coach professionisti che sappiano accompagnare i migliori talenti nel circuito pro, difficilmente il settore tecnico italiano potrà fare un salto di qualità. Resterebbe tutto nelle mani dell'iniziativa privata. I risultati li vedremo tra qualche anno. Ovviamente, su SuperTennis. Far parte del Board ATP (e WTA) è una manna: sei pagato per viaggiare nei migliori tornei dove si organizzano riunioni per decidere le sorti dei circuiti mondiali. Tuttavia, nell'ultimo meeting di New York, devono aver abusato del Cabernet Sauvignon. Sono infatti emersi cambiamenti nelle regole alquanto bizzarri. In particolare, pare essere passata la proposta di testare in qualche torneo challenger del 2013, l'abolizione del let sul servizio. In sostanza, se la palla di servizio colpisce la rete e rimbalza nel rettangolo di battuta, la palla sarà considerata in gioco. «Non è per guadagnare tempo, ma per rendere il gioco più fluido» ha detto il Presidente ATP Brad Drewett, che pure è stato un ottimo giocatore e dovrebbe capire che si tratta di una grande cazz... È probabile che glielo spieghino i giocatori stessi. In più, è cambiata anche la sanzione per i giocatori che superano i 25 secondi di attesa tra un punto e l'altro. Alla seconda ammonizione infatti, il giocatore alla risposta viene penalizzato di un punto, quello al servizio invece, dovrà semplicemente servire direttamente una seconda palla. Se questo è il tenore delle riunioni... In realtà, dovrebbero spiegarci perché la regola dei 25 secondi viene continuamente ignorata senza che l'arbitro intervenga. Giocatori come Nadal e Djokovic superano mediamente (non saltuariamente) i 25 secondi concessi, ma secondo voi un giudice di sedia ha mai accordato loro un punto di penalità? Il giorno dopo le elezioni Fit, mi sono imbattuto nel talk show di SuperTennis TV. Ahimè, c'era anche Nicola Pietrangeli. Ad un certo punto, alza il ditino e chiede di fare una domanda sul centro tecnico di Tirrenia. Poi in realtà, se ne esce con una dichiarazione che mi ha fatto trasecolare: «Ora, ditemi voi il nome di un giocatore che è uscito dall'Accademia di Bollettieri. Basta uno». Timidamente, gli fanno notare i nomi di Agassi e Sharapova (ai quali potremmo aggiungere Courier, Seles, Arias, eccetera). «Beh, ma quelli sono arrivati a 11 anni ed erano già fenomeni». Attendiamo dunque che a Tirrenia arrivi ad allenarsi un infante di quattro anni che diverrà numero uno del mondo vent'anni dopo. Post scriptum: della faccenda, l'immagine più esilarante è stata la faccia di Binaghi, inquadrato subito dopo...

Editoriale


ASICS nasce come acronimo del motto latino “Anima Sana In Corpore Sano”

SONO IL PROSSIMO PUNTO. NON L’ULTIMO. SAMANTHA STOSUR, VINCITRICE US OPEN 2011

IO SONO LO SPORT E TU? ASICS.IT


START NEXT ISSUE IL PROSSIMO NUMERO DI TENNISBEST MAGAZINE CHE SARÀ IN EDICOLA ALLA FINE DI NOVEMBRE, SARÀ DAVVERO IMPERDIBILE, CON TUTTO IL MEGLIO DELLA STAGIONE 2012 RACCONTATA DAI NOSTRI TOP CONTRIBUTORS. E I MIGLIORI CONSIGLI TECNICI E SUGLI ACQUISTI NATALIZI. IN PIÙ, UNA BELLA SORPRESA DA SCOPRIRE SUL VOSTRO TABLET... CONTRO OGNI PARERE GIENCOLOGICO... Fiocco azzurro in casa TENNISBEST. Se la meravigliosa Victoria, la figlia del nostro direttore, ha da poco superato i cinque mesi, Marco Bucciantini è diventato papà di un bellissimo bimbo di oltre quattro chili, Luca. E luim noncurante dei richiami delle ginecologhe, ci ha inviato il pezzo sulla crisi del tennis svedese in extremis e scritto direttamente... dalla sala parto!

SAN TOMMASO 10

Europa vs. Resto del Mondo

LA PROMESSA

Questo numero purtroppo non contiene interventi di Marco Imarisio, inviato del Corriere della Sera, impegnato nella stesura di un nuovo libro di prossima uscita. Ma sul prossimo numero, il pezzo è già stato deciso: Court 17...

Negli anni 70 e 80, c'erano oltre 50 americani nella top 100 mondiale ATP. Ora l'Europa ha superato il resto del Mondo. E conduce 8 a 2 se consideriamo solo l'élite dei top 10.

EUROPA RESTO DEL MONDO

71%

29%

parole famose «Io e Sampras eravamo veramente molto diversi. Credo che l'incubo peggiore per entrambi fosse quello di rivegliarsi la mattina, uno nei panni dell'altro» Andre Agassi

«Bel colpo, che sfortuna e diamine sono le cinque parole chiave da usare su un campo da tennis. Anche se talvolta possono essere leggermente amplificate...» Virginia Graham

«Voglio che tutti, ripensando a me, possano dire: oh, era davvero bellissimo» Un divertito Andy Roddick su come vorrebbe essere ricordato

FOLLOW ME... FABIO FOGNINI CI HA RACCONTATO L'EMOZIONE PROVATA NELLO SCENDERE IN CAMPO CONTRO FEDERER SUL CENTRE COURT DI WIMBLEDON. «IL PROBLEMA È CHE AL MOMENTO DI ENTRARE, MI SONO RESO CONTO CHE NON CONOSCEVO BENE I RITUALI DA SEGUIRE. ALLORA HO AVVICINATO ROGER E GLI HO CHIESTO: MA CHE DEVO FARE?» E LO SVIZZERO SERAFICO: «FOLLOW ME...»

Il nostro direttore è come San Tommaso: se non prova, non crede. Quando gli abbiamo infilato nelle scarpe le solette Noene, era piuttosto scettico che l'avrebbero aiutato coi suoi dolori a tendini, schiena, ginocchio. Cosa mai potranno fare delle solette da un millimetro? Nonostante il parere favorevole di Seppi, è rimasto scettico anche davanti all'evidenza dei primi test. Per esserne sicuro ha giocato un mese senza. E ora il tendine d'Achille duole e non poco.

LA FRASE

«IL PROBLEMA È CHE TANTE GIOCATRICI ATTUALI NON SANNO GIOCARE A TENNIS»

La sacrosanta verità detta da Barbara Rossi su Eurosport

PHOTO La foto simbolo di questo numero è quella che trovate a pagina 16. I nomi di Nick Taylor e David Wagner probabilmente vi diranno poco, ma sono l'emblema di un coraggio che non ammette confini. Hanno vinto l'oro paralimpico a Londra nella categoria Quad. In passato abbiamo già raccontato la storia di Nick e averlo conosciuto ci fa apprezzare ancora di più l'obiettivo che ha conquistato.


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WHO

Arthur Ashe Stadium

WHERE New York City

WHEN

27 agosto 2012

WHY

Perché il tennis deve rimanere uno sport di sano agonismo. Ma trasformare i suoi eventi anche in un grande spettacolo

WHAT Quando Arlen Kantarian si prese carico dello US Open all’inizio del nuovo secolo, si trovò a gestire un torneo dello Slam che stava pian piano perdendo terreno nei confronti di Roland Garros e Wimbledon. E soprattutto, aveva perso appeal per gli appassionati yankee, abituati ai grandi show del basket Nba o del football Nfl. Ebbene, in otto anni è riuscito a riportare lo US Open allo status che merita, con un’adeguata copertura televisiva e tanto show business intorno. Perché un evento sportivo deve rimanere tale ma non può prescindere dal diventare anche entertainment. Kantarian ha lasciato la USTA nel 2008 con un bonus di oltre 9 milioni di dollari per i brillanti risultati conquistati. Gli eredi devono solo proseguire su quella strada. E (anche) per questo, all’inaugurazione non potevano mancare i fuochi d’artificio. photo by Alex Trautwig



WHO

Fabio Fognini

WHERE

Flushing Meadows, New York

WHEN

28 agosto 2012

WHY

Perché l’atmosfera più bella negli Slam la si respira sui campi laterali

WHAT Centre Court, Rod Laver Arena, Court Philippe Chatrier, Arthur Ashe Stadium. Sono gli stadi dove si consumano le battaglie più importanti. Eppure, il vero appassionato non si limita ad affacciarsi a queste cattedrali del tennis, ma preferisce gli spazi più intimi. Per il malato della racchetta, il top sono i campi secondari, dove si osservano i match da bordocampo, come nel circolo di casa, passeggiando da un campetto all’altro. E scorgendo un futuro talento o un match tra peones disposti a tutto per portare a casa con un secondo turno Slam. E dove, in mezzo ad una selva di spettatori, Fabio Fognini scaglia la sua prima di servizio. È su questi campi che il ligure ha conquistato il pass per la sfida con Andy Roddick sul campo centrale. Perché per arrivare nei piani alti, bisogna sempre partire da quelli bassi. photo by Cameron Spencer



WHO

Nick Taylor e David Wagner

WHERE

Londra, Gran Bretagna

WHEN

5 settembre 2012

WHY

Perché le Paralimpiadi hanno regalato grandi emozioni. E hanno fatto riflettere duramente

WHAT Quattro anni fa, quando l’abbiamo incontrato all’Accademia Vavassori per il Masters ITF di fine stagione, l’americano Nick Taylor era stato chiaro: «Cosa mi manca di più nella vita? No, non è una bella passeggiata sulla spiaggia». Colpito da una grave malattia fin da bambino, è costretto su una carrozzina elettrica, che manovra con sorprendente agio. Anche sul campo da tennis. Privo anche di un braccio, serve infilando la palla tra racchetta e piede destro, alzandola con incredibile coordinazione. La racchetta è legata al braccio con una cordicella, per evitare che scappi ad ogni colpo. «Così al massimo arriva in testa a me, non alla gente!». Alle Paralimpiadi di Londra 2012, nella categoria Quad, ha vinto la medaglia d’oro in doppio, in coppia con il connazionale David Wagner, trionfatore anche nel torneo di singolare. photo by Dennis Grombkowski


amo i t t e mm o c S ... che I D DI AN

REAS

SEPP

Murray… Argentina… Calciomercato… 1. Chi chiuderà la stagione al numero uno del mondo? Scommettere contro Federer è sempre un rischio, ma secondo me alla fine la spunterà Djokovic. 2. Chi si qualificherà al Masters di Londra oltre a Federer, Djokovic, Murray, Nadal e Ferrer? Nessun dubbio: Berdych, Tsonga e Del Potro 3. Post-nostico: avresti scommesso su Murray vincitore allo US Open? Dopo che ha vinto l'oro olimpico a Wimbledon, si può sempre scommettere su Murray che vince uno Slam. Sempre. 4. Chi vincerà la Coppa Davis? Questo è l'anno dell'Argentina. Ha il vantaggio del fattore campo e una grande squadra. Prima o poi la vince e sarà quest'anno 5. E la Fed Cup? Chi è arrivato in finale? 6. Roger dominerà nuovamente la stagione indoor, senza sostanzialmente perdere un match? Farà, come al solito, un grande finale di stagione. Ma non resterà imbattuto. 7. Chiudiamo con l'amato calcio: Milan e Juve passeranno il girone eliminatorio di Champions League? Sì, entrambe. Poi si fa dura... 8. Chi ha fatto il miglior affare nel calciomercato?? Bisogna andarci piano. Non si può giudicare dopo due partite... Oh, sul calcio sono serissimo!

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Fight Club Per vincere bisogna lottare. Ecco chi sono i maggiori fighter del tour. Detto che Rafa è il top, gli altri qui elencati viaggiano sullo stesso livello. Tutti giocatori disposti a sputare sangue prima di perdere un match. FABIO FOGNINI 1. RAFAEL NADAL

Ha cominciato a lottare che era nella culla, ne sono sicuro! Un fighter impressionante: ti mette una pressione addosso incredibile perché sai che non mollerà un punto qualsiasi sia il punteggio. Ma basta vederlo fuori dal campo per capire che è sempre carico: super attivo, non sta mai fermo un attimo. Se lo osservi per mezz'ora, ti stendi sul divano perché sei stanco per lui! Chapeau.

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2 NOVAK DJOKOVIC

Basta ricordare la finale all'Australian Open di quest'anno. Battere Rafa dopo... la sesta ora di gioco è un'impresa titanica. Lotta, lotta, non si arrende mai.

3. ROGER FEDERER

È talmente elegante nei suoi gesti, che fatichi a vederlo come un vero combattente. Invece anche quando c'è da sporcarsi le mani, non si tira mai indietro. Dopotutto, se non sei un fighter non vinci una finale di Wimbledon 16-14 al quinto set.

4. DAVID FERRER

Lo capisci subito che è un tipo tosto. Si allena tantissimo ed è disposto a fare grandi sacrifici. Fosse per lui, si allenerebbe tutto il giorno e in campo sembra un cagnaccio che ti si attacca alle caviglie e non ti molla più.

5. ANDY RODDICK

L'ho scoperto sulla mia pelle all'ultimo US Open: ad un certo punto, fisicamente sembrava stanco. Ma mentalmente ha saputo trovare grandi energie. Come sempre.

6. JUAN MONACO

Il classico argentino che spinge su ogni palla, non ti lascia un quindici e può correre per tre giorni di fila. Giocarci contro è sempre dura perché devi sudarti ogni punto.

7. JUAN MARTIN DEL POTRO

Pare sempre tranquillo, ma quando c'è da lottare non si tira indietro. Magari mostra meno le emozioni di altri, ma se il gioco si fa duro...

8. ANDY MURRAY

Consapevole di essere una roccia fisicamente, non gli dispiace se il match diventa una battaglia...

9. JO-WILFRIED TSONGA

È un tipo un po' particolare. Qualche volta sembra sviogliato in campo, quasi disinteressato. Ma se la posta in gioco è alta, allora diventa veramente un pugile prestato al tennis. Mette un energia clamorosa negli scambi e ti fa sentire la sua personalità. Se il match diventa equilibrato, sono cavoli amari perché lotta e non ha paura di prendere rischi. Se arriva tre pari al quinto se la gioca mentalmente anche con i Fab Four.



h c a Co

La crisi spagnola DI EMILIO SANCHEZ È ancora vivo il dibattito sulle Olimpiadi di Londra: sono state un buon risultato per la Spagna? Hanno collocato lo sport spagnolo nella posizione che merita? Per alcuni sono state un disastro, per altri la Spagna è stata salvata dai (pochi) atleti capaci di vincere una medaglia. Per altri ancora (tra cui il sottoscritto) sono andate abbastanza bene. Nonostanze gli sforzi, la nostra realtà sportiva non ci consente di competere conrtro paesi che dispongono di maggiori risorse. Quanto ottenuto dalle donne per esempio, è addirittura straordinario in relazione ai mezzi a disposizione. Questa dura realtà nasce da una cultura che in Spagna non comprende lo sport. Lo sport non fa parte della nostra educazione, la nostra società non è sportiva. Negli anni 70-80 sono nati molti club, e grazie a questi siamo diventati un po’ più competitivi. Dopo le Olimpiadi di Barcellona nel 1992 e il conseguente boom, grazie al programma ADO e al maggior denaro a disposizione, sono arrivati allenatori migliori, più eventi e tornei che hanno aumentato il livello di allenamento e competizione. Questo ci ha portato a conquistare 22 medaglie. Siamo rimasti lì, perdendo o guadagnando qualcosa, ma è chiaro che siamo in una fase di stallo. Perché? È chiaro: da quando è arrivata la democrazia abbiamo avuto otto legislature, altrettanti presidenti e altrettante modifiche al sistema di istruzione. Nessuna di queste, indipendentemente dal colore politico, ha fornito sbocchi per lo sport, che continua a valere poco nelle scuole, con appena un’ora settimanale prevista dal programma scolastico. Come si può essere competitivi in questo modo? L’obesità ha raggiunto il 40%. Se da piccoli non abbiamo fatto sport, si nota. Le carenze del sistema spagnolo si vedono in sport di base come atletica, nuoto e ginnastica. Gli sport dove bisogna correre, nuotare e saltare. Come è possibile entusiasmarsi per uno sport se lo si pratica un’ora a settimana? Se da bambino hai una famiglia che ama lo sport e ti porta in un club, allora forse puoi appassionarti. Ma in quanti lo fanno davvero? Se facciamo il confronto con i paesi vicini, scopriamo che l’Italia ha il doppio delle medaglie, la Francia quattro volte tanto, la Gran Bretagna cinque. Guardiamo il medagliere e ci rendiamo conto che le medaglie sono proporzionali al livello degli investimenti. Non dobbiamo lamentarci perché pur continuando a non cercare soluzioni, riusciamo a vincere un buon numero di medaglie. I paesi che hanno deciso di investire sullo sport, come la Cina e la Corea, hanno copiato gli americani e lo sport è diventato parte integrante del percorso formativo. Hanno investito risorse e mezzi, e i risultati si vedono. Altri paesi in crescita destinano i fondi per migliorare il sostegno allo sport, in modo che determinate strutture possano essere privatizzare senza dipendere dalle sovvenzioni. Chiudo facendo un’osservazone per il futuro, che poi è la mia preoccupazione principale: la riforma dell’IVA, aumentata del 161% per palestre, club e tornei, pregiudicherà la pratica dello sport (tennis compreso). Ci saranno meno leghe di sport minori come pallamano e pallanuoto, meno palestre, meno eventi e tanti club entreranno in crisi. Quest’anno, nel tennis, sono stati cancellati il 30% dei tornei. Le aspettative sono negative e il risultato finale (meno allenamenti, minor livello, meno competizioni) sarà devastante. Mi duole dirlo, ma lo vedremo presto. Ho fatto a diversi politici questa domanda: Faremo Faremo il necessario per portare lo sport nelle scuole?. scuole? . Mi hanno risposto che è impossibile. Se lo facessimo, saremmo costretti a ridurre o cancellare altre materie, con tutto quello che ne consegue con i professori. Inoltre le scuole non sono preparate per accogliere un'adeguata attività sportiva perché mancano le strutture. E in tutta questa situazione, pretendiamo anche di vincere delle medaglie olimpiche?

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PIÙ SOLDI AI PEONES. O SI SCIOPERA L'Australian Open è a rischio per il possibile boicottaggio dei giocatori che pretendono più soldi, più garanzie, più rispetto. Ma non si tratta, come potrebbe pensare il pubblico abituato all'avidità dei calciatori, di una richiesta fine a se stessa. Del tipo «vogliamo ingrossare il portafogli» e basta. La rivendicazione non parte dai campioni, ingrassati dal prize money e dallo sponsoring, ci mancherebbe, ma dai giocatori di medio valore, quelli situati fra il trentesimo e il centoventesimo posto, che a fatica riescono a crearsi oltre i 30 anni un avvenire indipendente dal tennis. Figurarsi gli altri ai quali i conti non tornano quasi mai. Già perchè fare il tennista a tempo pieno, costa parecchio. E il pubblico non se ne accorge. Innanzi tutto per allenarsi in un'accademia di valore, poi per stipendiare un coach, un preparatore atletico, un fisioterapista. Ma non basta. Appena diventi competitivo e cominci a fare il giro del mondo, ti accorgi di aver assoluto bisogno di un manager che si occupi non solo degli ingaggi e delle sponsorizzazioni, ma si faccia carico dei tuoi spostamenti e di quelli del tuo staff. A cominciare dalle prenotazioni di voli e alberghi. Altrimenti vai fuori di testa, perdi in concentrazione e finisci nella polvere. Ci sono giocatori e giocatrici che hanno dormito più volte nelle sale degli aeroporti o che hanno saltato i pranzi per risparmiare sugli hotel e sui ristoranti. Se non ci credete, parlatene pure con la bulgara Pironkova che solo da qualche tempo comincia a respirare. Non tutti si chiamano Quinzi e hanno alle spalle una famiglia in grado di finanziare uno sport costoso come il tennis. La ricetta dei falchi, ovvero dei tennisti che vivono a bagnomaria in questo variegato circo, punta sull'aumento dei montepremi del 20%: «Non siamo i più forti, ma nessun torneo, dai Major in giù, può sopravvivere senza di noi». Da qualche tempo anche le colombe, guidate da Federer, cominciano a pensarla allo stesso modo. Attenzione però. Non si parla di un incremento indiscriminato, ma circoscritto ai primi due-tre turni per consentire ai giovani di belle speranze e ai più incalliti sodali di riuscire a sopravvivere. Al momento il primo turno negli Slam vale fra i 17 e i 18mila euro, il secondo varia dai 27 ai 29mila euro, il terzo oscilla fra i 44mila euro dell'Australian Open e i 51mila euro dello Us Open. Basterebbe aumentare il montepremi della prima settimana per spegnere la rivolta. La prima risposta concreta è arrivata dai Masters 1000 che hanno assicurato un incremento del 10%. A breve si attende quella dell'Australian Open che, secondo alcuni rumors, dovrebbe portare il montepremi da 26 a 29 milioni di dollari australiani. Non si sa però come spalmati. L'aumento dei premi nei primi turni renderebbe più difficile la manipolazione di alcune partite con quel che significa nel sottobosco delle scommesse sportive. I giocatori si sentono forti, più forti di sempre, perchè si portano in dote i progetti di alcuni emiri, e non solo, pronti a investire su tornei milionari. Abu Dhabi e Dubai sarebbero pronti a prendere il posto dell'Australian Open, tanto per fare un esempio. Ma questo sport, che più di altri vive di storia e di statistica, non può permettersi di sopprimere uno Slam centenario e con esso gli altri tornei legati alla campagna australiana. Lo facesse, imprimerebbe un memorabile scossone alla credibilità del tennis. Ci guadagnerebbero solo gli affaristi di giornata. E questo non sarebbe un bene.

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TOUR

LONDRA NON È SOLO WIMBLEDON. La capitale inglese ospita anche il Masters di fine anno che vede NON impegnati i primi 8 giocatori del mondo, quest’anno con l’incognita di Rafael Nadal che difficilmente sarà presente alla O2 Arena (dal 5 al 12 novembre, pacchetti su blufreccia.com). Ma con Federer, Djokovic e Murray già qualificati, SOLO WIMBLEDON lo spettacolo è garantito. E se non volete farvi mancare nulla, dal 5 al 9 dicembre potete assistere anche al Senior Masters nella bellissima cornice della Royal Albert Hall (nella foto, statoilmasterstennis.com) dove saranno impegnati fra gli altri John McEnroe e Goran Ivanisevic. Il tutto condito dalla magia della Londra pre-natalizia.

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Il Bidone Donald Young John McEnroe, in un raro momento di umiltà, disse che aveva più talento di lui. Doveva essere il Tiger Woods del tennis, ora è scomparso perfino dalla top 100 mondiale di Cosimo Mongelli

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hissà se nella testa di Peter Gojowczyk, Grigor Dimitrov e Leonardo Mayer frullerà mai il pensiero di essere stati, sino allo US Open, gli unici tre giocatori nel 2012 capaci di arrendersi all’americano Donald Young, una delle più grandi promesse (che suona meglio di patacche) mai mantenute del tennis americano. Donald Young è stato capace, da febbraio (secondo turno a Memphis) ad agosto (primo turno a Cincinnati), di inanellare 17 sconfitte consecutive (mai l’ambito record di Vincent Spadea, arrivato a quota 21, è sembrato così sul punto di vacillare), di crollare miseramente dalla posizione numero 39 della classifica a oltre il numero 110, e soprattutto nell’impresa di uscire 18 volte al primo turno dall’inizio dell’anno. Il sorteggio capitatogli nell’ultimo Slam dell’anno, dove ha fatto da sparring partner a Roger Federer, non è che la più ironica delle ciliegine su una stagione che forse metterà la parola fine alle ambizioni di vertice dello yankee. Eppure Donald Young sembrava essere un predestinato. Uno dei tanti, troppi, che poi si perdono per strada, incapaci di reggere la pressione, le luci della ribalta o, più semplicemente, di soddisfare aspettative molto più grandi di loro. Pressione che è iniziata sin dalla tenera età da parte dal padre Donald Sr., modesto giocatore anch’egli, che 28

mette la racchetta nella sua pargoletta mano sinistra (pur essendo destro) e decide di seguirlo anche da allenatore insieme a mamma Llona, che ha conosciuto Donald proprio su un campo da tennis. Già a 10 anni riceve gli elogi di John McEnroe. Nel 2005, a 15 anni, vince l’Australian Open junior, raggiunge la semifinale a Wimbledon e i quarti allo US Open di categoria. A 16 anni e 5 mesi è il più giovane di sempre a chiudere la stagione da numero uno under 18. Nel 2007 vince, sempre a livello Junior, anche a Wimbledon. L’entusiasmo e l’euforia di chi gli sta attorno raggiunge livelli di delirio assoluto: paginoni su Newsweek e New York Times, comparsate in tv, fari puntati addosso come nemmeno un top 10 o una rising star di Hollywood. Sin dal 2006 viene buttato nella mischia del circuito ATP, aiutato senza pudore con decine di wild card, nei tabelloni dei tornei americani cui anche le qualificazioni erano inaccessibili. Riesce comunque a chiudere il 2007 nei primi 100. Nel 2008 raccoglie anche qualche soddisfazione degna di nota, raggiunge il suo best ranking (n.73) in aprile e lo scalpo di Feliciano Lopez a Indian Wells. Ma nulla di tutto ciò che si pretendeva, insensatamente, dal mancino di Chicago. Passano i mesi e il giocatore, di fronte all’evidenza, perde quel poco di fiducia rimastagli, entra in polemica con chiunque, sembra più interessato a far parlare di sé per il look che per i risultati, non ha più voglia nemmeno


di allenarsi. E i risultati sono deprimenti: nel 2008 esce dai top 100, un anno dopo addirittura dai 200. Non va molto meglio nel 2010, in cui solo per una settimana si fa vedere al numero 99 della classifica, sempre grazie alle caritatevoli wild card ottenute nei tornei ATP americani. Il 2011 può essere definito come il classico “fuoco di paglia”. Riesce ad entrare in tabellone all’Open d'Australia, al Masters 1000 di Indian Wells (arriva addirittura al terzo turno dopo aver battuto Murray) e Miami. Rientra nei 100, si lascia prendere troppo dall’entusiasmo e comincia ad accampare diritti, a litigare con chiunque, con l’apice degli insulti alla federazione americana su Twitter, per non aver ricevuto in elemosina l’ennesima wild card, questa volta per il Roland Garros. Finisce comunque tutto a pollo e bacon, con i dirigenti americani probabilmente preoccupati di perdere una delle poche speranze di riavere un top player. Inizia la stagione sul cemento e per un paio di mesi Young sfrutta quel po’ di talento a disposizione e ottiene risultati che diano un minimo di senso al mestiere di tennista

professionista: semifinale a Washington, ottavi allo US Open e finale a Bangkok. Che significano top 40 a fine anno per lui. Ancora entusiasmo alle stelle (e strisce), di nuovo titoloni, ancora prime pagine. Ma non si può davvero non imparare dai propri errori? In un amen ripiomba nell’oblio e nella pochezza. Ma non è nemmeno tutta colpa di Donald. Basta osservare una sua qualsiasi partita per capire che con quel fisico, quel peso di palla, e una tenuta mentale da impiegato del catasto è improponibile ad alti livelli. Il buon tocco? Serve davvero a poco, senza tutto il resto. Non sono bastate nemmeno le sin troppe raccomandazioni (giocatori di ben altro livello i tabelloni principali non se li sono visti regalati come successo a Young) a farlo emergere definitivamente. Un discreto giocatore cui fama e aspettative sono state montate a livelli spropositati, nella vana e vacua speranza fosse davvero il nuovo numero uno del tennis mondiale. Forse un po’ troppo hollywoodiano come tentativo, in un mondo dove le partite, i risultati, i successi, si devono vincere, sudare e conquistare sul campo e in allenamento.

STRISCE PERDENTI «Stasera andrò da Burger King. No, non a mangiare: a chiedere un lavoro!». Era piuttosto disperato Vincent Spadea dopo aver perso 21 partite di fila, una striscia negativa che ancora resiste come record assoluto nel mondo del tennis professionistico. La realizzò nel 2000, un anno dopo aver raggiunto i quarti di finale all'Australian Open, battendo Andre Agassi. Tuttavia, da quella prestazione sconcertante, Spadea ne è venuto fuori, diventando addirittura il 18esimo miglior giocatore del mondo nel 2005 e diventando uno dei quattro giocatori capaci di rifilare un 6-0 a Roger Federer. E guadagnando in carriera la non trascurabile cifra di 5 milioni di dollari. Prima di Spadea, un altro giocatore (ben più celebre) si era reso protagonista di un record altrettanto negativo: Vitas Gerulaitis perse infatti 16 volte contro Jimmy Connors e, quando riuscì finalmente a batterlo, si presentò in conferenza stampa e, serissimo, annunciò: «Nessuno può battere Vitas Gerulaitis 17 volte di fila!». Insomma, Donald Young è in buona compagnia, anche se alla sua resurrezione crediamo un pochino meno. E comunque tutti possono consolarsi pensando alla squadra dei Prairie View Panthers della NCAA Football Division I capaci di perdere 80 partite consecutive tra il 1989 e il 1998.

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y a l P Fabio Fognini difenderà da quest'anno i colori del Park Genova. Nell'altra pagina, Andreas Seppi schierato con la Società Tennis Bassano

Serie A1, tra top e flop Riparte la manifestazione a squadre top del calendario italiano. Quattro favorite, i top azzurri presenti ma formula e regole da rivedere per vivere un nuovo boom di Riccardo Bisti

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artiamo da una certezza: le norme FIT introdotte un paio di stagioni fa hanno rischiato di demolire il Campionato di Serie A1, un evento che aveva acquistato un suo prestigio e una sua tradizione. E allora si può provare a risalire, anche se il famigerato comma 7 dell’articolo 18 del Regolamento dei Campionati a Squadre è ancora in vigore e inevitabilmente condizionerà anche la nuova edizione. E’ talmente macchinoso e assurdo che vale la pena riportarlo. Detto che la singola partita è composta da 4 singolari e 2 doppi (3 singolari e 1 doppio tra le donne), ogni squadra non può mettere in rosa più di quattro giocatori (ad eccezione di chi è tesserato da almeno otto anni o abbia militato nelle giovanili del club per almeno due anni, under 18 a parte). Di più: in ogni match, non possono essere schierati più di tre giocatori. Significa che deve giocare per forza una “bandiera” o un elemento del vivaio. Una norma complicata e cervellotica, il cui unico effetto è l’abbassamento del livello. E che obbliga i dirigenti dei club a trasformarsi in ragionieri. “Questo lo posso schierare, quest’altro no…E se qualcuno si fa male e non può venire?”. Negli anni passati abbiamo assistito a scene scandalose. I siciliani del TC Le Rocce, impossibilitati a schierare la squadra migliore, hanno mandato in campo solo dei quarta categoria, “attenendosi scrupolosamente” alle richieste della FIT. Nel fem30

minile, è addirittura scesa in campo una bambina di 12 anni, la piccola Camilla Buoso. Il tutto perché i club non hanno avuto il tempo di organizzarsi con le nuove regole, approvate da un giorno all’altro e senza alcun preavviso. Tanti, all’epoca, pensarono che fosse una mossa per mettere in difficoltà il Capri Sports Academy, molto critico nei confronti della FIT. Nel 2010, il club presieduto da Roberto Russo si è sciolto (dopo aver vinto l'edizione 2009). Eppure le norme non sono cambiate, anzi. L’idea di valorizzare i vivai non è sbagliata. Ma la Serie A1, in quanto tale, dovrebbe rappresentare l’eccellenza del nostro tennis e sfuggire a queste logiche. Per mettere in evidenza i giovani ci sono le serie inferiori, i campionati giovanili, i tornei junior…non certo la Serie A. L’edizione del 2012, al via il 14 ottobre, pare comunque avviata ad un miglioramento dei valori tecnici, grazie al rientro di alcuni top player azzurri assenti nelle scorse edizioni. Nel 2011 si sono giocati il titolo il Castellazzo Tennis Club (Parma) e il TC Italia di Forte dei Marmi, le uniche squadre che – casualmente – avevano qualche “bandiera” già in rosa. Anche quest’anno gli emiliani e i toscani partono tra i favoriti. Il TC Italia, tra l’altro, si è rinforzato con l’acquisto di Filippo Volandri. Il livornese va a rinforzare una rosa di cui fanno già parte Giorgini, Marrai, Trusendi e lo spagnolo Olaso, oltre ai due buoni seconda categoria Pippi e Bramanti (quest’ultimo vanta una vittoria su Roger Federer ai tempi junior). Il Castellaz-


zo campione d’Italia conferma la squadra dell’anno scorso e – in caso di finale – avrà ancora una volta il vantaggio della superficie veloce, poiché si giocherà per il terzo anno consecutivo al Palasport di Rovereto. Inoltre, il Castellazzo può sfruttare il fattore casalingo: nel bellissimo circolo alle porte di Parma, si gioca infatti su una velocissima moquette che favorisce i loro bombardieri. Anche in questo caso, appare clamoroso che la Federazione non intervenga, considerato che la superficie non è nemmeno omologata per tornei professionistici internazionali. Potrebbe metterci una parola Daniele Bracciali, rappresentante dei giocatori nel Consiglio Federale (ma che gioca la Serie A1 per… il Castellazzo). La lotta per il titolo sarà un affare a quattro squadre: oltre alle finaliste in carica, spiccano la Società Tennis Bassano, una mini-corazzata che ha in Andreas Seppi la sua star e in Lorenzi, Di Mauro, Crugnola, Aldi e il doppista della Davis spagnola Marc Lopez degli ottimi compagni. Il club guidato da Loretta Andreatta è inserito nel Girone 2 (sicuramente il più tosto), di cui fanno parte anche il Castellazzo e il neo-promosso Park Genova di Mauro Iguera, unica vera boccata d’aria fresca del campionato. I liguri completano il poker di squadre che punta allo scudetto. Una squadra davvero… ligure visto che schiera il numero 2 italiano Fabio Fognini (di Arma di Taggia), Alessandro Giannessi (di La Spezia), Gianluca Naso (cresciuto a casa Fognini) e il neozelandese Nielsen (campione di Wimbledon in doppio) e legato da diversi anni al Park )dove in bacheca è appesa una foto del campione dei Championships che tira il campo…). Nel Girone 1, oltre al TC Italia, possono fare bene l’ATA Battisti Trento (il cui livello medio è molto alto) e i campioni del 2010 della Canottieri Aniene, guidata da Giovanni Malagò, neo candidato alle prossime elezioni di Presidente del CONI.. Il problema dell’Aniene è che dietro a Bolelli, Starace e Cipolla, non c’è un numero 4 competitivo. L’eterno Vincenzo Santopadre non può fare miracoli, e comunque non è ancora schierabile come “bandiera”. Per il resto dovrebbe esserci parecchio equilibrio, con una gran battaglia per la salvezza. Oltre al Park Genova, le neopromesse sono il TC Pistoia, Il Club La Meridiana di Modena e i veneti del TC Cà Del Moro (che giocheranno le partite interne sull’erba sintetica). Tra le donne ci sarà grande equilibrio: nessuna squadra emerge sulle altre, nemmeno le campionesse in carica del Parioli. Sarebbero favorite se Vinci, Arn e Burnett giocassero tutte le partite, ma sarà davvero così? Come compattezza e qualità media, può dire la sua l’Albinea di Errani e Brianti. Iscritte anche Romina Oprandi (con le Pleiadi di Moncalieri) e Karin Knapp (con i romani del Club Nomentano). Il campionato inizierà con la stagione ATP-WTA ancora in corso e quindi con probabili assenze di rilievo nelle prime giornate. Sarà dunque importante anche la disponibilità che potranno offrire i top players e la tattica delle squadre nelle convocazioni, visto che i vari Seppi e Fognini non possono garantire oltre una, due presenze nel girone eliminatorio. Insomma, l’interesse di circoli prestigiosi verso questa manifestazione non manca di certo, ma basterebbe poco per rilanciare il campionato in grande stile: allargare le rose (7-8 giocatori per gli uomini, 5-6 per le donne), adottare quattro gironi da quattro squadre evitando così i calcoli per eventuali play-off e play-out, ripristinare la Final Four (ricordate le belle edizioni di Bra?) e accorciare il campionato, tardandone l’inizio e inserendo alcuni turni infrasettimanali. E’ quello che fanno i francesi, con ottimi risultati. 31


r u o T

AAA... cercasi Coach Professionisti A Bettona, 15 chilometri da Perugia, si svolgerà a fine settembre un importante corso di formazione per aspiranti coach professionisti. Garantisce la GPTCA di Antonio Di Vita

GPTCA è l'acronimo di Global Professional Tennis

Coach Association, l'associazione dei coach di tennis di tutto il mondo. Ne fanno parte 40 paesi e il presidente di ciascuno di loro è, per statuto, un coach di chiara fama internazionale: per esempio, José Perlas (vincitore di tre Roland Garros con tre giocatori diversi) è presidente per la Spagna, Larri Passos (coach di Kuerten e di Bellucci) per il Brasile, eccetera. Il board internazionale è formato da tre vicepresidenti: Toni Nadal (zio e coach di Rafa), Dirk Hordorff (coach di Tipsarevic), Rainer Schuettler (ex top 4 ATP) e da Alberto Castellani in qualità di presidente. Lo scopo principale dell'Associazione è quello di formare nuovi coach che abbiano conoscenze per operare in tutti i circuiti internazionali, da quelli giovanili ai Grand Slam, passando per i Futures, i Challengers e i tornei ATP e WTA. La GPTCA ha avuto pochi mesi fa l'approvazione dell'ATP e rilascerà diplomi e targhe di International Tennis Coach Certified by ATP, un grande risultato che premia il lavoro svolto dal Board. I livelli di coaching che l'Associazione riconosce sono il livello A per i coach di alto livello che operano, o che hanno operato, nei tornei più importanti del mondo. Questo titolo viene assegnato solo per meriti di carriera. Il livello B per operare nei Challenger e per acquisire conoscenze relative agli Slam e tornei ATP/WTA , che si acquisisce con il corso di formazione e dopo aver superato un esame finale. Il livello C per i tornei Futures e juniores, che si acquisisce attraverso il corso e un esame finale consistente in un questionario di 30 domande a risposta multipla. I due corsi B e C di quest'anno avranno luogo a Bettona, un borgo etrusco fra i più belli d'Italia, a 15 chilometri da Perugia, dal 28 al 30 Settembre. La giunta comunale del paese, appena 32

eletta, metterà a disposizione del corso il Museo e quindi le lezioni verranno svolte fra quadri e opere d'arte. Sarà la prima volta al mondo che un corso di formazione sportiva si svolgerà dentro un museo. Il messaggio che invieremo alle altre nazioni è forte e molto caratterizzante della nostra identità culturale. Potranno partecipare al corso gli istruttori, i maestri di tutte le sigle di formazione anche straniere: UISP, FIT, PTR, AICS etc., psicologi dello sport, laureati in scienze motorie e laureati con lauree attinenti. Le domande saranno analizzate e giudicate da una commissione GPTCA che deciderà le ammissioni. Per ricreare la bella atmosfera dell'anno passato, dietro richiesta di molti diplomati del 2011, si è deciso di organizzare due corsi facoltativi di aggiornamento per coloro che hanno già il titolo, aperto anche a tecnici non diplomati GPTCA. Il primo sarà un corso in psicologia dello sport: “Tecniche di intervento psico-corporeo nell'ambito della preparazione mentale del tennista di alto livello, con microcicli settimanali e macrocicli mensili di lavoro". Sono previste anche ore di pratica nelle quali si proveranno direttamente alcune tecniche psicosomatiche. Il secondo corso di aggiornamento sara il BLS (Basic Life Support) con rilascio dell'attestato della IRC (Italian Resuscitation Council), riconosciuto anche dalla ERC (European Resuscitation Council) che abilita alla pratica della Rianimazione cardiopolmonare e all'uso del defibrillatore automatico o semiautomatico in caso di arresto cardiaco per tachiaritmia ventricolare. Il corso sarà tenuto dal Dr. Francesco Borgognoni e dal Dr. Alexander Wee. Presto questo corso diventerà obbligatorio per gli operatori sportivi. INFO: Alberto Castellani (castellania@libero.it) e Antonio Di Vita. (anthonydivita@hotmail.com, tel 329 9147640).


Under 21 ATP Ranking

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el calcio è il crocevia tra la grande promessa e il campione affermato. Si passa sempre dalla Nazionale under 21 (tranne qualche fenomeno isolato) prima di approdare alla Nazionale maggiore. Non a caso, in Inghilterra da quest'anno è stato istituito un intero Campionato Under 21, per preparare in casa i futuri campioni e soprattutto controllarne il delicato passaggio dalla fase giovanile a quella professionistica. Nel tennis, abbiamo vissuto esempi di grande precocità con Becker, Wilander e Chang capaci di vincere dei tornei del Grand Slam prima di diventare maggiorenni e, in campo femminile, giocatrici come Jennifer Capriati e Martina Hingis capaci di essere competitive a 14 anni (oh, roba che arrivavano nelle semifinali Slam, mica che superavano due turni nei torneo challenger). Detto questo, quei tempi sono definitivamente tramontati. Il tennis professionistico è diventato sempre più fisico ed è sostanzialmente impossibile essere competitivi a 18 anni con i primi 100 del mondo. Ecco perché, se le gare giovanili restano comunque dei tornei che aiutano a scoprire i talenti del futuro, per capire le loro chance a livello pro, bisogna avere pazienza. Non avrebbe dunque senso stilare una classifica ATP limitando la ricerca ai diciottenni perché sarebbero tutti relegati nei bassifondi del ranking. È dunque necessario ampliare la base e allargarla ai giocatori under 21. Ed ecco che emergono dei dati interessanti. Punto primo: sono sei i giocatori di al massimo 21 anni che sono compresi nella top 100 ATP, ma solo due nella top 50. Il number one assoluto è il canadese Milos Raonic. 21 anni, della nouvelle vague è quello più solido, più formato atleticamente e a livello mentale. Dotato di un servizio terrificante, in molti gli pronosticano un rapido ingresso nella top 10. Deve però migliorare il rovescio perché i top players non hanno punti deboli così evidenti. E non fidarsi troppo che il suo servizio-bomba lo possa tirar sempre fuori dai guai. A seguire, l'australiano Bernard Tomic, 19 anni e un talento mica da ridere. Però è un tipo molto (molto) difficile da gestire. Fatica ormai anche il padre, un tipo per niente malleabile. Ne ha già combinate parecchie e soprattutto non sembra avere l'attitudine del combattente. Di solo talento non si sopravvive nel tennis moderno. E figuriamoci se il talento langue, come nel caso del 20enne americano Ryan Harrison. Se le speranze yankee sono queste, Sampras e Agassi (ma anche Michael Chang e Todd Martin) restano dei miraggi. Potrebbe far meglio suo fratello Christian (18 anni) o Jack Sock, 19 anni e un'accoppiata servizio-diritto che te la raccomando. Però basta Burger King e via cinque chili buoni, altrimenti addio sogni di gloria. Speravamo che il 2012 fosse l'anno del 21enne bulgaro Grigor Dimitrov, la copia sbiadita di Roger Federer. Di tutti è il più dotato e il più divertente: ma deve crescere fisicamente e imparare a tirare più forte. Tocca la palla come pochi, ha uno stile meraviglioso, ma gli manca il colpo killer. Fa tutto benino, ma niente in maniera definitiva. Certo, quando poi tira il rovescio è poesia allo stato puro. Nella top 100 mondiale trovano spazio anche il talentino belga David Goffin e il polacco Jerzy Janowicz: entrambi 21enni, cresceranno e, soprattutto il belga, possono diventare ottimi giocatori. In tutto questo contesto, che ruolo recitano i giocatori azzurri? Pessimo. Il primo under 21 italiano nella classifica mondiale è il 21enne Riccardo Bellotti. Il ranking ATP lo colloca al numero 358, senza alcun risultato di rilievo. Offre qualche speranza in più Marco Cecchinato (che quest'anno ha giocato parecchio bene nelle qualificazioni degli Internazionali d'Italia). Anche lui è indietro nel ranking (numero 408), però ha solo 19 anni. Francesco Aldi lo segue quotidianamente, Massimo Sartori (il coach di Andreas Seppi ne coordina il lavoro) e giura che può diventare un ottimo professionista. Ci fidiamo. Sul terzo gradino del podio italico, Federico Gaio, 20 anni e numero 466 ATP. Protagonista al Trofeo Bonfiglio a soli 17 anni, il tennis molto solido e una grande serietà mentale, facevano sperare piuttosto bene. Tuttavia, i primi confronti con i tornei professionistici non sono stati un granché. Qualche Futures ben giocato ma in paesi con scarsa tradizione tennistica e in tornei di qualità piuttosto bassa. Fabio Fognini, che si è allenato con lui qualche giorno, dice che ha potenzialità davvero notevoli. E lo dice un top 50 mondiale che non regala complimenti. Ora però si tratta di tradurre le potenzialità in risultati sul campo. La fiducia non manca, ma il tempo passa in fretta. E la nostra maggior speranza, Gianluigi Quinzi, ha solo 16 anni...

NUMERO 1 Il canadese Milos Raonic, 21 anni, numero 15 ATP, che molti vedono a breve tra i top 10. Dotato di un servizio straordinario e tanbta potenza (ma poca fantasia)

NUMERO 2 L'australiano Bernard Tomic, 19 anni, numero 42 ATP. Ottimo talento tecnico, ma personalità bizzarra e troppo incostante

NUMERO 3 L'americano Ryan Harrison, 20 anni, numero 55 ATP. Grande speranza yankee ma con limiti tecnici molto preoccupanti

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STYLE LE CORDE DEL DIAVOLO

LA DOUBLE AR È PRONTA A USCIRE CON UNA NUOVA SERIE DI CORDE. La nuova linea si chiamerà Diablo e nasce da un polimero di poliestere caricato con una seconda chimica differente dalla precedente gamma delle Double Ar 42-44-45. Questo nuovo polimero (e il settaggio dell’impianto in fase di estrusione) ha permesso di migliorare la tenuta di tensione. Un lungo lavoro di ricerca ha identificato le operazioni di finisaggio in grado di conferire alla corda una buona potenza, mentre la sezione esagonale facilita le rotazioni. Due i calibri disponibili (1.19 e 1.24), nella versione Standard (maggior elasticità) o Star (più rigida per maggior controllo e precisione).

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L'Italia del Boom Nonostante la crisi economica mondiale, il business di Tennis Warehouse Europe continua a crescere. Soprattutto grazie all'Italia che si conferma uno dei mercati top di Lorenzo Cazzaniga Jean-Christophe Schaffo, Business and Operations Director di Tennis Warehouse Europe è uno dei manager più invidiati nel mercato del tennis in Europa, visto che gestisce una società in forte crescita, che sembra non avvertire la crisi economica mondiale e promette di cambiare (e in parte lo ha già fatto) le abitudini dello shopping tennistico dei nostri appassionati. Come ha vissuto Tennis Warehouse Europe i primi nove mesi del 2012? «Sin dal principio dell'anno, abbiamo aumentato le vendite in tutti i maggiori mercati: Francia, Germania, Spagna. Aumentato di tanto. E in questo senso, l'Italia è il paese europeo che ha mostrato la maggior crescita percentuale. La nostra comunicazione in Italia è molto attiva, con un network di affiliati molto vario, campagne pubblicitarie su Facebook per tutto l'anno, pagine sulle riviste, eccetera. Abbiamo un team dedicato per i clienti italiano con customer service, web editor, interpreti. In generale, stiamo investendo molto sul mercato italiano perché i risultati sono estremamente positivi». La crisi economica mondiale ha in qualche modo influenzato il vostro business? «In realtà credo che la crisi economica mondiale abbia avuto conseguenze positive nel nostro business. Magari la gente 36

acquista sempre meno macchine o viaggia con più attenzione, ma continua fortunatamente a giocare a tennis. Il mercato non ha perso assolutamente nulla, almeno dal nostro punto di vista. È cambiato il modo in cui fanno acquisti perché cercano una gamma di prodotti sempre più completa, con forte disponibilità, di tutte le taglie e Internet offre questa opportunità. In più, possono fare shopping anche la sera tardi, quando i bambini dormono, oppure la domenica quando la vita si calma rispetto ai ritmi dei giorni lavorativi. È un modo di comprare senza buttare via ore in macchina, spendendo soldi per la benzina e il parcheggio, per poi magari non trovare quello che stavano cercando. Quindi, posso assicurare che la crisi economica non ci ha influenzato in nessuna maniera». Avete cambiato qualcosa nella vostra strategia? «Il maggior cambiamento è avvenuto nella comunicazione. Ci affidiamo sempre più ai media digitali, mentre in passato eravamo focus al 100% sulla carta stampata. Una strategia che segue perfettamente l'esperienza vincente della nostra casa madre negli Stati Uniti (tenniswarehouse.com) che quest'anno festeggia i vent'anni di attività». Quale settore tra racchette, abbigliamento, corde, scarpe, ha compiuto i maggiori progressi nel 2012? «Onestamente, tutti i settori sono in forte crescita, anche se


forse la maggior crescita l'ha registrato l'abbigliamento femminile, probabilmente grazie alla presenza di marchi prestigiosi come Stella McCartney e Lacoste. Però anche il mercato delle racchette è aumentato. Il nostro segreto è poter offrire dei prodotti storici in esclusiva: quest'anno abbiamo inserito la Wilson Pro Staff 6.0 con la quale hanno giocato fuoriclasse come Stefan Edberg e Pete Sampras, la Prince Graphite Oversize, utilizzata da Michael Chang e Andre Agassi. I nostri clienti vanno letteralmente pazzi per queste iniziative». Quale marchio riscuote il maggior successo nel settore delle racchette? «Babolat è decisamente avanti rispetto al resto della concorrenza perché producono racchette con le quali chiunque è in grado di giocare. La Pure Drive è l'esempio più lampante. Negli ultimi 5 anni hanno davvero scritto una storia di successo nel mercato del tennis. E il progetto Play&Connect è molto interessante e probabilmente rappresenta l'innovazione più importante che avverrà nel settore della racchette da tanti anni a questa parte. Saremo lieti di sostenere il lancio di questo nuovo concetto.A seguire Wilson e Head che propongono buoni prodotti e attività di marketing».

liano, riceve il prodotto corretto come l'ha visto sul sito a casa dopo due giorni lavorativi. Tutto ciò al miglior prezzo. Questo è il mix perfetto». Quale consiglio darebbe alle aziende di racchette e abbigliamento? «Siate creativi. Deliziate i clienti basandovi sulle loro esigenze». L'Italia come sta affrontando il sistema e-commerce? Francia e Germania sono i vostri principali mercati, ma l'Italia quale posto occupa? «Per noi l'Italia è importante quasi quanto la Germania, motivo per il quale ci stiamo focalizzando sempre più verso questo mercato. I recenti ottimi risultati ottenuti dalle tenniste italiane nel circuito WTA ha aiutato il mercato italiano a crescere. Il bello dell'Italia è che gli appassionati giocano tutto l'anno, con un clima più favorevole rispetto alla Germania e alla Francia. Quindi, il nostro obiettivo è essere sempre più presenti nel mercato italiano».

Come è cambiato il sistema di e-commerce nelle ultime stagioni? «È diventato sempre più forte e consistente, cambiando i canali di distribuzione. E ha cambiato anche le abitudini dei consumatori. Ma pensare che creare un sito Internet che vende prodotti sia un Eldorado è sbagliato. È un lavoro che richiede qualità ed esperienza».

Quanto è importante il servizio di racchette-test disponibile sul vostro sito Internet? «È un programma che sta riscontrando un grande successo. Permette ai clienti di provare due racchette nell'arco di 10 giorni. Un'occasione perfetta per chi vuole cambiare attrezzo. Avendo a disposizione tutti i maggiori marchi internazionali e alcune esclusive, ha senso per il nostro cliente usare questo programma per compiere la scelta più corretta. Le nostre racchette-test hanno sempre corde e grip nuovi, in modo che il cliente possa testarle nelle migliori condizioni».

Quanto è importante il prezzo nella vendita on-line? «La prima occhiata va sempre lì, giusto? Ma a cosa serve un buon prezzo se il prodotto non è disponibile? Oppure se viene consegnato dopo due settimane? Cerchiamo di offrire il prezzo più basso possibile ma i nostri sforzi non si fermano lì. Il successo della vendita on-line è una combinazione di vari fattori: prezzo, disponibilità del prodotto, consegne veloci e precise, descrizioni e immagini corrette sul sito Internet e un ottimo servizio clienti. Al momento, un nostro cliente italiano può chiamare un numero locale in Italia, parla con un esperto ita-

Possiamo ipotizzare di vedere un giorno prodotti direttamente marchiati TWE come per esempio avviene con Decathlon da diversi anni? «Attualmente non è nei nostri piani lo sviluppo di prodotti di questo genere. Abbiamo un ottimo rapporto con i nostri fornitori e cerchiamo di restituire feedback accurati in modo che possano studiare al meglio i prodotti del prossimo futuro. Speriamo che questo dialogo continui in modo da creare sempre più prodotti esclusivi per i clienti di Tennis Warehouse e Tennis Warehouse Europe».

NEW BRANDS ON TWE Li Ning lo ricordiamo nel 2008 volteggiare sul Nido d’Uccello, il meraviglioso stadio olimpico di Pechino e accendere il braciere. Bjorn Borg, ca va sans dire, lo ricordiamo inginocchiarsi cinque volte sul Centre Court di Wimbledon dopo aver raccolto altrettanti titoli. Fred Perry lo ricordiamo un po’ meno, perché dominava negli anni 30 e, ancora adesso, resta l’ultimo british ad aver vinto il singolare maschile a Wimbledon. In comune hanno il fatto di aver creato dei brand sportivi di primissima qualità, anche se con meriti diversi. Se Fred Perry ha avviato un marchio che poi nel corso degli anni è diventato un’icona, Bjorn Borg deve il successo all’intraprendenza di un gruppo di giovani svedesi che, grazie ad un’attenta campagna marketing, hanno rivitalizzato un brand e salvato il pluricampione Slam dal fallimento economico personale (solo di royalties si sostiene egregiamente, dopo essere arrivato nel 2006 a mettere all’asta i suoi trofei di Wimbledon per sbarcare il lunario). Li Ning invece, ha fatto qualcosa di ancora più incredibile delle sei medaglie vinte alle Olimpiadi del 1984. Ebbene, tutti e tre i marchi sono ora sbarcati su Tennis Warehouse Europe che si conferma leader assoluto dell’e-commerce nel mondo del tennis. Al giocatore agonista farà piacere soprattutto l’ampia disponibilità di materiale Li Ning (il cui principale testimonial è Marin Cilic, nella foto a fianco): con meno di 50 euro, si può portare a casa un completo top di gamma (e a 75 euro le scarpe). Ma TWE non si ferma qui: oltre al brand Falke, a breve saranno presenti anche i prodotti Slazenger, dopo aver già inserito in lista le (bellissime) racchette Mantis, le Donnay e gli accessori medicali Zamst.

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THE KILLER by LORENZO CAZZANIGA

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SERENA HA DIMOSTRATO DI POTER UCCIDERE IL TOUR FEMMINILE, VINCENDO ANCHE LO US OPEN. MA QUALCUNO CREDE CHE POSSA ANDARE OLTRE. PER ESEMPIO, CONTRO UN UOMO.... Sara Errani è uscita dall’Arthur Ashe Stadium come avesse incontrato Mike Tyson in buona forma.Tramortita dalla violenza dei colpi di Serena Williams e ancora barcollante, non ha avuto dubbi: “Questa qui, può vincere anche un torneo Futures maschile, ve lo dico io!”. E così si è riaperta l’annosa discussione del confronto sportivo uomo-donna, che nel tennis ha vissuto il suo apice con la Battaglia dei Sessi del 1973 dove una 30enne Billie Jean King sconfisse all’Astrodome di Houston davanti a 30.492 spettatori il 55enne Bobby Riggs. Per la verità, una giovane Serena Williams ha già affrontato un uomo. Si trattava del tedesco Karsten Braasch, un tipo al quale piaceva chiudere l’allenamento con una sigaretta e due birre. Da numero 203 ATP, rifilò 6-1 a lei e 6-2 a Venus. Discorso chiuso? Abbiamo ascoltato il parere di giocatori e coach. «Temo sia un periodo in cui Sara spara un po’ troppe cazz… - dice un divertito Andreas Seppi -. Serena gioca bene ma non ha la minima chance di vincere un Futures maschile». D’accordo anche Flavio Cipolla che lancia anche la sfida: «Mettiamola così, contro di me non fa un game, te lo garantisco». Più possibilisti Simone Vagnozzi, n.227 ATP («Vincere un torneo non penso, ma passare qualche turno, sì. Però solo sul veloce») e Fabrizio Fanucci, coach di Filippo Volandri: «Qualche match potrebbe anche vincerlo, ma un torneo no. E comunque solo sul cemento. Contro una donna noti la differenza di potenza, ma contro un uomo la faccenda è diversa». Lo conferma anche il neo assistant-coach della squadra di Coppa Davis, Giorgio Galimberti: «Non credo possa tener testa ad un giocatore da n.500 al mondo.Tira forte ma negli spostamenti non c’è partita. Quando io ero 130 al mondo e giocavo con la Pennetta che era numero 60, le davo 6-0 6-0 anche se lei partiva con un quindici di vantaggio ad ogni game». Provare per credere, dice Claudio Pistolesi, che vanta esperienze di coaching ad altissimo livello sia in campo maschile sia in quello femminile: «Il problema è che le donne non giocano mai un match vero contro un uomo, altrimenti si renderebbero conto della differenza». Leonardo Caperchi, ex coach di Fabio Fognini, ne fa invece un discorso di classifica: «Esistono tornei Futures di diverso livello. Diciamo che contro il numero 500 ATP non vincerebbe mai. Contro uno più scarso, avrebbe delle chance». Meno convinto Claudio Mezzadri, ex top 30 ATP e ora commentatore televisivo: «Per dirti, secondo me, il vincitore dello US Open juniores, il canadese Peliwo, la batte. Se allunghi lo scambio a 5-6 colpi, va in crisi. Qualche minima possibilità potrebbe averla sul veloce contro un terraiolo».Andiamo oltre. Fredrik Fassio è un coach, per adesso specializzato in campo femminile: «Serena è la più grande giocatrice dell'era moderna, soprattutto per come imposta mentalmente la partita. Sembra cadere in meditazione tra un punto e l’altro e questo le permette di controllare la sua tecnica in maniera stupenda. Ma tennis maschile e femminile sono quasi due sport diversi e non penso che Serena possa tenere il ritmo e le rotazioni di un giocatore da numero 500 ATP». Ancor più duro Mosè Navarra, dall’Accademia che dirige 40

all’Eurosporting di Cordenons: «Non vincerebbe contro un 2.1 italiano, anche se ormai nei Futures trovi giocatori che definirli tali è dura…». Andrea Stoppini,, che ha appena iniziato la carriera di coach, sposta l’attenzione sul discorso tecnico e offre qualche chance. Ma ad un’altra giocatrice: «Il problema per Serena è che contro un uomo sarebbe costretta a giocare molto in difesa e, per come si muove, non sarebbe in grado di farlo. Inoltre, dovrebbe rispondere a servizi che arrivano a 200 km/h, non a quelli delle donne. Sulla terra rossa la vedo male, sul veloce se tiene alta la percentuale di prime palle, potrebbe fare meglio. Forse potrebbe fare meglio la Azarenka che si muove meglio, ma gioca troppo lineare». Interessante l’opinione di Andrea Arnaboldi, n.381 ATP: «Conosco bene Sara e credo che quelle parole siano state dettate dall'emotività della sconfitta. È impensabile che la Williams possa vincere un 10mila maschile. Sul colpo secco ha una potenza superiore a molti uomini, ma all'interno di uno scambio ci sarebbe una differenza di ritmo troppo grande. Il discorso è complesso: magari in un match secco sul veloce la Williams può anche vincere con un professionista alle prime armi, ma il suo livello medio non è paragonabile ad un qualsiasi professionista uomo». Claudio Grassi, giocatore azzurro che cerca di farsi strada nel tour (n.309) proprio passando dai tornei Futures, tira in ballo un altro argomento: «Credo che Sara l’abbia buttata lì, forse infastidita dalle dichiarazioni di Tipsarevic quando ha detto che è assurdo che le donne percepiscano nei tornei dello Slam gli stessi soldi degli uomini». E anche Francesco Elia,, marito e coach di Silvia Farina, pensa più ad una boutade: «È una frase provocatoria per mettere in evidenza la differente fisicità tra Serena e le altre ragazze. Ho seguito tanti tornei Futures negli ultimi 5 anni e posso assicurare che c’è più differenza tra lei e un giocatore da Futures che tra lei e le altre giocatrici del tour WTA. Ma a suo svantaggio». Ma cosa ne pensano invece le donne? Che ci sia un po’ di solidarietà femminile? Per nulla: «Sono due sport diversi – dice Rita Grande -. Con le donne tira forte perché la palla le arriva piano. Ma contro un uomo non ci riuscirebbe.Alla fine, è bastata un Azarenka in palla che colpiva con forza e ha vinto solo 7-5 al terzo». Sulla stessa linea di pensiero Raffaella Reggi,, mentre Tathiana Garbin e Silvia Farina impongono dei paletti interessanti. «La differenza principale resta il servizio – dice la Garbin -. Se si giocasse un match senza questo colpo, potrebbe vincere qualche partita». «Forse avrebbe una possibilità – continua la Farina – se si giocasse il torneo a Flushing Meadows davanti a 20mila persone e l'avversario rimanesse scioccato dal contesto. Insomma se si c… sotto, chiaro no?». Chiarissimo. E dello stesso avviso è Thomas Fabbiano, n.270 ATP. Più possibilista Alberta Brianti, Brianti attuale n.132 WTA: «Penso possa competere con un giocatore intorno al n.300-400. Già se scendiamo al n.200 diventa troppo difficile». L’unica d’accordo con la Errani pare l’ex top 40, Laura Garrone: Garrone: «Concordo pienamente: Serena è l’unica che potrebbe competere in un torneo maschile da 10 o 25.000 dollari di montepremi”.


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GIOCATORI

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TURISMO


GRAND SLAM RANKING I R I S U LTAT I O T T E N U T I N E I T O R N E I DEL GRAND SLAM SONO L'INDICE CHE S TA B I L I S C E L A F O R Z A D I U N T E N N I S TA P R O . E C C O C H I H A C O N Q U I S TAT O I L MAGGIOR NUMERO DI PUNTI NEL 2012 DI LORENZO CAZZANIGA


GRAND SLAM

VICTORIA AZARENKA BIELORUSSA, 23 ANNI

LA LOGICA DICE CHE SERENA WILLIAMS È LA PIÙ FORTE G I O C AT R I C E A L M O N D O . M A I NUMERI DICONO CHE SONO VICTORIA AZARENKA E MARIA S H A R A P O VA A D AV E R C O N Q U I S TAT O IL MAGGIOR NUMERO DI PUNTI SLAM. CON LA BIELORUSSA CHE SI LASCIA PREFERIRE PER I DUE CONFRONTI DIRETTI VINTI. AL QUARTO POSTO, UNA STRAORDINARIA SARA ERRANI 44


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GRAND SLAM

TIE IS LIKE KISS YOUR SISTER. Pareggiare

è come baciare tua sorella, non c'è emozione. Lo diceva Vince Lombardi, uno dei più grandi coach nella storia del football americano. In più va considerato che Victoria Azarenka e Maria Sharapova non si considerano esattamente due sorelle. Per questo, seppur numericamente sono appaiate al primo posto del Grand Slam Ranking, abbiamo voluto scegliere una regina. Discriminante? I confronti diretti nei tornei dello Slam che premiano la bielorussa che ha distrutto la Sharapova nella finale dell'Australian Open ed è uscita vincitrice da un'autentica battaglia anche a Flushing Meadows. Tuttavia, a Maria non deve essere troppo dispiaciuto lasciarle il titolo australiano (quello americano lo avrebbe comunque perso in finale contro Serena Williams) e portarsi a casa il Roland Garros, completando il Career Slam, visto che la Coupe des Mosquetaires era l'unico trofeo Slam che le era sempre sfuggito. Le due bionde hanno viaggiato pari per tutta la stagione, raggiungendo i medesimi risultati Slam: una vittoria, una finale, una semifinale e un ottavo di finale. Un ruolino di marcia niente male. Tuttavia, mai come in questo caso la medaglia di bronzo sa tanto di oro. Già, perché Serena Williams ha chiuso l'annoSlam solo al terzo posto ma supponiamo che, ego a parte, anche le prime due classificate sarebbe d'accordo nel definirla la più forte giocatrice del mondo, soprattutto quando la posta in palio si alza. Serena invece ha chiuso con 295 punti in meno, poco più di un ottavo di finale. In buona sostanza, paga la clamorosa eliminazione al primo turno subìta a Parigi per mano di Virginie Razzano. Una sconfitta che... le ha fatto bene. Già, perché Serena non è tornata sulle spiagge di Palm Beach ma, dovendo giocare un paio di settimane dopo a Wimbledon e poi le Olimpiadi, ha deciso di restare ad allenarsi a Parigi, all'Accademia di Patrick Mouratoglou. Qualcuno ha pensato che la ragione fosse una liason con Grigor Dimitrov, il talento bulgaro che si allena da tempo nella stessa accademia. Invece, la priorità deve essere stata la voglia di riguadagnare una forma fisica adeguata, perché Wimbledon e soprattutto le Olimpiadi a Wimbledon, sono traguardi che meritano tre settimane di sacrifici. Per la prima volta nella sua vita (cit. Serena), si è allenata ogni santo giorno che Dio ha mandato in terra e ha ascoltato i consigli di un coach vero (Mouratoglou appunto) e non quelli di mamma Oracene o papà Richard. Lo ha ammesso il suo sparring, Sascha Bajin: «Quando ho cominciato a lavorare con Serena, ero trop-

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po giovane per poterle dare dei grandi consigli. Non avevo l'esperienza, la personalità e lo status per farlo. Mi limitavo a qualche piccolo suggerimento, soprattutto per motivarla. Invece con Mouratoglou è stato diverso. Per la prima volta si è affidata ad un coach di esperienza». E i risultati si sono visti. Dominati Wimbledon e Olimpiadi, solo una straordinaria Azarenka le ha tenuto testa nella finale di New York, giusto per non trasformare un altro torneo dello Slam in un semplice allenamento defaticante. Serena dunque resta indietro per il computer, ma davanti a tutte nell'opinione comune. E ai margini del podio chi troviamo? Sara Errani. L'avessimo pronosticato un anno fa, ci avrebbero regalato una di quelle camice che si allacciano dietro. Personalmente, non avrei scommesso un copeco che sarebbe diventata una top 30, figuriamoci una top 5 Slam. L'ho vista la prima volta al Tiro a Volo, che a dispetto del nome è un bellissimo circolo di tennis sui Monti Parioli a Roma. Giocava contro Emmanuelle Gagliardi. Io stavo appollaiato su una terrazza e vedevo passare le palle ben oltre le siepi, accompagnate da urla strazianti. Così, per quattro ore. Avevo giurato che non sarei più tornato a seguire un match di quella Sara Errani. Già, ma questa Sara Errani non è quella Sara Errani. A NYC ha dimostrato come alle sue doti di coraggio, di corsa, di volontà, abbia aggiunto una mano che in poche possono vantare. Contro la Kerber ha lavorato come un virus nel computer, e così con tante altre valchirie dotate di tanta potenza e poco acume tattico. Lei, scricciolo al quale il sito WTA regala 164 centimetri di altezza, riesce a cavarsela con le variazioni, le smorzate, gli attacchi in controtempo. La sua intelligenza copre le magagne, in particolare un servizio da enneci in cattiva giornata. Certo, qualcuno (e qualcuna) storce il naso perché una Kerber numero 6 al mondo non si era mai vista. Va bene, è vero anche questo. Ma Sarita ha dimostrato che gli exploit Slam non sono più isolati. Prima i quarti in Australia, poi la finale a Parigi, quindi la semi allo US Open. E il bello (speriamo) deve ancora venire. Intanto, la qualificazione al Masters di Istanbul appare conquistata. Il resto della classifica lo potete scorrere qui a fianco. Piace notare il 12esimo posto di Robertina Vinci, che ci rinfranca del crollo di Francesca Schiavone e Flavia Pennetta. Nel resto del mondo, occhio alla n.13, Yaroslava Shvedova, mentre Stella McCartney deve prepararsi a vestire un'altra giocatrice perché Caroline Wozniacki è sparita dalla top 20 e promette di non tornarci tanto facilmente.


NAZIONALITA'

AUSTRALIAN OPEN

1. VICTORIA AZARENKA

Bielorussia

2000

280

1. MARIA SHARAPOVA

Russia

1400

Stati Uniti

GIOCATRICE

ROLAND GARROS

US OPEN

TOTALE

900

1400

4580

2000

280

900

4580

280

5

2000

2000

4285

Italia

500

1400

160

900

2960

Repubblica Ceca

900

900

500

280

2580

Polonia

500

160

1400

280

2340

7. ANGELIQUE KERBER

Germania

160

500

900

280

1840

8. SAMANTHA STOSUR

Australia

5

900

100

500

1505

280

100

1280

3. SERENA WILLIAMS 4. SARA ERRANI 5. PETRA KVITOVA 6. AGNIESZKA RADWANSKA

WIMBLEDON

9. KIM CLIJSTERS

Belgio

900

10. ANA IVANOVIC

Serbia

280

160

280

500

1220

11. MARIA KIRILENKO

Russia

160

100

500

160

920

12. ROBERTA VINCI

Italia

100

5

280

500

885

500

280

100

880

13. YAROSLAVA SHVEDOVA

Kazakistan Francia

160

100

100

500

860

Cina

280

280

100

160

820

16. SABINE LISICKI

Germania

280

5

500

5

790

17. DOMINIKA CIBULKOVA

Slovacchia

100

500

5

160

765

17. EKATERINA MAKAROVA

Russia

500

5

100

160

765

Stati Uniti

100

280

160

160

700

Cina

280

100

160

160

700

Russia

100

160

160

280

700

22. CAROLINE WOZNIACKI

Danimarca

500

160

5

5

670

23. JULIA GOERGES

Germania

280

160

160

5

605

23. VARVARA LEPCHENKO

Stati Uniti

5

280

160

160

605

14. MARION BARTOLI 15. NA LI

19. SLOANE STEPHENS 19. JIE ZHENG 19. NADIA PETROVA

25. KAIA KANEPI

Estonia

100

500

26. TSVETANA PIRONKOVA

Bulgaria

100

100

100

280

580

27. SHUAI PENG

Cina

100

160

280

5

545

27. FRANCESCA SCHIAVONE

Italia

100

160

280

5

545

29. TAMIRA PASZEK

Austria

5

5

500

5

515

Stati Uniti

160

160

160

5

485

30. ANNA TATISHVILI

Georgia

100

5

100

280

485

32. ALEKSANDRA WOZNIAK

Canada

100

160

100

100

460

32. ANAST. PAVLYUCHENKOVA

Russia

100

160

100

100

460

Bielorussia

100

100

100

160

460

Olanda

5

280

160

5

450

Repubblica Ceca

5

280

160

5

450

30. CHRISTINA MCHALE

32. OLGA GOVORTSOVA 35. ARANTXA RUS 35. KLARA ZAKOPALOVA

600

37. SVETLANA KUZNETSOVA

Russia

160

280

5

37. JELENA JANKOVIC

Serbia

280

100

5

445 160

445

LEGENDA: la classifica è compilata tenendo conto dei punti conquistati nei quattro tornei del Grand Slam secondo la tabella punti della classifica WTA. Sono stati presi in considerazione solo i punti conquistati nel tabellone principale, qualificazioni escluse. La classifica completa potete trovarla su tennisbest.com

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GRAND SLAM

NOVAK DJOKOVIC SERBIA, 25 ANNI

I N U N A S TA G I O N E I N C U I I F A B F O U R S I S O N O D I V I S I I Q U AT T R O TORNEI DELLO SLAM, ANDY M U R R AY P O T R E B B E VA N TA R E L'ORO OLIMPICO PER DEFINIRSI THE BEST OF, MA ALLA FINE LA S P U N TA L A M A G G I O R R E G O L A R I TÀ N E I R I S U LTAT I D I N O VA K D J O K O V I C . ANCHE SE IL DOMINIO DEL 2011 S E M B R A U N L O N TA N O R I C O R D O

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MGRAND ONDO SLAM

FAB FOUR. Da quando Andy Murray ha, più o meno,

raggiunto il gruppo di testa formato da Roger Federer, Rafael Nadal e Novak Djokovic, gli uomini marketing dell'ATP hanno coniato questo nomignolo, con tanto di shooting photoshoppato in cui i quattro big del tennis attraversano una strada scimmiottando Lennon ad company nella celebre cover di Abbey Road. Già, peccato che Murray fosso Ringo Starr, quello a cui fanno cantare With a Little Help of my Friends, e non per caso. È sempre stato l'ultimo della banda, irrimediabilmente sconfitto dal vocalist di turno. A Wimbledon ci era andato più vicino che mai, stoppato solo da due magie al volo di Roger Federer che gli avevano impedito di andare avanti due set a zero e mettere le mani sul trofeo dei Championships. C'era riuscito alle Olimpiadi, torneo che ci ha regalato bellissime partite, ma era chiaro che se per Bolt e Phelps sono il culmine di quattro anni di sacrifici, nel tennis è ancora un party ben arredato ma lo status Slam è un'altra roba. Murray può però dire di aver agguantato il gruppo di testa a New York City. Certo, ha approfittato dell'assenza di Nadal e dello sgambetto di Berdych a Federer; però ha battuto Djokovic che sui campi duri è da qualche anno considerato il top. Serviranno altre conferme ma intanto... Tuttavia, in cima al Grand Slam Ranking resiste proprio Djokovic. La sua prima allenatrice, Jelena Gencic, ha dichiarato che Nole vive momenti difficili dovuti a problemi personali, spesso legati al comportamento del padre, non esattamente un tizio che brilla per savoir faire. Però il peggior risultato Slam di Djokovic resta la semifinale di Wimbledon. Certo, ha vinto una finale su tre e se a Parigi contro Nadal non ha avuto che minime chance, allo US Open ha ammesso la superiorità di Murray solo per un (casuale) bon ton. Djokovic resta il leader del lotto, l'unico capace di superare quota 5.000 punti, ma qualcosa nell'ingranaggio perfetto si è rotto, e il dominio del 2011 sembra un lontano ricordo. Fa un po' impressione relegare in seconda fila Roger Federer e Rafael Nadal, nonostante le attenuanti non manchino. Entrambi capaci di portare a casa un titolo Slam in stagione (e continuare la loro battaglia per il titolo di GOAT, Greatest Of All Time, con Federer giunto a 17 Slam e Nadal a 11. Ma per la prima volta, a parità di età, Federer è avanti nello

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confronto diretto), non sono mancate le battute d'arresto. Federer è stato stoppato nei quarti a Flushing da un ottimo Berdych e da una pessima serata; Nadal invece è stato tolto di mezzo da tale Hoffa, che non è un giovane promettente ma un'infiammazione del corpo, nel cuscinetto adiposo tra tendine e rotula del ginocchio. Rientrerà nel 2013, con qualche speranza per una eventuale finale di Coppa Davis. In ogni caso, pur con qualche problema (fatto che ha consentito a Murray di arrivare nell'Olimpo), i primi del mondo hanno scavato un solco clamoroso nei confronti di tutti gli altri. Quasi giocassero un circuito a parte. Il primo degli umani è David Ferrer, uno che sarebbe popolarissimo in Spagna, non avesse come termine di paragone Rafa Nadal. Due semifinali e due quarti sono il meglio che poteva raggiungere. Manca sempre l'acuto, la vittoria contro un Fab Four negli Slam. Eolo sotto forma di un vento pazzesco gli stava offrendo la chance contro Djokovic a NYC. Poi le previsioni di un tornado (e di una audience penosa sulla CBS per una finale Murray-Ferrer, ha consigliato agli organizzatori di rinviare il match e le speranze di Ferrer). Il quale è stato comunque capace di mantenere una regolarità di risultati impressionante, quella che manca ai suoi inseguitori, che si tratti di Jo-Wilfried Tsonga o Tomas Berdych, infinitamente più dotati tecnicamente, infinitamente meno dotati dal punto di vista della tenuta mentale. Delude un po' Juan Martin Del Potro, solo ottavo, e soprattutto incapace di migliorarsi tecnicamente. Gioca bene, tira forte, ma in un gioco che evolve continuamente, devi saper tenere il passo, altrimenti la scalata ai vertici diventa impossibile. Chiudono la top 10 Nicolas Almagro, e (addirittura) Philipp Kohlschreiber, a conferma che la stragrande maggioranze dei punti la intascano i primissimi e agli altri basta un ottimo risultato perché si schiudano le porte della top 10. Non a caso, sia Almagro sia Kohlschreiber non raggiungono i mille punti, meno di quanti se ne possono conquistare vincendo un torneo Masters 1000. Dietro mancano i rincalzi più giovani: Milos Raonic è solo 18esimo, Bernard Tomic 25esimo, Grigor Dimitrov 54esimo, tecnicamente una bestemmia, ma le partite nell'anno 2012 non le porti a casa (solo) col bello stile.


NAZIONALITA'

AUSTRALIAN OPEN

Serbia

2000

1200

2. ROGER FEDERER

Svizzera

720

3. RAFAEL NADAL

Spagna

4. ANDY MURRAY

GIOCATRICE

ROLAND GARROS

US OPEN

TOTALE

720

1200

5120

720

2000

360

3800

1200

2000

45

0

3245

Gran Bretagna

720

360

1200

2000

4280

5. DAVID FERRER

Spagna

360

720

360

720

2160

6. JO WILFRIED TSONGA

Francia

180

360

720

45

1305

Repubblica Ceca

360

180

10

720

1270

Argentina

360

360

180

360

1260

Spagna

180

360

90

180

810

Germania

180

45

360

180

765

11. RICHARD GASQUET

Francia

180

180

180

180

720

11. JANKO TIPSAREVIC

Serbia

90

180

90

360

720

13. MARIN CILIC

Croazia

0

90

180

360

630

Giappone

360

0

90

90

540

Russia

10

90

360

10

470

16. STANISLAS WAWRINKA

Svizzera

90

180

10

180

460

17. FLORIAN MAYER

Germania

0

45

360

10

415

18. MARDY FISH

Stati Uniti

45

0

180

180

405

18. MILOS RAONIC

Canada

90

90

45

180

405

20. JULIEN BENNETEAU

Francia

90

90

90

90

360

21. ANDY RODDICK

Stati Uniti

45

10

90

180

325

22. JUAN MONACO

Argentina

10

180

90

10

290

22. LLEYTON HEWITT

Australia

180

10

10

90

290

22. FELICIANO LOPEZ

Spagna

180

10

10

90

290

25. VIKTOR TROICKI

Serbia

45

45

180

10

280

25. DAVID GOFFIN

Belgio

0

180

90

10

280

25. MARCEL GRANOLLERS

Spagna

45

180

10

45

280

25. BERNARD TOMIC

Australia

180

45

10

45

280

25. FERNANDO VERDASCO

Spagna

10

90

90

90

280

30. BRIAN BAKER

Stati Uniti

0

45

180

45

270

30. GILLES SIMON

Francia

45

90

45

90

270

30. MARTIN KLIZAN

Slovacchia

0

45

45

180

270

33. DENIS ISTOMIN

Uzbekistan

10

45

180

10

245

33. MIKHAIL KUKUSHKIN

Kazakistan

180

45

10

10

245

35. NICOLAS MAHUT

Francia

90

90

45

10

235

35. FABIO FOGNINI

Italia

10

90

45

90

235

35. SAM QUERREY

Stati Uniti

45

10

90

90

235

Ucraina

90

10

45

90

235

1. NOVAK DJOKOVIC

7. TOMAS BERDYCH 8. JUAN MARTIN DEL POTRO 9. NICOLAS ALMAGRO 10. PHILIPP KOHLSCHREIBER

14. KEI NISHIKORI 15. MIKHAIL YOUZHNY

35. ALEXANDR DOLGOPOLOV

WIMBLEDON

LEGENDA: la classifica è compilata tenendo conto dei punti conquistati nei quattro tornei del Grand Slam secondo la tabella punti della classifica ATP. Sono stati presi in considerazione solo i punti conquistati nel tabellone principale, qualificazioni escluse. La classifica completa potete trovarla su tennisbest.com

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ITALIA

SARA ERRANI 25 ANNI

NO MATCH. Tra Sara Errani e il resto della truppa azzurra non c'è stata

proprio partita in questo 2012, nemmeno (o tantomeno) volendo coinvolgere il settore maschile. Basta voltare pagina (indietro) per scoprire che Sarita è la quarta giocatrice più performante nei tornei del Grand Slam (e, per estensione tecnica, potremmo definirla la quarta giocatrice più forte al mondo). Se poi restringiamo lo studio statistico ai confini nazionali, si evidenzia che la chiqui più forte triplica i punti conquistati dalla chiqui meno forte (alias Roberta Vinci), che comunque si toglie la soddisfazione di stare davanti a Francesca Schiavone e Flavia Pennetta, per le quali ha svolto il ruolo di damigella nelle ultime stagioni. Non è il primo anno che la Vinci si esprime su livelli piuttosto buoni, però mai le era riuscito di scavalcare numericamente le ex top players italiane. Rispetto a Sara, le è mancato l'acuto vero e proprio, ma aver raggiunto il primo quarto di finale Slam in carriera (allo scorso US Open) è risultato quantomai incoraggiante anche per il prossimo futuro, nonostante i 30 anni siano alle porte. Ma il suo tennis d'antan non dovrebbe soffrire troppo l'età. Problema che invece pare affliggere Francesca Schiavone. Dopo due stagioni da favola, il crollo. Nessuno squillo, nessun segnale di ripresa. Una chiara crisi motivazionale che nasce probabilmente dalla consapevolezza che certi risultati (una vittoria e una finale a Roland Garros, condite da una presenza al Masters di fine anno) non sono più ripetibili. In più, Francesca non è una tipa facile. Dopo due-tre anni passati fianco a fianco, Corrado Barazzutti deve essere piuttosto snervato; Renzo Furlan, alla quale la stessa Schiavone ha dato molti dei meriti della sua esplosione, è stato accantonato; Francesco Elia doveva essere il coach capace di restituirle motivazioni, voglia e qualche accorgimento tecnico per chiudere con un altro hurrà. Supponiamo che dalla sua casa di Fregene, l'ottimo Elia non rimpianga i (pochi) mesi passati insieme alla Leonessa. Insomma, un quadretto poco incoraggiante. Ma la Schiavone avrebbe potuto anche ritirarsi dopo quello storico 5 giugno 2010 ed essere comunque soddisfatta. Tutto quel che viene è un regalo supplementare. Nella storia ci ha già messo entrambi i piedi. Diverso il discorso per l'amica-rivale Flavia Pennetta. Anche lei non è mai parsa in forma strepitosa. Poi l'infortunio al polso l'ha messa k.o. in quella che spesso è stata la trasferta più amata, quella americana. Lei avrebbe ancora qualche cartuccia da sparare e chissà se, dopo una pausa forzata e un bel periodo di riposo, non torni più motivata di prima. Per il resto, va salutata l'entrèe di Camila Giorgi che però, dopo l'exploit di Wimbledon, non ci ha fatto più sperare di aver trovato un'altra top 10. Il potenziale è incredibile, la gestione della sua carriera preoccupante. Ma bisogna tifare per lei perché davanti ci sono Errani e Vinci, dietro sostanzialmente nessuno.

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        

SARA ERRANI

2960

ROBERTA VINCI

885

FRANCESCA SCHIAVONE 545 CAMILA GIORGI

285

FLAVIA PENNETTA

170

ALBERTA BRIANTI

110

NASTASSJA BURNETT

5

MARIA E. CAMERIN

5

KARIN KNAPP

5


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ITALIA

FABIO FOGNINI 25 ANNI

SORPRESA. O forse no. Perché senza una buona memoria, difficilmente

si penserebbe a Fabio Fognini come il giocatore italiano che ha conquistato più punti nei tornei dello Slam 2012. Vuoi perché a inizio anno un brutto infortunio al piede lo ha tenuto fermo ai box per circa tre mesi, vuoi perché l'immagine simbolo resta quella di Andreas Seppi avanti due set a zero sul Philippe Chatrier contro Novak Djokovic. Sorpresa ma fino ad un certo punto, perché Fognini ci ha abituato a essere competitivo soprattutto nelle occasioni più importanti. Succede che perda da un peones sul campo laterale di un piccolo torneo challenger, ma difficilmente tradisce quando bisogna esibirsi sui grandi palcoscenici. Questione di personalità, qualità che non manca, ma al massimo eccede, nel caso della "Fogna". Quest'anno ha fatto bene sulla sua terra rossa di Parigi, battendo un tipo tosto come Viktor Troicki e trascinando in battaglia Jo-Wilfried Tsonga. A Wimbledon ha steso Michael Llodra, che sull'erba è un brutto cliente e poi ha saggiato il Centre Court contro Sua Maestà Roger Federer. A New York è andato vicino a chiudere la carriera di Andy Roddick. Insomma, un rendimento medio-alto con la consapevolezza che al meglio dei cinque set può sfruttare la sua resistenza fisica e gestire a dovere i suoi alti e bassi. Andreas Seppi insegue ad una lunghezza. Resta il rammarico di essere andato vicino (ma proprio vicino) all'impresa già citata con Nole Djokovic a Parigi. Poi due brutte sconfitte: con Tommy Robredo a New York e, ancor peggio, con Denis Istomin a Wimbledon. Ora, l'uzbeko sull'erba non è scarso, ma Seppi ha servito per il match e per infilarsi in un'autostrada di tabellone dove si è infilato lo stesso Istomin, giunto fino agli ottavi. Un risultato che l'avrebbe proiettato nei top 20 e che sarebbe stata la ciliegina di una stagione fin qui molto soddisfacente. Dietro, resiste solo Flavio Cipolla. Due match-Slam vinti, in Australia contro Nikolay Davydenko, a New York contro Blasz Kavcic. E a Roland Garros ha portato Stanislas Wawrinka al quinto set. Insomma, non proprio roba da strapparsi i capelli, ma certamente Cipolla ne fa piangere di avversari (sorry...). E comunque ha già dimostrato di saper tirare fuori il 100% dal suo tennis e, oltre questo, non gli si può chiedere. A seguire, il buio. Nessun altro giocatore azzurro è infatti riuscito nella miracolosa impresa di vincere una partita. Non ci sono riusciti Filippo Volandri e Paolo Lorenzi in quattro partecipazioni (che comunque hanno assicurato circa 60.000 euro lordi, particolare che, soprattutto a Lorenzi, non deve essere di second'ordine); non c'è riuscito Potito Starace in tre partecipazioni, Simone Bolelli in due, Matteo Viola in una. Restiamo aggrappati ai nostri primi due giocatori e al completo recupero del "Bole". E poi che Gianluigi Quinzi li raggiunga (e magari li superi) in fretta. Ma la strada è ancora lunga.

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FABIO FOGNINI

235

ANDREAS SEPPI

210

FLAVIO CIPOLLA

110

PAOLO LORENZI

40

FILIPPO VOLANDRI

40

POTITO STARACE

30

SIMONE BOLELLI

20

MATTEO VIOLA

10


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A

S 56


ANDY RODDICK TENNIS

U S A N

LEGE

PLAYER

D

TRIBUTE

SUCCESS! A LONG

STORY

OF BIG

BY FEDERICO F ERRERO

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Q

Quando scendi a patti con una parte della tua vita, come il gatto imbolsito rinuncia al davanzale preferito perché non ci arriva più, il momento di andarsene è arrivato. Si dice scendere, non salire a patti perché sarà naturale, sarà saggio ma rimane un accomodamento verso il basso. Sampras non accettò mai le lusinghe di una racchetta dall'ovale più ampio e gentile nel perdonare le stecche: stravinse con la Pro Staff e con quell'attrezzo quasi ingiocabile iniziò a perdere. Però gli riuscì ugualmente, da fenomeno pressoché irripetibile quale era, di lasciare il tennis con le ultime due settimane da re, allo US Open 2002. Il sogno (quasi) impossibile di ogni campione: smettere con un Major in mano, che per Sweet Pete da Potomac poteva solo essere il Campionato, quello di Londra, o l'Open, quello della madrepatria a New York. Andy Roddick il suo compromesso lo aveva già stipulato con la racchetta: quattro chili e mezzo di tensione in meno sul piatto corde. Non per compensare la potenza in picchiata con l'età, ma per rendere la vita della sua spalla destra meno dolorosa. Ora il riposo se lo può godere, pochi mesi dopo averci offerto la prima versione di un ritiro imminente. Si era fatto soffiare un incontro di esordio al Queen's, il suo verde preferito dopo Wimbledon, con un match point a favore. Veniva da Parigi, dove negli anni si erano divertiti a zimbellare le sue nulle capacità di terraiolo uno stuolo di Sargsian, Mutis, Arthurs, Martìn, Gabashvili e, ultimo, Nicolas Mahut1. In panchina, coach Larry Stefanki e l'artigiano del suo fisico, Doug Spreen, masticavano amaro. E lui raccontava: aveva telefonato a Gavin Fletcher, direttore degli Aegon Championships, ovvero il torneo più ventoso del circuito2, per chiedere una wild card. Mai nella vita si era sognato di passare di là, per il verde sciroccato di Devonshire Park, ma voleva onorare l'ultimo Wimbledon con una preparazione da ex numero uno. Poteva forse risolversi il tutto con un una sconfitta contro il signor Edouard Roger-Vasselin, nel torneo che aveva vinto quattro volte l'ultima, nel 2007, salvando una palla della vittoria a Mahut3? Era cascato al numero 33 del mondo, A-Rod, una quota di depressione mai più toccata dal 2001: allora era in acesa e rappresentava un passaggio necessario, oggi è in picchiata. Gli scappò una frase, in quel mentre: «Io, Larry e Doug stiamo consapevolmente andando un po' contro la natura delle cose. Sappiamo che non posso più buttare giù i muri, e quello che Nadal e Federer riescono a fare con la racchetta non sono in grado di farlo». Come dire: qui è necessario fermarsi, solo che non riesco ancora a decidere quando. Il suo ultimo anno è stato una lunga cerimonia di distacco dal-

la vita di campione, della quale asserisce di «aver adorato ogni minuto». Ultimamente, forse, qualcuno meno del solito: la caviglia fuori uso e il ritiro contro Hewitt a Melbourne Park, la mesta difesa del titolo sul velocissimo tappeto di Memphis, risolta in una rapidissima sconfitta contro Malisse. I match point salvati da Kevin Giraffa Anderson a Delray Beach nei quarti. Il nulla al quadrato, in sostanza, mentre i mesi di astinenza dalla top ten – lasciata nell'estate 2011 dopo nove anni pressoché ininterrotti – si allungavano verso l'irreparabile. Un giorno di gloria riflessa a Miami, il successo numero 3 in 24 sfide contro Roger, e un'altra spia che lampeggia: si danneggia il bicipite femorale destro, stop di due mesi. Prima che un aereo cada, dicono gli esperti, mediamente scattano sette allarmi. Negli ultimi ventiquattro mesi, mister Roddick li ha superati, ecco perché l'inizio della fine va quasi certamente ricercato in un problema sistemico. Forse si può cerchiare una data, quella della mononucleosi conclamata nell'agosto 2010: deve essere quella ad aver innescato l'allerta generale. È un male che ha segnato tanti e fatto crollare alcuni (Soderling, Ancic) mentre, nel caso in questione, il Kid del Nebraska ha visto accendersi la spia della riserva di carburante: che si cercasse un aeroporto di atterraggio alla svelta, perché il grosso del viaggio era ormai compiuto. A Pechino 2011 un giornalista gli pose una domanda di tre minuti, che terminava con una provocazione tra l’ingenuo e lo sfacciato: «Andy, pensi di doverti ritirare?». La risposta, pulita come mai furono le sue in campo, fu algida: «I think... Yeah, I think that you should retire». Penso che sia tu a doverti ritirare. Quella fu l’unica volta in cui Roddick si sottrasse a un duello con la stampa. E in fondo chi scrive e parla di tennis è stato un avversario di Roddick, a modo suo: un po’ per la tempra del ragazzo, incline alla polemica. Un po’ per il macigno che si portava dietro, la necessità di raccogliere un’eredità abnorme (la generazione di Sampras, Agassi, Courier e Chang nei soli Stati Uniti) col vantaggio di vivere un biennio di passaggio, fino all’arrivo di Re Roger insomma, e la consapevolezza (maturata troppo tardi?) di non essere un uomo da dieci Slam. Col suo servizio al laser e il diritto fieramente violento, il Roddick che trionfò allo US Open 20034 e toccò la prima posizione mondiale, si era costruito un’illusione: che la montagna più alta da scalare fosse Juan Carlos Ferrero, o giù di lì. Invece stava per andare incontro a una generazione di geni del tennis per contrastare la quale, disse un giorno Sampras, «semplicemente Andy non è abbastanza forte». Sarebbe un vilipendio sostenere che non ci abbia provato con tutto se stesso, a partire dal legame con Tarik Benhabiles, il giocatore

1. Benché da ragazzino qualche impresa gli sia riuscita, come quella di battere sulla fatica Michael Chang, nell’edizione 2001. Aveva 18 anni, vinse 7-5 al quinto set e coi crampi, gli stessi che Chang aveva sconfitto, insieme a Lendl, dodici anni prima. 2. Eastbourne, sulla costa sud dell’Inghilterra. Un torneo in cui comandano il vento e i gabbiani che arrivano dalle spiagge di Brighton e Hove. 3. Ironia della vita di un tennista: fino alla ‘cosa’ con Isner a Wimbledon 2010, il Mahut che è ancora a secco di titoli ATP ha considerato quel match point fallito come la peggior esperienza che potesse attraversare la vita di un giocatore. 4. Con un paio di clamorosi furti a suo favore, ai danni del cattivissimo David Nalbandian in semifinale. Roddick salvò un match point con il servizio alla fine del terzo set, recuperò lo svantaggio e vinse al quinto. L’occhio di falco non era ancora stato adottato, altrimenti probabilmente quello Slam avrebbe avuto un altro epilogo.

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francese di sangue nordafricano che lo scoprì in Florida e lo convinse a non abbandonare il tennis quando, tra i 16 e 17 anni, attraversò una profonda crisi di rigetto. L’estate d’oro del 2003 la visse con il coach ai tempi più in voga, Brad Gilbert. La cura funzionò, Brad il cattivo tirò fuori il meglio dal bagaglio incompleto del suo pupillo e lo aiutò a terminare l’anno da primo giocatore del mondo. Un ranking conservato per tredici settimane. Aveva 21 anni, come si usa dire il mondo davanti a sé, e invece no: buona parte della sua vita tennistica al vertice era già alle spalle, con l’infornata di campioni che negli anni riuscirono a essergli più o meno costantemente superiori. Roddick è stato geneticamente avverso alla rassegnazione: dopo aver liquidato Gilbert con una telefonata e speso qualche tempo in giro per il mondo col fratello John, si rivolse a due specialisti per curare la malattia. Bussò alla porta del pigro Jimmy Connors, che accettò l’incarico: Andy voleva semplicemente diventare un altro Jimbo, più vitaminizzato ma altrettanto vincente. In quei due anni, fino all’inverno 2008, il lavoro non sortì gli effetti sperati. Eppure non si andava mai al risparmio: anche nei giorni off, raccontano a casa, Roddick frequentava la superpalestra allestita nella villa sul lago Austin, Texas. Sì, quella che usò come tempio per il suo matrimonio con l’attrice(tta) Brooklyn Decker5. Uno spazio aperto enorme, zeppo di poster motivazionali: Nelson Mandela, Mohammed Alì, John Kennedy. Il passo successivo, e definitivo, fu l’ingaggio di Larry Stefanki, dalla fine di dicembre del 2008 alla fine della carriera. Coach S lo guardò e decise la strategia: cambiare alimentazione, perdere sette chili, rinunciare a una fetta di potenziale annichilente col diritto per diventare un giocatore più accorto e completo: più rovescio, che spesso assomigliava a un gesto da gioco della pignatta. Più slice, più volèe. E un preparatore atletico di prima fila, Doug Spreen, soffiato via all’ATP. Negli ultimi cinque anni tra i più volenterosi, disciplinati e motivati atleti del tennis sarebbe disonesto non infilare il nome di Roddick, che un giorno in Australia fulminò Spreen, incline a perdonargli una seduta di allenamento con un calore da microonde, ricordandogli che «non è tagliando il training che si vincono i tornei dello Slam». Questi, e altri episodi, come il falso storico del Roddick cavalier gentile che rinuncia alla vittoria pur di sanare un'ingiustizia, hanno contribuito a costruire una Rod-immagine non del

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tutto veritiera. Il capostipite di questi aneddoti è stato raccontato talmente a lungo da risultare difficilmente smentibile. Eppure basterebbe riguardarsi la partita: a Roma 2005, negli ottavi di finale, a Fernando Verdasco viene chiamato doppio fallo sul match point. Roddick guarda il segno, evita una camminata al giudice di sedia Carlos Bernardes, cancella la traccia della palla e dà il punto allo spagnolo, che finirà per vincere. In conferenza stampa Andy liquida l'episodio così: «Non credo di aver fatto niente di straordinario. Ho corretto una chiamata sbagliata e se l'arbitro fosse sceso avrebbe fatto la stessa cosa». Questo è stato Roddick: estroverso, chiaro, leale al suo codice che – attenzione – non sempre ha coinciso col manuale del perfetto gentiluomo. È doverso ricordare il poco rispetto per certi giudici di sedia, ritenuti non all’altezza o le battutine con gli spettatori in prima fila per commentare i colpi vincenti di avversari che, secondo il suo metro di giudizio, semplicemente non sarebbero stati degni di batterlo. La sua non è stata sportività a tutto tondo, ma amore per la sfida dura, con una certa affezione per la dignità mascolina della sconfitta. Un concetto molto yankee da utilizzare nel rapporto con il proprio sport. Il tennis ha dato a Roddick ciò che meritava? I conteggi non sono risolutivi. Delle tre finali perse a Wimbledon, manco a dirlo, la terza (2009) piange vendetta. Quella volèe alta di rovescio, sul 6-2 nel tie-break del secondo set, avrebbe contribuito in maniera decisiva a scrivere un’altra storia. Invece rimase a secco di titoli, con quella inutile lotta protratta per trenta giochi nel quinto set di fronte a un talento che sapeva essergli superiore in misura quasi offensiva, Federer. Lo stesso che gli soffiò la gioia dei Championships nel 2004 e 2005, con meno rimpianti. Un altro Slam toccato da vicino fu l’edizione 2006 di Flushing Meadows, un terzo set deciso da pochi punti, un quinto set non così lontano: ma anche là c’erano un migliore e un peggiore, e Roger è migliore per definizione. Parigi non è pervenuta. Melbourne? Per riconoscenza gli sarebbe spettata almeno una finale, quella del 2003. Invece A-Rod spese ogni goccia di energia per sopraffare Younes El Aynaoui 21-19 al quinto set e si arrese al più che fattibile Schuettler in semifinale. Giocò altre tre semifinali, in due occasioni Roger lo ridusse ai minimi termini, un’altra volta si fece prendere per stanchezza da Lleyton Hewitt.


301

RODDICK BY NUMBERS

anni. È nato nel Nebraska il 30/08/1982

5. Non è mai stata smentita la circostanza della loro conoscenza: Roddick guardava uno show alla Tv, la vide, chiese al suo (purtroppo defunto prematuramente) agente Ken Myerson di chiamare l’agente della Decker e di fargliela conoscere. La ragazza lo richiamò cinque mesi dopo, uscirono per una serata qualunque (pizza e cinema). Si sono sposati il 17 aprile 2009, con Sir Elton John ad allietare l’udito degli invitati.

Tutto sommato il bottino non è disonesto: cinque Masters 1000 in nove finali, ovviamente tutte sul cemento americano. Una primavera di fuoco, l’ultima, con la finale a Indian Wells e il successo a Miami 2010 che nessuno si aspettava più. Trentadue titoli nel complesso, l’ultimo a Eastbourne con lo sgambetto a Fognini in semifinale, a Seppi in finale. Ancora a Fabio Fognini è legato il suo ricordo nel congedo, l’ultima vittoria da professionista al terzo turno dello US Open, pochi giorni dopo aver utilizzato la data di un compleanno massimamente significativo – 30 anni, il 20 agosto 2012 – per chiamare a raccolta i cronisti e annunciare che si sarebbe ritirato alla fine del torneo. «Quest'ultima settimana è stata divertente. Mi sono sentito innocente come un bambino di dodici anni che gioca al parco», ha raccontato dopo aver raccolto la sacca e salutato per l’ultima volta la gente di New York, appena superato da Juan Martin Del Potro. «E ho amato ogni minuto di questa mia vita». La risposta ce la dà lui, insomma: ha avuto il suo, magari non nei modi e nei tempi sperati ma lo ha avuto. Adesso che – volendo - non ha più niente da fare, è giovane, ricco, sposato con una modella che pare amarlo al di là del fatturato e dello status, sa che non saranno comunque giorni facili. Lo ha detto fuori dai denti: si spengono le luci, la strada (in salita, sì, ma battuta) finisce e tocca, con tutti gli agi del mondo, costruirsi un motivo per cui svegliarsi al mattino con lo stesso entusiasmo di chi progetta di vincere uno Slam. In mente e sulla carta ha già uno Sports Learning Centre ad Austin, non un’accademia per professionisti ma un posto in cui i bambini possano avere le opportunità che papà Jerry e mamma Blanche, due signori della bassa borghesia di Omaha, gli hanno concesso. Dicono che i primi giorni da stella pensionata siano i più complicati, ma il punto di partenza potrebbe essere la consapevolezza di aver scelto il momento migliore e il torneo migliore per andarsene con dignità, invece di trascinarsi per un paio di stagioni da ombra del campione che fu. Nel suo primo giorno da uomo libero è andato in palestra e si è fatto beffe via Twitter di un tizio che sul tapis roulant si incitava a non mollare dopo cinque minuti di corsetta. Un altro modo per dire che il rischio di depressione, a casa Roddick, semplicemente non viene considerato.

TITOLI VINTI DEL GRAND SLAM, LO US OPEN

3 32 13 294,4 2003

FINALI PERSE A WIMBLEDON

TITOLI ATP VINTI IN CARRIERA

SETTIMANE DA NUMERO 1 DEL MONDO

45

match persi nei tornei del Grand Slam

km/h

131

del suo servizio più veloce (Coppa Davis 2004)

MATCH VINTI NEI TORNEI DEL GRAND SLAM Masters 1000 vinti (e 4 finali perse, tutte sul cemento americano)

5

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new balls, please

BORN IN THE

USA Per decenni gli Stati Uniti hanno dominato il tennis. Ora la situazione è ben diversa. Però le speranze di costruire nuovi top players non mancano. Ecco chi sono le rising star americane

taylor townsend Fra tutte, è il personaggio più intrigante. Per come gioca e per il suo aspetto. Cresciuta tennisticamente col papà di Donald Young e poi con Kathy Rinaldi al centro tecnico USTA di Boca Raton, fin da bambina gioca un serve&volley piuttosto atipico per i tempi moderni: «Sin da piccola non ho fatto altro che giocare volèe e i genitori di Donald mi hanno sempre incitato ad andare all’attacco». Una scelta coraggiosa, con un limite ben preciso: il fisico. Già, perché Taylor, 16 anni, pare una forzata dei McDonald's, una vorace appassionata di McFlurry, hamburger e patatine, al punto che la USTA ha cominciato a preoccuparsi. Oh, non per il suo tennis, ma per la sua salute. Forse spinti dalla campagna anti-obesità lanciata da Michelle Obama, il responsabile tecnico della federazione yankee, Patrick McEnroe, è intervenuto in maniera decisa: «Taylor ha un grande talento, ma deve lavorare sul suo fisico perché abbiamo paura possa causarle dei traumi. Ora vedremo come intervenire». Hanno cominciato negandole delle wild card e minacciandola di sospendere i contributi economici. È probabile che l'ottimo rapporto con coach Kathy Rinaldi possa sistemare la questione, perché la USTA non vuole perdere un talento come Taylor (vincitrice dell'Australian Open junior 2012) e al contempo la famiglia Townsend è consapevole che senza adeguati mezzi fisici sarà difficile ripercorrere le orme dell'idolo di casa: Serena Williams. 62


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new balls, please

harrison brothers

Gli americani, capaci di vendere ghiaccioli al Polo Nord, li hanno propagandati come se fossero la risposta maschile alle sorelle Williams. Ma se parlare di bufala (come nel caso di Donald Young) è prematuro, vi sono molti dubbi che questa copia di fratelli possa rappresentare il prossimo crack made in Usa. Soprattutto il fratello maggiore, Ryan, 20 anni, capace di vincere a 16 anni il suo primo match a livello ATP, mostra dei limiti tecnici che non sarà facile colmare. Se la prima di servizio è davvero buona, ci si chiede come possa diventare un top player con un diritto che non fa male, un rovescio da sei-meno-meno e un tocco di palla che te lo raccomando. Come qualità principale, resta ciò che spesso contraddistingue gli sportivi americani: una self-confidence spaventosa e la volontà di arrivare in cima a qualsiasi costo.Tuttavia, il concetto di volere è potere, nel tennis professionistico non è sempre applicabile. È possibile che abbia maggiori chance di successo il fratellino di 18 anni, Christian. L'abbiamo ammirato poco perché si cimenta ancora nei tornei Futures americani, snobbando i tornei juniores. Ma in doppio, allo US Open, proprio Christian ha mostrato una "mano" più talentuosa, seppur con uno stile di gioco che ricorda molto quello del fratello maggiore. Cresciuti alla corte di Nick Bollettieri, hanno un tennis che necessita di un'arma killer (generalmente dovrebbe essere il diritto) per essere efficaci e poter competere ad alto livello, visto che tocco, varietà e fantasia lasciano a desiderare. E chissà che il più giovane dei fratelli Harrison non possa imparare dagli errori del più grande.

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sloane stephens

Top 50 a 19 anni, non sarà l’erede di Serena Williams come qualcuno l’aveva frettolosamente definita, ma è già una bella realtà. La stessa Serena ne apprezza i modi gentili e delicati. Sloane tira la prima di servizio a 190 km/h e possiede uno dei diritti più potenti del circuito WTA, il tutto condito da un’ottima preparazione atletica. Dice che la sua superficie preferita è la terra rossa, forse perché risiede a Coral Springs, località della Florida dove anni fa si giocava un torneo ATP sulla terra (benché quella verde americana). Quest’anno ha raggiunto gli ottavi a Roland Garros ed è pronta per spiccare il volo. Come tante americane dalla pelle nera, pure lei ha una storia particolare alle spalle. Fino ai 13 anni di età, non ha avuto alcuna relazione con papà John; poi hanno iniziato a sentirsi telefonicamente ma lui, ex giocatore della NFL di football, è rimasto ucciso in un incidente stradale il primo di settembre del 2009. Indecisa se andare o meno al funeale in pieno US Open, la piccola Sloane scoprì su Internet che il padre era indagato per un presunto reato di violenza sessuale. La madre non gliene aveva mai parlato perché voleva che fosse fiera di lui, nonostante la separazione. Lei, mostrando grande maturità, decise di andare in Louisiana ai funerali pur restando in gara nwl torneo, dove comunque perse al primo turno. Già pronta fisicamente, allo US Open 2012 ha superato la Schiavone e si è fermata al terzo turno, ad un passo dal battere la Ivanovic. Ci sbilanciamo: nel 2014 sarà tra le prime 10, ma non è da escludere che ce la faccia già nel 2013.

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new balls, please

jack sock

Per sua sfortuna, gli americani sono abituati a John McEnroe e Jimmy Connors, a Pete Sampras e Andre Agassi. Qualcuno ha perfino storto il naso con Andy Roddick, figuriamoci con un John Isner, mentre se arriviamo a Sam Querrey scappa la risata. Eppure parliamo sempre di grandi giocatori. Però gli americani sono abituati all'élite assoluta e per questo il cammino di Jack Sock, 20 anni, appare roseo ma con tante spine da evitare.Al college ha realizzato un record di 80 vittorie e nessuna sconfitta per la Blue Valley North e, da wild card, nel 2010 ha vinto il titolo juniores allo US Open, come era riuscito dieci anni prima al suo conterraneo del Nebraska,Andy Roddick. Un infortunio agli adominali l'ha fermato all'inizio della stagione, ma si è ripreso durante l'estate americana raggiungendo il terzo turno allo US Open, dove ha dominato il nostro Flavio Cipolla e messo alle corde un top 10 come Nicolas Almagro. Sock è il classico americano cresciuto sui campi in cemento, dotato di due colpi mortiferi, servizio e diritto, e di uno monco, il rovescio. Però la combinata servizio-diritto è davvero impressionante, anche se rapportata ai top players attuali. Quel che preoccupa è un fisico che non appare da perfetto atleta. I chili di troppo si vedono eccome, anche se (e ancor di più per questa ragione) sorprende la sua velocità nel girare intorno alla palla per colpire quasi sempre col diritto. Ryan Harrison gode di ottima pubblicità e un buon ufficio marketing, ma se dovessimo scommettere su quale giovane americano sarà in grado di arrivare nella top 10, diremmo certamente Jack Sock.

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mallory burdette

«Sono la giocatrice più amata dagli organizzatori». Ora, non è una bellezza come Maria Sharapova e nemmeno un talento alla Justine Henin: quindi? Beh, semplicemente per il suo status di giocatrice di college (e quindi non professionista), Mallory Burdette, 21 anni, è costretta a restituire agli organizzatori tutto il montepremi che guadagna. Circa 100.000 dollari nella sola estate americana, grazie soprattutto al terzo turno raggiunto allo US Open, dove ha battuto una top 50 come Lucie Hradecka, prima di perdere contro la Sharapova. Nonostante il livello di gioco suggerisca un immediato passaggio al tennis professionistico (che garantirebbe premi, ingaggi e sponsor), la Burdette ha deciso di tornare all'università per studiare psicologia. Ovviamente, senza abbandonare il tennis. Anzi, psicologia è probabilmente un indirizzo che potrebbe tornarle utile nel prosieguo della sua carriera. Va ricordato che nel 2012 ha vinto il titolo NCAA di doppio in coppia con un'altra promessa americana, Nicole Gibbs, che l'ha poi sconfitta nella finale del torneo di singolare. Sempre quest'estate, ha dominato due tornei ITF ma ha anche perso 6-3 6-0 contro Madison Keys, che ha quattro anni in meno di lei: un confronto che ha fatto riflettere i tecnici americani sulle reali potenzialità delle due giocatrici. In sostanza, non si crede che la Burdette possa essere giocatrice con un futuro da top 10, ma possa rappresentare un buon rincalzo dietro che Big Hope yankee, quali la Keys, la Stephens e la Townsend.

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new balls, please

steve johnson

72 vittorie e nessuna sconfitta. È questo il bilancio di Steve Johnson, 22enne californiano, nel tennis NCAA, quello delle Università statunitensi. Quest’anno ha vinto il torneo individuale per il secondo anno consecutivo e ha aiutato la franchigia degli USC Trojans ad aggiudicarsi il titolo a squadre per la quarta volta. Adesso si è tuffato nel circuito professionistico e i risultati non sono male: con il terzo turno allo US Open è entrato tra i top 200 e prosegue in una scalata che lui vorrebbe concludere vincendo uno Slam. Intanto ha imparato a non rimanerci troppo male dopo ogni sconfitta. Già, perché all’Università non perdeva mai e l’approccio con i professionisti nascondeva più di un’insidia. «Sapevo che all’inizio avrei perso tante partite. In realtà non è stato un passaggio traumatico». Dave Benjamin, ammistratore delegato della Intercollegiate Tennis Association, è convinto che possa entrare tra i primi 20 e approva la scelta di restare dilettante fino all’ultimo. «Ormai i tennisti raggiungono il top intorno ai 25-26 anni, quindi ha tutto il tempo. E poi, al college, aveva addosso una pressione pazzesca e l’ha gestita alla grande. Questo lo aiuterà tra i professionisti». Lui si allena a Carson, in California, in uno dei centri tecnici USTA. Lo segue coach David Nainkin e stanno lavorando duro sul rovescio. «Non è un punto debole, ma nemmeno un punto di forza. Ma non chiedetemi di lavorarci sopra 7-8 ore al giorno!». Dopo Raymond, Pernfors, Devvarman e Isner, avremo l’ennesimo campione forgiato dall’Università?

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madison keys

Il World Team Tennis è una divertente baracconata ma è anche il luogo in cui Madison Keys si è fatta conoscere la prima volta. Era il 13 luglio 2009 e battè Serena Williams, reduce dalla vittoria a Wimbledon. Aveva 14 anni. Significato tecnico? Non eccessivo. Potenza mediatica? Enorme. Da allora, gli americani si attendono parecchio da questa ragazza che si allena a Boca Raton, presso l’Accademia diretta da Chris Evert.A maggior ragione dopo che è diventata una delle più giovani di sempre a vincere un match WTA (aveva 14 anni e 48 giorni quando superò la Kudryavtseva a Ponte Vedra Beach). Oggi ha 17 anni ed è già numero 150 WTA.Allo US Open ha superato le qualificazioni e ha perso al secondo turno: un pizzico di oblio le farà bene dopo il bagno di popolarità degli anni scorsi. Il suo è un classico tennis di pressione da fondocampo, forgiato dagli allenatori Adam Peterson e Ola Malmqvist. È una ragazza di poche parole, ma abbastanza per raccontare il suo curioso avvicinamento al tennis. Aveva 4 anni e fece un salto in camera dei suoi genitori. C’era la TV accesa, con Venus Williams impegnata a Wimbledon. Non venne colpita dalla qualità di Venus, ma dall’eleganza dei suoi abiti. «Mi dissero che se avessi iniziato a giocare, mi avrebbero comprato quel vestito». Tempo fa, Chris Evert ha detto che sarebbe diventata il nuovo grande personaggio del tennis americano. Papà Rick tiene i piedi per terra e sottolinea che la figlia ha potuto giocare perché i genitori – entrambi avvocati – gliel’hanno potuto permettere. «Senza soldi non puoi neanche iniziare. E tanti neri sono senza soldi».

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new balls, please

dennis novikov

Imitando James Blake e John Isner, Dennis Novikov ha rinunciato a tuffarsi nel professionismo per dedicarsi alla carriera universitaria.Vuole costruirsi una corazza ed essere pronto quando farà il grande salto. Si allena presso la UCLA con coach Billy Martin e ammette: «Sono maturato molto e adesso sono pronto per migliorare il mio gioco. Ho scelto di non diventare professionista perché non mi sentivo maturo. Continuerò a giocare per il college, forse non per quattro anni, ma chi lo sa...». Deve ancora compiere 19 anni e si è qualificato per lo US Open vincendo i Campionati Under 18 americani, sia in singolo che in doppio. A Flushing ha passato un turno e ha lottato alla pari con Benneteau. Il ragazzo gioca bene, il sangue russo si vede nel suo stile, ma deve migliorare fisicamente e nella tenuta mentale. La potenza è già ai massimi livelli. Si è stabilito in California da bambino, e della West Coast ha preso le abitudini rilassate, a partire dalle feste in spiaggia. Doveva giocare a hockey, ma è stato folgorato dal tennis quando ha visto il padre allenare il fratello maggiore Nikolai. Meglio la racchetta della mazza. Gli americani lo hanno già inserito nel dibattito The Next Big Thing, dove si pronosticano i campioni del futuro. Lui ha già pianificato tutto: vuole entrare nei primi 200 entro due anni e ha scelto il 2017 come scadenza per entrare tra i top ten. Ma per adesso è tempo di tornare sgobbare tra i libri e i campi assolati della California. Senza disdegnare qualche uscita in surf o passeggiata a Rodeo Drive.

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victoria duval

Dovrà ottenere grandi risultati per non essere ricordata soltanto per il suo passato. Figlia di haitiani, si è spostata negli Stati Uniti a 8 anni di età dopo essere scampata a una rapina a mano armata con tanto di ostaggi. Prima di spostarsi ad Atlanta, è transitata nel campionificio di Nick Bollettieri. Il guru in persona si è espresso positivamente nei suoi confronti: «Deve essere più coraggiosa con il servizio, ma ha già ottimi colpi da fondocampo e la giusta aggressività». È cresciuta nel mito di Kim Clijsters e ha avuto la fortuna di incontrarla allo US Open, per i quali si è qualificata vincendo i Campionati Nazionali Under 18. Sogna di vincere un paio di Slam, ma è troppo presto per darle etichette. Deve ancora compiere 17 anni e fisicamente si deve ancora formare. È piuttosto gracile, piccola e magrolina. Quando il suo fisico sarà in grado di supportare l’istinto e il talento, capiremo dove potrà arrivare. Contro la Clijsters ha esaltato per 20 minuti, vincendo tre giochi di fila. Un po’ poco per giudicarla, abbastanza per capire che può diventare un personaggio, anche per il background che comprende la tragica storia del padre, scampato per miracolo al terremoto di Haiti e sopravvissuto grazie all’aiuto economico di una famiglia americana che si è accollata le spese per farlo curare in America. A New York è uscita dal campo con una sincera standing ovation del pubblico. Negli anni a venire potrebbe succedere ancora.

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CHE FINE H A N N O FA T T O GLI SVEDESI? NEGLI ANNI 80 E 90, SEGUENDO LE ORME DI BJORN BORG, LA S V E Z I A D O M I N AVA I L T E N N I S . O R A N O N H A U N G I O C AT O R E N E I P R I M I 300 DEL RANKING MONDIALE. COSA È SUCCESSO?

DI MARCO BUCCIANTINI

I N A LT O D A S I N I S T R A , J O N A S B J O R K M A N , B J O R N B O R G , S T E F A N E D B E R G , T H O M A S E N Q V I S T, A N D E R S J A R RY D , R O B I N S O D E R L I N G , M A T S W I L A N D E R , T H O M A S J O H A N S S O N E J O A C H I M J O H A N S S O N . T U T T I S O N O E N T R AT I N E L L A T O P 1 0 . AT T U A L M E N T E L A S V E Z I A N O N H A U N G I O C A T O R E C O M P R E S O N E I P R I M I 3 0 0 D E L R A N K I N G A T P.

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CI SONO GIORNI SCONOSCIUTI E REMOTI DOVE ACCADE Q UA L C O S A C H E S E M B R A M A RG I NA L E, TRASCURABILE. E INVECE. Come quel pomeriggio a Washington, anni quaranta, quando un ragazzotto alto, magro, spettinato e appassionato di baseball si presentò al campo dei Senators. Gli osservatori avevano organizzato un provino per cercare un lanciatore capace di rimpolpare la rosa della prima squadra. Quel tipo venne scartato: «Hai il braccio troppo debole, ragazzo: la Major League non fa per te. Trovati un altro mestiere e gioca a baseball nei week end». Era Fidel Castro. È una leggenda mai confermata, né smentita. E comunque – rincasato ai Caraibi – Fidel un altro lavoretto che lo tenesse occupato l’ha trovato: lo avessero “assunto”, gli Stati Uniti si sarebbero evitati una seccatura che li ha angosciati per mezzo secolo. Un altro pomeriggio – erano gli anni sessanta – un ragazzo altrettanto magro, alto, biondo e appassionato di ping pong vinse un torneo giovanile e dilettantesco dalle parti di Stoccolma. Il padre lo premiò con una racchetta anch’essa di legno ma di dimensioni cresciute: per giocare uno sport più ampio, il tennis. Bjorn Borg ne fu felice, perché quando vedeva i “grandi” giocare a tennis al circolo, si fermava e sognava. Subito volle provare il nuovo utensile. Sapeva maneggiarlo. Andò al centro giovanile federale, dove avevano programmato un corso di perfezionamento per i dieci ragazzi più abili. Ne osservarono un buon centinaio, poi li scelsero uno alla volta. Dopo un confronto di opinioni, il decimo posto – l’ultimo – fu per Bjorn: altro che la mostruosa macchina sparapalle di Agassi, costretto al mestiere di tennista. La carriera dell’immenso Borg s’innesta su due episodi assai casuali. Questi due datati ricordi furono l’origine di due ere: il mito dei comunisti irriducibili di Cuba, e quello dei tennisti invincibili di Svezia. Nonostante la precaria salute di Fidel Ca-

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stro, e la consunzione del suo regime, quello messo peggio, più che moribondo, è il tennis scandinavo. Nessun giocatore nei primi 400 del mondo, i primi due in classifica sono curiosamente appaiati al 416esimo posto, con i medesimi, miserrimi 89 punti Atp: Micheal Ryderstedt – con un passato vagamente migliore – e lo sconosciuto Patrik Rosenholm, del quale il sito ufficiale dei professionisti non possiede neanche la foto. Nessuna presenza svedese nei tornei importanti (Slam, Master 1000) di questo 2012, nessun giovane promettente. Niente. La squadra di Davis, da anni aggrappata a Robin Soderling e allo stoico Andreas Vinciguerra, e dunque adesso orfana, non ha più argomenti per restare nel gruppo A: negli spareggi il Belgio decreterà questa realtà. Un breve riassunto numerico per capire quanto si è perso: la Svezia non ha tradizioni profonde in questo sport. È una penisola immensa di appena 9 milioni di abitanti, cresciuti con altri passatempi: l’hockey, il calcio, l’atletica, la pallamano. Il tennis nasce con Borg, ma poi diventa un marchio di fabbrica: 25 titoli dello Slam (11 Borg, 7 Wilander, 6 Edberg, 1 Thomas Johansson), tre giocatori arrivati al numero 1 del mondo (quei tre, ovviamente), un paio di campioni mancati, da Nystrom a Soderling, molto sfortunati, di talento superiore al fisico. Poi anche – in ordine cronologico, e tutti nei primi 10 del mondo – Henrik Sundstrom, che giunse al numero 6, e batté McEnroe nella finale di Davis del 1984, una cosa immensa dacché Mac nella sua miracolosa stagione perse appena tre partite. Poi Anders Jarryd (fu numero 5), piccoletto d’attacco, grandissimo doppista. E il satanasso Kent Carlsson, l’epigono di Borg, l’esasperazione della novità del diritto liftato, colpito dal basso verso l’alto. Durò poco, il “mulo” Carlsson, perché si logorava nelle sue battaglie e aveva ginocchia e tendini fragili, che lo costringevano a giocare (e vincere) solo sulla terra battuta. Fu 6 del mondo, giocando solo poche


stagioni, e mutilate. Suoi contemporanei, meno pugnaci ma capaci di una finale a Roland Garros (Mikael Pernfors, numero 10 della classifica) e Jonas Svensson, più elegante ma anche meno esplosivo, comunque due volte semifinalista a Parigi, dove in un giorno di grazia dominò anche Ivan Lendl. Questo il gruppo degli anni ottanta. Nel 1992, allo US Open, Edberg trovava il suo ultimo, meraviglioso, titolo dello Slam: si chiudeva un’era, anche estetica. In Svezia non lo immaginavano, perché continuavano ad arrivare Coppe Davis in serie (alla fine saranno sette in due decenni), ma a quell’ultimo fuoco di Stefan avrebbero dovuto riscaldarsi a lungo: s’inaugurò un decennio diverso, con un discreto gruppo di svedesi di alto livello, ma nessuno della stoffa dei tre grandi – Borg, Wilander, Edberg: i protagonisti (capaci comunque di arrivare nei primi 10 del mondo) furono (sempre in ordine cronologico) Magnus Gustafsson, che colpiva il diritto come se avesse da spaccare il mondo, cavandone una traiettoria aperta, velocissima.Vinse per molti anni, ma nel 1991 sembrò a momenti ingiocabile. Poi passò Magnus Larsson, talentuoso peso massimo dai piedi piatti, capace di soluzioni estrose, grande produttore di punti dolci come carezze e lunghe pause agonistiche. Questa alternanza lo portò comunque al numero 10. Meglio fece Thomas Enqvist, attuale capitano della squadra nazionale. Rivale del nostro Andrea Gaudenzi a livello giovanile, riuscì a confermare le aspettative da professionista: ebbe un rendimento costante, senza troppi picchi, e fu numero 4 del mondo dopo la finale – persa – all’Australian Open del 1999 contro Yevgeny Kafelnikov. L’anno dopo la Svezia presentò un nuovo finalista di Slam, Magnus Norman, forse il meno dotato della compagnia, eppure così tignoso da arrivare al numero 2 del mondo. Sprecò una buona chance a Roland Garros, in finale contro Guga Kuerten: ebbe una palla per allungare al quinto set la finale. L’occasione fece

invece grande Thomas Johansson, che incastonò dentro una carriera normale, la sua perla australiana: vittoria nel primo Slam dell’anno 2002, contro Marat Safin. Era troppo, per lui, e non poté confermare il successivo numero 7 del mondo. Dieci anni si contano fra l’ultimo Slam di Edberg e la vittoria di Johansson, che rimane l’ultima della Svezia. Nei successivi dieci anni, fino dunque al presente, tre altri atleti sono stati in grado di ricordarci la presenza degli scandinavi in questo sport: l’attaccante Jonas Bjorkman, che in doppio ha trovato le sicurezze per essere anche un signor singolarista, capace di elevarsi a numero 4 del mondo. Il suo tennis cercava la rete, dove era più muscolare che fine, più scimitarra che fioretto, e comunque difficile da contenere. Mai quanto Joachim Johansson, che pareva iradiddio: grande, grosso, potente, eppure capace anche di tenere lo scambio, e di battere Roddick (allora campione in carica) in una memorabile partita allo US Open: aveva 21 anni e sembrava possedere il futuro, che gli scivolò dalle mani, ingiusto, infame. A 23 anni era già un ex tennista, un atleta perduto. È durata di più, ma non ha assaporato la saggezza, la carriera di Robin Soderling. Serve qualche riga in più: per la sua atipicità di svedese mediterraneo, focoso – spesso – lunatico e un po’ stolto. Anche il gioco (seppur moderno) era diverso da qualsiasi impronta, né nipote di Borg, né parente di Edberg. Un prototipo capace di battere tutti, quand’era in giornata buona. Il suo quarto posto in classifica (e le sue due finali a Parigi) valgono un po’ di più delle carriera prima grossolanamente analizzate: era quarto, d’accordo, ma dietro a Federer, Nadal, Djokovic: tre fenomeni. Si è distrutto il fisico, le articolazioni, i tendini per eccesso di lavoro e per non sapersi fidare degli altri (secondo il suo allenatore a noi più caro, Claudio Pistolesi). Si è talmente consumato che la mononucleosi ha potuto fiaccarlo fino alla resa. Questa è stata la Svezia del tennis. E qualcosa d’altro che è

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rimasto fuori per sintesi (Nicklas Kulti, per esempio, grande promessa mancata, leggendaria una sua sconfitta con Arnaud Boetsch in Davis, o Vinciguerra, che aveva fiato e voglia per fare molto, ma non la fortuna). Questa è stata, e non è più. Come sia stato possibile disperdere tutto quel patrimonio, e finire in una stagione opposta, è un’analisi complessa che conviene fare risalendo la corda da diverse cime. Loro, i protagonisti di quegli anni irripetibili, non hanno risposte, ma le cercano. Qualcuno si rifugia nell’ironia, come Thomas Johansson, che così rispose al collega Ubaldo Scanagatta: «Il tennista svedese più forte oggi è …decisamente Enqvist, nonostante i suoi 38 anni. E forse Edberg (46 anni) è il numero 2 e metterei Wilander (48 anni) sul podio. Se mi allenassi seriamente penso che potrei essere il numero 4 di Svezia e forse Bjorn Borg (56 anni) potrebbe essere il numero 5». Non stava scherzando. E per quanto riguarda Enqvist, lo stesso Borg poteva serenamente dire che «batterebbe ogni altro giocatore della nostra nazione. Alla federazione mancano i mezzi. Non ci sono soldi per pagare i migliori tecnici, né per creare strutture capillari per far giocare i ragazzi. È diventato difficile anche organizzare tornei», se è vero che sono rimasti Baastad e Stoccolma, quest’ultimo pallida copia del grande torneo che è stato per molti anni: si è perfino auto declassato passando dalla Globe Arena alla Kungliga Tennishallen, dimezzando il montepremi e l’appeal. Testimoniando, soprattutto, la fuga degli sponsor che potevano surrogare una federazione in perenne crisi economica. Qualche dato assoluto, raccolto dall’Equipe, conferma il pessimismo di Borg: su 9 milioni di abitanti, i praticanti occasionali sono 500mila, e i tesserati 100mila. Non è un rapporto di nicchia, anzi, è in linea con gli altri paesi europei, ma i club nei quali giocare sono appena 500, e il budget complessivo della Federazione per finanziare e aiutare tutta l’attività – dal vertice alla base – è di un milione di euro: un decimo rispet-

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to alla Francia, per citare il termine di paragone offerto dal quotidiano sportivo parigino. Dicevamo della crisi finanziaria della federazione, confermata da tutti gli ex campioni, che potrebbero fare molto e non si tirano indietro. Escluso Borg, troppo dispersivo negli anni successivi all’agonismo per essere anche utile, ma storicamente decisivo per la sua dirompente apparizione nel tennis mondiale e per il seguito suscitato, il ruolo di quel gruppo di campioni prima elencato è generoso, perfino resistenziale. Edberg foraggia una fondazione che aiuta economicamente i giovani tennisti, gli altri sono divisi fra i due fuochi - Baastad e Stoccolma – attorno ai quali strepita ancora l’attività. Sulle rive del Mar del Nord, c’è quel che resta del glorioso centro tecnico della federazione, che arruola anche Jarryd e Larsson, oltre ovviamente al capitano della Davis, Enqvist. Seicento chilometri più distante (e le distanze non sono mai innocue) nella capitale, sulla sponda del Baltico, al centro Salk, Norman, Tillstrom e Kulti hanno invece tentato la carta dell’accademia privata: con loro a Stoccolma si allenano 25 ragazzi, selezionati fra quelli con maggiori possibilità tecniche. Mats Wilander ha preferito fare l’ambasciatore mediatico: è il volto di Eurosport e fa il battitore libero. Le sue parole sono schiette e interessanti: «Abbiamo avuto due giocatori diversi, l’antitesi l’uno dell’altro, Borg ed Edberg (lui, modestamente, si sottrae, ndr). Entrambi erano ambasciatori di uno stile, per questo sapevano emozionare e imprimevano nei ragazzi il desiderio di emulazione. Dopo di loro non abbiamo più avuto tennisti così riconoscibili per l’immaginario collettivo». La mancanza del traino è una teoria sempre valida, ma parziale. Wilander entra poi nello specifico dell’ultimo decennio: «Abbiamo allevato giocatori, e non atleti. Vinciguerra, Soderling, Joachim Johansson… tutti bravi, ma fragili. Oggi, in qualsiasi sport, si costruisce il fisico di pari passo con la tecnica: i nostri tennisti sono atleti poco dotati, dunque la loro carriera


CRISI PROFONDA

Il grafico mostra il crollo di rendimento dei giocatori svedesi ed è ottenuto facendo la somma della classifica dei primi tre giocatori al termine delle ultime 25 stagioni (ranking del 10 settembre per il 2012)

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tennistica non può essere pari al loro talento». Torniamo ai dati assoluti, meno opinabili. Come i bilanci sparagnini che non permettono di tenere in patria i due tecnici più quotati, Lundgren e Hogstedt, i “cervelli in fuga”. O la mancanza di campi in un Paese che si allunga e si estende moltissimo, e taglia fuori intere città dal giro di questo sport, che gravita – appunto – attorno ai due suddetti poli.Ai tempi di Borg, tutti i ragazzi nati fra il 1960 e il 1970 (quella che poi diventerà la generazione fenomenale e vincente degli anni 80) si allenavano fra le 5 e le 8 del mattino, prima di andare a studiare. Solo in quello spazio di tempo – poco bazzicato dai soci – i circoli liberavano i campi per le scuole tennis. Sembrava una necessità per fronteggiare l’esplosione dei praticanti, legata alla fama e alle vittorie di Borg, ma trent’anni dopo la situazione è identica se è vero che Norman lamenta l’impossibilità di far palleggiare i suoi allievi con continuità: «Non ci sono mai campi liberi, nemmeno a Stoccolma!». Pochi campi, poche ore di scuola, quindi pochi coach e ancor meno quadri dirigenti. Eppure è con queste persone che si costruisce una generazione di buoni giocatori. La Salk accoglie i ragazzi con un motto americaneggiante: Good to Great. Da buono a grande. Promette al giovane di belle speranze il salto di qualità, come dovrebbe fare ogni accademia. Ma se poi mancano i campi di allenamento... «Ci siamo accorti troppo tardi che non potevamo campare di rendita solo per il miracoloso fatto che questo Paese aveva avuto tre giocatori numeri 1 del mondo» ammette Norman. La sua scuola è diretta da Johan Posborn, ex addetto stampa della federazione, che solleva un’ulteriore questione: «I media sono spariti. Nessun giornalista segue più i tornei, da anni. Il giorno in cui Johansson vinse l’Open d’Australia a Melbourne, erano accreditati appena due inviati, e uno non si presentò».Tobias Osterberg c’era, per l’agenzia Tt: «Già allora era evidente che potevamo sperare solo in singoli exploit. È bastato poi

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tenere sott’occhio le competizioni giovanili: un deserto. Mi chiedo come sia stato possibile lasciare incolto questo terreno, per così tanto tempo». Il direttore tecnico della scuola di Baastad è Johan Sjogren, figlio del primo coach di Wilander. Se l’ex campione è cupo, lui è peggio: «Altro che i biblici sette anni di vacche magre, il tempo che servirà a ritrovare tennisti di livello sarà almeno doppio. È stato sprecato troppo tempo, che non recupereremo più. C’è una statistica ferale: nel primo ciclo scolastico (dai 7 agli 11 anni) il tennis è il secondo sport per praticanti. Ma a 14 anni il 90% di questi ragazzi lo ha abbandonato. I pochi che restano appassionati si confrontano con modelli e schemi di allenamento invecchiati. Ci siamo dimenticati dell’evoluzione tecnica del gioco». Questa è una storia importante, con curve epiche e struggenti (le sfide di Borg e McEnroe, le volée indimenticabili di Edberg), scritta per il benevolo sguardo del fato, che lasciò un posto – l’ultimo, il decimo – per il biondino con la racchetta di legno appena regalata dal padre. Questi sono numeri enormi ridotti alla burletta: da cotanti campioni a giocatori che sudano in campetti sconosciuti per tenersi intorno al numero 500 del pianeta, quand’anche Cipro, la Colombia, Taipei e il Lussemburgo hanno tennisti fra i primi 100. Questa è un raccolto bruciato dalla grandine, arrivata senza che nessuno ne intuisse la caduta. Un deserto, una beffa, come quando il dirigente della federazione spagnola (scuola che ha senz’altro tradizione più radicata e che sta dominando l’ultimo decennio così come gli svedesi facevano vent’anni prima) si è recato in visita al centro tecnico federale di Baastad riempendo di curiose domande i dirigenti. Quando loro gli chiesero il perché della visita, lui rispose: «Volevo capire cosa era successo. Per evitarlo, fare il contrario e non rischiare di sbagliare tutto».

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I racconti di Cino Marchese

MATS WILANDER

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FUORICLASSE, SVEZIA, 48 ANNI

vevo da poco iniziato una collaborazione con la Società Cerutti 1881 Sport e uno dei miei primi incarichi fu di andare a fotografare Jimmy Connors che aveva accettato di vestire quel marchio. Era il mese di agosto e avevo preso un aereo da Roma per Bologna dove il fotografo Angelo Tonelli mi avrebbe raccolto e insieme saremmo andati in Francia e precisamente a Cap d’Agde dove si svolgeva una ricchissima esibizione, Le Carrè d’As. L’organizzatore era uno strano tipo, Renè Genestar, originario di quelle zone nel sud della Francia. Le allestiva nelle plaza de toros francesi, un surrogato di quelle spagnole dove la corrida non finiva con la morte del toro, proibita da quelle parti. Prima però era in programma la tappa a Nizza che invece si svolgeva in maniera tradizionale. A Nizza in quei giorni si svolgeva anche il Campionato Europeo under 14, 16 e 18 e quindi un’occhiatina era in programma. Eravamo partiti da poco quando sentimmo un boato enorme proveniente dalla città che poi scoprimmo essere il tremendo attentato terroristico alla stazione di Bologna. Arriviamo a Nizza verso l’ora di pranzo e ci sistemiamo in albergo e poi di filato al club vicino l’aeroporto. Non era il solito magnifico Parco Imperiale dove si svolgeva il classico torneo prima di Montecarlo, ma un Club piuttosto squallido con i campi in cemento che per quegli anni e da quelle parti era un fatto piuttosto inusuale. Quell’anno, il Campionato Europeo era davvero eccezionale perché nella categoria under 14 erano presenti Stefan Edberg e Steffi Graf e in quella under 18 Thierry Tulasne, Henri Leconte, Hans Simonsson (che poi vinse) e Jan Gunnarson, solo per citare le eccellenze. Qualcuno però mi aveva consigliato di andare a vedere Mats Wilander, impegnato tra gli under 16, e che io non conoscevo. Quel pomeriggio giocava la finale con Hans Jurgen Schwaier, un tedesco quotato che invece già conoscevo. Mats non è un giocatore vistoso che subito ti impressionava, ma io vidi in quella sua espressione una intelligenza unica e una sicura dote per diventare un giocatore. Mi ricordo che vidi tutto il match che lo svedese vinse con discreta

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facilità. Fin lì niente di speciale perché era un favorito, ma intravedere in lui qualcuno che poi sarebbe diventato un campione, ce ne passa. Tuttavia, ebbi quella impressione e mi ricordo che telefonai subito a Peter Worth, di IMG e manager di Borg, perché mandasse qualcuno a parlare con la famiglia e cercare di metterlo sotto contratto. Avevo iniziato anche la mia collaborazione con la multinazionale del management dello sport, la IMG appunto, che poi è diventata la società con cui ho lavorato per tanti anni. La mia intuizione per il talento nascosto di Wilander mi ha fruttato molto rispetto e considerazione nella capacità di individuare un giovane campione e Ian Todd, che è stato poi il mio capo, pretendeva che io mi concentrassi su questa attività. Per le società di management, questo aspetto è basilare e saper individuare il futuro campione quando è ancora un bambino non ha prezzo. Ovviamente pretesi anche che diventasse un testimonial Cerruti e l’allora direttore Enrico Frachey, dopo quella volta credeva ad occhi chiusi in me e mi seguì per il resto della sua carriera che lo vide tornare in Fila e spingere l’azienda biellese ai suoi massimi livelli. Con qualche difficoltà riuscimmo a firmare il contratto con Mats e io subito gli offrii una wild card al torneo di Palermo dell’anno successivo che servì non poco a convincere la famiglia a firmare con noi. A essere onesti non avrei mai immaginato che dopo due anni Mats avrebbe vinto il Roland Garros battendo Vilas in finale, ma come vi ho detto avevo visto nei suoi occhi lo sguardo del campione. Mats non era un giocatore spettacolare, ma sapeva sempre fare la cosa giusta nel momento giusto, senza strafare, ma con la determinazione e la lucidità che serve quando sei sotto pressione. A tal proposito, mi ricordo della sua finale allo US Open del 1988 quando ebbe la costanza e la lucidità di far giocare Lendl per più di quattro ore in un metro di campo e di non fargli tirare mai il diritto. A quei tempi, Lendl sul cemento era quasi imbattibile, eppure Mats riusciva a farlo giocare male o per lo meno in una maniera che lui non gradiva. L’unico che riusciva a mandare Mats al manicomio era Miloslav Mecir, Ricordo che a Roma, nel 1985, Mats era la stella per la rinascita degli Internazionali che eravamo riusciti ad accaparrarci e io avevo puntato molto su di lui. In semifinale incontra Mecir e io ero abbastanza tranquillo mentre intrattenevo degli ospiti


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I racconti di Cino Marchese al Villaggio quando mi arriva la notizia che Mats aveva perso facile, 62 64. Imbestialito, vado negli spogliatoi per vedere cosa era successo e mi trovo davanti Mats sconsolato e deluso, ma anche in quella occasione lucido e cosciente. Mi disse:«Tu non puoi sapere questo come gioca! Sembra lento e macchinoso e invece arriva sulla palla un quarto d’ora prima, ti guarda e mette la palla dove la puoi solo guardare. È un fenomeno, credimi». Per sua fortuna, Mecir ebbe molti problemi fisici e si ritirò presto, perché quando Wilander lo incontrava perdeva prima di scendere in campo. Mats è una persona squisita, leale e sincero e molto grato a chi nella vita gli ha dato qualcosa. Vi voglio raccontare un episodio che simboleggia tutto questo. Eravamo nel suo anno magico, il 1988, quando vinse tre Slam su quattro e aveva accettato di venire a Palermo, perché mi aveva promesso che in cambio di quella wild card ricevuta all’inizio della sua carriera, sarebbe tornato da numero uno al mondo. Le cose andarono esattamente così perché vincendo lo US Open aveva scalzato Lendl ed era diventato il number one. Io avevo una paura tremenda perché temevo che lo sforzo fatto lo consigliasse a rinunciare e dalla Sicilia telefonavo ogni momento al suo manager, Jean Noel Bioul, per assicurarmi che sarebbe venuto. Finalmente arrivai a Palermo da Bari: prima di compilare il tabellone (che quell’anno era a 48 giocatori) mi ero raccomandato di tenere lontano da Wilander l’unico giocatore pericoloso non compreso nelle teste di serie, Marian Vajda, che aveva vinto la settimana prima il torneo di Ginevra battendo

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in finale Kent Carlsson, uno dei migliori terraioli di quell’epoca. Alla compilazione del tabellone ero ancora a Bari, ma ero ansioso e sempre attaccato al telefono. Il Giudice Arbitro era Vincenzo Bottone, assistito da Vittorio Selmi per il sorteggio. Si comincia: Wilander aveva un bye e poi avrebbe dovuto giocare contro il vincente tra un qualificato e... Vajda! Buttai per aria il telefono e recuperandolo dissi loro che erano degli incapaci e dei buoni a nulla! Avevo chiesto che non ci fosse Vajda dalle parti di Mats e loro chi estraggono come primo avversario? Vajda. Ancora più preoccupato, arrivai a Palermo e andai all’aeroporto ad accogliere Mats. Lì per lì non mi sembrava il solito Mats: lo vedevo stanco e molto stressato. Era venuto a Palermo con un musicista, amico di sua moglie Sonja, anche lei prevista a Palermo per il week end. Li sistemai a Villa Igea. Mats aveva con sé la chitarra e per due giorni lo sentii solo suonare; di allenarsi non se ne parlava. Immaginatevi come stavo. Per mia fortuna, il secondo giorno arrivò Vajda e perse al primo turno da un tedeschino. Notizia più gradita non era possibile. Infatti il mercoledì sera, con le tribune strapiene e i cancelli chiusi, un lontano parente del Mats Wilander numero uno del mondo, regolò la pratica e da lì in poi recuperò anche la condizione, sconfiggendo Franco Davin, Claudio Panatta, Guillermo Perez Roldan e Kent Carlsson in finale. Fu un trionfo, ma quanta pena, forse inutile perché Mats nella sua vita ha sempre saputo cosa doveva fare, in maniera sempre leale e sincera con chi sapeva meritare la sua fiducia.


Mats Wilander è nato a Vaxjo (Svezia) il 22 agosto 1964. In carriera ha vinto sette Grand Slam (tre Roland Garros, tre Australian Open e uno US Open). È stato numero uno del mondo nel 1988 quando realizzò tre quarti di Slam. Squalificato per positività ad un test anti-doping a Roland Garros 1995 (cocaina), è stato capitano della Davis svedese, coach professionista e ora opinionista per il canale Eurosport.

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INT ERVI STA

I TALENTI DI M 82


MISTER GULBIS 83


In molti lo considerano il nuovo Marat Safin. Con la non trascurabile differenza che Ernests Gulbis non ha mai vinto un titolo del Grand Slam. Però è riuscito a spaccare 70 racchette in un anno e a passare una notte nelle galere di Stoccolma per aver adescato una prostituta. Ecco perché dice che «Federer sarà pure un fenomeno. Ma diamine quanto è noioso!» INTERVISTA DI Lorenzo Cazzaniga Bisti - PHOTO BY Clive Brunskill / Getty Images Ho conosciuto Ernests Gulbis per televisione. Commentavo per Eurosport la sua prima semifinale ATP da San Pietroburgo, persa contro Mario Ancic. Era il 2006. Lo ritrovo in un bar di Umago, dopo una bella nuotata in mare. Sei anni prima ero convinto d’aver scovato un fuoriclasse, ora mi ritrovo davanti il numero 152 della classifica mondiale, incapace di vincere qualcosa di importante, a parte due non indimenticabili tornei a Delray Beach nel 2010 e a Los Angeles nel 2011. Nei tornei dello Slam ha raggiunto un quarto di finale a Parigi, nel 2008, poi il vuoto.Tanto che cercando su Internet il suo nome, vi verranno proposte le immagini di Nathalie Gulbis, una procace golfista. Nel frattempo però è riuscito a salire alla ribalta della cronaca per comportamenti bizzarri, tipo spaccare 70 racchette in un anno o passare una notte in galera a Stoccolma per aver adescato una prostituta. «Ma si può? Non mi hanno trattato male, anzi è stato anche divertente. Però non ci torno più da quelle parti. È una cosa incivile: io se conosco una ragazza non le chiedo che lavoro fa. Mah...». Gulbis è un tipo affabile, cordiale, perfino affascinante, almeno per quella mezz’ora che abbiamo trascorso parlocchiando. E se gli chiedi di Federer e Nadal... All’inizio dell’anno hai detto che se non avessi vinto qualcosa in sette mesi, ti saresti ritirato: come va? «Beh, per un paio di mesi vado avanti di sicuro! Si ritirano tutti, qualcuno dovrà pur continuare. Qualche volta mi piace scherzare e altre volte ai giornalisti piace travisare quello che dico. Però adesso va meglio, non ho problemi, mi diverto pure a giocare a tennis». Cosa è cambiato «Ho un nuovo coach, Gunter Bresnik, che mi ha aiutato a credere di più in me stesso. Sono tornato a giocare decentemente, colpisco la palla benissimo e sono convinto di rientrare presto nei top 30 e magari nei top 20. Ci credo davvero, eh!». Quanto è difficile per te restare concentrato solo sul tennis? Ho sempre sofferto di alti e bassi. Ma non è sempre stata colpa mia. Spesso la responsabilità principale è stata del mio staff, per il modo in cui mi allenavano. Cercavano anche di

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cambiare le mie abitudini, di farmi giocare in maniera più difensiva. Con Bresnik va meglio perché mi spiega perché devo fare questo o quest’altro, perché questo esercizio è utile e quest’altro meno. Così non mi pesa allenarmi sei ore al giorno e i risultati arriveranno». Si è scritto molto delle tue bravate: hai mai letto qualcosa di falso su di te? «Onestamente non leggo le mie interviste. Se parlo con te, mi fido della tua coscienza di giornalista e sono certo che non scriverai falsità. Ne ho lette solo un paio in Lettonia e devo dire che, più o meno, c’era scritto quello che avevo detto. Ma per me possono scrivere quello che vogliono, non verrò mai a cercarti per dirti che questo era vero e quest’altro no. Mi spiace solo se si preoccupano le persone che mi stanno vicino, ma mia madre sa quello che faccio e come lo faccio (speriamo non proprio tutto n.d.r). Quando c’è fiducia, non c’è bisogno di dare troppe spiegazioni». Sei sempre in contatto con Marat Safin? In molti dicono che vi assomigliate nei comportamenti e lui ci manca molto. «Di tanto in tanto. Sono stato a trovarlo a Mosca, poi è venuto a Riga. Lui ora è impegnato anche in politica, ma una cosa è certa: quando stiamo insieme non gli chiedo consigli sul tennis!». Beh, magari puoi chiedergli qualche suggerimento per la vita fuori dal campo: lui per certi spetti era un fenomeno. «Verissimo, ma credo di saper gestire bene la situazione anche da solo!». Credi che il circuito abbia bisogno di personaggi come Marat Safin? Assolutamente. Mancano i personaggi. Prendi Federer: rispetto molto quello che riesce a fare in campo, ma quando lo vedi fuori, lo trovo molto noioso, troppo perfettino. E il problema è che i giovani prendono esempio da lui! Avete presente una sua intervista? Come stai? Molto bene, incontrerò un grande avversario, gli auguro ogni bene, vi


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amo tutti... Ma qualche volta perdi un match e ti viene da incazzarti col tuo avversario. Niente di personale, si tratta solo di essere sinceri ed esprimere anche i sentimenti negativi. Invece Roger e Rafa, sembra che debbano apparire sempre perfetti. Ogni tanto anche litigare fa bene: i tennisti sono troppo gentili tra loro».

Quindi posso dedurre che tu non abbia un idolo tennistico. «Non sono tipo da poster in camera. L’unico per cui perdo la testa è un musicista russo. Non ti dico nemmeno il nome, tanto non lo conosci. Mi piace la sua musica, il suo modo di comportarsi, il suo modo di parlare».

Ma non ti piacerebbe essere Roger Federer per un mese, totalmente focalizzato sul tennis e gli obiettivi da raggiungere? «Per niente. Non voglio paragonarmi a nessuno. Ognuno deve percorrere la sua strada e se arrivi fino in fondo, bene, altrimenti troverai qualcos’altro da fare. Ma non puoi stravolgere la tua personalità per cercare di essere quello che non sei».

Ma cosa ti piace della vita, se non il tennis? «Non fare assolutamente nulla! Alzarmi la mattina, farmi un caffè, leggere un libro, guardare un film, uscire con una meravigliosa ragazza... cose di questo genere. Quando sei impegnato in torneo, tutto è programmato. Prendi la giornata di oggi: mi alzo e devo programmare quando fare colazione, cosa mangiare, quando riposarmi, quando allenarmi, quando andare a pranzo, quando fare questa intervista, quando andare dal fisioterapista. In una settimana mi restano poche ore per i miei hobby. Ma è giusto così, perché il tennis è un lavoro. Molti ci invidiano pensando che giriamo il mondo. Ma cosa vediamo? Un aeroporto, un hotel e un campo da tennis. In tornei come quello di Umago ci si diverte perché è un evento rilassante, col mare davanti, le partite che iniziano tardi. Ma generalmente non hai tempo per te stesso».

È vero che hai rotto oltre 70 racchette in un anno? «Vero, ma un paio d’anni fa, ora mi sono calmato». La Wilson ti ha emesso fattura? «No, me le hanno regalate tutte». Non pensi, almeno in questo caso, di essere di cattivo esempio? Siamo in piena crisi econ... «Ok ok, ma io metto il turbo all’economia! Più racchette rompo, più lavoro ci sarà per l’azienda, più gli operai guadagneranno e così avrò fatto solo del bene all’economia. Può non sembrare un buon esempio per i ragazzini, ma

Ma si può fare baldoria fino tarda notte e poi essere competitivi in campo il giorno dopo? «Impossibile. O pensi a divertirti o pensi a giocare a

La mia giornata ideale? Non fare assolutamente nulla. Alzarmi, farmi un caffé, leggere un libro, guardare un film, uscire con una ragazza meravigliosa... Federer e Nadal sono straordinari, ma fuori dal campo sono davvero noiosi, come se dovessero apparire sempre perfetti. Ogni tanto litigare fa bene, invece i tennisti sono troppo gentili tra loro. ognuno ha la sua personalità e i ragazzi tifano per quello che gli piace. A qualcuno piacerà Marin Cilic, ad altri Dolgopolov. Comunque, i bambini hanno tanti modelli positivi da seguire, se vogliono». Ma c’è un tennista per il quale saresti disposto a pagare il biglietto? «Se voglio vedere del buon tennis, guardo un match di Roger. Perché non dovete fraintendere: il circuito è pieno di personaggi interessanti, ma quando si accende una telecamera diventano dei robot. Uno dei miei hobby è ascoltare interviste su YouTube, che siano realizzate con un artista o un politico, poco importa. Ma quando arriva uno sportivo davanti al microfono, spengo subito. Solite domande, solite risposte, tutto molto noioso. Ma forse lo sono per me che conosco lo sport. E comunque non amo troppo guardare il tennis in tv, giusto le finali più importanti, e magari non per intero».

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tennis. Se vuoi fare il professionista non puoi bere, fumare e fare tardi la sera. Lo sport professionistico richiede molti sacrifici. Poi chiaramente siamo essere umani e qualche volta si sgarra. Ma durante i tornei non esco quasi mai, mancherei di rispetto al mio team. Poi quando torno a casa, è un’altra cosa». Donne? Mai stato innamorato? «Diciamo che ho un rapporto con le donne molto, molto positivo. Io amo le donne e alcune di loro amano me». Puoi quantificare il termine “alcune”? «Regular. Niente di speciale. Attualmente non ho una relazione fissa perché non voglio avere una relazione fissa. Sono giovane, viaggio tutto l’anno e non credo siano le condizioni ideali per crescere una famiglia. Quando avrò 35 anni e una vita più stabile, allora sarà diverso. Per adesso mi diverto ancora un po’».


Ernests Gulbis è nato il 30 agosto 1988 a Riga, in Lettonia. È alto un metro e 90 per 77 kg. In carriera ha vinto due tornei ATP a Delray Beach nel 2010 e a Los Angeles nel 2011. Nei tornei del Grand Slam vanta un quarto di finale a Roland Garros nel 2008 e un ottavo di finale allo US Open nel 2007. Nei Masters 1000 ha raggiunto una semifinale a Roma nel 2010, sconfitto da Rafael Nadal. Il 7 febbraio 2011 ha raggiunto il suo best ranking al n.21 della classifica ATP.

Si parla molto di tuo padre perché è miliardario: che rapporto hai con lui? E com’è la vostra vita in Lettonia. La gente si immagina una villa faraonica, tante macchine di lusso... «Vado in Lettonia tre volte l’anno e ho un mio appartamento in centro a Riga, niente di strano. Chiaro che la gente va sempre a caccia di qualcosa fuori dall’ordinario. La mia famiglia ha più soldi di tanti altri e per me è una gran fortuna, altrimenti non sarei mai diventato un tennista professionista, se mio padre non avesse pagato i miei coach, le accademie, le trasferte. La Federazione lettone ha un budget di quattromila euro all’anno che gli arriva dal governo. Non puoi pagarti nemmeno un torneo. In realtà, il maggior sponsor del tennis lettone... è stato mio padre. Prendete invece Andy Murray: la federazione britannica è ricchissima e gli ha fornito tutti i mezzi necessari per diventare un professionista, senza rischiare soldi della famiglia. E allora, chi è il più fortunato dei due?». I genitori spesso pressano i figli perché diventino sportivi famosi: è successo lo stesso con te? «Assolutamente no. Cominciare è stata una mia decisione, smettere lo sarà altrettanto. Con la consapevolezza che i miei genitori mi appoggeranno sempre, qualsiasi sia la mia scelta. Io auguro a tutti di avere un rapporto coi propri genitori come il mio: non abbiamo segreti e ci rispettiamo

moltissimo. Poi il fatto che possano permettersi di viaggiare spesso con me, mi rende solo felice». Fra le tante situazioni stravaganti nelle quali ti sei ritrovato, qual è la cosa più pazza che hai combinato? «Ne ho fatte tante. Ma ciò che è pazzo per me, per qualcun altro potrebbe essere normale. Però sono contento delle esperienze che ho fatto. Insomma, non cambierei la mia vita con quella di uno studente universitario. Fin qui ho vissuto in maniera intensa. E ho solo 24 anni...». Pensi fin qui di aver goduto maggiormente della vita rispetto a tanti altri tuoi colleghi? «Non posso dirlo, anche perché ho buoni rapporti con tanti giocatori ma non vere amicizie. E poi dipende: per qualcuno la felicità massima è stare in famiglia 24 ore al giorno, per altri divertirsi in discoteca tutte le sere. Ognuno deve provare a essere felice, a modo suo». La felicità passa spesso da una bella serata: qualche suggerimento? «Se sei in Lettonia, un bel piatto di carne, qualche birra, un bagno in piscina, una bella sauna. Il tutto in buona compagnia, of course». Of course.

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DAVID FOSTER WALLACE, IL TENNIS COME ESPERIENZA RELIGIOSA Titoli Originali dei saggi: Democracy and Commerce at the US Open pubblicato in Tennis, The New York Times Magazine, 1996 (c) David Foster Wallace Literary Trust. All rights Reserved (c) 2012 Giulio Einaudi editore S.p.A.,Torino traduzione di Giovanna Granato

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DEMOCRAZIA E COMMERCIO AGLI US OPEN BY

DAVID FOSTER WALLACE

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US Open 1995 fanno a se stessi. È l’enorme stampa puntinista nei colori pastello di un pubblico dello Stadium Ntc intorno a un campo smisurato, la prospettiva stranamente scorciata e il famoso skyline di Manhattan immediatamente sullo sfondo come decisamente non si staglia nel vero Flushing Meadows del Queens; e sopra e oltre il cartellone la grossa zucchina del dirigibile della Fuji Inc. galleggia lenta contro il ceruleo del cielo estivo di gran lunga più bello che abbia mai visto a New York City. Non solo l’aria del weekend del Labor Day agli Open 1995 è priva di umidità e intorno ai ventisei gradi, il sole cocente, il vento leggero e il cielo dell’azzurro troppo vivido di un film colorato, ma l’aria del cielo è limpida, l’aria ha il profumo buono, intenso e dolce dei panni stesi ad asciugare, risultato non solo di un mese senza pioggia ma anche di un assurdo fronte di alta pressione che questo weekend è frullato fuori dallo spazio aereo sopra la Nuova Scozia spazzando gli ossidi e le puzze che NYC si merita e spedendoli sul New Jersey. L’aria nella conca dello Stadium si fa più fina e pungente man mano che sali lungo gli spalti, finché, se monti sopra il frigo portatile Michelob che qualcuno ha introdotto clandestinamente nell’ultima fila di gradinate14, sbirci da sopra la parete che dà a E oltre il bordo della tribuna stampa e guardi giù oltre il grosso cartello che dice: BENVENUTI AGLI US OPEN 1995 Un torneo Usta

BENVENUTI AGLI US OPEN 1995 Un torneo Usta

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l giudice di sedia ha decretato l’inizio del gioco e Sampras si predispone a servire sollevando la punta del piede anteriore mentre lancia alta la palla in quel modo tutto suo. Non ero mai riuscito a vedere Sampras giocare dal vivo, ed è un atleta molto più bello di quanto sembri in tv. Non è particolarmente alto né muscoloso, ma ha un servizio dall’effetto quasi wagneriano e da distanza così ravvicinata si vede che è perché Sampras ha un misto magico di flessibilità e tempismo che gli permette di riversare tutto il peso della schiena e del busto nel servizio – l’intero corpo scatta come di norma solo un polso sa fare – e che dipende dalla posizione curva e raggomitolata da cui avvia i movimenti del servizio, sollevando solo la punta del piede anteriore e prendendo la mira da sopra la racchetta come se avesse una balestra, una serie di movimenti che in tv sembrano tic eccentrici ma che dal vivo danno l’impressione che il corpo sia un unico grosso muscolo, una specie di anguilla arrabbiata pronta al guizzo. Philippoussis, che tra un punto e l’altro ama fare un piccolo balletto sul posto, aspetta il servizio senza tradire la minima espressione. La fascia che ha in testa si abbina alla maglietta a strisce tipo caramella. I display dei tabelloni segnapunti ora sono programmati per tenere il punteggio anziché lampeggiare pubblicità. Il nome di Philippoussis si ritaglia una bella fetta orizzontale di ogni tabellone. La parete tra lo Stadium e il Grandstand (a E rispetto a noi) è sormontata dalla tribuna stampa che la percorre per intero e fondamentalmente sembra la più grande casa mobile del mondo, gli scuri alle finestre calati contro il sole pomeridiano. Tre punti hanno dato come risultato un ace, una risposta vincente e un lungo scambio che si conclude quando Philippoussis scende a rete invitato da una palla non esattamente indirizzata sul rovescio e Sampras cerca l’angolino alla destra del rettangolo di servizio caricando incredibilmente il colpo. La ferocia del rovescio di Sampras è un’altra delle cose che la tv non comunica bene, il suo controllo sull’ovale della racchetta fa pensare più a quei colossi da terra battuta con gli avambracci come cosce di bue, il topspin così caricato da distorcere la forma della palla mentre il passante cade giù a piombo. Il malvagio ma cyborghiano Philippoussis finora non ha tradito niente che somigli a una vera espressione facciale. Si direbbe che nemmeno sudi13. Due tipi attempati nella fila subito dietro la mia esortano Sampras sottovoce, chiamandolo «Petey», e mi viene spontaneo pensare che siano amici o parenti. E appollaiata sopra la tribuna stampa – cioè più o meno all’altezza dell’antenna di una stazione radio – c’è una pubblicità che gli

vedi arrivare loro, Loro, un’enorme massa serpentina, gli spettatori che ancora arrivano alle 16.15 e visti da questa distanza sembrerebbero tutti i newyorkesi che non si sono rifugiati negli Hamptons per il lungo weekend estivo. Gli US Open sono un grande evento per NYC. Il sindaco Dinkins non c’è più – quel Dinkins che faceva deviare le rotte di atterraggio all’aeroporto LaGuardia apposta per gli Open – ma, anche sotto Rudy Giuliani, per due settimane una città che di norma non darebbe un soldo bucato per uno sport aristocraticamente privo di contatto fisico come il tennis mostra grande partecipazione. Al Bowery Bar arbitraggisti trentenni in smoking non a noleggio dissezionano le partite e speculano su come la temporanea assenza della Seles dai campi da gioco condizionerà i suoi contratti pubblicitari ora che è tornata. I portieri croati lamentano la prematura uscita di scena di Ivanisevic. In metropolitana, un drappello di ragazzotte toste in tenuta di pelle e capelli fosforescenti conviene che anche se la Graf, la Seles e la spagnola con quella


faccia e l’imene15 nel nome potrebbero dominare la classifica, guai a scordarsi dell’americana Zina G. che questo è il suo canto del cigno prima, tipo, che esca di scena. Oppure, per esempio, venerdì primo settembre, il giorno dopo la rinascita di Agassi in cinque set contro Corretja, un conducente di autobus libanese della Grey Line in servizio dall’aeroporto LaGuardia si ritrova perfettamente d’accordo sulla riabilitazione di Agassi come uomo con un anziano passeggero masticatore di sigaro mai visto né conosciuto: – Dice che prima era una peste, un arrogante, capito che intendo? – È cresciuto. Ora ha le palle. – Ieri sera sì che ha giocato una gran partita. Ecco che intendo. – Prima era solo un capellone. Ora è cresciuto. Ora è una persona16. Fatto sta che arrivano, quarantamila ieri e quarantunomila oggi, pronti a scucire venticinque-trenta dollari per un biglietto, sempre che riescano a procurarselo17. Arrivano con la metropolitana infernale e stigia dell’Irt scendendo al capolinea della linea 7, la fermata Shea-Willets. Convergono nel Queens NE tramite le autostrade Van Wyck, Long Island e Whitestone, tramite l’Interborough, la Grand Central Parkway, il Cross Bay Boulevard, portandosi dietro quattrini in quantità e qualunque santino aiuti a trovare parcheggio. I residenti solcano i canyon deserti di Manhattan a bordo di limousine, taxi o autobus durante il weekend del Labor Day, puntando alla Trentaseiesima Strada e al Tunnel o alla Cinquantanovesima e al Queensborough Bridge, poi impiegano una vita a risalire il Northern Boulevard, armati di borse termiche, coperte, racchette, cuscini da mettere sotto il sedere con la scritta GIANTS o JETS, protezioni solari e cappellini ricordo degli Open dell’anno scorso, risalgono il Northern Boulevard sovrastati dai ghirigori del traffico aereo finché non vedono spuntare i primi baluardi: il tozzo anello azzurro-neutrone del vicino Shea Stadium; l’enorme sfera armillare d’acciaio e la torre di fattura grossolana del World’s Fairgrounds ’39 attigua al National Tennis Center nel Flushing Meadows Corona Park18. Il cancello principale dell’Ntc è sul lato NE del complesso, collegato alla fermata della linea numero 7 e ai parcheggi da un’ampia passeggiata di cemento che dalla stazione S dei pendolari sfila davanti agli uffici dei guardaparco e a un paio di grossi circoli comunitari all’aperto – il genere di piazzole urbane all’aperto che al centro dovrebbero avere una fontana zampillante, anche se queste non ce l’hanno – con le panchine verdi, le intricate piste da skateboard e un commercio sottobanco vigoroso e sinistro. A un certo punto la passeggiata curva bruscamente a O e la ressa mobile degli Open sfila sotto gli occhi dei tanti che fanno picnic e giocano a calcio all’Fmc Park (nei prati a cui allude il «Meadows» del nome, evidentemente); dopodiché l’ultimo rettilineo asfaltato del passaggio pedonale è racchiuso da alte recinzioni sormontate dalle bandiere di tutte le nazioni andando verso le linee parallele dell’ingresso vero e proprio al cancello principale del torneo, cancello che è di per sé un’alta recinzione di ferro nero di una solidità quasi medievale, sormontata a sua volta solo dalle care vecchie bandiere americane, con i soliti saluti e l’autorevolezza degli Open/Usta riportati in sfrontate lettere maiuscole luminose di 160 punti su un’insegna appesa sopra i tornelli, tornelli che sono sei in totale anche se non ce ne sono mai più di tre in funzione. I tornelli sono riservati a chi ha già il biglietto19 – la lunga fila da blocco sovietico al botteghino per i biglietti della mattina evapora puntualmente intorno alle undici, quando risoluti megafoni annunciano per quel giorno il tutto esaurito. Oltre a Stadium/Grandstand, ci sono altri tre «Show Courts» all’Ntc, campi cioè con gradinate degne di questo nome.Alle 16.40

nel Campo 16 si tiene il doppio maschile con Eltingh-Haarhuis, la squadra numero 1 al mondo, e il piccolo cuneo di spalti in alluminio non è nemmeno pieno. Il pubblico tennistico americano sembra orientato decisamente verso i singolari. Il Campo 17 vede schierati Korda e Kulti contro il matto delle Bahamas Mark Knowles e Daniel Nestor, suo compagno del 1995, il canadese che a guardarlo è uno spasso per quanto somiglia a un Mick Jagger anoressico. Nel Campo 18 si tengono i doppi femminili con quattro giocatrici dai nomi a me ignoti e ben trentuno spettatori sugli spalti. (Le quattro donne del 18 hanno tutte gli avambracci più grossi dei miei). Natasha Zvereva, che sembra incompleta senza Gigi, è nel Grandstand a riscaldarsi contro Amy Frazier. Nello Stadium, Philippoussis e Sampras si sono spartiti i primi due set vincendoli a 6 e a 5. Dall’esterno dello Stadium una partita importante sembra tutta una breve esplosione di applausi e fischi da far tremare le fondamenta seguiti ogni tanto dall’amorfa amplificazione della voce del giudice di sedia nell’improvviso silenzio creato dal suo intervento. Il cognome di Daniel Nestor oltre che ellenico è omerico20, e perciò evoca un periodo bellico di gran lunga antecedente Atene contro Sparta. Il fatto che Sampras abbia vinto tantissimi Grand Slam c’entra forse molto con il fatto che le partite maschili degli Slam siano al meglio dei cinque set. Il meglio dei cinque set richiede non solo resistenza fisica ma uno speciale tipo di flessibilità emotiva: al meglio dei cinque set non puoi giocare sempre al massimo dell’intensità; devi sapere quando forzare e quando tirare i remi in barca e risparmiare risorse psichiche21. Philippoussis ha vinto al tie-break un primo set in cui Sampras ha dato l’impressione di regolare il minimo del suo gioco, di cercare il livello esatto che gli serviva raggiungere. La suspense della partita non è se Sampras vincerà o meno ma quanto impegno dovrà metterci e quanto tempo gli richiederà scoprirlo. Philippoussis picchia duro, ma se l’immaginazione gli fa difetto, la flessibilità non sa nemmeno cosa sia. È come una macchina con una sola marcia: a meno di non spezzargli il ritmo con un tiro molto esterno, avanti-e-indietro è la sua unica direzione di rotta. Sampras invece sembra aleggiare come forfora per tutto il campo22. Philippoussis somiglia a un grande e temibile esercito; Sampras è più navale, della scuola che manovra-e-accerchia. Philippoussis è oligarchico: ha una volontà e cerca di imporla. Sampras è più democratico, cioè più caotico ma anche più umano: sembra che il suo vero compito sia capire qual è esattamente la sua volontà. In pochi ricordano che in realtà Atene ha perso la guerra del Peloponneso: ci sono voluti trent’anni, ma alla fine Sparta l’ha spuntata. E in tanti non sanno che è stata Atene a cominciare tutta la maledetta faccenda attaccando briga con gli alleati marittimi di Sparta che si intromettevano nei commerci via mare di Atene. L’immagine di una Atene simpatica e perbene ormai è un po’ frusta: tanta fatica per una questione legata fin dall’inizio al commercio. La cosa divertente nell’avere un pass stampa agli US Open 1995 è che puoi entrare e uscire dal cancello principale tutte le volte che vuoi. Gli spettatori paganti non hanno questa fortuna: un cartello vicino ai tornelli dice, con tanti punti esclamativi, che chi esce poi non rientra più. E le file per entrare ai tre tornelli in funzione ricordano le lugubri foto del pubblico che se ne va scalpicciando alle partite di calcio del Terzo Mondo. Il torneo paga certi vecchietti incartapecoriti per stare ai tornelli a ritirare i biglietti degli spettatori – gli stessi vecchietti incartapecoriti che vedi ai tornelli delle manifestazioni sportive di ogni dove, di quelli a cui sembra sempre che manchi il fez da Shriner. In questo momento, sono le 17.38, a superare uno dei tornelli è un bel nero pelato con uno sciccosissimo abito di cammello Dries Van Noten.A spingere con il fianco il tornello accanto23 è una donna in tailleur pantaloni blu elettrico di seta o di ottimo rayon. Al

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terzo tornello in funzione un tipetto giovane dall’aria straniera con una costosa camicia a quadri, i Ray-Ban e un telefono cellulare discute col bigliettaio. Il ragazzo sostiene di aver comprato i biglietti per il 3/9 ma di averli sbadatamente lasciati a casa a Rye e col ca-vo-lo che un bigliettaio incartapecorito col minimo salariale lo costringerà a farsi tutta la strada fino a Rye per prenderli e poi a rifarsi un’altra volta tutta la strada per tornare. Stringe il cellulare stando addosso al bigliettaio: deve pur esserci il modo, insiste, di verificare l’acquisto dei biglietti senza bisogno di fare avanti e indietro per esibire quegli stupidi rettangolini di cartone. Il bigliettaio, in un completo blu che gli dà un po’ l’aria del controllore ferroviario, scuote la testolina nodosa e solleva le braccia nel gesto al tempo stesso impotente e irremovibile del: «Non so che farci, caro mio». Il ragazzo di Rye in camicia a quadri continua ad aprire il cellulare e fa per comporre un numero con aria intimidatoria, quasi minacciasse di fargliene cantare quattro da un’oscura figura dell’olimpo dirigenziale degli Open; ma l’impassibile impiegatuccio non batte ciglio, la faccia inespressiva e le braccia sollevate24 finché la folla tanto preme alle spalle e ai fianchi del tipo in camicia a quadri da costringerlo ad abbandonare il campo. Per prima cosa varcando il cancello principale vedi squadre di ragazze e ragazzi bellissimi che distribuiscono gratis confezioni di stagnola di caffè colombiano prese da grossi barili di plastica che ritraggono Juan Valdez & il fedele mulo. I ragazzi, nessuno dei quali è di origini colombiane, sono allegri ed espansivi ma non sembrano particolarmente attenti, perché continuano a darmi campioni gratuiti ogni volta che esco e poi rientro, e ormai ho la borsa dei libri che straripa e non dovrò comprare caffè per mesi. Subito dopo vedi uno strillone su una predella che esorta all’acquisto del «Daily Drawsheet» per due dollari25 o di giornale + programma delle gare in offerta a otto dollari. Vicino allo strillone c’è una strepitosa automobile Infiniti nuova fiammante su una complicata pedana che le dà un’angolazione decisamente a strapiombo. Non si capisce quale sarebbe il nesso tra una bella automobile nuova e il tennis professionistico ma la concomitanza

visiva di auto e angolazione a strapiombo è impressionante e avvincente e intorno all’Infiniti c’è sempre una fitta cerchia di spettatori che la guardano senza però toccarla. Poi, sopra la spalla destra del venditore di «Daily Drawsheet» e situata guarda caso vicino al botteghino dei biglietti in prevendita, ecco quella che dev’essere una delle più grosse postazioni bancomat del mondo occidentale, con la sua brava tettoietta e ben tre sportelli dotati di complessi e sofisticati controlli tipo-Nasa ed enormi cartelli con su scritto che il servizio è generosamente offerto dalla Chase e che è in grado di erogare denaro tramite le reti Nyce, Plus,Visa, Cirrus e Mastercard. Le file al bancomat sono così lunghe da creare complicati intrecci con le file agli stand più vicini. Stand che sembrano aver subito una specie di metastasi rispetto all’anno scorso: ormai infestano ogni angolo dell’Ntc. Ho il forte sospetto che la verità su come si ottenga una concessione per vendere prodotti agli US Open rivelerebbe intrallazzi e pastette da far impallidire lo spettacolo che si tiene sui campi da gioco, perché se c’è un luogo dove lo spettatore viene davvero separato dal suo denaro è agli stand dell’Ntc, che fanno tutti affari al ritmo di ferramenta e supermercati costieri durante l’allerta per un uragano. Le singole postazioni dotate di piccoli ombrelloni della Evian e della Häagen-Dazs sono niente in confronto al fuoco di fila dei centri commerciali in miniatura che costeggiano quasi ogni marciapiede, passerella e via d’accesso – inclusa la galleria anulare al piano terra di Stadium/Grandstand – e che vendono gazzose tra i due dollari e cinquanta e i tre dollari e cinquanta, acqua a tre dollari, piccoli cartocci di nachos o di patatine rotonde a trama incrociata con l’olio che impregna subito il cartoccio a tre dollari, birra a tre dollari e cinquanta, popcorn a due dollari e cinquanta26 eccetera27. Un gigantesco boato che fa traballare l’intera sovrastruttura dello Stadium indica che le forze della democrazia e della libertà umana hanno vinto il terzo set28. È chiaro che Sampras ha trovato la sua altitudine di crociera e che Philippoussis dovrà accontentarsi di aver vinto il primo set, farne tesoro e andare a casa a sollevare altri pesi in vista della stagione indoor dell’Atp.

13 Un’altra cosa di Sampras che fa tenerezza è che inzuppa sempre di sudore i pantaloncini azzurro neonato in un modo imbarazzante che fa pensare all’incontinenza e rivela agli occhi del mondo le strisce del sospensorio. Questo riescono a catturarlo perfino le immagini crude della tv e se mi piace tanto forse è perché rende Sampras umano e mi permette di identificarmi con lui in un modo precluso dalla bellezza semplicemente soprannaturale del suo gioco. Altre debolezze analoghe capaci di rendere umani i giocatori trascendenti per me erano le escandescenze assurde di McEnroe, l’abitudine di Lendl e della Navratilova di perdere ogni tanto le staffe e prendersela talmente per un punto da sembrare quasi spastici e spedire la palla abbondantemente al di qua della rete, e la compulsività di Connors nel toccarsi e sistemarsi i testicoli dentro il sospensorio in campo, come se avesse continuamente bisogno di sapere dov’erano. 14 L’ascesa dello Stadium procede così: prima ci sono dieci file di sedili blu – sedie di plastica vera, i posti in tribuna – poi quindici file di sedili azzurri, poi diciotto di sedili di plastica sagomata grigi molto meno comodi, poi (i gradini ormai talmente ripidi da farti sentire come un bambino piccolo che sale le scale) file e file di semplici gradinate rosse, patria di berretti Mets girati al contrario, tatuaggi e scarpe da ginnastica alte slacciate, con il clacson greve degli accenti di Brooklyn e una grande e rumorosa accozzaglia di bicchieri del Liquor Bar vuoti sospinti dal vento sul cemento dei corridoi lungo le gradinate... e durante la scalata le orecchie scoppiettano letteralmente, l’O2 si fa fino e il campo di sotto assume una prospettiva orripilante, come visto da un grattacielo, i giocatori hanno un che degli insetti e il pubblico si muove e si solleva in un modo nauseante dando l’impressione che l’intera struttura si sollevi e ondeggi leggermente. 15 (sic – non scherzo). 16 Il nuovo taglio a spazzola, le scarpe da ginnastica nere e la nuova maglietta stile combattente della resistenza francese di Agassi l’hanno reso, agli Open di quest’anno, molto più popolare presso i fan maschi e appena appena meno sexy e affascinante presso le femmine. (Il sex-simbolismo di Agassi è un fenomeno profondamente misterioso per la maggior parte dei maschi di mia conoscenza perché abbiamo tutti ben presente che Agassi in realtà è un piccoletto con la faccia schiacciata e la testa dalla strana forma [messa ancora più in risalto dal taglio a spazzola] che cammina strusciando un po’ i piedi e buttandoli in dentro come uno scolaretto con le mutande incastrate in mezzo alle chiappe: e non riusciamo proprio a capacitarci del fascino e della presa che Agassi esercita sulle donne). 17 Il botteghino del National Tennis Center apre alle dieci e già dalle sei la gente comincia a mettersi in fila nella speranza di procurarsi uno dei pochi lasciapassare per tutti i campi, e siparietti e incentivi vari in questa fila mattutina di newyorkesi scafati costituiscono una storia a sé. 18 È il vero nome del parco che ospita il National Tennis Center dell’Usta, ed è quasi perfetto perché inconsapevolmente coglie

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l’essenza di Queens NE, connotando in uguale misura detriti di fogna urbani, pastorale suburbana e sole impietoso. 19 I bagarini chiedono e ottengono centoventicinque dollari per un pass per tutti i campi e (almeno in un caso) il doppio per un posto di undicesima fila allo Stadium durante le partite del pomeriggio. L’ultimo rettilineo del passaggio pedonale che conduce al cancello ha la sua brava dose di bagarini che fanno le loro profferte ellittiche dal ciglio erboso, anche se (stranamente) sul ciglio ci sono quasi altrettanti tipi dall’aria furtiva che chiedono senza mezzi termini se a qualche passante avanza un biglietto da vendere, o se per caso non vuole vendere il suo, come fosse un bagarino. I bagarini e i tipi strani che istigano al bagarinaggio sembrano ignari gli uni degli altri mentre parlano sommessamente tutti assieme e questo rende l’ultimo tratto pre-cancello della passeggiata di una tristezza surreale, uno studio sui collegamenti mancati. 20 (il saggio re di Pilo e compagnia bella). 21 Una volta nel 1979 ho giocato due partite al meglio dei cinque set in una sola giornata nell’ambito di una strana cosa juniores non-Usta alle porte di Chicago, e una partita è durata cinque set e l’altra quattro e, anche se avevo appena diciassette anni, dopo ho camminato come un vecchietto per diversi giorni. E siccome la flessibilità emotiva è praticamente impossibile per gli juniores, ricordo di aver notato che tutti noi che avevamo giocato al meglio dei cinque set andandocene sembravamo completamente distrutti sul piano emotivo, con l’occhio vitreo e lo sguardo fisso a un chilometro di distanza di chi è sopravvissuto a un pogrom. Da allora, ogni volta che vedo un tennista giocare in uno Slam provo una speciale compassione empatica. 22 Sampras dà l’impressione di colpire una palla e smaterializzarsi, rimaterializzandosi poi da un’altra parte nella posizione perfetta per il tiro successivo. Non ho una teoria su come faccia. Che io ricordi, Ken Rosewall è l’unico altro giocatore che sembrava capace come lui di guizzare dentro e fuori dall’esistenza. (Ne era capace anche Evonne Goolagong, ma a singhiozzo). 23 Essendo NYC una delle città al mondo con la più alta densità di tornelli, i newyorkesi li oltrepassano con la stessa elegante disinvoltura ostentata dai veri campioni quando fanno riscaldamento. 24 Il bigliettaio, che si è rivelato senz’ombra di dubbio il mio personaggio preferito di tutti gli Open 1995, ha accettato di rilasciare una breve intervista a condizione che non comparisse il suo nome: a quanto pare il torneo ha davvero oscure figure nell’olimpo dirigenziale di cui i dipendenti temono le ire. Il bigliettaio ha sessantun anni, lavora alle «sbarre» (come le chiama lui) ogni US Open da quando Ashe ha piegato in cinque set sia Graebner sia Okker a Forest Hills nel ’68, trova l’Ntc di Flushing Meadows inferiore sotto tutti gli aspetti al caro vecchio Forest Hills, sostiene che il nuovo Stadium ancora incompleto che svetta sull’orizzonte meridionale è ridicolo e inutile perché, data la mole, i posti più economici si ritroveranno ai limiti estremi della visione umana e una partita vista da lassù sembrerà una cosa vista da un Boeing in accostamento, per non dire che il nuovo Stadium è stato uno spreco di tempo e di denaro fin dall’inizio e che è infestato dalla corruzione, dal malaffare e da un marciume amministrativo generalizzato – il tipo ha una felicità linguistica e aneddotica incredibile e un attaccamento furibondo e davvero commovente a uno sport che pare non abbia mai praticato in vita sua, e sono convinto che l’anno prossimo meriti un articolo a parte su Tennis. L’incarico annuale agli Open rappresenta le sue due settimane di ferie dal normale lavoro di casellante al malfamato Throgs Neck Bridge tra Queens e il South Bronx, il che forse spiega la risolutezza inflessibile di fronte alle tattiche intimidatorie di uno che brandiva un telefono cellulare. 25 Il «Daily Drawsheet» ha la particolarità di essere l’articolo più economico degli US Open 1995. Segue una gazzosa piccola carica di ghiaccio a due dollari e cinquanta. 26 (Popcorn del tipo giallo scuro e salatissimo da accompagnare rigoro-samente con una bibita – altrettanto dicasi per i grossi pretzel bollenti del tipo da chioschetto-d’angolo-a-Manhattan, con i chicchi di sale così grossi che vanno staccati e masticati a parte. I pretzel degli US Open costano tre dollari ovunque fuorché all’International Food Village nel lato sud dello Stadium, un carosello di chioschi e gente che mangia dove il prezzo dei pretzel scende a due dollari e cinquanta). 27 Prendiamo per esempio una barretta striminzita della Häagen-Dazs – davvero striminzita, cinque morsi a dir tanto – al costo criminoso di tre dollari e come sempre qui ai chioschi del cibo ti senti defraudato e oltraggiato dal prezzo finché non dai il primo morso e scopri che è una barretta Häagen-Dazs squisita. Il fatto è che con la fame stimolata dal sole, dall’aria fresca, dalla visione della partita e dalla salivazione empatica provocata dalla vista di tutti gli altri spettatori che masticano, le barrette Häagen-Dazs non varranno tre dollari ma due e cinquanta li valgono di sicuro. Dovrei anche aggiungere che il caffè colombiano era GRATIS a tutti gli stand dell’Ntc durante il weekend del Labor Day: rientrava nel blitz di marketing forsennatamente aggressivo di Juan Valdez quest’anno a Flushing Meadows. È sembrata davvero una buona cosa finché non si è scoperto che il novanta per cento delle volte gli stand dichiaravano di essere rimasti misteriosamente «temporaneamente a corto» di caffè colombiano e tu ti ritrovavi a scucire la bellezza di due dollari e cinquanta per una Diet Coke strapiena di ghiaccio che prendevi perché oramai avevi fatto una fila troppo lunga per andartene a mani vuote. Non è da escludere che gli stand avessero finito davvero il caffè – essendo «GRATIS» il prezzo al quale la curva della domanda raggiunge il suo apice massimo, come ogni venditore sa bene – ma il consumatore statunitense smaliziato che c’è in me aveva comunque il forte sospetto che in alcuni di quegli stand il caffè fosse uno specchietto per le allodole, e quelli dietro al bancone somigliavano tanto a detenuti di Rikers Island con un permesso premio lavorativo o a ceffi dall’aria minacciosa normalmente in servizio notturno a Port Authority o alla Penn Station venuti qui per arrotondare il salario. Fatto sta che a ogni chiosco dell’Ntc c’erano sempre lunghe file e che in ogni momento vedevi un buon sessantasei per cento del pubblico di Stadium, Grandstand e Show Courts ingerire qualcosa comprato agli stand. 28 E, tanto per essere adeguatamente colpiti dal volume di consumazioni agli stand, va tenuto presente che procurarsi qualcosa mentre si assiste a una partita di professionisti non è impresa facile. Prendiamo lo Stadium. Puoi allontanarti dal posto solo durante i novanta secondi di interruzione dopo i game dispari, dopodiché ti tocca fare una specie di slalom giù per le scale gremite dello Stadium fino allo stand più vicino, sorbirti una lunga fila hobbesiana, sganciare una cifra da frode e risalire faticosamente le scale, contorcendoti e zigzagando per evitare gomiti capaci di spedire la merce acquistata a caro prezzo a far compagnia a quella già finita sul croccante sub- strato organico che stai calpestando... e ovviamente quando trovi le scale che conducono al tuo settore di posti i novanta secondi di interruzione del gioco originari sono finiti da un pezzo – come del resto quelli successivi, il che significa che ti sei perso come minimo due game – il gioco è ripreso e i sorveglianti vicino alle grosse catene sbarrano l’accesso e tu rimani impantanato in un corridoio di cemento privo di ventilazione sul pavimento appiccicoso e in pendenza, strizzato tra un ammasso di gente che come te è uscita a prendersi qualcosa e ora aspetta il break successivo per tornare al posto, e ve ne state tutti lì accalcati tra il ghiaccio che si scioglie e i crauti che si congelano cercando di mettervi sulle punte per sbirciare il minuscolo arco incatenato di luce in fondo alla galleria e cogliere magari il barlume verde della pallina o un frammento surreale della coscia sinistra di Philippoussis che nel frattempo si catapulta a rete... La pazienza dei newyorkesi per folle, file, frodi, e attese fa davvero effetto se non ci sei abituato; se ne stanno buoni buoni in luoghi asfittici per periodi lunghissimi, negli occhi quella combinazione puramente newyorkese di meditazione zen e depressione clinica, un’infelicità dichiarata mai condita da una lamentela.

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La gr an 94


d e sfida 95


IL FORUM DI ASSAGO, ALLE PORTE DI MIL ANO, È PRONTO A OSPITARE L A SECONDA EDIZIONE DELL A GRANDE SFIDA, L A MEGA-ESIBIZIONE CHE VEDRÀ IMPEGNATE MARIA SHARAPOVA E ANA IVANOVIC, SARA ERRANI E ROBERTA VINCI. DOPO IL GRANDE S U C C E S S O ( 12 . 0 0 0 S P E T T A T O R I ) D E L 2 011, È A T T E S O UN ALTRO BAGNO DI FOLL A. A TESTIMONIANZA DELLA GRANDE VOGLIA DI TENNIS DI MILANO DI LORENZO CAZZANIGA

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uando Ernesto De Filippis mi presentò il progetto 2011 di un'esibizione nella quale avrebbe coinvolto le sorelle Williams, Flavia Pennetta e Francesca Schiavone, ho pensato che ci voleva coraggio. L'Italia era già in piena crisi economica e trovare sponsor generosi non era facile come vent'anni fa, quando c'era la fila e bbisognava isognava scegliere solo l'opzione più conveniente. In più, Milano aveva smesso di respirare il grande tennis da sei anni, cioè da quando il glorioso torneo di Milano era stato trasferito a Zagabria e resisteva solo il Challenger all'Harbour Club. Infine, parlava di un'esibizione femminile. Milano aveva ospitato una sola edizione di un torneo WTA, indimenticabile per via di una strepitosa finale tra Monica Seles e Martina Navratilova. Ma nonostante ciò, il progetto non ebbe seguito. Fatti due conti, restai ammirato da tanto entusiasmo. Aveva ragione lui. Vuoi che Gazzetta dello Sport e Sky decisero di sposare l'evento (e quando Gazzetta dello Sport e Sky sposano un evento, tranquilli che gli appassionati si fiondano, si trattasse di tiro con l'arco o di una gara di freccette), ma il Forum di Assago stracolmo di 12.000 fanatici rimane un colpo d'occhio notevole nella memoria. Son perfino ricomparsi i bagarini, ma quel che mi ha sorpreso è che la richiesta di biglietti non arrivava solo da appassionati tennisti, segnale che l'evento aveva trasceso i confini dello sport. Ebbene, Ernesto De Filippis ci ha preso gusto. I detrattori dicevano: «Vabbé, fatta una volta, non puoi mica presentare la stessa minestra tutti gli anni. E dove le trovi altre quattro giocatrici di così forte appeal?». La domanda era tutt'altro che fuori luogo. Eppure la risposta è arrivata pronta e decisa, grazie anche ad un pizzico di fortuna. Il posto delle sorellone Williams è stato preso da Maria Sharapova e Ana Ivanovic, le due giocatrici più avvenenti del circuito, ma che vantano (messe insieme) un totale di cinque Slam vinti. La Sharapova ha completato proprio quest'anno il Career Slam vincendo a Parigi l'unico Major che le mancava; la Ivanovic, dopo anni di appannamento, è tornata su livelli più che discreti, avvicinando la top 10 mondiale. Ma il capolavoro, la dea bendata l'ha compiuto con le giocatrici italiane. Con la Pennetta ferma ai box causa operazione al polso e Francesca Schiavone che pare avere la testa lontana dal tennis, dove scovare una coppia di campionesse made in Italy? Ed ecco, magicamente, comparire Sara Errani e Roberta Vinci. Non che trecentosessantacinque giorni fa fossero delle benemerite sconosciute, ma alzi la mano chi avrebbe scommesso quattro euro che Sarita avrebbe sfondato il muro della top 10 arrivando in finale a Roland Garros e che Robertina entrasse nella top 15. E ancora, che insieme arrivassero fino alla cima della classifica di doppio, che resta una specialità snobbata dalle giocatrici più forti e da gran parte del pubblico, ma che in questo caso è la più classica delle ciliegine sulla torta.

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Maria Sharapova, 25 anni, in carriera ha vinto tutti e quattro i tornei dello Slam ed è stata n.1 del mondo. Attualmente è n.2 WTA. Sara Errani, 25 anni, in carriera ha raggiunto una finale Slam a Parigi e una semi allo US Open nel 2012. Attualmente è n.7 WTA Ana Ivanovic, 24 anni, in carriera ha vinto un titolo dello Slam a Parigi 2008 ed è stata il n.1 del mondo. Attualmente è n.12WTA Roberta Vinci, 29 anni, all'ultimo US Open ha raggiunto i suoi primi quarti di finale in un torneo Slam. Attualmente è n.15 WTA


Altra scommessa vinta? Sulla carta, sicuramente. Un anno di esperienza gioverà agli organizzatori e l'ottimo ricordo dell'edizione 2011 servirà a riavvicinare il pubblico. I primi dati di biglietteria lasciano presagire un altro "tutto esaurito". Anzi, il rammarico è che Milano non disponga di un palazzetto moderno nelle sue infrastrutture e con una capienza da 18-20.000 posti, come le maggiori città europee. Un limite evidente quando si decide di organizzare un evento di questa portata. Anche perché se un tempo si doveva battere solo la concorrenza di tre-quattro paesi europei e degli Stati Uniti, oggi mezzo Oriente e mezzo Sudamerica, hanno potenzialità superiori. Lo dimostra il fatto che Roger Federer volerà in Argentina per due lucrose esibizioni contro Juan Martin Del Potro che gli frutteranno oltre due milioni di euro ma che attireranno anche 40.000 spettatori per le due sessioni, in una struttura appositamente creata per l'occasione. Soluzioni impensabili nel nostro paese. In realtà, De Filippis aveva abbracciato l'idea di un'esibizione maschile e avviato contatti con i manager di Federer e Murray, le cui richieste però farebbero scappare chiunque non goda di sostegni (economici, non di patrocinio) dalle istituzioni. Tuttavia, il progetto di un'esibizione maschile di grande prestigio non è abbandonata ma verrà ripreso appena salutate Ana e Maria. Due personaggi sulle quali val la pena concentrarci, anche perché nella città e nel paese della moda, rappresentano il non plus ultra che può offrire il panorama internazionale. Belle, affascinanti, chic, ma anche performanti e professionali. Se proprio vogliamo trovare qualche difetto alla Grande Sfida edizione 2011, dobbiamo sottolineare una Serena Williams che si limitava a urlare «too good», se la palla le passava oltre il metro e mezzo di distanza. E la sorella Venus, appena afflitta dalla sindrome di Sjoegren, non faceva di meglio. Insomma, uno spettacolo tecnico non totalmente degno della cornice. Ricordo che, appena sbarcate a Malpensa, chiesero di allenarsi all'Harbour Club. In realtà, si impegnarono maggiormente nell'allontanare due chiassosi soci che battagliavano sul campo fianco al loro. Ma il loro training non superò i dieci minuti. Da questo punto di vista, Sharapova e Ivanovic (per le giocatrici italiane non nutriamo dubbio alcuno) offrono maggiori garanzie. Cambierà anche la formula: niente match tie-break, ma un set pieno che vedrà di fronte Errani e Sharapova, in una curiosa riedizione della finale di Roland Garros, e quindi Vinci e Ivanovic (che vorrà vendicarsi della doppia bicicletta rimediata a Montreal). A chiudere, il doppio italiano contro il doppio che fa sognare gli italiani. Gli ingredienti per una giornata di successo ci sono tutti. In attesa che un giorno Milano torni anche ad ospitare un torneo professionistico. Uomini o donne, a questo punto non farebbe più grande differenza.

NELLA CITTÀ DELLA MODA, MARIA SHARAPOVA E ANA IVANOVIC RAPPRESENTANO IL NON PLUS ULTRA CHE PUÒ OFFRIRE IL PANORAMA INTERNAZIONALE: BELLE, AFFASCINANTI, CHIC MA ANCHE PERFORMANTI. ENTRAMBE SONO STATE IN CIMA AL RANKING MONDIALE E, MESSE INSIEME, HANNO CONQUISTATO CINQUE TORNEI DELLO SLAM. MA LA DEA BENDATA HA COMPIUTO IL SUO CAPOLAVORO CON SARA ERRANI E ROBERTA VINCI...

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Amar cord

TUTTO QUELLO CHE ABBIAMO PERSO (E SIAMO CONTENTI DI NON RITROVARE PIÙ) CANOTTIERE E PINOCCHIETTI

TESTI (E RICORDI) DI CORRADO ERBA

Ok, piacevano i bicipiti di Rafa belli scolpiti che guizzavano fuori dalla canotta. E anvedi poi i polpacci galeotti: donne e amici effemminati ci andavano pazzi. Il problema però si poneva al di fuori: il dentista cinquantenne legittimato all’esposizione delle gracilità bianchicce, il sovrappeso con i rotoli che debordavano fino al campo laterale. Perfino Mac, visto con i pinocchietti, sembrava un incanutito apolide del brutto. «El me par uno del biafra” biascicò il mio anziano zio alla vista del socio vestito alla pescatrice.

DALLA ERGONOM AI BATTISTONE: LE RACCHETTE PAZZE Ogni tanto qualche matto esce fuori con l’invenzione della vita. Nel nostro mondo poi, si sprecano. Per esempio, la Snauwaert Ergonom con il suo piatto asimmetrico (trovarono perfino un boliviano che ci giocò al Roland Garros. Perse al primo turno, chiaramente), che alla lunga contribuì alla bancarotta della gloriosa casa belga; quindi la Blackburn, racchettone a doppia incordatura: benefici? Beh, se durante lo scambio rompevi la corda, potevi proseguire con l’altro lato!

TENNISTI CON LA CHITARRA

Mcenroe ci ha ammorbato per anni. Intraprese perfino una tournée in Italia, con la gente che si strappava i capelli (e non dalla gioia). Pat Cash si mise a strimpellare una chitarra perfino nella metropolitana di Londra: nessuno lo riconobbe e non mise un penny in tasca, fino a che i bobby non lo portarono via. I fratelli Luke 98

Le svariate racchette con due manici, la cui utilità permane misteriosa e giocare a tennis è un’altra cosa (chiedete ai gemelli Battistone); la Jenro, che si montava in due pezzi separati (questa utile in tempi di Ryanair, peccato che vibrasse come uno xilofono); la Neoxx Carvingstar (buona per sciare?), la MacGregor Bergelin,dalla forma addirittura ottagonale e la possibilità di modificare la tensione delle corde in qualsiasi momento. Che fosse un retaggio delle nevrosi di Borg? e Murphy Jensen presero più “buuu” che altro, ma forse suonavano meglio di come giocavano (ed è tutto dire), mentre Guillermo Vilas provò a mettere in versi le sue poesie ma il commento più benevolo di un noto artista fu: «Ma perché? Io provo per caso a giocare tennis?» Insomma ci è riuscito solo Yannick Noah, ma lui è davvero un’altra storia…


Adieu, sorci

POMERIGGI DIVANATI AD “AMMIRARE” PEPE HIGUERAS CONTRO CORRADO BARAZZUTTI, HAROLD SOLOMON CONTRO EDDIE DIBBS. INSIEME C’ERANO GUIDO ODDO, I ROKES, IL SÌ DELLA PIAGGIO E IL MONOSCOPIO. TUTTI SPARITI. O FORSE NO? Se c’è almeno una cosa per la quale posso ringraziare gli odierni, terribili racchettoni super profilati, è il fatto che hanno eliminato, almeno a livello pro (a livello di club l’hanno esacerbato ma pazienza), la categoria dei pallettari. Ricordate? Pomeriggi divanati, le immagini tremolanti del Telefunken a rimandare Eddie Dibbs e Solly Solomon, Pepe Higueras e Pablo Arraya. Suonavano canzoni tristi alla radio: C’è una strana espressione nei tuoi occhi, schitarravano i Rokes, la mamma a strofinare in cucina, la sensazione di avere fatto male i compiti per il giorno dopo. Ci provava Guido Oddo a ravvivare, ma tant’è, nemmeno con le ballerine in tribuna. Ah, i pallettari! Generalmente brutti, o perlomeno abbruttiti da tutte quelle estati sotto il sole a picco, alcuni erano bruttissimi («Guardami - disse Adriano specchiandosi a Solomon, poco prima della finale a Parigi nel 1976 -.Adesso guardati tu: come faccio a perdere da uno come te?»). Magri come peones messicani, le gambette sottili, il viso sofferente e stracotto. E tu ti rigiravi inquieto sul divano, ma ai tempi l’alternativa era il monoscopio o la svizzera italiana, col Bellinzona che batteva il Massagno Basket col fiatone. E questi erano uno a uno nel primo set. Solomon e Dibbs, con quelle gambette da topolino arrivavano ovunque ributtavano testardi palline candide, ormai ammantate da un rosso sanguigno («Se giochi contro Dibbs non finirai mai il match con le calze pulite», disse Mark Edmonson). Pepe Higueras, la faccia ormai mattone, un viso incorniciato da una barbetta da conquistadores. Se veniva accoppiato a Corrado Barazzutti era la fine. Le traiettorie si alzavano a sfiorare la volta del cielo romano, la pazienza di Pepe sfiancò perfino Barazza che una volta (lo giuro, trovate l’immagine su www.bizarretennis.com) fece perfino serve and volley. E tu che finalmente ti appisolavi e ti mettevi a sognare la ragazzina del piano di sotto. E intanto Pablo Arraya scivola e affetta l’ennesimo back, la fronte larga, cinta da una fascia Ellesse. Finalmente ti svegli con tua madre che guarda incuriosita. Lo schermo è sempre rosso, gli omini sempre bianchi. «Ma la palla si vede?». «Si vede, si vede. Solo che è lenta». Lenta e spinta a fatica da queste maledette mazze da 4 etti. Le preferite? La Slazenger Vilas, la Jack Kramer Pro Staff, la Dunlop Maxyply, e via di corsa su queste maledette scarpette di tela bianche, Superga e Tepa Sport, altro che Nike Lunar Lite. E poi arriva Borg e pensiamo che sia uno di loro, solo più biondo, un alieno arrivato dal pianeta Sodertalje. «Che carino» attacca la ragazzina del piano di sotto, guardando il suo poster Fila e tu un po’ ingelosisci. Ma il tempo delle mele è andato. Ritrovi in un cassetto un poster di Manolo Orantes: sembrava vecchio a 25 anni e ti fa tenerezza. Il Sì Piaggio arrugginisce in garage, Guido Oddo è andato e cosi i Rokes e il monoscopio. Ma loro no. Sono sempre lì. Uno a uno al primo set. Vantaggio pari.

PAT CASH

«Il tennis femminile? Due set di spazzatura» 99


Amar cord

Mai più! ALBERTO BERASATEGUI HA PRESO A PALLATE I MANUALI DEL BEL TENNIS CON PRESE TALMENTE ESASPERATE DA COLPIRE DIRITTO E ROVESCIO CON LA STESSA FACCIA DELLA RACCHETTA

B

eresategui più che un giocatore di tennis mi sembrava un saltabecco. Non giocava ma saltabeccava, agilmente lo concedo, cercando disperatamente di aggirare la parte del rovescio, per scaricare un micidiale toppone di diritto. Colpo personalissimo, giocato con un’impugnatura ai limiti dell’impossibile, un grip estremo detto hawaiian, che consisteva nel tenere la racchetta con l’impugnatura del rovescio e scaricare micidiali twist rovesciati, che avrebbero spaccato i polsi a un lottatore di wrestling. Questo aveva. Un servizietto da seconda categoria, un rovescio tirato con una mano e mezzo, un gioco al volo inesistente (provate voi a colpire al volo con un hawaiian grip, manco Jack Kramer redivivo). Eppure, questo ragazzetto vispo, magrolino, nemmeno troppo alto, riuscì a insinuarsi per qualche breve stagione nelle parti alte di un circuito, che viveva quelle stagioni di mezzo, in cui gli immortali vivacchiavano e i comprimari erano quelli che erano. Of course, il nostro giocò solo sul mattone rosso, una superficie che morbidamente restituiva un rimbalzo che il nostro non si affannava ad aggredire e il micidiale spin generato buttava sui teli i comprimari di cui sopra. Erano anni in cui nei top 30 navigavano dimenticabili come Bohdan Ulihrach, Albert Costa, Francisco Clavet e Slava Dosedel, per inciso. Ancora inavvertiti gli avversari, il nostro trovò nel 1994 l’anno d’oro raggiungendo nove finali ATP (se è poco!) vincendone sette. Si arrampicò perfino, con mio vivo raccapriccio, alla finale al Bois de Boulogne di Parigi, dove venne battuto da Sergi Brugera in una finale da tagliarsi i polsi, ritrovandosi a novembre dello stesso anno al numero 7 del ranking mondiale (sette avete presente?). Pensavo che anche il più inavvertito degli avversari avrebbe capito che bastava aggirare il drive per martellarlo sull’incerto rovescio a una mano e mezzo, ma evidentemente non fu cosi, visto che il nostro basco saltellante (ah no, quello era Jean Borotra, scusate per la lesa maestà) continuò imperterrito a mietere tornei su tornei, sulla terra battuta.

Sempre in palcoscenici minori, ma comunque del circuito ATP, un rosario di Umago, Atene, Oporto, Palermo; di Oscar Martinez, Jordi Arrese, Carlos Costa, in un’ordalia di palle molliccie, unte di mattone, di traiettorie che volavano alte sulle reti e si impennavano impazzite. Avrebbero dovuto vietare quell’impugnatura come fosse la racchetta spaghetti! Eppure nisba, il nostro continuava imperterrito e addirittura, (è vero, lo giuro!) arrivò nei quarti di finale a Melbourne battendo prima “Emmo” Rafter, poi addirittura Andre Agassi, tritato dopo avergli fatto prendere un vantaggio di due set a zero. Ci volle Marcelo Rios a cancellare l’ignominia e la stella di Beresategui iniziò a declinare. Il polso cominciò a farsi dolorante, le gambette fameliche persero un po’ di smalto, e il nostro si ritirò presto, ben prima della trentina. Vagò un poco prima di capire cosa fare da grande. Cominciò occupandosi di edilizia, prima di decidere di rientrare nel mondo del tennis. Adesso allena un giocatore che più diverso da lui non potrebbe essere (in ogni senso), il bel Feliciano Lopez, testimone matto di un gioco serve and volley che in fondo, avrebbe voluto fare anche lui.

IN UN’ORDALIA DI PALLE MOLLICCIE, UNTE DI MATTONE, DI TRAIETTORIE CHE VOLAVANO ALTE SULLE RETI E SI IMPENNAVANO IMPAZZITE... 100


Marketing Player IL TEDESCO MARC KEVIN GOELLNER NON È STATO UN FENOMENO DI GIOCATORE MA CERTAMENTE UNO DEI PRIMI ESEMPI DI COME UN’OTTIMA AGENZIA DI COMUNICAZIONE SIA IN GRADO DI TRASFORMARE UN BUON GIOCATORE IN UNA STAR MONDIALE. E SENZA GRANDI SACRIFICI. ALLA FINE, È BASTATO GIRARE IL CAPPELLINO ALLA ROVESCIA...

I

mage is everything. Un claim al quale venne ingiustamente accostato un immortale come Andre Agassi, in realtà andrebbe riferito a un giocatore molto meno famoso. Marc Kevin Goellner fu il risultato di un esperimento di marketing applicato al tennis, una summa di concetti e disposizioni create per lanciare un prodotto, un giocatore che riempisse il vuoto di quella grande Germania ormai quasi orfana di Becker, Stich e Graf, ma perennemente affamata del prodotto tennis. Belloccio, poliglotta, multiculturale, era figlio di un diplomatico tedesco, il bel Marc Kevin. Iniziò a giocare a tennis mentre vagava per il mondo dietro il padre, (Rio de Janeiro,Tel Aviv, Sidney). Da junior non lasciò dietro di sè grandi tracce, ma appena arrivato sul circuito dei grandi si mise a studiare per bene... il marketing. Ancora fuori dai top 100, Goellner assunse un’agenzia di p.r. che come obiettivo avrebbe dovuto lanciare la sua immagine sul circuito. Prese ad inviare video promozionali alle aziende dal titolo: «Io Marc e i miei prossimi 10 anni sul campo», con My Way di Frank Sinatra in sottofondo. L’agenzia evidentemente lavorò bene, visto che una grande azienda di abbigliamento sportivo puntò decisamente su questo ragazzo allampanato, il quale, in realtà, una piccola novità la introdusse per davvero. Fu infatti il primo a portare il cappellino a rovescio, con la visiera rivolta sulle spalle (certo, non introdusse il top spin né il rovescio a due mani, ma tant’è...). La leggenda racconta che stava giocando un doppio talmente male che il suo compagno sbottò: «Santo cielo, fai qualcosa!». Lui girò il cappellino e, abracadabra, il futuro divenne più brillante. A contorno venne girato uno spot, in cui si sentiva una voce fuori campo che ammoniva: «Ma come si permette? Portare cosi il cappello non è regolamentare». Calava poi un’enorme mano dall’alto, che gli rigirava per bene il collo. Ad ogni modo, al bellimbusto riuscì anche il colpo che parve giustificare queste aspettative. In primavera, a Nizza, un torneo di secondo piano ma di grande tradizione, passò le qualificazioni e si arrampicò alla finale, dove battè un declinante Ivan Lendl. Tantò bastò a far scoppiare la Goellermania.A Neuss, paese nelle vicinanze di Dusseldorf dove giocava la Bundesliga con i locali Blau Weiss, iniziarono le scene di isteria collettiva, con tanto di ragazzine che gettavano la lingerie in campo. Le tv iniziarono a fare a gara per le interviste, una addirittura gli propose un reality ante litteram: l’avrebbero seguito sul tour per un anno intero. All’agenzia di p.r. si affiancò ben presto Alex Mayer Wolden, un manager tedesco; gli addetti stampa divennero due, tra cui uno fisso a marcare Kevin a uomo,con lo scopo di insegnarli a rilasciare dichiarazioni sempre spendibili e compiacenti il pubblico locale. Esempio: «Roma? Qui il torneo è cosi bello che dovrebbe durare due mesi». Bastava chiedere per essere subissati di statistiche: Il

RICHARD KRAJICEK

suo p.r. dichiarò che il nome di Kevin, solo nel mese di luglio 1993, era stato citato dai giornali per ben 14.000 volte. Osservatori ben interessati iniziarono a incensare il suo gioco, imperniato su un robusto servizio e una spazzolata di diritto appena discreto. In pochi mesi, senza entrare nei top 20 ATP (e mai ci mise piede), Goellner firmò contratti miliardari con tre diverse aziende (Mueller, Ray Ban e City Bank), lasciò la vecchia fidanzata Karin e iniziò ad apparire su rotocalchi vari, appiccicato a modelle e stelline di vario tipo. A fine anno, nonostante i pochi acuti, fatto salvo la rocambolesca vittoria di Nizza, Kevin trionfò in Davis, ancorchè sconfitto, dopo aver fallito cinque match point, con il non irresistibile tasmaniano Richard Fromberg. «Il 1994 sarà il mio anno», disse. Sfortunatamente, il nostro non riuscì a sfondare il muro dei top 25. Anzi, cominciò a pascolare placidamente nelle retrovie delle classifiche. Carriera che proseguì in totale anonimato, se escludiamo la vittoria nel balneare torneo di Marbella nel 1996. Chiuse nel 2001 senza fanfare il suo modesto escursus nel tennis che conta. Se fate un salto nella Hall of Fame del tennis a Newport, state certi, non lo troverete.

«L’ottanta per cento delle tenniste sono delle pigre, grasse maialine» 101


Amar cord

I TORNEI ROUND ROBIN L’idea venne a Etienne De Villers, un manager sudafricano, proveniente dalla Disney Corporation, che fu nominato CEO del’ATP nel 2006. Dato che per anni tutti avevano verificato come la formula a gironi fosse totalmente contraria allo spirito del gioco (viste le combine che poteva creare), il nostro amico pensò bene di tradurre in vari tornei la formula del round robin, gironi da quattro giocatori con i primi due che si qualificavano per il tabellone a eliminazione diretta. «Porterà più pathos,

spettacolo e suspence», annunciò tutto contento. La novità introdotta a gennaio 2007 riuscì a durare ben tre mesi, quando venne abolita a furor di popolo, anche perché al torneo di Las Vegas, l’ATP non riuscì nemmeno a chiarire quale dei giocatori dovesse passare il turno in caso di parità nel girone. Passarono pochi mesi e anche il signor De Villers passò a miglior vita (professionale, s’intende): si dice che ora faccia il figurante dentro il pupazzo di Topolino, presso Epcot Center...

Show Business

LE ESIBIZIONI SONO SEMPRE STATE CONTRASTATE DA UN CERTO ESTABLISHMENT CHE LE GIUDICAVA UNO SPETTACOLO SENZA PATHOS CHE SERVIVA SOLO AD ARRICCHIRE I GIOCATORI E QUALCHE ORGANIZZATORE. ORA HANNO TROVATO UNA GIUSTA MISURA, MA UNA VOLTA SI ESAGERAVA NON POCO

F

ermate le esibizioni! Le esibizioni uccideranno il tennis! Così titolava una nota rivista di tennis. Si era agli inizi degli Eighties, gli anni d’oro delle cosiddette esibizioni. All’epoca, il jet tennis era ben lungi dal coprire il globo terracqueo, valevano i tornei dello Slam (e nemmeno tutti, Melbourne era vieppiù snobbato) e i cari vecchi classici, quali Montecarlo, Roma e compagnia. Molte città, nemmeno tanto piccole, non erano nemmeno sfiorate dai campioni del gioco. Per ovviare a tutto ciò, organizzatori grandi e piccoli mettevano in piedi vari tour, a volte massacranti, che comprendevano due o quattro giocatori che si sfidavano ogni sera in una città diversa (un vecchio schedule di Bjorn Borg e Vitas Gerulaitis prevedeva: Buenos Aires, Rio, Montevideo, Santiago del Cile, Lima e Miami, tutto in 7 giorni). Questo circo, oltre ad essere graditissimo dal pubblico che riempiva le arene, era faticoso, ma molto lucroso per i giocatori i quali a un certo punto iniziarono a preferire le esibizioni piuttosto che cimentarsi in tornei medio piccoli che a loro poco interessavano, sia in termini di punti che di denari. Tali eventi iniziarono a fioccare, veicolando nelle arene un pubblico che, a digiuno di grande tennis, impazziva per le big stars. Dal canto loro, la lucrosità dell’evento iniziò ad attirare svariati promoters, molti provenienti dal mondo del rock: «La gente non viene per vedere solo due ragazzotti uscire dagli spogliatoi, tirare due palle e scappare con l’assegno. La gente vuole musica, effetti speciali e rock n’ roll» dichiarò Steve Corey, un grosso promoter texano di concerti rock, traslato al tennis. Addirittura, per la entrée di un tour in California di Borg e Connors, gli organizzatori convocarono gli stessi tecnici degli effetti speciali che avevano lavorato per E.T. e Superman. «La maggior parte delle persone accorre agli eventi unicamente per i 10 minuti iniziali e per i 10 minuti finali, questo è quello che abbiamo imparato dalla nostra esperienza ed è questo che

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proponiamo al pubblico» diceva Terry Stamps, un altro promoter di rilievo. Ovvio che a certo punto, le allora poco sviluppate organizzazioni dei giocatori, il MITCP e l’ATP, di concerto con i promotori dei tornei, cercassero di porre un freno al fenomeno, inizialmente con poco successo. Addirittura si cercò di fissare un tetto di partecipazioni ai giocatori, i quali potevano giocare un massimo di 8 top events, ovvero con un montepremi sopra i 280.000 dollari (e i sottobanchi?). Ovvio che i giocatori se ne infischiassero: «Le esibizioni? Mi piacciono! Essendo poi a fine carriera è meglio che mi concentri su pochi eventi» chiosava Jimmy Connors (la cui carriera nel 1982 era però ben lunga dall’esaurirsi). John McEnroe prese ad organizzare direttamente alcuni eventi, che lo portavano a giocare un paio di tournèe annuali da 10-15 match, in diverse città americane. Jerry Diamonds della WTA ebbe addirittura a dichiarare che «le persone che vanno a vedere le esibizioni devono essere proprio stupide: non è tennis, è solo fumo musica e rumore». Nonostante da più parti si alzassero voci allarmate, il fenomeno poco a poco si esaurì. Da un lato, organizzatori sempre più improvvisati iniziarono a mettere su eventi scombinati. Ricordo un’esibizione deserta al Lido di Venezia con Panatta e tal Butch Walts (se qualcuno se lo ricorda, Butch Walts intendo, pago da bere). Da un altro lato, il circuito iniziò a espandersi sempre più e il calendario si infittì talmente che i top players cominciarono a non avere più alcun tempo da dedicare alle esibizioni. Al momento, resistono, sopratutto negli Stati Uniti. Esibizioni di vecchie glorie («Venite a vedere McEnroe sfidare Bjorn Borg!») oppure sfide estemporanee di un giorno solo, che ancora trovano il pubblico ben disposto. Rimane la mega esibizione di inizio anno ad Abu Dhabi che però, ad ogni modo, sembra essere prodroma a un prossimo, grande torneo ATP di inizio anno


Facce da (non) ricordare PER L’AMOR DEL CIELO, NON ESISTONO SOLO PETE SAMPRAS E ANDRE AGASSI, ROGER FEDERER E RAFAEL NADAL. IL TENNIS OFFRE TANTI CAMPIONI O SEMPLICI GIOCATORI CHE MERITANO ATTENZIONE. TUTTAVIA, VE NE SONO STATI ALCUNI CHE NON RIMPIANGIAMO DI VEDERE PIÙ (E ALTRI CHE ANCORA CI TOCCA VEDERLI). ECCO UNA (LIMITATA) CARRELLATA DI PERSONAGGI CHE NON RIMPIANGIAMO

INDOVINA CHI SONO...

In alto, da sinistra: George Bastl, reo d’aver battuto a Wimbledon Pete Sampras; Julien Benneteau, uno dei 5 tennisti meno simpatici (con l’aggravante di essere ancora nel Tour); Albert Costa: Fabrizio Caldarone, allora uomo-Prince, ci obbligò a intervistarlo per avere un’esclusiva con Juan Carlos Ferrero, allora n.1 del mondo; Michaella Krajicek, per averci fatto sognare di essere come il fratellastro; Anastasia Myskina, per aver scippato un Roland Garros e aver insultato tutti i suoi coach; Yvonne Meusberger, fate voi...; Bohdan “Yawn” Ulihrach: anche a osservarlo per ore, non lo riconosceresti mai; Gabriel Trifu: se dite che lo conoscete e l’avete visto giocare, siete mentirosi.

RICHARD KRAJICEK «Credo di aver esagerato. Diciamo che il 75% delle tenniste sono pigre, grasse maialine» 103


Photo by Monique Filippella

In questa pagina, un'immagine dell'ingegner Angelo Binaghi, appena rieletto Presidente della Federazione Italiana Tennis. Nessun altro si è presentato come possibile antagonista, anche a causa di alcune regole molto discusse create dallo stesso Binaghi grazie ad una modifica dello statuto federale. A parte Beppe Croce (presidente dal 1911 al 1927), la presidenza dell’ingegnere sardo diventerà la più lunga dopo quella di Paolo Galgani, avvocato fiorentino in carica dal 1976 al 1997, quando fu costretto a dare le dimissioni.

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ELEZIONI FIT

TUTTI GLI UOMINI DEL PRESIDENTE L’INGEGNER ANGELO BINAGHI È STATO RIELETTO PRESIDENTE DELLA FEDERAZIONE ITALIANA TENNIS, SENZA AVVERSARI E CON IL CONSENSO DELLA STRAGRANDE MAGGIORANZA DEI CLUB ITALIANI.

MA È UN BENE O UN MALE?

ECCO UN EXCURSUS CHE SPIEGA COME SI È ARRIVATI ALLA SITUAZIONE ODIERNA

INCHIESTA

di Riccardo Bisti 105


INCHIESTA

Q

uando il Marchese Piero Antinori fondò la Federazione Italiana Tennis era il 18 maggio 1910. Da allora sono passati 102 anni e 13 presidenti. Oltre un secolo in cui il candidato uscente non ha mai perso le elezioni. E la tendenza d enza non è certo cambiata. Lo scorso 9 settembre, Angelo Binaghi ha stravinto la seconda assemblea senza avversari e ha prolungato fino al 2016 una presidenza iniziata a Fiuggi il 18 dicembre 2000. A parte Beppe Croce (presidente dal 1911 al 1927), la presidenza dell’ingegnere sardo diventerà la più lunga dopo quella di Paolo Galgani, avvocato fiorentino in carica dal 1976 al 1997 quando fu costretto a dare le dimissioni. Ma è giusto avere presidenze così lunghe? E soprattutto, è giusto instaurare meccanismi di conservazione del potere che consentono al presidente in carica di modificare i regolamenti (compreso lo statuto, una specie di Costituzione del tennis italiano)? Per darci qualche risposta e capire i meccanismi che hanno portato la FIT (e altre federazioni) a un immobilismo dirigenziale che si riflette, con pregi e difetti, anche sul tennis giocato, ci siamo addentrati in un mare di politica e regolamenti. Prima di tutto: cosa ha reso possibile la rielezione di Binaghi? Per capirlo bisogna risalire al 2008, quando il CONI ha cambiato il proprio statuto, aggiungendo una postilla alle linee guida stabilite nel 2004, quando si decise di limitare a due mandati le presidenze delle varie federazioni. Modificando l’articolo 36-bis (comma 4) si è deciso di concedere un terzo mandato a patto che il presidente uscente prenda almeno il 55% dei voti.Allo stesso tempo, si è azzerato quel che è stato fino al 2004. In altre parole, il primo mandato di Binaghi (2001-2004) è come se non si fosse mai compiuto. La FIT ha immediatamente recepito il dettame CONI,

modificando lo statuto nel dicembre 2009 (con ratifica CONI nel marzo 2010). Oltre a consentire il terzo mandato, il nuovo statuto ha creato dei veri e propri “sbarramenti” alle candidature. La candidatura a presidente, infatti, deve essere sottoscritta da almeno 300 affiliati, 200 atleti e 20 tecnici. Una cifra enorme soprattutto per gli affiliati, oltre il 10% del totale. Gli statuti di altre federazioni prevedono norme simili ma con una richiesta di sottoscrizioni inferiore all’1% del totale. Queste norme sono state impostate dal consigliere Mario Collarile (nella forma, non nei numeri). Per parlare di questo (e altro), abbiamo provato a contattarlo. Dopo un’iniziale disponibilità, ha preferito non rilasciare dichiarazioni. «Io credo che gli sbarramenti siano giusti – racconta Paolo Galgani, oggi presidente onorario – personalmente sono per la massima libertà, infatti durante la mia presidenza mi è capitato di avere candidati allo sbaraglio, senza alcun circolo alle spalle. Credo che abbiano fatto così per evitare polemiche e avventure elettorali. Se uno ha un certo seguito è giusto che concorra, altrimenti è inutile perdere tempo». La visione di Galgani non è condivisa da Ettore Trezzi, storico oppositore dell’establishment federale, presidente del Comitato Regionale Lombardo per 30 anni, dal 1974 al 2004 («11.111 giorni» precisa lui). «Personalmente non mi interesso più a questioni politiche perché ho visto cose scandalose. Dico solo una cosa: è vergognoso che il CONI abbia approvato lo statuto. Capisco chi lo ha proposto, lo fa per il proprio interesse. Ma il CONI non può permettere una cosa del genere. Ed è la prima volta nella storia che un presidente si conferisce uno stipendio». L’allusione è all’articolo 52 comma 8 dello statuto, che recita: «Al Presidente federale e ad altri componenti di organi direttivi nazionali, investiti di particolari cariche, che saranno individuati dal Consiglio federale, spettano, inoltre, indennità determinate dal Consiglio federale stesso, in conformità dei criteri e dei parametri stabiliti dalla

In alto da sinistra, Sara Errani e Roberta Vinci, le due nuove top player italiane che hanno garantito un immediato ricambio dopo la crisi di risultati di Schiavone e Penntta. In particolare la Errani con la finale a Parigi e la semifinale a NewYork ha consolidato gli ottimi risultati azzurri negli Slam femminili. A destra, Andreas Seppi tornato nella squadra di Davis dopo non pochi problemi insorti con l'attuale dirigenza Fit.

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Giunta nazionale del C.O.N.I.».. Una ventina d’anni fa, Galgani rifiutò un’indennità di 60 milioni annui: «ÈÈ vero, ma a differenza di Binaghi, che è spesso a Roma, io gestivo la federazione al 75% dal mio studio fiorentino – racconta Paolo Galgani – avevo due segretarie e il rimborso per la linea telefonica. Per questo, durante la mia presidenza ho regalato 40 milioni all’anno alla FIT. Ovviamente me lo potevo permettere: guadagnavo bene come avvocato e stavo bene di famiglia. Credo che l’attuale norma sia giusta perché non tutti i presidenti possono avere un introito. Io ce l’avevo e per questo rifiutai». Un altro grande conoscitore di vicende federali è Vincenzo Maritati, ligure, consigliere nell’era Galgani e protagonista di una storia molto curiosa, mai diventata di dominio pubblico. «Lo statuto viene cambiato spesso, la cosa non mi stupisce. Sono fuori dalle vicende federali da 10 anni, ma Binaghi mi sembra un padre-padrone senza alcuna opposizione. L’obbligo di sottoscrivere la candidature mi sembra fatta apposta per ricattare chi appone la firma per il candidato oppositore. Sono norme fatte per creare difficoltà, non c’è alcuna democrazia». Ma come si svolgono le elezioni FIT e, soprattutto, come è possibile che vinca sempre il presidente uscente? Negli anni, i criteri elettorali sono cambiati. Ma c’è una costante: le famigerate deleghe. Se un circolo non ha tempo, voglia o interesse a partecipare all’Assemblea, può lasciare la delega (anche in bianco) a qualcun altro.Attualmente un circolo può portare fino a tre deleghe di club della stessa fascia, anche se all’Assemblea di Fiumicino si discuterà la possibilità di aumentarle a quattro. A nostro parere, è un sistema antidemocratico e vergognoso. Sfrutta il disinteresse dei circoli, più sensibili a favori e/o promesse in cambio della preziosa delega. E c’è un’aggravante: ammettiamo che un club abbia tre deleghe e dunque quattro voti in mano. Se i deleganti hanno idea di votare due candidati diversi, sono fregati: il delegato presenta le schede in blocco e la preferenza va solo a un candidato. In teoria può essere successo che il circolo volesse votare A ma che poi, tramite delega, abbia votato B. «Il sistema di votazione è sempre stato iniquo – dice Maritati –. Prima i grandi circoli potevano condizionare tutto, avendo un peso elettorale molto maggiore. Bastava che 50 grandi circoli si mettessero d’accordo per rendere inutile il voto degli altri

3.000. Il rapporto di voti a disposizione tra il grande circolo di città e quello di provincia era di 100 a 1. Un’esagerazione». Oggi i club sono divisi in tre fasce: Fascia A (con 3 voti a disposizione), Fascia B (2 voti) e Fascia C (1 voto). «Così è sbagliato al contrario. Non è giusto che un grande club abbia quasi lo stesso peso di uno piccolo. Ci vorrebbe una via di mezzo». Ma le deleghe continuano a sopravvivere. «Le deleghe ci sono sempre state, non si può pretendere che tutti i circoli siano presenti all’Assemblea – dice Galgani –. Credo che ci saranno sempre, anche perché non vedo possibile un altro sistema di votazione». «Ci sarebbe eccome – aggiunge Trezzi, fiero oppositore di Galgani ma sincero amico dell’ex presidente –: io abolirei le deleghe e darei la possibilità di voto a tutti i tesserati, mettendo regolari seggi nelle sedi dei comitati provinciali o regionali. Ogni tesserato ha il diritto a esprimere il proprio parere: così facendo il cittadino virtuoso andrebbe a votare, il disinteressato resterebbe a casa. Con un sistema del genere ci sarebbero risultati sorprendenti. Provi a chiedere in giro il consenso reale all’attuale dirigenza. Abolire le deleghe, a mio parere, farebbe una grande pulizia». Senza considerare che gli attuali sistemi informatici consentono votazioni senza necessità di essere presenti in loco. Tra i pochi candidati alternativi ai presidenti uscenti c’è stato l’Avvocato Massimo Rossi, ex presidente della Pro Patria Milano e fine conoscitore di carte e regolamenti. Forte della sua esperienza, il suo ragionamento va oltre: «Deleghe, sbarramenti…sono argomenti farlocchi. Purtroppo c’è un equivoco di fondo: nelle altre federazioni, gli affiliati concorrono alla creazione di atleti di livello. Per questo sono interessati alla vita federale. Nel tennis tutto questo non ha rilevanza. I club non hanno alcun legame con la federazione e da qui nasce il disinteresse per l’argomento elezioni. Ingenuamente, pensavo che le deleghe si conquistassero convincendo i presidenti di circolo che il tuo programma è il migliore. Mi piace l’idea di una campagna elettorale sul territorio, ma ho sempre riscontrato un disinteresse totale. Mi guardavano come se fossi un marziano! Ai circoli interessano i soci, il bar, il ristorante, i campionatini a

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INCHIESTA

squadre. Nel tennis è dunque impossibile scalfire il potere. La storia insegna che solo scandali o pressioni politiche possono farlo». Secondo Rossi, l’unico programma elettorale che farebbe presa sui circoli sarebbe la promessa di riduzione delle tasse «Perché oggi i circoli pagano moltissimo. Ma nessuno può fare una promessa del genere perché il carrozzone federale costa parecchio. E non dovrebbe essere così.Avete dato un’occhiata alle commissioni FIT? Sono una cosa esilarante. Centinaia di persone che si incontrano a spese della federazione. Il mio ideale sarebbe un’organizzazione snella che si disinteressa della base e destina i fondi per l’attività di vertice e il sostegno dei migliori giovani. Per la base, i circoli e gli enti di promozione vanno benissimo». Tra deleghe e sbarramenti, insomma, il sistema sembra inscalfibile. C’è un rapporto di forza troppo squilibrato. Basti pensare agli organi di giustizia: procura, corte federale e corte d’appello sono nominati dal consiglio federale. Se nasce una controversia tra la FIT e un affiliato, sono chiamati a indagare e giudicare gli organi nominati dalla stessa FIT. È come se Galliani o Moratti scegliessero l’arbitro di Milan-Inter. La discrezionalità dei regolamenti è una delle armi che consente presidenze così lunghe. Il limite di due mandati imposto nel 2004 sembrava un buon sistema per garantire il ricambio, ma è stato lo stesso CONI a effettuare una parziale retromarcia, alimentando l’attaccamento alle poltrone. Eppure, nel giorno del suo insediamento, Angelo Binaghi disse che non bisogna restare presidente per più di due mandati. Evidentemente ha cambiato idea. Ma è legittimo domandarsi se presidenze così lunghe siano giuste. «Se dicessi che non è giusto contraddirei me stesso – chiosa Galgani –. Io credo che un presidente di un qualsiasi organismo debba rimanere tale finché ha entusia-

smo e la maggioranza dei consensi. Se ci sono entrambi i presupposti credo che debba andare avanti, anche perché con il tempo si acquisisce l’esperienza. Se poi la legge stabilisce un limite va bene, ma deve valere per tutti, a partire dai parlamentari. C’è gente che oggi si presenta come nuova ma è lì da 35-40 anni. Mettiamoci d’accordo: se nello sport deve esserci turnover, deve essere così anche in Parlamento». Galgani ha guidato la FIT per 20 anni, eppure aveva tutta la stampa contro. «Di sicuro Binaghi è stato più bravo di me nei rapporti con la stampa. Io ho sempre avuto rapporti cordiali a livello personale, ma per carattere non mi sono mai arruffianato nessuno. Pensi che mi sono fatto dei nemici solo con delle battute. Di sicuro la TV SuperTennis, ottima iniziativa, è anche un’arma di pressione notevole». Parlare con Galgani è piacevole, interessante. Ha commesso degli errori, è il primo a riconoscerlo, ma trasmette una straordinaria umanità.Viene spontaneo chiedergli quali devono essere le doti di un buon presidente FIT. La risposta è un capolavoro: «Ognuno ha le proprie caratteristiche. La presidenza Binaghi è diversa dalla mia perché sono epoche diverse e abbiamo caratteri diversi. In linea generale bisogna saper conciliare una gestione onesta con il rapporto umano. Un dirigente dilettante non può prescindere dal rapporto umano con le persone. La gestione deve essere il più possibile seria e manageriale. I risultati, invece, prescindono dalla qualità dei dirigenti. Ci sono federazioni disastrate che ottengono grandi risultati e altre molto ben strutturate (tra cui la nostra) che non hanno avuto grandi soddisfazioni, a parte i recenti grandi risultati nel settore femminile». Insomma, a distanza di anni, resta fedele alla mitica battuta: «Il campione ce lo manda solo il Padreterno». «Un limite di due mandati sarebbe corretto – interviene Maritati – forse allungherei a tre: bisogna tenere presente che in quattro anni non si riesce a incidere. La macchina è difficile da comprendere subito, come in qualsiasi carica pubbli-

Nelle foto sopra, Francesca Schiavone e Flavia Pennetta, le prime due azzurre capaci di entrare nella top 10 mondiale, hanno aiutato non poco a dare un'immagine positiva del tennis italiano. In particolare la Schiavone con la vittoria a Roland Garros, visto che la milanese è una delle poche giocatrici cresciute tennisticamente in Italia e migliorata grazie all'intervento "federale" di Renzo Furlan e Corrado Barazzutti.

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I PRESIDENTI DELLA FIT

LE ULTIME ELEZIONI FIT

1910: Piero Antinori 1911 – 1927: Beppe Croce 1927 – 1928:Augusto Turati 1929 – 1938:Alessandro Lessona 1938:Attilio Fontana 1940 – 1941: Erberto Vaselli 1949 – 1957:Aldo Tolusso 1958 – 1969: Giorgio De Stefani 1969 – 1973: Luigi Orsini 1973 – 1976: Giorgio Neri 1976 – 1988: Paolo Galgani 1988 – 1989: Mario Pescante (Commissario Straordinario dal novembre 1988 al marzo 1989 1989 – 1997: Paolo Galgani 1998 – 1999: Francesco Ricci Bitti 2000: Gianguido Sacchi Morsiani (Commissario Straordinario da gennaio a luglio) e Luigi Tronchetti Provera: (Commissario Straordinario da agosto a dicembre) 2001 – ?:Angelo Binaghi

18 GENNAIO 1997 – Roma, Hotel Cavalieri Hilton Paolo Galgani 56,49% (41.943 voti) Francesco Ricci Bitti 42,76% (31.751 voti) Massimo Rossi 0,49% (364 voti)

ca. Direi tre mandati, anche perché in questo lasso di tempo un presidente deve essere in grado di trovare successori bravi come lui. Fermo restando che se uno non è bravo, può essere mandato via dopo due giorni». Massimo Rossi, al contrario, è convinto che due mandati siano più che sufficienti. «Nel programma delle mie candidature, ho sempre posto il limite dei due mandati. Il problema, ripeto, è il disinteresse del movimento. Oggi, purtroppo, è il movimento stesso che non è in grado di esprimere un candidato serio». Purtroppo c’è un equivoco di fondo, che non riguarda solo il tennis ma tutto lo sport italiano. Non ha senso che lo sport sia in mano a dirigenti dilettanti. La carica di presidente dovrebbe essere onorifica, di rappresentanza, senza un vero potere decisionale. La figura del presidente dovrebbe essere affiancata da quella di un professionista, un general manager o un amministratore delegato che si occupi degli aspetti tecnici e gestionali della federazione. Un po’ come fanno negli Stati Uniti, dove il ruolo di presidente non è così ambito. Il presidente USTA resta in carica per due anni, poi cade e il suo posto viene preso in automatico dal vicepresidente. Un ricambio che non influisce sull’indirizzo della federazione, perché il ruolo più importante è quello di amministratore delegato. Negli Stati Uniti hanno avuto un “mostro” come Arlen Kantarian, che ha fatto un capolavoro dopo l’altro: ha portato a oltre 700.000 spettatori lo US Open, ha proposto i campi blu per migliorare la visibilità, ha portato la finale femminile in prime time sulla tv americana e si è inventato la US Open Series. Semplicemente, in qualità di professionista, ha dato alla USTA una gestione manageriale che un dilettante non sarebbe mai in grado di dare. Chiaramente, è stato pagato di conseguenza (ha ricevuto un bonus di oltre 9 milioni di dollari quando ha chiuso la sua collaborazione nel 2008, dopo otto anni di grandi successi). In Italia, fino ad oggi, i presidenti delle federazioni arrivano dal mondo della politica sportiva, con i loro vizi e le loro virtù. Un sistema che non cambierà, ma con limiti precisi. Come detto, in 100 anni di FIT le elezioni hanno sempre incoronato il presidente uscente. «In Assemblea non c’è mai stato un vero e proprio dibattito – sostiene Maritati –, c’è sempre stata l’abitudine che le elezioni fossero la consacrazione di un presiden-

7 FEBBRAIO 1998 – Bellaria, Centro Congressi Francesco Ricci Bitti – 70,99% (49.847 voti) Stefano Leone Gaudenzi – 20,21% (14.188 voti) Massimo Rossi – 5,48% (3.847 voti) 18 DICEMBRE 2000 – Fiuggi, Palaterme Angelo Binaghi – 63,39% - (1.638 voti) Rino Tommasi – 34,25% - (885 voti) 14 NOVEMBRE 2004 – Castellaneta Marina Angelo Binaghi – 75,71% - (1.711 voti) Luigi Tronchetti Provera – 24,29% (549 voti) 13 SETTEMBRE 2008 – Verona, Fiera Angelo Binaghi – 94,94% (2.231 voti)

te scelto in precedenza. Non c’è mai stata una vera lotta, chi ha vinto lo ha fatto con percentuali molto alte, anche quando si presentò un candidato apparentemente forte come Giulio Malgara». Quest’ultimo si presentò nel 1989, ma poi ritirò la candidatura in una delle assemblee più movimentate. La storia ci dice che le presidenze possono cadere soltanto per via politica o a causa di uno scandalo. Come è accaduto a Galgani e come accadde qualche anno dopo, a seguito delle dimissioni di Francesco Ricci Bitti. Un periodo su cui vale la pena fare piena luce, grazie all'avvocato Galgani: «Sono stato l’unico presidente fatto fuori per via politica. Allora fui tradito da una persona a cui volevo bene, di nome Adriano Panatta.Venivamo entrambi dal PSI, io ero un craxiano e sono rimasto di quella idea. Lui forse no. Mi chiese delle cose che non potevo dargli, Panatta esagerò (si parla della richiesta di un contratto di 500 milioni, ndr). Lui decise di farmela pagare tramite Walter Veltroni, all’epoca vicepresidente del Consiglio dei Ministri con delega allo sport. Fecero leva su Mario Pescante, all’epoca presidente del CONI, uno che non ha mai avuto scrupolo a sacrificare gli amici per il proprio egoismo.Avevo tutti contro, ma ero stato eletto con quasi il 60% delle preferenze. Non c’era alcun motivo tecnico per dimettermi ma c’era una pressione enorme, mi vennero persino messe in bocca delle cose che non avevo detto, sembravo l’ultimo delinquente della terra. Allora decisi di dare le dimissioni, pur senza aver mai perso un’Assemblea, primo e unico presidente ad essere fatto fuori in questo modo. In quel periodo Veltroni si occupava della formazione di Coppa Davis, ignorando la legge del CONI che dava autonomia tecnica alle federazione. Io dovevo rendere conto ai miei affiliati e non certo al ministro vigilante, che semmai doveva controllare il CONI. In due parole, Pescante mi fece fuori per tenersi buono il potente di turno». Prima di dimettersi, Galgani vinse le elezioni più equilibrate della storia, battendo Francesco Ricci Bitti, suo ex vicepresidente. «Qualche tempo prima ci fu la famosa scissione tra Galgani e Ricci Bitti – racconta Vincenzo Maritati – e fui io a provocarla. Durante un consi-

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INCHIESTA

glio dichiarai che ero contro e che non l’avrei più votato». Dopo le dimissioni di Galgani, l’elezione di Ricci Bitti fu un passaggio naturale.Alle elezioni di Bellaria, nel 1998, l’attuale presidente ITF prese il 70% dei voti e nacque un consiglio di cui facevano parte lo stesso Maritati e alcune facce nuove, tra cui Angelo Binaghi. Un paio d’anni dopo, Ricci Bitti diede le dimissioni perché stava per andare a presiedere la federazione internazionale. La storia ufficiale racconta di un commissariamento durato un anno e gestito da Gianguido Sacchi Morsiani prima e Luigi Tronchetti Provera poi, fino all’elezione di Binaghi. Ma accaddero anche cose che all’epoca non divennero di pubblico dominio. «I regolamenti sono chiari – dice Maritati – in caso di dimissioni del presidente, il vicepresidente (all’epoca era il piemontese Romano Frola) avrebbe dovuto indire nuove elezioni entro 90 giorni. Sembrava proprio che io fossi candidato alla presidenza». Affermazione confermata da più persone che bazzicavano l’ambiente federale in quel periodo. «Tutti volevano Maritati presidente» ci siamo sentiti rispondere all’unisono. E invece? «E invece Adriano Panatta riuscì a far commissariare la federazione. Era un atto contro lo statuto, ingiustificato. Panatta non voleva che Frola gestisse la federazione, non voleva che io diventassi presidente. allora ha creato un gruppo che potesse seguirlo. Durante Italia-Finlandia di Coppa Davis nel 1999 puntò sul trio composto da Angelo Binaghi, Fabrizio Gasparini e Gianni Milan. È riuscito a fare quel che desiderava e Ricci Bitti non si oppose al commissariamento, forse perché aveva qualche interesse». Quel che accadde portò l’uscita di Maritati dalla politica federale dopo quasi 30 anni di carriera. «Col senno di poi è stata una fortuna, perché ho potuto dedicarmi alla famiglia e al lavoro. Nel frattempo sono diventato primario (fa il ginecologo, n.d.r.). Con gli anni ho recuperato il rapporto con Adriano, il quale ha ammesso di aver sbagliato a puntare su altri personaggi».

Il viaggio nel mondo della FIT ci ha dato risposte interessanti. Il sistema attuale – salvo scossoni – è perfetto per autoalimentarsi ma difficilmente porta a uno sviluppo.Va detto che ogni realtà è figlia del proprio ambiente: se i circoli non sono interessati alle vicende federali, se non c’è una forte pressione sull’operato di una federazione, le cose non cambieranno. Non è un problema di persone, ma di sistema. Paolo Galgani e Angelo Binaghi hanno caratteri diametralmente opposti, eppure hanno entrambi subito il fascino di una poltrona, magari perdendo di vista altri obiettivi. Anni fa, Stefano Semeraro scriveva che – se avesse avuto avversari di qualità e competenza – Galgani sarebbe stato un grande Presidente. Plausibile. Al di là delle nostre riflessioni, ci si domanda perché Angelo Binaghi non abbia avversari da otto anni. Ettore Trezzi ha una convinzione: «Galgani non ha mai commissariato nessuno. Da quando Binaghi si è insediato, sono stati commissariati i Comitati Regionali di Veneto, Piemonte, Marche, Basilicata, Emilia Romagna, Molise e Campania. Guarda caso, erano tutti quelli contrari alla linea di Binaghi. È un modo di fare politica da killeraggio. La motivazione è sempre la stessa: gravi irregolarità amministrative. In Lombardia, come revisore dei conti, avevo il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano. Quali ruberie avrei potuto fare?». Noi non sappiamo se Angelo Binaghi sia il miglior presidente possibile (anche se qualche dubbio resta...). Ma siamo convinti che il dibattito, il pluralismo e la critica siano cardini della democrazia. Cosa dovrebbe esserci di più democratico di una federazione sportiva? E allora perché tanti dirigenti regionali, locali e di circolo mugugnano sott’acqua ma poi chiudono la bocca quando è il momento di esprimersi? Perché non esiste un’alternativa a Binaghi? Perché alcuni giornalisti sono trattati coi guanti e altri col bastone? Angelo Binaghi resterà alla guida della FIT fino al 2016. Forse sarà il suo ultimo mandato (o forse no). È una grande occasione per ricompattare un ambiente che è molto meno unito di quanto dicano le percentuali bulgare che raccoglie in Assemblea.

Nelle foto sopra, un'immagine tratta dall'ultima edizione degli Internazionali d'Italia a Roma. Il rilancio di questo torneo è probabilmente il miglior contributo offerto dalla Federazione nelle ultime stagioni (grazie anche alla colaborazione di CONI Servizi). Il Foro Italico versione 2012 è stato molto suggestivo, mentre onestamente appare esagerato ribattezzare il terzo campo per importanza col nome della tv federale.

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PARLA CEPPELLINI: «BISOGNA MIGLIORARE IL SETTORE TECNICO»

Non tutti i dirigenti di questa Federazione amano parlare con la stampa. Ma qualcuno che parla c’è: è Federico Ceppellini, ligure, membro dell’attuale Consiglio fino alla primavera 2011 quando si è dimesso. Ceppellini sostiene che «sia dovere di chiunque abbia ricoperto o ricopra incarichi pubblici rispondere in totale trasparenza a qualsiasi domanda venga posta sul suo operato». Cosa pensa del sistema delle deleghe? È un sistema molto vecchio. che non mi vede particolarmente favorevole ma andrebbe valutata un’alternativa. Costringere ogni circolo ad andare a votare rischierebbe di rendere decisiva la sede delle elezioni, dando un peso eccessivo alla regione in cui si svolgono. (quando gli abbiamo prospettato l’idea di Trezzi, quella dei seggi elettorali nella sede dei Comitati Regionali, si è detto d’accordo, ndr). E degli sbarramenti alle candidature, tipo le 300 sottoscrizioni degli affiliati obbligatorie per candidarsi a presidente? Ho condiviso la ratio. Ritengo che un candidato debba avere un consenso importante, anche per evitare candidature dell’ultim’ora.Tuttavia credo che andrebbe lasciato più tempo ad altri candidati.Tra l’avviso di Assemblea e la stessa passano appena 50 giorni. La cosa migliore fatta da Binaghi? E la peggiore? Binaghi ha lavorato molto bene nel primo quadriennio. Era la persona giusta al posto giusto. La TV è stata un esperimento positivo, gli Internazionali d’Italia sono cresciuti. Credo che si potesse fare di più e meglio sul settore tecnico. Binaghi è il miglior presidente possibile? Una valutazione del genere si può fare soltanto paragonandolo a un possibile antagonista. Angelo ha il merito di dedicare molto tempo alla FIT, ma ha un carattere accentratore, il che può portare a commettere degli errori. Senza un’alternativa, si può dire che è il migliore di tutti e di nessuno. Il CONI era a conoscenza delle società controllate dalla FIT? Sinceramente non lo so, ma credo ci fosse una delega al presidente per gestire queste situazioni. Di sicuro in consiglio se ne parlava poco. Per certi versi era corretto, per altri forse si potevano rendere più partecipi i consiglieri. Le interrogazioni parlamentari? Da quel che ho visto mi sembrano fatte da persone informate dei fatti. Di sicuro andrebbe fatta chiarezza, anche nell’interesse di Binaghi e della stessa federazione. Perché lei si è dimesso? Il dirigente dilettante ha un tempo a disposizione: prima o poi arriva il momento in cui quel che poteva fare lo ha già fatto. L’ho fatto con grande passione, ma ho visto che c’erano diversi dirigenti attaccati alla poltrona.A me interessavano gli obiettivi ma ad un certo punto ho capito che erano in conflitto con la maggior parte del Consiglio. Non era giusto restare senza condividere alcune cose o – peggio – remare contro. Binaghi è mai stato messo in minoranza dal Consiglio? Chi sono i consiglieri più attivi? Qualche volta è successo, ma su questioni poco importanti. Binaghi ha un carattere forte: il Consiglio non è muto, ma le scelte si orientano spessissimo verso ciò che vuole il presidente. Lui si affida a quelli della sua cordata, quelli che gli stanno accanto sin dall’inizio: Milan, Gasparini, Monaco... Perché non sono mai stati pubblicati i bilanci, se non negli ultimi due anni e in forma ridotta? Non lo so. Ma tra le colpe della federazione non penso che ci sia questa: Binaghi è sempre stato molto attento alla gestione economica. Chi ha deciso che Carlo Ignazio Fantola, zio di Angelo Binaghi, dovesse diventare presidente di SportCast (società della TV SuperTennis)? È giusto che lo zio del presidente faccia l’amministratore della TV? Personalmente ho conosciuto Fantola e mi ha fatto una discreta impressione. Per circa un anno ho avuto la delega sul canale televisivo e ho avuto più di un contatto con lui. Non mi è dispiaciuto né sul piano umano né su quello professionale. Certo, non è il massimo che sia lo zio del presidente. In Consiglio non è stato presentato come tale, io l’ho scoperto dopo. Magari qualcuno lo sapeva già… La TV costa circa 4 milioni l’anno e incassa molto meno: è comunque un buon investimento? Chi ha sbagliato i conti? Secondo me costa troppo. L’impostazione iniziale era diversa, poi ho avuto la sensazione che sia sfuggita di mano. Oggi quei soldi potrebbero essere spesi diversamente, senza peraltro abbandonare la TV. Oggi spenderei più soldi per il settore tecnico, ma la scelta iniziale fu molto positiva., come l’idea di trasmettere tutto quel tennis che non andava in TV, a partire dai challenger. Il concetto era contattare i tornei e fare questa proposta: «Tu produci, noi trasmettiamo e tu hai più appeal con gli sponsor». Poi c’è stata un’evoluzione che non era programmata. Lo sbarco sul digitale terrestre ha portato investimenti obbligatori, poi indubbiamente Binaghi ama molto SuperTennis. L’impostazione iniziale prevedeva pochi costi e un rientro delle spese. Quando i costi e la visibilità sono saliti non ci si è saputi trattenere. Non credo sia stato un errore di conti, ma di previsione. Quanto costa il progetto PIA? Che risultati ha dato? E Tirrenia? Sul settore tecnico si è sbagliato qualcosa.All’inizio il PIA mi aveva entusiasmato, c’era l’idea di far lavorare assieme i migliori giovani. Si andava in questa direzione, ma è naufragato. Tirrenia è un ottimo centro e andrebbe integrato con il progetto dei centri periferici. L’idea è buona ma mancano i mezzi e gli uomini. Forse l’anno scorso era organizzato meglio, adesso mi risulta che una macroarea importante come il nordovest non abbia un centro periferico. Non credo sia bello avere un solo centro tra Piemonte, Lombardia e Liguria. Io ci spenderei parecchi soldi, tirando dentro i coach di alto livello. Sarebbe uno dei modi per uscire dall’Impasse. Perché così tanto accanimento contro Claudio Pistolesi? Credo che sia una questione personale e reciproca tra Pistolesi e Binaghi. Ma la FIT dovrebbe starne fuori. Sinceramente non me lo lascerei scappare perché è uno dei nostri coach migliori. È un rischio, perché se non formi i coach giovani può essere un problema. La Spagna ne aveva 4, adesso ne ha 10, tutti di alto livello. Forse Binaghi e Pistolesi dovrebbero risolvere i contrasti, prendendosi un caffè insieme e ripartendo da zero. I famosi 400.000 euro alla Schiavone per la vittoria al Roland Garros. Come andò quella vicenda? Io non lo sapevo. In quel weekend era previsto il Consiglio a Roma. Mentre mi stavo recando a Roma, mi chiamò la segretaria dicendo che il Consiglio era stato spostato a Parigi. In quell’occasione fu ratificato il premio. Un premio si poteva dare, ma 400.000 euro non sono pochi, soprattutto per chi guadagna già molto. Forse potevano essere utilizzati meglio, di certo c’è stata mancanza di informazione verso il Consiglio. È vero che i presidenti dei Comitati Regionali raccolgono le deleghe prima delle elezioni per contare i voti a disposizione? Si, è vero. L’organizzazione elettorale si basa sui consiglieri e i comitati. Ma spesso succede il contrario: è il circolo a contattare il comitato o il presidente per dare la propria delega. Credo sia il sistema elettorale a non andare bene, il CONI dovrebbe vigilare di più. Forse questo sistema andava bene 20 anni fa, mentre oggi andrebbero coinvolti di più i tesserati.

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LONG BEACH TENNIS dal nostro inviato a Mauritius 112

FILIPPO CERADELLI


Un angolo di paradiso dove il tennis recita un ruolo primario, grazie alla qualitĂ delle strutture, ai campi in Plexicushion, alla passione del coach Kamil Patel e a qualche incontro speciale...

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L’

isola di Mauritius è da tempo meta di fedelissimi che ritrovano nei suoi paesaggi, nei suoi colori, nei suoi sapori e nella sua cultura tutti gli elementi per una fuga dallo stress cittadino e lavorativo. Questa perla immersa nell’Oceano Indiano e non lontana dalle coste dell’Africa del Sud, non ha certo bisogno di presentazioni. Come dire: basta la parola è già ci si sente in vacanza! Poi, se la vostra curiosità vi porta a cercare in questo paradiso terrestre anche un momento di discontinuità con quanto siete abituati a conoscere relativamente ai migliori resort nel mondo, eccovi alcune indicazioni sul Long Beach Resort, realizzazione davvero più unica che rara nel suo genere. Questo resort è caratterizzato, in ogni dove, da uno stile minimalista, d’avanguardia e supertecnico. Linee squadrate e geometrie ambiziose ne disegnano i contorni, in netto risalto con la morbidezza del paesaggio in cui è inserito. Il General Manager, accompagnandomi in una visita del resort, mi ha spiegato che non esiste al mondo un’altra realizzazione turistica basata su un concetto analogo. I progettisti che lo hanno pensato, infatti, hanno saputo miscelare elementi distintivi e influenze catturate da contesti diversi come moderni aeroporti, centri commerciali battezzati da designer internazionali, locali alla moda o atmosfere chic di Manhattan. O da ambienti milanesi delle happy hour più fashion. L’anima pulsante e punto di incontro del resort è la grande piazza centrale, urban-style, sulla quale si affacciano negozi, quattro ristoranti (italiano, giapponese, cinese e internazionale) e un fantastico lounge bar, The Shores, con vista sull’oceano a perdita d’occhio. All’imbrunire poi, le atmosfere guadagnano i calori caldi e seducenti dell’Oceano Indiano, mentre i giochi di luci soffuse e l’illuminazione sapientemente dosata prolungano la magia fino a notte fonda. Il Long Beach fa parte della catena Sun Resorts che annovera tra le sue facilities nomi importanti e prestigiosi come Le Touessrok, Sugar Beach, La Pirogue e Ambre nell’isola di Mauritius e il (meraviglioso, compresi i due campi da tennis in erba sintetica) Kanuhura alle Maldive. Insomma, ci siamo intesi, una garanzia. La sua inaugurazione risale al 2010, quindi si tratta di un'installazione nuovissima dotata dei più moderni comfort. «L’inaugurazione di un resort di così grande stacco rispetto ai canoni tradizionali - continua a raccontarmi il GM davanti ad un drink servitoci al The Shores - è stata una scommessa vinta, visto il numero sempre crescente di ospiti che si va registrando». Questa la premessa per darvi un’idea che al Long Beach Resort stareste più che bene, anche se il tennis occupasse l’ultima posizione della classifica dei vostri hobby, dietro alla gara di collanine realizzate con le graffette. Ma visto che non è cosi, al Long Beach Resort ci si va (anche) perché il tennis è pane quotidiano. E pane buono! Ci sono diversi campi da tennis che dispongono di illuminazione notturna. Uno di questi ha la superficie certificata uguale a quella dell'Australian Open (Plexicushion) dal caratteristico colore blu. Potete contare su uno shop fornitissimo ma soprattutto sulla professionalità dei coach della scuola di Kamil Patel, numero uno delle Mauritius e fondatore dell’accademia di tennis Advantage (www.advantage.mu), sempre disponibilissimi a

farsi in quattro per chiarirvi ogni dubbio tennistico. Il Long Beach Resort è anche una meta naturale tra le preferite dai campioni europei nel loro viaggio di avvicinamento e preparazione verso la terra dei canguri, visto che a gennaio a Melbourne si disputa la prima prova stagionale del Grand Slam. Infatti, si trova geograficamente a metà strada e permette loro di iniziare la preparazione in maniera graduale, peraltro sulla stessa superficie dell'Australian Open. Se siete fortunati vi può dunque capitare di scambiare due palle con qualche campione, un’esperienza quasi mistica per chi vive il tennis prevalentemente tra le mura del proprio circolo cittadino e deve districarsi tra soci burberi che non ti fanno chiudere iI set perché la campanella ha decretato l’inizio della loro ora... Al sottoscritto è capitato di giocare con Lukasz Kubot, che in carriera vanta un ottavo di finale a Wimbledon e all'Autralian Open e che ancora adesso è stabilmente tra i primi 100 giocatori del mondo.Tralascio il commento tecnico del match, ma l'esperienza è stata straordinaria. Tennisti o meno che siate, il Resort vi farà certamente ritrovare la pace con il mondo e con voi stessi, grazie alla prestigiosa SPA e Hammam con trattamenti relax su misura, e alle due grandi piscine, la prima di 1440 metri quadri riscaldata, la seconda di 350 metri quadri con vista infinity view sull’Oceano. Se, al contrario, la sola idea di stare sdraiati al sole per più di cinque minuti già vi annoia, vi potete sfogare nell’attrezzatissima gym (aperta dalle 7 del mattino), oppure provare il free climbing in tutta sicurezza, o ancora cimentarvi in ogni sorta di sport acquatico e non. Il caldo sole di Mauritius, l’oceano azzurro e una spiaggia ampia e lunga con sabbia che sembra borotalco incorniceranno, il vostro soggiorno da cartolina. E una cartolina così si manda sempre volentieri agli amici...

Il nostro inviato al Long Beach Resort insieme al top 100 mondiale Lukasz Kubot dopo una sessione di allenamento (per la verità Lukasz è fresco come una rosa, Filippo chiederà dosi massicce di integratori). Il tennis è una delle attività sportive principali che si possono praticare al Long Beach grazie alla passione (e alla competenza) del maestro Kamil Patel. Per rinformazioni, www.longbeachmauritius.com.

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2005

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TEST

STAI FOCUS!

MAI PENSATO DI PORTARVI IN CAMPO UN MOTIVATORE PERSONALE? Troppo costoso? Beh, Dave Zamarripa, maestro californiano, ha trovato una soluzione economica da 4 dollari. Gli Shafty Bands (shaftybands.com) sono i nastrini di plastica che servono a tener fermo l’overgrip, ma la differenza è che vi sono stampate sopra delle scritte motivazionali (Focus,Vamos, Calm) per riattivare la concentrazione o ad assumere un atteggiamento più positivo in campo. In passato abbiamo visto giocatori leggere dei messaggi al cambio campo per ricordarsi quello che sembra banale ma non lo è mentre si battaglia sul campo. Ora basta guardare la racchetta.

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corda LUXILON 4G

Test

C'era grande attesa per l'uscita della nuova Luxilon 4G, della quale avevamo cominciato a parlare qualche mese fa, quando alcuni giocatori (vedi Dolgopolov) si aggiravano nei tornei con questo nuovo arneggio color oro.

L'abbiamo testato a lungo, su modelli di racchetta diversi (da Prestige a Pure Drive), a tensioni diverse (meglio stare bassi, 22-23 kg di media per un 100 pollici di ovale), con giocatori e pareri diversi (anche quello dello sparring di Serena). Ne è emersa una corda di valore, che pian piano sta conquistando i favori dei professionisti ma che si deve anche scontrare con un mostro sacro come il Luxilon Alu Power che ha fatto la fortuna di molti, a qualsiasi livello di gioco. Una nota vogliamo sottolineare: è una corda che necessita di un setting time. Quindi lasciate la racchetta a riposo per 24 ore dopo l'incordatura e giudicatela dopo un'ora di gioco, quando ha completato il suo assestamento. E non dimenticate di testarla anche come ibrido, accompagnata da una corda in budello o multifilamento. SERENA WILLIAMS N.1 DEL MONDO «Non ha mai voluto cambiare corda, anzi è sempre stata piuttosto restìa. Utilizzava un'incordatura solo budello, ma serviva più controllo che potenza. Abbiamo quindi optato per un ibrido con Luxilon 4G, con quest'ultimo montato sulle orizzontali, e direi che ha funzionato perfettamente. Ora ha potenza e controllo e può cercare più rotazione» Sasha Bajin, sparring partner

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LORENZO CAZZANIGA AGONISTA DA CLUB «Usavo racchette da supercontrollo con corde multifilo. Da un anno uso racchette potenti con corde monofilo, a tensioni alte, anche 27 kg. Con il 4G bisogna scendere di 2-3 kg e avere pazienza un'oretta che trovino il giusto assestamento. Poi tiri forte con grande controllo. L'ideale è un'incordatura ibrida tradizionale, con il budello sulle orizzontali»

PAOLO TERENZI CLASSIFICA 3.3 «Belle perché mantengono a lungo le loro caratteristiche, così non devo stressarmi nel capire quando è venuto il momento di tagliarle. Sento bene la palla sulle corde, anche quando colpisco con una forte rotazione. In più, essendo uno spaccacorde, il fatto che durino davvero a lungo, per me è una manna».

LUCA GARDELLA CLASSIFICA 4.3 «Dure, troppo dure. Gioco con una Pure Drive o una vecchia Black della Prince, e con l'Alu Power la palla mi cammina due volte più veloce. Con la 4G la racchetta sembra un muro, anche se sono sceso di due chili con la tensione. Setting time? Ma che è? Io monto la corda, sscendo in campo appena posso e voglio che funzioni bene. E quando è 'morta', la cambio».


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DOMANDE A...

Mario Parisio, uno dei top incordatori italiani ed esperto di questo settore, ci ha espresso il suo parere professionale sulle nuove corde Luxilon 4G. Finalmente è uscita la nuova corda Luxilon 4G: quali sono le sue prime impressioni a riguardo? «Davvero ottime. I professionisti ne vanno già matti e tanti hanno cambiato, preferendo questo nuovo armeggio. E non parliamo di giocatori di seconda fascia ma delle sorelle Williams, di Dolgopolov, Nishikori, Raonic. Il settore corde si sta evolvendo e così anche quello delle racchette. I nuovi modelli, alcuni dei quali dovrebbero essere disponibili già prima di Natale, non avranno niente a che vedere con quelli precedenti. Tanto che sono certo che ad un certo punto l'utente finale attraverserà un momento di smarrimento, davanti a tante novità ed evidenti cambiamenti. Ma sono tutti accorgimenti che consentiranno di giocare sempre meglio, ai professionisti ma soprattutto ai giocatori di club. Tanto per citare un esempio, Solinco è un marchio di corde che apprezzo tantissimo e a breve dovrebbe uscire con una corda di calibro 1.10 che promette meraviglie». Cosa è cambiato con la Luxilon 4G? «Che uno dei marchi di corde più importanti ha cominciato a sfruttare la costruzione in alfa olefine, una struttura che permette alla corda di mantenere più a lungo le sue caratteristiche principali. Esistono già oltre 30 modelli di corda così, ma fra poco invaderanno totalmente il mercato. Poi è stata cambiata anche la verniciatura finale, usando un legante che consente alla corda di non perdere le sue qualità troppo in fretta». Ma sono corde per professionisti o si adattano anche ai giocatori di club? «Il giocatore amatoriale dovrebbe usare comunque un multifilamento. Però l'agonista di livello medio può sfruttare il fatto che mantiene di più le caratteristiche ed è molto resistente. Certo, l'Alu Power con la sua immediata reattività è un bel antagonista». Che accorgimenti consiglia a chi vuole provare il Luxilon 4G «Scendere di almeno due chilogrammi con la tensione e lasciarla assestare. E provarla su un'incordatura ibrida con budello: è una favola». Lei cambierebbe dall'Alu Power al 4G? «Già fatto. Il controllo è eccezionale».

LUXILON ALU POWER

IL CONFRONTO

LUXILON 4G

L'Alu Power resta una cordas più potente, fin da subito. L'altra si avvicina solo quando si è smollata un pochino.

POTENZA

L'Alu Power è creata per chi usa tanto il top spin, quindi l'arrotino continuerà a preferire questo armeggio.

CONTROLLO

Se siete un picchiatore moderno che usa il top spin ma senza esasperarlo, troverete profondità e controllo nei colpi.

È più vivace, quindi prende subito bene la rotazione, anche quando si vuole esasperarlo.

ROTAZIONE

È una corda intelligente che tiene la palla maggiormente a contatto. Diciamo che migliora il rapporto spin/controllo.

DURATA

Nessun dubbio, è due volte e mezzo più resistente rispetto all'Alu Power per durata.

TENUTA TENSIONE

Perde meno, ma minore è la tensione, maggiore sarà la perdita: sotto i 21kg, ne perde 6.8 kg dopo un'ora, sopra i 25 kg ne perde 3,6.

GIUDIZIO FINALE La 4G necessita di un setting time: bisogna utilizzarla dopo un giorno dall'incordatura (e giudicarla dopo un'ora di gioco). L'agonista di alto livello o quello amatoriale da club, continueranno a preferire l'Alu Power che è più reattivo (anche se il giocatore amatoriale dovrebbe optare per un multifilo). L'agonista medio di club sceglierà il 4G che mantiene le sue caratteristiche più a lungo. Perfette entrambe per incordatura ibrida.

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Test

LINEA VORTEX Si tratta di corde in alfaolefine con un composto alchenico inerte a struttura tridimensionale. La rigidità statica è elevata garantendo una durata superiore alla norma. In più, può essere abbinato a qualsiasi altro materiale, dal copoliestere al polilene. La tensione consigliata varia da 18 ai 25 chilogrammi.

VORTEX 3 - 1.25 mm Corda universale con rivestimento esterno in resine metalliche (color argento) per una miglior durata e stabilità di tensione. La sagomatura a triangoli presenta angoli smussati per facilitare le rotazioni, limitando però la frizione fra le corde. La lavorazione e la dimensione delle facce ottimizzano il controllo.

STARBURN VORTEX 3 - 1.25 Il mercato delle corde è il più vivace, con tanti marchi che riescono a trovare spazio. È il caso della Starburn, brand giovane che, grazie a prodotti di grande qualità e alla competenza dei suoi tecnici, è riuscita a inserirsi proponendo una vasta gamma di corde che sfruttano tecnologie all'avanguardia. Come per la linea Vortex che abbiamo cominciato a testare, soprattutto nel modello Vortex 3 da 1.25 di calibro. E il fatto che, montando Starburn, il nostro direttore ha vinto il torneo sociale all'Harbour Club di Milano, conferma che vi sono corde quasi miracolose....


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on court

Bella perché reagisce subito bene, fin dalla prima ora di gioco. Se cercate rotazioni e controllo, ne avrete in abbondanza. Da montare su racchette potenti stile Pure Drive, con la quale si trova un ottimo compromesso tra potenza e controllo. Potete stare su tensioni medio-basse e funziona alla grande anche in formazione ibrida col budello.

LORENZO, 40 ANNI CLASSIFICA 4.1

Mamma mia, si tira forte e si sbaglia poco. Mi è piaciuto soprattutto questo compromesso tra spinta e controllo. Io poi esaspero le rotazioni e reagisce bene sia col top spin che col back. La parola giusta è fiducia, perché capisce subito che puoi picchiare senza rischi. Certo, se tiri indietro il braccio finisci corto, se giochi solo di difesa, amen.

MASSIMO, 45 ANNI CLASSIFICA 2.7

Saranno anche belli 'sti monofilamenti. Il sistema Trusstic E anche alfa-olefine offre un ottimo suona bene, sa di supporto mediale, novità, di ricerca. mentre la gomma Ahar è garanzia di tecnologia. Ma durata. Il sulla poi ladi monto battistrada a spina mia 200G la palla di pesceemodifi cato restasisempre adatta allecorta. varie superfi ci di gioco. Oh, sarà colpa mia, ma se giochi classico e non hai un fisico atletico, credo sia sempre meglio optare per un multifilo che spinge.

PAOLO, 48 ANNI CLASSIFICA 4.3

Ormai gioco solo con incordature ibride. Sarà che mi diverto a fare degli esperimenti, a cercare nuovi intrecci, a caccia dell'incrocio perfetto. Questa corda si presta benissimo allo scopo perché esalta controllo e rotazioni e mi posso sbizzarrire a trovarle la compagna giusta. Bisogna provare varie tensioni per scovare il set up corretto.

FRANCESCO, 26 ANNI CLASSIFICA 3.3

GIUDIZIO GENERALE Bella soprattutto per i giocatori moderni che amano usare le rotazioni. Ideale per il picchiatore da fondo alla Nadal, che cerca il compromesso ideale tra potenza e controllo, tra profondità e rotazioni. Tiene bene la tensione e dura tanto. Certo, se siete doppisti veterani che cercano le soluzioni di tocco, trovate di meglio.


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Andy Roddick è sostanzialmente l'unico giocatore che può vantare una racchetta col suo nome. Pesa 337 grammi per un bilanciamento di 32,9 cm e un'inerzia di 328 punti. L'ovale è da 100 pollici. Roddick si è avvalso da quando aveva 16 anni della consulenza di Roman Prokes, tra i più accreditati incordatori professionisti: «Usa un'incordatura ibrida con Babolat VS Touch sulle orizzontali, Babolat Pro Hurricane sulle verticali. L'anno scorso gli ho customizzato 150 racchette. Già, perché dopo un allenamento sembrano vecchie di due mesi! Ovviamente peso e bilanciamento sono diversi dall'attrezzo in commercio; l'impugnatura è modellata su misura e a fine carriera Andy ha deciso di abbassare la tensione da 28 kg a circa 24. È naturale quando usi una corda poliestere. Però scende in campo con racchette dalle differenti tensioni, nel caso cambino le condizioni atmosferiche»

ANDY Test RODDICK

A conferma di quanto sia importante il mercato americano, Lacoste non ha esitato a firmare A-Rod, nonostante il suo look non sia propriamente elegante, come imporrebbe la tradizione del marchio francese. L'americano ha spesso alternato collezioni classiche (come quest'ultima) ad altre meno sobrie. Da notare il famoso cappellino gocciolante

Andy Roddick si è ritirato con l'ultimo US Open. Per anni è rimasto nella top 10, ha conquistato un titolo Slam allo US Open 2003, quando ha raggiunto anche la vetta della classifica mondiale. È sempre stato legato, a livello di racchetta, alla Babolat Pure Drive che, per sfondare nel mercato americano, ha ribattezzato questo modello più pesante della versione classica di circa 15 grammi, col suo stesso nome (e chissà come cambierà, ora che Andy ha abbandonato le competizioni). Al principio della carriera, Roddick vestiva abbigliamento Reebok; ha chiuso gli ultimi anni col prestigioso marchio Lacoste. Unico difetto: in Italia sono rarissimi i punti vendita che li vendono. Peccato, perché spesso sono tra i più accattivanti del mercato. Usa scarpe Babolat.

LIMITED EDITION


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Con Lacoste che non ha ancora una vasta gamma di scarpe specifiche da tennis, Roddick si è sempre affidato a calzature Babolat, in particolare al modello Propulse che propongono un sistema di supporto che assicura l'appoggio del piede dal tallone fino alla zona mediale. Il materiale Cell Shield aumenta invece la durata della tomaia senza sacrificarne il comfort. L'ultima versione con i colori della bandiera americana è stata particolarmente apprezzata.


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TECNICA

VOLÉE FACILE?

VEDENDOLA ESEGUIRE DA ROGER FEDERER, SEMBREREBBE UN COLPO FACILE. Invece la volée alta è un colpo subdolo perché è semplice solo all’apparenza (oppure se eseguita da un giocatore pro avvezzo al gioco di volo). In realtà serve una viva coordinazione e una certa forza nel braccio-spalla per riuscire a spingerla. E il rischio è quello di andare fuori giri o di non riuscire a schiacciarla a sufficienza, finendo lunghi. Serve polso fermo per ottenere spinta e controllo. Se state scendendo a rete, sfruttate lo spostamento in avanti del peso del corpo. Se invece siete attaccati a rete e l’avversario è fuori posizione, può bastare un tocco più dolce e angolato.

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T

A C I N EC

DI LUCA BOTTAZZI

CONFRONTO APERTO: LA SCUOLA TENNIS LA SCUOLA TENNIS È LA PIETRA ANGOLARE SU CUI POGGIA LA CHIESA DEL TENNIS. A TAL PROPOSITO, È NATO UN BOTTA E RISPOSTA CON TRE FIGURE PROFESSIONALI PER CAPIRE COME SVILUPPARE DEI CENTRI DI FORMAZIONE AD HOC

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l primo segmento di ogni percorso formativo è di fondamentale importanza per ottenere i migliori risultati possibili. Ovviamente il processo deve essere in relazione a tendenze, predisposizione e capacità di ciascun individuo. Quanto detto è confermato dalla scienza, in particolare dalla pedagogia. Riaffermo, come già argomentato in altre pubblicazioni e articoli, la scuola di base è la pietra angolare su cui poggia anche l’intera Chiesa del Tennis. Purtroppo in Italia nei primi passi del nostro sport, sovente approdano risorse e competenze inadeguate. Il pubblico ritiene che gli sforzi maggiori siano tendenzialmente impiegati nel settore agonistico, dove il percorso formativo viene spesso sacrificato alla ricerca del campione. Ricerca che nelle diverse agonistiche di circoli e accademie solitamente si rivela velleitaria perché la genesi del campione coincide quasi sempre con la possibilità, da parte di alcuni allenatori, di reclutare direttamente i migliori talenti giovanili nazionali o addirittura internazionali in giro per il mondo. In questo articolo per ho voluto coinvolgere nell’argomento “scuola tennis” tre diverse figure professionali. Due sono particolarmente note nell’ambiente tennistico, mentre la terza è meno conosciuta. Quest’ultimo profilo è corrispondente ad un professionista riconosciuto in ambito formativo e di apprendimento con il quale ho di frequente il piacere di confrontarmi. LE TRE FIGURE PROFESSIONALI - Michelangelo Dell’Edera: Tecnico Nazionale FIT è noto a tutti gli addetti ai lavori; Direttore Tecnico dei centri federali estivi per circa 15 anni; Capitano di tutte le nazionali giovanili under 12-14-16-18 femminili; dal 2010 è il Direttore Tecnico dell‘Istituto Superiore di Formazione FIT “Roberto Lombardi” (ex Scuola Nazionale Maestri) - Riccardo Piatti: personaggio noto sia agli addetti ai lavori che al grande pubblico è stato responsabile in diversi progetti FIT (es. vice Direttore S.N.M., Centro Tecnico di Riano, Preparazione Olimpica); coach di fama internazionale allenatore di alcuni top player; attualmente tra i suoi vari incarichi ricopre quello di Direttore Tecnico per la scuola e per l’agonistica del Tennis Club Milano - Renato Ravizza: Laureato a Torino (facoltà di scienze matematiche, fisiche e naturali) è stato ricercatore associato del Semeion di Roma; Formatore Feuerstein I.C.E.L.P. - H.W.C.R.I. (Israele); esperto di tematiche relative ai processi di insegnamento-apprendimento svolge attività sia di formazione e supervisione in diversi ambiti tra cui quello sportivo (tennis di base e di vertice), sia di potenziamento cognitivo; attualmente collabora con Studio Forma. DOMANDE E RISPOSTE 1. Quali sono i riferimenti che propone il tennis dei campioni alla scuola tennis di base? Dell’Edera: «Per i bambini che si avvicinano alle scuole, i veri campioni di tennis da imitare sono i loro insegnanti che diventato poi una guida indispensabile per scoprire, imparare, riconoscere i meravigliosi segreti del nostro sport.Tra i tanti aspetti da scoprire ci sono poi i “campioni da imitare” che trasmettono emozioni differenti in base alle loro peculiarità. La semplicità e l’eleganza dei gesti tecnici di Federer, la forza e determinazione di Nadal, la perseveranza e la continuità di Djokovic, l’orgoglio, i sacrifici e la lungimiranza di obiettivi con uno spirito di gruppo invidiabile alle migliori nazionali al mondo delle nostre ragazze Schiavone, Pennetta,Vinci, Errani tre volte campioni del mondo in Fed Cup e che insieme esprimono un’energia atomica sia negli incontri a squadre che nell’attività individuale. A questi input individuali, da tutti loro arriva un messaggio forte,

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cioè di atleti preparati fisicamente e mentalmente con cura dei particolari e con progetti partiti fin dal loro primo giorno di scuola tennis». Piatti: «I riferimenti sono tecnici. I campioni conoscono bene la tecnica di tutti i colpi». Ravizza: «Possono aiutare a capire in cosa consiste giocare a tennis: infatti un tennista professionista che si allena per essere più rapido o per avere un servizio più efficace mentre si allena suda, pianifica la sua vita in funzione degli obiettivi, fatica ed impara a faticare, a rispettare e apprezzare gli avversari che cercano di risolvere gli stessi problemi, conosce i suoi limiti e provando a superarli comprende che essere più veloce e coordinato riguarda tutto il corpo; anzi dopo un po’ di tempo capisce che è anche e soprattutto un problema di testa e quindi comprende l’importanza del pensare, del concentrarsi, di sapere quando usare l’istinto e di quando diffidarne». 2. Quale tipo di approccio metodologico e didattico è più adatto per la scuola tennis? Dell’Edera: «Non vi è alcun dubbio che gli obiettivi ed approcci metodologici e didattici variano sia in base a quale fase del percorso formativo ci riferiamo sia alle diverse individualità dei bambini stessi. Infatti, la vera bravura di un insegnate di tennis sta nel costruire all’interno di una scuola tennis formata da gruppi il giusto percorso per ogni singolo allievo. Facendo riferimento al minitennis ed all’avviamento, “insegnare divertendo” ed “imparare giocando” sono gli obiettivi principali da raggiungere, sia per i maestri che per gli allievi. Pertanto andremo a proporre il gioco del tennis in forme talmente facilitanti da consentire a tutti di praticare il tennis considerato dai più famosi studiosi quali pedagogisti, sociologi, psicologi e antropologi come altamente educativo sia sotto l’aspetto mentale che fisico. Gli attrezzi a dimensione di bambino (racchette, palle, reti, spazi), le regole facilitanti, le esercitazioni divertenti con proposte multilaterali, mettono nelle condizioni ideali i bambini per sviluppare attraverso il gioco le quattro aree fondamentali di un processo educativo strettamente collegate alla personalità: motoria, affettiva, intellettuale, sociale». Piatti: «La scuola deve curare la tecnica , la tattica, la crescita fisica e ricordarsi che il tennis è uno sport ed è quindi importante per la crescita educativa».

Ravizza: «Apprendere equivale a cambiare: si tratta di un processo circolare nel quale l’allenatore, l’atleta e il compito si modificano vicendevolmente. Per imparare efficacemente è necessaria una didattica che sappia modificarsi ed autoregolarsi sulla base degli effetti prodotti. Essa dovrebbe rinforzare l’autonomia cognitiva dell’allievo, agire sulla sua motivazione ad imparare e stimolarne la riflessione. Aspetto centrale dell’interazione allenatore/atleta sarà allora il saper fare domande molto più che il dare risposte». 3. Quali sono le competenze e gli obiettivi che deve avere un buon insegnante di tennis? Dell’Edera: «Le competenze dell'insegnante di tennis devono essere mirate a soddisfare le esigenze e i bisogni dei bambini che mediamente frequentano le scuole tennis.A tal riguardo, le abilità comunicative dell'insegnante integrate da un buon livello di empatia, riteniamo che siano la premessa fondamentale per favorire un'atmosfera accogliente ed un clima adatto a rendere i bambini disponibili all'apprendimento. Contemporaneamente l'insegnante di tennis dovrà avere un livello di gioco adatto ad attivare l'apprendimento attraverso il canale visivo, che passa attraverso una corretta e semplificata dimostrazione delle abilità tecniche con conseguente attivazione dell'apprendimento per imitazione. E' importante che l'insegnante conosca il gioco del tennis e la sua evoluzione affinché possa fornire non soltanto feedback tecnici, ma anche a carattere tattico - strategico che assumeranno un grado di importanza progressivamente maggiore in relazione all'acquisizione di competenze da parte dell'allievo. A tutto questo si aggiunge una competenza essenziale per poter essere un ottimo insegnante: la passione verso il nostro sport e conseguenzialmente verso il nostro lavoro». Piatti: «Il buon insegnante deve conoscere tutte le fasi dell’apprendimento con contenuti tecnici, tattici e motori. Deve avere capacità di coinvolgimento nelle lezioni e sopratutto costruire fuori dal campo l’ambiente giusto nel quale il bambino si ritrova ed è motivato a ritornare». Ravizza: «Rispetto alle competenze rispondo con le parole scritte nel 1580 dal filosofo Montaigne su come scegliere un precettore per il figlio della contessa di Gurson e sugli aspetti centrali dell’educazione. «Avendone la mira di tirarne fuori un uomo esperto piuttosto che un uomo sapiente io vorrei che si avesse cura di scegliere un precettore che avesse la testa piuttosto ben fatta che ben piena». Gli obiettivi principali di un buon insegnante sono l’autonomia e l’indipendenza dell’allievo, sviluppando ad esempio la sua capacità di utilizzare l’errore per imparare. Pertanto un buon insegnante si dovrà prendere cura di molte cose, eccone un elenco ridotto: 1. scegliere una esperienza o uno stimolo significativo per l’ampliamento delle competenze individuali; 2. filtrare e selezionare stimoli ed esperienze in modo da situarli alla distanza ottimale all’interno della zona prossimale del soggetto; 3. focalizzare l’attenzione evitando di proporre troppi stimoli simultaneamente; • fornire strategie per padroneggiare la situazione». CONCLUSIONE Lo scopo di questo articolo è sperimentale. L’obiettivo è stato promuovere un vero “confronto aperto” tra addetti ai lavori che provengono da formazione ed esperienze professionali differenti divulgando il loro pensiero e indirizzo rispetto ad uno specifico argomento. Il “confronto aperto” è da sempre un elemento imprescindibile per lo sviluppo e la crescita in molti settori produttivi, soprattutto a livello internazionale. Al contrario, nel tennis nostrano, questo tipo di approccio non è particolarmente utilizzato perché ogni parrocchia tende a chiudersi in una sorta di monopolio autoreferenziale. Infine, il lettore e il pubblico consumatore del prodotto scuola tennis, tema di questo articolo, giudicherà se questo esperimento sarà stato utile al proprio orientamento informativo. Ringrazio per la collaborazione Dell’Edera, Piatti e Ravizza, persone disponibili, pionieri di un atteggiamento che mi auguro venga presto adottato da tutto l’ambiente del tennis italiano. Un atteggiamento fondato sul “confronto aperto” proteso al coinvolgimento di tutte le risorse e le competenze disponibili sul territorio per perseguire, nell’interesse generale, una crescita sempre più orientata all’insegna dell’eccellenza d’avanguardia. LUCA BOTTAZZI, ex giocatore professionista e docente di Scienze Motorie all'Università, commentatore SKY e socio fondatore di R.I.T.A. Per approfondire le tematiche trattate, potete scrivere a info@tennisbest.com 127


p r e pa r a z i o n e at l e t i c a

I consigli di

MICHAEL RUSSELL IL 34ENNE AMERICANO È UNO DEI GIOCATORI CHE SI PREPARA MEGLIO. CI HA SPIEGATO ALCUNI ASPETTI FONDAMENTALI DEL SUO ALLENAMENTO In campo bevo una combinazione di proteine, vitamine e aminoacidi. Si tratta di carboidrati con poco zucchero. 60 grammi di carboidrati e circa 5 di zucchero. È lo zucchero più sostenibile. Non fa sentire alti e bassi, come le tipiche bevande sportive. Se è umido, prendo anche alcune pillole con elettroliti di sodio, potassio e magnesio per prevenire i crampi. Mi massaggio per recuperare dalla fatica e per prevenire gli infortuni. Nella mia stanza ho tutti gli strumenti con cui eseguo il massaggio. So che suona un po’ strano… Eseguo anche l’automassaggio. Si, anche questo non suona molto bene! Ma io viaggio con un sacco di rulli, bastoni, trigger point balls... tutti strumenti che sfruttano il peso del corpo e la gravità. Effettivamente funziona meglio se c’è qualcun altro. Poiché sono abbastanza muscoloso, gli strumenti possono aiutare nelle zone in cui i massaggiatori hanno problemi, come l’anca e la parte bassa della schiena. Per un massaggiatore è molto difficile arrivarci in modo efficace, a meno che non usi il gomito e cerchi di applicare tutto il peso del corpo.Viaggio con questi strumenti da otto anni, mi hanno aiutato a restare così a lungo nel circuito. Li uso regolarmente, tutti i giorni, in modo religioso. Di solito ci dedico un’ora alla sera. È come fare

un massaggio tradizionale, solo che so quanto posso andare in profondità. Ovviamente ci sono ottimi massaggiatori, ma viaggiando ogni settimana capita di lavorare con persone diverse. Se non hai il fisioterapista, sei in balia di quello che c’è. Voglio dire: se ci sono quattro persone in fila, puoi anche aspettare tre ore per un massaggio. Attualmente non ho un coach. Negli ultimi due anni ha viaggiato con me mia moglie Lilly, e mi ha aiutato molto. Ha imparato girando con me per molte settimane all'anno e ora è in grado di darmi qualche consiglio sul mio gioco, dirmi cosa sto sbagliando. Ha un background nell’ambito del fitness, ma non del tennis. Ma le ho detto su cosa deve prestare attenzione quando gioco. Capita che io sbagli qualcosa: lei se ne accorge e mi corregge. Mi aiuta spesso anche con lo stretching e può anche massaggiarmi. Buona parte del lavoro lo faccio per conto mio, ma a volte ne parliamo. Lei si occupa della preparazione per body-building: è molto informata sui pesi. Non frequento molto la palestra. L’unica cosa che faccio sono gli esercizi di prevenzione, principalmente per la cuffia dei rotatori e la stabilizzazione dell scapole, perché il tennis è uno sport asimmetrico, in cui lavori soprattutto dalla parte del braccio dominante. Si tratta di bilanciare il proprio corpo. Durante la settimana, il grosso del lavoro prevede stretching, massaggi e alcuni esercizi di prevenzione. Sollevamento pesi? La settimana prima di un torneo, ma niente di pesante. Uso pesi leggeri, più adatti ai movimenti esplosivi del tennis. Oggi il

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tennis è molto fisico. È cambiato molto da quando ho iniziato, nel 1998. Ogni cinque anni il gioco diventa più impegnativo, forte e veloce. E gli allenamenti sono cambiati di conseguenza. Quando ho iniziato si sollevavano pesi importanti, con tre serie da dieci, più esercizi per schiena e spalle. Adesso il tennis è progredito in tante direzioni. Bisogna concentrarsi aull’attività eccentrica. Svolgo e consiglio l’attività eccentrica. Se lavori sui bicipiti, quando si “arriccia” è la parte concentrica, quando va giù è quella eccentrica. La parte eccentrica è più importante, perché è così che i muscoli assorbono la forza. È sempre importante allenarsi in modo concentrico, ma l’allenamento eccentrico ti consente di essere più veloce, rapido, meno incline agli infortuni e ti fa migliorare veramente. Altro esempio: quando pieghi il ginocchio, in discesa è eccentrico e quando ti rialzi è concentrico. Strumenti particolari? Qualcosa per il gioco di gambe. Ho una palla di gomma con diverse manopole. La lancio e rimbalza in ogni direzione, e devi prenderla pur senza sapere dove sta andando. Ho anche alcuni elastici che metto intorno alle caviglie. E quando te le togli vai davvero veloce. Consigli per vedere meglio la palla? Ne ho sentito parlare online, si tratta di siti per allenare gli occhi. Non l’ho mai fatto, ma potrebbe essere qualcosa di interessante. Lavoro mentale? No, non ci lavoro. Nel corso degli anni ho letto un paio di libri sull’argomento. Non ho mai lavorato con nessuno, ma forse a volte avrei dovuto! Ho letto un libro di Anthony Robbins dove parlava di come riuscire a diventare una persona migliore. Si tratta di usare immagini mentali per cambiare e interrompere le proprie abitudini. Per esempio, uno vuole smettere di mangiarsi le unghie? Crei l’immagine in cui ti mangi le unghie, e lo fai 10 volte. Poi crei l’immagine di te stesso che non mangi le unghie. Così, ogni volta che vuoi mettere la mano vicino alla bocca, immagini di toglierla. Prendi un’immagine e con questa distruggi l’altra. Sembra pazzesco. Quando lo leggevo, pensavo: «Si, vabbè, come no». Ma ho continuato a

leggere, l’ho provato e ho letteralmente smesso di mangiarmi le unghie per sei mesi. Naturalmente ho smesso di leggere il libro, di creare le immagini, e sono tornato a farlo. Però ha funzionato, è stata un’esperienza molto interessante. Visualizzazione? Sì, la faccio, a volte in modo inconscio, ma sono consapevole di farlo. Prima di raggiungere la linea del servizio, immagino la direzione del colpo, come tirerò la palla che tornerà, dove colpirò. Di notte, prima di dormire, trascorro cinque minuti pensando al match del giorno successivo, immaginando come reagirò, come ho intenzione di agire in campo. Non funziona sempre, ma che credo che aiuti almeno un po’. Lo vedo dalla mia prospettiva. Diciamo che vado a prendere l’asciugamano, e mentre lo afferro tra un punto e l’altro, mi vedo servire angolato e colpire la palla successiva con un rovescio incrociato. Lo visualizzo non dalla prospettiva di uno spettatore, ma dalla mia. So che alla gente non piace chiamarla visualizzazione, ma è quasi come un sogno ad occhi aperti, davvero. Prima di andare a letto mi immagino di correre veloce su ogni palla e di essere aggressivo. Avere fiducia, sapere che giocherai bene: sembra strano, ma credo possa succedere. In un giorno ideale devo dormire almeno nove ore. Sono molte, ma credo siano necessarie. Se posso, vado a letto prima di mezzanotte. Sveglia, colazione, poi un’ora o un’ora e mezza di relax. Prima di allenarmi, faccio 20 minuti di riscaldamento che consistono in corsa, movimenti, esercizi per le spalle. Poi mi alleno per due ore e faccio stretching per 20 minuti. Torno a casa e applico il ghiaccio per 20 minuti. Pranzo, riposo di 60-90 minuti, poi di nuovo riscaldamento e quindi vado in palestra. Lavoro un’altra ora, ora e mezza. Poi 20 minuti di stretching e ancora 20 minuti di ghiaccio. Riposo di un’ora, cena, e un’ora di massaggio. Infine guardo la TV per un’oretta, se posso, prima di addormentarmi. Non c’è molto tempo libero. Hai un’ora qui, un’ora là. Ma non hai molto tempo per uscire e fare altre cose. Devi essere sempre sicuro di essere al 100%, che sei a posto fisicamente. È un grosso sacrificio per me e per chi mi sta accanto. Ma il tennis rappresenta tutto. Prima, quando ero più giovane, ero imprudente. Volevo fare tutto quello che potevo, ogni volta che potevo. Così giocavo quattro ore al giorno e mi facevo due ore e mezza di palestra. Ma tra i 18 e i 22 anni non devi spendere tanto tempo in stretching, viaggi e massaggi, perché il corpo recupera molto in fretta. Adesso ho dovuto tagliare i ritmi dell'allenamento. La mia forma fisica è molto più intelligente. Faccio le cose su misura per il mio corpo e questo funziona. Passo molto tempo tra massaggi, ghiaccio, stretching ed esercizi riabilitativi. 129


GIOCATORI

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COLPI SOTTOVALUTATI di FILIPPO MONTANARI (maestro FIT) photo by Marco De Ponti

Il servizio fotografico è stato realizzato all’Aspria Harbour Club di Milano con i maestri federali Simone Vismara e Giorgio Eleuteri.

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SPESSO SI ALLENANO SOLO I COLPI FONDAMENTALI, COME SERVIZIO, DIRITTO E ROVESCIO, E SE NE TRASCURANO ALTRI CHE POSSONO DIVENTARE MOLTO IMPORTANTI DURANTE LA PARTITA PERCHÉ PERMETTONO DI SORPRENDERE L’AVVERSARIO O DI ELIMINARE UN SUO PUNTO DI FORZA. VALE DUNQUE LA PENA CONOSCERLI E SAPERLI GIOCARE. AL MOMENTO GIUSTO.

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LA CONTROSMORZATA Giocare la smorzata non è semplice, ma è un colpo importante nell’economia di una partita. Tuttavia, è ancor più difficile la controsmorzata. Questo perché si è obbligati ad una corsa in avanti e deve essere un colpo pressoché definitivo, altrimenti coprire la rete diventa complicato. Per questo è fondamentale NON ACCONTENTARSI. Spesso il giocatore di club si limita a mandare la palla di là, già soddisfatto di esserci arrivato. Invece bisogna essere offensivi e avere le idee chiare. Le soluzioni possibili sono due: la più classica è quella di giocare una palla lunga e in lungolinea (soprattutto se l’avversario ha seguito a rete la sua palla corta) per poi coprire la rete. Tuttavia, non si può essere sempre prevedibili e quindi bisogna avere un piano B, cioé la controsmorzata. Sula terra battuta è più semplice perché la scivolata aiuta ad ammortizzare la corsa. Poi è necessaria una certa sensibilità, perché giocar di fino è più difficile che tirar forte. In gergo viene definito “ricciolo” quel gioco di polso che permette al piatto corde di accarezzare la palla. Bisogna dare un taglio sotto, come fosse un back esasperato, quasi a far tornare indietro la palla dopo il rimbalzo. Per la direzione, quella incrociata è più sicura perché il tragitto è più lungo, anche se poi bisogna correre a coprire il campo lasciato libero; quella lungolinea offre meno tempo all’avversario. Però la palla corre verso di lui, quindi bisogna essere molto precisa.

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GIOCATORI

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SERVE & VOLLEY Ci vuole coraggio, forse un filo di incoscienza per giocare uno schema serve&volley. Vuoi perché non è tecnicamente una soluzione semplicissima, vuoi perché con i nuovi attrezzi si trovano angoli straordinari con risposte e passanti, e venire a rete è diventato sempre più complicato. Tuttavia, se non avete davanti un grande ribattitore, eseguire ogni tanto questo schema crea un EFFETTO-SORPRESA che risulta spesso vincente. La risposta non è un colpo così elementare tanto che spesso, a livello di club, un giocatore si limita a rimandare la palla oltre la rete, cercando un minimo di profondità, ma accontentandosi di cominciare lo scambio senza rischi, sfruttando appieno il fatto che il giocatore al servizio non mette ulteriore pressione. Giocare di tanto in tanto un serve&volley ha quindi un duplice effetto: crearsi l’opportunità di giocare una volée semplice, approfittando del fatto che l’avversario è abituato a giocare una risposta tranquilla, senza cercare angoli. In più, si insinua nella testa dell’avversario la paura che si possa ripetere questo schema. Avendo meno punti di riferimento, facendolo pensare di più, rischia di sbagliare un maggior numero di risposte... anche senza seguire il servizio a rete. Il serve&volley diventa poi micidiale quando l’avversario HA EVIDENTI LIMITI CON UN COLPO (spesso il rovescio). Se difatti sbaglia le prime 2-3 esecuzioni, rischia di entrare sempre più in crisi con quel colpo, perdendo totalmente fiducia.

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LA RISPOSTA BLOCCATA Con questo colpo, Roger Federer disinnesca l’arma più difficile da contrastare: una prima di servizio che arriva a velocità altissime. Col rovescio è più semplice (almeno per chi sa giocare il back), ma si riesce a impararla anche col diritto senza troppi affanni. In sostanza, si tratta di bloccare la risposta su un servizio contro il quale sarebbe troppo complicato giocare un’esecuzione completa. Punto fondamentale, per avere i riflessi pronti bisogna essere “attivi”, come ripetono i coach professionisti. Partite circa un metro dietro al punto ideale di risposta; quando l’avversario sta per colpire la palla, eseguite uno split step, come se doveste eseguire una volée (in realtà ci assomiglia non poco). Quindi dovete limitare l’apertura ma COLPIRE SEMPRE LA PALLA DAVANTI AL CORPO. Non serve dare spinta alla palla, perché sfrutterete la velocità impressa dall’avversario nel servizio. Il leggero taglio sotto alla palla permette di avere controllo. L’importante sarà trovare il giusto ritmo per ottenere una buona profondità di palla. Inoltre, se rispondete lungo ma con una palla senza peso, non sarà semplice per l’avversario spingerla fino a giocare un winner. Unico caso in cui questo colpo non è vantaggioso è contro un giocatore serve&voilley perché offrireste un passante troppo lento. In quel caso, cercate una traiettoria bassa tra i piedi. E per fortuna, i giocatori serve&volley sono pressoché spariti.

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GIOCATORI

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IL SERVIZIO AL CORPO Viene spontaneo cercare sempre un servizio vincente mirando agli angoli del rettangolo di battuta. E se siete dei tipi alla John Isner fate anche bene! Tuttavia, anche nel servizio saper variare è un’arma importante. Inoltre, servire verso un angolo (soprattutto se esterno), vuole anche dire aprire un angolo al proprio avversario, dovesse riuscire ad arrivare sulla palla. Per questo motivo, il servizio al corpo può rappresentare una valida alternativa. L’unico problema è che... bisogna essere molto precisi, quindi riuscire a indirizzare la palla proprio addosso al suo avversario. Basta sbagliare di venti centimetri infatti, e il vostro avversario si ritroverà un servizio comodo al quale rispondere. Ma qual è il vantaggio principale di questo servizio, oltre all’effetto-sorpresa? METTERE IN DIFFICOLTÀ TECNICA L’AVVERSARIO. Non è per nulla semplice togliersi la palla dalla pancia, soprattutto se la palla arriva abbastanza rapida e se sarete così precisi da indirizzarla al corpo, ma lievemente verso il diritto. Per togliersela dalla pancia serve velocità, agilità e un’ottima tecnica. Il servizio al corpo non è un colpo semplice da eseguire, ma se lo imparate, diventerà un’arma in più nel vostro arsenale.

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VOLÉE ASCENDENTE, VOLÉE PERDENTE Lo diceva Rino Tommasi: volée ascendente, volée perdente. In buona sostanza, una volée giocata col piatto corde sopra il livello della rete è un’esecuzione abbastanza semplice, che mette il giocatore a rete in posizione di grande vantaggio; se invece bisogna colpire la volée sotto il livello del nastro, allora bisogna essere dei signori volleatori. E questo accade raramente tra i giocatori di club (e non solo...). Ecco dunque che è importante, quando si viene attaccati, NON CERCARE SUBITO IL PASSANTE VINCENTE; meglio giocare un passante anche poco angolato ma che cade subito dopo la rete. Obbligherete così il vostro avversario ad una volée difficile, dove bisogna scendere molto in basso con le gambe e avere grande sensibilità per trovare profondità. Male che vada, nel 90% dei casi vi ritroverete con il punto già fatto o un secondo passante più semplice da giocare. Se invece siete dall’altra parte della barricata, cioé siete voi a dover affrontare un passante basso tra i piedi, ricordatevi alcuni passaggi fondamentali nella vostra discesa a rete: 1. Lo split step, il saltellino a piè pari da eseguire quando l’avversario sta per colpire la palla. 2. La ricerca della palla con qualche piccolo passettino, per non colpirla troppo bassa: 3. Scendere tanto (ma tanto) con le ginocchia. Non pensate di buttare giù la testa della racchetta (quello poteva farlo John McEnroe).4. Passare sotto alla palla col piatto corde in modo da consentire una traiettoria che superi la rete. 5. Completare il movimento portando bene in avanti la testa della racchetta per trovare adeguata profondità. Con questo colpo non bisogna chiudere il punto: SERVE SOLO PER TROVARE PROFONDITÀ e guadagnare una miglior posizione a rete. Dalla lotta tra passante basso e volée bassa, uscirà il vincitore dello scambio. SE VOLETE VEDERE TUTTE LE SEQUENZE COMPLETE,VISITATE L’AREA TECNICA DEL NOSTRO SITO INTERNET: TENNISBEST.COM



INT ERVI STA

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nick matthew

NUMBER

ONE! HA VINTO TRE BRITISH OPEN, DUE PSA WORLD OPEN E HA CEDUTO IL TRONO MONDIALE SOLO A CAUSA DI UN INFORTUNIO. MA LA SUA VITTORIA PI첫 IMPORTANTE DEVE ANCORA ARRIVARE. E SI CHIAMA BACK THE BID 2020 di lorenzo cazzaniga

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ettantasei anni. Da tanto gli inglesi aspettano di vincere lo Slam di casa nel tennis. Un periodo talmente lungo da tifare perfino per uno scozzese, purché un british player riesca a trionfare sull’erba di Wimbledon. Per loro fortuna, nello squash serve meno pazienza. Nick Matthew, 32 anni da Sheffield, in carriera vanta già tre British Open, due PSA World Open e due medaglie d’oro ai Commonwealth Games. E l’anno scorso ha ceduto la leadership mondiale solo a causa di un infortunio (peraltro ad un suo connazionale James Willstrop). Capito, Andy? Come ti sei avvicinato allo squash? «Negli anni 70, quando c’è stato il primo boom dello squash, i miei genitori giocavano in maniera abbastanza assidua e quindi è stato naturale cominciare. Mio padre giocava anche a calcio a livello semiprofessionistico, ma lo squash era considerato uno sport piuttosto fashion all’epoca. In realtà, da ragazzino ho provato tanti sport: tennis, cricket, calcio, ma lo squash è quello che ho sempre preferito. Forse perché era quello dove riuscivo meglio». È stato semplice cominciare a giocare? «Ero così piccolo che nemmeno me lo ricordo! Però lo squash ha dei costi contenuti, quindi non è complicato avvicinarsi. In compenso, non ho subito raggiunto dei grandi risultati. Ricordo che al principio persi subito 9-0 9-0 9-0 senza conquistare un punto. Da junior sono diventato forte nella mia regione, ma a livello nazionale non ero tra i primissimi.A 16 anni ho cominciato a fare sul serio». Da che tipo di famiglia provieni? «Middle class. Non certo dei milionari ma lo squash non è come altri sport nei quali per emergere devi investire tanti soldi». Quando hai capito che potevi diventare un giocatore professionista? «Al principio non pensavo di diventare un top player. Però ho cominciato a fissarmi degli obiettivi passo dopo passo. In realtà, ben 138

presto l’obiettivo è diventata la top 10 mondiale, poi la top 5 e, quando sei arrivato lì, è normale puntare a diventare il primo giocatore al mondo. E fortunatamente ci sono riuscito». Come si mantiene alta la motivazione dopo aver vinto tutto ciò che era possibile? «Bisogna avere sempre fame. Il difficile è allenarsi per 5-6 ore al giorno, alzarsi presto la mattina, faticare per migliorarsi costantemente. La competizione è la parte più affascinante, ma senza un’adeguata preparazione non avrei chance. Bisogna avere fame di vittorie per trovare la forza di migliorarsi ogni giorno». Sei reduce da un lungo infortunio: hai mai pensato di smettere con l'attività pro? «ÈÈ stata una dura prova ma piuttosto utile. Può sembrare paradossale ma in un certo senso devo ringraziare quel periodo perché mi ha fatto capire quanto ancora amo lo squash. Per questo voglio andare avanti con obiettivi sempre altissimi. E chissà che questo momento di pausa forzata non mi abbia allungato la carriera». Cosa potrebbe fare la Federazione Internazionale per migliorare la situazione dello squash a livello mondiale? «Riuscire a ottenere il pass olimpico.Tutto passa attraverso quella strada. Per me le Olimpiadi di Londra sono state una sofferenza particolare visto che sono inglese, anche se le ho vissute con grande partecipazione perché la mia fidanzata faceva parte dello staff della selezione britannica di ciclismo e direi che hanno ottenuti risultati straordinari. Però lo squash per crescere deve assolutamente diventare sport olimpico». Traguardo mancato alle prossime Olimpiadi di Rio de Janeiro dove troveranno spazio discipline come il golf e il rugby a 7: per quale motivo lo squash non ha raggiunto lo status olimpico? «Credo che lo squash abbia tutte le caratteristiche per essere inserito nel programma olimpico dal punto di vista della tradizione,


OBIETTIVO OLIMPIADI La Federazione Internazionale Squash ha lanciato la campagna Back the Bid 2020 nella quale sono stati coinvolti top player, organizzazioni e fans per supportre la candidatura dello squash alle Olimpiadi del 2020. Il pass olimpico è un traguardo fondamentale per una disciplina sportiva perché consente di avere accesso a finanziamenti pubblici imprescindibili (soprattutto in questi periodi di crisi economica) affinché ogni federazione possa crescere in maniera autonoma e continua. La WSF cerca anche di aiutare tutte le iniziative volte ad attrarre i giovani verso lo squash, anche perché la diffusione mondiale è uno degli aspetti più importanti che il CIO valuta prima di emettere il verdetto. «Con l'appoggio di tanti appassionati e aziende coinvolte nel mondo dello squash, crediamo di avere tutte le credenziali per ottenere il pass olimpico. La campagna Back the Bid 2020 è l'iniziativa che dovrebbe accompagnarci verso questo traguardo» ha dichiarato il Presidente della WSF, Ramachandran. Ma quali sono le reali possibilità di raggiungere l'obiettivo? Inutile nascondere che non sarà così semplice perché la concorrenza è piuttosto agguerrita. Purtroppo alle Olimpiadi 2020 verrà inserita una sola nuova disciplina nel programma.Tra i vari pretendenti, alcuni hanno obiettivamente pochissime chance (wushu, wakeboard, arrampicata, pattinaggio a rotelle), altri invece possono competere in termini di tradizione, diffusione a livello mondiale e potenziali sponsor con lo squash. Su tutti, l'avversario più credibile è il baseball. Speriamo però che questa volta sia lo squash a dare la mazzata finale.

del numero di praticanti e della sua diffusione a livello mondiale. Però bisogna riuscire a convincere un piccolo gruppo di persone che è deputato a votare e non è così semplice».

«Non ha bisogno dei miei consigli e vincendo l’oro olimpico ha già dimostrato di essere pronto a vincere uno dei quattro tornei più importanti. Ci è andato vicino, verrà il momento in cui trionferà».

Forse perché altri sport come il golf garantiscono maggiori risorse economiche? «ÈÈ chiaro che portarsi appresso una serie di sponsor importanti aiuta a ottenere il pass olimpico. Ma ci sono tanti fattori che possono influire. Io, come tanti altri top players, ci siamo messi a disposizione della Federazione Internazionale per promuovere la candidatura e speriamo che il 2020 sia l’anno buono».

Però se pensi ai suoi guadagni,non ti viene un po’ di rabbia? «Mah, durante le Olimpiadi ho visto grandi atleti di sport nei quali si guadagna molto meno che nello squash, quindi nessun rimpianto da questo punto di vista. Direi che lo squash si piazza nel mezzo tra gli sport più ricchi e quelli che fruttano meno. Va bene così».

Un solo sport sarà aggiunto nel programma olimpico del 2020: a contenderselo, oltre allo squash, ci sono baseball, softball, arrampicata, karate, pattinaggio a rotelle, wakeboard e wushu, un’arte marziale cinese: quali sono gli avversari più pericolosi? «Certamente il baseball perché è uno sport di larga diffusione. In seconda battuta, direi il softball. Noi cercheremo di giocarci al meglio le nostre carte». In tanti sport, tennis compreso, si parla spesso di cambiare alcune regole a vantaggio dello spettacolo: tu cambieresti qualcosa nello squash? «E perché mai? Con queste regole ho vinto così tanto!». Fra i tanti titoli conquistati, a quale sei rimasto più legato? «Difficile sceglierne uno solo perché tutti a loro modo rappresentano qualcosa di speciale. Dovendo scegliere, il primo PSA World Open. E la prima volta che sono arrivato in vetta alla classifica mondiale. Però ricordo con grande piacere anche il titolo vinto a New York dopo otto mesi fuori per un infortunio che mi è costato anche il primo posto mondiale». Avendo già vinto dei Major, quale consiglio daresti a Andy Murray che nel tennis deve ancora conquistare uno Slam?

La tua rivalità con Ramy Ashour può essere paragonata a quella tra Roger Federer e Rafael Nadal? «In realtà non ci siamo solo noi due! In questo momento il numero uno del mondo è James Willstrop e gli va dato credito per quello che ha conquistato. Io sono stato fermo per infortunio ma il mio obiettivo resta sempre quello». Tradotto? «Tornare numero uno del mondo. E magari riuscirci entro la fine dell’anno». Stai già pensando a cosa fare nel tuo post-carriera? «Certamente rimarrò nel mondo dello squash perché credo di avere un bagaglio di esperienza che sarebbe folle non sfruttare. Non sarebbe male commentare il torneo olimpico del 2020, però nel frattempo ho lanciato il mio sito Internet (www.nickmatthew. co.uk) sul quale terrò aggiornati gli appassionati sulle mie prestazioni ma anche sui miei progetti futuri». Dacci tre motivi per cominciare a giocare a squash. «Uno: aiuta a rimanere in forma perché obbliga ad un grande dispendio di energia. Due: aiuta dal punto di vista tattico nel creare e sviluppare nuove strategie di gioco. In più, chi gioca a tennis può migliorare alcuni colpi, come il rovescio in back. Tre: si gioca tutto l’anno, anche quando piove!”. 139


Una storia tutta nuova

Il 2012 ha segnato la riapertura a Milano del mitico Squash Vico, all'interno di un meraviglioso centro GetFit. Quattro campi e un maestro A.S.S.I. per tornare ai fasti del passato

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suo modo, lo scorso 23 gennaio rimarrà una data storica per lo squash italiano. In quel giorno infatti, ha riaperto a Milano lo storico Vico Squash. È stato annesso al centro GetFit che ha operato una ristrutturazione globale fino a farlo diventare uno dei centri fitness-sport-benessere più apprezzati della città, con 3.200 mq a disposizione di oltre duemila soci e un trend di crescita addirittura sorprendente. Quando chiuse i battenti all'inizio del 2010, c'è stata quasi una processione funebre, perché il Vico rappresentava qualcosa in più che uno squash. Aveva 10 campi, compreso il mitico Nerozzi, il centrale intitolato all'otto volte campione italiano. Ci insegnava Marcus Berret, un'icona dell'epoca, e sotto di lui alcuni dei migliori giocatori e giocatrici d'Italia. Un senso di vuoto colmato dai proprietari del GetFit che nella loro ristrutturazione non hanno certo dismesso i campi, benché ridotti a quattro, di cui due totalmente nuovi, posti proprio all'ingresso del club. Il Vico è nato nel 1989, nel pieno del boom squashistico italiano e in breve tempo diventò il più grande centro italiano, guadagnandosi l'appellativo, spesso abusato, di Casa dello Squash. Ora promette, un passo alla volta, di tornare ai fasti del passato. Come ci ha confermato Livio Leardi, uno dei fondatori degli impianti GetFit: «Appena cominciata questa nuova avventura, è stato chiaro che il centro aveva l'anima rivolta allo squash. La storia insegnava che non stavamo parlando di un semplice centro squash che aveva temporaneamente chiuso, ma per gli appassionati era un vero punto di riferimento nazionale. Per questo abbiamo voluto mantenere quattro campi, un numero che riteniamo sufficiente, anche se abbiamo progetti di rinforzare molto l'attività e magari ampliare l'offerta squash in altri centri GetFit della città. Per me è anche una passione: sono stato un precursore quando lanciai un centro squash a Legnano nel 1984» Al Vico è sbarcato un maestro A.S.S.I. Feritim Hamdi, egiziano come il mitico Ramy Ashour, il Roger Federer dello squash, per anni numero uno del mondo, a testimonianza che l'Egitto è una nazione leader in questo sport (e a

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proposito di Ramy Ashour, sul prossimo numero di TENNISBEST Magazine avrete una bella sorpresa). L'eredità che deve raccogliere Hamdi è pesante, ma i primi risultati sono decisamente incoraggianti: «La notizia della riapertura del Vico non è certo passata inosservata a Milano e questo ci ha aiutato nella fase di lancio anche dei nostri programmi di squash - continua Leardi -. Abbiamo circa 150 persone che gravitano sui campi da squash su un totale di 2.700 soci. Però, a pieno regime, contiamo di arrivare a 4.000-4.500 soci e di conseguenza potremmo quasi raddoppiare anche gli utenti squash. Fortunatamente il maestro Hamdi è molto coinvolgente e ora è presente sostanzialmente tutta la settimana e può organizzare iniziative di promozione che attirino nuovi appassionati». Già, perché questo è il segreto per non essere colpiti da un'altra crisi: «Il problema dello squash, ma di tanti altri sport, è che non è facile far lavorare la struttura nei periodi morti della giornata, che per noi corrispondono a quelli lavorativi. Molti centri hanno convertito gli spazi in sale fitness perché in una giornata ci infili dentro cento persone, con altri sport, come anche lo squash, arrivare a 15 è tanto. Però noi vogliamo un club che offre tante possibilità diverse. Però per ovviare a quel problema stiamo anche instaurando dei rapporti con delle scuole private perché i ragazzi possano frequentare il club in determinati orari, a prezzi chiaramente vantaggiosi. E avvicinare i giovani a uno sport è elemento essenziale per la sua crescita». Ma il Vico non è (chiaramente) solo squash, ma dispone anche di un'impiantistica fitness all'avanguardia. Ma in generale c'è molta attenzione all'aspetto ecologico: «Credo possa essere definito il club sportivo più green d'Italia - continua Leardi -. Dopo la nostra ristrutturazione, costata quattro milioni di euro, il centro è passato da classe energetica G a classe B. Produciamo tutta l'acqua calda di cui necessitiamo con i pannelli solari e il 98% dell'illuminazione è fornita da Led a bassissimo consumo». E via, partiamo col tour che ci porta ad ammirare palestre super funzionali, piscina coperte e una Spa notevole, con una cura maniacale dei particolari. Quello che bisogna fare per riportare anche lo squash al ruolo che merita.


DOUBLE AR CHALLENGE

Una corda rivoluzionaria sotto tanti aspetti e che ha subito incontrato il gradimento degli appassionati, sia tra i professionisti (è utilizzata dal top 15 mondiale Adrian Grant) sia dai giocatori di club. La Bi-Color Technology permette di applicare ad un unico monofilamento colori alternati. Grande spinta e precisione sono le principali caratteristiche di questo monofilo da 1.18 di calibro che sfrutta un materiale di nuova concezione, il Thermonyl, un nylon italiano che subisce una serie di trattamenti chimici e termici per aumentarne la caratteristiche di base – elasticità e potenza – rafforzandone allo stesso tempo la resistenza. Risultato? Una corda performante ma allo stesso tempo facile e immediata.

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Test

VICTOR SH 9000 RED Per gli appassionati di squash settembre è tempo di acquisti, scarpe in primis. Nello squash, i piedi giocano un ruolo fondamentale e gli agonisti sono sempre alla ricerca di una calzatura specificamente pensata per questo sport, confortevole e grippante, in grado di ammortizzare gli impatti sul parquet senza rinunciare alla precisione ed alla sicurezza negli appoggi. La Victor SH9000 Red è la risposta a queste esigenze. Ultimo ritrovato del marchio tedesco, leader mondiale negli sport con racchetta indoor, la SH 9000 è pensata per offrire livelli di performance eccellenti anche se sottoposta ad un

uso intensivo e prolungato nel tempo. Il tutto grazie ad un mix di tecnologia e ricerca. A contarli tutti, i sistemi di ammortizzazione, comfort e ancoraggio del piede, si rimane sbalorditi. Si va dal sistema Memory Auto Fit, che adatta la tomaia alla forma del collo del piede, per una vestizione perfetta, allo Stable System della punta, che impedisce torsioni della caviglia. Ma è la suola il vero fiore all’occhiello della scarpa dove il nuovissimo Trinetic System preserva il tallone dai traumi da impatto mantenendo inalterata la sensazione di stabilità. Pensata per gli agonisti, sarà apprezzata anche dai giocatori di club.


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È fantastica! Appena calzata è come fosse tua da sempre. La senti subito comoda e performante. Il piede resta immobile, offrendo grande sicurezza negli spostamenti, anche in quelli più estremi. Si sente che è stata pensata per gli atleti professionisti che chiedono il massimo al loro fisico.

MARCO, 45 ANNI CATEGORIA PRO

Tallone e tendine d’Achille al sicuro con la tecnologia Trinetic che assorbe gli shock da impatto grazie a quattro mescole differenti che agiscono come ammortizzatori indipendenti lasciando inalterata la sensibilità del piede.

on court

Finalmente una scarpa pensata per noi squashisti. Fino ad oggi ci siamo quasi sempre dovuti accontentare di scarpe studiate per altre discipline indoor. L’ammortizzazione è di altissima qualità e il piede resta ben bloccato in ogni situazione di gioco. Per chi, come me, passa diverse ore in campo, è una manna dal cielo!

MASSIMILIANO, 41 ANNI ISTRUTTORE

Mi hanno colpito subito. Non è facile Il sistema Trusstic trovare scarpe offre un ottimo con un rosso così supporto mediale, sgargiante! mentre laIn gomma Ahar è garanzia campo forse sono di durata.troppo Il addirittura battistrada a spina per ildimio pescelivello modificato di gioco, maalle si varie si adatta superfici subito di gioco. percepisce la qualità. Peccato non ci siano anche in altri colori, magari meno appariscenti.

Lo studio e il lavoro fatto si percepisce nella cura con cui ogni dettaglio è stato realizzato. Nulla è lasciato al caso. Scarpa ben bilanciata e dal peso contenuto, agile e scattante, ai piedi non le senti nemmeno. Un gran vantaggio se devi affrontare un match ai 5 game!

HAMDI, 28 ANNI ATLETA PRO

Il sistema LSS offre un’ottima vestizione del piede, e impedisce le imbarcate laterali contenendo lo spostamento laterale negli affondi. Risultato, suola sempre parallela al pavimento con il massimo del grip.

GUIDO, 32 ANNI GIOCATORE DI CLUB

Le aree d’impatto a densità diversificata offrono un grip eccellente senza rinunciare alla corretta flessibilità. Il supporto dell’arco del piede in carbonio mantiene la flessibilità della scarpa nel tempo.


The End

CONTROCORRENTE. Le notizie della seconda vittoria Slam in doppio di Sara Errani e Roberta Vinci e la conquista della cima della classifica mondiale, sono state accolte con scene di giubilo. Francamente eccessiva. La gara di doppio interessa solo a chi arriva in fondo. Non ci fossero state due italiane, non avremmo chiesto nemmeno il nome delle vincitrici. Così come nessuno si strappa i capelli per Liezel Huber o Lisa Raymond, Kveta Peschke e Katerina Srebotnik, tutte arrivate al numero uno del ranking mondiale. La specialità del doppio vive da anni una crisi irreversibile, al punto che i tornei ATP e WTA ne hanno cambiato le regole del punteggio, pur di ridurne il fastidio. È chiaro che programmi tv e magazine meno specializzati si lascino attrarre dalla notizia, ma dobbiamo ricordare che vale molto di più il quarto di finale raggiunto nel torneo di singolare dalla Vinci, per non parlare della semifinale della Errani. E il numero 7 di Sarita (ma anche il 15 di Roberta) nella classifica di singolare, valgono più della prima posizione mondiale in doppio. Loro non saranno d'accordo, soprattutto perché il bellissimo legame di amicizia che le contraddistingue, rende il successo nel doppio ancora più dolce. Avessero giocato in coppia con una compagna di business, mai avrebbero scambiato una vittoria Slam in doppio con un quarto di finale in singolare. Forse nemmeno per un ottavo. Ma la notizia più piacevole è riscontrare come ormai il tennis (femminile) abbia raggiunto uno status di élite assoluto nel panorama sportivo italiano. Errani e Vinci, dopo Schiavone e Pennetta, sono ormai entrati nelle case degli italiani e qualunque loro successo diventa notizia da TG. E questo è un gran bene per il nostro movimento. Certo, raggiungere il livello di Federica Pellegrini, a cui basta che il fidanzato l'accarezzi sulla pancia per creare un gossip nazionale, è ancora lontano. Ma meglio arrivare a certi gradi di popolarità per meriti sportivi. L'esempio che offrono le Chiqui Chiqui è quello giusto. Speriamo che le ragazzine, rapite dagli amici della De Filippi siano in grado di recepirlo.

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RACCHETTA, PALLA E INCORDATORE UFFICIALE DI ROLAND-GARROS Andy RODDICK (USA)

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*Nuova Pure Drive: in una racchetta, il lato oscuro della potenza. Massima energia ad ogni tiro.

Na LI (CHN)

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