TennisBestMagazine n.3

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ESCLUSIVO A CASA DI ANDREAS SEPPI

beST/magazine BIMESTRALE LUGLIO/AGOSTO â‚Ź 4,50 ITALY ONLY

HANNO SCRITTO Marco Bucciantini Lorenzo Cazzaniga Federico Ferrero Fabio Fognini Marco Imarisio Anotnio Incorvaia Jacopo Lo Monaco Cino Marchese Stefano Meloccaro Emilio Sancez Massimo Sartori Andrea Scanzi Andreas Seppi

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Sommario luglio/agosto 2012

Opinionisti 16 ANDREAS SEPPI

18 FABIO FOGNINI

20 FILIPPO GRASSIA

22 JACOPO LO MONACO

Amar cord

SPECIALE AMARCORD DA PAG.48

50 BJORN BORG

Marco Imarisio racconta l’unico giocatore che ha realmente rivoluzionato il mondo del tennis

56 JOHN MCENROE

Il mitico mancino americano ricorda la sua prima grande impresa, quando raggiunse le semifinali di Wimbledon nel 1977

62 IVAN LENDL

Abbiamo scovato il dvd della NBC della finale di Parigi 1984. Quando Ivan diventò Il Terribile

70 JIMMY CONNORS

Il più grande fighter della storia del tennis. Lo racconta chi l’ha conosciuto da vicino: Cino Marchese

74 TUTTO QUELLO CHE...

...è sparito e vorremmo ritrovare ancora:

da Gene Mayer alla segatura a bordocampo, dall’ATP a Milano ai jeans di Agassi...


42 SARA ERRANI

Da Massa Lombarda alla finale di Parigi, passando (e restando) in Spagna. L’impresa di Sarita raccontata da Federico Ferrero

80 ANDREAS SEPPI

Marco Bucciantini è andato a Casa Seppi. E a pranzo con Andreas e sua madre, davanti ad una bottiglia di Muller Thurghau ha scoperto che...

88 MARIA SHARAPOVA

La Regina del tennis in un servizio fotografico esclusivo e nelle parole di Andrea Scanzi

106 IL TENNIS DI LINUS...

Stefano Meloccaro ha raggiunto il mitico Linus nella sua casa di Riccione. Per raccontarci di una folgorazione: il libro di Agassi. E l’amore ritrovato per il tennis

110 ... E QUELLO DEL FUTURO

Antonio Incorvaia descrive quello che sarà lo scenario del prossimo futuro. Senza dover essere polkitically correct


Sommario luglio/agosto 2012

116 GIANLUIGI QUINZI

La più grande speranza azzurra analizzata ai raggi X, colpo per colpo, da coach Massimo Sartori

126 UN PLANTARE DOC

Continua il nostro viaggio con il dott. Luca Avagnina per scoprire come salvguardare i nostri piedi

132 TEST RACCHETTE

Non esistono solo i Big Three (Babolat, Head e Wilson). Anche brand più piccoli si stanno affacciando al mercato. Come Mantis, Con telai di grande qualità.

134 TEST RACCHETTE

Test in campo e in laboratorio della versione 2012 della mitica Dunlop Max 200G

136 OLIMPIC GAMES

Asics ha studiato un completo specifico per le Olimpiadi di Londra che verrà utilizzato da Filippo Volandri

138 LE CORDE DEI CAMPIONI

Direttamente dal servizio incordatura del Foro Italico, tutte le scelte dei top players in termini di corde e tensioni utilizzate

ERRATA CORRIGE

Nello scorso numero, nella sezione dedicata allo squash, abbiamo erroneamente chiamato Adrian Gray col nome Arvey e indicato in Marco Vercesi il Presidente dell’ASSI, ove invece ne è il responsabile tecnico. Ci scusiamo con i lettori e i diretti interessati.

140 MADE IN ITALY

Siamo andati nella sede della Double Ar per capire come vengono create le uniche corde totalmente progettate e realizzate in Italia

153 SQUASH!

Otto pagine interamente dedicate allo squash con interviste, tornei, prodotto, eventi e il racconto di una squadra molto speciale


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beST/magazine beST magazine Direzione e redazione via Carlo Goldoni 5 - 20052 Milano www.tennisbest.com Direttore responsabile Lorenzo Cazzaniga lorenzo@tennisbest.com Caporedattore Riccardo Bisti info@tennisbest.com LUOGHI / 1 Da Parigi, tra tante ore di telecronache (e qualche buon vinello) ci è arrivato in redazione un bel ritratto di Sarita Errani

Hanno collaborato Lorenzo Baletti, Marino Bombini, Luca Bottazzi, Marco Bucciantini, Corrado Erba, Federico Ferrero, Marco Imarisio, Antonio Incorvaia, Cino Marchese, Jacopo Lo Monaco, Stefano Meloccaro, Filippo Montanari, Mirko Roveda, Andrea Scanzi

LUOGHI / 3 L’aveva detto sin dal primo giorno: quando c’è da andare a casa Seppi, ci vado io! E così si è preso un treno notturno da Roma ed è sbarcato sul (bellissimo) Lago di Caldaro.

Pro Player Fabio Fognini, Andreas Seppi Pro Coach Emilio Sanchez, Massimo Sartori LUOGHI / 2 Ci andrà quest’estate a Stoccolma, in una sorta di personale pellegrinaggio. Ma scomodare i miti, quando si chiamano Bjorn Borg, talvolta può quasi far paura

Photo editor Marco De Ponti Photo Agency Getty Images Art director Giuly Marley Der Prinz

Editore XM MANAGEMENT SRL corso Garibaldi 49 - 20121 Milano Stampa Mondadori Printing S.p.A. Via Mondadori 15, 37131 Verona Tel. +39.045.934111 Fax +39.045.934763 info.printing@verona.pozzoni.it Distributore per l’Italia m-dis S.p.A. Via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano tel. 02/25.82.1 Registrazione presso il Tribunale di Milano n.75 del 10 febbraio 2012

LUOGHI / 4 Siamo abituati a seguire Linus dalla radio. Noi siamo andati oltre e abbiamo bussato alla sua casa di Riccione...


DREAM TEAM

Giocatori, coach, manager, giornalisti, scrittori, commentatori tv: una carrellata dei complici che ci hanno permesso di sfornare questo numero di TENNISBEST Magazine. 1

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FEDERICO FERRERO Come nel caso del successo parigino della Francesca Schiavone, può dire «Io c'ero» anche per la finale raggiunta da Sara Errani. Inviato di Eurosport, ci ha raccontato, col suo inconfondibile stile, la favola di Sarita.

FABIO FOGNINI Dopo un difficile inizio di stagione causa infortunio, sono subito arrivati i primi buoni risultati sull'amata terra battuta. E poi anche sull'erba, dove pare trovarsi parecchio a suo agio. Se poi disponesse anche di uno di questi dieci servizi...

MARCO IMARISIO «Era dal 2001 che non seguivo tante disgrazie!» dice lui. Ma il giorno più triste deve essere stato quello del ritiro del suo amato Bjorn Borg. Per questo gli abbiamo chiesto di raccontare l'unico giocatore capace realmente di rivoluzionare il mondo del tennis

ANTONIO INCORVAIA Avete mai sentito parlare del Proxymol? No? Beh, nemmeno noi. Prima che il nostro Incorvaia decidesse di immaginare quello che sarà il tennis del futuro. Senza essere politically correct, ne è uscito uno scenario da fantascienza (oppure no?)

CINO MARCHESE Il più grande manager dello sport italiano, si è occupato di raccontare un personaggio per nulla facile come Jimmy Connors, che lui ha conosciuto piuttosto bene. Oh, e quella storia della macchinina è vera, sia chiaro!

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STEFANO MELOCCARO Partito un pomeriggio, direzione Riccione, a due passi dal mitico viale Ceccarini ha incontrato Linus, folgorato dal libro di Agassi. Ne è uscita una bella chiacchierata e una promessa: la prossima intervista la faremo su un campo da tennis

JACOPO LO MONACO Telecronista a Eurosport (e pure coach di due giovani promesse), la passione per le statistiche gli ha fatto scoprire come i Fab Four stanno davvero monopolizzando gli Slam. Molto più di quanto sia accaduto in passato. Lo dicono i numeri.

EMILIO SANCHEZ L'abbiamo ammirato da giocatore, ora lo apprezziamo per aver creato la più importante accademia di tennis europea a Barcellona. Da capitano di Davis ha schierato Nadal. E di Rafael ci ha voluto parlare. Anzi, dei due Rafael Nadal...

ANDREA SCANZI Molti lo conoscono per le sue apparizioni tv, per gli articoli sul Fatto Quotidiano, MicroMega e Playboy (non è uno scherzo) o ancora per il suo spettacolo Gaber se fosse Gaber. In questo numero si è occupato di Maria Sharapova. (P.S. nella foto è quello a sinistra)

ANDREAS SEPPI L'anno scorso abbiamo scoperto che nei pronostici non è esattamente il numero uno d'Italia. Però... non demorde. E anche nel 2012 metterà alla prova la sua competenza tennistica e non. «Tanto non posso far peggio!»

NON PUOI DIRE SUL SERIO You Cannot Be Serious! Lo gridò John McEnroe ad un arbitro a Wimbledon ed è subito diventata una frase mitica nel mondo dello sport. Poi è diventato il titolo di un bellissimo libro appena tradotto in italiano da Piemme (www.edizpiemme.it) e scritto insieme a James Kaplan. Un libro dove (finalmente) uno sportivo di successo si apre totalmente al suo pubblico raccontando la sua storia, le sue emozioni, i grandi successi ma anche gli schiaffi che ha ricevuto dentro e fuori dal campo. E poi la sua vita privata, le sue compagne (Tatum O’Neal e Patty Smyth), il rapporto con gli avversari (Borg in testa), gli odiati giornalisti, i propri figli. Non ha fatto mancare nulla e certi aneddoti sono davvero straordinari. Un libro che non può e non deve assolutamente mancare nella libreria di un appassionato di tennis.

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di LORENZO CAZZANIGA

VANITY ERRANI Si fa un gran parlare dei Fab Four, in quella che è indubbiamente uno dei periodi d'oro della storia del tennis. Lo testimonia il fatto che il record di 16 Slam conquistati da Roger Federer, una prestazione che dovrebbe rimanere imbattuta per decenni, è invece già minacciata da Rafael Nadal, arrivato a quota 10 con l'ultimo Roland Garros vinto. Eppure, con questo numero di TENNISBEST Magazine, vogliamo rendere onore ai quelli che abbiamo definito i veri Fab Four: Bjorn Borg, John McEnroe, Ivan Lendl e Jimmy Connors che hanno segnato l'epoca del boom del tennis. Ma non ci siamo fermati qui. Permettetemi la presunzione, ma sono convinto che difficilmente si ricordi una rivista di tennis con contenuti così importanti, grazie ad una squadra che ogni numero diventa sempre più un Dream Team. Un numero veramente doc. Immagino abbia letto l'intervista rilasciata da Sara Errani a Vanity Fair dove afferma che «i ragazzi italiani pensano di vincere con il colletto della maglia alzato». Oppure «I ragazzini scendono in campo pensando a un fighetto come Federer, mica a Nadal». E ancora «Balotelli non lo sopporto. Non mi piace proprio». Non crede che il successo le abbia dato alla testa? (Cristiano, Reggio Emilia) Beh, diciamo che non spicca per le sue doti di public relation. Almeno a leggere questa intervista. Però certe dichiarazioni vanno interpretate. Quando dice che Federer è un fighetto, poi ricorda qualcosa di significativo, cioè che anche lui, nonostante le sue qualità innate, «ha dovuto farsi un mazzo così» per diventare uno dei più forti giocatori della storia. Per quanto riguarda i ragazzi italiani, non si può certo generalizzare, né credo si riferisse agli attuali top players azzurri, perché Seppi and company dimostrano serietà e volontà in abbondanza. Così come tanti altre giovani promesse, Gianluigi Quinzi su tutti, del quale si può dir tutto, tranne che non ci metta l'anima. Ecco, 'sta storia delle ragazze italiane che avrebbero un maggior spirito di sacrificio, ha ormai stancato. Se così fosse, l'Italia avrebbe fuoriclasse in gonnella in tutti gli sport, e gli uomini arrancherebbero tra le comparse. Mentre non mi pare proprio sia così. Oppure si crede che questo convincimento valga solo per il mondo del tennis? È vero che in passato la nomea dei tennisti azzurri era pessima (ricordate il protagonista del film Aprile di Nanni Moretti quando dice «non fate come quelle mammolette dei tennisti italiani che hanno sempre una scusa pronta...». Però son tempi passati. Per emergere nello sport professionistico attuale, il sacrificio è una condizione essenziale, che si tratti di Federer o della Sharapova, di Seppi o della Errani. Per quanto riguarda Balotelli, credo sia una sensazione che accomuna una buona parte degli italiani. In sostanza, Sara è una ragazza coi fiocchi, onesta, sincera, perfino modesta in certe sue espressioni. Però ancora adesso parla come se fosse al bar con gli amici, mentre deve rendersi conto che una finale Slam ti obbliga a traslocare nel mondo delle star sportive, dove ogni tua dichiarazione viene amplificata. Il problema è che ora starà sempre più attenta a quello che dice, e probabilmente ci troveremo di fronte (a microfono acceso, sia chiaro) l'ennesima bambola che ci racconta sempre le stesse cose, che parla splendidamente anche della collega che sopporta meno, che non si sbilancia mai con un'opinione personale forte e decisa. Speriamo di no, perché Sarita ci piace così com'è, in campo e fuori. Caro Direttore, l'anno scorso mi sono divertito all'esibizione di Milano tra le sorelle Williams, Pennetta e Schiavone: crede che la ripeteranno anche quest'anno? (Katia, Arcore) Probabile. O quantomeno possibile, seppur con protagoniste diverse. A capo dell'operazione le stesse persone, Ernesto De Filippis e Ugo Colombini, il manager di Juan Martin Del Potro. Mi dicono abbiano opzionato Maria Sharapova e Ana Ivanovic, da opporre a Flavia Pennetta e Sara Errani (con la Vinci in panchina, in attesa di vedere se una eventuale medaglia olimpica valga una convocazione). Non tutti sono convinti che si riuscirebbe a replicare lo straordinario successo di pubblico dell'anno scorso, quando 12.000 appassionati hanno gremito il Forum di Assago. personalmente sono convinto di sì. Il campo di partecipazione è meraviglioso (in ogni senso...) e l'accoppiata Sharapova/Ivanovic è in grado di muovere le folle, soprattutto se sarà confermato l'appoggio mediatico di Gazzetta dello Sport e Sky. Spero che vengano leggermente rivisti alcuni particolari per rendere lo show ancora più spettacolare, sperando in un impegna agonisticamente più valido di quello mostrato lo scorso dicembre dalle sorellone di Compton. Gentile Direttore, è ancora convinto che Dimitrov diventi un fuoriclasse? (Tiziano, Milano) Sono pronostici difficili, anche se mi verrebbe da pensare, «se non lui, chi altro?». Non so se diventerà un tipo da vincere qualche Slam. Seconda l'amico Marco Imarisio del Corsera, tira troppo piano col diritto (e in parte col servizio) per diventare la metà di Federer, al quale viene sempre accomunato per similitudini esecutive, se non proprio balistiche. L'unica cosa di cui sono convinto, è che andrò a seguirlo anche giocasse sul campo 18 di un piccolo torneo. Nel tennis, per noi appassionati voyeur, l'estetica del gesto conta più del risultato.

Editoriale


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AGILITÀ LEGGEREZZA VELOCITÀ


WHO

Workmen

WHERE

Wimbledon Centre Court

WHEN

21 giugno 2011

WHY

Perché anche per organizzare i Championships non basta l’impegno di campioni e dirigenti

WHAT Wimbledon è definito il Tempio del Tennis dove regna un religioso silenzio e il pubblico si comporta in maniera sempre civile. O quasi. Se infatti camminando per i vialetti dell’All England Lawn Tennis & Croquet Club è impossibile imbattersi in una cartaccia buttata per terra, sugli spalti la situazione è ben diversa. Molti optano per un picnic a Aorangi Park davanti al megaschermo che trasmette i match del torneo, ma qualcun altro decide di organizzarsi direttamente sul Centre Court. E la sera c’è chi deve provvedere... Photo by Oll Scarff



WHO

Juan Martin Del Potro

WHERE

ATP Masters 1000 Madrid

WHEN

12 maggio 2012

WHY

Perché è sbagliato aver paura di sperimentare, innovare, crescere

WHAT L’hanno criticato al limite dell’insulto, Ion Tiriac. L’accusa? Aver stravolto le regole per favorire il suo show business creando l’ormai celebre terra blu, secondo molti (Nadal e Djokovic in testa) poco adatta al tennis professionistico. Troppo scivolosa, troppi rimbalzi strani. Eppure proprio a Madrid abbiamo visto il tennis su terra più divertente, più aggressivo, che ha favorito il talento tecnico alla corsa. E allora ben venga la terra blu se evita finali noiose e robotiche come le ultime di Monte Carlo, Roma e Parigi. E poi che giocatori e dirigenti smettano di aver paura delle novità e capiscano che lo sport deve essere anche (soprattutto?) spettacolo Photo by Jasper Julnen



WHO

Maria Sharapova

WHERE

Spogliatoio di Roland Garros, Parigi

WHEN

9 giugno 2012

WHY

Per assaporare il profumo della vittoria

WHAT È il momento più bello, quello che ogni appassionato sogna di poter vivere: ritrovarsi nello spogliatoio con a fianco la Coupe des Mosquetaries e, finalmente, potersi godere la vittoria, assaporare il dolce gusto del successo in maniera intima, lontano dalla folla, dai fans, dai media, perfino dal proprio staff. «Peccato duri solo un istante» diceva Boris Becker, che di questi attimi se ne intende. Photo by Sindy Thomas



mo tia t e mm o c S

. . . E H C DREA DI AN

Navratilova… Maria… Olimpiadi… 1. Chi vincerà il singolare a Wimbledon in campo maschile e femminile? E chi perderà in finale? Djokovic su Nadal tra gli uomini. No comment sulle donne: potrebbe vincere anche la Navratilova! 2. Quale sarà il medagliere olimpico nei due tornei di singolare? Oro a Federer, argento a Djokovic bronzo a Nadal. Le donne? Vedi sopra. 3. L'Italia vincerà una medaglia? Oh, yes. Una medaglia la portiamo a casa. 4. La Errani chiuderò la stagione tra le top 10? Mmh... direi di... no! 5. Quanti game farebbe la Sharapova contro il n.10 del mondo ATP? Zero game. 6. E contro il n.100 ATP? Zero game. 7. E contro un ottimo seconda categoria italiano? Zero game. 8. Quanti italiani ci saranno nei top 100 a fine stagione? Sette. Io, Fognini, Volandri, Cipolla, Starace, Bolelli e Lorenzi.

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First Serve

Nemmeno sull'erba si vince più col solo servizio.Tuttavia resta un'arma importante. Ecco quali sono i bombardieri da tenere d'occhio secondo FABIO FOGNINI

1. JOHN ISNER

Beh, se sei alto due metri e 6 e non servi alla grande, allora sarebbe meglio giocare a basket. Ma Isner è speciale perché non sa tirare solo fortissimo, ma anche variare direzioni e rotazioni: questo complica la faccenda. Poi è impressionante la seconda palla, per quanto salta via, anche se sull'erba è più difficile. Con tanti aceman, quando sbagliano la prima, tiri un sospiro di sollievo. Nel suo caso, può farti ace anche con la seconda!

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2 IVO KARLOVIC

In certi momenti era anche peggio di Isner, anche se mostrava meno variazioni. La prima non la vedi, ma la seconda crea meno problemi. Oh, rispetto a quella di Isner, sia chiaro!

3. MILOS RAONIC

Completa perfettamente il podio. Ci mancava che fosse pure mancino e poi dovevi solo provare ad arrivare al tie-break! Come con Isner (e a differenza di Karlovic), il problema è che, anche se rispondi, poi gioca benissimo anche con i colpi da fondo. Quindi devi rispondere, e rispondere bene

4. ROGER FEDERER

Fa meno male dei primi tre, ma nel corso della carriera ha cominciato a far sempre più male col servizio. In più, sa gestire benissimo lo slice esterno, e sull'erba può diventare un'arma letale. In più, magari fa meno ace di un Isner, ma sulla palla break, puoi star certo che ti mette la prima.

5. ANDY RODDICK

Resta il suo colpo più forte, una catapulta come movimento e un colpo che arriva secco. La prima fa malissimo; la eeconda è diventata più gestibile. Ma se entra in ritmo...

6. JO-WILFRIED TSONGA Ci siamo appena affrontati a Roland Garros e sono riuscito a strappargli il servizio in diverse occasioni. Ma sull'erba è più complicato. Tira forte e la palla pesa tantissimo.

7. JUAN MARTIN DEL POTRO

Una bomba di prima, anche se varia meno di altri fuoriclasse. Fa male soprattutto la botta piatta.

8. FELICIANO LOPEZ

Ha il vantaggio di essere mancino e da sinistra ti manda sempre a rispondere in tribuna.

9. RAFAEL NADAL

Probabilmente Murray e Berdych avrebbero meritato di più, però è incredibile quanto Nadal abbia migliorato questo colpo nel corso degli anni, tanto da farlo diventare un fattore. Ora può servire costantemente sopra i 200 km/h e la rotazione mancina sull'erba lo aiuta non poco. E poi, come diceva Agassi, non basta avere un gran servizio; bisogna costruirsi un gran turno di servizio. Spesso non fa il punto diretto, ma usa il servizio per aprirsi il campo e chiudere col diritto successivo.



h c a Co

Il Guerriero e il Bambino DI EMILIO SANCHEZ

Seduto davanti al mio PC, mi domando cosa scrivere di Rafa e, sebbene la finale di Roland Garros sia appena finita, non mi interessa il risultato. Davvero. Quel che mi viene in mente è l'ammirazione. Non voglio certo scrivere della finale, ma solo di Rafa. Anzi, dei due Rafa, del suo Ying e il suo Yang, o del suo essere un Gemelli, raccontando i suoi due…gemelli. Lo conosco da quando aveva 15 anni, quando vinse il suo primo torneo Futures presso l'Accademia Sanchez-Casal. Era un adolescente: mi colpì il fatto che aveva già la testa sulle spalle, ma soprattutto rimasi impressionato dai suoi sguardi: da combattente dentro il campo e da angelo fuori. Quando sono stato capitano di Coppa Davis ho avuto modo di conoscerlo meglio e, come un vero Gemelli, le sue due personalità si erano ulteriormente sviluppate: mi hanno conquistato entrambe. Rafa è il guerriero, la passione, il combattente che prepara la battaglia come un Samurai: per lui ogni match è come se fosse l'ultimo. Farà qualsiasi cosa la sua condizione gli permetterà per raggiungere l'obiettivo: non offrire possibilità al suo avversario ed essere disposto a morire per seguire determinati principi. Ma lui non muore. Lui vince, e vincendo si verifica una trasformazione. È come se il guerriero si liberasse, come se finalmente gli fosse dato modo di rilassarsi, prima della prossima battaglia. E nel suo sguardo appare l'altro Rafa: riflessivo, umile, pensatore, saggio, il bambino che ha dentro di sè. Mercoledì scorso ho visto il suo match contro Almagro insieme ad Albert Costa e Carlos Moya, e a fine match siamo andati a salutarlo negli spogliatoi. Era lì, disteso sul lettino del suo fedele scudiero, Rafael Maymo, che gli stava mettendo un po' di ghiaccio e si prendeva cura di lui. Accanto c'erano Carlos Costa con il suo Blackberry che fumava e l'altro Toni, lo stratega sorridente. Rafa aveva la luce della vittoria nel suo sguardo, quel tocco di felicità che provi dopo un lavoro ben fatto. L'ho guardato e mi sembrava che il ragazzino del 2005 fosse ancora lì, come se il tempo non fosse passato e avesse appena vinto la sua prima semifinale in un torneo Futures. Ci ha chiesto della partita e abbiamo parlato del gioco, sembrava che volesse avere conferme sulla sua percezione. Anche se abbiamo vinto i nostri titoli, tutti i presenti non avevano vinto nemmeno la metà di quello che lui ha conquistato. Tuttavia ci ha prestato molta attenzione, come se fossimo professori universitari, assorbendo ogni nostro commento. Osservandolo, ho imparato che lui si alimenta di tutto questo. Riempie il serbatoio ascoltando, rafforza se stesso con la fedeltà nel suo team, ma è sempre attento a tutti i commenti che possono aiutarlo. Il guerriero impara, il riflessivo ascolta e memorizza le informazioni per la prossima battaglia. Un altro ricordo che mi viene in mente riguarda i turni preliminari di Coppa Davis durante il mio capitanato. Gli chiesi se durante la partita preferiva che gli parlassi di quello che stava succedendo (ad alcuni giocatori non piace) e lui, 19enne, mi rispose: «Tutto si può vedere meglio dall'esterno e, dal momento che mi fido di te e della tua esperienza, sono sicuro che tu vedrai meglio di me perchè sono nervoso. Quello che mi dirai mi aiuterà a raggiungere il mio obiettivo: vincere». Ecco, ho cercato di spiegare ii due Rafa che convivono. Se dovessi scegliere, non saprei dire quale preferisco: entrambi sono grandi persone. Il guerriero è metodico e appassionato, il saggio è riflessivo, umile e analitico. Ying e Yang si sono uniti per creare una macchina da guerra con valori chiari e con l'obiettivo di migliorare per competere sempre al massimo livello. Per questa ragione, Rafa non può lasciare indifferenti. Lui è uno specchio, un modello, una passione. Ogni giorno lo rispetto sempre di più. Sia uno che l'altro Rafa, o entrambi allo stesso tempo, per me sono geniali. Il samurai, il saggio, il guerriero, l'umile, l'appassionato: è così che vedo Rafael Nadal.

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TURISMO


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PO GR

ASSIA

Quella magnifica dozzina Angelo Binaghi ha ragione da vendere, e con lui Ion Tiriac, organizzatore del Mutua Madrid Open, sulla durata dei Masters 1000. Sette giorni sono troppo pochi per sviluppare tornei di grande potenzialità e visibilità, i quali non possono essere accomunati ai quattro Major (e va bene), ma debbono ricevere maggiore rispetto nei calendari ATP e WTA rispetto alle manifestazioni di minore cabotaggio. Innanzitutto per gli investimenti richiesti e in secondo luogo per una questione tecnica. Al raggiungimento del break-even, sempre più arduo in questo infinito momento di recessione, non bastano diritti tv, botteghino e merchandising: ci vogliono sponsor di livello internazionale, disposti a investire somme ingenti. E lo spazio di una settimana non offre ritorni adeguati. Basta poi un temporale per rendere vischioso il programma e costringere gli organizzatori a far slittare la finale al lunedì, condizione che ormai è diventata una consuetudine. Ci vorrebbero almeno 12 giorni. Quella magnifica dozzina che permetterebbe ai giocatori di avere un giorno di riposo dopo ogni partita e magari di contendersi il titolo al meglio dei cinque set, come succedeva in passato. I tanti ritiri per usura e convenienza non insegnano proprio nulla? Ci guadagnerebbe anche il torneo di doppio, snobbato da quasi tutti i top player che non se la sentono di mettere a repentaglio il rendimento in singolare per partecipare ad altri tabelloni. Se i dirigenti di ATP e WTA vogliono ridurre il gap fra i tornei dello Slam e i Master 1000 / Premier, e se vogliono aumentare la popolarità del tennis, sanno cosa fare. In Formula 1, i piloti e le marche si contendono il titolo mondiale in 20 gran premi: perché non avvicinarsi a questo modello che potrebbe incrementare, fra l’altro, il valore dei diritti tv? Binaghi ha posto il problema alla chiusura degli Internazionali di Roma con l’obbiettivo di portare a 96 il numero degli iscritti, far scendere subito in campo i migliori, avere più pubblico, più tv, più ritorni dagli sponsor. ««ATP e WTA si sono resi conto del problema, in particolare hanno capito che Roma ha un potenziale inespresso e che per liberare tutte le energie ha bisogno di allargarsi nel calendario calendario». Tiriac non ritiene invece che il problema principale sia quello di allargare i tabelloni: «È importante che i tennisti si riposino fra una partita e l’altra per non stressare il fisico, già condizionato da tanti impegni, e offrire un gioco migliore. Non so quando, ma ci arriveremo, e allora avremo semifinali al venerdì e finali di domenica con ampie zone di rispetto fra uomini e donne». A titolo personale ritengo che 64 giocatori bastino e avanzino, specie se l’apertura ufficiale dei Masters 1000 / Premier fosse preceduta da qualificazioni serie e credibili. A Roma, per esempio, è già così. Come arrivarci? Attraverso un confronto vero, non di facciata, fra tutti gli attori di questo magnifico sport: i dirigenti di ATP e WTA che non possono fare sempre il verso a Ponzio Pilato; gli organizzatori dei MasterS 1000 e Premier che rischiano in proprio e non sono ascoltati abbastanza; i rappresentanti dei giocatori, che a priori dovrebbero schierarsi a favore di questa proposta. Sarebbe infine interessante creare una classifica annuale di questi tornei (Slam + Masters 1000 / Premier) per premiare a dicembre i tennisti più meritevoli in assoluto. I veri, autentici campioni del mondo.

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I Majors? Tutti uguali! Il dominio dei Fab Four attuali è straordinario. Lo testimoniano i numeri

di Jacopo Lo Monaco

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i tempi del liceo passavo le mie serate a sfidare il Commodore 64 a un gioco di tennis che si chiamava Match Point (indimenticabili i raccattapalle che si muovevano come Igor di Frankestein Junior). Si potevano disputare incontri su tre superfici diverse: terra battuta, erba e cemento, e io compilavo i quattro tabelloni del Grand Slam e iniziavo i match. Se giocavo a Wimbledon diventava obbligatorio seguire il servizio a rete sulla prima, mentre sulla seconda dell'avversario colpivo un back e mi presentavo a rete. A Roland Garros mi piazzavo lontano dalla riga di fondocampo e alzavo pallonetti a più non posso. In Australia e a New York cercavo di stare il più vicino possibile alla riga di fondocampo e di piazzare accelerazioni improvvise in lungolinea. In realtà avrei potuto adottare la stessa strategia a prescindere dalla superficie perché nel gioco cambiava solamente il colore del campo, mentre rimbalzo, velocità e aderenza rimanevano identiche. Erano tre superfici gemelle, ma io pretendevo che non appartenessero nemmeno alla stessa specie come accadeva nel tennis reale. Chi poteva pensare che Match Point degli anni 80 avrebbe fatto da precursore del tennis odierno? 24

CONDIZIONI SIMILI Forse il mio pensiero è esagerato, ma ormai da diversi anni non esistono grandi differenze tra i quattro Majors. I campi di Roland Garros sono diventati leggermente più rapidi così come le palle che vengono utilizzate. Il contrario è accaduto nelle altre tre prove Slam. Pochi giorni fa ho commentato la finale di Eastbourne tra Andy Roddick e Andreas Seppi. Lo statunitense ha servito il 74% di prime palle la cui velocità era quasi sempre superiore ai 200 km/h. Ha chiuso con 5 ace su 51 punti giocati al servizio (9%). Nel momento in cui la battuta del tre volte finalista di Wimbledon colpiva l'erba, invece di schizzare via rallentava vistosamente la sua corsa. La colpa, a mio avviso, è soprattutto delle palle e il responsabile dei campi di Church Road, Eddie Seward, conferma il mio pensiero. «Quando sono stato eletto responsabile per la gestione dei campi nel 1990, tutti dicevano che il servizio stava diventando troppo dominante nel tennis. Sentivo dire che il gioco da erba era finito con l'avvento dei grandi servitori. Così abbiamo parlato con allenatori e giocatori e abbiamo chiesto quali erano le loro esigenze. Loro ci hanno risposto di rallentare le palle anche solo di un decimo di secondo. Questo a dimostrare che per i brevissimi tempi di reazione dei giocatori, basta davvero poco a fare la differenza».


NIENTE VOLÉE Anno dopo anno le condizioni sono state rallentate sino ad arrivare ad avere una finale di Wimbledon senza volée (2002: Hewitt contro Nalbandian). Seguire il gioco a rete è diventato controproducente perché chi risponde o deve tirare il passante, ha troppo tempo a disposizione per piazzarlo. È diventato più redditizio attaccare in controtempo e giocare uno schiaffo al volo, rispetto a colpire un back d'approccio con volée a seguire. A questo punto però, mi viene un dubbio: i risultati ottenuti dai giocatori più forti negli ultimi anni sono dipesi anche dal fatto che le condizioni di gioco sono così simili l'una all'altra. Se Federer avesse giocato trent’anni fa, sarebbe stato in grado di disputare 23 semifinali di fila negli Slam? E Nadal cinque finali in sei anni a Wimbledon? Djokovic avrebbe potuto vincere 3 Slam e 5 Masters 1000 in una stagione? FORTI OVUNQUE La sensazione che ho in questo momento è che se sei forte, lo sei su tutte le superfici. Nell'Era Open non era mai accaduto che solamente sei giocatori raggiungessero le semifinali dei tornei dello Slam. È accaduto lo scorso anno con Djokovic e Murray sempre presenti, Nadal e Federer alla Final Four in tre occasioni, mentre Ferrer e Tsonga hanno raccolto una semifinale a testa (se aggiungiamo i due Slam del 2012 ritroviamo ancora i primi quattro al mondo semifinalisti a Melbourne e Ferrer al posto di Murray a Parigi). Ovvero un dominio mai riscontrato negli ultimi 40 anni, nemmeno nei periodi di Borg, McEnroe, Connors e Lendl. Ci sono andati vicini nel 1984 e nel 1987 (oltre al 1969 e al 2008) con otto giocatori capaci di approdare al penultimo appuntamento del torneo, mentre nel 1973, 1998 e 2002 si toccarono le punte più alte, 14 (il massimo è 16). E' da Bercy 2010 (vittoria Soderling, assente Nadal) che tutte le prove dei Masters 1000 vengono vinte dai primi quattro giocatori del mondo: Djokovic 6, Nadal 3, Federer 3, Murray 2 (bisogna risalire al torneo di Miami dello stesso anno per trovare un vincitore diverso, Roddick, con i primi quattro tutti presenti). NON SOLO FAB FOUR Se i primi quattro monopolizzano le semifinali dei quattro Majors, anche i giocatori che sono alle loro spalle riescono a ottenere risultati importanti nei Majors a conferma che se sei forte lo sei ovunque. Tsonga ha raggiunto almeno una volta i quarti di finale in tutte le prove del Grand Slam. Ferrer le semifinali in tre su quattro e a Wimbledon è approdato tre volte negli ottavi; stesso discorso per Del Potro che ha un solo ottavo a Londra

(ma diversi anni davanti a sé per ottenere un risultato migliore). A Berdych manca lo US Open (tre volte agli ottavi). Soderling, prima di contrarre la mononucleosi e sparire dal circuito, era quasi riuscito a completare il poker dei quarti perdendo in cinque set da Dolgopolov la partita di quarto turno dell’Australian Open 2011.Alcuni campioni di Slam degli anni 90, giocatori del livello dei cinque appena citati, non sono riusciti a chiudere il cerchio dei quarti: a Kuerten mancava l'Australian Open (mai nemmeno agli ottavi in otto partecipazioni); Moya non riusciva a digerire Wimbledon (una volta al 4° turno in otto partecipazioni); Muster non ha mai vinto una partita a Londra e a un certo punto a preferito non andarci. IL CASO SPAGNOLO Un ultimo termine di paragone lo voglio fare tra Nicolas Almagro e due tennisti spagnoli che hanno vinto il Roland Garros: Sergi Bruguera e Albert Costa.Tutti e tre hanno ottenuto i loro migliori risultati sulla terra battuta e, al momento, si possono considerare Bruguera (numero 3, agosto 1994)) e Costa (numero 6, luglio 2002) decisamente più forti di Almagro (numero 9, maggio 2011) in senso assoluto. Bruguera ha vinto due volte Parigi (più una finale e una semi: 32 vinte, 10 perse), ma non è mai approdato ai quarti nelle altre prove dello Slam, raggiungendo gli ottavi due volte a New York (1311) e una a testa a Wimbledon (4-4) e Melbourne (6-6). Costa ha vinto una volta Parigi (più una semifinale e due quarti: 30-11), ha raggiunto un quarto a Melbourne (13-9), non è mai andato oltre il 2° turno a Londra (2-5) ed è approdato una volta agli ottavi a New York (6-11). Almagro, che compirà in agosto 27 anni, ha tre quarti di finale a Parigi (17-9, tre ottavi a Melbourne (11-8), due terzi turni a Wimbledon (5-7) e quattro terzi turni allo US Open (9-7). Quindi, anche se sulla loro superficie migliore Bruguera e Costa sono riusciti a ottenere risultati decisamente superiori a quelli di Almagro, sulle altre tre i successi sono inferiori o simili a quelli del loro più giovane connazionale. E non si può dire che Almagro adatti il suo gioco a seconda del torneo che disputa. OLTRE OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO Negli Stati Uniti, per essere condannato, l'accusa deve dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio la colpevolezza dell'indagato. Io chiedo all’ATP e all'ITF di dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, che i risultati ottenuti negli ultimi anni dai primi giocatori del mondo non siano stati in parte agevolati dall'aver imparentato le superfici.

L'erba è la superficie che è stata maggiormente rallentata nel corso degli anni, tanto che sono variati anche gli schemi tattici dei giocatori: dal serve and volley di John McEnroe si è passati all'attacco in "due tempi" alla Roger Federer

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n o d n Lo 12 0 2

Obiettivo Olimpiadi Wimbledon ospiterà il torneo di tennis olimpico. Ormai arrivato (quasi) a livello di uno Slam

testo di Riccardo Bisti Wimbledon pieno di colori: sarà l’immagine-simbolo del torneo olimpico di tennis. Tre settimane dopo la fine dei Championships, tutti i migliori (o quasi…) torneranno all’All England Lawn Tennis & Croquet Club per giocarsi le medaglie. Non ci sono montepremi o punti ATP-WTA che tengano: il tennis si è innamorato dello spirito olimpico e i tennisti daranno tutto. Troppo allettante la libidine psicologica di ascoltare l’inno con la medaglia attorno al collo. Sarà un evento storico, come ce ne sono stati pochi in 135 anni di tennis. Normale che tutti vogliano esserci. A parte Mardy Fish, unico forfait volontario, ci saranno tutti. Di più: chi non potrà esserci ci soffrirà da matti, come Marion Bartoli che non è stata selezionata dalla sua Federazione per aver rifiutato la Fed Cup («Starò nel mio giardino di casa» ha detto sconsolata). O a Feliciano Lopez, top 20 ma quinto giocatore spagnolo e beffato da Verdasco all’ultimo respiro. Si consolerà giocando il doppio. Il bello delle Olimpiadi è che ogni medaglia ha lo stesso peso, la stessa importanza, lo stesso prestigio nel medagliere. E magari accadrà che le medaglie di bronzo nel doppio misto (altra novità di Londra 2012) godranno più di chi vincerà l’argento in singolare. Il tennis è lo sport più professionistico che ci sia: la sua presenza alle Olimpiadi è una specie di ossimo26

ro. La storia lo insegna. Però qualcosa è cambiato: i tennisti subiscono il fascino delle Olimpiadi come non mai, tanto da metterle come obiettivo stagionale al pari di uno Slam. E diversi tennisti sono stati scelti come portabandiera delle rispettive nazionali (ultimo in ordine di tempo, Rafael Nadal per la Spagna). C’è chi ha finalizzato la preparazione per arrivare al top (vedi Kim Clijsters), chi è tornato a giocare apposta (Paola Suarez) e chi, per le Olimpiadi, è pronto a mettere in mezzo il Governo (i doppisti indiani Bhupathi e Bopanna). Anche l’Italia potrà dire la sua. In singolare la faccenda non è semplice: in campo maschile la strada è chiusa dai Fab Four, ma anche da Berdych, Tsonga e qualche altro pretendente. In campo femminile, dove potremmo vantare pretese maggiori, la superficie non ci aiuta perché Errani e Schiavone perdono tanto del loro potenziale, la Pennetta non appare al top e la Vinci, il cui talento si adatta perfettamente ai prati, non ha lo status per puntare ad una medaglia. Diverso il discorso per la gara di doppio: anche qui, l'erba non favorisce la Errani che, in coppia con la Vinci è il team più forte del 2012. Però a Londra ci saranno le sorelle Williams e il doppio non verrà snobbato come accade (anche) negli Slam. Però, sperare in una medaglia, non è un azzardo fuori logica.


SINGOLARE MASCHILE

1° 2°

ROGER FEDERER Gli manca giusto l'oro olimpico in singolare. E in un matche due set su tre sull'erba è (forse) ancora il migliore del lotto.

ANDY MURRAY A Wimbledon prenderà le misure. E l'argento vale più di una finale persa in un torneo del Grand Slam. Per adesso può accontentarsi.

RAFAEL NADAL Quando perdi l'oro, devi essere forte di testa per vincere il match dei delusi. E portarsi a casa almeno il bronzo.

SINGOLARE FEMMINILE

1° 2°

MARIA SHARAPOVA Da portabandiera all'oro olimpico: il passo non è così breve, ma a lei riuscirà. Perché si è impegnata per esserci e ci tiene particolarmente.

SERENA WILLIAMS Ci andrà vicino, ma nel testa-a-testa preferiamo la bionda. Le distrazioni del torneo di doppio e del misto saranno la causa della sconfitta. Ingorda!

VENUS WILLIAMS L'aria di Wimbledon le farà bene. Poi, da sorella maggiore, lascerà spazio alla sorellina, ma quantomeno vincerà il bronzo.

DOPPIO MASCHILE

1° 2°

BRYAN & BRYAN Il giusto coronamento ad una carriera fantastica. Sull'erba sono il top (e in più, Mirnyi-Nestor non possono giocare insieme).

BERDYCH-STEPANEK Berdych non è uno specialista del doppio ma con la sua classe può fare la differenza. Il compagno poi, è indubbiamente una sicurezza.

FYRSTENBERG-MATKOWSKI Coppia specializzata nel doppio, il bronzo garantirà ascolti record in Polonia. E poi a tennis, soprattutto Matkowski, sanno giocare proprio bene.

DOPPIO FEMMINILE

1° 2°

SERENA E VENUS WILLIAMS Imporranno la loro potenza. E domineranno letteralmente il torneo. Probabile che non perdano nemmeno un set.

KIRILENKO-PETROVA Se la bella Maria si rimette a giocare discretamente... Oh, discretamente,... l'argento arriva. La Petrova è già tornata a giocare piuttosto bene.

HUBER-RAYMOND Vinceranno il bronzo perché il sorteggio metterà le Williams Sister contro Errani-Vinci nei quarti di finale. Tanto basterà.

D O P PI O M I S TO

1° 2°

ISNER-SERENA WILLIAMS Provate a strappar loro il servizio. Chissà, forse i Bryan Brothers in buona giornata... Unico dubbio: Roddick lascerà spazio a Isner?

BERDYCH-KVITOVA Stesso discorso fatto per il team americano. Però alla stretta finale, Serena può fare la differenza. Se però 'sti due incappano in una buona giornata...

DJOKOVIC-IVANOVIC Il doppio è anche questione di affiatamento.Ana e Nole sono ottimi amici (oh, amici eh?) e una medaglia la Serbia la pretende.

* Le coppie di doppio misto non sono state ancora tutte ufficialmente annunciate


la storia

Nel laboratorio WTT Dalla musica al cambio di campo all’Occhio di Falco, il World Team Tennis è stato il precursore di molte delle innovazioni. Sarà sempre lui a trovare nuove soluzioni per rendere il circuito ancora più spettacolare? di Marino Bombini

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nche alla mente meno allenata non riuscirà difficile intuire che le cose del mondo non sono sempre state così come le vediamo. I cambiamenti in fondo sono la chiave di volta per l’evoluzione. Restringendo questo concetto al solo tennis, non deve stupire che, ad esempio, nella Coppa Davis c’è voluto un po’ prima che venisse adottato il tiebreak (che comunque tuttora non viene giocato in un eventuale quinto set), esattamente il 1989, a quasi vent’anni dalla sua introduzione. O che un tempo (nemmeno troppo remoto: fino al 1985) le palle non fossero gialle. In poche parole, la bellezza di questo sport, che risiede in quasi tutti i suoi tratti, si manifesta soprattutto nell’inesauribile voglia di apportare novità a beneficio di giocatori e pubblico. Scommettiamo che Serena Williams tornerebbe volentieri indietro a quel maledetto incontro con la Capriati a New York per avere un Occhio di Falco ufficiale? C’è un posto, però, nel tennis (per certi versi anche un luogo della mente) dove innovazioni, invenzioni, esperimenti e strappi alle regole non hanno paura di avvenire velocemente, proprio come in un laboratorio dalle incessanti attività: il World Team Tennis, WTT. Il primo decennio dell’Era Open del tennis è stato una specie di giungla organizzativa. C’erano diversi circuiti, moltissimi sponsor, anche nella forma di un singolo individuo (Lamar Hunt), tornei che a suon di dollari scippavano grandi campioni ad altri tornei dalla lunga tradizione, ed esibizioni che attiravano un pubblico davvero numeroso. A decretare definitivamente la sua ampia diffusione, anche tra chi del tennis coglieva solo l’aspetto glamour. Nel 1973, pochi anni dopo la scissione del circuito femminile da quello maschile, in pieno periodo femminista, Larry King (marito di Billie Jean) Dennis Murphy, Fred Barman, e Jordan Kaiser fondarono il World Team Tennis, una competizione statunitense a squadre di tenniste e tennisti (che sarebbe cominciata nel 1974), che fuori da ogni logica di circuito cercò di reinventare il tennis.

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Prima che i partecipanti potessero colpire la palla, la cosa che saltò subito agli occhi fu che il campo in cemento sul quale si sarebbero esibiti era tutto colorato, ogni quadrante con un colore diverso. Non solo, anche lo svolgimento degli incontri era sui generis, o comunque non allineato al tennis ufficiale: punteggi strambi, capitani che sostituivano giocatori durante il gioco, urla, pianti risate, ma soprattutto tanto spettacolo (si veda il sito http://www.worldteamtennis.com per ulteriori approfondimenti). Insomma, tra Nabisco, Philip Morris (Virginia Slims), Colgate, Toyota, eccetera, ci si trovava a fare i conti anche con questo tennis, che non portava meno soldi del fratello maggiore. Tuttavia, poiché i due circuiti, ATP e WTA, che stavano cercando di affermarsi in modo sempre più autoritario fornendo montepremi maggiori ai giocatori, posero anche severe condizioni di partecipazione (proprio nel 1974 fu impedito a Jimmy Connors di prendere parte a Roland Garros perché iscritto al WTT; un impedimento non da poco, visto che in quell’anno l’americano vinse praticamente tutto quello che c’era da vincere e quasi sicuramente avrebbe conquistato il Grand Slam), il World Team Tennis non ebbe il successo sperato, fino a spegnere del tutto le luci nel 1978. Tre anni più tardi, nel 1981, con un colpo al cerchio e l’altro alla botte del regolamento, coraggiosamente Billie Jean King riportò in vita l’idea di questo vivacissimo campionato, ribattezzandolo semplicemente Team Tennis, che nel 1992 ritornò a chiamarsi WTT. La formula rimase fondamentalmente invariata, puntando molto sul concetto di squadre miste di donne e uomini (aspetto sempre caro alla King: chiedere a Bobby Riggs), e di tennis svincolato da principi individualisti ma al contrario incentrato sul refrain dell’unione che fa la forza. In questa seconda fase del WTT molti giocatori famosi si sono concessi questo piccolo spazio trasgressivo, quasi una liberazione da una serie di protocolli ai quali attenersi per la richiesta di federazioni e sponsor: a partire dalla stessa Billie Jean King per finire a Pete Sampras e Andre Agassi, passando per i non meno blasonati Rod Laver, John McEnroe, Serena e Venus Williams.


Billie Jean King è ammirata dalla preparazione atletica degli attuali campioni ma è convinta che qualche altra modifica farebbe bene al tennis Senza contare che giocatori di secondo piano, a loro volta hanno ‘arrotondato’ beandosi di un’inaspettata gloria che il circuito maggiore non gli ha mai dato. Alla fine del 2011, in un’intervista, la King (che ha comunque ceduto lo scettro di direttrice della manifestazione a Ilana Kloss nel 2002) si è dichiarata molto contenta di come procedessero le vicende del WTT. Con l’orgoglio di chi sa che per il tennis ha fatto molto (per il tennis femminile tutto), ha sottolineato più volte che se si vuole sapere come sarà il tennis del futuro bisogna guardare a quel che accade nel WTT. Ha ricordato, ad esempio, che molti dei cambiamenti che adesso vediamo nei circuiti maggiori (e dei quali i giocatori sembrano non riuscire più a fare a meno) sono stati collaudati prima nel suo campionato: la musica al cambio campo, il tempo ridotto tra un punto e l’altro (e al cambio di campo), il punteggio senza vantaggi (che però l’ATP e la WTA applica solo per i tabelloni di doppio) e il famoso Occhio di Falco (cfr. qualche rigo fa). Tra le righe delle sue dichiarazioni promozionali per il WTT, non si può non leggere una nostalgia per un certo tipo di tennis, di cui adesso più che mai si sente la mancanza. Se da tempo ormai l’esasperato agonismo ha un po’ ucciso lo spettacolo, almeno fino a dieci/quindici anni fa si avevano a disposizione personalità di tennisti che nel bene e nel male mantenevano accesa la competizione, dando vita ad autentiche rivalità (quella un po’ annacquata tra Nadal e Federer ha un appeal decisamente inferiore a quella che poteva esserci, ad esempio, tra Connors e McEnroe). Molto diplomaticamente la King ammette di essere ammirata dal livello di preparazione atletica e di potenza espresso dai giocatori di oggi, ma si dice convinta che ancora qualche altra piccola modifica non potrebbe che far bene al tennis. Un paio di mesi fa circa, Ion Tiriac ci ha provato. Ha presentato al mondo un torneo in terra battuta... blu! Si trattava dell’importante torneo ATP Masters 1000 di Madrid. La notizia ha fatto il giro del mondo finendo anche su giornali che di tennis se ne occupano poco. Ma a parte l’aspetto cromatico (comunque di bell’effetto), la terra battuta blu ha lasciato tecnicamente perplessi un po’ di addetti ai lavori, fino a esplodere nella vis polemica del tennista di casa, Rafael Nadal (eliminato non a caso negli ottavi di quel torneo), che ha minacciato di non tornare più a giocarlo se le condizioni rimarranno tali. Le novità, si sa, attraggono e respingono in egual maniera e molto spesso ci vuole tempo perché vengano digerite, ma – come dicevamo in apertura – sono necessarie (fallimentari o vincenti) all’evoluzione. Tanto più se si ha a disposizione uno spazio di sperimentazione adeguato (secondo Billie Jean King il migliore) come il WTT. Ciononostante il dubbio rimane tuttora vivo: quale cambiamento mai potrà riportare il tennis a un livello più spettacolare? E ancora: siamo davvero certi che il suo futuro sia fatto di campi colorati e di nomi di tennisti ricamati sul retro delle loro magliette?

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1988 Mats Wilander comincia la sua campagna Slam vincendo l’Australian Open. Mancherà solo Wimbledon

Nel 1988 Arthur Ashe viene a conoscenza d’aver contratto l’AIDS a seguito di una trasfusione di sangue.

Inizia l’Andre Agassi Show: in semifinale a Parigi contro Wilander si difende così dalla pioggia (ma becca 6.-0 al quinto)

Un francese in finale a Parigi. Ma Henri Leconte viene demolito da Wilander e fischiato dal suo stesso pubblico.

Steffi Graf è a metà dell’operazione Grand Slam: «Ma Wimbledon ha sempre rappresentato il top assoluto»

Gaby Sabatini viene (quasi) sempre fermata da Steffi Graf. Ma come sex appeal (un po’ mascolino) non ha rivali

La Svezia completerà uno “Slam per Nazioni” con Wilander che vince tre Slam e Edberg che trionfa a Wimbledon

I tempi in cui Yannick Noah vinceva Parigi sono passati. Ma treccine e maglietta a righe Le Coq restano un must

Gattone Mecir col suo tennis fatto di talento, accelerazioni e sonnellini, vince la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Seul

Golden Slam per Steffi Graf che ai quattro Major aggiunge l’oro olimpico battendo (guarda un po’) la Sabatini

Hamilton Jordan, in una conferenza stampa fuori da Flushing Meadows, ufficializza la nascita dell’ATP Tour

Sotto il sole della California, Chang e famiglia studiano i piani per sconvolgere, l’anno dopo, il mondo del tennis

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TENNIS DA SPIAGGIA

LA PLAYA DE LUANCO, nelle Asturie spagnole, ospita ogni anno (dal 30 luglio al 2 agosto) un torneo molto particolare, perché quella che vedete nella foto non è terra battuta, ma sabbia. Già, perché a tennis si può giocare anche sulla spiaggia, a due passi dal bagnasciuga. Il tutto è nato nel 1970 dall’idea di quattro amici che su questa spiaggia hanno fondato il Club de Tenis Playa Luanco. L’albo d’oro è straordinario e comprende quasi tutti i più forti giocatori spagnoli degli ultimi 20 anni, da Juan Carlos Ferrero a Felix Mantilla, da Carlos Moya a Nicolas Almagro. Quest’anno si disputerà con la presenza di otto giocatori e la formula del round robin. Lo spettacolo è assicurato.

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La Malattia dei Tennisti Robin Soderling è l'ultimo giocatore messo k.o. da un fastidio subdolo: la mononucleosi

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di Riccardo Bisti

i sono giorni in cui riesco a correre 20 minuti, altri in cui faccio fatica ad alzarmi dal letto. In questo periodo, il mio allenamento più intenso è durato mezz'ora». Lo ha detto Robin Soderling in una delle poche uscite pubbliche del 2012. Lo svedese è fermo da un anno, da quando ha vinto il torneo casalingo di Bastad. Era la più seria minaccia ai Fab Four, l’uomo capace di battere sia Nadal sia Federer a Roland Garros. Poi è stato colpito da una febbre ghiandolare che si è presto tramutata in mononucleosi. Eccola, la parola più temuta: mononucleosi. Tanti anni fa erano le caviglie e le ginocchia, poi negli anni 2000 sono diventate le anche. Adesso l’infortunio più temuto del tennista è un virus che colpisce le cellule del fegato e trasmette una viva sensazione di debolezza. Febbre, nausea e poco appetito sono i primi sintomi di una malattia che può essere diagnosticata con gli esami del sangue. Non è gravissima per le persone comuni, ma per gli sportivi può essere letale. Per informazioni chiedere a Mario Ancic: il croato (ex numero 7 ATP e l’ultimo a battere Federer a Wimbledon prima che iniziasse il regno dello svizzero) è stato addirittura costretto al ritiro. Un paio di mesi fa, scherzando, ha dichiarato: «Soderling ha il 34

mio numero. Se vuole cercarmi, sono qui…». La chiamano “la malattia del bacio” perché si può trasmettere con un gesto affettuoso, infatti colpisce soprattutto gli adolescenti. Ma in realtà ci sono tanti modi per contrarla. Anche uno starnuto nelle vicinanze o un bicchiere non perfettamente pulito possono essere sufficienti. Non è un caso che il 50% della popolazione under 30 ne abbia avuto a che fare. Negli ultimi anni, tuttavia, il numero dei tennisti colpiti è impressionante. Persino Roger Federer ne è stato vittima a cavallo tra il 2007 e il 2008. Con il senno di poi, la sua semifinale all’Australian Open 2008 non fu un fallimento, ma un trionfo. Per sua fortuna, la prese in una forma molto lieve, come quella che ha colpito un paio d’anni fa Andy Roddick. In effetti può capitare di averla senza nemmeno accorgersene: forme particolarmente lievi non incidono nemmeno sull’attività agonistica. Detto questo, sembra che il tennis abbia un “problema mononucleosi” che però non ha niente a che vedere con l’amore libero dopo le partite. Altrimenti non si spiegherebbe un elenco che comprende Nicole Vaidisova, John Isner, Jelena Dokic, Martin Verkerk, Marion Bartoli, Radek Stepanek, Philipp Petzschner e due top player assoluti come Andy Murray e Justine Henin. La mononucleosi è stata una delle ragioni che ha spinto


la belga al secondo (e definitivo) ritiro. Neanche l’Italia è rimasta immune dalla “malattia del bacio”. Matteo Trevisan ha avuto una grande carriera junior ma non è riuscito a emergere tra i professionisti. Ha affrontato tanti problemi, ma di sicuro la mononucleosi che l’ha colpito nel 2008 non ha contribuito a fargli spiccare il volo, tenendolo fermo per sei mesi. Per uno sportivo è peggio di un infortunio da trauma: da un giorno all’altro ti rendi conto di avere a malapena l’energia per tenere il mano la racchetta. «È stato strano, non sapevo cosa stesse succedendo e ti viene paura di quello che non conosci – raccontò Andy Roddick, colpito dal virus nel 2010 -. C’erano giorni in cui andava tutto bene e altri in cui non riuscivo a fare niente. A volte ti sembra di essere un buono a nulla». Ma da cosa dipende questo strano legame tra tennis e mononucleosi? Difficile a dirsi. Di sicuro l’iperoprofessionismo non aiuta. I tennisti si sottopongono a un viaggio dopo l’altro, vivono climi diversi e cambiano continuamente fuso orario. Stile di vita affascinante, che però non aiuta il sistema immunitario, nemmeno se viaggi in business e alloggi in hotel di lusso. Secondo Tim Woods, medico dell’Australian Open, i tennisti hanno maggiori possibilità di contrarre il virus rispetto al resto della popolazione. «L’allenamento ad alta intensità e le prestazioni richieste dal tennis aumentano il rischio di malattie infettive – dice Woods – perché il loro sistema immunitario è particolarmente esposto allo stress fisico e mentale. Senza considerare che il jet lag e i viaggi continui aumentano il rischio di infezione». Secondo Woods, il luogo più pericoloso in assoluto è lo spogliatoio. È lì che i giocatori trascorrono molto tempo e capita di condividere bevande e cibo, con il rischio di scambiare tracce di saliva. Insomma, l’attenzione può non bastare perché è molto difficile individuare un potenziale rischio. Il tennis ha una nuovo pericolo, subdolo e pericoloso. Speriamo che non si diffonda più del dovuto. Intanto ci siamo giocati il serve and volley di Ancic e stiamo perdendo le cannonate di Soderling, una delle poche armi veramente efficaci contro i “Big Three".

POST SCRIPTUM: di seguito l'elenco dei giocatori professionisti che sono stati colpiti, in forme più o meno gravi, dalla mononucleosi: Mario Ancic, Marion Bartoli, Jelena Dokic, Andy Murray, Roger Federer, Justine Henin, John Isner, Philipp Petzschner, Andy Roddick, Robin Soderling, Radek Stepanek, Matteo Trevisan, Nicole Vaidisova, Martin Verkerk.

COS’E’ LA MONONUCLEOSI? La mononucleosi infettiva (detta anche semplicemente mononucleosi o malattia del bacio, per la sua trasmissibilità attraverso la saliva) è una malattia infettiva virale molto contagiosa, causata dal virus di Epstein-Barr (EBV). Le cellule bersaglio del virus sono i linfociti B e il decorso è acuto, solitamente di 4-6 settimane. Nei Paesi industrializzati la malattia colpisce prevalentemente soggetti in età giovane-adulta, con una netta prevalenza negli adolescenti, mentre nei Paesi in via di sviluppo è più frequente l'infezione in età infantile, spesso nei primi 5 anni di vita. La denominazione della malattia è dovuta alla caratteristica presenza nel sangue, in livelli superiori alla norma, di cellule mononucleate normali (linfociti e monociti) e di cellule mononucleate specifiche. LA CAUSA La mononucleosi infettiva è causata dal virus di Epstein-Barr che infetta i tessuti epiteliari orofaringei, provocando faringite e talvolta tosse, e i linfociti B con trasmissione orofaringea. Il contagio può avvenire tramite uno scambio di saliva (nella cultura popolare tale patologia viene definita anche malattia del bacio), ma anche indirettamente, attraverso oggetti entrati in contatto con la saliva di un soggetto infetto (mani, posate, bicchieri, spazzolini, giocattoli per infanti). Oltre il 90% della popolazione adulta risulta infettato dal virus e possiede gli anticorpi diretti verso antigeni virali. Il decorso è in genere asintomatico o indistinguibile da quello di una faringite o sindrome influenzale e con sintomi spesso trascurabili. Nell'età giovanile si manifesta, nel 75% dei casi, la forma classica di mononucleosi; in età adulta invece è tipica una forma lieve, con febbre, malessere e debolezza. Il virus rimane latente nell'ospite anche dopo la guarigione. Nei soggetti infettati l'eliminazione del virus con la saliva continua per circa un anno; tuttavia, passato questo periodo, l'eliminazione del virus continua in maniera saltuaria per tutta la vita. POSSIBILI COMPLICAZIONI Gravi complicanze insorgono in circa il 5% dei casi di mononucleosi infettiva. La complicazione grave più frequente è la rottura della milza, a rischio nei casi (circa il 50%) in cui questa sia ingrossata (splenomegalia); tale evento può esitare verso emorragie interne che possono provocare lo stato di shock ipovolemico o la morte del paziente… L'EBV in particolare, ma anche gli altri agenti infettivi che possono dare quadri similmononucleosici, sono tra le cause riconosciute della sindrome da stanchezza cronica, probabilmente a causa degli squilibri che possono apportare al sistema endocrino; un'intensa debolezza durante la fase acuta della mononucleosi conferisce un maggior rischio di sviluppare poi questa complicanza… Contro la mononucleosi non vi sono cure specifiche; anche gli antivirali di ultima generazione hanno un’efficacia ancora da dimostrare definitivamente. Il trattamento antibiotico invece, può avere addirittura effetti nocivi (reazioni simil-allergiche)… È necessario e fondamentale evitare attività fisica pesante o che preveda traumatismi per circa 2 mesi, al fine di scongiurare la rottura della milza… Nella maggioranza dei casi, comunque, la malattia decorre in non più di 4 settimane senza complicazioni di alcun tipo. Se, invece, sono presenti pregressi quadri di immunodeficienza la mononucleosi può risultare una malattia molto grave e con esiti letali. In ogni caso i sintomi possono persistere per mesi dopo la guarigione. LA PREVENZIONE Come per tutte le malattie infettive la prima forma di prevenzione è l'igiene personale e dei luoghi. Specialmente nel caso si abbiano contatti con un malato è fondamentale evitare di condividere stoviglie, cibo, occhiali e utensili. È inoltre raccomandato di evitare di baciare i soggetti affetti anche nei giorni successivi al termine delle manifestazioni cliniche. (Fonte. Wikipedia)

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r u o T

The Best of ATP A due passi da Trieste si disputa all'inizio di luglio uno dei tornei ATP più ambiti. Dal pubblico

DOVE

ATP UMAG Croazia QUANDO

Dal 7 al 15 luglio. Il primo weekend si disputa il torneo di qualificazione, da lunedì il tabellone principale. Presenti Fernando Verdasco, Marin Cilic e tanti top player azzurri

PERCHÉ

È uno dei tornei più apprezzati perché si disputa sul mare, circondati, in una mervaiglisoa cornice, con tante feste posdtmatch e ospitati in alberghi di primissimo livello

testo di Mirko Roveda

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Ormai è un appuntamento imperdibile. All'inizio della stagione, appena l'ATP vara il suo calendario, la prima crocetta finisce sempre su questo luogo, a due passi dall'Italia. Basta varcare il confine a Trieste e dopo 40 minuti di macchina ci si ritrova in una sorta di paradiso. Soprattutto tennistico. Difficile trovare altri posti con un rapporto di campi pro-capite più vantaggioso. Basta girovagare per una decina di chilometri e conterete non meno di 50 campi da tennis. Oh, tutti tenuti come biliardi, con tanto di stecche di legno poste sulle linee la sera tardi e una stuola di addetti ai lavori che i circoli italiani ormai si scordano. Quest'anno l'appuntamento col torneo ATP di Umago è fissato per il giorno 7 di luglio; un primo week-end dedicato alle qualificazioni, da lunedì lo start del tabellone principale. Un anno non semplice perché tutti i tornei estivi su terra battuta sono stati compressi tra Wimbledon e... Wimbledon. Inteso come torneo olimpico che si disputerà sempre sui campi di Church Road al principio di agosto. Consci di questa programmazione speciale, gli organizzatori (e in primis il direttore del torneo, Vanja Bozickovic) hanno messo le mani avanti firmando accordi prematuri con diversi top players, per garantire un campo di partecipazione degno della tradizione di un evento che ha visto trionfare fuoriclasse come Thomas Muster e Carlos Moya.


Ebbene, l'operazione è andata a buon fine perché l'entry list è di primissimo livello, con campioni dal grande appeal (leggi Fernando Verdasco), idoli di casa (Marin Cilic) e giocatori che ormai sono entrati nel cuore degli appassionati per il loro talento cristallino. Su tutti, spicca in questo caso il nome di Oleksandr Dolgopolov, per il quale è stata creata perfino una setta raeliana che lo indica come La Luce. Ebbene, La Luce illuminerà un torneo che sentiamo particolarmente vicino. Sia da un punto di vista geografico, sia di ospitalità. Se la distanza non è un fattore (da Milano ci vuole di più a raggiungere Roma che l'Istria), ciò che colpisce è l'hospitality. E il suo prezzo (che di questi tempi è invece un fattore determinante). Prima di tutto gli alberghi. Quello ufficiale, dove sostano gli atleti è il Sol Garden Istra, un quattro stelle che non ha nulla da invidiare ad un five stars. Anzi. Hall gigantesca, camere molto spaziose e di design, piscine, una piccola gym (ma d'estate chi si vuole rinchiudere a fare cyclette?) e tanti ristoranti a far da contorno. Come si trattasse di un piccolo villaggio. Inoltre, l'opportunità di stare a contatto con i giocatori, anche loro conquistati dal clima molto rilassante e quindi più disponibili nell'interagire con gli appassionati rispetto a quanto accade a Roland Garros o allo US Open. Se però volete proprio sostare in un cinque stelle, duecento metri più avanti trovate il Sol Coral, hotel storico della zona. Onestamente, per la hall, ristorante e camere, si lascia quasi preferire il Sol Garden (forse perché di più recente costruzione e quindi con uno stile sicuramente più moderno). Certo, l'abbinata piscina-Spa del Sol Coral è indubbiamente affascinante e da primi della classe. Questione di gusti. Mentre è probabile che chiunque apprezzi i costi. Se siete abituati al Billionaire o a mete esotiche dove le migliaia di euro vengono trattati come noccioline, vi sembrerà di aver elargito una mancia. Ma anche se le abitudini sono un filo diverse, i prezzi sono decisamente contenuti. Non è un caso che gli spalti risultino sempre pieni (soprattutto durante le fasi finali, obviously).

Per questo è importante avere una ricettività alberghiera notevole, decisa a ospitare sia il villeggiante da una settimana o chi, dal Nord Italia, è disposto anche solo a passare un week-end tra sole, mare e tanto tennis. Già, perché se i concorrenti marini non mancano (anche nella stessa Croazia...), se a quel fattore aggiungiamo la nostra parolina magica (tennis, appunto), allora i confronti spariscono. Ok, il luogo dove si svolge il torneo è un paradiso per l'appassionato tennista perché parliamo di una ventina di campi dislocati a due passi dal mare. Tuttavia, è chiaro che durante la settimana non è facile spostare dal campo un Verdasco o un Davydenko per giocare un'oretta con gli amici. La soluzione più facile è dunque quella di sfruttare la decina di campi posti giusto di fronte all'hotel Sol Coral e trattati come se Federer e Nadal dovessero giocarci ogni santo giorno la finale di Roland Garros. E appese intorno al campo, decine di racchette distrutte da tennisti di club inferociti col loro livello di gioco. Insomma, non trovar modo di giocare a tennis è una vera impresa, che siate dei principianti o degli esperti, poco importa. E poi, dulcis in fundo, non può mancare un po' di sano tifo italico. Già, perché i giocatori azzurri sono parecchio affezionati al torneo ATP di Umago e ci tornano sempre con grande voglia. Quest'anno mancherà Andreas Seppi che ha deciso di prendersi un meritato periodo di riposo dopo le fatiche Slam (saper scegliere i momenti giusti per ricaricare le batterie è un aspetto fondamentale nella stagione di un giocatore), ma sarà presente su tutti, Fabio Fognini, che con questi lidi ha un certo feeling, avendo raggiunto due semifinali. Nella prima occasione batté perfino Carlos Moya, un tipo che da queste parti è considerato un semidio della racchetta. L'anno scorso è stato fermato solo da Marin Cilic. Che quest'anno sia la volta buona? Poi per festeggiare a dovere, ci sono sempre i party che si accendono non appena si spengono le luci del campo centrale.

Nell'altra pagina, una veduta del campo centrale del torneo ATP di Umago, sempre molto affollato per le sessioni serali (comunque i match generalmente cominciano dopo le 17). Qui sopra, una camera del Sol Garden: a Umago non mancano le sistemazioni di lusso a prezzi molto vantaggiosi

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2005

Gotennis offre da anni i migliori pacchetti hotel + biglietti per i più grandi Tornei del circuito professionistico

2012

Da 14 anni Gotennis propone occasioni per migliorare il vostro talento in luoghi selezionati dove apprendere piccoli segreti facendovi divertire con professionalità, passione e tanta allegria. Single, famiglie, coppie, principianti o molto esigenti imparano i superiori contenuti tecnici che eroghiamo, frutto di profonde esperienze presso le più prestigiose scuole del mondo: Academia Sànchez-Casal, Bollettieri Tennis Academy, Van Der Meer Academy

Gotennis rappresenta in Italia le migliori Scuole ed Accademie nazionali ed internazionali, punti di riferimento nella metodologia di insegnamento del tennis moderno. Contattaci e sapremo consigliarti al meglio

Grandi Tornei

2010

Imparare con il sorriso è da sempre indice di una buona qualità apprendimento; l’esperienza e la capacità degli insegnanti fanno il resto.

Scuole e AccadEmie

2008

Stag St e Vacanza

®

www.gotennis.it


STYLE IL TENNIS IN BORSA

ABBIAMO CASUALMENTE BUTTATO L’OCCHIO in un negozio di tennis di Torino: solite Pure Drive, palle Dunlop eccetera eccetera. Poi siamo rimasti folgorati da alcune borse. Non i soliti portaracchette, ma borse di varie misure con immagini vintage. Bellissime, affascinanti. Parliamo col proprietario del negozio e scopriamo che le realizza un artista utilizzando le più svariate immagini grafiche. Immediatamente abbiamo chiesto di incontrarlo perché crearsi una borsa da tennis o da passeggio con immagini tennistiche scelte dallo stesso appassionato/committente è un’opportunità meravigliosa. Per scoprire come fare, basta voltare pagina.

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e l y St

The Tennis (hand)Bag Un artista crea delle borse uniche al mondo partendo da immagini che può scegliere il cliente

CHI

Andrea Maino Torino COSA

PERCHÉ

Borse personalizzate, pezzi unici al mondo, stampate con le immagini che si desidera e confezionate con gusto artistico di prim'ordine. Definita dal suo creatore, "arte a porter"

Per avere a disposizione un prodotto di notevole qualità, ad un prezzo giusto, ma soprattutto con un carattere di unicità che lo rende particolarmente appetibile

di Lorenzo Cazzaniga photo by Marco De Ponti

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Senza nemmeno esagerare, Andrea Maino ha definito il suo laboratorio «il paradiso delle donne». Equivocando, si potrebbe trovare una discreta fila di persone fuori da quella che possiamo tranquillamente definire un galleria d’arte. In realtà, parliamo di borse, prodotto fetish per la stragrande maggioranza del pubblico femminile e che in Handbag Banner ha trovato una nuova filosofia esistenziale. «Quando mi chiedono che mestiere faccio – dice scherzando Maino - rispondo che studio il sistema per fregare la gente. Visto che a quel punto mi guardano strano, spiego che non lo faccio per mio tornaconto, ma perché vorrei mostrare il mondo in maniera diversa». E in che modo? Semplice, stampandolo su una ventina di modelli diversi di borse. Perché in realtà siamo in uno studio grafico con tipografia annessa. Ma con delle idee molto particolari: «Facciamo cose un po’ strane – continua Maino -: cataloghi sotto vuoto, inviti in vaschette di alimenti, porta baguette. Quando vai in una mostra, compri il catalogo, lo metti in libreria e lì ci resta. Io invece creo la borsa (magari con dentro il catalogo) e ti permetto di portare un pezzo di quella mostra sempre con te. E così facendo, gli altri capiscono anche la tua personalità. Un esempio? Se vedi una signora con una borsa raffigurante Frida Kahlo, capisci la sua cultura. Capito perché parlo di arte à porter?”. Il tennis entra a far parte del mondo di Handbag Banner quando Maino incontra i responsabili di Go4Tennis, che in Italia distribuiscono marchi di corde come MSV e Solinco,


oltre ad avere un negozio a Torino. È lì che, per la prima volta, ci siamo imbattuti in questo tipo di borse. «Sono meravigliose – dice Marco Massarenti, uno dei responsabili Go4Tennis -. Appena abbiamo visto che lavori era in grado di realizzare Andrea, ci siamo detti che il tennis poteva recitare un ruolo importante». Già. Perché spesso si dice che il tennis (e lo sport in generale) è arte in movimento. E se pensate a John McEnroe e Roger Federer, a Henri Leconte e Stefan Edberg, è facile associare il loro talento a quello di un artista, di un pittore, di un Warhol. Ma come nasce il progetto di queste borse? «Curiamo la grafica, montiamo a video tutti i settori della borsa e le varie immagini – spiega Maino -. Poi andiamo al plotter, una stampante gigantesca, quindi verniciamo con un prodotto ad acqua ecologica che protegge dai raggi UV. Il colore infatti resiste almeno sette anni, anche se le nostre borse vanno a braccetto con il Barbour: invecchiano col suo proprietario e anche loro devono mostrare qualche ruga». Infine, entrano in gioco le sarte. «Qui è fatto tutto a chilometri zero, a Torino. Le sarte che le devono cucire sono molto brave. In realtà sono le stesse a cui si rivolgono le migliori griffe italiane per creare 20-30 pezzi ben fatti. Poi la produzione finisce in Cina, ma questo è un altro discorso. Ci tengo a sottolineare che tutte le nostre borse sono fatte a mano». E sono pezzi unici. «Esatto, un particolare da non sottovalutare, soprattutto per l’animo femminile. Perché quando dici a una donna che è un pezzo unico al mondo, si aprono le cataratte del cielo. In 5-6 anni abbiamo realizzato 7.000 borse, tendenzialmente tutti pezzi unici. Tanto per dire, una è finita nelle mani della Principessa Rania di Giordania». Tornando al tennis, la situazione maggiormente intrigante è quella di poter fornire direttamente le immagini che i grafici di Handbag Banner lavoreranno per creare la nostra borsa. Ora, pensate un fan di Roger Federer che si presenta al club con una borsa unica al mondo che raffigura il fuoriclasse svizzero. Roba da chiuderla in armadietto a doppia mandata. Ancor di più ora che gli esperti di marketing sportivo, indicano nella personalizzazione del prodotto, la maniera per tenere incollato il cliente. Per adesso, Maino ha creato borse da tennis di varie misure, sempre con locandine vintage. In futuro, dipenderà dalla richiesta: «Non sono un fanatico tennista – dice Maino – ma quando è arrivata la richiesta di Go4Tennis mi è sembrata un’ottima opportunità». Chi desidera acquistarle infatti, deve rivolgersi direttamente a Go4Tennis, «ai quali auguro la miglior fortuna» chiosa Maino, mentre ci accompagna nell’EuroDisney delle donne, un magazzino stracolmo di borse. Ne trovi di ogni genere, con stampe di opere famose, di cavalli, di Diabolik. E di tennis. Bellissime, affascinanti. Ma sicuramente saranno anche molto costose, obietterà qualcuno. Insomma: per quanto in tempi di crisi economica non è mai facile quantificare cosa è costoso e cosa no, il range che parte da 80 euro e arriva a 25, pare piuttosto onesto, coniderando la lavorazione di cui necessita il prodotto («Io non speculo sulla borsa. Però in certi casi, il cliente mi ha commissionato anche la stampa di un catalogo, che resta il mio business principale»). Già Prada, Hermes e Gucci propongono prezzi ben diversi e, in compenso, da Handbag Banner potete crearvi la borsa su misura, unica al mondo, con le immagini che più amate. E, particolare fondamentale, poterla sfoggiare al club. Per l'invidia dell'avversario di turno.

info: go4tennis.com e handbagbanner.it 41



di Federico Ferrero

Sara Errani è arrivata dove (forse) nemmeno lei pensava di giungere. In finale a Roland Garros. Da Massa Lombarda a Valencia, passando per Bradenton: una vita di sacrifici e voglia di emergere. Alla faccia di chi non credeva in lei (compreso chi scrive...)

Oh, mio Dio


Brava, ma basta. Nei tornei giovanili non si sgomitava per i match di Sara Errani: poco appariscente, molto attendista, piccolina, servizio povero. Anche se spesso vinceva. Ma si sa, chi raccoglie (inutili, se non per i capitani stipendiati) risultati nel tennis dei piccoli, spesso giocando a tirarla di là, è destinato a perdere la strada non appena il gioco inizia a essere serio. E l’Italia è specializzata nella produzione di giocatori con la scadenza dello yogurt. Nel caso Errani la situazione era sconfortante: nemmeno i tecnici italiani credevano nelle sue possibilità(1), così gli emissari della federazione. Tanto che, anno 2008, la ragazza tutto ambizione, saltelli e vamos! salutò il primo titolo WTA sul mare istriano di Portorose mentre guardava poco più in là, verso la costa della patria natale, con una dedica speciale «agli italiani che non hanno creduto in me e che erano sicuri non sarei andata da nessuna parte». A mettere un carico di fiducia che la comunità del tennis lesinava ci pensava il papà Giorgio, che tratta frutta e verdura all’ingrosso a metà strada tra Bologna e Ravenna, nel centro del paesino di Massa Lombarda. Sara è nata sotto le torri bolognesi nell’aprile 1987 ma solo per l’anagrafe ospedaliera: Massa, la sua campagna e i frutti della terra, elevati a istituzione degna di un museo (2), sono il tetto della vita laboriosa degli Errani. Mamma Fulvia lavora in una delle due farmacie del paese; il fratello Davide, gli stessi occhi cerulei di Sara, ci ha provato per qualche anno come centrocampista: in promozione, quarto posto in campionato con la Centese. Difficile dire se gli mancasse il talento della sorella: chissà, magari la tigna, quella di una ragazzina che dava sulla voce ai genitori già alle elementari: voleva sempre avere ragione e trovava odioso perdere. Da gennaio, Davide è stato assunto nell’azienda di famiglia. Quella con le maggiori prospettive di fatturato, però: niente cassette di pesche, è il controllore dei contratti di sua sorella. A BRADENTON, CON L'INGLESE DI TOTÒ Poi c’è Sara. Che detiene il record di palleggi consecutivi con un pallone da calcio tra le professioniste del tennis e tuttavia ha scelto la racchetta, senza che i genitori gliel’avessero posata nella culla. Tanto impegnata nel suo mestiere di apprendista da meritarsi una convocazione tra le under 12 nazionali e da convincere la famiglia a mandarla, per quasi un anno, all’accademia Bollettieri di Bradenton. Senza accompagnatori, con un inglese simile a quello di Totò (3) e le lacrime trattenute a stento in quegli

occhioni hollywoodiani. Dieci mesi così, ad allenarsi e non capire un accidente in sala mensa con i compagni arrivati da chissà dove. Eppure non poteva permettersi di piangere, mamma e babbo avevano speso troppi soldi perché lei li ripagasse in lacrime. Un giorno di qualche anno dopo, Giorgio Errani spedì (4) con tutta la sua passione romagnola una missiva a una rivista specializzata per lamentare la scarsa attenzione nei confronti dei risultati della figlia. Vince e voi lo fate apposta a non considerarla, sosteneva cuore di papà. Ma lo sapete che per tre anni è stata la miglior italiana nel ranking ITF e voi, negli articoli sulle giovani promesse, parlate solo delle altre? Era vero. Con quasi dieci anni di ritardo è arrivata la risposta, la più gioiosa: Sara Errani è là, tra le prime dieci al mondo, dove nessuno la riusciva a vedere, ce l’ha fatta con le sue forze ed è solo con la sua triade di riferimento – famiglia, Pablo Lozano e il preparatore David Andres – che ha da condividere la gioia di una finale in un torneo dello Slam. Una sensazione che ti travolge. LA SPAGNA, TERRA BENEDETTA Sfogliare la storia di Sara fa piacere e anche un po’ male. Dai dodici anni in poi ha truccato le carte pur di non giocare in Italia (5). Non ne usciamo bene, noialtri: non l’abbiamo voluta e adesso il tennis italiano femminile è lei, di miss Errani, sportivamente una straniera con passaporto tricolore. È cresciuta in Spagna e, da vera iberica, ha cuore solo per Nadal e antipatia – il tifo confonde la ragione? – per Roger Federer, che considera un giocatore tifato dall’italiano attento all’estetica e poco alla sostanza. Forse sbaglia bersaglio, anzi, è certamente così: Roger non è il simbolo del campione indolente che vince perché baciato dal dio del tennis. Ma poco importa: a quella fonte di lacrime e sangue che ha forgiato campioni in serie, in una terra benedetta per il tennis, Sarita ha bevuto e si è fatta atleta. Ha costruito giorno per giorno una casa robusta senza il genio di Renzo Piano: se non posso servire, rispondo. Se non posso tirare, corro. Se non posso fare a pugni, cambio tattica. Se ho perso, ci riprovo più forte di prima. Nel processo ha perso qualche chilo di troppo, ora è in forma perfetta, e pure l’accento ravennate. Alla TenisVal di Valencia, dove non si beve il tè e non si gioca a burraco con la tessera

1. Uno sì: si chiama Michele Montalbini e ha conosciuto la piccola Errani, che piangeva e batteva i piedi in terra quando le cose non andavano per il verso giusto ma già ai tempi «preferiva il tennis agli amici, lo metteva davanti a tutto». 2. Esiste, si chiama Museo della frutticoltura Bonvicini e racconta tutto lo scibile su coltivazione, raccolta e usi di pesche, pere, mele e susine. 3. Che negli anni si è affinato, ma non a sufficienza da non farle dichiarare «I played very good», ho giocato molto buono. 4. Non è elegante parlare per fatto personale, ma riferisco di quella lettera perché la mandò alla mia attenzione. Come dire: mi ci metto eccome, tra i miscredenti.

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Sara Errani è nata il 29 aprile 1987 a Bologna. In carriera ha vinto 5 titoli WTA (nel 2008 a Palermo e Portorse, nel 2012 ad Acapulco, Budapest e Barcellona). Il suo miglior risultato è chiaramente la finale di Roland Garros dello scorso 9 giugno persa contro Maria Sharapova che l'ha proiettata nella top 10 mondiale (terza italiana di sempre a riuscire nell'impresa dopo Flavia Pennetta e Francesca Schiavone).

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Sarita ha costruito giorno per giorno una casa robusta senza il genio di Renzo Piano: se non posso servire, rispondo. Se non posso tirare, corro. Se ho perso, ci riprovo più forte di prima. federale in tasca, ha trasferito il suo domicilio e si è invaghita della disciplina di Ferru, David Ferrer, un altro che pareva pronto per fare il maestro col cesto di metallo e si è preso tutte le rivincite del mondo. Passo passo si è guadagnata un posto nelle cento, nelle cinquanta e un ruolo di riserva in Fed Cup. Impossibile, stavolta, non considerarla. Anche quando avrebbe dovuto giocare e le hanno preferito Flavia e Francesca, lei se ne è stata zitta. Oggi, che potrebbe togliersi lo sfizio della rivalsa, se qualcuno le ricorda che prima di questo Roland Garros aveva incontrato ventotto volte una qualsiasi top ten e non l’aveva mai battuta, risponde che evidentemente era giusto così. Semplicemente, fino a ieri l’altro, non giocava abbastanza bene. Quando il fisico manca devi curare i dettagli. Sembra un aneddoto scritto per la pubblicità ma è vero: nell’inverno 2011, Sara prova, sui campi di Valencia, una racchetta diversa dalla sua. Per caso. La sta usando una ragazza sua compagna di allenamenti. Più lunga, più potente: tira due pallate e se ne innamora all’istante. Tanto da illuminare gli occhioni, chiamare il suo sponsor tecnico e accettare di pagare 30.000 dollari di penale, per lei che non poteva sprecar soldi – anzi, che fino a qualche stagione fa era in rosso fisso a fine anno - pur di svincolarsi e poter andare in un centro commerciale in città a comprare, come un’appassionata qualunque, i primi tre esemplari della sua Durlindana. Questo si chiama investimento imprenditoriale: col solo Slam di Parigi, bonus esclusi, ha rimpinguato il conto corrente di un milione e risolto i patemi finanziari di tutto il resto della sua carriera. La numero 50 del mondo che paga tre telai presi al reparto sport, come noi. Cose da Errani. DUE SETTIMANE DA PAZZI Resta il fatto che, in tanta ricerca della normalità che si fa eccellenza, uno strappo c’è, ci deve essere in un percorso di crescita fatto di piccoli traguardi quotidiani, partito da lontano e culminato in due settimane impazzite, da fenomeno, ancor più imprevedibili del recente feuilleton Schiavone e le sue gesta al Bois de Boulogne. Nel volgere di qualche giornata Errani si è scoperta grande a sufficienza da toccare un cielo per lei sempre più in su di una Sharapova e delle altre gigantesse. Un destino cattivo che lei ha reso perno di un progetto. Delle vittorie sulle regine di Parigi Kuznetsova e Ivanovic, del dominio mentale contro la muscolosa fifona Stosur e del palcoscenico del Philippe Chatrier rubato a Francesca in

una finale troppo sbilanciata per essere vinta, la piccola Sara saprà ricordare tutto, compresi gli errori, perché quella è la strada. Come il trionfo in doppio, specialità che quest’anno è impoverita dalla necessità di formare coppie nazionali per le Olimpiadi ma che poco toglierà al valore dell’impresa quando si peseranno i titoli: finale in Australia prima, vittoria al Roland Garros poi con Roberta Vinci. Roberta, un tempo amica di Flavia e ora legata soltanto a Sara, è l’altra faccia del mondo Errani: col suo servizio-volée che Sara avrà sognato chissà quante volte, ma di cui ha mostrato di non avere bisogno. Un paradosso vivente, Sara: anche doppista, lei, e numero uno al mondo nei risultati della stagione, con la racchettona sovradimensionata che poggiata a terra le tocca i fianchi. UN'AMMIRAZIONE SCONFINATA Cosa abbia reso il cocktail Errani così esplosivo a Parigi non è di semplice spiegazione (6), anche se l’autoeliminazione di parte della concorrenza (la disastrosa Serena, la tragica Li, i problemi irrisolti di Azarenka e i limiti fisiologici di Radwanska) è una circostanza che accompagna ogni impresa. Ma in questo tennis, che ha rinunciato alla varietà e alla completezza per creare tante Jankovic in serie, l’ambiente si è reso favorevole per la crescita di altre specie. Oggi saper giocare una palla corta competitiva è un’arma letale. Potersi permettere due rovesci o tre (taglio sotto, piatto, topspin) dà vantaggi quasi disonesti sulle sparapalle. Saper vincere (non giocare con stile, non spaccare la palla: vincere), poi, è quasi un lusso. Ci sono ragazze che non impareranno mai, altre che sembrano aver dimenticato la ricetta (e sono alcune delle vittime di Sara, col loro potenziale enorme e buttato al vento). E, diciamolo, ci sono state campionesse (Hingis, Davenport, Mauresmo, le Williams, Henin, Clijsters) di qualità non rimpiazzata. In tutto questo spunta una Sara Errani. Che non fa niente di inarrivabile: certo, è sulla palla con piedi velocissimi, il diritto è violento, con un «rimbalzo vivo» come piace dire a coach Lozano; ma col servizio tocca i centoventi all’ora, la seconda palla è quasi un danno a se stessa eppure, senza una Sharapova più affamata di un leopardo, saremmo qui a celebrare una nuova campionessa Slam. Ed è così che vogliamo festeggiarla, con un’ammirazione sconfinata per la sua voglia di farcela: lasciando alla sua grinta una scena che nessuno merita di sottrarle. A pensarci bene, è un modo come un altro per chiederle scusa.

5. Dieci mesi da Bollettieri, una scelta che Sara fece a dispetto della giovanissima età dopo aver giocato l’Orange Bowl. Poco dopo il rientro in Italia, altro tentativo estero alla scuola di Paul Dorochenko, a Barcellona, fino al trasferimento a qualche chilometro da Valencia, alla TenisVal, accademia fondata da Jose Altur e Pancho Alvariño nel 1992: dodici campi in terra battuta, due in GreenSet, poco altro da fare se non allenarsi. 6. Merita una menzione Pablo Lozano: è un professionista che conosce bene il tennis femminile, le sue debolezze strutturali e sa insegnare alla sua ragazza come si vincono le partite. Le qualità, poi, le deve tirare fuori Sara nei momenti di tensione, ed è quello che fa la differenza: però la Errani sa cosa fare in campo, e avere un cammino tracciato aiuta a non trovarsi perse nella giungla come troppo spesso succede anche ai massimi livelli nel tennis Wta. Ci fossero più Lozano e meno ciarlatani in circolazione la qualità del tennis rosa farebbe un bel balzo.

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Romagnola, la casa dei genitori è ancora a Massa Lombarda ma lei si è ormai trasferita a Valencia all'Accademia TenisVal dove si allena anche David Ferrer. Seguita da coach Pablo Lozano e dal preparatore atletico David Andres (e dopo essere stata iniziata al tennis a 5 anni da papà Giorgio), è diventata anche una grande doppista. Sara, insieme all'amica Roberta Vinci, ha formato la prima coppia tutta italiana capace di vincere uno Slam, sempre quest'anno a Parigi

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Amar cord

FAB F


FOUR No, non stiamo parlando di Federer e Nadal, di Djokovic e Murray. Ma dei quattro fuoriclasse che hanno creato il vero boom del tennis mondiale negli anni 70 e 80. E che ancora adesso ricordiamo con un pizzico di piacevole nostalgia


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BJORN TESTO DI MARCO IMARISIO

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B

jorn Borg è sempre stato uno di famiglia. Non è mai apparso come un estraneo, a nessuno. E non mi riferisco all’oggi, che sono passati trent’anni dalla sua ultima vittoria in uno Slam, quaranta dal suo debutto nel tennis vero e fare il suo nome è banale quasi come citare Tolstoj o Dostojevski quando si parla dei classici russi facendo finta di conoscerli a memoria. No, io mi riferisco proprio a quegli anni, quando tutto cominciò, e il nostro giochino tanto amato cambiò per sempre. I rivoluzionari perdono, le rivoluzioni vincono. Cercavo un assunto che spiegasse il senso del suo passaggio nel mondo del tennis, e mi sono aggrappato a questo.Volevo dire che Borg è stato l’unico a contraddire una frase che appare sempre nei sussidiari di storia, buona per lenire i dolori di noi studenti idealisti affranti dalla fine di un Pancho Villa, della Comune, della Catalogna di Orwell. A pensarci bene, un errore, se andiamo a guardare non solo le opere con racchetta, ma anche l’intera vita del signor Orso Cittadella, questa la traduzione dallo svedese del suo nome. Uno che ha vinto tanto in calzoncini e maglietta, e perso in egual misura con indosso abiti da borghese. Borg è stato il più radicale, eversivo, iconoclasta dei rivoluzionari. C’è un prima e un dopo di lui,su questo non si discute.Ha cambiato i fondamentali dello sport più tradizionale e conservatore, ha creato linee di frattura non ricomponibili. Cercate un bambino di fine anni Sessanta che sappia giocare il rovescio a due mani. Farete uno sforzo inutile. Provate a trovarne uno, oggi, che non abbia cominciato la sua vita tennistica aggrappandosi alla racchetta per riprodurre quel colpo così personale che il bimbo Borg apprese assistendo con il papà alle partite di bandy, una sorta di simil hockey su ghiaccio. Anche qui sarebbe fatica sprecata. E mi limito alla tecnica, consapevole che la rivoluzione è stata totale. Uso il parolone: anche sociale, sissignori. Con lui è cambiata – ancora una volta in modo irreversibile – l’immagine pubblica del tennista. È nato il tennista divo, o semidio. Portatore talvolta sano di contratti milionari, collettore di ogni sorta di pubblicità possibile, magnete di contratti danarosi, creatore a sua insaputa di gran parte del business che oggi fa del tennis uno sport ricchissimo, capace persino di resistere alla crisi economica. Fossi nella famiglia Djokovic, o Nadal, o Federer, terrei nel giardino di casa una statua dell’eroe. E ogni mattina eseguirei un inchino gravido di riconoscenza. La rivoluzione di Borg è stata tanto priva di compromessi quanto inconsapevole. Lui e il suo Sancho Panza, il signor Lennart Bergelin, un allampanato svedese di mezza età che gli faceva compagnia in giro per il mondo, non si atteggiarono mai a condottieri di una nuova stirpe. Già, l’inseparabile e altrettanto muto Bergelin, un altro ricordo che emerge da quegli anni. Un gentile e insonne signore che di notte passeggiava sui telai delle racchette incordate con pesi impensabili per l’epoca, al fine di impedire che saltassero durante le partite. In quegli anni anche il calcio conosceva la sua rivoluzione. Accadeva in Olanda, ad Amsterdam, in una squadra di calcio fondata da profughi ebrei che si chiamava Ajax. Ma Johann Cruyff, il Profeta del gol che beneficiò di un omonimo film firmato da Sandro Ciotti, e con lui i suoi compagni di squadra, sapevano quel che stavano facendo. Conoscevano bene le 52

conseguenze dell’eresia. Borg, no. Lui giocava, punto. E taceva. Così facendo alimentava un’aura da sintomatico mistero. Senza volerlo raddoppiava la magnitudo del terremoto, diventandone l’epicentro, con folle di ragazzine adoranti che aspettavano all’uscita dal campo questo vichingo con i capelli. Scene tipo i Beatles allo Shea Stadium di New York. Già, i Fab Four originali. Dopo il terzo Wimbledon, il Times di Londra, all’epoca molto più compassato di oggi, appose questo titolo sul faccione inespressivo dell’Orso: Il quinto Beatle. Gli sport, tutti gli sport, hanno codici interni inossidabili, tradizioni, usanze e leggende, sedimentate negli anni. Hanno memoria, molto più che in altri settori della società. Fondano la loro prosperità su seguaci che non vogliono saperne del cambiamento, li amano così come sono. Deve essere questa la ragione per cui il Sessantotto, nel tennis e nel calcio, è arrivato con qualche anno di ritardo. L’Ajax era al posto giusto nel momento giusto, la Amsterdam dei Provos, delle tute bianche (quelle vere) e del divertimento al potere. Nel tennis il cambiamento giunse da una remota provincia dell’Impero, da quella Svezia a stento pervenuta nei testi sacri dei gesti bianchi. Da Sodertalje, un paesino che avremmo imparato a conoscere tutti. Accadde nel mezzo di uno di quelle epoche di passaggio tipiche del tennis, quando diventa terra di nessuno e di tutti. Nel 1969 un Rod Laver già in età avanzata aveva conquistato il suo secondo Grande Slam. Nel 1972 si gioca il match che è obbligatorio inserire nei Classici dei classici. LaverRosewall, WTC di Dallas. Un’estasi che rappresentava anche un addio, ultimi bagliori di un crepuscolo, il secolo d’oro dei grandi australiani si stava spegnendo, anche se non ce ne eravamo ancora resi conto.


Bjorn Borg è nato a Sodertalje (Svezia) il 6 giugno 1956. Si è sposato nel 1980 con la tennista rumena Mariana Simionescu, quindi ha avuto un figlio (Robin) da una relazione con la modella Jannike Björling. Nel 1988 ha sposato Loredana Berté, un matrimonio molto bersagliato dalla stampa scandalistica. Nel 2002, si è sposato con Patricia Östfeldt: la coppia ha un figlio di nome Leo. In seguito a questo terzo matrimonio, la Berté lo ha denunciato per bigamia in quanto i due, per l’anagrafe, risultavano ancora sposati, chiedendo cinque milioni di euro di danni per il mantenimento mai versato.

Tra il 1970 e il 1973, guardate gli albi d’oro degli Slam. L’intramontabile (appunto) Rosewall. Il povero Arthur Ashe. Il compassato Jan Kodes. Il dimenticato Andres Gimeno. Il folle Ilie Nastase. Persino il venerabile Stan Smith, oggi ricordato più per le scarpe che per le gesta tennistiche. Con tutto il rispetto, ma era un’epoca simile a quella che precede l’avvento di Federer e Nadal, quel tempo incerto dei quattro Numeri Uno in una sola stagione: ricordate Marcelo Rios e Juan Carlos Ferrero? Cosa ne resterà, se non lo spazio di una parentesi? Solo che quella volta fu davvero un Sessantotto. Il cambiamento arrivò forte e pochi davvero lo riconobbero per quel che era: una rivoluzione. Ho fatto un salto nell’emeroteca del Corriere della Sera, spulciando la busta Borg 1973-1976. Gialla, impolverata, come i ritagli al suo interno, giornali di tutto il mondo. Ho trovato perle che oggi, con l’inevitabile senno di poi, hanno un valore relativo. Anno 1973, dopo la vittoria nel primo Roland Garros, alla tenera età di 17 anni. Rod Laver: «Colpendo la palla così, rischia di durare per pochi mesi». Rosewall: «Mi sembra molto difficile che possa giocare sull’erba impugnando la racchetta in quel modo». Onore al vecchio Pancho Gonzales, che invece si lanciò in una profezia di segno contrario: «Questo ragazzo è destinato a spazzarci tutti via». Andò proprio così. Senza cattiveria, perché Borg non è mai stato di animo cattivo. Ma quel ragazzo svedese ridisegnò il profilo e i confini del mondo del tennis. Inventò una cosa

che si chiama top spin, ancora oggi saldo padrone del tennis moderno. Non fu una rivoluzione gentile, questo va detto. Il tennis di Borg era forza bruta. È stato il primo a dare al nostro sport una dimensione atletica, a far dominare le gambe al posto della mano. Aveva polmoni da cavallo, uno studio dell’epoca dimostrò che aveva capacità polmonare superiore a quella di ogni altro sportivo, maratoneti inclusi. Nel momento di massima popolarità partecipò a un curioso evento al vecchio palasport di Milano, una specie di mini Olimpiade con fuoriclasse di ogni genere: dominò in ogni categoria. Al netto dei commenti di cui sopra, il tennis lo accolse come un predestinato. Ce n’era un gran bisogno, questa è la verità. Il tennis dei primi anni Settanta era uno sport in ribasso, corroso al suo interno da polemiche e dal timore del declino. Ad aprire le porte del tempio ci pensò il nuovo monarca. Quelle porte, le più importanti: i cancelli di Doherty. Lo sappiamo. Nel tennis non c’è leggenda senza Wimbledon. Borg non si è limitato a vincerne cinque, tutti in fila. Ha sovvertito ogni regola. Quei campi erano l’apoteosi del fioretto, del duello di tocco sotto rete, un esercizio da virtuosi. Lui usò la racchetta come un’ascia. Mostrò al mondo che era possibile vincere sull’erba rispondendo tre metri dietro la linea del servizio. Sacrilegio. Che si poteva andare a rete, ma non per creare, soltanto per raccogliere un punto costruito dal fondo con quei colpi arrotati, impossibili da tenere per una genìa di 53


tennisti che conosceva un solo modo di colpire, sempre piatto. Sacrilegio. Eppure Wimbledon amò Borg di un amore unico e incondizionato. La prima volta fu quasi per caso, contro Ilie Nastase. La seconda, un combattimento a sangue contro Jimmy Connors, il suo grande rivale. Nessuno fece troppo caso a quel moccioso americano arrivato in semifinale dalle qualificazioni, tale John McEnroe. La terza fu la definitiva agnizione. All’improvviso Jimbo sembrò vecchio, superato. Borg giocò un tennis perfetto e nuovo. Poi si inginocchiò, le mani giunte. Quel giorno, gli inglesi furono tutti testimoni. Il tennis entrava in una nuova era. Borg è durato poco, come quell’Ajax. Forse è destino. Ha smesso a soli 27 anni, nel 1983, anche se la sua carriera è finita nel 1981, quando McEnroe gli portò via le chiavi del giardino di Wimbledon. Il suo palmares non è perfetto. Gli manca l’Australia, che all’epoca contava come il challenger di Trebisacce e non ci andava nessuno. Gli manca lo US Open. A sua discolpa: due volte si fece male, un’altra gli organizzatori, ferventi nazionalisti che tiravano per una finale Connors-

categoria, da grandi sommovimenti nascono anche notevoli sgorbi. Non sempre ciò che è nuovo ha anche il dono delle bellezza. Ammettiamolo, non sempre sono stati fiori. Borg porta la responsabilità morale di una stirpe che dagli orridi Barazzutti-Higueras, ore intere di palleggi sei metri sopra la rete, conduce dritto allo scempio di Alberto Berasategui e all’intelligente melina di Gilles Simon. Chiedersi come sarebbe stato il tennis senza l’Orso è ormai inutile. Non c’è mai stata una restaurazione. Nello sport più conservatore di tutti, la rivoluzione ha attecchito come l’edera su un muro, è diventata presto definitiva, irreversibile. Adesso bisogna chiedersi invece che ne è stato di quell’uomo, del portatore di una visione nuova. È la domanda peggiore. Chi scrive ha molto amato Bjorn Borg. In questo, simile ai tanti che sono stati bambini all’inizio degli anni Settanta e hanno cominciato ad amare il tennis allora. È difficile dire cosa rappresentasse. Quei capelli tenuti insieme da una fascia, quella Donnay nera, la maglia a righe Fila, le Diadora. Quell’esultanza sempre contenuta, ma a suo modo mistica. Ecco, era un semidio, per il ragazzino che sono stato. Ci vedevo tutto in quella immagine sempre uguale a se stessa. Non c’è mai più stato niente di così intenso, di così emotivo. E nella sua bontà, il culto di Borg non escludeva l’ammirazione per i suoi nemici. Quella è stata la mia età dell’oro.

Bjorn Borg è stata l’unica rivoluzione mai avvenuta in questo sport McEnroe, lo fecero giocare in notturna, lui, miope dichiarato, contro il più micidiale battitore dell’epoca, Roscoe Tanner. Se ci fosse il sindacato giocatori di oggi, li avrebbero appesi per i piedi. Nel 1980 e nel 1981, quando riuscì ad arrivare in finale, tra molte peripezie: beh, sul cemento Mac era più forte, non è certo una vergogna. Dobbiamo essere onesti quando parliamo delle nostre passioni sportive. Prendiamo il calcio: la rivoluzione vera è stata quell’Ajax, quell’Olanda. Il Milan di Arrigo Sacchi, per quanto amato (almeno da me) non è che una variazione sul tema eseguita da una squadra di straordinario talento. E il Barcellona di Pep Guardiola è una meraviglia, ma è appena il caso di ricordare come Johann Cruyff piantò il seme del calcio totale in Catalogna, prima da giocatore e poi da allenatore. Ci sono parole che sono come il buon vino. Andrebbero centellinate. Rivoluzione è proprio una di queste. Io l’ho usata molto in questo articolo. Per una volta, credo di essere nel giusto. Bjorn Borg è stata l’unica vera rivoluzione mai avvenuta in questo sport (McEnroe, la sua nemesi, è un geniale assolo sullo spartito scritto dai padri fondatori, è un classico contro il moderno, vedi alla voce Federer-Nadal). Rafa e Nole Djokovic non hanno inventato nulla. Hanno sviluppato, cambiato, modernizzato. Ma c’è stato un solo rivoluzionario. Come si addice alla 54

Ma Borg non è stato all’altezza della sua visione. Nella vita vera, ha tradito l’immagine di sé. Ricordo con sgomento, giovane cronista a La Notte, l’appostamento notturno sotto la casa di Loredana Bertè, da dove provenivano urla strazianti, pianti. La cocai na, una vita così lontana dalle sue geometrie perfette. La caduta verticale, il fallimento di imprese a metà strada tra il commerciale e un jet set al quale non apparteneva. Decine e decine di discese non a rete ma verso il cattivo gusto, il pacchiano. Lui ne era consapevole. Ci sono voluti vent’anni per rivederlo sul prato di Wimbledon, e quella assenza era un’ammissione: non sono stato degno del mio mito. Neppure gli applausi e la commozione degli inglesi per il figliol prodigo ritrovato hanno arrestato la caduta. Negli ultimi anni Borg è stato una spina nel cuore. Mi ha fatto male leggere che metteva all’asta i suoi cimeli sportivi: ci sono cose, per noi che lo abbiamo tanto amato, che non hanno prezzo. Mi ha fatto male sapere della sua assenza ai funerali del fedele Lennart Bergelin. L’ho trovato uno sputo in faccia a se stesso, prima ancora che al caro estinto. Lo scorso autunno, un amico - vabbè: Lorenzo, il direttore di questa rivista - mi ha invitato a seguirlo in Svezia per intervistare un Borg in apparenza risanato, divenuto brillante imprenditore di azienda che produce mutande con il suo nome. Ci ho pensato a lungo. Ho tentennato, prima sì e poi no, adducendo scuse. Poi ho deciso che non era il caso. Non volevo essere deluso. Wimbledon, luglio 1980, 7-6 al quinto, servizio Mac, 15-40. La più grande partita della storia. L’ultimo colpo d’ascia, un passante di rovescio. E lui che si inginocchia, incredulo, estatico, per l’ultima volta. Il mio Bjorn Borg rimarrà quello. Ieri, oggi, per sempre.


Bjorn Borg ha vinto unidici Slam in carriera (su 27 a cui ha partecipato): sei Roland Garros (dove ha perso solo dal nostro Adriano Panatta in due occasioni) e cinque Wimbledon. Presente solo una volta in Australia, ha perso tre finali allo US Open. In totale, ha vinto l’89,8% dei match giocati negli Slam, record assoluto. In carriera ha vinto 63 tornei ed è stato numero uno del mondo per 109 settimane.

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MAC BY JOHN SUPERMAC SI RACCONTA

RICORDANDO IL SUO INGRESSO TRA I PRO, QUANDO A SOLI 18 ANNI, ARRIVÒ IN SEMIFINALE A WIMBLEDON PARTENDO DALLE QUALIFICAZIONI. TRA COLPI DI GENIO E PROTESTE EPICHE...

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C

ampo Uno, Wimbledon. Non c’è nulla di paragonabile al mondo, non lo riesci neppure a immaginare finché non ci metti piede. Il profumo dell’erba, l’elettricità trasmessa dalla folla così vicina e il luogo in sé, la sua intimità, di cui la televisione non potrà mai dare l’idea a chi è a casa. E poi i colori squillanti: il verde e il viola di tribune, stemmi e uniformi, il bianco, il rosa e l’azzurro polveroso delle ortensie. Era il 28 giugno del 1977, a diciotto anni avevo realizzato un’impresa apparentemente impossibile (perlomeno fino alla comparsa di Boris Becker): pur essendo arrivato a Wimbledon solo per giocare nel torneo juniores, avevo vinto tre turni delle qualificazioni riuscendo a entrare nel tabellone principale. E dopo esserci entrato – un dilettante piovuto dal cielo con le guance tonde, le cosce forti e le tavolette di cioccolata nel borsone; un ragazzotto appena diplomato che aveva saltato la cerimonia del diploma per venire a cercare fortuna in Europa – avevo osato vincere quattro turni contro professionisti di fama mondiale ed ero entrato nei quarti di finale del più prestigioso torneo di tennis del mondo. Fino a quel momento, essendo a tutti gli effetti un signor nessuno a Wimbledon, avevo giocato lontano da ogni clamore mediatico sia a Roehampton sia nei campi secondari dell’All England Club, dove si gioca sull’erba più imprevedibile del mondo e davanti ad un pubblico di una decina di spettatori (di cui quattro addormentati, giudici di linea inclusi). Mi era stato assegnato un armadietto nello spogliatoio B, insieme a tutti gli altri fantasmi destinati all’eliminazione dopo un paio di turni. Il Campo Uno, però, era Wimbledon con la W maiuscola. Avevo superato sette turni di sfide spietate e quindi le divinità di Wimbledon, sempre spocchiose con chiunque ritenessero uno zero assoluto (cioè, in pratica, quasi tutti) si erano finalmente degnate di posare il loro sguardo su John Patrick McEnroe Junior da Douglaston, Queens. Mi ero rivelato degno di attenzione: non dell’attenzione riservata al Campo Centrale, beninteso, ma nemmeno il Campo Uno era una bazzecola e mi ero anche rivelato degno dell’avversario più formidabile che avessi trovato al torneo fino a quel momento. Il suo nome era Phil Dent e mi aveva inflitto una serie di sconfitte clamorose. Sì, era lo stesso Phil Dent che mi aveva battuto nel secondo turno all’Open di Francia appena tre settimane prima (poi era arrivato in semifinale e aveva perso il match contro Brian Gottfried). Però non eravamo più al secondo turno del Roland Garros: qui eravamo ai quarti di finale di Wimbledon, insomma tutta un’altra storia. La posta in gioco, questa volta, era molto, molto più alta. Dent era il primo giocatore di ottima classifica che dovevo affrontare e, anche se era solo al tredicesimo posto, era nel ranking, eccome. Io invece non ero nessuno e Dent avrebbe difeso la sua posizione con ogni milligrammo di forza che aveva in corpo e tutta la sua esperienza. È strano, se ci ripenso, ma non ero troppo nervoso, sebbene fossi un neofita in un ambiente tanto angusto. Sprizzavo fiducia da tutti i pori: sapevo di potermi battere contro i pezzi grossi e pensavo di sconfiggere Dent: dopotutto c’ero andato vicino, nella partita disputata a Parigi, e fin da giovanissimo uno dei miei punti di forza era l’abilità nel comprendere il gioco dell’avversario dopo averlo affrontato una sola volta.

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Credevo di aver capito Dent. Vinsi il primo set con relativa facilità, 6-4, ma nel secondo set lui ci diede dentro e lo persi al tie-break. Ero furioso con me stesso e, a essere del tutto sinceri, cominciavo ad avvertire un certo nervosismo. Anche quando si gioca al meglio dei cinque set, si vuole entrare veloci nella partita, e non sono mai stato molto bravo nelle rimonte: se finisco in svantaggio comincio ad avere dei dubbi. Quindi, quando stavamo per fare il cambio di campo dopo il tie-break, mi cacciai la racchetta sotto la scarpa – era una Wilson Pro Staff – e cercai di curvarla fino a quando si ruppe. La folla di inglesi beneducati che era sul campo si mise a fischiarmi. Chi era questo riccioluto parvenu, questo ragazzino petulante, questa nullità che si permetteva di violare le rigide norme di comportamento del Campo Uno? Fu la prima volta che venni fischiato. Molto divertente, pensai. Invece di raccogliere la racchetta la presi a calci sull’erba e tornai alla mia sedia. I fischi aumentarono. Avevo fatto arrabbiare gli inglesi, ma devo confessare che in quel momento mi sembrò una scena molto divertente. Per quanto fossi intimidito e colpito da Wimbledon e dalla sua storia illustre – e anche molto rispettoso della storia del tennis, al contrario di molti giovani tennisti di allora (e di quasi tutti i giovani tennisti di oggi) – scoprii che l’Inghilterra era strana, ottusa e bizzarra. Quando vidi i giudici di linea con la faccia assonnata, pensai: A Wimbledon queste cose non dovrebbero succedere. Il club e il torneo erano bellissimi ma l’atmosfera era estremamente conservatrice e tronfia al di là di ogni immaginazione. Mi diede sui nervi il trattamento meschino riservato dagli organizzatori ai giocatori più modesti e il modo in cui si genuflettevano davanti alle star. Tutti quegli inchini di fronte a personaggi più o meno reali mi sembravano fuori dal mondo. Avevo la sensazione di trovarmi al cospetto del peggio del peggio di un sistema profondamente classista. Ero un ragazzino del Queens, uno che andava in metropolitana. Come avrei potuto prendere sul serio le fragole alla panna e tutte le altre sciocchezze? Meglio arrivare in vetta alle classifiche al più presto, decisi, così avrebbero trattato bene anche me. Al terzo set cominciarono a penalizzarmi con chiamate sbagliate. Quindi, con le parole di Dent agli Open di Francia ancora impresse nella memoria, esposi le mie rimostranze direttamente al giudice di sedia, che non parve troppo di- sposto a darmi ascolto. Io cominciai a perdere le staffe (ma solo un po’, ero agli inizi della carriera). A questo punto il pubblico iniziò davvero a scaldarsi. Da quel ragazzino immaturo che ero, pensai che l’attenzione religiosa del pubblico per la partita e per i modi dei giocatori fosse strana e abbastanza comica. Con il senno di poi, però, devo confessare che il mio divertimento dipendeva soprattutto dalla mancanza di esperienza: non avevo mai giocato di fronte a un pubblico così numeroso. Dovrei anche aggiungere che adesso, dopo tanti anni di trasferte a Wimbledon, ho imparato ad apprezzare la passione tutta britannica per la loro gloriosa istituzione nazionale. Gli inglesi saranno anche riservati ma non quando si tratta dei loro sport preferiti! Tra le decisioni sbagliate dei giudici e la tenacia di Dent mi persi un po’ per strada; presto mi ritrovai sotto due set a uno e due game pari nel quarto set. Mi ero proprio


John McEnroe è nato a Wiesbaden (Germania, presso una base Nato) il 16 febbraio 1959. Cresciuto nel Queens a New York, in carriera ha vinto sette titoli del Grand Slam (tre Wimbledon e quattro US Open), perdendo quattro finali. Ha inoltre conquistato 9 Slam in doppio (cinque Wimbledon e quattro US Open, di cui 7 in coppia con Peter Fleming, uno con Mark Woodforde e uno con Michael Stich). È stato n.1 del mondo per 170 settimane in singolare e 269 in doppio

cacciato in una brutta situazione, ma feci un gran respiro e chiamai a raccolta i miei pensieri. Fino a quel momento Wimbledon per me era stata una magica ascesa e non mi pareva giusto che finisse lì, con quell’avversario. Ricordai che all’Open di Francia mi ero trovato nella situazione opposta: ero stato io ad andare avanti due set e un break contro Dent, ma lui si era ripreso e aveva vinto. Cosa era successo in quell’occasione? Avevo pensato alle implicazioni della mia presenza in un tabellone di singolare maschile di un torneo del Grand Slam: mi ero irrigidito ed ero crollato. Ora la stessa cosa poteva succedere anche a Dent.Arrivare alla sua prima semifinale a Wimbledon a ventisette anni doveva essere una cosa straordinaria. Anche a lui la tensione poteva giocare un brutto tiro. Se avessi insistito, avrei potuto cambiare a mio favore il risultato della partita. Volevo vincere, dovevo vincere. Ero a un bivio: se avessi perso, avrei potuto comunque giocare il torneo della categoria juniores; ma se avessi vinto sarei arrivato in semifinale nel tabellone principale e non avrei avuto tempo e modo di giocare il torneo juniores. Per me la situazione stava in questi termini: se avessi perso contro Dent, lo avrei fatto nei quarti di finale di Wimbledon, comunque un grande risultato per un diciottenne che proveniva dalle qualificazioni. Ma se poi avessi perso al terzo turno nel torneo juniores, il mio grande risultato si sarebbe trasformato in una bolla di sapone.

Nel frattempo, la partita era diventata interessante sul serio. La folla era sempre più eccitata. Gli spettatori passarono dall’incredulità del secondo set – «Chi diavolo è questo tizio?» – a una specie di sbalordito: «il giovanotto non avrà intenzione di vincere sul serio?». Si accanirono contro di me ancora di più, ma quel giorno, durante quella partita, mi andava benissimo. A quel punto, credo che Dent abbia perso le staffe. All’improvviso mi trasformai in un avversario molto diverso da quello che aveva fronteggiato solo tre settimane prima al Roland Garros. Che razza di mostro aveva creato? Tutto d’un tratto, il giovinastro metteva in discussione le decisioni dei giudici di linea e prendeva a calci la racchetta. Al quinto set l’atmosfera tra noi era rovente. Bastò un break. Vinsi l’ultimo set 6-4 e quando andai a rete per stringergli la mano Dent fece fatica a guardarmi negli occhi. Avevo diciotto anni ed ero in semifinale a Wimbledon. Mi sembrò la cosa più incredibile e al tempo stesso più naturale del mondo. Le semifinali di quell’anno videro Bjorn Borg contro Vitas Gerulaitis e Jimmy Connors contro... di me. Contro di me! ricordo di essere entrato nell’atrio del Gloucester Hotel, che all’epoca ospitava le grandi stelle del tennis, e di aver visto le quotazioni su una lavagnetta (a Londra vanno pazzi per le scommesse): «Borg 2-1; Connors 3-1,

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McEnroe è celebre anche per le sue sfuriate contro gli arbitri che gli sono costate multe record e perfino una squalifica durante un match all’Australian Open 1990 “per aver ripetutamente ingiuriato l’onorabilità della moglie del direttore di gara...” recitò il verdetto. Vive a New York con la moglie Patty Smyth e con sei figli (tre nati dal primo matrimonio con Tatum O’Neal, due avuti con la Smyth, e uno che quest’ultima ha avuto dal precedente marito)

Gerulaitis 7-1, McEnroe 250-1». Non feci una piega. Già far parte di quel gruppo per me era un sogno diventato realtà. Da quel momento, la mia vita sarebbe stata diversa (tanto per cominciare, non avrei mai più giocato nella categoria juniores). Non solo ero approdato ai tornei professionistici, ma all’improvviso mi ritrovai a un livello di gioco del tutto nuovo. Borg, Connors... per me erano gli dèi del tennis, gli irraggiungibili che avevo guardato in tv! Connors aveva vinto Wimbledon nel ’74 e aveva perso in finale contro Ashe nel ’75. Borg aveva vinto nel ’76. Erano due campioni di Wimbledon. Erano il massimo. Non se la cavava male neanche Vitas, al quarto posto nella classifica mondiale. Infatti quell’anno avrebbe vinto gli Open di Australia. Come avversario, Jimmy Connors non aveva niente a che fare con tutti gli altri professionisti incontrati sul campo in precedenza. Lui era davvero un giocatore di altissimo livello. L’avevo visto dal vivo in una partita sull’erba contro Rosewall – anche lui uno dei veri fuoriclasse – a Forest Hills, nel ’74, ed era stato un massacro: Connors aveva vinto 6-1, 6-0, 6-1. La forza con cui colpiva la palla con la sua Wilson T2000 e la precisione con cui rispondeva al servizio erano davvero incredibili. E io non volevo farmi massacrare. Anche la sua intensità era fuori dal comune e il fatto che non lo conoscessi – non avevo mai giocato contro di lui, 60

non avevamo mai nemmeno scambiato una parola – lo rendeva ancor più temibile. Il nostro primo incontro (se vogliamo chiamarlo così) negli spogliatoi, prima della semifinale, non mi aiutò affatto a rilassarmi. A Wimbledon, quando si entra nei quarti di finale, si viene trasferiti nello spogliatoio A, quello principale, che è situato accanto al Campo Centrale ed è riservato agli ottanta tennisti più bravi. Il red carpet del tennis, insomma. Entrare in quello spogliatoio mi mise soggezione. Mi avvicinai a Connors per salutarlo. Non mi guardò nemmeno. Si rifiutò perfino di riconoscere che esistevo. Immagino che, come i pugili, prima di un match importante dovesse concentrarsi fino a provare odio e rabbia da scaricare sul campo contro l’avversario. Mi intimorì. Per me era già uno sforzo alzare la testa e guardarlo negli occhi. Ma cosa c’entro io qui? Fu il pensiero che mi balenò nella mente. Forse fu quello l’istante in cui decisi che non volevo vincere la partita. Non voglio vincere. Non ce la faccio. (Non dico che avrei vinto, se l’avessi voluto). La prima battaglia, quella della volontà, l’aveva già vinta Connors. L’eventualità di passare dalla mia posizione di miglior juniores del mondo a campione ad un soffio dalla vittoria a Wimbledon era troppo opprimente. Se avessi battuto Connors, avrei dovuto giocare contro Borg o Vitas, ma più probabilmente contro Borg. Borg per me era un


poster appeso nella mia camera da letto, accanto a Farrah Fawcett. Da un punto di vista emotivo non ero ancora pronto a battere campioni di questo livello. Avevo un’idea molto chiara di come sarebbe stata la mia carriera. Avevo detto a mio padre: «Non parlarmi nemmeno di diventare il numero uno fino ai diciotto anni: solo allora riuscirò a sopportarlo». Invece avevo fatto un balzo così grande da non riuscire a gestirlo. Non ero ancora pronto per arrivare al gradino superiore. Volevo ancora andare all’università, vivere quell’esperienza. Era ovvio: se avessi battuto Connors non ci sarei andato. Mi sembrava di aver raggiunto il massimo delle mie possibilità, almeno per il momento. Era stata un’avventura incredibile. Solo il fatto di essere arrivato alle semifinali mi aveva proiettato dal numero 233 al 71 del ranking mondiale. Se avessi vinto la semifinale, sarei volato intorno alla 50esima posizione. Se avessi vinto il torneo, mi sarei probabilmente ritrovato alla 30esima. Dopo due soli tornei: era troppo. Per quella partita avevo i nervi a fior di pelle come non mi era mai successo in tutta la vita. Questa volta non era il Campo Uno, ma il Campo Centrale di Wimbledon. Il mio ingresso lì dentro significava passare alla storia... senza parlare del fatto che in tribuna erano seduti mio padre e Tony Palafox, che avevano preso il primo aereo per Londra dopo la mia vittoria nei quarti di finale. Mi tremavano le gambe e giocai malissimo il primo game: non riuscivo a sollevare le braccia, a muovermi. Braccia e gambe erano pesanti come il piombo. Rimasi come paralizzato per i primi due set, che Connors vinse senza difficoltà 6-3, 6-3. Vinsi il terzo set, però, e all’improvviso mi resi conto di una cosa: Jimmy non stava giocando molto bene. Non so se sarebbe disposto a parlarne, se sarebbe disposto ad ammetterlo, anche se sono passati tanti anni ormai, ma, secondo me, era sotto pressione perché il suo avversario era un ragazzino di diciotto anni. Ho avuto lo stesso problema anch’io: è difficile giocare contro una persona più giovane. Non si ha nulla da guadagnare in caso di vittoria ma l’avversario non ha nulla da perdere. Nulla. Uno dei problemi di Jimmy era che il mio stile di gioco gli risultava difficile da gestire: non gli concedevo il ritmo a cui voleva giocare e, al contrario di quasi tutti i giocatori che aveva ridotto in briciole, ero mancino. Una cosa però era certa: quel giorno non era nella sua forma migliore, punto e basta. Ma questo non fece alcuna differenza perché riuscii a strappargli quell’unico set. Non ero pronto a battere Jimmy. Non ancora. Dicono tutti che l’altra semifinale, quella disputata da Borg contro Gerulaitis, sia stata una delle più grandi partite di tutti i tempi (Borg vinse in cinque set tiratissimi e in seguito si aggiudicò il suo secondo Wimbledon). Io non l’ho mai vista. Fui costretto a giocare i quarti di finale di doppio misto alla stessa ora, in un campo laterale, con un pubblico di circa quattro persone. Riuscii solo a sentire il ruggito del pubblico che proveniva dal Campo Centrale.

Mary Carillo e io giocavamo contro Martina Navratilova e Dennis Ralston. Fino a quel momento non avevamo mai perso: avevamo vinto in Francia ed eravamo nei quarti di finale a Wimbledon. Stupefacente. Poi però arrivammo a 8-8 nel terzo set: Mary era a rete, io alla risposta, la Navratilova al servizio. Feci l’errore di cercare un lob sopra la testa di Ralston. Fu un pessimo lob e Ralston inchiodò Mary: la stracciò davvero. Mi usciva il fumo dalle orecchie: nel doppio misto la legge non scritta è che gli uomini non infieriscono contro le donne. Fu una cattiveria gratuita. Ancora oggi mi rifiuto di perdonare Ralston, che avrebbe potuto tirare quello smash dappertutto. Mary andò fuori di testa. Cambiammo campo sul 9-8 e ricordo di averle chiesto: «Tutto bene, Mary?». Lei mi rispose di sì con le guance rigate di lacrime. Mi sarebbe piaciuto ammazzare quel farabutto. Perdemmo. Mary era così scossa che riuscì a malapena a servire nel game successivo. Il comportamento di Ralston mi fece quasi vomitare: per me fu l’inizio della fine del doppio misto. Grazie tante, Dennis! Quando tornai da Wimbledon, venne a prendermi il mio amico Doug Saputo. Andammo a casa mia, prendemmo una birra dal frigo, salimmo in camera mia e ascoltammo Joan Jett. Doug e io l’avevamo già fatto decine di volte, ma quel giorno aveva un sapore del tutto diverso. Forse ero diverso io, forse lo era Doug: non saprei dirlo. Fu strano: lì per lì, dopo il mio ritorno, mi parve di essere la stessa persona che ero sempre stato. Giocavo ancora a basket davanti al garage di casa o a ping pong con gli amici, passavo ore con loro nella cucina dei miei genitori, bevendo latte e divorando pretzel. Ma dal momento in cui tornai, i ragazzi con cui ero cresciuto non mi permisero di sentirmi uguale a prima: almeno, la mia impressione fu questa. All’improvviso ero diventato Qualcuno, mentre loro erano rimasti delle nullità, il genere di perfetto sconosciuto che ero stato anch’io fino ad allora. A una parte di me piaceva l’anonimato, ma un’altra aveva desiderato – quasi con furia – di farsi strada nel mondo e diventare una stella. Non potevo più tornare indietro. I miei amici non sapevano come comportarsi e non lo sapevo nemmeno io. Non vedevo l’ora di chiamare Stacy. Avevo appena vissuto il momento più inebriante della mia vita e volevo condividerlo con lei. La chiamai e dissi: «Stacy, sono arrivato in semifinale a Wimbledon...» e lei rispose: «Mio padre è morto due giorni fa». Rimasi inebetito. Mi aveva nascosto la gravità della malattia di suo padre: forse sperava ancora che ce l’avrebbe fatta. Capii perché era stata costretta ad andarsene da Parigi di punto in bianco. Mi sentii male: io stavo vivendo un momento perfetto e la vita di Stacy si era trasformata in un incubo. In un momento del genere non c’è niente da condividere. Non c’è niente da dire tranne: «Mi dispiace». Quella tragedia rimise subito le cose nella giusta prospettiva.

Entrare nello spogliatoio A di Wimbledon mi mise soggezione. Mi avvicinai a Connors per salutarlo. Si rifiutò perfino di riconoscere che esistevo... 61


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uello di una Panda; Stressi nella zona più sfigata, vicino ai bagni, dove gli inservienti sono soliti ammonticchiare gli asciugamani bagnati), alla scelta delle compagne (Novari Scola pluridivorziato, arricchisce una tribù di allegre prostitute siberiane, Stressi è legato in maniera morbosa alla moglie,

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orse molti di voi lo ignorano, ma la più grande partita di tutti i tempi non si è giocata al Moody Coliseum di Dallas il 14 maggio del 1972 tra Rod “Rocket” Laver e Ken Rosewall, ma durante un’anonima serata nel mese di marzo 2012, sul campo numero 3 del Tennis Club dei Pioppi: semifinale del torneo sociale tra il dottor Attilio Novari De Scola, eminente cardiologo e primario di ChirurgiaToracica presso l’Ospedale Pio Santissimo Sacramento, e Paolo Stressi, detto “Stress”, venditore di fuoristrada usate presso la concessionaria dei fratelli Stangalini a Cesano Boscone. L’epilogo è conosciuto, sebbene entrambe le parti non manchino di proclamarsi vincitrici, tra una pausa e l’altra delle cause intentate, sia in sede civile che penale. Permane tuttavia interessante, per chi non c’era, narrare le prodromiche situazioni che hanno portato a tale degenerazione, quasi che i due protagonisti, esperti in vittorie acrobaticamente ottenute mediante trucchi degni di Houdini, avessero cercato invano di superarsi per arrivare a compiere il delitto perfetto. Già all’uscita del tabellone,dopo un sorteggio compiuto dalla mano innocente del figlio sessenne del maestro Peppiniello, era apparso a tutti che lo scontro di titani fosse imminente. Questo perché Novari e Stressi, pur dividendo lo stesso spogliatoio dai tempi di Noè, si sono sempre stati cordialmente sulle balle. Solo le auree regole del caos e della cabala, hanno evitato che, per quasi 25 anni di tornei sociali, i due non si ritrovassero nello stesso lato del draw. I nostri, non potevano essere più identici nella loro diversità. Novari, un dinoccolato stempiato di nobile famiglia napoletana,

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ineffabile nella palla corta e nell’annettersi qualsivoglia palla caduta nei pressi delle righe emettendo flautati e beffardi: «Out, che peccato!». Stressi, di operaia progenie, ammesso all’esclusivo club per motivi misteriosi, impossibile pallettaro, profeta del pallonetto a campanile (e questo dice tutto), abilissimo sgraffignatore di quindici, preferibilmente decisivi, implacabile nell’identificare il proprio segno IN e l’altrui OUT, disegnando con la punta della sua Fischer cerchi sgraziati sulla terra rossa. L’antipatia reciproca e immediata ha portato i due a differenziarsi in ogni cosa, dalla collocazione nello spogliatoio (Novari Scola nella zona riservata ai possessori di armadietto, il cui canone di noleggio annuale equivale più o meno a quello di una Panda; Stressi nella zona più sfigata, vicino ai bagni, dove gli inservienti sono soliti ammonticchiare gli asciugamani bagnati), alla scelta delle compagne (Novari Scola pluridivorziato, arricchisce una tribù di allegre prostitute siberiane, Stressi è legato in maniera morbosa alla moglie, una moretta senza lode, campionessa mondiale di abbronzatura artificiale). Giocano anche insieme i due, ma solo rigorosamente gli amichevoli doppi del sabato pomeriggio. Novari Scola con l’amico Gigetto “er portiere”, al secolo Luigi Unno, che tutti conoscete come vecchia gloria di Cagliari,Atalanta e Brescia. Stressi con il compare Amato Pecchia, detto “carte false” per la propensione al La finale «È una meravigliosa giornata a Parigi - annuncia lo speaker NBC e siamo lieti di presentarvi la finale di Roland Garros 1984 tra John McEnroe e Ivan Lendl». E via subito con la pubblicità, come consuetudine degli americani che ci ricordano che la partita “is brought to you by Xerox, Shearson&Lehman («Per investimenti È


Abbiamo chiesto al Museo di Roland Garros di farci avere la registrazione integrale della finale di Parigi 1984 che ha cambiato le carriere di entrambi i protagonisti. Le voci sono quelle di Dick Enberg e Bud Collins per la NBC. «Bonjour everyone! Il cielo è azzurro, il sole splende e un elegante folla circonda il campo centrale di Roland Garros per la finale dei French Open 1984 tra John McEnroe e Ivan Lendl» « Una meravigliosa giornata a Parigi accoglie i finalisti dell'edizione 1984 di Roland Garros - annuncia lo speaker della NBC -: John McEnroe e Ivan Lendl». Immediatamente partono gli spot pubblicitari. «The French Open is brought to you by Xerox, Shearson & Lehman («Per investimenti sicuri» sic...), American Express, Prince e Birra Miller. In un attimo le scritte sfumano e il microfono passa a Len Berman, beatamente seduto davanti al Rockfeller Centre a NYC intento nel suo breakfast con pancetta, kiwi e croissant. Berman afferma sicuro che sarà un grande match tra due giocatori che si amano poco « ma che si comporteranno onestamente», giura Mac. Finalmente si torna sul centrale di Roland Garros, quando parte una chicca: le immagini mostrano le gesta storiche dei Quattro Moschettieri del tennis francese, quindi l’ultima vittoria americana a Parigi, quella del 1955 con Tony Trabert, opportunamente invitato e intervistato: «Ero stato due anni in marina prima di tornare e vincere qui. Ricordo una grande emozione». Sul palco presidenziale, trovano spazio due Moschettieri, René Lacoste e Jean Borotra. Qualche metro più in là, Donald Budge, il primo tennista a completare il Grand Slam nel 1939. Ma è Trabert a sbilanciarsi: «Vincerà McEnroe. Ormai ha imparato a giocare anche sulla terra rossa. E il suo temperamento lo aiuterà». Mmh... non esattamente un indovino. Dopotutto le premesse per essere ottimisti, gli americani le avevano tutte. Mac aveva vinto le ultime 42 partite giocate, Lendl era ancora a digiuno di Slam. Ma ecco che i due finalisti fanno il loro ingresso in campo: McEnroe nel classico completo Tacchini con banda blu e scarpe Nike.Agita, per riscaldarsi, due delle sue Dunlop Max 200G, Lendl invece sfoggia il completo a rombi dell’Adidas, con polsino lungo e trifoglio stampato sopra. Da perfetto uomo-sandwich, porta anche un paio di sponsor sulle maniche della maglia e impugna una Adidas GTX Pro con impugnatura in cuoio e segatura nella tasca. In entrambi i casi, lo sweet spot è ancora grosso come una nocciola. Le sovraimpressioni rammentano che Mac è giunto in finale perdendo solo un set negli ottavi contro il pedalatore Pepe Higueras, così come Lendl che ha ceduto un parziale nei quarti contro l’ecuadoregno Andres Gomez. Al vincitore andranno

131.000 dollari americani, ad arbitrare Jacques Dorfmann, francese di origine tedesca. «Ready, play!». E subito Mac ci mette un minuto e 25 secondi per servire la prima palla: vuole tutti seduti, tutti in silenzio, anche i fotografi. Un segno premonitore. Dalla cabina di commento, Enberg azzarda: «Se McEnroe serve sopra il 60% è impossibile batterlo». Al terzo game arriva anche il primo circoletto rosso: una volèe in allungo di Mac, passante micidiale e volata vincente in semituffo.Ti chiedi subito: ma adesso chi adesso sarebbe in grado di giocarla? Meglio lasciar perdere. Nel frattempo, si notano alcune differenze organizzative rispetto ai giorni attuali: c’è ancora il giudice di net e non si vedono asciugamani sul fondocampo, tanto che mediamente bastano 15 secondi tra un punto e l’altro per ricominciare il gioco. In più, quando una palla è dubbia, il giudice di sedia chiede che sia il linesman ad accertarsi del segno. In oltre tre ore di partita, Dorfmann resterà sempre appollaiato sul suo trespolo. L’inizio è pazzesco: dopo cinque game ci sarebbe già materiale per due minuti di highlights. Il primo set gira nel sesto game: uno smash elementare sbagliato da Lendl e un chip&charge che non si vede più di Mac, e l’americano scappa via: 4 a 2. Quando Mac serve da sinistra, Lendl deve aggrapparsi alla prima fila laterale: così facendo, non ha chance. Intorno al campo è un fiorire di sponsor, alcuni rimasti legati a distanza di trent’anni, altri spariti: budello VS, racchette Donnay e occhiali Ray-Ban, oltre alla già onnipresente BNP, la Banque Nationale de Paris. «McEnroe si sta navratilovizzando - dice Collins -.Attacca su ogni palla come cerca di fare Martina contro Chris Evert». Sotto 2 a 5, un ace di Lendl viene chiamato out. Il cecoslovacco non ci sta e corre da Dorfmann: «Perché fai tutte le chiamate in suo favore? Hai paura di lui? Hai paura di lui? Hai paura di lui? Non fare tutte le chiamate in suo favore!». Nel suo angolo, oltre alla moglie, si scorge un preoccupato Wojtek Fibak, coach e al contempo ancora giocatore, visto che una settimana dopo sarebbe sceso in campo a difendere i colori della Polonia in Coppa Davis contro Israele. Una straordinaria volée in allungo offre a Mac il primo set.

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«Giocare a lungo questo tipo di tennis sulla terra rossa è complicato» continua nelle sue azzeccate profezie Bud Collins. È sorprendente notare come il mancino americano giochi più colpi con i piedi dentro la riga di fondocampo che fuori. Sul 6-3 4-1 e 40-15, Bud Collins suggerisce: «Con McEnroe così attaccato alla rete, Lendl dovrebbe provare qualche lob». Profetico. Vinto anche il secondo set 6-2, all’inizio del terzo McEnroe comincia a prendersela con i fotografi, rei di disturbarlo con i loro scatti. Poi con le cuffie di un cameraman. «Can you hear it?» dice a Dorfmann, riferendosi ad un improbabile rumore che solo lui riusciva ad avvertire. “Thank you Paine Webber” grida lo slogan, mentre scorrono impietose le statistiche: 27 winner per Mac, 11 per Lendl. Sullo score di uno pari, appena sbagliato un diritto d’attacco, Mac corre verso il cameraman incriminato, afferra le cuffie e tira un urlaccio nel microfono. I francesi, che non amano certe buffonate, lo riempiono di fischi. Ora, le cronache che da allora si tramandano, vogliono che questo episodio abbia determinato l’epilogo del match. Rivedendo l’incontro, crescono i dubbi. È vero che uno degli assunti più classici del giornalismo, sostiene che non si dovrebbe mai rovinare una bella storia con la verità. Ecco quindi che il Mac Furioso che perde testa e partita ha sempre fatto notizia. Non questa volta. Certo, Lendl salva quel game. Certo, Mac abbatte la sedia al cambio di campo, ma poi il match va avanti senza altre scene di isteria. Ben più gravi sono le quattro palle break mancate da McEnroe nel quinto game, di cui tre consecutive. Sarebbe probabilmente stato il colpo del knock out, che Mac ha mancato in più di un’occasione in quella partita. «Giocare a lungo questo tipo di tennis sulla terra rossa è complicato» continua nelle sue azzeccate profezie Bud Collins. Nel frattempo, Lendl che fin lì era stato uno spettatore privilegiato perché poteva ammirare da due passi un tennis d’attacco che mai si era visto prima sulla terra battuta nell’Era Open, improvvisamente inizia a centrare meglio la palla. E forse, sotto un treno, si libera delle sue paure e di quel nomignolo di Coniglio che quel gentleman di Jimmy Connors gli aveva affibbiato. Break Lendl, 4 a 2. «È una grande iniezione di fiducia per Lendl» sottolinea Collins. Ormai il match è in equilibrio. Mac non si astiene dalle magie (sul 3-4 gioca una smorzata no look, se mi credete) e presto si sparge la voce che questo match rischia di diventare epico. Nemmeno un acciaccato Henri Cochet vuole perderselo e raggiunge gli altri due Moschettieri ancora vivi, in tribuna vip.

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Intanto Lendl comincia a mostrare di aver imparato a leggere il servizio di McEnroe. O meglio, ha imparato a rispondere. Un cambio di posizione? Maggior anticipo sulla curva mancina? Macché: fa quello che faceva al principio, con quell’attitudine robotica che l’ha sempre caratterizzato. Solo lo faceva decisamente meglio. Due risposte vincenti e dopo due ore di match, McEnroe perde il sesto set della stagione su 36 match disputati. Come è possibile? Prova a spiegarlo Enberg: «Ha perso un filo di sprint, che per lui voleva dire tanto. Se è facile ammirare il suo talento tecnico, in pochi ricordano le sue qualità atletiche, per nulla banali. In più, la percentuale di prime palle è scesa al 47%». Nel quarto set, Mac prova anche ad innervosire Lendl con una frase che non deve essere stata particolarmente cordiale se il cecoslovacco si è affacciato a rete gridandogli: «Cosa hai detto?». Mac volta le spalle perché nello scontro fisico avrebbe poche chance, e intanto porta a casa il break. Per qualche minuto, la registrazione abbandona la NBC per passare sul canale nazionale francese. «Quando ti decidi a mettere una prima palla?» si chiede McEnroe prima di cedere nuovamente il servizio con un doppio fallo. Se il ribattitore risponde bene, il battitore viene messo sotto pressione e le percentuali calano” dice Jean-Paul Loth, spalla tecnica della tv transalpina. Passano tre minuti e Mac è di nuovo avanti di un break, con la prima palla ritrovata e il cartello dell’ultimo chilometro in vista. 4-2. Niente da fare: nuovamente raggiunto sul 4 pari, McEnroe manca un'altra occasione su una palla break, quando sbaglia un attacco di rovescio che non era esattamente da scuola Sat ma per nulla impossibile, almeno per un Mac in stato di grazia. La percentuale di prime palle continua a scendere fino a toccare quota 40%, e il serve&volley sulla seconda è troppo morbido. Con una volée di Mac, per una volta maldestra, e un comodo lob di Lendl, la finale si trascina quinto set. La stanchezza si fa sentire, ma non si scorgono beveroni energetici, anche se Mac abbandona per una volta l’amata Coke per un semplice bicchiere d’acqua. In tribuna, camicia azzurra, cravatta blu e cappellino NBC Sports, McEnroe Senior: «Non si aspettava di star seduto così a lungo» scherza Bud. Le statistiche segnalano 61 winner a 39 per McEnroe, ma il punteggio è di perfetta parità e l'inerzia, quella è passata dalla parte di Lendl, grazie anche ad una maggior freschezza fisica.


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Sul 2-1, palla break, un ace di McEnroe viene cancellato dal giudice di linea: «Non c’è segno - urla Mac - mi sta prendendo per i fondelli». Si salva Mac, ma gli attacchi sono sempre più corti e i passanti di Lendl più precisi. «Shut up» urla McEnroe ad uno spettatore. Poi vola il diritto e insieme la Max 200G. Ormai di rovescio Lendl passa in un fazzoletto: 3-2. Sul 3 pari, passa un altro treno per McEnroe, quando Lendl decide di sfidarlo in una gara di tocco e va sotto di due break point: «Sembra Jimmy Connors per come si incita” esagera Collins. Peccato che, per una volta, a McEnroe faccia difetto il killer instinct: un facile (facile) passante di diritto muore in rete. In quel preciso istante è chiaro come andrà a finire questa finale. Mac pare aver scalato il Tourmalet, Lendl sarebbe in grado di andare avanti un’altra mezza giornata. «Oh, the piroette» si entusiasma Collins, che pure di finali Slam ne ha viste tante, quando Lendl gira intorno ad un lob al volo di Mac e lo passa inesorabile. Lendl infila un parziale di sei punti consecutivi. Ormai Lendl passa tutte le volte. L'ennesimo tracciante di diritto vale il doppio match point. Sul primo Mac si salva con una volée acrobatica, sul secondo il patatrac. Serve bene, Mac, esterno come è solito fare da sinistra. Lendl prova a rispondere in back, ma la traiettoria si alza. Mac arriva col naso sulla rete. Deve solo appoggiare la volée di diritto a campo aperto. Invece apre troppo la testa della racchetta e la palla scivola via in corridoio. «Avrei dovuto chiuderla anche bendato» dirà poi. I numeri assicurano che McEnroe è sceso a rete 143 volte, raccogliendo 86 punti, ma sbagliando la più comoda e la più importante delle volée. Dopo

Parigi, McEnroe vinse Wimbledon e US Open, prima di disertare Melbourne. Non è azzardato dire che, avesse vinto questa partita, avrebbe fatto compagnia a Budge e Laver tra gli Slammer. Invece, visibilmente affranto, abbandona la premiazione senza dire una parola e, soprattutto, senza vedere Lendl alzare la coppa che ritiene essergli stata scippata. Il suo discorso post-vittoria non è stato scritto da un manager della comunicazione ma quantomeno ha il dono della sintesi: «Sono molto contento di aver vinto il mio primo Slam qui a Parigi.Tornerò l'anno prossimo». Bud Collins corre alla disperata ricerca di qualche vip.Trova Rod Laver: «Wimbledon è il torneo più importante, ma vincere a Parigi ti offre la sensazione di aver realizzato qualcosa di duro, di difficile». Poi, in sala conferenze, bracca il vincitore: «Non credevo che McEnroe sarebbe stato il mio più grande avversario sulla terra rossa. Per due set ha giocato un serve&volley meraviglioso, ma io volevo dannatamente vincere uno Slam e non sentire più le vostre domande su quando ci sarei riuscito». Già, ci sarebbe riuscito altre sette volte, ma nessuna ha mai avuto il sapore della prima vittoria. POST SCRIPTUM: le chiacchiere al Bar delTennis sono spesso più eleganti di quanto non accada al Bar del Calcio.Tuttavia, volano parole grosse quando si parla di G.O.A.T., del miglior giocatore di sempre. Ok, tutti d’accordo nell’affermare che un giudizio finale sia impossibile. Però, personalmente, dovessi scegliere un'ultima partita da vedere, non avrei dubbi su chi scegliere come protagonista: John Patrick McEnroe Junior da New York City. Già, meglio anche di quell'altro fenomeno di Basilea.

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I racconti di Cino Marchese

JIMMY CONNORS FUORICLASSE, USA, 59 ANNI

Ho sempre pensato che Jimmy Connors fosse nato per fare il pugile. La sua aggressività, la sua cattiveria agonistica e la sua capacità di esaltarsi nei momenti cruciali erano tutte caratteristiche che i più grandi interpreti della nobile arte dovevano avere. Vedere tutto ciò su un campo da tennis era abbastanza anomalo, ma ricordo che Rino Tommasi, grande conoscitore anche di quello sport, ne era convinto. La prima volta che lo vidi giocare fu al Foro Italico in un incontro con Jairo Velasco, un colombiano che beveva birra al cambio di campo. Connors perse ma si vedeva che sarebbe diventato un campione perché con quella grinta e quella voglia di vincere avrebbe presto imparato a non perdere più. Lo vidi trionfare a Wimbledon quando batté Rosewall in finale e poi diventare un grande rivale del mitico Borg. In quegli anni stavo cominciando la mia carriera di manager: non avevo particolari relazioni con Jimmy, ma ne ammiravo sconfinatamente le doti di grande combattente che lo trasformavano in un vero e proprio “animale”. Ricordo che la madre Gloria lo spingeva ad accentuare queste sue qualità e che la gente che lo circondava era totalmente a lui soggiogata. Il manager era Bill Riordan che organizzava anche tornei ed esibizioni; poi gli bazzicavano intorno Pancho Segura (che lo seguiva con l’aiuto del figlio Spencer) e Lornie Kuhnen, che faceva il maestro di tennis a Las Vegas e si presentava ogni qualvolta Jimmy lo chiamava. Tuttavia, erano personaggi con dei ruoli non ben definiti, anche perché se volevi qualcosa da lui, alla fine ti dovevi mettere d’accordo con la madre Gloria. Nel 1980 però la mia relazione con Jimbo cambiò radicalmente perché avevo iniziato una collaborazione con Cerruti 1881 Sport che l’amico Enrico Frachey stava lanciando dopo aver lasciato la Fila in maniera burrascosa, nonostante avesse raggiunto dei fantastici obiettivi. Frachey mi aveva contattato perché gli seguissi i progetti sportivi che riguardavano in particolare lo sci e il tennis. Aveva concluso un contratto con Ingemar Stenmark e mi disse che aveva buone speranze per mettersi d’accordo con Connors. Con entusiasmo accettai la proposta che mi fece Enrico, anche se avevo cominciato a lavorare per IMG, perché ritenevo le due faccende compatibili (anche se Sergio Tacchini non era molto del parere e iniziò con me una lunga diatriba che durò degli anni). Partecipai alla trattativa che Frachey aveva in corso con Robert Bruce che forniva a Jimmy le scarpe e alla fine trovammo un accordo. Allora i contratti con i brand di scarpe erano disgiunti da quelli dell’abbigliamento,

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ma tutti già pensavano al total look e Nastase con Adidas ne aveva dato conferma. In quegli anni si svolgeva in Costa Azzurra una ricca esibizione che si chiamava Carrè d’As che si concludeva in una plaza de toros a Cap D’Agde dove Pierre Barthes aveva un grande centro d’allenamento. Era una buona occasione per fare le fotografie a Jimmy vestito Cerruti. Erano i primi di agosto e mi trovavo all’aeroporto di Bologna con il fido (a quei tempi...) Angelo Tonelli. In macchina arrivammo a Cap D’Agde dove Pierre Barthes mi aveva organizzato il soggiorno (o meglio, sua moglie Carolyn, perché di lui c’era poco da fidarsi data la sua proverbiale sbadataggine). Ci misero in un albergo piuttosto modesto, ma poco importava, e subito ci recammo in visita al campo: l’immagine era davvero suggestiva. L’idea era stata di Renè Genestar e per anni funzionò alla grande. Jimmy era con il suo nuovo manager, Joe Rountree, un tipo strano e di sicuro amico della madre. Presi appuntamento per il giorno dopo e puntuali mi trovai nella casa che Barthes gli aveva messo a disposizione. E lì, trovai Joe intento a pulire il pavimento. Sorpreso gli chiesi cosa stesse facendo e lui mi rispose che Jimmy amava giocare con un’automobilina radiocomandata e se il pavimento non era ben pulito, la macchinetta si rovesciava e lui si arrabbiava moltissimo. Joe doveva assicurarsi che tutto fosse perfetto.Tonelli e io ci guardammo con stupore, ma poi mi resi conto che anche questo faceva parte della personalità di Jimmy. In un Paese straniero, dove non poteva guardare la televisione e non trovando passatempi di altro genere come era solito fare il suo amico Vitas Gerulaitis, lui si organizzava ad ammazzare i tempi morti con hobby un po’ puerili, ma sani e puliti. Jimmy infatti non usciva mai durante i tornei e si organizzava sempre per mangiare in camera. Nessuno lo ha mai scovato in ristoranti o discoteche e di amici ne ha sempre avuti pochi. Sua moglie Patty, famosa coniglietta che abbiamo ammirato su Playboy, è stata una compagna perfetta: gli ha dato due bellissimi figli ed è sempre stata al suo posto, lontana dagli eventi glamour. Pochi erano ammessi alla corte di Jimmy e nel circuito non ha mai avuto veri amici: l’unico che aveva accesso incondizionato era Nastase di cui amava la sua proverbiale faccia tosta e con il quale si divertiva molto, al punto da giocarci insieme il doppio. Una volta, parlando di questo argomento, gli chiesi perché avesse così pochi amici nel circuito e lui deciso mi rispose: «Come potrei essere amico di qualcuno che quando me lo trovo di fronte sul campo cerca di prendermi qualcosa che è mio?». Era la sua logica, che poi era quella che gli dava l’enorme carica


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I racconti di Cino Marchese agonistica che ha caratterizzato la sua carriera. Jimmy amava stare in casa e quando abitava a Turnberry Isle, in Florida, era tradizione che una sera gli cucinassi la pasta alla carbonara, da lui particolarmente amata. Era il periodo che seguivo tutti gli anni l’Orange Bowl di Miami e lui invitava alcuni ospiti dello stesso condominio di lusso dove abitava. Uno di questi era Lionel Richie che divenne un ospite fisso perché anche lui amava l’Italia e il nostro cibo. Alla fine del pranzo, Jimmy si metteva in cucina, lavava i piatti e rimetteva tutto in ordine. E di lavoro ce n’era molto perché la carbonara mi viene abbastanza bene, ma la cucina la lascio piuttosto in disordine! Questo era Jimmy, in privato un uomo semplice e molto legato alla famiglia. Ricordo che ebbe una crisi con la moglie, tanto che sembrava avesse deciso di separarsi. Andò dal suo avvocato che gli prospettò quali sarebbero state le condizioni del divorzio e lui, particolarmente attento coi soldi come quasi tutti i grandi campioni, si fece i suoi conti e tornò a casa dalla moglie dicendo che aveva scherzato. Jimmy è sempre stato molto legato anche alla madre che ha avuto un ruolo importantissimo nella sua carriera. Tutte le decisioni importanti le ha prese lei che ha rappresentato una presenza costante nella sua vita. Jimmy aveva una sua logica nella scelta delle persone che voleva intorno e si affezionava tantissimo quando sentiva che una di queste era in difficoltà. Un anno, a fine carriera, feci di tutto per convincerlo a venire a Roma e alla fine ci riuscii anche perché Vitas Gerulaitis stava particolarmente male e aveva bisogno di qualcuno che gli stesse vicino. Con il suo amico Nastase decisero di occuparsi di lui e lo presero sotto la loro ala protettiva. Erano alloggiati all’Hilton e conoscendolo molto bene lo marcarono a vista, senza mollarlo un istante. Una sera però, Vitas si fece prestare una Vespa e scappò. Mi telefonarono e insieme andammo a cercarlo. Lo trovammo che era quasi giorno e all’indomani Connors doveva giocare contro Massimo Cierro. Quasi perse perché aveva dormito due ore. Però dal campo mi urlava che piuttosto che arrendersi si sarebbe ammazzato. Alla fine, sotto la pioggia, vinse. Questo era Jimmy Connors, testardo e volitivo fino all’inverosimile, ma grande campione e, soprattutto, grande combattente.

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TORO SCATENATO Mi raccontava suo fratello Johnny che quando Jimmy aveva 16, 17 anni ed erano a St.Louis, tutte le sere dopo essersi allenati, uscivano e andavano nei bar più malfamati e, appena nasceva la minima discussione, Jimmy cominciava a menar le mani, che poi sfociavano in vere e proprie risse e scazzottate. Forse questo è stato un valido allenamento visto come Connors avrebbe poi impostato le sue partite. In questo modo sfogava la sua aggressività dal momento che lui sentiva proprio il bisogno fisico di fare a botte, mentre a tennis c’è una rete di mezzo a dividere i due avversari. Sono sempre stati proverbiali i suoi atteggiamenti sul campo e in particolare, ricordo un suo match al mitico Madison Square Garden dove per un certo periodo si disputò il Masters di New York. Era l’edizione del 1980 quando Ivan Lendl “sciolse” una partita per evitare di giocare con Bjorn Borg in semifinale. È sempre stata molto dibattuta la formula del round robin, il girone all’italiana, perché permette di fare dei calcoli al punto che talvolta conviene perdere una partita per ottenere un miglior accoppiamento in semifinale. Quel giorno Jimmy giocava contro Roscoe Tanner ma fin dalla prima palla cominciò a inveire contro... Lendl, dicendogliene di tutti i colori. “Sei un coniglio, un fottuto coniglio” tuonava Jimmy. Lì per lì era perfino difficile capire con chi ce l’avesse, ma poi il manager (che a quei tempi era Ray Benton) spiegò quale fosse il problema, tanto che pure il malcapitato Tanner che gli giocava contro capì che non ce l’aveva con lui. Un altro match che può spiegare l’atteggiamento di Jimmy in campo è stato quello contro Aaron Krickstein in una delle sue ultime apparizioni allo US Open quando, ormai quarantenne, giocò una partita straordinaria e ad ogni punto vinto arringava la folla come fosse un torero in una plaza de toros. La partita arrivò al quinto set e fu uno spettacolo nello spettacolo vedere Jimbo aggredire ogni palla con una determinazione unica e compiere tutti quei gesti di esultanza che poi qualcuno ha cercato (inutilmente) di imitare. Perché James Scott Connors era e rimane l’unico tennista a meritare l’appellativo di Toro Scatenato.


Jimmy Connors è nato a East St. Louis il 2 settembre del 1952. In carriera ha vinto 109 tornei di cui 8 Slam (5 US Open, 2 Wimbledon e un Australian Open) ed è stato numero uno del mondo per 268 settimane

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Amar cord

TUTTO QUELLO CHE ABBIAMO PERSO (E VORREMMO RITROVARE) DI CORRADO ERBA E LORENZO CAZZANIGA

Ai due autori di questo amarcord è successo mentre giocavano iun torneo di doppio all’Aspria Harbour Club di Milano. Di fronte a due doppisti del TC Lombardo, si son sentiti rivolgere una domanda classica negli anni 80: sapete dove possiamo trovare la segatura? Altri tempi, signori miei. GLAMOUR TENNIS: DA ANDRE AGASSI A KYLIE MINOGUE Il tennis come sport per soli gentlemen, da praticare in costosi country club, abbigliati sempre a festa? Roba da anni 50. Solo Wimbledon non sdogana il bianco e i cartelloni pubblicitari, mentre a fine anni 80 un ragazzino punk di Las Vegas si presenta in campo con pantaloncini in jeans, unghie colorate e eyeliner. Poi decide che non è abbastanza e si infila degli scaldamuscoli rosa sotto gli shorts. La Nike stravede e lo ricopre di soldi. Quando Philippe Chatrier, allora Presidente della

AARON KRICKSTEIN E LA PIOGGIA MALEDETTA

Quando a Flushing piove, e senza un tetto a coprire l’enorme Arthur Ashe Stadium, in tanti vanno in crisi: organizzatori, tv, giornalisti, spettatori. Ma nessuno come Aaron Krickstein, americano di chiara origine ebraica. Perché è in quel momento che le tv americane rimandano in loop un

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Federazione Internazionale e patron di Roland Garros, lo ammonisce per i suoi completi technicolor, gli risponde: «Quando vedrò sparire dallo stadio Roland Garros tutte le pubblicità, allora mi vestirò di bianco come a Wimbledon». Da allora, le aziende si sono sbizzarrite nel cercare di stupire gli appassionati, senza rendersi conto che uno come Agassi, con quella personalità e quel background, non nasce tutti i giorni. Al più, abbiamo visto comparire gli smanicati,

sempre grazie alla Nike, che questa volta ha scoperto come testimonial ideale un muscoloso ragazzotto delle Baleari a nome Rafael. Una moda che ha creato tanti mostri nei club, perché certi vestiti da tennis sono come gli abiti di alta moda: su Naomi Campbell stanno in un modo, sulla signora Adele in un’altra. Ora viviamo in un’epoca ricca di banalità estetiche, lontano dal classic style anni 70 o dall’originalità agassiana. In attesa che un piccolo Tom Ford si innamori del tennis. vecchio match. Anno 1991, Jimmy Connors è alla soglia dei 40 anni e negli ottavi di finale va sotto 5-2 al quinto proprio contro Krickstein. Sospinto dalla folla ed esultando ad ogni punto come avesse segnato il rigore decisivo ai Mondiali, Jimbo finì col vincere. «Ogni volta che la riguardo è un pugno nello stomaco. E il guaio è che ogni volta penso ancora di poter vincere!».


DISGUIDO ODDO, MINÀ E BISTECCONE

Ora ci parlano di SkyGo, della visione multicanale, del 3D. SkySport 24 ci ha regalato la diretta sportiva e Leo Di Bello, ma la tv di un tempo era altra roba. Dove lo troviamo un Disguido Oddo che dice: «I fratelli Pampulov sono identici, ma potete riconoscerli dai calzini perché indossano calzini diversi». Accorgersi che uno era mancino non era più semplice? E Gianni Minà che intervista Panatta al cambio di campo nella finale di Roma 1976? Ve lo immaginate Fabbretti che siede di fianco alla Errani in panchina a Roland Garros:? «Allora Sara, daje dentro e non preoccuparti che ‘sta Sharapova è solo paillettes». E poi Bisteccone, inarrivabile, che non frena la fame durante un lungo terzo set e viene beccato: «A Giampie’, er bona la pizza?»

LA BELLISSIMA JANA

Basta con le solite minestre. Lasciate perdere Anna Kournikova o Gabriela Sabatini. La tennista col maggior sex appeal, quella che correvi a vedere ovunque, era la tedesca di Halle, Jana Kandarr. Classe 1976, due gambe lunghissime da spezzare il fiato, uno sguardo che... va beh. Oh, è stata anche un’ottima giocatrice, numero 11 nel 2001. Ma non se ne accorgeva nessuno.

CARMELO BENE

Il Mago Hicham

HICHAM ARAZI È STATO UNO DEI TALENTI PIÙ CRISTALLINI ESPRESSI DAL TENNIS MONDIALE NEGLI ULTIMI 20 ANNI. NATO IN MAROCCO, SVEZZATO IN FRANCIA E CRESCIUTO ALLA CORTE DI COACH ALBERTO CASTELLANI, HA VINTO MENO DI QUANTO POTESSE. MA CI HA FATTO GODERE COME POCHI ALTRI

M

aledetti siano Chad Hurley, Steve Chen e Jawed Karim. Fossero nati qualche anno prima, YouTube riuscirebbe a fornirci immagini meno sgranate di quel match tra Marcelo Rios e Hicham Arazi, court Philippe Chatrier, anno 1997. Un concentrato di talento che raramente è capitato di vedere, se escludiamo gli Immortali. Ma se Marcelo se lo ricordano in tanti, del marocchino trapiantato infante in terra francese, qualcuno nemmeno lo rammenta. Più facile se abitate in Umbria, vicino alle colline che circondano Perugia, dove Alberto Castellani ha ospitato nella sua dimora, più di un aspirante campione, nato povero e bisognoso di cure tecniche ed economiche. Fra i tanti, Arazi è quello che ha fatto sognare di più. Magari Tipsarevic è diventato più forte, ma chi è disposto a tirar fuori 40 euro per vedere un match del top 10 serbo? Beh, per Hicham il discorso è diverso. In carriera è arrivato al numero 22 dopo aver raggiunto una finale a Monte Carlo, persa contro Guga Kuerten. Ma Arazi è uno di quei giocatori che non misuri con i numeri, con i tornei vinti, con le banali statistiche sui career-high ranking. È uno che correvi a vedere perché in cattiva giornata ti regalava cinque perle assolute. Non andavi a vedere il match; andavi a guardare lui. Succede con pochi. Il risultato era l’ultima notizia che riportavi. Restavi semplicemente sorpreso davanti ai suoi colpi, ma addirittura attonito quando tirava il rovescio. Spesso lo affettava in back, ma era quando lo tirava in top che ti lasciava a bocca aperta. Una presa aperta, quasi girata verso quella del diritto; e poi, bam, un ricciolo col polso che, accompagnato ad un timing perfetto, faceva uscire traiettorie impossibili., con anticipi degni del (miglior) Supermac. Ha vinto poco, ma chissenefrega.

Sarei disposto ad avere 37 e 2 di febbre tutti i giorni in cambio della seconda di McEnroe 75


Amar cord

The Volleyer ROBA DA WWF: IL TENNIS SERVE&VOLLEY È SPARITO E NON CI RESTA CHE RIMPIANGERE DEI VIRTUOSI COME PATRICK RAFTER. CAPACE DI UN TENNIS AFFASCINANTE QUANTO IMPOSSIBILE

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era anni gli hanno giusto invidiato la fidanzata, Lara Feltham, diventata Rafter solo nel 2004. Una di quelle modelle da eiaculatio precox. Perché Pat mostrava i muscoli tipici degli australiani doc, ma non lo stile, almeno sul campo da tennis. La madre deve esser euna tipa tosta se ha sfornato nove figli; Pat è stato il settimo e non è cresciuto esattamente al West Side di Sydney. Si allenava su un campo in cemento rabberciato, dove era meglio non far rimbalzare troppo la palla, tante erano le buche. Sarà per questo che ha sviluppato sin da ragazzo un naturale istinto all’aggressione, che nel tennis si traduce in tre paroline ormai scomparse nel nostro vocabolario: serve & volley. In realtà, Pat faceva di necessità virtù. Se nel corse della sua carriera è riuscito a costruirsi due fondamentali da fondo quantomeno discreti, da ragazzo sembrava la copia di Yannick Noah, meno abbronzato, per dirla come il nostro ex capo del Governo. Il diritto era così lavorato che non avrebbe fatto male ad un under 12; il rovescio un pianto, giocato col gomito in fuori (come accadeva anche a Stefan Edberg, con risultati un filo diversi) e senza risucire a imprimere né forza, né rotazione esasperata. Per sua fortuna però, negli anni 90 c’erano ancora abbastanza campi in erba in Australia, da fargli capire come il rovescio in back sarebbe potuto essere la panacea di tutti i mali. Sarebbe sceso a rete dietro ad uno straccio, figuriamoci ad un back che, quello sì, filava via veloce e si alzava mezza spanna. Poi, una volta giunto nei pressi della rete, Ralph Malph si traformava in Arthur Fonzarelli. Per passarlo ci voleva un miracolo. O Andre Agassi. Non era uno stiloso, un compassato della volée. Era più un funambolo, un acrobata. Faceva valere indubbie qualità atletiche, e anche in questo ricordava da vicino Noah. A differenza del francese però, sapeva toccare decisamente meglio. Parava meglio di Buffon, grazie a riflessi prontissimi. La volée era secca, decisa, perentoria, come insegnano da

sempre Down Under. Hoad, Rosewall, Laver, Roche: tutta gente dal polso fermo, non sono come stile di vita, ma proprio tecnicamente, nell’esecuzione dei colpi al volo. Così era Pat Rafter che sviluppò anche un colpo nuovo: lo smash di rovescio. Già, perché parlare di Veronica non sarebbe corretto. Panatta la giocava di classe, giocandola stretta stretta («Tutti sapevano che la tiravo lì, nessuno la prendeva»); Patrick era più rozzo ma nessuno ha mai tirato così forte al volo dal lato del rovescio. Era anche un tipo naif, questo australiano rozzo diventato elegante a furia di frequentare l’Europa e non solo il bush dei Territory. Una volta, perso malamente al primo turno di un torneo francese, rifiutò l’ingaggio: «Oggi non ho fatto un buon lavoro, non merito di essere pagato». In carriera è stato numero uno del mondo (1999) e ha vinto due Slam, sempre a Flushing, dove nel 1998 ha sconfitto nella sua partita più bella l’odiato Pete Sampras. Ai tempi, Rafter doveva rappresentare un avversario coi fiocchi, se pure l’annoiato Sampras divenne brusco: «La differenza tra me e Rafter? 11 Slam...». Perse l’ultima finale importante a Wimbledon 2008, regalando il sogno a Goran Ivanisevic. Da vero, quanto involontario, gentleman.

UNA VOLTA GIUNTO A RETE, RALPH MALPH SI TRASFORMAVA IN ARTHUR FONZARELLI. PER PASSARLO SERVIVA UN MIRACOLO. O AGASSI. 76


Il Principe della racchetta HOWARD HEAD HA RIVOLUZIONATO DUE SPORT, SCI E TENNIS, INTRODUCENDO NUOVE FORME E MATERIALI. A PARTIRE DAL MITICO RACCHETTONE PRINCE DA 110 POLLICI QUADRATI CHE HA FATTO LA FORTUNA DI AGASSI, CHANG E SABATINI. IL TUTTO PER COLPA DI UNA BRUTTA SCIATA NEL VERMONT NEL 1947 E DI UN ROVESCIO CHE NON NE VOLEVA SAPERE DI FUNZIONARE

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urante l’inverno del 1947, Howard Head, un ingegnere della Glenn L. Martin, andò a sciare con qualche amico a Stowe, nel Vermont. «Un’esperienza umiliante e disgustosa» ricordò una volta Howard. Nel viaggio di ritorno verso Baltimora, diede la responsabilità di tale insuccesso «a questi sci così lunghi e pesanti». Si convinse che non aveva senso fossero ancora costruiti in legno, ora che l’ingegneria aerospaziale aveva fatto passi da giganti: «Se il legno fosse il materiale migliore, ci farebbero pure gli awrei” sentenziò. Da lì’ nacque una vera e propria rivoluzione tecnologica nell’attrezzatura di questo sport. Per nulla soddisfatto, alla fine degli anni Sessanta, si appassionò al tennis, per scoprire che era dotato... come per lo sci. Il maestor gli consigliò di affidarsi ad una macchina lanciapalle che lui rivoluzionò a tal punto da renderla la più venduta degli Stati Uniti. Quella macchina lanciapalle portava il marchio Prince, che ben presto decise di annettere tra le sue proprietà. Howard si convinse che anche le racchette non esprimevano il loro potenziale. In particolare, lo infastidiva come si muovevano nell’aria, con una tale turbolenza da cambiare traiettoria al gesto e quindi alla palla. Partendo da un preciso principio fisico, stabilì

AI SUGIYAMA

che un ovale maggiore avrebbe reso la racchetta più stabile. Per mentenere determinate proprozioni, la allungò anche di tre inches. Abituati com’erano, a veder racchette da 85, 90 pollici quadrati, un 110 square inches pareva una bestemmia. I tecnica erano scettici: «Fallirà in un amen» disse il più benevolo. Quando nel 974, tra le mani di Pam Shriver, arrivò alla finale dello US Open, tutti dovettero ricredersi. Quello che comunemente definiamo racchettone, divenne una consuetudine dell’epoca, tanto che diversi campioni negli anni 80 e 90 l’hanno sfruttata. Tra gli altri, ricordiamo un giovane punk come Andre Agassi, la graziosa Gabriela Sabatini, un imberbe Michael Chang. Head era famoso per la sua devoxzione verso il lavoro: “In molti mi giudicavano solo un arrogante. Ma per creare qualcosa di rivoluzionario bisogna essere dei perfezionisti. L’idea di un’invenzione è solo il 5% del percorso; renderla pratica è l’altro 95%. E perseverare fin quando non funziona al meglio”. Con lui non funzionò: rimase sempre scarsino e la Shriver ricorda che questo lo innervosiva parecchio. È scomparso nel 1991. Da allora sono nate tante altre racchette. Ma nessuna che abbia mai rivoluzionato il gioco come la sua prima creatura.

«I can buy Coke by myself» all’organizzatore di un torneo che le offriva 5.000$ per giocare 77


Amar cord

I QUATTRO MOSCHIETTIERI ITALIANI Quanto ci piacerebbe tornare a vivere un’altra emozione simile! Certo, Francesca Schiavone ci ha fatto riassaporare la gioia di una vittoria Slam, ma il tennis femminile (ahinoi) non muove le folle. Avere un Alberto Tomba o un Valentino Rossi ci farebbe vivere un ulteriore boom. E ancor di più un poker d’assi come quello nella foto, reduce dalla vittoriosa campagna cilena che ci ha regalato la nostra unica Coppa Davis. Un bel quartetto, anche perché piuttosto eterogeneo.

Da una parte il talento di Adriano Panatta (e il suo indiscutibile savoir faire) e di Paolo Bertolucci; dall’altra l’agonismo e la voglia di lavorare di Corrado Barazzutti e Tonino Zugarelli. A guidarli, capitan Pietrangeli, ma (ancor di più) una figura mitica che purtroppo è scomparsa e non è mai ricordata abbastanza: Mario Belardinelli. I nostri Quattro Moschettieri (Panatta in testa) sono i primi a riconoscere che senza di lui, l’Italia non avrebbe mai vissuto l’epoca d’oro del tennis.

Il Cuore di Milano

DAL PALASPORT CROLLATO AL PALATRUSSARDI, DAL FORUM DI ASSAGO AL PALALIDO DI PIAZZALE STUPARICH. FEBBRAIO A MILANO VOLEVA DIRE TENNIS. SON PASSATI TUTTI: MCENROE, BORG, CONNORS, FEDERER, BECKER, CASH, NOAH... E I RICORDI DEL NOSTRO CORRADO ERBA

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h, i Milano Indoors! Che si chiamassero Cuore Cup o Stella Artois, per noi paperini era appuntamento fisso. Si bigiava per mattine interminabili, fatte di Van Patten, Bill Scanlon e Johan Kriek, giocatori esotici e abbronzati. Il circuito non era ancora globale, l’informazione frammentaria. I giocatori erano inarrivabili globetrotter: si guardava il tabellone e si indovinava chi era l’uno e chi l’altro, finché i big non entravano in campo. Del Palazzone ho ricordi confusi: tribune lontane, odori di pizzette, tal Eric Korita che sembrava uno dei Chips che quasi mi fa fuori Wilander, la scappata a San Siro che era a due passi.Venne la grande nevicata del 1985 e non ci voleva un genio per capire che il grande velodromo sarebbe collassato. Il torneo si traferì in piazzale Stuparich. Programma della serata: Ocleppo contro Cash, McEnroe contro un tedesco tutte gambotte, tal Becker. Ocleppo vinse, poi venne McGenius. Ricordo due set abbastanza veloci. Mac pennellava, l’altro sembrava uno Stukas, scendeva veloce e cannoneggiava. Vinse Mac, «ma quello li è forte» sussurrò qualcuno. Le qualificazioni le giocavano alla fu Accademia del Tennis di Novate Milanese. Sotto un pallone scuro vidi passare uno dei miei preferiti,Thomas Hogsted, svedese pelatino e bassetto, che divenne un aficionado del torneo senza ricavarne molto, se non i miei applausi.Venne Cabassi e il torneo passò al Forum, che allora sembrava cosi avveniristico che lo chiamavano “L’Astronave di Milanofiori”. Al Forum era un intrico di corridoi e porte segrete, imparai a giostrarmi angoli e buttafuori e la player’s lounge non fu più un miraggio, per un abusivo come il vostro.Vidi Yannick che sfumacchiava mentre le bionde languivano, Boris con la monegasca Benedicte, Mac che beveva sempre coca e ghiaccio a bordocampo. Sgraffignai una felpa con la scritta “ATP TOUR” e la usai senza posa. Il villaggio impazziva di personaggi: se a Roma era tutto fatuo e democristiano, Milano scintillava. Calciatori, starlettes, i profumi del buffet per me inarrivabile, battute con Diego Abatantuono, Milly Carlucci e le poppute del

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Drive In. Giocava bene Omar. Ricordo il match ball: Goran decide che è meglio farla finita con stile, appoggia un pallonetto fiacco su cui l’amico Omar si appoggia per l’apoteosi finale, con la Lea onnipresente e i venditori di Ramazzotti in tribuna. Il torneo passò poi al Palatrussardi. Blandisco il babbo per avere un mazzo di biglietti omaggio che lui baratta con un biglietto di prima classe per l’organizzatore del torneo: box in prima fila! C’è anche Jimbo che non impugna più, con mia delusione, la mitica T2000, ma un’anonima Slazenger bianca. Fa il suo dovere ma in finale la schiena fa crack e adios. Il torneo langue a Londra per un paio di anni. Provano con il femminile, ma ricordo solo una bella Gigi Fernandez. Quindi tornano i gentiluomini, nel piccolo Palatrussardi, ma i giganti sono gli organizzatori: Franco Bartoni (che ci manca assai) e Cino Marchese che sembra Adolfo Celi e cosi tratta i giocatori, come il governatore di Mompracen contro i pirati: abbracci e pistola, tutti vogliono venire a Milano. Finalmente, grazie a Stefano e Daniele, passo da abusivo a regolare: la sala stampa è nel sottoscala, Direktor Cazzaniga regola il traffico. Oltre che nell’arena, si gioca anche nella palestra dell’Olimpia Milano, il campo dei puffi. Mi sembra di stare nel salotto di casa mia, dentro però vedo un ragazzino magro dall’aria sufficiente, gioca il rovescio classico più pulito della storia. Ah, Rogerio! Vedo anche la pulizia del gesto di Sanguinetti che batte il piccolo Golia svizzero: il Palalido sembra la Bombonera di Buenos Aires. Torno appena in tempo da Melbourne per vedere l’ultima edizione.Vince un lungagnone, Robin Soderling, che batte uno somigliantissimo a Omer Simpson ma più talentuoso, Radek Stepanek. Clerici gli mette in mano una vecchia Jack Kramer e gli dice: «Tu puoi giocare anche con questa». «Tu no» accenna invece allo stralunato svedese. L’ultimo ricordo che ho è l’arena ormai buia. Nel campo vuoto palleggiavano due raccattapalle, ticchettavano i fari appena spenti, sentivo l’eco di un palleggio sghembo. Uscii senza sapere che sarebbe stata l’ultima volta.


Facce da tennis TUTTI ABBIAMO TIFATO PER TIZI IMPROBABILI. LO SPORT NON È SOLO LA CASA DEI FUORICLASSE, MA ANCHE DI GIOCATORI CHE CI HANNO COLPITO PER QUALCHE RAGIONE. SPESSO POCO COMPRENSIBILE. DI SEGUITO UNA CARRELLATA. LA BELLA AMANDA COETZER (CHIEDERE AD ANGELO MANGIANTE A TRIGORIA), JAN-MICHAEL GAMBILL (CHISSÀ CHE DIREBBE CASSANO), I FRATELLI BIANCHI CHE SI CHIAMAVANO BLACK, UNA BELLA SVIZZEROTTA DI NOME MIROSLAVA...

INDOVINA CHI SONO...

In alto da sinistra: Jan-Michael Gambill, Alexander Popp, Amanda Coetzer, Anastasia Myskina, Byron Black, Wayne BLack, Albert Portas, Bohdan Ulihrach, Yung-Taik Lee, Irakli Labadze, Anke Huber, Ivo Heuberger, Julien Boutter, Barbara Schett, Paradorn Srichaphan, Nicolas Lapentti, Iroda Tulyaganova, Todd Woodbridge, David Prinosil, Miroslava Vavrinec, Vincent Spadea, Taylor Dent, Iva Majoli, Sargis Sargsian, Rossana De Los Rios, Stefan Koubek, Mariano Zabaleta, Thomas Enqvist, Dominik Hrbaty, Wayne Ferreira.

DAVID DINKINS, sindaco NYC

«Il tennis non è una questione di vita o di morte. È molto di più» 79


I L R I T R AT T O

SEPPI da Caldaro MARCO BUCCIANTINI photo by MARCO DE PONTI

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«Sei come le voci della terra, il tonfo di una mela». Chissà Pavese, da queste parti, fra questa gente. Il suo sguardo che allacciava la vita alla natura, le pietre, le vigne, l'acqua viva fra i rovi che vedeva in uno sguardo. Sulla strada del vino c'è un ragazzo alto e biondo, con le gambe lunghe e magre, più esili rispetto al tronco che è asciutto ma robusto, le spalle muscolose e appena chiuse in avanti, le braccia sviluppate per il mestiere, come fosse un contadino, e che tutti conoscono perché fu il primo caldarese a vincere un campionato regionale di Slalom Gigante, in una storica sfida a Nova Levante. Aveva 13 anni e batté tutti, quelli di Selva e quelli di Canazei. Quel giovanotto è adesso numero 24 della classifica mondiale dei tennisti, avrebbe argomenti per rimpolpare quella piccola notorietà di sciatore mancato, «ma è cambiato poco o niente», dice lui, Andreas Seppi. 81


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avvero, bisogna abbottonare insieme questi vigneti che disegnano la terra con le persone che ne raccolgono l'uva. E ascoltare le allodole cantare insieme ma più forte degli altri uccelli, e dei pochi sussurri dell'uomo, che non spreca una parola. Così come non esiste – a perdita d'occhio – un metro quadrato di terra che non sia sapientemente curato e sfruttato. Fra tutti gli uomini, Hugo è uno che parla ancora meno. Ricordano due frasi, in questa bella casa che fu prima dei nonni, con un terrazzo abbracciato dai gerani e che si affaccia su tutto quello che è possibile vedere – l'acqua del lago, la montagna, l'uva, la frutta, la strada che sale e scompare, il paese – e dove è nato il nostro tennista. Andreas e sua madre Maria Luisa ricordano, di Hugo Seppi, una battuta e una frase preoccupata, entrambe strette a due momenti decisivi della storia normale – che si è fatta importante – di Andreas, un boccone di pane. La prima fu 17 anni fa, quando Massimo Sartori venne a insegnare tennis e voglia di vincere nei sette campi di Caldaro, incastonati e mimetizzati dentro il bosco di Monticolo. Si portava dietro un po' di conoscenze e di ambizioni, e anche uno spiccato accento veneto, lui vicentino. Hugo ne afferrò i vantaggi: «Se non gli insegna a giocare a tennis, almeno gli insegna l'italiano». Fra il passo della Mendola e il delizioso lago di Caldaro parlano tedesco, pensano in tedesco, sognano in tedesco. In queste zone ha più tifosi il Bayern Monaco del Milan. Anche Andreas sogna in tedesco, «ma quando gioco, quando sono in campo, curiosamente le frasi che penso sono in italiano. Forse perché ripasso mentalmente e letteralmente ciò che abbiamo studiato con Max». Gli piace assorbire quanto programmato prima dei match, e vederlo riuscito: «Pensare uno schema e capire poi che si realizza e produce punti, questo mi dà soddisfazione. Ma se devo scegliere un colpo con cui chiudere l'ultimo punto della partita della vita, vorrei fosse con un rovescio lungolinea: quando lo gioco bene, mi sento forte. Certo, il colpo al volo è più emozionante, è un attimo di adrenalina, di tensione, di aria che trema, la paura di colpire male, l'esaltazione di vedere la palla andare dove credevi di metterla. Vorrei frequentare di più la rete, è nei propositi, ma poi in campo non mi viene automatico. Sarebbe utile accadesse per muovere la partita, mettere pressione all'avversario, tenerlo indeciso su quanto può succedere». UNA SCELTA DI VITA Torniamo a Hugo, alla seconda volta che parlò a proposito di suo figlio e il tennis. «Con una voce profonda, di tempi perduti» (ancora Pavese). Andreas aveva 16 anni, colpire quella palla centinaia di volte al giorno non era più un esercizio per crescere sano, o un tentativo di diventare bravo: era una scelta di vita. «Devi essere serio, andare fino in fondo, crederci. Non è più un divertimento: è un lavoro, e devi viverlo come tale. Noi non possiamo aiutarti». Ma Andreas aveva già scelto, perché il primo – e più importante – segno di una scelta è per forza una rinuncia: o il tennis (e dunque le quote sociali, i soldi per le trasferte, le spese per indumenti e racchette) o il motorino. «Non ho mai avuto un motorino: lo volevo, come gli altri ragazzi, ma volevo ancor di più giocare a tennis».

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ANDREAS SEPPI Nato a: Caldaro, Bolzano Il: 21 febbraio 1984 Residenza: Caldaro, Bolzano Altezza: 1.90 m Peso: 80 kg Coach: Massimo Sartori Best Ranking: numero 24 ATP Titoli vinti: 2 (Eastbourne 2011 e Belgrado 2012) Miglior risultato Slam: ottavi di finale Roland Garros 2012 Career prize money: 4.023.718 $

Non erano anni facili. Si campava del lavoro di Hugo, che portava (porta ancora) il camion in giro per queste strade silenziose e la sera, quando torna e se c'è ancora luce, va fra i vigneti a controllare e curare, allontanare insetti, valutare il piccolo vitigno di Muller-Thurgau e la vendemmia più “grossa” che è quelle del rosso. La vendemmia d'oro è quella di Andreas: «Ma i soldi che guadagna sono suoi», informa mamma Maria Luise. Lei, quel poco che aveva lo scommise tutto sul figlio. «I tornei si facevano fitti, importanti, lontani, costosi. Le quote aumentavano. A Hugo dicevo: non ti preoccupare, sta pagando la Federazione». Mentiva al marito: «Erano soldi nostri, li guadagnavo di giorno, cucendo a macchina per i compaesani, orli e lavori più complessi. Lavoravo anche di notte e poi davo i soldi ad Andreas, per farlo giocare». Il numero 24 del mondo guarda la madre. Pensa, ricorda, serra le mascelle. Poi sorride, come sempre. «Non ricordo di essere mai stato in pizzeria con i miei: non si sprecava niente». L'ESEMPIO DEL KAF Sono passati un po' di anni e si può parlarne perché tutto è tornato indietro e di ogni sacrificio è rimasto in bocca un sapore dolce. Poteva diventare uno sciatore, un giocatore di hockey, «anche un calciatore: non ero male, ma la squadra era un pianto, ogni domenica una sconfitta. Io invece volevo decidere da solo come finiva la partita. E per dirla tutta, il tennis era più gestibile: lo sci mi piaceva, adoravo Tomba, ma imponeva la sveglia all'alba, i trasferimenti in quota all'Alpe di Siusi, le mattine al gelo». Arrivò Sartori e fu, anzitutto, un fatto nuovo: la fatica di trattenere un linguaggio: «Le prime lezioni non capivo niente». Però colpiva bene, soprattutto con il diritto. «Il rovescio era scarso. Allora Max mi regalò una sequenza fotografica di Evgenij Kafelnikov, la sua fluidità nel colpire dalla parte sinistra. Il Kaf divenne il mio idolo, ho ancora questa foto didattica in camera», lo dice e ci accompagna nella stanza più confusionaria che si ricordi, un magazzino, «ma io ormai vivo in casa con Evelyn, qui mi appoggio e basta», e ride del suo disordine. Ci sono foto di Hugo da giovane e sembra uno scherzo del tempo: è uguale al figlio (che negli scatti da bambino è identico a qualsiasi kind). Quando parla, Seppi ci tiene a farsi capire. È incerto del suo buon italiano, ripete, cerca sinonimi, esempi, ricordi. Non fugge mai, tutto diventa semplice, il fotografo lo impegna in almeno quattrocento foto, lui ripete lo smash, serve quello scatto, e ricorda al suo manager amico Cazzaniga di un servizio fotografico fatto in Svizzera, a meno dieci gradi, in pantaloncini corti, le labbra viola dal freddo. Si avvicina al piccolo monitor e controlla di persona il risultato: «Facciamone altre, non si sa mai». QUEL CASCAMORTO DI ANDREAS... Ci aveva ricevuto la mattina, mentre stava facendo defaticamento sulla cyclette nella palestra del club, uno spazio piccolo che ricorda le stanze di addestramento dei pugili degli anni cinquanta. Qui è tutto sobrio e tutto dimensionato. La casa più alta è di due piani, e in palestra con Andreas, a pedalare proprio accanto, c'è Tania, una ragazza bruna. Quando Andreas va a fare la doccia (e il fotografo lo segue anche lì), ci avviciniamo a Tania, per conoscere l'emozione di allenarsi accanto al tennista italiano più fa-

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moso del momento. «Ah, era lui? Ne ero convinta, ma non ho chiesto niente. Siamo stati qui mezz'ora, lui non ha aperto bocca e nemmeno io». Ecco il mondo di Seppi. Pressioni: zero. Per essere chiari: il giorno in cui noi eravamo davanti alla televisione, esaltati, ansiosi e poi sofferenti per qualcosa che stava per accadere ma che Djokovic ha infine impedito, Evelyn era davanti allo schermo ma abitata da sentimenti opposti: «Mi ha semplicemente detto che aveva cambiato lenzuola e coperte, e pulito la casa, sicura del mio rientro. E che le sarebbe seccato se non fossi tornato...». Lei è impiegata in un mobilificio in Val Gardena, non fa la fidanzata del campione, non sta sulle tribune a prendere il sole e farsi inquadrare: lavora. Organizza il futuro insieme al suo ragazzo, conosciuto quattro anni fa, e un po' snobbato all'inizio, come ricorda lui: «La vidi a una festa, perché mi piacciono le feste, potessi le bazzicherei più spesso. Lei era con le sue amiche, io con i miei amici: situazione classica, forse troppo. Sapeva che giocavo ma non era certo il tennis l'argomento giusto per conquistarla. Mi avvicinai e mi prese per uno che ci provava». Seppi che fa la figura del cascamorto, insomma. «Mi allontanò. Ci riprovai: stesso risultato. Terzo tentativo, terzo palo. Anzi, nastro. Al quarto rifiuto, ho mollato». Il giorno del 24esimo compleanno succedono due cose impreviste: Seppi batte Nadal a Rotterdam, in rimonta, con tutto il palasport che gli canta «Happy birthday to you» e sul telefonino arriva un messaggio d'auguri da Appiano, il paese che confina con Caldaro, sempre sulla strada del vino. Un sms firmato Evelyn: «Un messaggio carino, si era ricordata di me». Il quinto tentativo andò meglio. «Lei pianifica, fa programmi, cerca d'inquadrare la mia vita incasinata e di trovarci un po' di logica e di spazio. Adesso viviamo insieme, ma ormai mi alleno a Bordighera e gioco dove capita, in giro per il mondo: a casa sto poco. Peccato, rimedierò». SERIETÀ E SERENITÀ Nel frantoio delle stagioni, Seppi sa che questo è il tempo perfetto. Ci è arrivato con «serietà e serenità», le due qualità che Sartori sottolinea, cercando di fare il possibile, sempre. Hugo voleva il diploma prima di tutto, e Andreas è ragioniere, «ma la scuola mi annoiava, specie da grande. Alle Medie era più divertente, insieme agli amici. Poi ho finito per dovere perché pensavo solo al tennis. Ma il diploma ce l'ho, 74/100, e non sono mai stato bocciato. Senza questo sport magari avrei continuato, mi vedevo bene in un college, all'americana: studio e feste, sono curioso della vita in gruppo, lo stare insieme a fare cagate...E una virtù ce l'ho: parlo tre lingue, capisco anche lo spagnolo e

il francese. Posso permettermi di prendere in giro anche Federer, che parla un tedesco dialettale e rozzo. Lui lo sa e ride. È un'altra cosa, Federer. Essere stati suoi contemporanei è una fortuna: quando a uno di noi capita di potersi allenare con lui, alla fine gli chiediamo di fare una foto insieme». Le lingue, allora. La curiosità, i soldi. «Tutto questo mi servirà, dopo. Ma dopo è lontano, voglio fare il tennista a lungo. È ancora il mio mestiere, un lavoro fortunato, sto vivendo il mio sogno. Poi vorrei restare in questo ambiente, è il mio. E tornerò nei posti dove sono stato, per rivedere tutto, con Evelyn, con calma perché adesso è tutto veloce. L'Australia è il mio viaggio preferito: lo spazio, la natura e le città, il mare, la vista che può allargarsi a panorami immensi e vari. E poi sarà bello rincasare, tornare a pattinare sul lago d'inverno, quando è ghiacciato e nuotarci d'estate. Non potrei vivere senza questi profumi della terra e della natura, l'odore del bosco quando piove. E mi piace questa gente laboriosa, che affronta i problemi e cerca di risolverli, senza lamentarsi troppo, né aspettare l'aiuto di chissà chi». Alligna il pregiudizio, dentro questa rivendicazione: «Gli altri scherzano, però insistono sempre sulla solita immagine italiana, pastasciutta e mafia, quante volte l'ho sentito ripetere. È fastidioso ascoltarli, ma facciamo fatica a uscirne fuori». UN DESTINO MIGLIORE Tutta questa strada per sapere come un ottimo tennista sia riuscito ad elevarsi a livello dei migliori, a volte batterli, riuscendo comunque a duellare anche con il numero uno del mondo. Può piacere o no, ma dentro lo scambio Seppi vale i primi dieci giocatori del mondo, e nei colpi d'inizio gioco è migliorato: la risposta è più coraggiosa, il servizio più importante. «Io resto sereno, non mi faccio problemi anche se perdere mi secca, più di prima. Penso che siano cambiate tre cose, tutte conseguenti: sono più convinto, e così gioco meglio i momenti decisivi. Poi – lavorando con Dalibor Sirola, il preparatore atletico croato che condividevo con Ljubicic e che adesso è tutto per me – sono più elastico, ruoto meglio la spalle e mi allungo con più naturalezza, e questo mi aiuta nell'esplosività del servizio e nei recuperi. Ma la novità più importante è che grazie a questo lavoro vinco più partite, e vincere è il miglior allenamento del mondo: ti toglie i dubbi dalla testa». Dovevamo chiedere e ascoltare queste cose pratiche perché cercare i piccoli avanzamenti, e rintracciare la voglia di costruirsi un destino migliore, era in fondo il motivo di questo viaggio. Poi c'era altro: un lago, un bosco, il gusto per le cose che si hanno intorno, la semplicità di amarle.

Seppi guarda la madre. Ricorda e serra le mascelle. «Non ricordo di essere mai stato in pizzeria con i miei: non si sprecava niente». 86


«Devi essere serio, andare fino in fondo, crederci. Non è più un divertimento: è un lavoro, e devi viverlo come tale. Noi non possiamo aiutarti» Hugo Seppi

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M A R I A S H A R A P O VA

The Queen

TEXT BY Andrea Scanzi PHOTO BY Nathaniel Goldberg LOCATION Phoenix, Arizona, Stati Uniti STYLIST Becks Welch @ The Wall Group HAIRÂ Adir Abergel @ Starworks Artists MAKE UP Kara Bua @ Tracey Mattingly PHOTO SHOOTING for TAG Heuer 89


Maria Shaparova, la tigre siberiana, è tornata numero 1 al mondo. venticinque anni, ha completato il Career Slam: Una vittoria in o gni Slam, in anni diversi. Wimbledon nel 2004, US Open nel 2006, Australian Open nel 2008, Roland Garros nel 2012. E poi un Masters (2004), ventisette tornei vinti, 16 finali perse (di cui 3 negli Slam e una al Masters). Ma è un bene che sia tornata in auge? Il tennis femminile ne guadagna? Dobbiamo esserne contenti? Ecco 5 motivi, non necessariamente tecnici e rigorosamente soggettivi, per gioire. E altrettanti per non esserlo. 1) LA FAVOLA DI CHI SA RIALZARSI PIACE SEMPRE Dopo il grave infortunio alla spalla, in pochi avrebbero scommesso sulla Sharapova. I quattro anni di digiuno di vittorie Slam sono principalmente legati ad un fisico telegenico ma delicatissimo. Qualcuno la ricorderà al rientro, 2009, Varsavia. Giocava con Tathiana Garbin e faceva serve and volley quasi sistematico – lei, serve and volley quasi sistematico – per abbreviare l’agonia e puntare sull’effetto sorpresa. O, più ancora, sul balsamo della teoria del caos. Fragile, smarrita, confusa. Doppi falli come se piovesse. Partite, già vinte, buttate via. Sconfitte con avversarie che nel 2006 avrebbe triturato. Per una campionessa che si era vantata di presentarsi come cyborg agonisticamente efferato, una nemesi spietata. Che le ha fatto guadagnare un po’ (un po’: non molto di più) di simpatia tra i molti detrattori (esteti, soprattutto). È tornata dove aveva lasciato. E dove non era per nulla scontato rivederla. 2) LA MERITOCRAZIA ESISTE. FORSE Maria Sharapova, al netto dei gusti personali che peraltro non hanno mai fatto ranking, merita la posizione numero uno. È la migliore, o meno peggiore, del tennis femminile contemporaneo. E non è colpa sua se qualcuna ha smesso e altre girano a metà regime. Non ha forse toccato i livelli deluxe di qualche anno fa, ma è parente stretta. E questa Sharapova basta e avanza alle Azarenka e Kvitova. 3) FEMME FATALE (NEL TENNIS) La Sharapova non scende in campo per giocare, e neanche per vincere. Scende per sbranare. C’è, in lei, un desiderio compulsivo e ossessivo per il trionfo che – Freud e Jung permettendo – spiega in buona parte i suoi successi. Il suo ritorno. Il suo dominio. La WTA è spesso il regno dei nervi tesi. La Sharapova, al contrario, non ha pietà. È femme fatale molto più nel tennis che nella vita (e non lo si scrive perché memori del pettegolezzo dispensato dal cantante dei Maroon 5 ed ex quasi-fidanzato, che in un’intervista assai poco elegante la definì frigida tra le lenzuola). Maria non trema, o lo fa meno di altre. Forza mentale granitica. Il romanticismo è altrove, ma i romantici hanno quasi sempre un palmares che langue.

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4) NON È LA KOURNIKOVA (PERÒ) La comunicazione, non solo italiana, vive di clichè. È malata. E spesso maschilista. Per questo, sin dall’inizio, la Sharapova ha fatto notizia anche (o soprattutto) per la sua avvenenza: le gambe lunghe, il biondo crine, i flirt veri e presunti. E giù di articolesse e gossippate. Qualcuno l’ha paragonata alla Kournikova, che è un po’ come paragonare i Led Zeppelin ai Cugini di Campagna (anche se la Sharapova non sarebbe mai né gli uni né gli altri: casomai i Bon Jovi, o Madonna). È però un fatto che, abituati e oltraggiati dalle Kuznetsova e Kanepi (aaaahhhhhh) varie, la Sharapova sia oggettivamente un bel vedere. E questo non spiace. (Di solito, quando si scrivono frasi così, le femministe si arrabbiano subito. Per questo vanno scritte). 5) CARISMA & DUELLI Il tennis, come tutti gli sport, vive di grandi rivalità. Se giocano le Wozniacki e le Radwanska, il pathos è ai livelli di una gara di briscola al Centro Anziani di Vitiano. Più sbadigli che set point. La Sharapova, al contrario, garantisce pubblico, attenzione. Spesso emozione. Suscita pareri netti – o la ami, o la odi -, non è neutra e ha dato vita a telenovele ricordabili: con le Williams soprattutto, ma non solo. Ha carisma, nel bene e nel male è trascinante. Il suo ritorno può rilanciare duelli sopiti. E stimolarne altri, di cui la WTA ha bisogno come il pane. Questi erano i motivi per gioire. Poi ce ne sono altrettanti per nutrire dubbi. 1) NAVRATILOVA, TU QUOQUE La prima a puntare sulla Sharapova è stata Martina Navratilova. La vide a sei anni e la spedì da Bollettieri: «Questa è forte». Aveva ragione, ma in questa investitura c’era – c’è – anche la constatazione che un certo tennis non esiste più. Evitando le lagne nostalgiche, che servono solo a dare ragione ai modernisti (mai essere pallosi: mai), Maria Sharapova è espressione pressochè perfetta del tennissparapalle. Una bombardiera con la testa d’acciaio. Come è spesso stato scritto, se fosse bruttina non sarebbero in molti a trattarla con i guanti bianchi. E rischierebbe di passare come una delle tante “ova” del ranking, sebbene con un talento maggiore. E un albo d’oro più nutrito. 7) TATTICA, QUESTA SCONOSCIUTA Il tennis non è gli scacchi ed essere fini strateghi non è un


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la sharapova garantisce pubblico. spesso emozione. ha carisma, è trascinante. e può rilanciare duelli sopiti 93


Maria Yuryevna Sharapova è nata il 19 aprile 1987 a Njagan, in Siberia, ma si è trasferita a 7 anni negli Stati Uniti.Tennisticamente è cresciuta all'Accademia di Nick Bollettieri a Bradenton, Florida. Seguita dal padre Yuri per diverse stagioni, ora è allenata (ed è tecnicamente molto progredita) da Thomas Hogstedt, ex discreto giocatore svedese. Nel suo staff anche il fisioterapista Juan Reque e lo sparring partner, Cecil Mamiit. Quest'anno sposerà il cestista Sasha Vujacic

obbligo. La sua ottusità è però a livelli di guardia. Conosce un solo gioco, piatto e noioso, e quello fa. A prescindere da chi ha davanti (anche se col tempo è un po’ migliorata). Mai una smorzata, mai un rovescio tagliato (che a dire il vero può permettersi poco), mai una discesa a rete (e questo è un bene: le sue, più che volèe, sono colpi abominevoli di maglio). Se il tennis fosse intelligenza (tattica), Maria Sharapova giocherebbe al massimo in Borsa. 3) QUASI COME LENDL (SI È SCRITTO “QUASI") La forza mentale, se sviluppatissima, può avere come controindicazione un approccio allo sport dittatoriale, da Terminator in gonnella, da cyborg costruito per uccidere. Di solito chi gioca per divertirsi finisce col perdere (vedi alla voce Dolgopolov), ma la Sharapova sembra anelare “troppo” alla vittoria. La immagini, sin da piccola, che piangeva rabbiosamente se non aveva tutto quello che chiedeva, se non vedeva (metaforicamente) sgorgare il sangue sul campo dell’avversaria. Maria è una di quelle che, se a scuola non prendevano 9 a ogni compito in classe, mettevano su il broncio. Come Federer, ma con più violenza: Roger è un narciso supponente, Maria un diavolo che veste Prada (e gli altri mille sponsor che la arricchiscono). La Sharapova

è una quasi-Lendl (e infatti dicono che abbia flirtato con il quasi-Lendl maschile, Djokovic). È probabile che questo cannibalismo agonistico dipenda anche dagli insegnamenti del padre, che tutti gli amanti del tennis ricordano per la grande sobrietà e piacevolezza. 4) CHE BEL RITORNO (MA CHE BASSO LIVELLO) Maria Sharapova è di nuovo ai vertici. Si è scritto e si ripete, con merito. Il suo ritorno al top, per quanto auspicato e positivo, testimonia però una volta di più il livello raffazzonato della WTA. Non è detto che sia un male, ha infatti permesso favole come quella della Errani (che nel circuito ATP ce le scordiamo). Se però qualsiasi “ritornante” riconquista con agio la top ten, come la Hingis, o rivince uno Slam, come la Clijsters, qualche anomalia evidente c’è. 5) YAAAAAAAAAAAAAHHHHHHH! Ci si può girare intorno quanto si vuole, ma le urla belluine di Maria Sharapova sono una delle dieci cose più brutte del mondo. Appena sotto Scilipoti nudo in sauna. E appena sopra Marisa Laurito con le Birkenstocks. Intollerabile. Drammaticamente intollerabile.

federer è un narciso supponente, maria un diavolo che veste prada. un cannibalismo agonistico che dipende dagli insegnamenti del padre 94


LA CARRIERA IN 10 TAPPE 2000 Partecipa al Trofeo Avvenire al Tennis Club Ambrosiano di Milano, tra i più importanti tornei under 16 del mondo. In finale è sconfitta dalla cinese Shuai Peng. 2000

2002

2002 Debutta nel circuito WTA nel torneo di Indian Wells grazie ad una wild card. Al primo turno supera in tre set la numero 302 del mondo, Brie Rippner. La russa si guadagna così l'onore di sfidare una leggenda, sebbene in declino, come Monica Seles, da cui riceve una severa lezione, incassando un sonoro 6-0 6-2. La Seles l'ha premiata dopo la vittoria all'ultimo Roland Garros e la Sharapova le ha ricordato proprio quell'episodio! 2003 A Tokyo vince il suo primo titolo WTA in finale su Aniko Kapros.

2003

2004

2004 A Roma batte per la prima volta una top 10, Elena Dementieva, ma soprattutto vince il suo primo titolo Slam a Wimbledon battendo in finale 6-1 6-4 Serena Williams. 2005 Il 22 agosto raggiunge per la prima volta in carriera la vetta della classifica mondiale. 2006 Vince lo US Open in finale su Justine Henin (6-4 6-4) 2008 Si aggiudica l'Australian Open sconfiggendo in finale l'altra pin-up del circuito, Ana Ivanovic (7-5 6-3).

2006

2008

2009 Rientra al torneo di Varsavia dopo 9 mesi di stop a causa di un brutto infortunio alla spalla che l'ha costretta a cambiare il movimento del servizio. 2011 Torna nella top 10 mondiale, vince Roma e Cincinnati e torna in finale Slam a Wimbledon, dove perde dalla ceka Petra Kvitova.

2011

2012

2012 Inizia la stagione con la finale persa da Victoria Azarenka all'Australian Open, poi si scopre specialista della terra rossa vincendo prima Stoccarda, poi Roma, quindi Roland Garros in fianle contro Sara Errani (6-3 6-2) e torna numero uno del mondo.

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INT ERVI STA

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TESTO BY Riccardo Bisti - PHOTO BY Mario Sierra Falces

Per David Ferrer, la crisi adolescenziale è arrivata nel 1999, quando aveva 17 anni. Perdeva qualche partita di troppo, così andò da coach Javier Piles e gli disse: «Basta, lascio perdere». Ma papà Jaime non sopportava di vederlo tutto il giorno a non far niente. «Vuoi divertirti con i tuoi amici? Benissimo, ma i soldi te li devi guadagnare». Così lo mandò a lavorare come muratore insieme allo zio. Caricava mattoni ogni mattina dalle sei. Tempo due settimane e ritornò da Piles: “Ehi, voglio riprovarci col tennis”. Non pensava che qualche anno dopo sarebbe diventato numero 4 del mondo, vincitore di tre Davis Cup, finalista al Masters e numero uno degli “esseri umani”. David Il Guerriero è nato proprio grazie ai metodi di Piles, non esattamente da gentleman. «Quando non avevo voglia di allenarmi mi sbatteva nello sgabuzzino del club e mi passava pane e acqua fino a quando non cambiavo idea». Oggi Ferru è il più grande lavoratore del circuito. Tuttavia, lo scatto del velocista e la resistenza del maratoneta non bastano per diventare numero 4 del mondo. Anno dopo anno, Ferrer è cresciuto e non ha ancora smesso di migliorarsi. «Quest’inverno ho lavorato sul servizio e sul rovescio lungolinea, ma senza mai perdere di vista la mia identità di giocatore». Piles è però convinto che ci siano ancora 7-8 dettagli da sistemare. David gli sta dietro, e forse è questo il suo segreto: non accontentarsi mai. Dieci righe per raccontare come è cominciata la tua avventura di tennista. Vengo da Javea, un piccolo paese sul mare nella provincia di Valencia. È il luogo dove sono cresciuto, ci sono molto legato. La mia famiglia vive ancora lì, tutti i miei amici abitano lì. Ho iniziato a giocare al Tenis Club Javea perché i miei genitori, tennisti amatoriali, lo frequentavano. Siamo una famiglia di tennisti: mio fratello, tre anni più grande di me, è stato campione di Spagna under 14. Sono cresciuto come persona e come giocatore a Javea, e ancora oggi quando posso torno a casa. Al principio però non eri esattamente un ragazzino prodigio... Ti credo, perdevo sempre. Tanto che ad un certo punto ero davvero indeciso se continuare col tennis o con gli studi. Perdere spesso non è bello per un ragazzino ma non potevo nemmeno piangere tutto il giorno. Piano piano ho imparato ad accettare le sconfitte. Ma soprattutto... ho cominciato a vincere! Quindi non avresti mai pensato di avere una carriera così ricca di successi. Assolutamente no. Il mio obiettivo era diventare un professionista e magari entrare tra i primi 100.Alla fine ce l’ho fatta, ma non avrei mai pensato di vincere 14 tornei, entrare tra i primi 10 giocatori del mondo e giocare per tre volte il Masters di fine anno. Qual è il segreto per lavorare così duramente?

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Mi piace il tennis. Ho la grande fortuna di essere un giocatore di tennis e di poter fare quello che mi piace. Ogni mattina mi alzo con una grande motivazione, ho sempre gli stessi sogni e anno dopo anno cresce l’esperienza. La motivazione e l’esperienza rendono tutto più facile. Quale ritieni sia il tuo miglior colpo? Senza dubbio le gambe. Ho colpi potenti, ma non come gli altri top players. E allora mi devo difendere in un altro modo: correre è un aspetto fondamentale del mio gioco. Quanto è importante la figura del tuo coach Javier Piles? Javier mi segue da quando avevo 16 anni e mi conosce come nessun altro. Per me è come un membro della famiglia, e il vantaggio di conoscerci così bene ci fa capire quando è necessario stare insieme e quando no. Parlando di sogni, c’è una vittoria che ti piacerebbe ottenere più di qualsiasi altra? Io ho sempre sognato di vincere il Conde de Godò di Barcellona, lo frequento sin da piccolo e ci sono molto legato. Ho anche fatto quattro finali ma mi è sempre sfuggito per “colpa” di Nadal. Ma non mollo, è un sogno che voglio realizzare a tutti i costi. Solamente Barcellona? Beh, uno cerca sempre di restare tra i primi 10, oppure di vincere un Masters 1000, le solite cose. Ma l’obiettivo più importante, per me, è vincere il Conde de Godò. Credi di aver ottenuto tutto quello che il tuo talento di permetteva? Non lo so. Io cerco di migliorare anno dopo anno, di fare le cose per bene per essere un tennista sempre migliore. Credo di riuscirci, ma quando arrivi dove sono arrivato io, è sempre più difficile: in fondo ci sono soltanto cinque persone al mondo più brave di me... Hai 30 anni, un’età in cui il fisico inizia a presentare il conto… Per fortuna mi sento molto bene. Durante le partite mi sento fresco e brillante come qualche anno fa. La differenza


David Ferrer è nato a Javea (Valencia) il 2 aprile 1982. In carriera ha vinto 14 tornei ma nessuno Slam o Masters 1000, e ha perso 15 finali. Negli Slam ha raggiunto la semifinale allo US Open 2007 e all'Australian Open 2011. Entrato nella top 10 nel 2006, ha raggiunto il suo best ranking nel 2008 al n.4 ATP

arriva dopo, perché ho bisogno di più tempo per recuperare. Però ho un fisioterapista molto in gamba (Rafael Garcia n.d.r.) che mi rimette a posto insieme al mio preparatore atletico, David Andres.

Credi che la stampa e i mezzi di comunicazione sottovalutino i tuoi risultati? No, direi di no. La stampa mi ha trattato sempre molto bene, non ho niente da rimproverare a nessuno.

Sei uno stakanovista del tennis, ma hai qualche interesse al di fuori del rettangolo di gioco? Certo, ho molti hobby! Mi piace molto giocare a paddle, andare in bicicletta e seguire il calcio. Sono un grande tifoso del Valencia. Inoltre mi piace molto leggere. In questo momento sto leggendo La Reina del Sur di Arturo Pérez-Reverte, un libro che ha ispirato una serie televisiva. Qualche anno fa ho impiegato tre giorni per leggerne uno di oltre 1.000 pagine: I Pilastri della Terra di Ken Follett.

Eppure in Spagna si parla sempre di Nadal e poco di te e degli altri giocatori spagnoli. In passato Ferrero si è lamentato di questo fatto: a te non infastidisce? No perché Nadal è un tale fenomeno, ha conquistato un così straordinario numero di titoli dello Slam che è perfettamente normale che i media si occupino soprattutto di lui. Certo, in altre nazioni tanti giocatori spagnoli sarebbero i numeri uno e quindi godrebbero di una maggior visibilità. Ma uno dei segreti del tennis spagnolo è proprio l'esempio che offrono i top players. La competizione è uno stimolo.

Cosa farà David Ferrer nel 2022? Oddio, non lo so proprio! Non so quello che farò domattina, figurarsi quello che farò tra 10 anni… Però sai quello che potevi essere: un calciatore, visto il tuo talento fisico e la tua grande passione per il football? Sì, però mi è andata bene col tennis! In realtà è mio padre che è fissato con il calcio: può passare un'intera giornata a vedere match della Segunda Division o della vostra Serie A. Io tifo Valencia e Barcellona. Mi faceva impazzire Romario quando diceva che in campo rendeva solo se faceva tardi la notte: io sono l'opposto! Godevo anche con il Barcellona di Ronaldo e ho sempre ammirato Laudrup. Poi è chiaro che il Barça attuale riempie di gioia i tifosi...

Conosci molto bene Sara Errani, visto che vi allenate nella stessa accademia. Cosa pensi di lei? Credo che sia corretto definirla la Ferrer in Gonnella? Non so se sia la Ferrer in gonnella, ma di sicuro io mi ispiro molto a Sara. Secondo me è una delle giocatrici più competitive del circuito, se non la più competitiva. Inoltre ha una mentalità vincente. Come ragazza poi, vale un 10. Con lei si può parlare di tutto, è una bella persona sulla quale puoi sempre contare. E credo sia già una delle migliori tenniste del mondo. Ma secondo te dove può arrivare? Top 10, sicuro.

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Miracoli a Church Road La storia di Wimbledon non è fatta solo di fuoriclasse alla Pete Sampras o Roger Federer. Ma anche di avventure che nascevano, ma soprattutto morivano (sportivamente parlando) sui campi dell'All England Club. Con la favola più bella che si è realizzata 11 anni fa… d i Fe d e r i c o Fe r r e r o

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ALEXANDER POPP GER

CHRIS BAILEY GBR

ROD FRAWLEY AUS

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NATO IL 4 NOVEMBRE 1976. BEST RANKING: 74. TITOLI ATP: 0 C’è quel mestierante che sente aria di casa nel torneino di San Marino e chi, per trovare la sua, ha bisogno di respirare Wimbledon. Per qualche tempo, a inizio millennio, una Germania in disarmo – Herr Stich ritirato con la schiena rotta nel 1997, Boris Becker per vecchiaia due anni dopo – prese a gridare al fenomeno per ogni primo turno superato da un tedesco in uno Slam. Quando i turni furono non uno ma quattro (Agenor, Chang, Kuerten, Rosset) e Alexander Popp, signor nessuno di Mannheim, si presentò nei quarti di finale di Wimbledon 2000 contro Pat Rafter, lassù pensarono davvero di aver avuto in dono l’Erede. Non appena si sparse la voce che mamma Popp era londinese, la LTA le provò tutte per convincere la famiglia a lasciare la Germania: un’operazione riuscita con Greg Rusedski, ma non questa volta. Comunque fosse, i gridanti al miracolo sbagliavano. Dopo quel Last Eight nel Tempio, i 201 centimetri di Alex si ritirarono a vivacchiare nei challenger, possibilmente tedeschi. Popp fece puff: sparì per tre anni e rientrò ai Championships, col ranking protetto per una lunga degenza, nel 2003. Risbocciò l’amore: ancora una volta, quarti di finale. Come finì? Ora che Alexander non gioca più, si è laureato in farmacia e vive a Berlino a distanza di sicurezza dal tennis, il ricordo di quell’ultima grande sfida lo sopporta con rassegnazione. Perché se Mark Philippoussis non avesse giocato una Panattavolley in tuffo, sul cinque pari nel quinto set e palla break Popp, i quarti sarebbero diventati semifinale e lì – meglio non pensarci, davvero – non se la sarebbe dovuta vedere con Federer, o Roddick, Hewitt o Agassi per un addio senza rimpianti. No: di là ci sarebbe stato Sebastien Grosjean. Popp in finale a Wimbledon: ci pensate?

NATO IL 29 APRILE 1968. BEST RANKING: 126. TITOLI ATP: 0 Sette operazioni al ginocchio. Sette tabelloni a Wimbledon. Tutti con wild card omaggio: nei primi anni Novanta non si dava ancora l’ipotesi di un britannico capace di entrare nel torneo sulle proprie gambe e con quelle classifiche lì (321, 527, 235) il cremoso Bailey restava uno dei migliori tennisti da presentare – si fa per dire – ai Campionati. Non esiste ragione al mondo per scrivere di un lungo ragazzo del Norfolk che non vinceva mai, se non per quella cascata di servizi kick e volée che sotterrarono, in un secondo turno del torneo del 1993, Goran Ivanisevic. Proprio il finalista del ’92, mister ace. Che servì la palla del match a Bailey, e la mise in rete. Seconda palla: un’altra prima. Nastro, impennata, riga. Altra seconda, ace ai centonovanta all’ora. Ivanisevic si scosse, pareggiò, fece il break, vinse 9-7: per essere un cavallo pazzo sapeva come vincere, qui. Salvo quando incontrava Sampras. Raccontano i cronisti che Bailey, affittata una stanza in una villetta di Southfields, abbia passato il resto del decennio a camminare avanti e indietro per Church Road biascicando frasi incomprensibili in gaelico. La fotografia che vedete qui ha fissato l’istante in cui un uomo è morto dentro.

NATO L’8 SETTEMBRE 1952. BEST RANKING: 43. TITOLI GRAND PRIX: 1 Oggi ha quasi sessant’anni, vive in Germania e ha sposato una donna miliardaria. Nel 1981, con la zazzera e i baffoni di un attore hardcore, una delle prime racchette in grafite e quasi trent’anni sulle spalle, indovinò i dieci giorni che valgono una vita. Nel suo spicchio di tabellone tutte le teste di serie avevano perso la strada: Roscoe Tanner (contro Kirmayr, noto sì, ma per essere stato il coach di Gaby Sabatini), Victor Pecci coi primi segni della decomposizione agonistica, ma anche il giovin Lendl, l’allergico al verde Vilas, un acerbo Noah. Ed ecco Rod Frawley in semifinale a Wimbledon: in alto, Connors contro Borg e l’epica rimonta dell’Orso da due set a zero, della quale di parla ancora tra i vecchi frequentatori dei club: se Jimbo non avesse fatto quel doppio fallo... In basso, la partita-prosecco tra Rod e John McEnroe. Facile, veloce, frizzante. Frawley aveva le stesse possibilità di vincere contro McGenius di Fernando Maynetto, un canadese che i tabelloni sostengono abbia disputato, quell’anno, un match ufficiale a Wimbledon. Un bel fisico allenato e un po’ di potenza resero i parziali non umilianti. Nell’edizione 1982, Frawley perse al secondo turno. L’anno dopo, 1983, Tian C. Viljoen vinse la sua prima e ultima partita nel suo primo e ultimo Slam: nove-sette al quinto: contro Frawley. Nel 1984, più niente. Rod Frawley era un ex giocatore e un novello sposo.

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GEORGE BASTL CH

PETER DOOHAN AUS

GORAN IVANISEVIC CRO

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NATO L’1 APRILE 1975. BEST RANKING: 71. TITOLI ATP: 0 Ha trentasette anni, la barba incolta del predicatore hippy, vive a Chicago e va a zonzo. Anche all’Harbour Club di Milano per il torneo challenger da 30.000 euro. Dieci anni fa risiedeva in Svizzera, in un paesino lussuoso dove le banche sgomitano per sistemare una filiale, e aveva un conto aperto nell’ATP. Un buon professionista. Col suo gioco robusto, sull’ignominioso court 2 gli diedero in pasto i resti di Pete Sampras, che stava per salutare tutti con lo Slam numero quattordici a Flushing Meadows ma in quell’estate veniva chiamato dead man walking, il morto che cammina, da chi non gli voleva bene. O gliene voleva troppo e soffriva a vederlo ciondolare così, in cerca di un modo per andarsene che fosse all’altezza della storia personale. «Hanno capito che sono battibile e ci provano tutti», furono le parole di Pete una volta lasciato il campo. Aveva recuperato due set, si era proposto con una palla break nel quinto, ma niente: George vendette la sua anima per un set, e ce la fece. È che sta ancora espiando la sua pena: fu la sua ultima vittoria a Wimbledon, quel secondo turno del 2002. Meglio: la sua ultima in uno Slam. Da due anni non ha più la classifica per provarci ma lo trovi a fare un doppio con Marko Djokovic a Helsinki, a provarci nelle qualificazioni di Pozoblanco. Chissà quando estinguerà il debito.

NATO IL 2 MAGGIO 1961. BEST RANKING: 43. TITOLI ATP: 0 A Newcastle, quella del Nuovo Galles del Sud, hai il mare davanti agli occhi. Alle spalle, ranch e distese di erba. Peter Doohan ci era cresciuto, sui prati, all’oscuro del mondo fino al 1987, quando Spiderman si presentò sul campo due per affrontare Boris Becker. Il campo due, fino al restyling del 2009 (da allora è stato pure rinumerato, è diventato campo 3) era noto come Graveyard of Champions, il cimitero dei campioni. Lì, persero fior di maestri: McEnroe, Stich, Connors, Sampras e Agassi contro i signori Gullikson (Tim), Shelton, Kuehnen, Bastl, Flach (Doug). E Bum Bum Becker, campione di Wimbledon ’85 e ’86, testa di serie numero uno. Un match da 7-6 4-6 6-2 6-4, quattro set commentati dal lentigginoso con un misto di saggezza e leggerezza: «Non è iniziata una guerra, nessuno è morto, ho perso una partita di tennis, non sentivo alcuna pressione. Sapete cos’è la pressione? È quella di un padre che fatica a mantenere la sua famiglia». Doohan durò un giorno, come le farfalle. Il tempo di recuperare due set di svantaggio a Leif Shiras, un biondino belloccio più attento allo specchio che al gioco, poi Bobo Zivojinovic prese di mira le sue ali e tanti saluti, fine di Peter Doohan. Non vinse mai più una partita a Wimbledon. Oggi lo chiamano ancora The Becker Wrecker, lo Spaccabecker: succede al circolo di Nelson Bay, Hunter Valley, la sua terra. Dà lezioni a cinquanta dollari l’ora.

NATO IL 13 SETTEMBRE 1971. BEST RANKING: 2. TITOLI ATP: 21. SLAM: 1 Leggete, prima di imprecare. Cosa ci fa il campione Goran, il fenomeno Goran, qui, in questa compagnia di mezzi giocatori, mezzi avventurieri e turisti del grande tennis? Lasciate in un angolo l’emozione per quella manifestazione di vita ultraterrena di Wimbledon 2001 e pesate i suoi risultati nei Majors: zero semifinali in Australia, zero a Parigi, una a New York (contrappeso: quattordici primi turni!). Goran era se stesso, diavolo e angelo, solo a Wimbledon. Con tutte le sue contraddizioni: cento ace nell’edizione 1992 e a tradirlo è il suo cannone, nell’ultimo gioco del quinto set contro Agassi. 1994: la finale a pistolettate contro Sampras, due tie-break persi - lui che di quelli campava - e il 6-0 nel terzo per puro annientamento mentale. 1998: un Goran che finge di essere maturato, barbuto e baffuto, regge la scena quattro set, ancora di fronte a Sweet Pete. Esce smascherato e ormai non ci crede più nessuno. In quel 2001 fecero visita a Wimbledon eventi sovrannaturali: mentre si faceva prendere a pallate da Caratti Kid al Queen’s, quelle tre finali avevano impietosito il comitato di Wimbledon. Che gli regalò una wild card di riconoscenza. Come quelle serate di addio degli attori bolliti, sperando in un sorteggio non troppo cattivo (difficile trovar meglio di Caratti, peraltro). Numero 125 al mondo, vecchiotto, Ivanisevic era tornato a provarci addirittura coi challenger, qualche settimana prima. Come abbia potuto abbattere Roddick, Rusedski, Safin, Henman e Rafter, 9-7 al quinto dopo una raffica di match point mancati, fa parte del mistico e non va approfondito all’eccesso. Poteva succedere solo a Wimbledon ed è lì che lasciò la sua anima, insieme alla spalla: che gli cascò dopo l’ultimo match point ma Goran non fu mai tanto felice di un grave infortunio. Aveva fatto un patto con Dio: prenditi la mia spalla, la carriera, tutto. Ma dammi un maledetto Wimbledon.

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INT ERVI STA

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TENNIS!

(CON STILE) DI STEFANO MELOCCARO PHOTO BY MARCO DE PONTI

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Folgorato dal libro di agassi, linus (ottimo runner e aspirante triatleta) ha promesso di tornare sui campi, abbandonati «perché perdevo troppo spesso». Ma non parlategli di nadal («troppo robotico), né di federer («troppo un bravo ragazzo»). Mentre djokovic...

S

tiloso, professionale, fighetto. Numero uno nel suo campo, per i suoi fans e soprattutto per se stesso. Non è questione di classifiche, qui parliamo di vocazione innata da primo della classe. Ma al tempo stesso, disponibile fino allo sfinimento, verso tifosi e giornalisti che lo assillano quasi sempre con le stesse domande. No, non stiamo parlando di Roger Federer, ma di Linus. Che ultimamente, a Deejay Chiama Italia, si lascia spesso sfuggire lodi incondizionate verso Open di Andre Agassi. L’abbiamo incontrato nel suo bell’appartamento di Riccione e abbiamo parlato di tennis, di Agassi, di Federer, di musica, di corsa e bici e di convivenza. Col dolore fisico. Partiamo da Linus, il Roger Federer della radiofonia italiana? Al massimo, posso riconoscermi un po’ nel suo essere fighetto (Nicola Savino,amico/partner in Deejay Chiama Italia,non manca di evidenziarlo, ndr), e non so se sia proprio un complimento! Nessuna similitudine però, Roger ha un’immagine troppo da bravo ragazzo per i miei gusti. Mi rivedo più nel genere Djokovic, e parlo in ogni caso di un numero uno! Nadal francamente no, ha un’aria troppo robotica, vagamente lobotomizzata, non è il mio tipo. Nole, invece, mi pare una personalità più sfaccettata. Non mi riferisco a questioni tecniche o di risultati, parlo di indole e carattere.

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Ok, e adesso il libro. Era sul mio comodino da un po’, sotto la pila di quelli che devo leggere per lavoro. Poi, qualche giorno prima di partire per l’America, la folgorazione. In una sera ne divoro le prime 50 pagine, mio record personale prima di dormire. E la conferma di quel che avevo sentito dire: davvero bello. Il giorno dopo, con il libro nello zainetto, vado a trovare un amico che ha un negozio di abbigliamento sportivo. Devi leggerlo assolutamente, è splendido. Capisco dal suo sguardo che non lo farà mai. Per convincerlo gli regalo il mio, tanto domani in aeroporto me lo ricompro, penso. In aeroporto è esaurito. Su iTunes è solo in inglese. E il mio non è così perfetto da apprezzare a fondo un bel libro. E così, pausa di riflessione americana. Ma poi ho ripreso subito a pieno ritmo. E’ un libro di tennis e tu sei un maratoneta aspirante triatleta. Perché ti piace? Il tennis è sempre sullo sfondo e qualche volta in primo piano. Ma il punto non è il gioco in sé, quanto le sensazioni fuori dal campo. Fosse stato calcio o baseball, sarebbe stato lo stesso. Flushing Meadows poteva essere il Bolshoi di Mosca, cambiava poco. C’è molto altro, c’è il tormentato rapporto col padre, soprattutto. Alcuni genitori sono appassionati di pattinaggio, altri di pianoforte, Mike Agassi aveva la fissa del tennis. Con i risvolti (e i risultati) che sappiamo. Si impara molto leggendo questa storia. E sapere che dietro c’è un ghostwriter vincitore di un premio Pulitzer, non toglie nulla alle emozioni, che sono vere e restano di Agassi.


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Linus è genere Mike Agassi, o lascia i figli scegliere liberamente in fatto di sport? Papà Agassi era uno che obbligava i figli al tennis. Gli riuscì con uno su quattro. Io ho provato ad orientarli verso lo sport, ma con scarsi risultati. Unica vera imposizione, col grande: no al calcio, meglio l’atletica. Ma lui non si è mai realmente appassionato. Forzare non funziona, se non in fase iniziale. Chiaro che se vuoi tirar fuori un campione, devi partire subito. La storia del drago (la macchina lanciapalle ossessione di Andre n.d.r.) mi ha molto colpito. Il grande senso dell’anticipo di Agassi nasce per combattere un mostro immaginario. Lui iniziò a 7 anni, già a 14 sarebbe stato tardi. Se vuoi creare un fenomeno devi fare così, ma... è giusto? Io me ne sono sempre fregato di avere un figlio fuoriclasse. E non mi intrometto troppo nemmeno sui risultati scolastici. Spero per lui che abbia una vita soddisfacente, certo. Ma la strada giusta dovrà trovarla da solo, come me. Da ragazzino talentuoso ma scapestrato a uomo disciplinato e vincente. Riesci ad immedesimarti? No, perché non sono mai stato un genio sregolato, tutt’altro. Agassi nasce ribelle, per poi maturare e diventare virtuoso. Io a scuola ero il capoclasse. Magari capo anche dei casinisti, ma pur sempre con vocazione da fratello maggiore. La mia trasgressione più grande era seguire l’istinto e non fare ciò che “era giusto” in quel momento. Piuttosto mi rivedo nel rapporto odio-amore col tennis, che per me è quello con il lavoro. Il suo piacere quasi fisico nel colpire la palla è il mio quando riesco a cucire un buon momento di radio. Ma c’è una parte della mia attività che eviterei volentieri (il dietro le quinte alla scrivania, ndr), e che mi capita spesso di odiare. Come Agassi che dice di aver anche odiato il tennis, nonostante tutto quello che gli ha dato. E con il tennis giocato, come la mettiamo? Dopo il calcio (ginocchio frantumato) e lo sci (che non mi ha voluto…) mi rivolsi al tennis cercando un modo per muovermi un po’. Fine anni 80, scendevo in campo proprio stile Agassi prima maniera! Scaldamuscolo fluorescente, scarpa colorata, maglia e pantaloncini antinebbia. Per due o tre anni, coi miei amici, giocammo con buona regolarità. Ma da solo non riuscivo a reggere il passo degli altri e decisi di affidarmi al maestro. Il tennis autodidatta mi pareva semplice, quello impostato incredibilmente faticoso. Smisi per esaurimento. Ho capito con l’età che migliorando la tecnica, in tutti gli sport, si fatica meno.

il motivo per cui mi attrae più la disciplina individuale rispetto al gioco di squadra. Alla fine, la vera sfida è con me stesso, degli altri mi interessa poco. L’unico avversario è il tempo. Io ti so dire a che velocità sto andando anche senza avere il cronometro al polso! È una cosa gratificante e al tempo stesso straniante. Esattamente ciò che cerco quando esco di corsa o in bici. Chiaro, giocando a tennis hai paura di perdere. Non lo sopporteresti. Vero, è uno dei motivi per cui ho smesso. Perdevo troppo spesso contro il mio migliore amico. Lo stesso che ho convinto a seguirmi anche di corsa e in bicicletta, e che alla fine mi batte sempre pure lì. Ma è diverso, chi se ne frega, al massimo lo costringo ad aspettarmi. Sul campo da tennis non mi andava giù. Uscire sconfitto una, due, tre volte di seguito... diventa troppo frustrante. Ma insomma, abbiamo una speranza di recuperarti al nostro sport? A Riccione la follia collettiva si chiama beach tennis. Giocano tutti ma io li ho sempre snobbati. Poi un giorno mi hanno convinto a provare. Mi sono talmente divertito che ho deciso di riprovare col tennis vero.Volevo prenotare, ma al circolo era tutto pieno! Prometto di ritentare. So che i materiali attuali rendono il gioco molto più facile. Proporrò al mio amico di tornare in campo. Ma lui con una racchetta di vent’anni fa, io con l’ultimo modello! Fin quando regge, potrebbe essere una buona tattica...! Se Agassi ti venisse a trovare, che domanda gli faresti? Se - e come - sia riuscito a convivere col dolore fisico. Il mal di schiena perenne, le notti passate dormendo sul pavimento, non riuscire nemmeno a camminare: so bene di cosa si tratta. Non tanto la bici, ma la corsa è qualcosa che non riesco a scindere dalla sofferenza. Stamattina ho fatto 10 km, ho ancora addosso dolori che mi resteranno per parecchie ore. Schiena, articolazioni, il ricordo sofferente dei piccoli traumi di una vita. Correre senza soffrire almeno un pochino è una sensazione che non ho il piacere di conoscere. Mi piacerebbe capire meglio in che modo lui ha gestito tutto questo, anche se in parte nel libro è scritto.

Domanda scontata, ma a Linus va fatta: Federer musica classica, Nadal rock e Djokovic funk? Nole Djokovic, più che al funk, mi pare somigliare al genere Hip Hop. Magari dico una sciocchezza, ma dà quasi l’idea di aver imparato a giocare per strada, mi sembra che nel suo tennis ci sia un maggiore spazio per la sfera istintiva, rispetto ad altri. Nole gioca spesso “sporco”, è più creativo, capace di sorprenderti e anche di mostrare le sue emozioni. Fisicamente poi, pur dotato di grande talento naturale, è meno costruito di molti suoi colleghi.

Nel libro c’è anche la storia con Steffi Graf, l’unica che sia riuscita a capirlo. È necessario sposare una collega per essere compresi? Mia moglie è architetto, il collegamento con la mia indole profonda c’è. Dopotutto da giovane volevo fare il disegnatore. Per poi scoprire (tardi) che proprio l’architetto sarebbe stato il mio lavoro ideale. Se dovessi rinascere, è la cosa che credo farei meglio. Per via del mio carattere sdoppiato, creativo e precisino al tempo stesso. Pensa che una volta mi hanno chiesto di autodefinirmi con due parole e ho risposto “artista svizzero”. Una contraddizione solo in apparenza.

A proposito di fisico, prima la maratona e ora la bicicletta. Meglio le discipline fisiche, così non c’è troppo da pensare? A me piace l’aspetto epico dello sport e della vita. Di “Open” mi ha conquistato il racconto romantico dell’eroe solitario. È

Artista svizzero? Mah, magari saremo noi ad essere fissati, ma di artista svizzero nel tennis ce n’è uno, ed è proprio Roger Federer. Come volevasi dimostrare. Allora forse hai ragione tu. Comunque giuro che non l’ho fatto apposta!

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AVANTI IL PROXYMOL ORMAI LE TEORIE COMPLOTTISTE SEMBRANO DIVENTATE LA PANACEA UFFICIALE A QUALSIASI MANCANZA DI IDEE, DA QUELLE PER SPIEGARE LE RAGIONI DI UN TERREMOTO A QUELLE PER RIEMPIRE INTERI PALINSESTI TELEVISIVI. E VISTO CHE LA MANCANZA DI IDEE (E DI NOVITÀ) PARE PROPRIO AVERE NARCOTIZZATO ANCHE IL TENNIS, FORSE NON RESTANO CHE LE TEORIE COMPLOTTISTE PER PROVARE A RIVITALIZZARE LʼENNESIMA STAGIONE UGUALE A TUTTE QUELLE CHE LʼHANNO PRECEDUTA. MA NON A QUELLE CHE LA SEGUIRANNO, COME TESTIMONIA QUESTO ARTICOLO IN ANTEPRIMA ESCLUSIVA. DI TRENTʼANNI.

di Antonio Incorvaia

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«SARÀ DAVVERO QUESTO, DUNQUE, IL TENNIS DEL FUTURO? REMOTE CONTROLLER, PALLINE VIRTUALI, TRAIETTORIE AL LASER E ARENE IMMAGINARIE?» Natalina Gluteca, TennisBest Magazine, Dicembre 2015 Giornalisti. Poveri, ingenui, superficiali giornalisti. Così suggestionati dall’idea di Progresso dei film di Fantascienza (ma soprattutto dei Blog di Tecnologia) da essere convinti che il Futuro sarà - sarebbe stato - sempre e soltanto un’overdose di device, effetti stroboscopici e scenari da videogioco. Come se “Novità” ed “Evoluzione” fossero unicamente prodotti, e mai progetti, processi e dinamiche. Era una novità la terra blu di Madrid ed è stata un’evoluzione l’edizione 30th Anniversary di Virtua Tennis. Erano una novità le racchette in Thermolon e sono state un’evoluzione quelle con l’incordatura auto-regolabile. Fumo negli occhi. Futili, trascurabili specchietti per allodole, che sul Progresso hanno avuto la stessa incidenza di un affresco in una cripta. Ma tutti a tuffarcisi come mosche sul miele, tutti a riempirne pagine e pagine di articoli, tutti a vederci chissà quali straordinari segnali di Futuro da anticipare ai posteri. Nessuno che abbia avuto l’ardire di accorgersi che fosse una novità, piuttosto, la vittoria di Lindsay Davenport a Wimbledon nel 1999. L’epifania di un piano accuratamente studiato sin nei minimi dettagli, una profanazione pagana in piena regola: dimostrare che si potesse trionfare nel Tempio del Tennis giocando da ferme e limitandosi a tirare molotov da fondocampo. Risultato: un nuovo ordine mondiale di striker costruite a tavolino, trent’anni di omologazione impermeabile a qualsiasi forma di variazione e diversità, eccezion fatta per un paio di bug di sistema prontamente isolati e disinnescati (qualcuno si ricorda le “inspiegabili” sconfitte di Amelie Mauresmo? E gli “improvvisi” ritiri di Justine Henin? E la “anomala” crisi di risultati di Francesca Schiavone dopo la vittoria al Roland Garros, inclusa la finale persa con Na Li l’anno successivo?). E nessuno che abbia avuto l’ardire di accorgersi che fosse un’evoluzione, piuttosto, la prima vittoria di Sergi Bruguera al Roland Garros. Figlio e padre che si aggiudicano insieme - con il sacro battesimo delle telecamere - una prova del Grande Slam, il genitore che non è più soltanto il “migliore amico” possibile ma è anche il “migliore allenatore” possibile, il lasciapassare per la gloria autentica (niente a che vedere con quella da discount delle sorelline Maleeva e mamma Yulia). Risultato: un nuovo ordine mondiale di mamme, papà e zii istruiti a fare i coach di Tennis, quarant’anni di enfant prodige programmati nella culla per diventare modelli rassicuranti di contaminazione tra campo e famiglia. Altro che «remote controller, palline virtuali, traiettorie al laser e arene immaginarie?». Non se n’è (casualmente) più vista traccia, nel circuito, dal giorno di quella chiassosissima presentazione per la stampa durante il Masters 1000 di Astana. Il più banale dei trucchi da prestigiatore: concentrare l’attenzione su una realtà apparente per distogliere gli occhi da manipolazioni occulte. Così, mentre centinaia di milioni di

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persone si convincevano di essere interessate a uno sport che non sarebbe mai potuto esistere, quello che esisteva davvero era visibile soltanto all’Elite dell’ATP. E si chiamava “Proxymol”. Il “Progetto Proxymol”, altrimenti conosciuto anche come HWC (acronimo di «Handle With Care»), è una sperimentazione scientifica ancora in larga parte ignota qualcuno sostiene addirittura che i dossier ritrovati qualche mese fa nel Sotterraneo 11 della sede ATP di Ponte Vedra Beach siano stati falsificati apposta per depistare le indagini - inaugurata, secondo le evidenze raccolte, nel 1990. Rafa Nadal e Richard Gasquet compiono 4 anni, l’età giusta (secondo il programma) per cominciare a giocare a Tennis. L’uno sotto l’egida dello zio, l’altro sotto quella del padre. Sono loro due i primi eletti, gli istanti To del progetto più ambizioso della Storia del Tennis: riuscire a creare in laboratorio il “Campione Definitivo”, il “Giocatore Assoluto”, sfruttando qualsiasi elemento utile di manipolazione fisica e psicologica a disposizione. In che modo? Da una parte, costruendo intorno a loro le condizioni per farli diventare i più forti giocatori del mondo; dall’altra, parallelamente, sottoponendoli a ogni possibile situazione di stress artificiale. Ed ecco che il maiorchino destro naturale diventa tutt’a un tratto mancino, e il giovanotto di Béziers finisce in copertina su Tennis Magazine a 9 anni. Ed ecco che il maiorchino inizia a scalare la classifica battendo Ancic a Wimbledon e Federer a Miami, e il giovanotto di Béziers inizia a fare altrettanto battendo Federer a Montecarlo (una curiosa coincidenza, i due “passi falsi” dell’allora numero uno del mondo contro ragazzini poco più che al debutto nel circuito maggiore), arrivando in finale ad Amburgo e vincendo a Nottingham. Ed ecco che il maiorchino adotta una programmazione suicida sulla terra battuta che gli compromette puntualmente il finale di stagione, e il giovanotto di Béziers passa più tempo in infermeria che ad allenarsi. Ed ecco che il maiorchino riesce incredibilmente a vincere Wimbledon senza servizio e senza volèe (guardacaso battendo ancora Roger Federer in finale), e il giovanotto di Béziers riesce incredibilmente a essere riammesso nel circuito senza squalifica dopo essere risultato positivo alla cocaina in un test antidoping. Eccetera eccetera eccetera. Ma che per arrivare alla genesi del “Campione Definitivo” ci fosse ancora da lavorare parecchio lo si era capito quasi subito. Lo zio di Rafa aveva iniziato ben presto a diventare un personaggio troppo scomodo: pretendeva i riflettori costantemente puntati addosso, assumeva atteggiamenti intimidatori chiaramente sospetti, e provocava in Rafa una serie impressionante e del tutto incontrollabile di psicosi di riflusso, ben lontane dall’immagine di perfezione a cui il “Progetto Proxymol” voleva ambire. Dall’altra parte,


Richard era troppo fragile e, benché dotato di un talento straordinariamente superiore alla media, sottoposto a impulsi mentali problematici produceva sempre risposte insufficienti, emotivamente deboli e prive di stabilità. Nel frattempo, i due successori di Nadal e Gasquet erano comunque già stati scelti. Si trattava di Bernard Tomic e Ryan Harrison, classe 1992. Tipologie di persone e di giocatori completamente diverse da Rafa e Richard, che consentissero di portare avanti il progetto introducendo nuove variabili. I risultati, tuttavia, furono ancora più scoraggianti: entrambi troppo bizzosi e incostanti, ebbero per tutta la carriera un rendimento ben al di sotto delle aspettative.Tanto che - come si sarebbe poi scoperto trent’anni più tardi - i pochi match di rilievo vinti nella loro carriera erano stati brutalmente comprati per cercare di stimolare in loro una maggiore fiducia e, di riflesso, una maggiore convinzione e continuità. La svolta arrivò con Christen Albrecht e Bryan Bronson, nati nel 2004. Nigeriano naturalizzato tedesco il primo (strappato ai genitori naturali all’età di un anno e mezzo e adottato dal Direttore del Masters 1000 di Berlino, che lo iniziò al Tennis ad appena tre anni), inglese purosangue il secondo (con tutte le sollecitazioni e i condizionamenti esterni legati al «dover vincere Wimbledon per forza», dopo che avevano già fallito sia Henman che Murray). Su di loro vennero sperimentati test mai eseguiti prima: overdose di anabolizzanti (accuratamente insabbiata dai vertici ATP in occasione dei controlli antidoping), cardiostabilizzatori sintetici come il Fluxotan e l’Emocrid (che rilassano il battito del cuore e lo mantengono inalterato anche per sei ore di fila, indipendentemente dallo sforzo fisico compiuto), dissociazione della personalità (Albrecht poteva assumere indistintamente, se attivate nel modo corretto, quella di una bambina di 4 anni e di una vedova di 65; Bronson quella di un reduce di guerra e di un orfano alla costante ricerca dei genitori), transfer paterno (per tutti e due l’unica motivazione nel giocare a Tennis era il «fare contento papà») e fobie compulsive (tra cui quella per il volo). E ciò che ne derivò ha avuto davvero del miracoloso, benché inizialmente agevolato da una serie di combine tra sponsor: due Grandi Slam consecutivi per Albrecht, 8 titoli di Wimbledon per Bronson (l’ultimo dei quali a 31 anni) e una popolarità mai raggiunta prima nemmeno da Nadal e Federer. Un ritorno sull’investimento complessivo di oltre il 500%, che ha permesso al progetto di sbloccarne la fase ultima ed estrema, quella che sarebbe ancora in corso se Paolo Gorla e Mark Lancaster non fossero morti prematuramente di infarto fulminante (l’obiettivo era forzarne in modo esasperato la resistenza facendo giocare loro - e vincere - un torneo ogni settimana, proprio come ci si sarebbe aspettato da un “Campione Definitivo”), scatenando le indagini che hanno portato a scoperchiare il vero volto del circuito ATP di questi ultimi cinquant’anni. Cinquant’anni di match indimenticabili, di eroi infaticabili, di record polverizzati, di colpi (e corpi) mozzafiato, di scambi a velocità incalcolabili, di miliardi di tifosi assiepati sulle tribune, di sponsorizzazioni a 11 zeri. Ma cosa succederà adesso, che il “Progetto Proxymol” è stato disseppellito e immediatamente riseppellito sotto le ceneri di Paolo e Mark? Chissà. Forse si passerà ai remote controller, alle palline virtuali, alle traiettorie laser e alle arene immaginarie. Sì, potrebbe essere proprio questo il Tennis del futuro. DISCLAIMER Ogni riferimento a fatti e/o persone reali è puramente frutto di invenzione, e unicamente funzionale agli snodi narrativi e all’intreccio degli eventi di finzione descritti nell’articolo.

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IL PREDE 116


ESTINATO INTERVISTE DI RICCARDO BISTI FOTO E SEQUENZE DI MARCO DE PONTI

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Gianluigi Quinzi, 16 anni, sta impressionando. Ha vinto il Bonfiglio ed è diventato n.2 al mondo juniores. Abbiamo quindi posto quattro domande a coach, compagni, avversari, manager, talent scout, sponsor per scoprire dove può arrivare il nostro enfant prodige. 1. 2. 3. 4.

Qual è il tuo giudizio su Gianluigi Quinzi? Quali sono le sue qualità e i punti deboli? Diventerà il top 10 che l'Italia aspetta? Q u a l i d i f f i c o l t à i n c o n t re r à a b re v e t e r m i n e ?

FEDERICO GAIO, giocatore professionista 1.ÈÈ un ottimo agonista, ha buonissimi colpi. È molto dotato e gioca bene. Forse deve imparare a gestire meglio le emozioni. 2. Ha tenacia, una voglia impressionante di fare le cose giuste e superare gli ostacoli. Punti deboli? Essendo ancora molto giovane, ha tante pressioni addosso e fa ancora un po’ fatica a superarle. 3. Lo spero per lui e per l’Italia, ma la strada è molto lunga per quelli come me, figurarsi per uno che ha appena 16 anni. 4. La difficoltà più comune è il passaggio dai tornei junior alla giungla dei Futures e dei Challenger. Se riuscirà a uscire in fretta da questo giro avrà fatto un grande salto di qualità. NICOLA CERAGIOLI, coach di Quinzi tra 2008 e 2009 1. Ha un’impressionante attitudine al lavoro. Era già così quando lo seguivo io, e aveva appena 12 anni! Nella parte tennistica e atletica fa paura e ha importanti qualità anche in termini di reattività ed esplosività. È un grande lottatore: a 12 anni vinceva tornei Under 14 in posti come Armenia e Turchia. 2. Ancor prima delle qualità tennistiche, Gianluigi colpisce perché ha un atteggiamento incredibile. Farebbe di tutto per vincere una partita. Quando lo seguivo io c’era la supervisione di Piatti. In 30 anni di carriera, Riccardo aveva cacciato dal campo solo Silvia La Fratta. Il secondo è stato Gianluigi. Durante un allenamento aveva superato il limite. Voleva vincere a tutti i costi e faceva scenate incredibili. Non si riusciva ad andare avanti. Ti porta al limite, ha un’attitudine a vincere che fa spavento. Punti deboli? Non è sempre facile fargli provare cose che possono farlo crescere. Durante un torneo volevo testare il suo grado di disponibilità e gli chiesi di giocare un serve and volley per ogni turno di servizio. Quanti ne ha fatti? Zero! Se c’è lotta non ci sono consigli che tengono, è disposto a morire pur di vincere. Quando non c’è tensione, al contrario, è un grande lavoratore. Ma la qualità era talmente alta che si lasciava correre anche quando non rispondeva a tutti gli input”. 3. Come potenziale ci metto la mano sul fuoco. Non avevo dubbi prima, non ne ho adesso. Se si parla di potenziale io non mi stupirei di vederlo vincere uno Slam e diventare un giocatore tipo Del Potro. L’unico dubbio riguarda il “Sistema Quinzi” e le esigenze che la famiglia può nutrire su di lui. 4. Non vedo grandi ostacoli. Bisognerà vedere come gestirà le sconfitte, soprattutto in un contesto come quello italiano, dove in un attimo passi da fenomeno a brocco. Nei Futures potrà perdere con qualche giocatore d’esperienza e gliene diranno di tutti i colori. I più forti vanno oltre le critiche, ma lui avrà una pressione infinita. Ma avrà il vantaggio di passare poco tempo in Italia. 118

LAURA GOLARSA, ex quartofinalista a Wimbledon, ora coach internazionale 1. È scontato dire che ha un potenziale molto alto. Ha grandi doti di braccio e di velocità. Fisicamente è all’altezza: spero non sia troppo fragile perché ha avuto qualche problema in questo senso. Ma ha tutti i requisiti per fare bene. Il più importante è che è già un vincente, una qualità innata. Ha una voglia impressionante, tanto che a volte va sovraritmo. Con noi si è allenato senza problemi anche sotto la pioggia. In allenamento è umile, mentre in partita sa tirare fuori quel pizzico di sana arroganza. 2. Essendo cresciuto molto rapidamente, come accadde a Del Potro, si è un po’ “stortato”. Ha movimenti meno fluidi. Ne ho parlato col suo maestro e mi ha detto che ci stanno lavorando.Trovo che abbia un paio di difetti: gioca sempre il rovescio con le braccia tese e nella preparazione del diritto gira la mano e la faccia della racchetta guarda verso il basso. Ma sono cose che può sistemare senza intaccare la velocità di braccio. Deve perfezionarsi, magari prendendo spunto da Del Potro. Le volèe sono ancora acerbe. 3. Parlando di alcuni tennisti italiani, una persona piuttosto nota mi diceva che se fossero stati stranieri sarebbero entrati tra i top 30. Ne ho visti tanti che non sono arrivati:Trevisan,Virgili, Della Tommasina. Non voglio aggregarmi al carro di chi dice dove arriverà Quinzi. Sarà importante che arrivi al massimo del suo potenziale, oggi non ancora definito. Ci sono tanti se: se migliorerà la tecnica, se non si farà male, se imparerà a gestire la pressione…Io gli direi di restare il meno possibile in Italia. Nadal e Federer alla sua età facevano più impressione, ma ha comunque dei parametri molto alti.Vincere il Bonfiglio con due anni di vantaggio non è male, anche perché oggi gli Under 18 sono già dei professionisti. 4. L’impatto con le sconfitte, che prima o poi arriveranno. Non vedo altre problematiche perché è già abituato alla pressione. Giocare la finale al Bonfiglio davanti a 2.000 persone è come fare due turni a Roland Garros. Sarà molto importante anche il ruolo della famiglia: nessuno dovrà perdere la testa. MOSÈ NAVARRA, ex Davisman, ora tecnico FIT responsabile della categoria Under 18 1. Il ragazzo ha ottime prospettive, ma non diamogli l’appellativo di fenomeno. Io di fenomeni in giro non ne vedo. Lo era Nadal, n.100 del mondo a 17 anni. Quinzi ci darà grandi soddisfazioni, ma ci sono altri giovani promettenti come Donati, Napolitano, Baldi, Maccari. È facile straparlare come accade nel calcio: se vinci qualcosa sei un fenomeno, se perdi due partite diventi un brocco” 2. Si sta ancora formando. Il suo punto forte è la gestione del gioco,


diritto

COMMENTI TECNICI DI MASSIMO SARTORI

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Impostato all'americana, col braccio destro che punta la palla, l'impugnatura è molto girata verso una western, scelta che l'ha obbligato a crearsi un suo schema per andare a colpire. È il colpo che mi piace meno: da notare come il gomito sia piegato e molto vicino al corpo. In sostanza, quando colpisce, invece di muovere il polso deve far ruotare l'avambraccio. Questo per via di una presa western molto esasperata che lo costringe a srotolare l'avambraccio. I più forti invece muovono il polso. Detto questo, con un'impugnatura più esasperata, Berasategui ha fatto finale a Parigi.

il difetto In tanti sottolineano come il gesto del diritto sia molto laborioso e in effetti bisognerà vedere come reagisce sulle superfici veloci quando gli tirano forte su questo colpo. Da notare il gomito sinistro che risulta addirittura in posizione più alta della mano. L'apertura è dunque molto ampia ma troverà i corretti aggiustamenti, anche perché sa muoversi con grande anticipo grazie alla sua capacità di leggere il colpo avversario, Inoltre, l'uncinata mancina a uscire è sempre fastidiosa.

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muove bene la palla. Con il rovescio anticipa molto, mentre il diritto è migliorabile ma già gli permette di completare gli schemi. Ha enormi margini di miglioramento ma è già maturo tatticamente: difficilmente tira tre palle di fila nello stesso angolo. 3. È un giocatore con potenzialità importanti, ma abbiamo visto tanti giocatori che si sono persi e molti altri che sono arrivati quando nessuno ci avrebbe scommesso. Dieci anni fa chi pensava che Ferrer sarebbe diventato n.4 del mondo? Lui ha 16 anni e deve lavorare tanto, senza dimenticarsi che il professionismo è un’altra cosa. E sarà molto importante evitare infortuni. 4. Ha grandi capacità agonistiche ed è bravo a superare le difficoltà. I problemi saranno quelli tipici del tennis: restare sano, lavorare bene, trovare persone fidate. E non deve avere fretta. Se a un certo punto sarà n.150 e non 50 non dovrà pensare di essere un fallito. FABIO DALLA VIDA, ex talent scout della IMG, attualmente è consulente FIT 1. Lo conosco da quando aveva 7-8 anni. Suo padre mi chiese di metterlo in contatto con Bollettieri. È un tipo particolare, con grandi doti. Io mi auguro che possa diventare numero uno, sta lavorando per questo. Mi conforta il fatto che abbia importanti margini di miglioramento. In Italia c’è grande attesa perché siamo l’unico grande paese europeo senza un top 10. Di certo ci si aspetta troppo da lui: enfatizziamo una vittoria al Bonfiglio, ma tra 5 anni non la ricorderemo più. Bisognerà essere meno euforici nelle vittorie e meno pessimisti nelle sconfitte. 2. Il punto forte è uno di quelli che non si possono insegnare: ha un grande cuore. Non si arrende mai, ci crede sempre, ha una grande capacità di concentrazione. E poi gioca benissimo i punti importanti. I colpi li deve migliorare tutti, in particolare deve tirare più forte con il diritto. Non vorrei giocasse troppo per il presente e meno per il futuro. Conta poco essere numero 2 del mondo Under 18. Ciò che conta è la classifica ATP. 3. Ha le possibilità per diventare numero uno, ma da qui ad arrivarci è dura. Credo che un giocatore possa sentirsi realizzato se arriva al 100% delle sue possibilità. Furlan è stato n.19 perché evidentemente non aveva le capacità per diventare 18. Credo che Quinzi raggiungerà il top delle sue possibilità. Se diventerà n.100 significherà che non aveva la possibilità di diventare n.99” 4.Le ha già superate.A lui non importa niente di quello che dice la gente, va dritto per la sua strada.Assorbe meglio degli altri la pressione dei media. Gli altri guardano se c’è la foto sul giornale, lui se ne frega. Molti non hanno capito che il tennis di oggi non è come quello di 10 anni fa, quando vincere il Bonfiglio era garanzia di arrivare. Oggi c’è tanto fisico e poca tecnica. Magari ci si aspetta che giochi Roma e Wimbledon tra due anni, ma se ci arriva tra 4-5 non succede niente. Dobbiamo aspettare la sua completa maturazione. MASSIMO SARTORI, coach di Andreas Seppi 1. C’è una cosa che lo distingue dagli altri: per lui il tennis è una priorità assoluta. Lo mette prima dei divertimenti, di tutto il testo. Questo farà la differenza. Di certo ha un seguito impressionante: a Parigi l’ho fatto allenare con Seppi e c’era moltissima gente… perché volevano seguire Quinzi! 2. Il punto forte è l’organizzazione tattica. Prima di giocare ogni punto ha già le idee chiare. E poi gioca molto bene di rovescio. Per il resto può migliorare su tutti gli altri colpi. Ma tanto. Questo aspetto mi conforta: ha grandissimi margini di miglioramento. 3. Può arrivare al top della classifica. Il fuoco che gli cova dentro può consentirgli di raggiungere qualsiasi obiettivo. Se migliora tecnicamente e non si fa male lo vedo tra i primi 15 del mondo. 4. Personalmente ho un timore: a 16 anni ha già giocato e viaggiato moltissimo. Spero che non arrivi una crisi di rigetto o un calo di motivazioni. Poi sarà difficile gestire il passaggio tra i top 100, quan-

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do troverà avversari sempre più forti. Ma su questo sono ottimista, per lui è normale affrontare questi problemi. È abituato a gestire le pressioni perché ha imparato a conviverci sin da bambino.” COSIMO NAPOLITANO, padre e coach di Stefano, promessa azzurra, un anno più grande di Quinzi 1. Gianluigi vive e sogna tennis. Mi piace, si allena bene e si esprime ancora meglio. Ritengo sia molto futuribile. È bravo, anche se nel momento in cui ti accorgi di esserlo devi dimostrarlo nel tempo. 2. Non amo dare un giudizio tecnico sugli altri. Apprezzo il suo gioco e vedo che è molto ben assistito sia dallo staff tecnico sia dalla famiglia. Questo mi fa pensare che abbia grandi chance di migliorare e diventare un giocatore vero. 3.Non Non voglio sbilanciarmi. Il passaggio al professionismo è delicato. Dovranno trovare le chiavi giuste per fare uno step dopo l’altro. È un’atleta interessante, ha grandi potenzialità e può dare belle soddisfazioni all’Italia. Ma la storia insegna che quando senti una proiezione positiva devi stare doppiamente attento a quello che fai. 4. È un ragazzo sano e un agonista pazzesco. Incontrerà gli ostacoli tipici del tennis: dovrà migliorare la fisicità, crescere tecnicamente e mettere ordine nel suo gioco. Sono convinto che farà una grande carriera se continuerà ad essere se stesso. CORRADO BARAZZUTTI, ex top 10 e attuale capitano di Coppa Davis e Fed Cup 1. È la nostra più grande speranza. Non c’è dubbio che ci sia molta aspettativa, è uno dei più forti junior del mondo. Trovo che sia positivo sia per lui sia per chi gli sta accanto. 2. Mi impressiona dal punto di vista mentale: è più maturo della sua età, molto disciplinato. 3. Se avessi il potere di prevedere il futuro, mi godrei la vita su qualche isola. Mi auguro che possa arrivare il più in alto possibile e raggiunga gli obiettivi che si è prefissato. 4. Arriverà un momento in cui i risultati junior non conteranno più e si confronterà con ragazzi più grandi. È il momento più difficile, anche se non sempre è così. Bjorn Borg non ha certo avuto difficoltà.Auguro a Quinzi di intraprendere un percorso simile. FEDERICO TORRESI, N.688 ATP, ha giocato contro Quinzi al Futures di Sanremo 1. Ovunque va a giocare, si parla solo di lui. Tutti sperano che sia il nuovo n.1 italiano. Per la sua altezza si muove bene, ma dovrà lavorare sul fisico: essendo cresciuto in fretta si è un po’ ingobbito. Ha un buon servizio, il rovescio è naturale, il diritto può migliorarlo ma è già in grado di tirare forte. Rispetto a quelli della sua età è già ‘giocatore’. E questo fa la differenza, ancor più della tecnica. 2. Il rovescio è il colpo migliore, ma ho insistito ugualmente da quella parte perché il gioco lo fa soprattutto con il diritto: magari non ti lascia fermo, ma è un colpo pesante. E poi serve bene, aiutato dall’altezza. Se giochi lineare hai poche chance, mentre puoi metterlo in difficoltà con palle alte e pesanti. In quel caso è ancora portato a rischiare parecchio. 3. Domanda difficile. Lo spero, ma purtroppo abbiamo avuto troppi esempi di fenomeni junior che poi si sono persi. Il tennis giovanile e quello professionistico sono due sport diversi. Bisogna andarci piano. Ci saranno le pressioni e il tennis che incontrerà sarà diverso da quello a cui è abituato. Però ha una famiglia solida, un bravo allenatore, uno staff che si occupa di lui. È serio, motivato, vive per il tennis. Ma ho visto tanta gente che doveva spaccare il mondo e poi… Mentre giocatori sui quali non avresti scommesso un euro sono diventati forti. Io spero che entri nei top 100. Ci sono tanti potenziali campioni, ma altrettanti fattori da considerare: magari non hai i soldi per andare avanti, magari ti infortuni.A lui però non manca niente. Mi viene da dire: se non arriva lui, chi arriva?


rovescio

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Cerca benissimo la palla e cerca di colpirla sempre d'incontro, andando vicino alla palla e sfruttandone la velocità d'arrivo. Anche in questo caso, sfrutta la sua capacità di leggere il gioco e di muoversi in anticipo. Usa una presa eastern con la mano destra e continental con la sinistra: una scelta più tradizionale e infatti sulle palle basse fatica meno che col diritto. In sostanza, colpisce bene a tutte le altezze, anche in salto grazie all'ottima coordinazione. Se lo muovono è capace di sporcare il colpo con il top spin mentre, come tutti i bimani, fatica ancora col back.

il pregio Il rovescio è il suo colpo migliore, quello che appare più sicuro. Il timing sulla palla è notevole e gli consente di colpire con forza da qualsiasi posizione contro qualsiasi tipo di rotazione. Tutto ciò deriva dalla sua capacità di muoversi bene senza palla, cioé di saper leggere il gioco. Gianluigi sa perfettamente che indirizzando un colpo in una data direzione, gli tornerà in un'altra data posizione. Come un portiere che, se è ben piazzato, non sarà costretto a tuffarsi. Ci sono giocatori come Quinzi che hanno questa sensibilità molto sviluppata, un vantaggio notevole per la sua crescita.

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4. Rimanere con i piedi per terra. Ha vinto belle partite a livello Futures, ma la strada è lunga. Arriveranno periodi in cui non vincerà, cosa a cui non è abituato. Altra cosa fondamentale: restare il più umile possibile e non vedere ogni sconfitta come una tragedia. MASSIMO CAPONE, N.662 ATP, ha giocato contro Quinzi al Challenger di Pozzuoli 1. È un ragazzo abbastanza maturo. In campo è completo, non gli manca nulla. La gente gli sta addosso, ma lui si comporta normalmente. Sono gli altri a creare il “Fenomeno Quinzi”. Gli organizzatori lo mettono sempre nei campi più importanti e negli orari più comodi: vogliono dare maggiore visibilità alle sue partite. 2. Taglia benissimo il campo. Io cercavo di portarlo il più lontano possibile dalla linea di fondo, perché col rovescio anticipa alla grande e ti toglie tempo. Con il diritto invece, aspetta e ti dà una frazione di secondo in più. Il servizio è buono, la seconda palla salta molto. Deve migliorare la percentuale di prime palle. Non è velocissimo ma si muove bene ed è superallenato: aveva benzina per andare avanti a lungo, mentre al terzo set io ero piuttosto stanco. 3. Quando abbiamo giocato pensavo mi ‘portasse via’, poi mi sono reso conto di avere una mano migliore della sua, e questo mi ha permesso di andare avanti nel punteggio. Onestamente non mi sembra fortissimo sul piano tecnico, in passato ho visto dei giovani promettenti che facevano la differenza con il gioco, lui invece è un bel toro e se giochi sul ritmo non sbaglia mai. Spero arrivi tra i top 100, altrimenti significa che troppa gente non capisce granché di tennis. Best Ranking? Dovendomi sbilanciare dico intorno al…45. 4. Lo vedo molto tranquillo. È circondato da persone che ci tengono tanto, l’allenatore lo segue tantissimo, addirittura gli dipinge il marchio della racchetta sulle corde. Insomma, credo che non abbia tanti pensieri. Spero che non gli mettano fretta. La pressione c’è ma credo che siano più i vantaggi che gli svantaggi. STEFANO DOLCE, coach di Filippo Baldi, promessa azzurra coetaneo di Quinzi 1. Mi piace moltissimo per l’atteggiamento e la mentalità. Credo che la sua più grande qualità sia la forza mentale. I suoi miglioramenti partono tutti da lì. Ha gli obiettivi giusti e una gran voglia di arrivare. Per carità, a 16 anni anche lui ha le sue paure. Ma tra i 16enni è quello con la miglior capacità di gestire della partita. 2. Costruisce molto bene il punto, ma privilegia ancora la soluzione di rimbalzo. Quando deve spingersi verso la rete ha mostrato ancora qualche incertezza. Migliorando in quella zona del campo potrebbe conquistare tanti punti facendo meno fatica. Padroneggia alla perfezione le fasi di attacco e difesa e mi piace come imposta il match. Per lui è una lotta, sfida l’avversario su ogni aspetto e fa le cose al momento giusto: per la sua età è una qualità eccezionale. 3. Può diventare il tennista più forte che l’Italia abbia mai avuto. In tanti giocano bene, ma se c’è uno su cui scommetterei è Gianluigi. Penso che possa entrare tra i primi 10, con punte tra i primi 5. 4. Dovrà essere bravo a gestire i risultati. C’è il rischio, non dico di montarsi la testa, ma di farsi travolgere dalla pressione. Ma sono ottimista perché ha una mentalità orientata ad andare avanti. Se diventerà il numero 5 del mondo, non si accontenterà: lavorerà ancora più duramente per diventare numero 1. Un ostacolo sempre dietro l’angolo sono gli infortuni. Il tennis toglie tante energie, quindi dovrà dosarsi e arrivare negli “anni buoni” nel pieno delle forze. È molto forte ma sta già sfruttando parecchio il suo corpo. ALESSIO DI MAURO, n.372 ed ex top 100 ATP, ha giocato contro Quinzi al Futures di Pozzuoli 1. Ci sono tantissime aspettative da parte di tutti: tecnici, tifosi, gli stessi giocatori.Troppe attenzioni. Dovrebbe essere lasciato tranquillo, è ancora giovane e deve pensare solo ad allenarsi. La vittoria

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al Bonfiglio è stata fantastica ma io ci andrei piano. Fuori dal campo dimostra i suoi 16 anni, mentre dentro è già maturo. Mi piace il fatto che osservi quello che accade intorno a lui. È interessato, non distaccato, vuole capire il mondo di cui sarà protagonista” 2. Il colpo migliore è il rovescio. Aggredisce bene la palla, taglia il campo e può mettere in difficoltà i destrorsi che lasciano libero l’angolo alla loro destra. Sul diritto ha ancora margini di miglioramento: è prevedibile, capivo in anticipo dove avrebbe tirato. Da quella parte deve essere più vario. Il servizio è buono, soprattutto se relazionato all’età. La seconda palla è già sicura. 3. Ce lo auguriamo tutti. Penso che possa entrare tra i primi 100, poi vedremo. Per dire altro aspetterei un paio d’anni, anche perché in passato abbiamo visto tanti giocatori dalle grandi aspettative che poi hanno deluso. Lui è molto concentrato su se stesso, non legge i giornali né si lascia influenzare dalla gente. Più sta lontano dalle pressioni e meglio è.Adesso è giovane, amato, ma con le sconfitte arriveranno le critiche. Penso a un Bolelli, sempre criticato perché ci si attende molto da lui. Non è facile giocare con la pressione di dover dimostrare chissà cosa. 4. Sono ottimista. A 16 anni ha già capito che deve affrontare il mondo dei Challenger e dei Futures. Gli servirà per rendersi conto che è un mondo diverso da quello a cui è abituato. Nei tornei giovanili trovi dei ragazzini senza esperienza. Credo che il passaggio al professionismo possa dargli noia, ma si sta già inserendo. In passato i nostri junior hanno giocato troppi tornei giovanili, senza rendersi contro che il mondo vero è quello dei tornei ATP. Credo che supererà lo scoglio abbastanza bene. In più è seguito da un ex giocatore: avere una persona di riferimento è un aiuto in più. VESO MATIJAS, Resp. tennis Lotto, sponsor di Quinzi 1. Parlare di fenomeno è pericoloso, in passato abbiamo ne abbiamo visti troppi che poi si sono persi. Gianluigi è un ragazzo serio, con grande talento, ordinato e motivato. Vedo tanta voglia di sacrificio sia in lui che nella famiglia. La famiglia è un fattore importantissimo nel tennis di oggi: se prendi i primi 10 del mondo, hanno tutti alla spalle una famiglia importante o un sistema che funziona (penso ai francesi e agli spagnoli). Quella con Lotto, più che una sponsorizzazione, è una partnership. Cerchiamo di farlo crescere, crediamo molto in lui. Lotto è una ditta veneta al 100%, e non dimentichiamo che la famiglia di Gianluigi è veneta da parte della madre. Per noi era importante stare vicini a un ragazzo così talentuoso. Dopo aver valutato sia lui che la famiglia ci siamo resi conto che era importante legare la sua immagine alla nostra. 2. Non vorrei parlare in pubblico di queste cose. Ne discuto con la famiglia e con l’allenatore. Di certo deve migliorare tutto, sia punti deboli che punti forti, e lo sta facendo. Si dedica molto al tennis, ma soprattutto si diverte molto.Ama questo sport. 3. Non ho problemi a sbilanciarmi, fa parte del mio mestiere.Venendo da un club che ha prodotto quattro top 10 (Pilic, Franulovic, Ivanisevic e Ancic) credo di avere un discreto occhio. Se parlo di Gianluigi non vedo limiti, può diventare numero 1. Non so se ce la farà, ma di sicuro ha la stoffa. 4. Il passaggio dal mondo junior a quello dei professionisti. Deve essere gestito sotto molti aspetti: tecnico, tattico, fisico, manageriale, organizzativo. Chi affronta questa fase con ordine e metodo avrà più chance. Non è facile far crescere un ragazzo quando hai bisogno di risultati e allo stesso tempo lo vuoi far maturare. Ma è una difficoltà sulla carta: su Gianluigi sono ottimista, basta vedere come si comporta in campo, in players lounge, con la transportation…vedo una grande somiglianza con quelli che sono diventati campioni (e parlo di Federer, Nadal e Djokovic). Nei suoi occhi vedo la stessa curiosità, la fame di conoscere il suo mondo. Si comporta così chi vuole fare grandi cose. I campioni hanno tutti gli stessi “sintomi”: mi pare che Gianluigi li abbia.


primo servizio

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È un colpo che può migliorare molto. Anche col diritto può fare passi da gigante, ma dovrà operare delle scelte radicali (come cambiare leggermente l'impugnatura). Al servizio invece, può già chiedere di più. Credo non sia ancora in grado di tirare verso tutti gli angoli e con tutte le rotazioni. e il gesto è un po' macchinoso, ma lo metterà a posto. Riesce già a far viaggiare veloce la palla, grazie anche ad un fisico già sviluppato. Essere mancino lo aiuterà non poco visto che i punti più importanti si giocano da sinistra e lui potrà sfruttare il servizio a uscire.

FISICO

MENTAL

È cresciuto molto sotto questo aspetto. Lo si capisce dal fatto che tiene bene il palleggio anche contro giocatori adulti che hanno già completato la loro maturazione fisica. Ormai viaggia intorno al metro e 90 ma dovrà essere bravo e attento a crescere come elasticità muscolare e soprattutto ad agire cercando di prevenire gli infortuni, un concetto che deve essere alla base di qualsiasi preparazione per allungare la carriera di un giocatore e renderla più efficiente.

Probabilmente è la sua miglior qualità attuale, ancor più dei singoli colpi. Vive per il tennis e fatica, sacrifici, rinunce, non sembrano pesargli. È ben conscio di quello che lo aspetta ed è disposto a fare ciò che serve per diventare un ottimo professionista. Deve sopportare grandi pressioni ma ci è abituato fin da ragazzino e sa gestire bene le situazioni. E dovrà farlo anche una volta arrivato nel mondo dei pro.

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TEST

INTIMA CAROLINE

NON È PIÙ LA NUMERO UNO DEL MONDO. Anzi, fatica a restare nella top 10 mondiale. Eppure il sex appeal di Caroline Wozniacki ha conquistato gli appassionati e, soprattutto, gli sponsor. La danese infatti, lancerà il prossimo settembre una sua linea di intimo in collaborazione con il brand JBS (anche questo made in Denmark). Caroline svela dunque il suo lato più privato e personale lontano dai campi da tennis, come mostra il claim che accompagna questa seducente immagine: “This is me”. Saranno contenti molti tifosi (e forse anche qualche avversaria).

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IL PLANTARE A SANREMO IL DOTT. LUCA AVAGNINA HA CREATO UN CENTRO DI PODOLOGIA SPECIALIZZATO NELLA CREAZIONE DI PLANTARI PER TENNISTI. UN PRODOTTO FONDAMENTALE PER LA SALUTE DELL'ATLETA DI LORENZO BALETTI PHOTO BY MARCO DE PONTI

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SU MISURA

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ell’era della tecnologia, alcune cose è meglio farle ancora a mano. Chiedetelo al dott. Luca Avagnina, che nel Centro di Podologia Medica e Sportiva di Sanremo crea ormai da decenni plantari per scarpe di tennisti e sportivi di ogni genere. Ma scordatevi macchinari o marchingegni ultra moderni; lui ne dispone anche (sistemi cadcam ultra moderni eccetera eccetera) ma quando tratta tennisti e atleti, tutto passa ancora attraverso l'uso preciso e mirato di carta e penna, forbici e taglierino, quali armi insostituibili che il dott. Avagnina fa ancora usare al proprio staff di tecnici, opportunamente da lui stesso addestrati e formati, con un metodo che lui si è inventato e che solo lui può tramandare. Tradizionale, ma tremendamente efficace. Non si spiegherebbero altrimenti gli scaffali pieni di plantari destinati a stelle del tennis, siano essi coach (Pistolesi o Piatti), atleti in attività (Hantuchova, Hercog, Vinci, Fognini e Bolelli) o vecchie glorie (Sanguinetti, Santangelo, Serra Zanetti), solo per citarne alcuni. Perché sono centinaia i tennisti di club e i maestri che ogni anno si affidano ai plantari del dott.Avagnina per curare qualsiasi dolore, dalla schiena alle ginocchia, passando per le caviglie. «Ogni giocatore di tennis avrebbe bisogno di un plantare, anche chi gioca solamente per due volte a settimana e non accusa alcun fastidio: è una questione di prevenzione. Il tennis è uno sport che porta a movimenti discontinui, asimmetrici, non ripetitivi, e imprevedibili. Il plantare aiuta a sopportare questi movimenti così bruschi e spesso "innaturali", prevenendo gli infortuni». In un percorso che parte da una diagnosi e si sviluppa attraverso un progetto tanto meticoloso quanto segreto, il dott. Avagnina crea per ciascun tennista un plantare ad hoc. «Noi non creiamo plantari per il tennis, ma per ogni singolo tennista» è lo slogan (copyright by Avagnina). La prima fase è quella della sua diagnosi podolistica che integra visioni biomeccaniche a visioni posturali. Prima bisogna capire come è strutturato il corpo in generale, come funziona, che assetto e che mobilità ha, poi questo viene poi correlato ai propri piedi e al loro modo di funzionare; solo a quel punto si può arrivare a progettare un plantare che sarà un pezzo unico e differente da qualsiasi altro (anche

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solo tra il destro e il sinistro, e tra il retropiede e l'avampiede). «Entrare in un negozio di articoli sportivi e chiedere un plantare è una cosa che non va fatta: non esiste un plantare generico che va bene per tutti, ma ognuno ha bisogno del suo» mette all’erta il dott.Avagnina. Che richiama l’attenzione anche sul metodo della presa dell’impronta dei piedi, passaggio ritenuto fondamentale al fine della costruzione di un calco corretto dei propri piedi e che non ne sia la semplice fotocopia errata con tutti i suoi difetti ben conservati. Su tale calco si andrà a lavorare a mano per formare il plantare specifico: «Il 70% dei tecnici fa alzare il paziente in piedi per far prendere le forme dei piedi su delle schiume, ma questo, per i motivi esposti prima, è totalmente sbagliato». Qui possiamo mostrarvi come prende vita nel concreto il plantare. Il primo passo è quello di prendere il calco dei piedi, riempirlo con una colata di una particolare resina, e farlo indurire. Tirata fuori la forma indurita, la si lavora in modo da farle prendere la forma perfetta del piede. Fatto questo, si scalda in un forno il plantare grezzo, ossia un semplice rettangolo spugnoso. Una volta scaldato, lo si pressa con tutta forza, sotto vuoto e per qualche ora, contro la forma dei piedi precedentemente ricavata. Risultato: la pianta dei piedi opportunamente corretta viene perfettamente riprodotta nel rettangolo spugnoso. Questo viene limato, smussato e modellato, prima alla macchina fresatrice, poi con cutter e forbici per curare i minimi dettagli. Dal plantare grezzo si è arrivati così al plantare puro, ma ci vuole ancora un lavoro di assemblamento. Colla alla mano, piccoli pezzettini di diversi materiali hi-tech vengono attaccati al plantare per definire i più impercettibili dettagli, così piccoli, ma così importanti. Un processo lungo che richiede attenzione e pazienza. E i commenti di chi ha provato parlano da soli. La testimonianza chiave è quella di un maestro e giocatore di club. «Nonostante avessi già fatto diversi plantari, dopo poco più di una settimana di utilizzo degli speciali plantari che mi ha creato ad hoc il dr.Avagnina, mi è passato il mal di schiena e non mi è mai più tornato - dice Filippo Sciolli, maestro a Sanremo -. Se poi per caso, a distanza di un anno, risento un fastidio, torno dal doc, mi cambia i plantari, e in 24 ore riscompare qualsiasi dolore». Perché il tennis è uno sport non solo di testa, ma anche di piedi.Vero doc?


LA SOLETTA SALVAPIEDI Un accorgimento importante che si può attuare per salva salvaguardare la salute dei piedi è quello di utilizzare una soletta che aiuti a prevenire o a curare dolori che provengono proprio dai piedi. In particolare aiutano in tal senso le solette Noene, un materiale vibro-assorbente che elimina (ok, solo al 98%!) i traumi all'impatto col terreno. Si tratta di solette dallo spessore molto ridotto (da 1 a 2 millimetri) che non variano quindi la misura della calzata e che vengono poste sopra o sotto il sottopiede (o il plantare). Inoltre, è stato abbinato il tessuto Nexus che, grazie alle Onde Infrarosse Lontane, migliora la circolazione sanguigna (fattore che aiuta chi soffre di stress da fatica, se non proprio di dolori). Una soletta che aiuta a migliorare tutti i dolori che partono dai piedi e che si riflettono poi su articolazioni, muscoli, eccetera eccetera. Certo, se soffrite di ernia del disco, la soletta non fa miracoli. Ma dolori al ginocchio o alla schiena, tipici del tennista, possono essere risolti. In piÚ, il miglioramento della circolazione sanguigna riduce l'affaticamento muscolare, tipico del maestro che passa sette, otto ore al giorno sul campo. Le utilizza anche Andreas Seppi: magari non saranno il segreto principale dei risultati che l'hanno proiettato al n.24 ATP. Ma i campioni sono i primi a curare i dettagli.

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NADAL,TSONGA, CLIJSTERS E LI INSIEME A ERIC BABOLAT NELLA GIORNATA-TEST A ROLAND GARROS

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ATTRE Z Z ATU RA

DA PARIGI, LORENZO CAZZANIGA

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POTREBBE RAPPRESENTARE UNA VERA RIVOLUZIONE: UN TELAIO "INTELLIGENTE" CAPACE DI TRASMETTERE DATI FONDAMENTALI PER MIGLIORARE LA PRESTAZIONE IN CAMPO

iang Shan era l'unico veramente preoccupato, quando la dolce mogliettina Li Na è tornata a minacciarlo: «Con questa nuova tecnologia, posso licenziare nuovamente mio marito come coach». La nuova tecnologia si chiama Play&Connect ed è stata creata da Babolat dopo dieci anni di pensieri e tre di studio effettivo. In sostanza, si tratta di applicare al telaio un impercettibile sensore in grado di trasmettere molteplici parametri che possano aiutare giocatore e allenatore a trovare i giusti adattamenti al gioco. «È come passare da un film muto ad uno moderno» ha commentato con evidente soddisfazione Eric Babolat. Per adesso, si sono limitati a svelare quattro parametri. Punto primo: si evidenzia quanti colpi si è giocato, distinguendoli tra diritto, rovescio e servizio (e fin qui non c’era bisogno di scomodare una batteria di ingegneri per dieci anni); punto secondo: il sensore rileva se si è giocato un colpo piatto, in slice o in top spin (bello, ma divertente soprattutto quando viene chiesto a Nadal di colpire piatto: «Flat?» risponde lo spagnolo, come gli avessero chiesto la cosa più improbabile del mondo; punto terzo: durante gli scambi, ecco che compare la velocità con la quale si muove la testa della racchetta. E qui cominciamo a ottenere dei dati sensibili. «Abbiamo inserito come valore massimo, il colpo più violento che può eseguire un giocatore top 20 mondiale – ha spiegato Gael Moreaux che si è occupato dello sviluppo del progetto -. Quello rappresenta il potenziale 100%. Da lì, la velocità registrata di ciascun colpo viene espressa in percentuale». E così Kim Clijsters arriva oltre il 75% quando decide di caricare il suo diritto, mentre una giocatrice di club si ferma nei pressi del 45%, quando la prende bene; punto quarto: il display mostra l’ovale della racchetta diviso in cinque sezioni e, magicamente, la palla compare nella sezione in cui si è effettivamente colpito. E qui ci si comincia davvero a sciogliere perché basta uno sguardo ai risultati finali per capire quali e quante informazioni siamo ora in grado di elaborare. Con la sua naturale dose di sintesi,Toni Nadal ha spiegato il concetto: «L'avessimo avuto a disposizione dieci anni fa, Rafael sarebbe diventato più forte di Federer». La giovane promessa o il classico giocatore di club, si possono accontentare di molto meno.

AY & CONNECT CO

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TOUR 305

MANTIS

Il marchio Mantis è stato creato nel 2009 da Martin Aldridge, grande esperto di racchette che per anni ha lavorato in Dunlop

Martin Aldridge ha lavorato per 8 anni come Global Head of Products. Ha studiato telai insieme a John McEnroe, Tommy Haas, James Blake, Tommy Robredo. Poi ha deciso di mettere a frutto le sue conoscenze creando un marchio ad hoc, Mantis appunto. La qualità maniacale è una sua priorità e in effetti la racchetta si presenta meravigliosa, sia nell'aspetto, sia nel rendimento in campo. Sorprendente, oseremmo dire. Il modello 305 è indicato per chi cerca una grande manovrabilità nell'attrezzo (donne, ragazzini, veterani) ma con uno stile classico (ovale da 95 pollici e profilo sottile). La palla esce rapida e la sensibilità è notevole.

Test A CHI LA CONSIGLIAMO A chi cerca un telaio molto maneggevole, che aiuti nell'esecuzione tecnica del colpo e si manovri bene al servizio e sotto rete. Ideale per giocatori dallo stile classico, in particolar modo agli over 35 oppure ai giovani che si stanno avviando ad un livello agonistico.


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Non pensavo esistessero ancora racchette di questo tipo: la testa flette tantissimo e il feeling è ottimo. Nonostante la sezione sottile, non è un telaio difficile: la palla esce veloce e il back fila via basso. Certo, non è un telaio per scambiare a mille all'ora, ma se gioco a tocchettini nei miei tornei veterani, la faccio vedere a pochi.

ENRICO, 48 ANNI, CLASSIFICA 4.2

La Mantis 305 ha nella estrema manovrabilità la sua principale caratteristica tecnica, come dimostra il bilanciamento al cuore e un valore di inerzia non troppo alto. Ideale per chi gioca di tocco e sfrutta movimenti ampi e classici. Si esalta sotto rete e nel back. Diventa meno performante se cercate di pestare in top spin (per quello, meglio la Tour 315.

on court

Bella è bella: le finiture sono ottime, ma si sono dimenticati una quindicina grammi! La palla esce, però è leggerina. In difesa è meglio di quello che pensassi perché è comunque stabile, però non posso toppare senza peso in testa. Dovrei aggiungere una decina di grammi, ma allora è meglio farsi dare la 315 Tour.

PAOLO, 28 ANNI CLASSIFICA 3.2

Il sistema Trusstic offre un ottimo supporto mediale, mentre la gomma Ahar è garanzia di durata. Il battistrada a spina di pesce modificato si adatta alle varie superfici di gioco.

Ho iniziato tardi e per rimediare gioco tre doppi al giorno! Utilizzavo un racchettone da 115 pollici, cosi, quando mi hanno messo in mano questa Mantis, l'ho guardata scettico. Invece la palla corre via veloce ed è anche molto, ma molto più maneggevole del mio padellone. Se ragiono su benefici e problemi, prendo la Mantis: con lei sembro quasi un giocatore vero...

DANIELE, 58 ANNI DOPPISTA DA CLUB

LUNGHEZZA: 68,5 cm OVALE: 95 pollici PROFILO: 20 mm costante PESO: 323 grammi BILANCIAMENTO: 32,5 cm INERZIA: 304 CORDE: 16 x 18

in laboratorio


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BIOMIMETIC MAX 200G

DUNLOP

John McEnroe ha utilizzato per una buona parte della sua carriera la Max 200G che ora ha firmato nella versione 2012

Se nella vostra vita tennistica avete giocato con una Max 200G, la versione 2012 non può mancare nella vostra collezione. È un tuffo al cuore per chi la ricorda tra le mani di John McEnroe nel suo mitico 1984 o in quelle di Steffi Graf per il Golden Slam 1988. Dati tecnici e feeling passano in secondo piano. Rispetto alla versione originale è meno impegnativa: il bilanciamento al cuore la rende estremamente manovrabile e l'ovale è maggiorato a 98 pollici. Manca un po' di peso in testa per renderla più cattiva ma se amate tocchi e gioco al volo, back e smnorzate, allora va bene. Se invece volete arrotare alla Nadal, rivolgetevi altrove.

Test A CHI LA CONSIGLIAMO A chi cerca una racchetta dai profili agonistici, ma dotata di grande manovrabilità, grazie al bilanciamento al cuore. Ideale per doppisti che amano tocchi e serve & volley. Astenersi Nadaliani. Ovviamente è imperdibile per chi ha giocato con la vecchia, mitica Max 200G anni 80 e 90.


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A poter giocare di solo tocco, si fan meraviglie. Il back è una rasoiata e al volo si manovra alla grande. Però manca di cattiveria, alias di peso in testa. Il servizio non fa così male e da fondo paghi dei colpi che escono leggeri. Meglio giocare d'incontro ed essere aggressivi a rete che provare a menar dal fondo. Ottima per doppisti.

CORRADO, 42 ANNI CLASSIFICA 4.1

A colpire è soprattutto la grafica che riporta davvero agli anni 80 con l'aggiunta (preziosa) della firma di John McEnroe sul telaio. Chiaramente è stata introdotta la tecnologia AeroSkin che, partendo dalle caratteristiche della pelle dello squalo, permette un minor attrito nell'aria quando si va a colpire.

on court

Mi piace che la testa della racchetta fili via rapida. Gioco classico con un filo di top spin e preferisco la manovrabilità all'inerzia più spinta. Ottima sotto rete, perfetto il back, si tocca bene. Qualche grammo sui lati (o in testa) potrebbe dare quel pizzico di pesantezza di palla in più che negli scambi da fondo sulla terra lenta, diventerebbe utile.

PATRIZIO, 35 ANNI CLASSIFICA 3.4

Il sistema Trusstic offre un ottimo supporto mediale, mentre la gomma Ahar è garanzia di durata. Il battistrada a spina di pesce modificato si adatta alle varie superfici di gioco.

Alla mia età, con pancetta annessa, son dovuto passare a telai tubolari che spingono da soli la palla. Però qui non parliamo solo di tecnica ma di pura nostalgia. Basta guardarla per innamorarsene. In doppio posso giocarci ancora perché la manovri facilmente e l'ovale è ampio. E si tocca come ai bei tempi.

CLAUDIO, 50 ANNI CLASSIFICA 4.4

LUNGHEZZA: 68,5 cm OVALE: 98 pollici PROFILO: 22 mm costante PESO: 331 grammi BILANCIAMENTO: 32,7 cm INERZIA: 320 CORDE: 16 x 19

in laboratorio


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ASICS

Il completo è stato creato appositamente per le Olimpiadi. Un segnale importante perché vuol dire che, anche in momenti non facili, il marchio punta sulla qualità e su linee speciali, sempre gradite dall'appassionato.

CINQUE CERCHI

Test UNA LINEA DOC Nelle scarpe da tennis, Asics è ormai considerato il marchio top del mercato, come hanno testimoniato le votazioni del nostro Oscar 2012 svolto in collaborazione con 50 dei migliori negozianti italiani. Il settore dove invece si vedono ulteriori spazi è quello dell’abbigliamento. E quest’anno, la collezione è particolarmente interessante perché impreziosita da linee speciali. In particolare questa dedicata alle Olimpiadi e che avrebbe dovuto indossare Filippo Volandri, rimasto fuori di poche posizioni dall’entry list.


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Il tessuto Silveraid, grazie alla sua trama interna a rete composta da fili ricoperti in argento, oltre a garantire un’eccellente vestibilità, è antibatterico (la presenza dell'argento combatte naturalmente e permanentemente i batteri che causano odori dovuti ad un’intensa sudorazione) e antistatico. Inoltre, il tessuto risulta sempre fresco assorbendo il calore corporeo e disperdendolo all'esterno.

SCHEDA TECNICA

Per quanto si tratti sempre di una questione personale, è indubbio che parliamo di un completo piuttosto elegante. Base bianca con inserti in color oro, impreziositi dalle strisce tricolori sul colletto. Stile classico con tessuti techno.

IL LOOK

Asics vanta testimonial importanti a livello internazionale (Samantha Stosur), senza contare la moltitudine dei top players che, pur avendo altro sponsor di abbigliamento, chiede di utilizzare scarpe Asics. In Italia, il total look appartiene a Filippo Volandri, purtroppo rimasto fuori di una manciata di posizioni dal tabellone olimpico.

iL TESTIMONIAL

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e d r Co

Le scelte dei top players L’esperienza come incordatori a Roma ha portato all’estremo le nostre capacità di resistenza, concentrazione, velocità e reazione agli imprevisti. Tutto spalmato su oltre una settimana di lavoro con una presenza quotidiana al Foro Italico di circa 15-16 ore. Un'esperienza ci ha lasciato un numero di informazioni di assoluto rilievo per capire le tendenze nel mondo dell’attrezzatura che, partendo dai professionisti, arriveranno anche al giocatore di club. I telai utilizzati dai professionisti hanno un peso che si attesta mediamente sui 360 grammi per gli uomini e sui 320 grammi per le donne, anche se non mancano le eccezioni. Eccezioni non necessariamente legate al fisico, se è vero che la Extreme della Peng, non proprio una gigante, è piena di piombo e silicone e pesa 350 grammi, mentre l'AeroPro Drive di Nadal, fatica a raggiungere i 335 grammi incordata. È divertente segnalare come, al contrario di quanti possono pensare, ossia che gli atleti utilizzino sempre materiali nuovi a profusione, in realtà restino morbosamente attaccati ai loro telai, a tal punto che qualcuno utilizza telai evidentemente crepati per ragioni di affezione! Il peso delle racchette continua a calare rispetto a qualche anno fa, probabilmente più per merito delle accresciute prestazioni di corde, palle e fisico degli atleti, che per una qualche innovazione rivoluzionaria nel campo dei telai (in tal senso abbiamo incordato anche alcuni telai prototipo completamente ner: chissà che non nascondessero qualche grande novità per il 2013). I manici dei telai sono veri e propri oggetti di culto per i giocatori che li curano con religiosa precisione e concentrazione, sostituendo grip e overgrip prima di ogni partita o allenamento (e spesso si arrabbiano se durante la sosta in sala incordatura vi appare sopra il seppur minimo segno).

Dal punto di vista delle incordature, la parte del leone spetta al monofilo: Luxilon e Babolat coprono il 90% delle scelte dagli atleti. Entrando nello specifico abbiamo notato come si stia andando sempre più verso un montaggio a 4 nodi (anche in caso di stessa corda e tensione su verticali e orizzontali). Luxilon Alu Power e Original e Babolat RPM Blast sono le bestseller tra i monofili, mentre il Babolat VS copre la quasi totalità dei budelli naturali. Presenti ovviamente altri marchi (Signum Pro, Pacific, Gosen, Prince, Solinco, Tecnifibre,Wilson, Yonex, Kirschbaum) e qualche chicca come le nuove FlexInfinity, monofilamenti made in Taiwan con un particolare trattamento ai raggi gamma per renderle più elastiche e con miglior tenuta di tensione, adottate da Tomic (sulle orizzontali del suo ibrido) e testate da Wawrinka; oppure le Prince Beast Evo, versione in Olefine, ibridate al budello Pure Prince sul telaio dei fratelli Bryan. O ancora le nuove 4G di Luxilon adottate, tra gli altri, dalle sorellone Williams e da Gulbis. Un 50% circa degli uomini gioca con full monofilo, mentre il restante 50% si divide tra gli amanti dell’ibrido normale (budello su orizzontale, anche se non è mancato qualche ibrido con il multifilo) o reverse (budello sulle verticali, come Federer o Djokovic, soluzione amata soprattutto dai doppisti per avere maggiore esplosività e tocco). Da notare Gilles Simon, che giocava con un ibrido composto da due multifilo. Tra le donne reisiste qualche full budello, tanti ibridi tradizionali (tra i quali va notata la superchic Gisela Dulko che, giocando con telaio rosso, ibrida monofilo e multifilo dello stesso colore) e pochissimi reverse, anche se con qualche eccezione importante, come Ivanovic, Kutznetsova e le stesse Williams. In ge-

DI MARCO GAZZIERO

LIVE FROM STRINGING ROOM MASTERS 1000 ROMA

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RACCHETTE, CORDE,TENSIONI...

L'elenco di racchette, corde e tensioni utilizzate dai giocatori passati dal servizio incordatura del torneo ATP Masters 1000 di Roma 2012. Altri come Federer, Djokovic e Sharapova si avvalgono di incordatori privati.

L'ammasso di corde nel laboratorio di incordature al torneo di Roma 2012

nerale, le tensioni variano tra i 22 e i 26 kg, con gli estremi delle Williams (30 kg) e Volandri (12 kg). Una curiosità: per chi pensa che i giocatori ricevano tutto il materiale gratis: in molti si aggiravano disperati in cerca di matasse da acquistare. Avendo poi l’opportunità di fare quattro chiacchiere con giocatori e coach, abbiamo chiesto che rapporto hanno i players con i nuovi materiali: pessimo! Nel senso che il tennista è già sottoposto a stress fortissimi e mettere in discussione anche telaio o corda potrebbe far crollare la sicurezza nei propri mezzi. Per questo sono così poco propensi ai cambiamenti anche perché hanno poco tempo da dedicare ai test, ragione che impedisce a corde spiccatamente poligonali o twistate di spopolare, come sta avvenendo nel mondo dei monofili a livello consumer.

GIOCATORE

RACCHETTA

CORDA E TENSIONE

ALMAGRO BAGHDATIS BARTOLI BOLELLI BRYAN B. BRYAN M. CILIC CIPOLLA DEL POTRO ERRANI FERRER

Dunlop Biomimetic 500Tour Cyprus Fischer Prince Experimental Head IG Prestige MP Prince EXO3 Rebel 95 Prince EXO3 Rebel 95 Head IG Instinct MP Wilson BLX SixOne 95 16x18 Wilson KSixOne 95 18x20 Babolat Pure Drive Plus Prince EXO3 Tour

LXN Original 26/25 kg Babolat VS Team/LXN AluPower 23/22 kg Tecnifibre Black Code/Gut 24.5/24 LXN Original 27/26 kg Prince Gut/Prince Beast XP 22/21 kg Prince Gut/Prince Beast XP 23/22 kg Babolat VS Team/LXN Alu 24/24 o 25/25 kg LXN Original 19/19 kg LXN Alu 26.5 kg LXN AluPower 20.5/20 kg LXN Original 24/23 kg

FERRERO FOGNINI GASQUET ISNER IVANOVIC KARLOVIC KERBER KIRILENKO KOHLSCHREIBER KUZNETSOVA KVITOVA LI LLODRA LOPEZ F. LORENZI MONACO MURRAY NADAL NALBANDIAN PENNETTA PETROVA QUERREY RADWANSKA A. SCHIAVONE SEPPI SIMON STARACE STEPANEK TIPSAREVIC TOMIC VERDASCO VOLANDRI WILLIAMS S. WILLIAMS V. WOZNIACKI YOUNG YOUZHNY

Prince EXO3 Tour Babolat Pure Drive Head Extreme Pro Prince EXO3 Warrior Yonex EZone 98 Xi Prototype Yonex VCore 100S Yonex EZone Xi 100 Wilson BLX SixOne 95 16x18 Head IG Extreme Pro Wilson BLX Steam 100 Babolat Pure Drive 2012 Wilson BLX Juice Pro Wilson Juice 100 Head IG Prestige MP Yonex VCore 98 Head IG RadPro Babo AeroPro Drive Yonex RDS 100 Wilson BLX Blade 98 Pink Babolat Pure Storm Babolat Aero Pro Drive RG Babo PD Lite 2012 Babolat Aero Pro Drive RG Pro Kennex Q Tour Head IG Prestige MP Babolat Pure Drive Bosworth Custom Tecnifibre TFight 325 Yonex VCore 98S Dunlop Biomimetic 300 Head IG Prestige MP Wilson BLX Blade Team Wilson BLX Blade Team Yonex VCore 100S Dunlop Biomimetic 400 Tour Head IG Extreme Pro

LXN Original 24/23 kg Babolat RPM Blast 25/24 kg LXN Original 24-23 kg TF RedCode 130 o Kirschbaum PLII 27/27 kg Wilson gut/LXN AluPower 24/23 kg Genesis Typhoon/Babolat VS Touch 27/27 kg Kirschbaum PLII 17 25/25 kg Yonex PTP 17 26/24 kg Wilson gut/LXN Original Rough 23/24 kg Babolat VS Touch/LXN AluPower 24/23 kg LXN AluPower 27/25 kg Babolat Pro Hurricane 16/XCel 16 30/29 kg Babolat VS Touch 24 kg LXN AluPower 22/20 e 24/22 kg Pacific PolyForce 17/Tough gut 16L 25/25 kg LXN Original 23/23 kg LXN AluPower/Babolat VS Touch 26/26 Babolat RPM 1.35 25 kg LXN Original 19/19 lbs LXN AluPower/Wilson Gut 26.5/26.5 kg Babolat Revenge 1.30 23-22 kg LXN AluPower 27 kg Babolat RPM Team 16/VS touch 23/23 kg Babolat RPM 1.25 24.5/24 kg LXN AluPower 21.5/20.5 kg Head Riptour/Ripfeel 25/24 kg LXN Original 24/23 kg Babolat VS Team/LXN TiMo 117 24/24 kg Tecnifibre BlackCode 1.25 24 kg Babolat VS/FlexInfinity 24/23.5 kg LX Original 24/23 e 24/22 kg LXN Original 12/12 kg Wilson Gut/LXN 4G 29.5/28.5 kg Wilson Gut/LXN 4G 30/28.5 kg Babolat Revenge/VS Touch 26/26 e 27/27 kg Solinco Tour Bite 16L 26 kg Signum Pro Gut/Firestorm 1.25 28/27 kg

* FINE *

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MADE IN

Non è vero che tutte le corde sono prodotte nel Far East. C’è chi ha scommesso su una produzione fatta in casa, nel Biellese. Partendo da un ragazzino che trascorreva troppe 140


Il titolare della Double Ar, Roberto Rossetti, con la sua gamma di corde

ITALY

di LORENZO CAZZANIGA photo by MARCO DE PONTI

ore in spiaggia, passando per un’azienda che produce nylon e finendo col creare corde di indubbia qualità tecnica. E che meritano la chance di essere giudicate dagli appassionati 141


A

lla fine è stata tutta colpa della nonna che lasciava il piccolo Marco a bighellonare tutto il giorno in spiaggia, durante le vacanze estive. È stato a quel punto che Roberto Rossetti ha deciso di portarlo a fare uno sport ben preciso. Girovagando, si è imbattuto nella bella cornice del Tennis Club di Toirano. Il maestro Sandro Esposito è un tipo che infonde fiducia, e presto la coppia padre-figlio ha cominciato a prender lezioni.Al principio, almeno per la parte adulta, non è stato un successone (“Da fuori sembrava una barzelletta, in campo non ne prendevo una”). Ma il progetto Double Ar (non a caso riprende le iniziali del suo fondatore) è cominciato proprio lì, quando Rossetti si è incuriosito nel vedere il maestro incordare la sua racchetta: «Ehi Sandro, ma con che diavolo incordi la tua racchetta». La risposta è una folgorazione: «Nylon!». Già, perché Rossetti è il titolare della Finelvo, azienda di famiglia che produce filati tecnici per l’automobile: «Siamo in due al mondo a usare questi macchinari, creati dalla Singer, quella delle macchina per cucire. Abbiamo 44 dipendenti e fatturiamo circa 8 milioni e mezzo di euro. L’Italia rappresenta l’8-9%, l’Europa il 40%». In sostanza, il nylon è per Rossetti il pane quotidiano. «Mi feci dare dal maestro venti centimetri di corda, con la promessa che tre mesi dopo sarei tornato con un prodotto anche migliore. Cominciai a lavorare sull’aspetto chimico. La prima idea fu il rivestimento in ceramica, con il quale ho prodotto la Double Ar 22». Se qualcuno pensa che l’ufficio marketing dell’azienda sia privo di fantasia e non abbia trovato un nome più azzeccato, val la pena ricordare che in realtà, le cifre che accompagnano le corde rappresentano il numero di ricette testate prima di arrivare al prodotto finale! Per la prima corda, se ne resero necessarie ventidue.Ventidue. LA GRANDE SFIDA «L’idea era di far girare veloce ‘sta pallina - dice Rossetti -. Mi concentravo solo sul rivestimento del monofilo di nylon e su come settare di conseguenza i miei macchinari, ma senza pensare a come doveva reagire il prodotto finito». I primi risultati? «Terribili. Le corde erano degli spaghetti e si rompevano a guardarle. Poi, pian piano i risultati sono arrivati. Era però necessario provarla anche sul campo. Fin quando la testava un giocatore di club, andava tutto bene; poi, conoscendo Daniele Musa (ex top 200 del mondo) gli chiesi di farmi da tester. I giocatori super agonisti però, non riuscivano a espormi le problematiche dal punto di vista tecnico. Cercavo di capire dove migliorare e al contempo, cominciai a studiare altre corde. La Double Ar 40 aveva addirittura un rivestimento in silicio: uscivano satinate e incidevano anche il legno. Una volta mi hanno segato una racchetta incordandola! Era tanto bella ma i passacorde duravano tre incordature». Più Rossetti andava avanti nell’avventura, più incontrava difficoltà: «Ma è anche vero che mi innamoravo sempre più della sfida». NYLON: UNA SCELTA DI QUALITÀ La prima scelta importante è stata quella di affidarsi al nylon, materiale che Rossetti conosce come le sue tasche. «È altamente performante, molto confortevole, morbidissimo. Qualità decisamente superiori a quelle che può offrire il poliestere, col quale sono prodotte la maggior parte delle corde da tennis. Però il nylon ha anche una durata inferiore». L’idea attuale è dunque quella di utilizzare il poliestere ma avvicinandolo qualitativamente al nylon. «Le mie corde sono più morbide, assorbono le vibrazioni e offrono un’ottima giocabilità - afferma sicuro -. La nostra gamma 2012-2013 conterà di sei corde in poliestere e una in nylon. Quelle in poliestere saranno disponibili in due versioni: Standard e Star. Si tratta di due categorie totalmente diverse,

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tanto ne ho modificato i processi produttivi. Perché un conto è dare una corda a Seppi, ma per i giocatori di club, utilizzare un poliestere troppo duro rischia di far venire male al braccio.Tutti sono capaci di guidare una Ferrari, ma dipende se lo fai a 50, a 100 o 200 all’ora. Per questo la versione Star è consigliata solo a giocatori di ottimo livello agonistico». Per gli altri, meglio la Standard, anche se è normale che dopo 4-5 ore ci sia una fisiologica perdita di tensione. Con la base di nylon è rimasta la Double Ar 25. I maestri ne sono entusiasti perché è talmente morbida che anche dopo otto ore di lezione il braccio non subisce traumi. È adatta anche per i ragazzini che si stanno sviluppando fisicamente per agli adulti che giocano di tocco e magari soffrono di dolorini alla spalla: la palla esce da sola, al punto che si fatica a tenerla in campo! «Capito perché il nylon è dichiarato non agonistico?». UNA PRODUZIONE ITALIANA Va poi sottolineato come si tratti, caso ormai più unico che raro, di un prodotto totalmente made in Italy: «Vero. Nella mia fabbrica modifico le caratteristiche del prodotto estruso per esaltare una caratteristica piuttosto di un’altra. E talvolta servono due, tre processi». Bene, quindi tutto bello e tutto facile? Per niente. Soprattutto se spostiamo il discorso dalla produzione alla vendita. «Il mercato è stata la mia più grande delusione – ammette


Roberto Rossetti, impegnato sul campo da tennis che si è costruito all'interno della sua azienda di filati per automobili, la Finelvo, a Occhieppo Superiore, in provincia di Biella Rossetti -. Sono un industriale abituato a lottare contro prodotti più economici che devo battere in qualità. Con la Double Ar mi sono imposto di fare lo stesso. Però quello del tennis è un mondo piuttosto chiuso. E a tutto ciò si è aggiunta la crisi economica che inevitabilmente ha colpito anche il tennis». UNA SCELTA INTERESSANTE Tra le particolarità delle corde Double Ar, anche la lunghezza delle matasse. Facciamo due conti: «Con una matassa da 200 metri fai 18 incordature. Spendi mediamente oltre 100 euro e per 18 volte devi mangiare la stessa minestra. Noi ci siamo fermati a 60 e 120 metri, l’equivalente di 5 e 10 incordature. Così, se uno si stufa, cambia la minestra. E con 100 euro può comprarsi la matassa, l’abbigliamento e le palle: mi è sembrato un modo per andare incontro alle esigenze attuali di un appassionato». Già, perché l’obiettivo di Roberto Rossetti con la Double Ar non è diventare la nuova Babolat o la nuova Head, ma quello di creare un prodotto che soddisfi il cliente. Un obiettivo personale, ancor prima che di business. «Voglio vincere questa sfida, e per questo sto cercando una valida catena distributiva perché all’appassionato sia data la possibilità di assaggiare le mie corde. Negozianti compresi, ai quali chiedo di provarle, prima di giudicarle».

TENNIS & SQUASH Double Ar non si è però fermata al tennis, ma è sbarcata anche nello squash. «Avevo una corda di nylon velocissima: col servizio tiravi 15 km/h più forte, ma poi non la tenevi in campo. Per lo squash puntiamo soprattutto sulla Challenge: in tanti dicono che sia la miglior corda da squash del mondo». Tanto che la utilizza anche un top 20 mondiale: Adrian Gray. Tuttavia, trasformare la qualità industriale in forza commerciale, è un’altra faccenda. Anche a causa dell'incompetenza di chi incorda: «Se vai in quattro negozi diversi presentando lo stesso problema di corde, riceverai quattro consigli differenti – dice ancora Rossetti -. Certo, ci sono anche incordatori molto capaci: noi ci rivolgiamo a loro». Già, a chi ha voglia di spiegare una corda certificata ISO 9001, con controlli molto precisi. «In realtà, la criticità del processo è sempre data dalle temperature. Sono micidiali perché in grado di spaccarti perfino il polimero. Si chiama degradazione termica e bastano pochi gradi per rovinare tutto.Al principio, senza testare in campo il prodotto, lanciavo la produzione appena il laboratorio aveva dato il suo assenso. Ho riempito cassoni interi di corde da tennis...». Ora l’intenzione è quella di riempire i negozi. I quali sono sommersi di matasse, ma che devono comunque offrire prodotti con caratteristiche diverse tra loro. Perché la qualità, che sia del prodotto o del servizio, alla fine paga sempre.

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TECNICA SMASH!

VISTO DA FUORI, È UNO DEI COLPI PIÙ SEMPLICI DEL TENNIS. Invece la faccenda è ben diversa. Lo smash diventa un colpo semplice se ci si mette nelle condizioni di renderlo tale. L’esecuzione non è complicata (il gesto è simile a quello del servizio, ma si colpisce la palla vicino alla rete e con l’intero campo a disposizione), ma è fondamentale cercare la palla al meglio, muovendo rapidamente i piedi per trovare la posizione giusta che faciliterà l’esecuzione. Se poi il pallonetto è giocato particolarmente bene, non guasta avere doti atletiche importanti. Cercate poi sempre un angolo a uscire per rendere il tentativo di recupero dell’avversario più difficile.

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A C I N EC

DI LUCA BOTTAZZI

IL TENNIS DI OGGI. E DEL FUTURO IL TENNIS MODERNO SI MANIFESTA IN MANIERA BEN DIFFERENTE DAL PUNTO DI VISTA TECNICO MA ANCHE STRATEGICO E TATTICO. ECCO COME SARA IL CAMPIONE DEL FUTURO. LA CUI EVOLUZIONE POTREBBE PARTIRE... DAL PASSATO IL TENNIS NEL 2012 Il mondo dello sport si è spesso affidato alla provvidenza. La provvidente madre natura ha sempre sfornato campioni attraverso un processo empirico. Questa dinamica naturale produce un risultato che in letteratura viene definito fenomenologico. Lo sviluppo avviene nei playground, i più grandi serbatoi di reclutamento di praticanti al mondo. Un esempio sono gli spazi aperti per il calcio argentino e brasiliano, negli USA i ghetti afroamericani per il basket, il football e la boxe, gli altipiani africani per la corsa, eccetera. Questo sistema ha prodotto campioni d’eccellenza più di qualsiasi federazione o scuola sportiva di base. Questi campioni hanno rivoluzionato la storia dello sport attraverso moduli strategico-tattici e varietà di stili innovativi. Un esempio su tutti è quello di Fosbury: prima di lui nessuno aveva mai pensato di poter fare il salto in alto superando l’asticella di schiena, stabilendo inoltre il nuovo record del mondo. Si pensi solo che il salto in alto è classificato dagli esperti come una disciplina ad abilità chiuse e nonostante questo fatto, cambiamenti e innovazioni continuano a manifestarsi. Figuriamoci cosa accade da sempre all’interno dei giochi sportivi (calcio, volley, basket, tennis, eccetera) che al contrario sono discipline classificate ad abilità aperte, in condizioni variabili, dove la situazione non è mai due volte la stessa. Il confronto tra stili diversi è da sempre stato l’ingrediente principale del successo in ogni tipo di gioco. Questo elemento è addirittura vitale nel successo popolare di uno sport, in particolare quando si rileva l’assenza di campioni o di squadre leggendarie. Dall’inizio degli anni 2000 la Federazione Internazionale Tennis (ITF) è intervenuta in merito a superfici e palle per rendere il gioco più omogeneo su tutte le superfici. Il risultato prodotto è stato quello di rendere la dinamica del tennis simile su tutti i campi. Questo fattore ha generato dei giocatori che interpretano il gioco tendenzialmente allo stesso modo, creando una specie di omologazione stilistica. Al momento lo Star System del tennis internazionale gode di ottima salute grazie a tre campioni eccezionali come Djokovic, Nadal, Federer con a rimorchio due grandi giocatori come Murray e Del Potro. Di contro i giovani rincalzi per il prossimo futuro sembrano non essere all’altezza degli interpreti attuali. Per completezza d’informazione va ricordato che i passaggi generazionali nel tennis hanno spesso lasciato dei vuoti prima di riprendere quota. Ad esempio, alcuni numeri uno del mondo come Muster, Ferrero, Moya, Roddick, non possono certo reggere il confronto con diversi colleghi del passato, nè tantomeno con quelli attuali. Purtroppo, vista la situazione nelle retrovie, forse è il caso di porsi delle domande e trovare delle soluzioni, evitando di riporre ogni speranza sempre e solo nella provvidenza. Anche nel tennis femminile contemporaneo esistono diversi problemi. Negli ultimi anni si sono alternate troppe giocatrici al vertice della classifica mondiale. Il fatto ha comportato la possibilità per chiunque fosse nelle top 30 di poter conseguire risultati eccezionali. Già dalla metà dello scorso anno pare che questa problematica stia via via scomparendo. Una maggior stabilità al vertice pare essere garantita grazie ad Azarenka e Kvitova, due nuove campionesse di razza, oltre alla rediviva Sharapova. ASPETTI PRINCIPALI DEL TENNIS DI VERTICE Il tennis è uno sport di situazione senza contatto fisico, dove però il problema degli infortuni è elevato e in continuo aumento rispetto al passato. A questo 146


risultato si è giunti per causa dell’evoluzione del gioco sempre più immediato, esplosivo, potente e fisico e di conseguenza più stressante sotto ogni aspetto. Dopo aver analizzato e rielaborato diversi dati in una sintesi composta da tre elementi principali, il quadro della situazione potrà apparire chiaro a chiunque. LA DISCIPLINA - tempo necessario alla formazione (ingresso top 100) = aumentato - durata della carriera = diminuito - tempo per allenarsi in relazione alle gare = diminuito - regolamento: tempi di pausa tra due punti = diminuito LE COMPETIZIONI - nazioni che organizzano tornei = aumentato - spostamenti e viaggi = aumentato - cambio continuo tra superfici di gioco e palle = aumentato - tornei, punti e soldi in superfici cementose = aumentato - nazioni presenti in classifica = aumentato - giocatori/trici presenti in classifica = aumentato - prestanza fisica dei giocatori e delle giocatrici (es. rapporto altezza-peso) = aumentato LA PRESTAZIONE - percentuale di gioco effettivo = aumentato - durata media di un punto = aumentato - numero di colpi giocati in un punto = aumentato - intervallo tra due colpi consecutivi = diminuito Un aspetto fondamentale che i dati risaltano e su cui vale la pena porre l’attenzione, riguarda il percorso formativo dei giovani tennisti. I tempi e gli elementi necessari per imporsi nel tennis internazionale sono maggiori e più complessi rispetto al passato. Di conseguenza saltare le tappe di apprendimento in favore di una richiesta di precocità in termini di risultati per cercare di arrivare il prima possibile al successo, pare essere un indirizzo inopportuno. In particolare se questo orientamento diviene parte di un sistema. Le ragioni da considerare sono due. La prima

riguarda il pericolo di bruciare i pochi talenti disponibili. La seconda è continuare ad alimentare l’abbandono precoce da parte dei tanti praticanti che non hanno particolare talento e che contribuiscono ad elevare il livello medio di uno sport rendendolo in generale più competitivo. La soluzione è rivedere e rielaborare una strategia metodologica e didattica per la scuola tennis e l’approccio alle gare per i giovanissimi. Sul punto, gli articoli che ho trattato nei precedenti numeri di TennisBest Magazine hanno fornito diversi spunti. Per completare l'informazione sul tema, ricordo che la federazione internazionale (ITF) e quella americana (USTA) hanno da poco varato un progetto relativo ai vivai e al reclutamento del talento. IL TENNIS DEL FUTURO Nel tennis di vertice, a prescindere dai cambiamenti e dall’evoluzione del gioco, la superficie in cui vengono prodotte più giocate vincenti rimane l’erba, quella con più errori gratuiti è sempre la terra battuta. Nelle partite, i fattori potenza e intensità, sono in prima lettura quelli che principalmente caratterizzano le azioni di gioco. Questi elementi sono legati ad aspetti spazio temporali, i quali risultano sempre più ridotti e a loro volta generano una sorta di gioco a specchio tra i contendenti. Volgarizzando, il tennista moderno agisce come se giocasse un tennis in bianco e nero. Il poco tempo a disposizione comporta inevitabilmente un’estrema sintesi nel processo pensiero-azione. In queste condizioni il procedimento deve risultare più semplice, diretto, pulito. Questa dinamica pare fare riferimento alla teoria del riflesso condizionato di Pavlov che risponde agli elementi di stimolo e risposta. Il risultato è appunto un tennis in bianco e nero, corri e tira. Un'altra lettura dei fatti potrebbe essere spiegata anche in modo diverso. Il fattore centrale potrebbe essere l’utilizzo di una estrema azione di anticipazione che porta i giocatori ad esasperare i tempi, appiattendo le elaborazioni strategico-tattiche. Salvo eccezioni, questo è quanto emerge in superficie, non solo nel tennis, ma in tanti giochi sportivi moderni. Vien da chiedersi dunque, come sarà il campione del futuro. Dovrà essere un giocatore in grado di evolvere il processo pensiero-azione trovando nuovi modi per gestire i fattori di spazio e tempo per giocare un tennis a colori. Un possibile scenario è che emerga un grande talento capace di elaborare più elementi all’interno delle attuali condizioni spazio temporali, attraverso una capacità di anticipazione eccezionale. Un secondo scenario è che arrivi un campione capace di produrre una strategia in grado di rallentare i tempi di gioco senza perdere il vantaggio operativo, per poi accelerarli in situazioni favorevoli. In questo specifico caso, il rallentamento dei tempi, ottenuti attraverso variazioni strategico-tattiche, consentirà al processo pensiero-azione del campione di combinare maggiori elementi. IL MURO DI PALLEGGIO Infine mi sia consentito di lanciare una proposta metodologico-didattica. Una proposta che la ITF, la USTA e molte illustri accademie, pare non abbiano inserito nei loro progetti per il tennis giovanile. Si tratta del muro, uno strumento (playground) che ha sempre aiutato il reclutamento di praticanti, ma attualmente, salvo rare eccezioni, non è più utilizzato nelle scuole tennis. Il muro permette di sviluppare capacità fondamentali quali anticipazione, reazione, ritmo, equilibrio e altre ancora. La sensopercezione e l'autocorrezione sono particolarmente stimolate. Vista l’assenza dell’avversario e dell’altra metà del campo, immaginazione e rappresentazione vengono accresciute. Dal punto di vista prestazionale, il muro costringe il giocatore alla concentrazione e all’attenzione. Promuove la continuità quale aspetto centrale dell’addestramento o dell’allenamento, correlandolo a intensità e precisione. Il muro è uno strumento eccezionale e il tennis del futuro potrebbe essere aiutato anche da una rivisitazione del passato. Probabilmente del muro nessuno parla ed è stato archiviato, perché contiene una enorme contraddizione commerciale: è gratis. LUCA BOTTAZZI, ex giocatore professionista e docente di Scienze Motorie all'Università, commentatore SKY e socio fondatore di R.I.T.A. Per approfondire le tematiche trattate, potete scrivere a info@tennisbest.com 147


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OBIETTIVO? MIGLIORARE!

PUÒ UN GIOCATORE DI CLUB CANCELLARE UNA DECENNALE MEMORIA MUSCOLARE PER CORREGGERE LA PROPRIA TECNICA DI GIOCO? ANDREW FRIEDMAN CI HA PROVATO...

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e siete giocatori del mio livello, vuol dire che avete anche voi un tallone d’achille nel vostro bagaglio tecnico, una debolezza che vi accompagna sin da quando avete cominciato a giocare. È chiaro che vi sono momenti di frustrazione perché ci si sente impotenti davanti a tutto ciò, ma solitamente non c’è granché da fare per una semplice ragione: quando giocare a tennis non è il vostro lavoro, trovare il tempo (senza considerare il talento, l’allenamento e la volontà) per migliorare il diritto o la volée, è chiedere troppo. Oppure no? Il mio tennis raggiunge il suo punto più basso col servizio. È così da sempre. Al centro del problema, l’impugnatura. Uso la stessa Eastern di sempre, appresa come autodidatta da ragazzino. Devo picchiare forte per ottenere qualche risultato ma non offre alcuna possibilità di variare, direzione e rotazione. Nel corso degli anni, diversi (ottimi) maestri hanno cercato di convincermi a cambiarla con un’impugnatura Continental, ma mi sono sempre rifiutato: non ho tempo di fare centinaia di cesti e sviluppare una nuova memoria muscolare. E non sono nemmeno disposto a perdere tanti match per riuscirci. Un maestro, piuttosto frustrato dalle mie ragioni, mi ha ricordato che pure Pete Sampras ha cambiato il rovescio bimane che usava da ragazzo con quello a una mano, ed è stato disposto a perdere diversi match e varie posizioni nella classifica junior pur di farlo. Già, ma Sampras stava cercando una strada per arrivare a vincere Wimbledon; io, col tennis, voglio solo divertirmi. Detto ciò, recentemente ho ripensato a certi miei convincimenti. Così mi sono nuovamente chiesto: quanto mi costerebbe provare realmente a sviluppare un servizio più penetrante e vario? TESTO DI MARCO IMARISIO Per scoprirlo, ho chiamato il mio primo maestro (colui che mi ha insegnato i colpi fondamentali, alla relativamente vecchia soglia dei 40 anni), Al Johnson, col quale mi sono ritrovato al

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The Prospect Park Tennis Center di Brooklyn, New York City. Già quando prendevo regolari lezioni settimanali, Al aveva cercato di spiegarmi l’importanza di avere un servizio solido, insistendo per terminare ogni lezioni con almeno 10 minuti di servizi. Ma nemmeno lui mi convinse a cambiare l’impugnatura. Ho chiamato Al e gli ho spiegato il mio cambio di opinione. È rimasto sorpreso quanto felice e abbiamo fissato una lezione. Quando ci siamo visti, abbiamo stabilito un format che era l’esatto opposto delle vecchie lezioni: 10 minuti di scambi da fondo per scaldare i muscoli e 50 minuti di servizio. Cinquanta minuti parcheggiato sulla linea di battuta, eseguendo un solo colpo, senza nessuno che rispondesse, nessun palleggio, e nemmeno l’occasione di sudare un pochino. È ciò che succede quando un giocatore di club decide di cambiare qualcosa nel proprio gioco. Al mi ha mostrato come impugnare una Continental e i vantaggi che avrei riscontrato: «Potrai finalmente muovere il polso come si deve». Mi consigliò anche di tenere la mano rilassata mentre impugnavo. È bastato girare un filino l’impugnatura dalla Eastern alla Continental per avvertire una sensazione totalmente nuova e, appena lanciata in aria la palla, non avevo alcuna idea di come dirigere il colpo, una sfida esasperata dalla necessità di pronare il polso leggermente appena prima di colpire la palla, per ottenere un angolo di impatto adeguato. Sono stati 50, lunghi minuti. Restare concentrato sulla nuova impugnatura, mantenere la mano rilassata, pronare e dirigere la palla nel box di battuta mi sono costati maggior fatica che imparare le basi del servizio.Al si è raccomandato di non colpire dei brutti lanci e di tenere la testa alta per osservare il momento dell’impatto. Esercizi che mi ricordavano da vicino le riabilitazioni che ti insegnano nuovamente a camminare dopo un brutto incidente alle gambe. «È durissima» gli dissi ad un certo punto. «Ovviamente è dura - mi ha risposto Al mentre mi offriva un’altra palla da colpire -. È tutto nuovo». Poi, pian piano ho cominciato a trovare regolarità e a colpire più forte. Alla fine, Al mi ha chiesto di servire dieci volte da destra e, con mia grande sorpresa, otto sono finiti perfettamente in campo. Tuttavia, erano talmente deboli che non mi sentivo granché ottimista, nel caso mi fossi trovato a giocare una partita. Ho quindi provato a servirne altre dieci, aumentando la velocità dell’esecuzione. La mia percentuale è subito crollato al 50%. Cosa sarebbe successo durante una partita? Ho deciso di scoprirlo giocando contro il mio amico Marc e promettendo a me stesso che non avrei fatto passi indietro verso la mia vecchia impugnatura. Nemmeno una volta. Se anche mi fossi trovato in una situazione delicata, avrei provato a uscirne con il mio nuovo movimento. Ho però commesso l’errore di dire a Marc quello che stavo cercando di fare.Vinto il sorteggio, mi ha guardato beffardo: «Servi tu per primo!». Ho controllato l’impugnatura,

rilassato la mano, lanciato la palla e... bam! La palla è rimasta miracolosamente in campo. Tuttavia, il mio servizio era talmente privo di potenza che Marc riusciva sempre a mettermi pressione con la risposta. Tuttavia, entrambi abbiamo tenuto il nostro turno di servizio varie volte. Sul 4 pari, è arrivato il momento della verità. Mi sono trovato ad affrontare un break point. In altri momenti mi sarei rifugiato nel mio vecchio movimento, per essere sicuro di generare sufficiente potenza e magari di tirare una prima vincente. Invece, ho tenuto la mia presa Continental, ho fatto rimbalzare la palla, controllato il grip, rilassato la mano, lanciato la palla e... bam! È finita lunga. Dopo un lungo respiro (e qualche rimbalzo extra) ho lanciato nuovamente la palla che è finita miseramente in rete. Doppio fallo. Cinque minuti dopo, Marc aveva vinto il set. Il match mi ha fatto pensare molto. Certamente non è stato l’esordio che mi auguravo per la mia nuova “arma”. Ma devo riconoscere che, se voglio migliorare il mio servizio, devo essere disposto a perdere qualche game, e qualche match, prima che il nuovo gesto diventi meccanico. Devo inoltre continuare a lavorare tecnicamente e per questo ho prenotato un’altra lezione con Al. Gli ho raccontato del match e mi ha detto di non mettermi troppa pressione addosso. Per concentrarmi sulla meccanica esecutiva, mi ha consigliato di fare due cose: tenere il mignolo alzato per rilassare maggiormente la mano, e colpire docilmente il servizio, preoccupandomi solo di indirizzarlo esattamente dove volevo, senza preoccuparmi della velocità. Poi, in seguito, di eseguire tranquillamente il gesto, velocizzando però la testa della racchetta all’ultimo secondo. Piano piano ho preso confidenza con la nuova impugnatura e ho cominciato a tirare sempre più forte. Ho quindi fissato un altro match, questa volta contro un avversario mai visto prima, tal Stone. Questa volta mi sono incontrato con Al prima del match e ho servito 15 minuti con lui che mi rispondeva, simulando qualche punto. Mi sono sentito molto meglio. Nonostante abbia subito dei break, questi erano dovuti più alla qualità del gioco avversario che ai miei servizi deboli. Ho comunque vinto il primo set 6-4 e conducevo 5-2 nel secondo quando è terminata la nostra ora di gioco. Mi ero divertito meno di altre volte perché troppo concentrato sul mio servizio, ma ero anche soddisfatto dei risultati raggiunti. Le ragioni delle miei iniziali resistenze persistono:ho cominciato a giocare a tennis per sfogarmi dallo stress quotidiano, non per aggiungerne altro. Ma la vittoria in questo secondo match mi ha dato la motivazione per continuare in questo progetto: giocare una prima più versatile e una seconda carica di spin. Vado avanti convinto che i risultati più difficili da ottenere sono quelli che offrono le maggiori soddisfazioni. Il nuovo servizio dovrebbe permettere di considerarmi un giocatore più completo. E cosa ci può essere di più divertente su un campo da tennis?

DEVO RICONOSCERE CHE, SE VOGLIO MIGLIORARE IL MIO SERVIZIO, DEVO ESSERE DISPOSTO A PERDERE QUALCHE MATCH PRIMA CHE IL NUOVO GESTO DIVENTI MECCANICO 150




SQUASH

L’ARENA DELLO SQUASH

MAGGIO 2012, LONDRA, O2 ARENA, prossima protagonista dei Giochi Olimpici. Adrian Grant, inglese n.15 al mondo, si “china” a recuperare un attacco dell’egiziano Mohamed El Shorbagy, n.8 al mondo, nei sedicesimi di finale dell’ “Allam British Open 2012”, torneo del circuito World Series della Professional Squash Association, l’ATP dello Squash. Per cornice di pubblico (5.000 spettatori a match raccolti attorno alla spettacolare Glass Arena di ultima generazione), media coverage (diretta streaming e su Sky UK) e qualità del tabellone (con tutti i top 32 iscritti,) il super classico londinese è conosciuto anche come il “Wimbledon dello Squash”.

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IL PERSONAGGIO

Dylan Bennett Olanda, 27 anni

intervista di LORENZO CAZZANIGA photo by MARCO DE PONTI

Squash boom! Se volete avere un'idea di cosa voglia dire basta organizzarsi un viaggetto in Olanda: distese di campi distribuiti in centinaia di club in tutto il paese e migliaia di appassionati pronti a prenderli d'assalto. In generale, gli sport con racchetta godono di particolare notorietà nei Paesi Bassi, ma lo squash in Olanda è comuqnue un'eccezione per la popolarità che ha raggiunto. Noi abbiamo incontrato uno dei loro migliori giocatori, Dylan Bennett. Fermato da un infortunio, sta ora tornando su livelli molto alti, aiutato anche da uno sponsor made in Italy come Double Ar e da una famiglia che respira squash dalla mattina alla sera.  È stato in Italia per giocare i Campionati a Squadre: come giudica il livello dello squash nel nostro paese? Credo sia in crescita, avete un paio di buoni giocatori ma non il campione che consetirebbe di fare un grande salto in termini di popolarità. Non so quanto stiano progredendo i giovani perché la strada verso il professionismo è dura. Ma lo è in tutta Europa, non solo in Italia. Però l'interesse è indubbio e lo si vede dalla qualità dei giocatori che hanno preso parte ai Campionati a Squadre e dall'interesse che ha generato il torneo. Il problema è che l'Italia eccelle in tanti sport, quindi credo che gli appassionati pretendano di avere subito un top 10, mentre negli sport individuali raggiungere certi traguardi è molto complicato.  In Olanda lo squash è già uno degli sport più praticati. Vero, il quarto in senso assoluto. Molti lo praticano a livello amatoriale ma c'è una buona base di giovani. In più, tra uomini e donne, siamo una decina tra i top 100 al mondo. Il problema restano i soldi perché la crisi ha colpito anche lo sport. Io, per esempio, quando torno a casa devo insegnare per qualche ora la settimana per pagarmi tutte le trasferte.  Come si è avvicinato allo squash? Il mio patrigno è stato coach nazionale seniors e juniors per 14 anni e mi ha avviato allo squash. Poi ci si è messa anche mia mamma! In realtà non mi hanno mai forzato ma continuando a guardare match e a passare del tempo sui campi, mi è venuto naturale provare.  Quest'anno Londra ospiterà i Giochi Olimpici ma lo squash non è stato ammesso: che sensazioni prova a rimanere escluso da questa competizione? Francamente sono deluso da questa decisione perché credo che lo squash abbia tutte le caratteristiche per farne parte. Sarebbe una grande occasione per ottenere più visibilità e, di conseguenza, maggiori sponsor. Perché sarebbe bello che il n.40 del mondo di squash guadagnasse come il n.40 del mondo di tennis. Comunque la situazione sta migliorando anche per noi, anche se lentamente.  A questo punto della sua carriera, qual è il suo obiettivo? Tornare tra i top 40 come un paio di stagioni fa, quando mi sono dovuto fermare per infortunio. È complicato perché il livello medio si è notevolmente alzato: solo i primi 10 sono di un'altra categoria. Ma se il numero 20 incappa in una brutta giornata, può perdere anche dal numero 100.  Cosa pensa di fare una volta terminata la carriera da professionista? Resterò nel mondo dello squash perché è l'ambiente dove sono cresciuto e maturato e mi trovo splendidamente. Poi la mia famiglia è proprietaria di uno squash club con 15 campi a Eindhoven, in Olanda ed è normale che continui a lavorarci anch'io. Lo squash è stato la mia vita fin qui e sono convinto che continuerà ad esserlo anche dopo che avrò abbandonato il circuito pro.  Anche in Italia lo squash sta tornando a godere di ottima popolarità: ci dia dei buoni motivi per cominciare a giocare. Beh, prima di tutto c'è l'aspetto competitivo. Si colpisce contro un muro ma non c'è una rete a dividervi dal vostro avversario, un fatto esalta le qualità caratteriali: infatti l'aspetto psicologico è determinante. Bisogna essere come Roger Federer: giocare un punto e, se è girato male, dimenticarselo in un istante. E poi con lo squash ci si tiene in grande forma fisica: avete idea di quante calorie si bruciano in una partita? 155


i t n e v E ANI

R VALE O I Z I AUR

DI M

La bellissima cornice dello Sporting Milano3 ha ospitato le finali dei Nazionali Assoluti di Categoria. Un grande successo con più di 300 iscritti e oltre 250 partite disputate

Spettacolo Assoluto

Il grande giorno è arrivato! Tutta una stagione improntata per arrivare al massimo della condizione e giocarsi l’evento clou dell’anno, i Nazionali Assoluti di Categoria. Manifestazione articolata su più week-end, è stato lo splendido complesso sportivo dello Sporting Milano3 ad ospitare semifinali e finali di tutte le categorie. Un successo unico, con più di 300 iscritti e oltre 250 partite disputate, a suggello del grande interesse che si sta muovendo attorno a questo sport che speriamo presto possa finalmente diventare disciplina Olimpica. Categoria Light: è la base della piramide che raccoglie i neofiti pronti a gettarsi nella mischia senza timori reverenziali; tecnica e strategia di gioco latitano, ma vengono sopperiti dalla voglia di divertirsi e dai primi sintomi di carica agonistica. Almeno una decina i papabili designati alla vittoria. Alla fine ha vinto con grande merito il torinese Paolo Merialdi per 3-1 sulla sorpresa del torneo, Maurizio Ambrosioni (Trento). Rispettivamente terzi e quarti classificati Marco Olivieri e Luca Di Bernardo. IV Categoria: i giocatori colpiscono indifferentemente sia di diritto sia di rovescio con le palline che orbitano abbastanza vicine ai muri laterali; la tattica comincia a diventare parte integrante del gioco. In questa categoria ha dominato per tutta la stagione Ricardo Ottaviani che si è presentato come super favorito. Un lotto di altri cinque, sei giocatori si sono in realtà contesi le piazze d’onore con un pensierino in cuor loro a qualcosa di più importante. In semifinale, Riccardo Ottaviani contro Marco Tapparo e Michele Redaelli contro Fabio Marinoni, con i pronostici della vigilia rispettati. Riccardo Ottaviani si è poi imposto su Redaelli per 3-1, incorniciando una stagione meravigliosa, con la vittoria ai Nazionali. III Categoria: ormai gli scambi non sono limitati a pochi colpi, la pallina viaggia a velocità sostenuta e il ritmo comincia ad essere parte fondamentale. Anche in questa categoria un protagonista assoluto: Davide Fadi, al quale si contrappon156

gono almeno sei/otto giocatori, praticamente sullo stesso livello, pronti ad approfittare della pur minima distrazione per sopraffare il rivale. Alla fine i quattro semifinalisti risultano essere Davide Fadi contro Fabio Magliano e l’intramontabile Paolo Ghirelli contro Alessandro Benassi, grande sorpresa dell’evento. Quest’ultimo ha affrontato Fadi, sperando nell’impresa, ma il giocatore di Cadrezzate si è dimostrato troppo superiore e si è imposto per 3-0 trovandosi in finale la promessa Fabio Magliano. Ad alzare il trofeo del primo classificato è stato Davide Fadi. II Categoria: precisione e ritmo impongono una prima decisa selezione, funambolici colpi fanno poi la differenza per scalare le posizioni di classifica. Questa categoria sembrerebbe essere la più equilibrata; alle fasi finali sono arrivati Roberto Morini contro Stefano Scarioni e Stefano Tognetti contro Giancarlo Ottria. Morini e Ottria hanno avuto la meglio raggiungendo la finale dove è stato il primo a spuntarla per 3-1, coronando un bellissimo sogno inseguito da molto tempo. I Categoria: i colpi partono come saette, precisione millimetrica, grande tenuta atletica e colpi da autentico giocoliere sono le caratteristiche principali per primeggiare; è l’anticamera dell’olimpo squashistico ovvero dei Pro, mitica categoria dai più anelata ma da pochi raggiunta. Massimiliano Bertola ne è l’interprete principale avendo in stagione dominato e la sua sembra una vittoria già scontata, con altri cinque/sei giocatori a contendersi gli altri gradini del podio, a meno di clamorose sorprese che lo squash sa sempre riservare. I quattro attori che sono arrivati in semifinale sono stati Massimiliano Bertola, Stefano Verbena, Fabrizio Palumbo e la sorpresa Brenno Zuccarello. In finale sono poi giunti, unico caso di questi Nazionali, le prime due teste di serie, Bertola e Verbena. A conquistare la vittoria con un netto 3-0 è stato il ligure Massimiliano Bertola. Info: www.squash.it


NON SERVE ESSERE UNA “SCHIAPPA” PER PERDERE UN MATCH! di Giorgio Virgilio*

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Nell'altra pagina, in alto, il vicepresidente nazionale CSAIn Franco Cacelli, Rosanna Mangiarotti (vicepresidente ASSI), Marco Vercesi (responsabile tecnico ASSI), Luca Pelucelli (Presidente ASSI) e, sotto, i vincitori delle varie categorie dei Nazionali Assoluti, Paolo Merialdi, Riccardo Ottaviani, Massimiliano Bertola, Davide Fadi e Roberto Morini. In questa pagina: 1. Paolo Merialdi, vincitore della Categoria Light 2. Riccardo Ottaviani, vincitore della IV Categoria 3. Roberto Morini, vincitore della II Categoria 4. Massimiliano Bertola, vincitore della I Categoria 5. Maurizio Valerani, direttore dell'evento 6. Momenti di riflessione durante i vari match 7. Brenno Zuccarello 8. Fabrizio Palumbo 9. Davide Fadi, vincitore III categoria 10. Danilo Barra

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Quante volte un gesto tecnico o un’azione di gioco non andati a buon fine provocano critiche, tanto più feroci e generalizzate quanto più alta è la posta in gioco (dove l’entità della posta si misura sulla base delle emozioni che il processo di identificazione con l’atleta è capace di attivare). E quasi mai le critiche sono indirizzate nel modo giusto ovvero verso il comportamento; i mugugni e in maniera crescente le urla di disappunto che si levano via via dagli spalti si trasformano sempre più spesso in insulti diretti a colpire l’identità stessa del giocatore. Ma criticare una volée sbagliata o un attacco a rete intempestivo non è la stessa cosa che definire un "incapace” l’autore dell’errore: nel primo caso si tratta di una critica costruttiva (verso l’azione, il comportamento) nel secondo caso, (verso l’identità del soggetto) di una critica manipolativa che può avere effetti molto pesanti sull’autostima dell’atleta, fino al punto da comprometterne le prestazioni future. Certamente il peso delle critiche manipolative sul rendimento del giocatore varia in base alla considerazione che egli ha di se stesso, ma è altrettanto innegabile che se il soggetto è in una condizione di fragilità psicologica (giovane età, stress elevato) le “voci contro” che insistentemente vengono a lui rivolte dall’esterno, si trasformano in “voci di dentro” che prendono il nome di “convinzioni limitanti” per cui, alla convinzione di “non essere capace” corrisponderanno prestazioni adeguate: cioè scadenti. Un invito quindi agli istruttori e ai maestri che fanno, giustamente, della critica uno strumento indispensabile del loro lavoro, in particolare a chi lavora con giovani atleti, a farlo utilizzando le giuste modalità. Le parole pesano e a volte possono risultare dei macigni: critiche sempre costruttive (rivolte ai comportamenti) e mai critiche manipolative (rivolte all’identità) demolitrici dell’autostima. Infine un’osservazione da condividere con tutti i tifosi, appassionati sostenitori dei giocatori più o meno famosi di tennis e di squash: James Willstrop, Nicol David, Novak Djokovic, Rafael Nadal, Roger Federer, Andre Agassi, Pete Sampras, Steffi Graf, Martina Navratilova, Serena Williams, per citarne alcuni, hanno tutti sbagliato centinaia colpi e perso più di un incontro nella loro brillantissima carriera. E non erano certo delle “schiappe”. *Counselor & Coach, Professionista P.N.L., giorgiovir@fastwebmail.it, www.giorgiohelpsyou.beepworld.it

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Lo Squash entra in Bocconi La Polisportiva della celebre Università milanese istituisce il nuovo Gruppo Squash La polisportiva dell’Università Commerciale Luigi Bocconi, l’A.S.D. Bocconi Sport Team, ha ufficializzato il suo ingresso nel mondo dello Squash con la costituzione del suo nuovo Gruppo Squash, affidato alla cura di Paolo Saccenti (il secondo da sinistra nella foto in alto), squashista di lunga data e laureato Bocconi. L’attenzione di Bocconi Sport Team per questo sport nasce grazie all’impulso di A.S.S.I. nella persona del Responsabile Tecnico Marco Vercesi e dello stesso Saccenti, consigliere di Bocconi Alumni Association, l’Associazione Laureati dell’Università Bocconi. Ad un primo “assaggio” presso lo Sporting di Milano 3 nel dicembre scorso cui hanno partecipato diversi studenti e laureati, alcuni dei quali “absolute beginners”, ha fatto seguito uno stage presso il Forum di Assago all’inizio di febbraio che ha consentito di consolidare il gruppo e ai principianti di impugnare la racchetta sotto la guida esperta di tecnici A.S.S.I. A fine febbraio è stato organizzato, sempre al Forum, il primo Bocconi Squash Tournament, torneo riservato al gruppo Bocconi, che ha visto una partecipazione entusiasta in una giornata di divertimento puro. Lo squash Bocconi è tornato a maggio allo Sporting Club per un secondo torneo che, svoltosi in concomitanza con i Nazionali C.S.A.In., ha offerto la possibilità a tutti i partecipanti di assistere a prestazioni di alto livello. L’attività di Bocconi Sport Team, che si rivolge a studenti, docenti, laureati dell’Università, ai loro familiari,

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in pochi mesi ha dimostrato che lo Squash ha le caratteristiche adatte per appassionare e coinvolgere un numero molto elevato di bocconiani. Si può praticare in tutte le stagioni, richiede un’attrezzatura molto semplice, non presenta grandi problemi di programmazione e organizzazione. In breve: un’attività che si addice particolarmente a persone molto impegnate nel lavoro o nello studio e che Bocconi Sport Team intende riproporre e sviluppare nella stagione sportiva 2012/2013. Bocconi Sport Team è l’espressione dell’interesse dell’Università Bocconi per l’attività sportiva, che viene considerata uno strumento essenziale per il completamento della formazione personale e manageriale degli studenti. Nata nel 2003, la polisportiva conta oggi circa 1.000 soci, coordina 8 sezioni sportive ed è presente in 14 discipline: calcio, pallacanestro, pallavolo, rugby, lacrosse, pallanuoto, nuoto, golf, tennis, squash, atletica, sci e snowboard, judo e alpinismo. L’Università incoraggia la pratica sportiva, che sia agonistica, amatoriale o di evasione. Le squadre della Bocconi partecipano ai campionati delle rispettive Federazioni nazionali: la pallacanestro maschile in serie D, la pallavolo maschile e femminile, il calcio maschile a 5 in serie C1, il calcio femminile a 11 in serie C, la pallanuoto in serie D. La squadra di Lacrosse è campione d’Italia 2012.


DOUBLE AR Pro

Sottile, sottilissima. La Double AR Pro colpisce immediatamente per il calibro inusuale , solo un millimetro di spessore per la punta di diamante della Casa biellese che si pone all’attenzione degli addetti ai lavori come la corda da squash più sottile al mondo. Logico che in campo tale spessore si faccia sentire: la prima sensazione è quella di “colpire la palla con la mano”. L’estrema sensibilità è la caratteristica principale di questo monofilamento in Polytech (poliestere di ultima generazione) rinforzato da un trattamento ad alta tenacità. Si tratta di una corda per palati fini, che verrà particolarmente apprezzata da giocatori di tocco che amano sentire la palla e prediligono la precisione alla potenza. Corda liscia a sezione circolare, la Double AR ha un impatto secco sulla palla, conferendo estrema precisione al colpo del giocatore. È logico che tocco e precisione ai massimi livelli abbiano un prezzo da pagare in termini di durata: l’alta tenacità prolunga la vita della Pro, ma non ai livelli di calibri decisamente superiori.

DYLAN BENNETT TOP 100 MONDIALE

PIETRO BELOTTI ISTRUTTORE DI SQUASH

LUCA GIOCATORE DI CLUB

DAVIDE BIANCHETTI NUMERO 1 ITALIANO

È una corda dalla sensibilità eccezionale che ben si addice ai giocatori di club alla continua ricerca della pulizia nell'esecuzione dei loro colpi. Il suo calibro ridottissimo mostra il fianco solo a livelli professionistici, dove tagli, effetti e velocità di palla fuori dal comune la espongono a rischi di rotture premature. A mio avviso trova il suo abbinamento ideale con telai che fanno della potenza la loro caratteristica principale. La Pro conferisce precisione al colpo mentre il fusto si occupa di dare la giusta potenza alla pallina.

La trovo estremamente indicata per noi istruttori che passiamo diverse ore in campo ad impostare gli allievi. Il calibro ridotto contribuisce a dare una notevole sensibilità di palla necessaria per piazzare al meglio i colpi per gli allievi. Sembrerà strano, ma rimettere la palla in una posizione propedeutica all'esercizio che si sta eseguendo con l'allievo, specie se quest'ultimo è ad un livello di gioco ancora basico, è una delle attività che maggiormente assorbe le energie, fisiche e mentali, di un istruttore.

Da quando l'ho montata un paio di mesi fa non riesco più a separarmene. L'ho messa su un telaio a goccia piuttosto potente, ma che con le precedenti incordature difettava di precisione. Vuoi per il mio gesto tecnico non perfetto, vuoi per la potenza stessa della racchetta, la palla finiva spesso in mezzo al campo. Con la Pro ho sensibilmente contenuto questo problema. Certo, il braccio è quello che è ma, soprattutto ai mie livelli, ogni aiuto che possa arrivare da telaio e corde è sempre ben accetto.

Nei mesi scorsi ho provato la gamma prodotti Double AR. Challenge a parte, sono rimasto impressionato dalla sensibilità della Pro. È una corda incredibile, ti da un tocco mai provato prima. Forse addirittura eccessivo! L'ho provata a fondo e si abbina benissimo al mio gioco. Mi piace piazzare la palla con il contagiri piuttosto che ricorrere a rotazioni esasperate o a bordate sopra i 200 all'ora. La Pro risponde perfettamente ai miei colpi, offrendo una precisione difficilmente raggiungibile con i calibri tradizionali. 159


The End

ÂŤIn Italia i maschi pensano di vincere con il colletto della maglia alzato: le donne hanno piĂš spirito di sacrificioÂť Per sapere cosa pensiamo di questa frase (e di tante altre) di Sara Errani... rileggi l'editoriale del nostro direttore a pagina 8 122



RACCHETTA, PALLA E INCORDATORE UFFICIALE DI ROLAND-GARROS Andy RODDICK (USA)

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book.c www.face

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om/babola

*Nuova Pure Drive: in una racchetta, il lato oscuro della potenza. Massima energia ad ogni tiro.

Na LI (CHN)

Kim CLIJSTERS (BEL)


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