Giovanni Pirondini

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GIOVANNI PIRONDINI


Il catalogo è stato pubblicato in occasione della mostra

FABRE+FORM=TON organizzata e prodotta da Manifiesto Blanco 21.11 - 21.12.2019 poesie: Franceso Osti fotografie: Massimo Mandelli progetto grafico: Mottarella Studio Grafico Š 2019 per le opere Giovanni Pirondini Š 2019 per i testi e le fotografie gli autori Tutti i diritti riservati

Manifesto Blanco Via Benedetto Marcello, 46 - Milano


GIOVANNI PIRONDINI FARBE + FORM =TON



La prospettiva di Pirondini di Massimo Mandelli

Non se n’abbia a male l’artista se nel cercare di portare a concetto la sua arte mi viene per la mente il termine ‘produzione’ che, perlomeno in apparenza, ha così poco a che vedere con l’estetico, l’anima, l’interiore, ecc. Forse sarà per via della mia frequentazione del fotografico, dell’ambiguo manufatto dove mondo e immagine si toccano in una inscindibile simultaneità, che lascio volentieri a chi traccia coloniali confini tra l’interno e l’esterno le velleità spirituali applicate all’arte, e mi pare che in questo farmi da parte, in questo abitare altro discorso da quello delle ‘belle arti’, il ‘fare’ di Pirondini mi sia solidale, e, in qualche misura, lo pretenda. Lui stesso si accostò alla macchina produttiva per eccellenza, la fotocopiatrice, allorché richiesto di fornire un profilo d’artista appoggiò sul suo piano di cristallo la propria guancia e premette il tasto d’avvio del pettine luminoso. Lui stesso mi fece sussultare rilanciando e rinforzando il pregiudizio della mia intuizione ‘produttiva’ allorché, mentre mi arrabattavo per fotografare le sue tele, mi disse che all’origine delle stesse non stava il loro contenuto espressivo o la loro materia, pur essendo questi ultimi, ovviamente, elementi necessariamente imprescindibili, ma la voglia di pitturare, di usare il pennello, i colori, la tela e tutto ciò che rientra nella modalità d’uso della pratica del dipingere. Il filosofo direbbe, stringendo il discorso in una formula, che in principio non stanno le cose, ma bensì i poli di interesse, i modi d’uso del mondo, tra i quali ovviamente vi è anche quello artistico e quindi le cose, o materiali o spirituali che siano, son seconde, esse balzano fuori dai loro pragmatici contesti. L’apertura di questa finestra di discorso mostra un paesaggio ben più ampio di quello racchiuso in una disciplina o in un sapere specialistico; un paesaggio al cui orizzonte si può ancora scorgere la lontana figura di Aristotele, il codificatore delle regole del discorrere e quindi della razionalità occidentale. Proprio l’antico filosofo, nel tentativo di fondare l’umano, s’occupò di produzione e del fare che la sostiene, un fare ch’egli classificò in due modi: il primo è la poiesis, la pratica dell’artigiano che ha come proprio fine la produzione di un oggetto che, una volta arrivato a esistere, è qualcosa di altro e di estraneo rispetto all’attività che lo ha prodotto; il secondo è la praxis, che invece riguarda un agire che ha il proprio fine immanente all’azione la quale è piena in sé, esiste ed ha valore in se stessa; è quell’azione, cioè, che anche se produce un oggetto non trova in

lui il finalistico compimento, ma si realizza nel suo stesso farsi. Ed ecco che dunque Pirondini, che nella sua vita è ed è stato maestro artigiano e virtuoso artista, incarna (non so quanto a lui sia gradito) la figura di produttore aristotelico in un continuo e ambiguo trapasso dalla poiesis alla praxis. In un datato vocabolario, compilato prima che venisse proclamata l’inutilità del sapere filosofico, al lemma Produrre corrispondeva la definizione: “Generare, dar l’essere”: si noti bene, l’essere che prima non c’è, non è scovato nascosto da qualche parte, esso quindi non tanto si rivela, ma bensì si produce nel fare e questa è la nobile e antica funzione dell’arte che Pirondini eredita e prepotentemente ribadisce col suo pennello. Prima di giungere a fare qualche ragionamento sulle opere che Pirondini presenta in questa mostra, un rapido sguardo alla sua lunga e varia parabola artistica, che non voglio e nemmeno mi compete commentare, mostra pur esso la radice produttiva della sua arte, fortemente legata al contesto d’uso, alla pragmatica del lavoro e dell’essere sociale, quella per cui la sicumera dell’io penso, così esageratamente esaltato dalla modernità, lascia un poco di spazio all’io sono pensato: dalla storia da cui provengo, dalla parola che mi ha parlato, dal mondo in cui vivo, dalla infinita somma delle circostanze chi ci fanno fare e pensare le cose che diciamo e che mettiamo in atto. Una consapevolezza radicata in quello che nell’artista chiamerei un ‘andare a tempo’ nel senso di cogliere il ritmo di un istante storico che ormai non ricopre più l’istante della vita personale, ma ne è scavalcato perché oggi la vita è più longeva del costume che dovrebbe comprenderla, cosicché si tratta di avere sensibili orecchie e seguire l’accelerato battere e levare storico: la musica che Pirondini coltiva con incondizionata passione e che in qualche maniera ha anche tradotto nel suo progetto di clavicembalo ‘da asporto’ è musica che è dentro al suo pennello il quale è stato capace di dipingere ogni volta il suo sapere corrispondendo al cangiante rapporto con il mondo della vita. Corrispondere e non coincidere, si dice con ragione, perché il traduttivo adeguarsi riguarda anche, e forse soprattutto, lo scontrarsi con la ribellione del mondo al tentativo di chiuderlo in un sapere (qualsiasi esso sia, scientifico, artistico, ecc,), al tentativo di usarlo, di fermarlo sulla tela, al


tentativo di porre un punto discreto alla indivisibile continuità di un cammino: una sfida da giocarsi in punta di pennello e che non si può pensare di vincere, ma solo di averne lucida consapevolezza per non illudersi d’essere giunti al punto fermo, alla definitiva conclusione o rappresentazione. Come scrisse Kant: “dietro alle forme della conoscenza sta la materia della conoscenza, ma la materia della conoscenza non si riduce mai alle forme della conoscenza”. Credo si possa allora meglio precisare che la produttività di Pirondini nel suo attraversare, con un singolare istinto che definirei quasi impetuoso, diverse modalità del fare artistico sino a ‘tornare’ al figurativo trova il suo ‘motore immobile’, e cioè persistente, nella sfasatura che il filosofo ci rappresenta come quella fra gli inizi di due linee fra loro parallele: la linea del sapere visivo del quadro e quella della realtà rappresentata dal quadro. Linee parallele dunque ma non coincidenti, per via dell’ineludibile scarto provocato dalla traduzione necessaria a produrre qualsiasi discorso e quindi anche quello artistico. All’artista, allora, impossibilitato a rappresentare direttamente la realtà la quale compare solo e sempre nella forma dell’esser saputa (tradotta), non rimane che porre a incessante verifica l’adeguatezza o meno della propria pratica pittorica, della prospettiva significante che meglio può preservare sulla tela, nel resto lì depositato, l’intraducibile onda del mondo della vita che s’è franta nel pennello. “Usando il mondo il vivente si lascia dietro le spalle le ossa di seppia dei saperi”, disse il filosofo Carlo Sini a un seminario che sta ispirando tutto questo mio argomentare. Ossa che si possono definire come i prodotti di una macchina la quale nel rivelare la sua efficacia o adeguatezza a cogliere il mondo vivente determina nello stesso tempo anche i suoi limiti, in quanto mostra certamente quel che riesce a fare, ma, così facendo, anche (soprattutto) ciò che non riesce a fare, e perciò apre a nuove possibilità, spinge al suo potenziamento o mutamento al fine di produrre nuove ‘ossa’: se non ci fosse stata la fotografia in bianco e nero mai avremmo sentito la necessità di avere la fotografia a colori, e così via. In questo senso, macchina è anche il pittore, anzi, soprattutto il pittore nella sua inquietudine, nella sua insoddisfazione, catturato in un agire produttivo che è luogo di rilancio e di modifica di pratiche, di danze del pennello, atte a produrre continuamente nuovi resti di mondo nel sapere visivo.

Mi pare allora che, proprio perché messi sulla via dell’adeguatezza o dell’appropriatezza del sapere visivo messo in campo per rispondere alla provocazione del suo presupposto e cioè della realtà, del rimbombo del mondo, ci si stia avvicinando a quel concetto di copia che colpisce e intriga nell’osservare i ritratti (fotografici) di Pirondini. Si deve preliminarmente chiarire, educati o maleducati come siamo dalla disciplina estetico-artistica, che qui non si tratta del solito ritornello dei pittori che usano la fotografia come sostituto di modelli reali; fotografia comunque da interpretare (nobilitare) secondo una ispirazione interiore che mostrerebbe l’essenza della cosa o della persona da scovare partendo dalla sua mera apparenza. Qui mi interessa invece ragionare ponendo a tema dell’arte proprio la pura e mera copia: la duplicazione di una fotografia attraverso la pittura che poi non finisce qui il suo percorso di copiatura visto che attraverso la fotografia del dipinto stampata sul catalogo si dà luogo a una nuova copia che è la fotografia di una pittura che è la copia dipinta di una fotografia la quale a sua volta sarebbe copia della persona ‘vera’. Ciò che si può cogliere da questo apparente garbuglio di ben tre relazioni copiative è che tali intrecci possono venire ad essere solo perché qualcosa li accomuna: è qui all’opera una specie di ‘corrispondenza di amorosi sensi’ che mi emozionò allorché visitai la mostra in cui forse per la prima volta Pirondini espose i suoi ritratti. Indici evidenti della macchina di traduzione qui messa in opera erano sia la puntuale duplicazione nei dipinti delle zone di sfocatura dell’immagine originale e sia l’apparire di certi riflessi dovuti alla ‘bruciatura dei bianchi’ per l’uscita dalla scala della latitudine di posa della pellicola: tipici segnali, questi, dell’uso dello strumento fotomeccanico. Del resto, detto per inciso di cosa che si preferisce sottacere, è mai possibile ritenere che il reiterato e carbonaro uso della fotografia non lasci i suoi aculei meccanici ficcati fra la manuale segnica pittorica? Indici, allora, che mi apparvero come fossero un gergo di mestiere della disciplina fotografica ora introdotto esplicitamente e mostrato senza veli come proditoria novità o come un neologismo nel lessico colto della disciplina pittorica, e questo doveva pur dire qualcosa. Voglio intendere che è un tema antico quello che qui riaffiora; è il tema del verosimile, dell’imitazione, quale unica maniera di conoscenza umana, che il nostro Cinquecento ha declinato discettando oltre che del rapporto tra narrazione epica e romanzo, anche di quello tra arte meccanica e


arte spirituale, e cioè discutendo se fosse più nobile l’arte della pittura o quella della scultura che indubbiamente impegna molta più manualità, macchinismo e forza della prima. Querelle che appassionarono un’epoca e che videro scendere nell’agone la classe intellettuale a impegnare accesi scontri, non solo letterari. Non poteva certo mancare la partecipazione alla lizza del divino Michelangelo che in una lettera di risposta indirizzata da Roma a Benedetto Varchi così scrisse: “Ora poi che io ho letto nel vostro libretto, dove dite che, parlando filosoficamente, quelle cose che hanno un medesimo fine, sono una medesima cosa, io mi son mutato d’opinione, e dico, che se maggior giudizio e difficultà, impedimento e fatica non fa maggiore nobilità, che la pittura e scultura è una medesima cosa, e perchè ella fusse tenuta così, non doverebbe ogni pittore far manco di scultura che di pittura, e il simile lo scultore di pittura… Basta, che venendo l’una e l’altra da una medesima intelligenza, cioè scultura e pittura, si può far fare loro una buona pace insieme, e lasciar tante dispute, perchè vi va più tempo che a far le figure”. La voce di Michelangelo sul tema ritorna poi in una lettera del febbraio 1547 che Giorgio Vasari indirizzò a Benvenuto Cellini: “Andai a trovare il divino Michelagnolo, il quale, per essere in tutte due queste arti peritissimo, mi dicesse l’animo suo. Ei ghignando mi rispose così: La scultura e pittura hanno un fine medesimo, difficilmente operato da una parte e dall’altra; nè altro potei trarne da esso”. In buona sostanza e volendo nell’oggi ragionare sul rapporto pittura-fotografia Michelangelo suggerisce (ghignando) che bisogna riportare tutta la loro diversità tecnica ad una primaria comunanza, e cioè a quel fine comune che ambedue si sforzano con grande difficoltà di raggiungere, quel fine che le rende una ‘medesima cosa’, pur, sia ribadito, nella loro grande differenza. Non è quindi più questione di quanta anima o quanto di spirituale vi sia nel dipingere e di quanto poca ve ne sia nel fotografare, quando quest’ultimo venga inteso come pura tecnica meccanica di ripro-

quanta ‘convinzione’ venga prodotta come risultato del lavoro della sua macchina produttiva e cioè della sua danza attorno alla tela. Una danza che egli esegue, rifacendosi, se pur con tecnica e strumenti radicalmente diversi, al diciamo così, medesimo protocollo ‘copiativo’ di quello fotografico.

duzione del reale, ma di considerare quale macchina produttiva agisce per realizzare il fine comune di fissare su un supporto, in maniera più o meno adeguata o diversamente adeguata, il mondo della vita. Cosicché Pirondini con la sua ‘pittura fotografica’, con la poetica della copia, si denuda dai pregiudizi della noblesse appiccicati al fare artistico inteso come veicolo di espressione di un preesistente (chissà dove) animo umano e produce una serie di verifiche atte a mostrare se e quanta ‘anima’ che è poi se e

non dunque semplice accostamento di due sensi che si richiamerebbero l’un l’altro per qualche motivo psicologico emozionale, ma, al contrario, vero e proprio luogo di nascita dei due sensi, loro unità originaria, ciò che viene prima ed è presupposto alla separazione attuata dalla ragione analitica. Ricerca di un tutto primordiale, come lo doveva essere l’arte totale nelle intenzioni di Wagner: parola, suono, musica, danza. Se tu uomo danzi, canti e gridi sei lo specchio dell’universo, la porta d’accesso della natura

Per quanto riguarda il colore che vibra di delicatissime tonalità e cromie, occupando da solo tutta la tela, conviene porsi una domanda che, tra l’altro, volgendosi verso la biografia dell’artista circoscrive e contestualizza il suo fare e limita la presunzione demiurgica-narcisistica, solitamente assegnata all’arte, spostando l’accento da colui che fa a colui che è fatto. La domanda è: cosa sarebbe la pittura di Pirondini senza la musica di Wagner? Il racconto è quello che inizia con Goethe, con Hegel, con Herder, è quello, in estrema sintesi, della rivoluzione estetica romantica contro l’illuminismo, che non ci sta più alla prassi analitica della cultura scientifica e che cerca la salvezza nell’arte, l’unica ancora capace di restituire l’unità primeva della vita contro la sala anatomica del ruggente industrialismo che pretende di sezionare il vivente sull’onda dell’indubbia efficacia dei suoi specialismi. Un racconto che prosegue nelle avanguardie del Novecento che ritrovano nel colore un principio di assolutezza percettiva dove si espresse anche ciò che un critico definì la “sbornia cromatica dei sogni dell’avanguardia artistica”. Si sa quale e quanto interesse musicale pervadesse, ad esempio, l’astrattismo di Klee e di Kandinsky, o l’arte futurista o il cubismo di Picasso e Braque. Con loro, si potrebbe dire, si riaprì e sviluppò il confronto fra scala cromatica e scala musicale, che ebbe antichi precursori quali il pittore cinquecentesco Giuseppe Arcimboldo e il gesuita Athanasius Kircher. Una storia un poco in ombra, che si sviluppò dapprima come l’accostamento di due sfere separate producendo anche strumenti quali il clavicembalo a colori e che, per altro verso, divenne anche ricerca di una primeva unità,


nella storia, dissero i romantici: una sinestesia intesa non come patologia frutto della confusione fra connessioni neuronali, ma luogo di fusione del simbolo e di fondazione dell’umano. L’arte quindi che ri-unisce e riscatta la primarietà della esperienza, anche quella del colore, a fronte di una scienza che, per i suoi scopi classificatori razionali e quantitativi, l’ha relegata fra le qualità secondarie, quelle prive di realtà, specie di fantasmi prodotti dagli stimoli fisici sull’organo della vista. Così facendo la verità scientifica, ricollegandosi all’antico atomismo democriteo, ha privato di colore le cosiddette qualità primarie, quelle che si considerano oggettive (la figura, il moto, il numero) e che costituirebbero la ‘vera’ realtà del mondo, abbandonandoci in un universo in gramaglie di un grigiore assoluto. Arte, si potrebbe anche dire, che recupera la smemoratezza di chi facilmente tralascia di considerare che se ci si pone la domanda di cosa sia il rosso, anche magari per concludere che non è, è perché prima di tutto ha fatto l’esperienza del rosso; cosicché, detto con un gioco di parole che gli artisti rinascimentali definirebbero come un ‘serio ludere’, il presupposto fondativo delle ‘reali’ qualità primarie (atomi, ecc.) che sarebbero causa delle ‘apparenti’ qualità secondarie sarebbe comunque la sensazione, cioè la qualità secondaria stessa. Credo che a fianco di Pirondini, quando si cimenta con la luce e il colore in compagnia di Wagner, ci possa essere anche Goethe il quale fonda la propria teoria della luce sull’esperienza, quella che ce la restituisce come fenomeno originario, elementare e non scomponibile. Non per nulla la passione per i colori pare fissarsi nel poeta tedesco proprio in mezzo al turbinare tragico del ‘mondo della vita’, quando nel 1792 al seguito del duca di Weimar assistette alla catastrofe delle ordinatissime truppe prussiane costrette alla ritirata dall’armata di straccioni francesi del generale Dumouriez nei pressi del mulino di Walmy. Egli, con la sua stessa vita messa in pericolo, pensò bene di osservare i fenomeni luminosi e coloristici prodotti dai frammenti di ceramica in una pozza

bianco, nella chiara coscienza civilizzatrice e globalizzante della modernità. è la bianca certezza, scrive Brusatin nel suo Storia dei colori, quella a cui Melville invita a pensare nel mentre insegue il mostro bianco Moby Dick: “E quando consideriamo quell’altra teoria dei filosofi naturali, che tutte le altre tinte terrene… sarebbero soltanto astuti inganni non connaturati alla verità delle sostanze, ma soltanto sovrapposti dall’esterno, cosicché tutta la divina Natura si dipingerebbe soltanto come la prostituta le cui lusinghe non ricoprono che l’intimo sepolcro… e pensiamo che il mistico cosmetico, il gran principio della luce che produce ciascuno dei suoi colori, rimane in se stesso sempre bianco e incolore”. è il bianco che il grande filologo classico Johann Winckelmann pose alla base della civiltà occidentale, immaginando le statue greche nella quieta grandezza del loro immacolato e apollineo biancore marmoreo, che invece era semplicemente un prodotto del tempo passato il quale le aveva spogliate dalle ‘ombre’ (dionisache?) di colore che le coprivano.

d’acqua, probabilmente prima che cavalli e uomini assetati e stremati si tuffassero nella stessa. Certamente un luogo e una teoria ben differente dalla stanza e dal famoso esperimento del prisma di Newton dove il tutto, la luce, non è qui elementare, primaria, ma è la risultante della somma di componenti colorati nello spazio oggettivo: è il risultato dell’analisi, della misurazione strumentale, della dissezione sul tavolo anatomico del mondo della vita con la pretesa poi di ricomporne i pezzi nell’assolutezza del

sibile, quanto la pittura sia ancora in grado di celebrare la vita nella sua ingovernabile potenza mentre per ogni dove si sparge sopra ad essa il velo dell’onnipotenza della tecnica scientifica, è una domanda, un’apertura di discorso, che la mostra di Pirondini consegna ai visitatori. Tra l’altro qui vale emblematicamente ciò che sempre il filosofo suggerisce e cioè che vero scopo dell’artista non è produrre cose (il colore, in quanto ‘cosa’ non è niente), ma quello di produrre condivisione.

Allora, si potrebbero concludere questi accenni di ragionamento, dicendo che l’artista con le sue tele colorate si cimenta nel rimettere assieme ciò che la scienza ha sparpagliato e privato del suo senso esistenziale, del suo intero e intende restituire, nella concentrata esperienza di percezione del colore, l’evocazione o la trasfigurazione del suo liquido amniotico: quel mondo della vita che riconsegna la conoscenza al suo transito storico. Quanto vi riesca l’arte della pittura che ha lasciato alle spalle il Novecento, ormai lontana dai suoi nobili padri e travolta pur essa nel gorgo della comunicazione totalizzante, eppure sempre chiamata a non dimenticare il monito di Theodor Adorno il quale scriveva che “ La cultura nella sua accezione più vera non si è mai limitata a obbedire agli uomini ma ha anche sempre levato una protesta contro le condizioni irrigidite in cui gli uomini vivevano e in tal modo li ha rispettati”. Quanto tutto ciò sia ancora pos-


OPERE


A G. NEL TARDO POMERIGGIO Sulla curva, tra le colonnine bianche e rosse che segnano il marciapiede, alcuni lampioni già accesi d’una tinta lunare... Un ragazzino col trial sfuma all’incrocio come la scia di un meteorite, la signora si è attardata dopo il vespro al caffè pasticceria dove sui divani si sprofonda. Il muschio esala nebbia, ogni officina un’unghia orlata di nero. L’ingresso della falegnameria è una strombatura molto profonda di una serie di tavole addossate al muro, lui la sagoma abbozzata di un santo nella sua nicchia: il sibilo del tornio invade la strada e veicola la sera dai boschi come una mano che rimbocca il lenzuolo.

Pierre Boulez olio su tavola 15 x 15 cm



AL CIMA PIAZZI “io ti rendo il tuo dono”

Le perline hanno la tonalità del miele di castagno; mi avvolge un profumo di cipresso da un diffusore nascosto sotto la panca. Cuscini d’arabeschi come le nuvole transitate nel pomeriggio, quando mi tenevano una mano sulla testa. La pizzeria batte il ritmo rallentato della mezza stagione in una località di villeggiatura: la padrona segue col dito le date sul calendario come aprendo la strada ad una goccia sul vetro. Applausi da una televisione, mezzibusti di cervi impagliati e un’ombra, percepita tra lo stanzino e il corridoio. Fatto salvo questo chilometro di penombra, prima e dopo sulla provinciale tutto sembra inghiottito nella sera: scosto con riverenza il pizzo delle tendine come a spiare in un confessionale.

Anton Bruckner olio su tavola 15 x 15 cm

Arvo Pärt olio su tavola 30 x 30 cm




FERMO AD A. Silenzio come in un acquario, forse segnali non percepibili, codificati, dai campi o dalla crosta scura dei boschi. Come la linea che segna il confine tra la mente e l’azione, ristagna la seghettatura che l’officina getta sull’asfalto, complice il sole settembrino già sceso di qualche grado. La ricetta che lo fa dormire è non aspettare qualcuno: sotto il carroponte, abbandonato sulla sedia sogna gocce d’olio scivolare in piccoli tubi. Non c’è proiezione del domani, nessuna attesa, nessun appuntamento: la vite gira nello scavo del filetto.

Arvo Pärt olio su tavola 15 x 15 cm

Richard Wagner olio su tavola 15 x 15 cm


TRANSIDANDO TRA C. E P. Non ho mai ascoltato prima d’ora cantare le cicale sui platani lungo la strada statale. Qualcuno mi ha parlato di un bosco di petunie in cui si perdevano i rottami dell’officina… Il maestro dorme la notte estiva sull’amaca ancorata tra le colonne tortili del terrazzino. Sogna i suoi motocarri come si ricordano le persone in certi gesti congelati, cerca di ricordare se mai realmente esistite o solamente frutto di altri sogni: tempera tirata con le dita sul foglio e sul piano della scrivania. Nella notte di grafite passa un’auto estone che traina una piccola roulotte di lamiera: verso il mare, verso ciò che è interpretabile del sogno…

Thomas Mann olio su tavola 15 x 15 cm

Alfred Schnittke olio su tavola 30 x 30 cm



TRANSITANDO DA G. VERSO G. La strada è un piano inclinato, vira leggermente a sinistra, sembra liquefarsi nell’aria che sa di liquami irraggiati per i campi: pioverà prima che faccia mattino. Una presenza s’imbuca in un vicolo, scorre lungo il filo preventivamente tirato dai quattro bar verso un’oscurità di muretti merlati. Lampade ad acetilene balbettano senza suono sotto le transenne, sulla piazza della chiesa completamente sacramentata. Leggi piano: qui le case hanno mura di sasso come castelli, attraverso la finestra s’intende un corridoio inondato da una luce di crema, - leggi piano - qualcuno ora si attarda - leggi piano - bevendo alla mia salute…

Arvo Pärt olio su tavola 30 x 30 cm

Dmitri Shostakovich olio su tavola 15 x 15 cm




Autoritratto olio su tavola 15 x 15 cm Autoritratto olio su tavola 15 x 15 cm



Lucrezia olio su tavola 52,5 x 52,5 cm Autoritratto olio su tavola 15 x 15 cm



La colazione olio su tavola 30 x 30 cm

La colazione olio su tavola 30 x 30 cm

La colazione olio su tavola 30 x 30 cm



A scuola olio su tavola 30 x 30 cm

A scuola olio su tavola 30 x 30 cm

A scuola olio su tavola 30 x 30 cm



A passeggio olio su tavola 30 x 30 cm

A passeggio olio su tavola 30 x 30 cm

A passeggio olio su tavola 30 x 30 cm



Il gioco olio su tavola 30 x 30 cm Il gioco olio su tavola 30 x 30 cm


Nudo olio su tavola 35 x 26 cm Nudo olio su tavola 30 x 30 cm




Astrattismo olio su tavola 60 x 60 cm Astrattismo olio su tavola 60 x 60 cm



Nudo olio su tavola 60 x 60 cm Ragazza olio su tavola 60 x 60 cm



The driver olio su tavola 50 x 35 cm

Nudo olio su tavola 50 x 35 cm

Nudo olio su tavola 20 x 20 cm


Omaggio olio su tavola 28x 88 cm




Mani olio su tavola 45 x 58 cm

Mani olio su tavola 56,5 x 56,5 cm

Mani olio su tavola 35 x 28 cm



Figura olio su tavola 107 x 84 cm Figura olio su tavola 74 x 68 cm



Dittico olio su tavola 107 x 130 cm

Quasi rosso olio su tavola 80 x 80 cm



Giovanni Pirondini è nato a Cosio Valtellino (Sondrio) nel 1950. Ha frequentato la facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. La sua attività artistica si divide fra la pittura e il design, per la realizzazione di raffinatissimi oggetti di arredo. Pittore da sempre, ha cominciato a esporre in collettive intorno al 1970. Ha tenuto mostre personali a Chiavenna (1983), Sondrio (Palazzo della Provincia, 1984-1987-2018), Tirano (Museo etnografico Tiranese, 1986-2010), Poschiavo (CH) (Galleria Etnografica PGI,-2000 e 2016), Albosaggia (SO) nel corso del 1^ Festival della letteratura in Provincia di Sondrio (2011), Monza (MilesiLab 2012), Viganò Brianza (ONE OFF, 2012), Sondrio (Palazzo Pretorio, 2014), Chiavenna (Palazzo Pretorio, 2014), Brescia (Galleria Forma e colore, 2014), Sent CH (Grotta da Cultura, 2015). Ha partecipato a importanti collettive tra cui : Concorso- Mostra Lo Spluga e i trafori - Tirano, Sondrio e Milano, Mostra La figura e la sua ombra - Grosio, Collettiva degli artisti delle città gemellate con Sindefingen - Sindelfingen, Rassegna itinerante di poesia e grafica Carte incise-segni nella storia Sondrio e Coira , Enogastronomia in cooperativa – Torino , V biennale d’arte e vino-- Cisterna d’Asti, Manifestazione Superfici in Equilibrio –Teglio, Di incantamenti e di Follia - Sondrio . Sue opere figurano nelle collezioni della Provincia di Sondrio e della CCIAA di Sondrio e in diverse collezioni private.


Finito di stampare nel mese di novembre 2019




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