Annuario CAI Morbegno

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ANNUARIO 2022 2023

ANNUARIO 22 /23

CAI

Club Alpino Italiano

Sezione di Morbegno

Via San Marco

Tel. e fax 0342 613803

e-mail: info@caimorbegno.org www.caimorbegno.org

Redazione:

Alessandro Caligari, Lodovico Mottarella, Franco Scotti

Hanno collaborato:

Alice Bertolini, Davide Bonzi, Alessandro Caligari, Giovanni Cerri, Giulia Cerri, Roberto Ganassa, Villard de Honnecourt, Moreno Libera, Riccardo Marchini, Marco Poncetta, Silvio Rodari, Franco Scotti, Riccardo Scotti, Giorgio Spini, Maurizio Zambelli

Fotografie:

Davide Bonzi: 76, 77

Alesandro Caligari: 33,72, 73, 74, 75, 79, 81, 82, 83

Gianfranco Cason: 62, 63

Roberto Ganassa: 14-15, 16, 17, 18, 19

Moreno Libera: 60, 61

Riccardo Marchini: 68, 69, 70, 71

Lodovico Mottarella: I, II, III, IV di copertina, 1, 2, 4, 5, 35, 36, 38-39, 42-43, 44, 45, 46, 47, 53, 58-59,66-67, 78, 80, 87, 95, 96

Marco Poncetta: 84, 85

Franco Scotti: 22, 24, 26, 27, 28

Riccardo Scotti: 34, 37, 64, 65

Giorgio Spini: 52,54, 55

Ruggero Vaia: 6-7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 20-21, 23,29

Progetto

grafico

e realizzazione:

Mottarella Studio Grafico www.mottarella.com

Stampa:

Tipografia Bonazzi

ANNUARIO 20222023

SCIALPINISMO IN MAROCCO

di Maurizio Zambelli

DA MORBEGNO ALLA GIANETTI

di Roberto Ganassa

BOLIVIA E CILE IN MTB

di Maurizio Zambelli

CICLOVIE IN QUOTA

di Riccardo Scotti

LA VIA CAVALLERA

di Alessandro Caligari

I Corsi

L'Adamello

La Val Zebrù

La Cima Piazzi

Monte Combolo

Gruppo 2008

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SOMMARIO
ATTIVITÀ

EDIT ORIALE

Dopo 8 anni torno ad affacciarmi su questa pagina editoriale, nella duplice veste di redattore e presidente della sezione del CAI. Gli anni passati sono stati egregiamente timonati da Marco Poncetta, che tutti ringraziamo per il lavoro svolto.

Anche questa volta l’annuario esce nella poca consueta veste bi-annuale. Questo perché le arcinote vicende dell’infezione da Covid hanno lasciato scorie difficili da eliminare. Per questo la ripresa, il ritorno alla normalità e con essa alle consuete attività della nostra sezione non sono subitanee come vorremmo. Soprattutto nel 2022 c’è stata ancora una certa ritrosia nell’aggregarsi, nell’avere contatti. Per contro si è verificato un aumento dei frequentatori della montagna, forse vista come salutare ambiente in cui rigenerarsi lontano dalla folla. In realtà questo ha determinato un certo affollamento della montagna stessa, in tutte le stagioni, spesso affrontata in modo non adeguato. Ultimamente si sono visti escursionisti con equipaggiamenti improbabili, scialpinsiti dell’ultima ora con attrezzature ripescate in chissà quale polverosa soffitta.

Comunque sia, pian piano stiamo ritornando alla normalità, sperando di portare con noi quel poco di buono che ci ha lasciato la pandemia, cioè la consapevolezza della fortuna che abbiamo nel poter tornare ad incontrarci, nel muoverci liberi per i boschi e per i monti.

Anche questo numero dell’annuario non cambia il suo schema; troverete i report di escursioni ed incursioni in terre lontane, extraeuropee, con sciate sulle dune e pedalate su laghi salati.

Ci sono temi d’attualità come il problema delle ciclovie portate ad alte quote ed in luoghi dall’alto valore naturalistico e ambientale, o come il dibattito sul ritorno dell’orso nelle nostre montagne. Ci siamo affacciati anche timidamente nel mondo dell’intelligenza artificiale, facendo scrivere un intero articolo ad uno strumento di elaborazione del linguaggio naturale.

Abbiamo dato uno sguardo alla storia locale, con un interessante articolo sul costruito storico della Val Tartano o alla percezione della Valtellina negli scritti e disegni di Leonardo da Vinci. E poi ci sono naturalmente tutti i resoconti dell’attività della sezione che, grazie a Dio, è ormai tornata alla sua normalità.

ALTO ATLANTE e GRANDE DUNA con gli sci

L'idea di provare a sciare in Africa mi frullava nella testa da molto tempo, ed ecco che in autunno si presenta l'occasione che aspettavo, grazie ad una progetto di viaggio per scialpinismo e turismo in Marocco organizzato da Plamen Shopski, guida alpina di Bormio, coadiuvato dal collega Luca Martinelli.

Con un gruppo misto di amici trentini e lombardi aderiamo alla proposta e prepariamo la trasferta di una decina di

giorni in Marocco. La catena montuosa dell'Atlante si sviluppa per 2500 km fra Marocco, Algeria e Tunisia, ma la nostra attenzione è concentrata sulla parte marocchina, e più precisamente sull'Alto Atlante dove svetta la cima più alta del nord Africa, lo Jbel Toubkal (4167 m). Atterriamo a Marrakech il 19 marzo accolti da un clima mite e secco, e siamo subito catapultati in piazza Jamaa el Fna, il centro vitale, caratteristico e caotico della città. Questa piazza, al centro

della medina, è adiacente alla casba, al suk e alla moschea della Kutubiyya. Qui, durante il giorno, è sede di un mercato di bancarelle dove si vede esposto di tutto, dalle stoffe alla frutta, dalle terrecotte alle uova di struzzo. Insieme ai venditori convivono varie altre attività, dai tatuatori con l'hennè, ai venditori di denti e dentiere, dagli incantatori di serpenti agli ammaestratori di scimmie. Alla sera le bancarelle lasciano posto a tavoli e panche per mangiare tutti i cibi immaginabili preparati al momento.

La mattina del 20 marzo la sveglia suona presto, carichiamo tutti i nostri bagagli su due pulmini e, passando per Asni, dopo due ore di strada, arriviamo al capolinea dell'asfalto a Imlil a q. 1780 m. Qui ci attendono i portatori locali che con i loro muli trasporteranno sci e bagaglio pesante fin dove sarà il limite della neve. Alleggeriti dal peso, con

solo uno zaino minimale in spalla, ci addentriamo su un bel sentiero nel Park Toubkal. Giunti a q. 2335 m ci fermiamo per una pausa pranzo presso il piccolo insediamento di Sidi Chamarouch dove pasteggiamo a verdure, cus-cus e tè alla menta. Poche centinaia di metri sopra, dopo alcuni ripidi tornanti, ecco che inizia la neve. Purtroppo la carovana di muli non può procedere

oltre causa un passaggio su un ripido pendio che metterebbe a rischio gli animali. Mettiamo ai piedi gli scarponi da sci, nello zaino un po’ di materiale e, sci in spalla, attraversiamo il pendio nella speranza di trovare neve costante fino al rifugio. Purtroppo la nostra speranza svanisce quasi subito perché cambiando esposizione il versante si presenta completamente privo di neve. Vabbè, lo sci-alpinismo prevede anche un po di "portare"!

Più o meno a q. 2800 m, lungo il greto del fiume coperto da vecchia neve, calziamo gli sci e comodamente raggiungiamo il Refuge CAF du Toubkal a q. 3207 m.

Questo rifugio è di proprietà del Club Alpino Francese, ma organizzato (prenotazioni, trasporto viveri, etc.) dalle guide locali che accompagnano gli alpinisti all'interno del parco.

Ci sistemiamo per la notte dopo una lunga giornata piena di novità e di emozioni. Il mattino seguente, dopo una abbondante colazione, eccoci pronti per la partenza con destinazione

Jbel Toubkal. La temperatura è sottozero, la neve ghiacciata, per cui già dalla partenza montiamo i rampant sotto gli sci. Subito la pendenza sopra il rifugio è sostenuta, finché dopo circa un'ora ci immettiamo in un vallone meno ripido fino al passo che si staglia all’orizzonte, il Tizi n’Toubkal a 3940 m. Per raggiungere il passo dobbiamo percorrere alcuni tratti senza gli sci, causa la mancanza di neve su questo versante. Poco prima del passo dirigiamo direttamente, seguendo lingue di neve, all'ultimo tratto di

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Nelle pagine precedenti: verso la vetta del Akioud

Nella pagina a fronte: Salendo da Imlil al Refuge du Toubkal e il Refuge CAF du Toubkal q. 3207 m Qui sotto: Tratto roccioso per la cima del Monte Timesguida e l'ultimo tratto della Cima Akioud 4035 m.

una larga cresta che porta direttamente alla piramide di ferro della cima a q. 4168m. C'è da segnalare un fatto curioso in merito. I primi europei salirono sulla cima nel 1923, ma con loro sorpresa trovarono un enorme ometto di pietra eretto dalle popolazioni berbere chissà quanto tempo prima.

La temperatura è gradevole e la visuale spazia a 360°

sui deserti e le pianure sottostanti, per cui ci attardiamo vicino alla piramide aspettando che il sole riscaldi un po' la neve così da consentirci una buona sciata in discesa.

Per il rientro al rifugio, onde evitare i tratti senza neve percorsi al mattino, decidiamo di scendere dal versante opposto a quello di salita, puntando verso la cima

dell'Imouzzer per poi deviare a sinistra in un ripido vallone che ci porterà direttamente sulla mulattiera percorsa in salita il giorno precedente, poco sotto il rifugio. Ripellata di un centinaio di metri ed eccoci a pranzo, tutti soddisfatti per la salita, la discesa e l'inaspettata condizione della neve: firn di ottima qualità, anche se con un colore tendente al beige dovuto alla sabbia del deserto

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A fianco: sulla cima dello Jbel Toubkal4168 m.

Sotto: Cima Monte Timesguida 4089 m

Nella pagina a fianco: Discesa nel canyon dello Akioud

Nelle pagine successive: Scialpinismo sulla sabbia della Grande Duna e arrampicata nelle Gole di Todra

trasportata dal vento. Le due mattine seguenti, con pari condizioni, ci dirigiamo verso altre due cime di oltre 4000 m raggiungibili dal rifugio.

La prima è il Monte Timesguida a 4089 m, raggiunta dopo un bellissimo vallone fino al PassoTizi n’Ougane dove, lasciati gli sci e per alcuni tratti rocciosi si è raggiunta la cima.

Discesa fotocopia del giorno precedente con neve ancor più marrone di sabbia.

Come ultima salita in zona, dovendo tornare nel pomeriggio ad Imlil, decidiamo per quella che presenta sulla carta meno sviluppo dal rifugio.

Come accesso al vallone che porta alla cima percorriamo un bellissimo canyon stretto e ripido da risalire verticalmente,

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dopodiché un pendio con pendenza sempre crescente fino al passo Tizi Afella.

Qui, abbandonati gli sci, con piccozza e ramponi si raggiunge la Cima Akioud 4035 m. Discesa impegnativa per la pendenza iniziale ma via via più fluida e rilassante fino al rifugio. In attesa del meritato pranzo, prepariamo tutto il nostro materiale da riportare a valle con la speranza che i muli siano riusciti a risalire il sentiero oltre il pendio che aveva consigliato lo stop in salita.

Scendiamo con gli sci ai piedi lungo il greto del torrente fiduciosi che i ponti di neve reggano ancora per un po'. Finita la neve, ecco che incrociamo i muli venuti a recuperare il nostro bagaglio. Nonostante siamo alleggeriti dal carico, la discesa fino ad

Imlil sembra non finire mai. Tutti noi, bruciati dal sole africano e dalla neve, sogniamo una bella birra fresca una volta arrivati nel paesino e scherziamo sulla quantità che potremmo bere. Arrivati in paese però la delusione è cocente!

Il ramadan è iniziato da 2 giorni per cui non ci è possibile recuperare nemmeno una lattina di birra.

Pernottiamo presso la casa della guida del parco che ci ha accompagnato in questi giorni e ci prepariamo a continuare il nostro viaggio.

Il mattino seguente ripercorriamo a ritroso la strada che ci riporta a Marrakech all'hotel Riad Omar, già nostra tappa iniziale, dove lasciamo tutto il materiale superfluo prima di partire per la zona desertica.

Attraversiamo a bordo di 4 fuoristrada l'Atlante transitando per il passo Tizi n'Tichka a 2260 m, valico stradale che collega la grande pianura di Marrakech e porta del deserto del Sahara, per poi continuare fino a Quarzazate. Qui si trovano gli Atlas Corporation Studios, dove vennero girati parecchi film ambientati nel deserto, tra i quali Lawrence d'Arabia, Il tè nel deserto e Kundun di Martin Scorsese.

Rapida visita ai set cinematografici per poi continuare fra oasi e deserto roccioso fino alla gole di Todra, che distano da Marrakech circa 500 km. Pernottiamo al Dar Ayour, nel villaggio di Douar Tizgui, per poi la mattina seguente percorrere le gole e arrampicare su una bella falesia attrezzata. Visitare

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le gole del Todra al mattino presto è fondamentale, sia per la luce calda, sia per evitare i molti turisti che arrivano a bordo di pulmini e autobus. Gli ultimi 700 metri delle gole sono spettacolari: le due pareti rocciose raggiungono la loro minor distanza (10 metri) con rocce a strapiombo che raggiungono i 160 metri di altezza. A turno si arrampica, chi con stile e chi come me, con un po di timore del verticale, mentre una parte del gruppo si concede un piccolo trekking nelle vicinanze.

Il paesaggio e l'atmosfera meriterebbero una sosta molto più lunga, ma il tempo è tiranno, e se vogliamo vedere ma sopratutto sciare sulla Grande Duna, dobbiamo a malincuore tornare a bordo delle Jeep per trasferirci a Merzouga, al confine dell'Algeria. Il trasferimento di circa 300 km attraversa zone desertiche particolarmente ricche di fossili dove vengono lavorati e venduti anche come arredi.

Arriviamo a Merzouga che ormai è sera. La luce calda

del tramonto rende la Grande Duna ancor più affascinante e misteriosa. Nell'hotel Riad Ali, ci divertiamo e ci rinfreschiamo prima di cena in piscina, tanto per non farci mancare nulla!

Decidiamo la sveglia alle 3,30 per poter vedere l'alba dalla cima della Grande Duna del Erg Chebbi. Le dune di Merzouga sono le più alte di tutto il Marocco: seppur di dimensioni inferiori rispetto a quelle del deserto algerino o mauritano, hanno il vantaggio di essere più facilmente raggiungibili. Sorgono nella pianura nera della hammada, colorandola di suggestive tonalità rosadorate, si muovono in continuazione e pertanto rappresentano un fenomeno sempre in evoluzione.

Lo spuntare del sole alle 5,30 del mattino dalle dune algerine è uno spettacolo unico che fa dimenticare la fatica fatta per raggiungere la cima con gli scarponi da sci-alpinismo. Una volta sorto il sole, iniziamo le prove generali di sci sulla sabbia. Nonostante sia finissima e quasi impalpabile, la sabbia ha un coefficiente di attrito sulle solette degli

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sci molto superiore a quello della neve, per cui la velocità è ridotta e nonostante la pendenza elevata le curve si ottengono con maggiore difficoltà. Altra differenza, positiva questa volta, è che non sono necessarie pelli di foca per risalire il pendio della duna. Tolta la soddisfazione di aver provato anche questo insolito terreno sciistico, rientriamo per una abbondantissima colazione prima del rientro a Marrakech. Il rientro alla Città Imperiale, passa per Zagora che si trova nella Valle del Draâ, il fiume più lungo del Marocco che scorre per 1100 km partendo dalle montagne

dell'Alto Atlante verso sudest e si ferma alla diga di Ouarzazate. A Zagora tutto sembra sospeso nel tempo: la cittadinanza berbera vive seguendo fedelmente le proprie tradizioni e, per quanto siano felici di condividerle con i visitatori, non si lasciano influenzare dal mondo esterno. La Valle del Draâ è famosa soprattutto per la produzione di datteri: qui ne vengono coltivate più di 30 varietà. Le palme da dattero si estendono per chilometri tra la città principale della valle e il fiume che l’attraversa. Gli alberi non vengono utilizzati solo per i frutti, ma anche per produrre utensili e stuoie usati dalla

popolazione locale.

Pernottiamo al Palais Asmaa, hotel anni 40 simile ai palazzi descritti ne Le Mille e una notte, dopo esserci riposati a bordo piscina in attesa della cena. Ormai la nostra avventura marocchina sta per finire, l'indomani mattina si rientrerà a Marrakech, si recupereranno tutti i bagagli, si rifaranno le sacche degli sci e, nel cuore della notte, ci trasferiremo all'aeroporto Marrakech-Menara distante 3 km dal centro città. La sveglia alle 2,50 ci trova impreparati, ma usciti dall'hotel, ci troviamo di fronte ad un sacco di persone che stanno ancora mangiando, bevendo tè e chiacchierando come se fosse pomeriggio. Questo perché, con il ramadan in corso, al sorgere del sole tutto questo si fermerà fino al tramonto. In attesa del volo che ci riporterà a Bergamo, penso che ognuno di noi stia elaborando dentro di sé una sintesi di questa avventura. Da parte mia sono stato positivamente colpito dall'ospitalità e dalla collaborazione avuta dal popolo marocchino, sia berbero che arabo, tutti orgogliosi del proprio territorio e della propria cultura e felici di sapere che abbiamo apprezzato i paesaggi, le città, le montagne e il loro sforzo di farci capire com'è la vita in nord Africa.

Partecipanti:

Roberto Barbolini, Gianni Corti, Andrea De Finis, Vigilio Ganz, Mirco Gusmeroli, Paolo Pagliardi, Bruno Piazzi, Antonio Piefermi, Franco Scotti, Valerio Trotter, Ruggero Vaia, Diego Vanzo, Ezio Varesco, Maurizio Zambelli, Plamen Shopski e Luca Martinelli

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da MORBEGNO alla GIANETTI una cavalcata d'altri tempi

Come ormai da abitudine, a fine giugno saliamo al rifugio Gianetti a salutare Mimmo per auguragli una buona stagione. Mentre ci gustiamo il grandioso panorama, Laura all’improvviso se ne esce così: ma si riuscirà a fare la Gianetti da casa? Le rispondo: bo credo di si, (ovviamente solo andata) basta essere un po’ allenati. L’estate passa veloce tra escursioni a volte lunghe altre corte con l’aggiunta di qualche gara di corsa ma per tentare la nostra idea meglio aspettare settembre perché normalmente anche se le giornate sono più corte, si ha un meteo più affidabile e una

temperatura più consona. Nel frattempo di sera ci capita spesso di perderci tra cartine della val Masino e applicazioni per cercare di capire il percorso migliore per il nostro progetto. Quelle zone selvatiche sono anche tra le nostre preferite, le conosciamo abbastanza bene tranne il tratto di traverso sotto la cima del Calvo che non abbiamo mai percorso. Domenica 3 settembre facciamo una specie di tentativo più che altro per capire le tempistiche della salita al passo Visogno però se dovessimo arrivare lì in buon orario e in forma potremo già provarla, male che vada ci fermeremo al

rifugio Omio, invece, arrivati al passo sono già passate le 13 30, impensabile puntare alla Gianetti, decidiamo comunque di usare la giornata per un buon allenamento dunque scendiamo in val dei Ratti fino a recuperare il sentiero Bonatti, raggiungiamo il monte Bassetta e rientriamo a Morbegno passando per i prati Brusada, prati Bioggio, Mello e Santa Croce archiviando nelle gambe una quarantina di km con 2700 m di dislivello, certo non sarà lo stesso che andare in Gianetti però qualcosa abbiamo fatto. Sabato 9 settembre fa ancora abbastanza caldo ma le previsioni sono buone a parte la possibilità che si formi qualche nebbia intorno alle montagne. La sveglia suona alle 4 30 e alle 5 20 col buio usciamo dalla porta di casa. Dopo i primi 15 minuti di marcia attraversiamo il ponte di Ganda e iniziamo la salita da subito ripida seguendo la Via

dei Terrazzamenti fino a Santa Croce dove inizia il crepuscolo. Dalla chiesa prendiamo a sinistra e dopo pochi metri a destra (indicazioni per Ventrin) passiamo in mezzo alle case e poi di nuovo nel bosco, in 15 minuti circa siamo al gisool del Ventrin. Il sentiero prosegue in salita fino a raccordarsi con quello principale per Civo che raggiungiamo poco dopo l’alba. Attraversiamo il paese che dorme ancora e siamo nuovamente nel bosco, superiamo il poggio panoramico addobbato con panchina e fontana quando Laura accusa problemi di stomaco, sembra un attimo ma perdiamo una mezz’oretta, io sto già abbandonando l’idea della Gianetti ma lei decide di tentare la terapia d’urto e se ne esce: “Il caffè a Poira è di rito, o mi fa male del tutto oppure mi passa”. Incredibilmente usciti dal bar riprende forza e fiducia, allora si riparte più o

meno convinti anche se siamo in ritardo. La faticosa salita per i Prà Succ l’affrontiamo con calma e dopo 1:00 circa ci siamo. Alla freschissima fontana ci idratiamo per bene, d’ora in poi dobbiamo fare molta attenzione sia al bere che al mangiare , non possiamo permetterci altri ritardi sulla tabella di marcia. Ripartiamo, la prossima tappa la fissiamo al bivacco Bottani, lo superiamo senza raggiungerlo e dopo un ultimo strappo ci affacciamo alla val dei Ratti dal pianeggiante passo Visogno. L’orologio segna già le 11:00 ma ci facciamo comunque una sosta per spuntino. Nonostante il ritardo, al momento tutto è perfetto e sopratutto quello che conta di più è che Laura sta bene. Iniziamo la discesa in val dei Ratti seguendo i segnali bianco-rossi, oltrepassiamo il laghetto di Primalpia dove tre anni fa durante la salita

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alla cime del Desenigo, trovammo un tappeto pazzesco di Eriofori, il famoso fiore bianco somigliante al cotone. Dopo un ultima breve discesa, il sentiero taglia più pianeggiante in direzione nord fino a recuperare il sentiero Bonatti proveniente da Dubino. La parte rilassante è già finita, il tracciato riprende a salire. La giornata è limpida e la vista sulla lunghissima val dei Ratti e sul Sasso Manduino da qui è fantastica. Una breve ma ripida discesa e il successivo traverso attrezzato con alcune catene corrimano precedono l’appartato lago del Marzel dove ho l’impressione di entrare in un altra dimensione. Costeggiamo il lago, successivamente lasciamo alla nostra destra il sentiero per il passo Primalpia e prendiamo a sinistra dove il ripido tracciato ci porta fin sotto le propaggini rocciose della cima del Calvo. Piano piano tralasciamo alle spalle la val dei Ratti a favore della valle di Spluga, altro posto selvaggio delle nostre Retiche. In vista del lago di Spluga ci fermiamo per la sosta panino. Che bello qui, ci sentiamo nettamente fuori dal mondo, lontani da tutto, una pace surreale rotta soltanto dal passaggio a sorpresa di un fantastico Gipeto, che spettacolo. Intuiamo quello che dovrebbe essere il passo del Calvo, per raggiungerlo ci aspetta una lunga traversata su ganda a volte scomoda per la presenza di grandi massi da attraversare. Finalmente ci troviamo sotto il passo, una breve ma ripida salita facilitata da alcune catene ci fa accedere a questa vera e propria porta verso la Val Masino. Sono le 15 30, naturalmente siamo

fuori orario, avevo messo un cancelletto mentale al rifugio Omio per le 16:00 ma a questo punto è impossibile a meno che mettiamo le ali. Intanto che scendiamo dall’ emozionante cengia trasversale del Calvo, oltre a fare attenzione, continuo a calcolare gli orari, a questo punto mi dispiacerebbe un sacco abbandonare il progetto perché anche se relativamente lenti siamo ancora in buona condizione fisica. Dopo la ripida discesa che ci fa perdere almeno 600 metri di dislivello, attraversiamo più comodamente al rifugio Omio che raggiungiamo alle 17:10. La sosta birra e gazzosa sui tavolini super panoramici è obbligata per integrare un po’ di liquidi. Dopo una breve valutazione decidiamo

Nella doppia pagina d'apertura, salendo al passo Visogno

Nella pagina a fianco, poco sotto il lago Marzel, sul fondo spunta il Sasso Manduino

Qui sopra, i laghetti dello Spluga

che ce la possiamo fare ad arrivare alla Gianetti prima delle tenebre o per lo meno di voltare via con la luce almeno la ripida discesa del Barbacan. Per correttezza chiamiamo Mimmo per avvisarlo che arriveremo un po’ più tardi, ci risponde la moglie che non ci ha riconosciuti, rimane un po’ sorpresa della nostra idea, quasi quasi ci invita a starcene alla Omio, non la biasimo, in effetti ha ragione, come regola sarebbe già

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troppo tardi per affrontare la traversata col rischio che diventi buio e in un attimo ci si potrbbe trovare nei guai. Alle 17:30 salutiamo i gestori e ripartiamo per l’ultima dura salita. Svalichiamo alle 18:30 e finalmente vediamo la nostra meta oltre che lo spettacolo unico della val Porcellizzo. La minuscola capanna Gianetti che si confonde tra il granito è già in ombra e ancora lontana ma a questo punto capiamo che è quasi fatta, certo non

è il momento di perdere la concentrazione manca ancora il tratto attrezzato dove bisogna fare sempre attenzione ma se tutto va bene la chiudiamo. Iniziamo a scendere dal Barbacan con l’ultimo sole che abbraccia le cime granitiche della val Porcellizzo che s’incendiano davanti a noi. Non mi perdo via a fare foto perché a differenza di altre volte, oggi ho puntato tutto sulla traversata, non mi potevo permettere peso

superfluo, inoltre il tempo lo devo sfruttare esclusivamente per camminare, la fotografia è in secondo piano ed è relegata al puro reportage. Affrontiamo con cautela il tratto attrezzato, ne raggiungiamo il fondo, ora non ci resta che attraversare verso il rifugio che nel frattempo ha acceso le luci. Si avvicina sempre di più, è quasi buio ma i nostri occhi pian piano si abituano e ci permettono di proseguire senza luce frontale. Finalmente alle 20:10 raggiungiamo il terrazzo della Gianetti col sorriso stampato in faccia continuando a ripeterci che ce l’abbiamo fatta. L’orologio indica 34 km con 3700 metri di dislivello, per i km più o meno siamo anche abituati ma per il dislivello era la prima volta per noi. Mi stupisco anche della mia condizione fisica e non riesco a capire perché non sia neanche troppo stanco, anche Laura mi confessa la stessa cosa, sicuramente avere evitato il rientro a casa fa la differenza, la discesa è sempre una mazzata. Il buio non ci permette né grandi selfie nè di godere del panorama dunque

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entriamo subito per farci vedere da Mimmo che ci invita a sederci negli ultimi due posti disponibili. Finalmente ci rilassiamo anche se l’adrenalina è sempre in circolo. In un attimo ecco la cena che ci gustiamo alla grande, tutto ha un sapore esagerato dovuto alla fame ma anche alla soddisfazione del tour.

Comunque penso e ripenso ma in realtà mi sembra impossibile di avercela fatta, ci vorranno un po’ di giorni per metabolizzare la cosa, calcolando che salire alla Gianetti dai Bagni già mi sembra sempre abbastanza impegnativo.

Certo è vero che negli anni di stupidate ne ho pensate e fatte tante ma la Gianetti da casa non l’avevo proprio mai pensata, è stata Laura la colpevole di questa idea. Ma alla fine abbiamo fatto davvero qualcosa di così esagerato? Assolutamente no, conosco tantissima gente che impiegherebbe meno della

metà del nostro tempo, ognuno deve stabilire i propri limiti e di conseguenza provare a superarli.

E adesso intanto che ci godiamo la soddisfazione rimane solo una cosa da fare…. inventare un nuovo progetto che ci spinga nuovamente a superare i nostri limiti.

Nella pagina a fianco, sopra salendo dal lago Marzel, sotto, un momento di sosta al Barbacan.

Qui sotto, il faticoso gandone che conduce al passo del Calvo

In basso, dal Barbacan l'ultimo sole sul Badile, il Cengalo, i Gemelli e il Ferro

Bolivia e Cile

in MTB

Nel selvaggio e aspro Sud America

Tutto nasce alla fine del viaggio in bicicletta a Cipro nell'aprile 2022.

Franco, davanti ad una birra, lancia l'idea di pedalare nei deserti e sulle lagune Boliviane. Gianni, raccoglie il messaggio e contatta Mariano Lorefice (detto "l'Argentino"). Con lui ha effettuato un viaggio in Patagonia e Mariano proprio in quei giorni sta mettendo a punto per l'autunno un viaggio in Bolivia con arrivo in Cile. Ci facciamo inviare il programma di massima e considerandolo interessante e vario ci mettiamo a fantasticare sulla pedalata in alta quota.

L'azione successiva, dopo aver coinvolto altri tre amici storici (Antonio, Renato e Ruggero), è stato l'acquisto dei biglietti

aerei per evitare gli aumenti delle tariffe previsti a causa della crisi energetica. Il periodo, da metà ottobre ad inizio di novembre, dovrebbe essere buono in quanto corrisponderebbe alla primavera australe e quindi non troppo freddo e sopratutto prima della stagione delle piogge. La Bolivia confina con l’Argentina a sud, il Brasile a nord e a est, il Cile a ovest, il Paraguay a sud e il Perù a ovest. Non ha accesso al mare ed è 3,6 volte più grande dell’Italia con soli 10 milioni di abitanti, di cui quasi 3 milioni nella regione di La Paz. La moneta corrente è il “Boliviano”, un Euro vale circa 7 Bolivianos. Partenza fissata per il 14 ottobre da Milano Malpensa e,

via Madrid-Santa Cruz arriveremo a La Paz (lo scalo internazionale di El Alto è il più elevato al mondo, 4065 m) la mattina seguente dopo 22 ore di volo. Atterrati in Bolivia, al ritiro dei borsoni sui rulli dell'aeroporto, ci rendiamo subito conto che la fatica per sollevare i bagagli è dovuta alla quota. Avvertiamo subito i sintomi del “soro-che” (o “sorojchi”), il malessere per l’altitudine. A 3600 metri sul livello del mare, l’altitudine della città di La Paz, la pressione è circa il 40% in meno rispetto al livello del mare, dunque un respiro porta 40% meno ossigeno nei polmoni. Della compagnia fanno parte: Antonio, Franco, Gianni, Renato, Ruggero ed io, e, ultimi aggiunti, Giovanna con Giulio.

16 ottobre

Sfruttiamo la domenica per visitare La Paz, il cui nome per intero sarebbe Nuestra Senora de La Paz (Nostra Signora della Pace).

Casualmente, girovagando per le vie del centro, intercettiamo una festa sulla Plaza Murillo Decine e decine di donne e uomini in costumi coloratissimi, scendono le scalinate della piazza al ritmo incalzante della banda strumentale. Lo interpreto come un segno di benvenuto, ma sopratutto come buon auspicio per il nostro viaggio avventura.

Per il pranzo, capitiamo in una trattoria che offre un menu' lavoro a base di minestra di verdura,"silpancho" (pollo-uovo e riso) e Coca Cola. Usciamo satolli e soddisfatti della scelta azzardata e prepariamo le biciclette per la mattina successiva.

17 ottobre

Sveglia alle 5, dopo una colazione abbondante ci trasferiamo, con un pulmino autorizzato a percorrere la "Carretera della muerte", al Passo de la Cumbre a 4700 m. Il meteo non è dalla nostra parte: Nebbia, pioviggine e 1°C ci danno il benvenuto e ci obbligano ad aumentare gli

strati del nostro abbigliamento troppo ottimista.

Iniziata la discesa, la pioviggine si trasforma presto in acqua battente e consiglia tutti ad una pausa caffè caldo dopo una 15ina di km.

Dovremo raggiungere il paesino di Yolosa nella foresta amazzonica a 1200 m di quota e distante 65 km dal passo de la Cumbre.

Fortunatamente la pioggia diminuisce per poi smettere completamente così da consentirci di ammirare, baratri, valli, cascate e vegetazione veramente unici.

Da qualche anno, la strada (sterrata, malmessa e senza alcuna protezione su dirupi di centinaia di metri) è stata vietata al traffico ordinario e solo consentita a mezzi 4x4 autorizzati. A dimostrazione della sua pericolosità, soprattutto per i mezzi semipesanti, sono le numerose croci che costellano il bordo della strada. Arrivati nella foresta a bassa quota veniamo accolti da stormi di pappagalli colorati che incuriositi ci volano sopra la testa.

Il rientro a La Paz avviene lungo una nuova strada asfaltata che risale fino al nostro punto di partenza mattutino evitando la "carretera".

18-19-20 ottobre

Partenza da La Paz per trasferirci sulle sponde del lago Titicaca, distante circa una novantina di chilometri, fino a Tiquina per poi traghettare su una zattera di legno equipaggiata da un motore fuoribordo con pochissimi CV fino alla sponda opposta.

Prepariamo le biciclette e, su strada asfaltata e in leggera salita, iniziamo il tratto fino a Copacabana distante circa 45 km con il superamento di un passo a 4260 m. Dopo il passo, una discesa spettacolare con vista sulla baia ci porta direttamente sulle sponde del lago Titicaca.

Con i suoi 8300 km2 esso è il lago navigabile alla maggior altitudine al mondo (3812 m) ed è anche considerato il luogo di origine della civiltà Inca. Sistemati in un buon hotel, dove si intuisce che il turismo boliviano e peruviano sono usuali, ammiriamo uno stupendo tramonto dai colori forti che aumentano di intensità dal rosa al blu per poi passare ad un viola vivo. Uno spettacolo per gli occhi e per la mente! Il mattino successivo, in sella alle nostre biciclette, lungo uno sterrato ondulato di 35 km sulla penisola di Yampupata,

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giungiamo ad un porticciolo da cui, su una piccola imbarcazione a motore, raggiungiamo l'Isla del Sol.

Un breve tour a piedi sull'isola, con relativo spuntino, ci permette di ammirare il colore intenso delle acque del lago e sopratutto la sua dimensione in quanto non si vede terra all'orizzonte (simile ad un mare!)

Pernottamento ancora all'Hotel

Estelar del Titicaca (4° piano ...sempre il fiatone ogni risalita in camera) per la ripartenza la mattina seguente. Rimontiamo a bordo del pulmino fino al passo a 4260 m e scarichiamo le biciclette per il rientro al traghetto di Tiquina, questa volta però percorrendo 36 km sterrati che corrono all'interno della penisola. Il cielo è sereno terso e la vista sulla Cordillera Real attira lo

sguardo per tutto il percorso. Ri-traghettiamo e, caricate le bici sul pulmino, ci trasferiamo nel pomeriggio a Oruro, cittadina a sud-Est di La Paz

21-22 ottobre

Dopo colazione, con le bici già caricate sul pulmino il pomeriggio precedente, l'uscita dalla cittadina si rivela un caos, causa lo sciopero dei minatori locali, così che dopo aver

Nelle pagine precedenti: sulla sponda del lago Titicaca con la Cordillera Real sullo sfondo

Nella pagina a fianco: la carretera de la muerte

Sopra:sulla cima sud del Volcan Tunupa

A fianco: sui ghiaioni multicolori del Tunupa

Nella pagina successiva dall'alto: il Salar de Uyuni, l'albero di pietra, salendo al Volcan Licancabur, in vetta al Licancabur

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implorato di lasciarci passare ad un posto di blocco improvvisato dai manifestanti, procediamo fino a San Cristobal a bordo del nostro mezzo. Ci spostiamo verso il cratere Jayukota da cui iniziamo il tratto sui pedali fino a Táhua. Pausa pranzo a Garci Mendoza, dove, in una tipica osteria boliviana, abbiamo il piacere di gustare un'ottima minestra di verdura condita con una zampa di gallina per renderla più appetitosa. Prima di Táhua, il vulcano Tunupa appare in lontananza nella maestosità dei suoi 5320 m. ma sopratutto ci colpisce la gamma dei suoi colori che vanno dal bianco, al rosso, all'arancio, al marrone. Arriviamo a Táhua sul bordo nord del Salar di Uyuni dove per due notti soggiorneremo in un piccolo hotel costruito completamente con blocchi di sale, letti e tavoli compresi. La corrente elettrica prodotta dal generatore è disponibile solo per le ore serali, così come l'acqua calda dei pannelli solari. Ed è proprio una doccia ciò di cui tutti noi abbiamo bisogno, in quanto la polvere accumulata percorrendo le strade sterrate è veramente tanta.

Ceniamo davanti ad un camino che riscalda l'ambiente e prepariamo il "cambio di assetto" in quanto l'indomani mattina abbandoneremo temporaneamente le MTB per salire a piedi il vulcano Tunupa. Dopo colazione ci aspettano due fuoristrada 4x4 autorizzati a percorrere la sconnessa e ripida strada sterrata che ci porterà dalla quota di 3700 m a 4600 m.

Durante la salita in jeep si nota una ragnatela di muretti a secco costruiti nella storia che delimitano campi o pascoli

ormai in disuso.

L'ascesa alla cima Sud del Tunupa inizia su un ghiaione rosso fuoco e scricchiolante sotto i nostri passi. A 4867 m, arrivati ad un evidente valico, svoltiamo a sinistra per una larga cresta fino all'anticima a 5150 m. Lo spettacolo sul Salar de Uyuni (detto anche Salar de Tunupa) e sulla cima principale è veramente mozzafiato.

La sensazione che tutti noi abbiamo è che ai nostri piedi ci sia uno strato di nuvole bianche, ma invece, ogni volta che abbiamo questo pensiero lo dobbiamo correggere: la distesa bianca accecante è la più grande distesa di sale al mondo con i suoi 11000 km2. Resteremmo delle ore ad ammirare il panorama, ma anche la discesa ci impegnerà parecchio a causa della instabilità del ghiaione sotto la cima.

Un ottimo pollo arrosto con riso e verdure ci fa dimenticare la fatica e la polvere accumulata in discesa.

23 ottobre

Questa mattina la partenza è fissata alle 8.00 per cui ce la prendiamo comoda, prepariamo le biciclette sotto lo sguardo incuriosito di due lama che passeggiano davanti all'hotel e partiamo. Alla compagnia si è aggiunto Jorge, amico argentino di Mariano, che con la sua Toyota 4x4 sarà di supporto sui tratti più accidentati dei prossimi giorni.

La prima sensazione, una volta arrivati sulla superficie salata, è quella di essere sulla neve con il timore che la bicicletta scivoli. Si percepisce un fortissimo riverbero del sole sul bianco del sale, amplificato dalla quota di 3700 m.

Alle nostre spalle la sagoma

del Tunupa, salito ieri, si allontana lentamente fino a quasi scomparire in prossimità dell'isola Incahuasi. Personalmente prima d'ora non avevo mai visto "miraggi" ma ora so esattamente di cosa si tratta. Le sagome delle montagne sembrano galleggiare sopra la superficie del Salar e, tremolanti, indefinite e irraggiungibili restano sempre all'orizzonte. Un vero spettacolo!

Circa a metà della traversata, dopo 47 km, ecco che "approdiamo" all'Isla Incahuasi. Alta un centinaio di metri sopra il deserto, è un vero concentrato di cactus enormi, fioriti in questa stagione, e rappresenta l'unica nota di colore e vita nell'immensità degli 11000 km2. Ci aspettano altri 60 km per raggiungere la nostra meta: la cittadina di Uyuni al bordo sudest del Salar.

Pernottamento in una pensione con tanti ospiti molto giovani che stanno partecipando alla versione boliviana di Master Chef ambientata proprio sul deserto salato. Il proprietario, un italo-americano, ci prepara una serie di ottime pizze accompagnate da un altrettanto ottima birra artigianale.

24-25-26 ottobre

La mattinata parte in modo pigro, forse perché le fatiche dei giorni precedenti cominciano a farsi sentire, così che, mentre Mariano cerca un distributore di carburante, visitiamo il museo dei vecchi treni Boliviani. A proposito di carburante, il prezzo per le auto boliviane è circa di 0,6 euro/litro, mentre per gli stranieri il prezzo è maggiorato del 50% ma, fatto singolare, si può contrattare il prezzo in base alla quantità,

così che l'argentino spunta un buon prezzo.

Scaricate le biciclette e cercato un lavaggio auto per eliminare il sale accumulato ieri, partiamo con destinazione Alota distante una sessantina di km. Il trasferimento è un po' noioso, caratterizzato da continui cambi di carreggiata a causa dei lavori di costruzione e ampliamento della sede stradale. Ad Alota, piccolo paese a vocazione mineraria, il pernottamento e la cena sono in una struttura strana, camerette singole, locale da pranzo non riscaldato, cortile interno chiuso da un enorme cancello che fa pensare ad una residenza di dipendenti stranieri delle miniere.Il mattino seguente ci aspetta una lunga e faticosa tappa che ci porterà, dopo 62 km e 850 m di dislivello, alla Laguna Hedionda. Dopo il primi chilometri, abbastanza facili ma penalizzati da una polvere irrespirabile generata dai camion e dalle auto che passano a velocità sostenuta, ecco la deviazione per il lungo tratto desertico che ci attende per i prossimi 5 giorni.Subito iniziano i primi insabbiamenti, con i conseguenti tratti a spinta, i primi tratti di "tond ondulee" e i primi momenti di sconforto! Mentalmente mi dico "quando il gioco si fa duro..i duri iniziano a giocare", ma questa leva psicologica dura pochi km, e per il prossimo tratto a spinta con la sabbia fino alle caviglie dovrò trovare un altra buona motivazione. Il paesaggio è superbo e forse è questo lo stimolo aggiunto per raggiungere la Laguna Hedionda, dove una moltitudine di fenicotteri rosa ci attende al tramonto.

27 CAI MORBEGNO

I colori, il silenzio, il cielo stellato della notte, fanno dimenticare la fatica, la polvere, la sete e tutte le imprecazioni della giornata, così che dopo una cena a base di carne di lama e una buona bottiglia di vino tinto si va tutti a letto perché anche domani sarà tosta!

Difatti la mattina seguente la partenza è subito in salita e, su un fondo sterrato, sabbioso, e molto sconnesso, guadagniamo un passo a 4650 m. Da qui inizia la traversata del deserto di Siloli, zona che viene considerata una delle più aride al mondo. Pedaliamo accanto a formazioni rocciose dalle forme particolari prodotte dei forti venti che sollevando la sabbia erodono la roccia. La più caratteristica è "l'albero di pietra", un vero spettacolo! La traccia nel deserto diventa a dir poco impraticabile in bicicletta, e, dopo vari tentativi di procedere, decidiamo all'unanimità di rinunciare all'ultima manciata di km e raggiungere la Laguna Colorada a bordo del 4x4 di Jorge. Questa laguna si trova all'interno della Riserva

Nazionale di Fauna Andina

Eduardo Abaroa e prevede una registrazione e un biglietto di ingresso valido 4 giorni e da presentare tassativamente all'uscita del parco.

Lo spettacolo dei colori della laguna, delle centinaia di "flamencos" (fenicotteri) e delle montagne circostanti è da togliere il respiro, come se non bastasse la quota di 4300 m. L'anziana signora che gestisce il rifugio minimale in cui siamo ospiti ci prepara per cena, oltre alla solita minestra di verdura, una buona pasta al pomodoro che da buoni italiani non possiamo che apprezzare. La notte, causa la mancanza di qualsiasi forma di riscaldamento e di energia elettrica, si preannuncia molto fredda. Per fortuna abbiamo i nostri sacchi a pelo per dormire tranquillamente.

27-28 ottobre

Come previsto la colazione è consumata al freddo e subito partiamo a bordo del pulmino fino ai Geyser de la mañana posti a 4915 m. Il paesaggio lunare, con crateri

che ribollono di magma di tutti i colori, colonne di vapore che si innalzano di parecchi metri e il rumore dei sibili causati dalla pressione, mette un po' di timore, ma questo non impedisce di ammirare lo spettacolo della natura veramente unico.

Muoversi qui si dimostra alquanto faticoso e si realizza cosa significa pedalare oltre la cima del Monte Bianco.

Lasciamo questo anticipo di quello che potrebbe essere l'inferno e dopo una breve ma faticosa salita imbocchiamo lo sterrato che, in discesa, ci porterà alla Laguna Chalviri e poi alle Termas de Polques con una strepitosa ed infinita discesa su sterrato in grado di mettere anche qui alla prova la nostra resistenza.

Raggiunto l'hotel, testiamo la temperatura dell'acqua calda delle pozze presenti sul bordo della laguna. La temperatura è di 29°C, ma un vento freddo e la mancanza di sole che ormai è tramontato ci sconsiglia un bagno termale.

Si cena e si va a dormire presto perché la sveglia di domani

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mattina e fissata alle 3.00. Partenza assonnata e al buio pesto che però ci consente, essendoci un inquinamento luminoso pari a zero, di goderci un cielo stellato spettacolare. Dopo un'ora raggiungiamo la Laguna Blanca a 4350 m di quota, la temperatura è -15°C ed entriamo nel rifugio dove ci attende la guida indigena autorizzata ad accompagnarci sul vulcano Licancabur, alto 5920 m. All'interno del rifugio, senza alcun tipo di riscaldamento, la temperatura è molto simile a quella esterna, però un caffè bollente ci riscalda un po' prima dell'ultimo

tratto, sempre con un mezzo 4x4, che ci depositerà sopra la Laguna Verde.

A quota 4600 m anche i potenti 4x4 devono arrendersi e con le prime luci dell'alba inizia la nostra salita verso la cima. Il passo "andino" della nostra guida ci fa subito capire che dovremo dosare forze e fiato poiché la salita sarà lunga e faticosa.Circa a quota 5300 rinuncio a malincuore a continuare la salita, non tanto per la medesima, ma per le difficoltà che potrei avere in discesa visto il terreno non proprio agevole per la mia protesi. Delego i miei compagni

di avventura a rappresentare il gruppo sulla cima.

La delega ha avuto esito positivo e, dopo 5 ore li vedo tornare presso le rovine Inca dove li stavo aspettando, stanchi, impolverati e affamati, ma soddisfattissimi della cima raggiunta. Rientro al rifugio della Laguna Blanca per cena, pernottamento e colazione. Come prevedevamo: al freddo e senza acqua; ci infiliamo nel letto ricoperti della polvere accumulata nella discesa sui ghiaioni e sognando la doccia che dovremmo poter fare all’indomani, ma solo dopo la successiva pedalata.

29-30-31 ottobre e 1-2 novembre

Dopo la sveglia, tergiversiamo un po' nel sacco a pelo caldo, aspettando che arrivino i primi raggi di sole a scaldare l'aria frizzante. Per colazione dobbiamo dar fondo alle scorte di viveri che altrimenti non potremmo portare in Cile. Miele, frutta, verdura, uova etc.

In prossimità del rifugio oltrepassiamo il varco di uscita del parco, presentando il nostro visto di accesso, e ci dirigiamo verso il posto di frontiera

Boliviano per l'uscita dal paese. Dopo un tratto ancora in salita ecco finalmente la frontiera cilena.

Qui il controllo per l'ingresso è minuzioso: viveri, bagagli, ma sopratutto dobbiamo registrare singolarmente e nominativamente le nostre biciclette con tanto di numero di telaio.

I tempi si dilatano e nel frattempo iniziamo una sfida a ping-pong con un doganiere cileno, sfida terminata in parità! Cile-Italia 2 a 2. Finalmente iniziamo il tratto che ci porterà a San Pedro di Atacama, nell'omonimo deserto. La strada ora è asfaltata e in ottimo stato così che i 50 km di discesa sono un vero piacere, dopo tanti km di strade sterrate. La piccola cittadina di San Pedro è un oasi verde, con le vie del centro piene di ostelli, ristoranti e turisti. Molto caratteristica la Iglesia de San Pedro, costruita nel 1744 utilizzando solo legno di cactus e "adobe", un impasto di sabbia, argilla e paglia. La quota di "soli" 2400 m ci consente di spogliarci di tutti i capi di abbigliamento indossati alla dogana cilena a 4600 m e addirittura di metterci in pantaloncini corti a bordo piscina per un po di relax.

Dopo 15 giorni, in quota sempre sopra i 4200 m, ce ne godiamo uno di meritato riposo a gironzolare per il centro paese, bere il "pisco sour" ad ogni occasione, cenare fino a tarda ora ascoltando musica andina dal vivo.

Il 31 ottobre, caricato pulmino di tutti i nostri bagagli, ci trasferiamo per 700 km di strada più che buona ad Arica sull'Oceano Pacifico attraversando tutto il deserto di Atacama, considerato uno dei più aridi della terra.

L'arrivo sull'oceano è emozionante e anche un po’ strano, dopo tanta siccità, freddo, umidità dell'aria al 5-7 %, ossigeno al 40% rispetto al solito, ecco che tutto si rimette nella normalità.

Subito abituati a questa situazione comoda siamo pronti per rientrare a La Paz. Purtroppo non è tutto così

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facile!

Dopo pochi km da Arica ecco che il motore del pulmino decide di fermarsi causa una grippatura.

Attuiamo un piano B per rientrare a La Paz utilizzando il pullman di linea che partirà l'indomani all'alba.

Durante questo lungo trasferimento abbiamo occasione di vedere da vicino due montagne che meriterebbero un ulteriore viaggio esplorativo: il vulcano Parinacota di 6348 m, al confine fra Cile e Bolivia, e il vulcano Sajama di 6542 m, completamente in suolo boliviano.

Conclusione

Nel rientro a La Paz penso che ognuno di noi, cullato dal rumore e dall'ondeggiare dell'autobus, abbia fatto un bilancio di questo viaggio avventuroso ma faticoso.

Il mio personale è molto positivo sotto tanti aspetti. Ogni giorno il viaggio ha riservato paesaggi, colori, culture, situazioni e ambienti differenti fra loro e, nonostante la fatica fisica giornaliera, ogni sera è prevalsa una soddisfazione assoluta di quanto visto e vissuto.

Tutti noi ci siamo resi conto di quanto sia impegnativo, per noi abituati a quote mediobasse, vivere più di 15 giorni fra i 4000 m e 4500 m. Abbiamo vissuto di persona la difficoltà dei boliviani a sopravvivere alla povertà e, non ultima, l'umanità e la disponibilità di tutte le persone che abbiamo incontrato e conosciuto.

Per aver apprezzato tutto questo, penso che il fattore fondamentale sia una forte amicizia che c'è fra noi compagni di avventura "storici", una condivisione di obiettivi e

interessi, una tolleranza e un rispetto reciproco, nonché ...un po' di sano masochismo! Sintetizzando: un’avventura che penso sia ricordata positivamente e per lungo tempo da tutti noi partecipanti!

Nelle pagine precedenti, a sinistra: ingresso nel Salar de Uyuni, a destra, sopra, i Geyser Sol de Mañana, sotto, la Laguna Colorada.

A fronte: una delle numerose lagune salate dell'altopiano

Qui sopra: trekking sull'Isla del Sol (Lago Titicaca)

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IL RITORNO

Di primo acchito mi era sembrata una bella notizia. L’orso era tornato in maniera significativa sulle Alpi e le stava ripopolando. Nel 1989 fu infatti dato il via al progetto Life Ursus, un programma di ripopolamento degli orsi nel Trentino, attuato importando dalla Slovenia quattro esemplari di orso. Attualmente sono circa 120 , segno che il plantigrado si è riadattato con successo ad un territorio che già abitava in passato e da cui era scomparso, principalmente per ragioni direttamente e indirettamente antropiche, all’inizio del ‘900.

Un secolo dopo le condizioni al contorno e le sensibilità verso certe tematiche sono radicalmente mutate. Si è preso coscienza che l’estinzione di ogni specie animale si traduce nella perdita di un’importante componente dell’ecosistema ed è per questo che una reintroduzione, effettuata nel principio dell’autoctonia delle specie, può riportare l’ambiente verso una maggiore naturalità. Questo principio, sacrosanto, andrebbe però declinato in funzione del contesto in cui viene applicato. Ben venga la reintroduzione dei grandi predatori selvatici, però valutando con ponderazione in quali luoghi applicarla.

Gli orsi hanno bisogno di un area piuttosto vasta e sono sostanzialmente stanziali. Per questo i giovani esemplari si devono spostare alla ricerca di una loro territorio. Durante uno di questi spostamenti, alcuni anni fa, un esemplare si è spinto fino in prossimità dell’abitato di Morbegno, e pare sia stato avvistato anche nel borgo. Questo fatto ha generato un discreto panico nella popolazione, tanto che l’amministrazione comunale si è sentita in dovere di organizzare degli incontri pubblici per tranquillizzare la cittadinanza. Ricordo di aver partecipato ad una conferenza, gremitissima, al museo di storia naturale. In quella occasione ci era stato detto che in sostanza l’orso non rappresentava un pericolo: animale schivo, preferisce non dare nell’occhio; se incontrato spesso mette in scena dei finti attacchi che però si risolvono in nulla. In tutta Europa le aggressioni con esito mortale si potevano contare sulle dita di una mano, accadute a persone che sostanzialmente se l’erano andata a cercare. Al termine dell’incontro si è quindi usciti tutti più rassicurati, tornando a guardare l’orso con una certa simpatia.

Un tragico evento avvenuto nell’aprile ’23 ha mutato nuovamente il mio sentire verso l’idea della presenza dell’orso nelle nostre zone. Un ragazzo in Val di Sole, uscito per una corsa nei boschi dietro casa, si è imbattuto in un’orsa che lo ha aggredito e ucciso. Premetto che sono decisamente contrario all’abbattimento degli animali responsabili delle aggressioni: un orso fa l’orso, se attacca è perché è spaventato o semplicemente perché difende i cuccioli o quello che percepisce come il suo territorio. Il tema sta proprio qui, cioè quale debba essere il territorio dell’orso. Gli abitanti della Valtellina, come del resto tutti quelli dei territori montani, fino alla fine dell’800 condividevano i luoghi di vita e di lavoro con l’orso e con altri predatori. Non che fosse un contatto gomito a gomito, però andando per boschi era possibile imbattersi nel plantigrado, oppure capitava che, spinto dai morsi della fame o semplicemente dalla curiosità, caratteristica di questo animale, l’orso si avvicinasse all’abitato, predando quanto trovava. Per questo la convivenza era tutt’altro che facile. Le cronache scritte ed orali ci danno conto di aggressioni,

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DELL’ORSO

predazioni, cacce in cui il cacciatore poteva tramutarsi in preda. Una pittoresca collezione di ex-voto ci descrive con vivido realismo questi drammatici momenti. In sostanza lupi ed orsi rappresentavano per la gente di montagna dei seri pericoli. Gli archivi ci riportano diversi provvedimenti presi dalle autorità per ridurre la presenza dei predatori soprattutto con l’introduzione di ricompense per chi abbatteva degli esemplari. In Valgerola l’ultimo orso fu ucciso da un cacciatore nel 1887, nei pressi dell’attuale stazione sciistica di Pescegallo. Dopo più di un secolo ci si trova quindi a dibattere sull’opportunità di un ritorno dell’orso, o meglio sul contrastarne o meno la ricomparsa, visto che l’animale si è riaffacciato autonomamente in zona. E’ un tema che ha preso campo da tempo. Anche il CAI ha istituito da diversi anni il Gruppo Grandi Carnivori, proprio perché ha intuito che questo ritorno è un fatto positivo ma potenzialmente

anche con pesanti ripercussioni, considerata la problematica convivenza con l’uomo. La commissione vorrebbe dare un “contributo costruttivo all’instaurarsi di una convivenza stabile, sostenibile e per quanto possibile equilibrata tra lupo (o orso) e uomo, entrambi attori protagonisti indispensabili dell’ambiente alpino ed aventi diritto di condurre la propria vita facendo fronte alle proprie necessità senza che uno prevalga sull’altro”. Il tema della possibile convivenza è il fulcro della questione. A mio parere in alcune aree, e la nostra è fra queste, la reintroduzione dei grandi predatori non è opportuna, perché la convivenza non è possibile. Va detto che non esiste una sola “montagna”, ma tante realtà diverse. Ci sono i vastissimi boschi della Slovenia o i grandi latifondi disabitati dell’Abruzzo dove gli orsi vivono indisturbati ed invece montagne molto antropizzate e frequentate in ogni loro anfratto dove una convivenza tra le due specie non è possibile senza rischi per entrambe. La Valtellina e le sue valli minori vanno annoverate in questo secondo caso. Io non sono né un antropologo né un teriologo, però vivo da sempre in una zona alpina e ragiono in base a

quanto vedo e sperimento. Pur a malincuore penso che ci si ponga davanti ad una scelta drastica: o l’uomo o l’orso, tertium non datur. Sia l’uomo che l’orso sono al vertice della piramide ecologica, ciò significa che ciascuno dei due può essere preda o predato dall’altro, a seconda delle circostanze. A me l’idea, non probabilissima ma tutt’altro che impossibile, di venire aggredito da un orso non è che piaccia molto. Frequento la montagna in ogni stagione, dal fondovalle alle cime, terminato il lavoro vado spesso a correre nei boschi dietro casa, anche in posti dove l’orso è sicuramente passato poco tempo fa, e questo mi espone, come tantissime altre persone, ad un possibile incontro con un predatore. Cosa faccio? Non vado più in montagna? E gli alpeggiatori? E i boscaioli? E chi vive nei paesini montani? E’ facile, da altri contesti, dire che anche l’orso ha i suoi diritti (peraltro verissimo) o che tempo addietro anch’esso abitava certe zone (pure questo vero). Però questo si scontra con l’incontrovertibile situazione attuale di aree montane con una densità abitativa e di frequentazione enormemente cresciute. Sarebbe come voler accettare branchi di lupi nelle colline della Brianza o tollerare la presenza di cani selvatici in un parco cittadino: dopotutto anche questi hanno i loro diritti e anch’essi abitavano quelle zone. Come dice Annibale Salsa, antropologo e già presidente generale del CAI, questa visione è figlia di un “ambientalismo spesso lontano dai territori e contrassegnato

da una matrice culturale prevalentemente urbana. Questo fatto spiega il perché i montanari siano portatori di un’idea di natura e di una sua conservazione del tutto separata dal protezionismo cittadino. La montagna vissuta in termini socioeconomici è cosa diversa dalla montagna idealizzata, percepita in un contesto interamente naturale. […] Sentire abitanti delle valli affermare di non poter più andare a far legna o temere di andare nel bosco è paradossale: è il paradosso di una post-modernità che ha perduto il senso dell’umano. Una dimensione esistenziale che non può e non deve essere confusa con l’antropocentrismo, spesso citato a sproposito nell’intento di emettere condanne senza appello nei confronti dell’uomo. L’antropocentrismo assoluto ha certamente arrecato danni per un eccesso di volontà di potenza della tecnocrazia. Tuttavia, non per questo, dobbiamo demonizzare l’essere umano in quanto tale. Riguardo alle politiche della montagna si tratta di scegliere, con onestà mentale, che tipo di montagna vogliamo. Una montagna selvaggia dove le attività umane sono bandite e dove gli abitanti sono una presenza scomoda o, viceversa, una montagna abitata ben sapendo che una convivenza perfetta fra uomo e grandi predatori è un’illusione. Si tratta comunque di scelte rispettabili ma non compatibili. Non resta quindi che invocare con fede la protezione di San Romedio o di San Francesco.” Pur confidando nei due santi, in questo caso preferirei non doverli invocare.

Sopra, ex voto conservato nella quadreria parrocchiale di Sacco

A fianco, statua lignea di S.Romedio La presenza dell'orso vicino a San Romedio è legata alla leggenda secondo cui il Santo, ormai vecchio si sarebbe incamminato dal suo eremo verso la città deciso ad incontrare il Vescovo di Trento. Lungo il percorso il suo cavallo sarebbe stato sbranato da un orso, Romedio tuttavia non si diede per vinto e avvicinatosi alla bestia sarebbe riuscito miracolosamente a renderla mansueta e a cavalcarla fino a Trento. L'orso così divenne il suo unico compagno fino alla morte.

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Ciclovie in quota

di Riccardo Scotti

L’ultima puntata della saga di un modello di sviluppo montano sul viale del tramonto?

La miccia si è finalmente accesa, o meglio dire, riaccesa. Vent’anni fa infatti proprio il CAI Morbegno si era esposto contro il proliferare indiscriminato di strade agrosilvo-pastorali in quota. I soldi arrivavano (e arrivano) spesso da fondi regionali per lo “sviluppo montano”, in genere nel filone della lotta pluridecennale, ma scarsamente

fruttuosa, allo spopolamento delle aree più marginali. Le strade spuntavano come funghi, in buona parte richieste dagli abitanti per accedere più facilmente ed aumentare il valore immobiliare delle seconde case sparse nei vari maggenghi a media quota. Di fronte a tale unità di intenti le preoccupazioni del CAI rispetto ad un’espansione

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incontrollata verso le quote più elevate, restò del tutto isolata, inascoltata, e talvolta persino derisa.

Raggiunti quasi tutti i nuclei di media e bassa quota dove queste opere, seppur impattanti, possono tendenzialmente portare alcuni benefici, ci si concentra oggi alle quote degli alpeggi e oltre, dove pare che ogni calécc necessiti di essere raggiunto da piste a doppia corsia. A questa rete di tratturi, spesso realizzati con poca cura, si sono aggiunte negli ultimi anni le ciclovie realizzate per l’utilizzo delle e-bike che si spingono talvolta ancora più in quota. Qui la giustificazione si sposta sull’incentivazione di un turismo di massa che si basa sul principio di un continuo addomesticamento della

montagna per rendere fruibile l’alta quota ad un maggior numero di persone possibile. Tutti devono poter arrivare ovunque, azzerando il concetto di limite che rappresenta invece un pilastro di una frequentazione consapevole e di un rapporto equilibrato con i delicati habitat dell’alta quota. È pur vero che lo sviluppo del paesaggio montano nelle Alpi è frutto di una profonda interazione secolare tra attività antropiche ed eventi naturali. L’addomesticamento della montagna era però indotto da una stringente necessità di sopravvivenza. Infatti da sempre l’uomo ha cercato di migliorare la propria condizione esistenziale cercando, fino a pochi decenni fa, semplicemente di alleviare le incredibili difficoltà della

vita in montagna basata su agricoltura e allevamento con i pochi mezzi a disposizione. Oggigiorno lo stesso schema mentale viene applicato sulla base dell’assunto che vede come unica via per lo sviluppo montano il turismo di massa o, forse peggio ancora, un turismo d’élite che porta ad un rapporto ancora più distorto e conflittuale con l’ambiente alpestre. Il problema più grande, a valle di tale ragionamento, è la tremenda accelerazione delle potenzialità tecniche a disposizione dell’uomo negli ultimi decenni. Elicotteri & ruspe, per citare due mezzi meccanici protagonisti della realizzazione delle opere montane più impattanti, possono oggi modificare il paesaggio con un’efficacia e una velocità

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neanche paragonabili ai pochi mezzi a disposizione dei nostri antenati. Questa eccezionale potenza tecnologica, frutto della disponibilità di energia fossile a basso costo (economico, ma non ambientale), se non governata da raziocinio e senso del limite, è in grado oggi di sconvolgere rapidamente e talvolta irreparabilmente il territorio, spesso soltanto per seguire l’ultima tendenza di un mercato, quello turistico, oppure più banalmente per realizzare progetti di dubbia utilità ideati al solo scopo di sfruttare specifici finanziamenti pubblici. Più noi portiamo verso l’alto la nostra interferenza, o meglio, la nostra neocolonizzazione turistica fatta di ruspe, esplosivi, cantieri e,

successivamente, un numero sempre maggiore di persone, maggiori saranno i rischi sia per gli escursionisti stessi, spesso del tutto inconsapevoli e impreparati a convivere con tali ambienti, sia per gli habitat naturali. Questi ultimi sono spesso sacrificati con leggerezza in conseguenza di una mentalità antropocentrica per cui ciò che è funzione dell’uomo ha un valore, tutto il resto è sacrificabile (1) . Tutti gli esseri viventi in un qualsiasi habitat naturale dovrebbero invece avere il diritto di esistere e di prosperare. Esistenza che, al netto delle opere direttamente invasive sul territorio, è già messa a dura prova dagli sconvolgimenti legati alla crisi climatica, essa stessa conseguenza delle attività

Nella pagina di apertura: sotto il titolo, sit-in di protesta al lago Trona. A lato il Lago Zancone.

Nella pagina a fianco: percorrendo un tratto della ciclabile che sale alla Bocchetta Trona

Sopra a sinistra: il tratto di ciclabile che, per ora si ferma poco prima del Lago Zancone.

A destra: la strada (ciclabile?) che porta all'alpeggio di Olano.

Nella pagina successiva: il Lago Zancone

(1) Tra l’altro molto spesso non si ha neppure alcuna consapevolezza dell’importanza dei processi naturali quali produttori di servizi ecosistemici indispensabili per le attività umane

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umane, che spinge ad una continua risalita di quota specie animali e vegetali. Dobbiamo però considerare come il territorio montano sia una vera e propria piramide: più saliamo di quota minore è lo spazio a disposizione. Partendo da questi presupposti, ogni opera in alta montagna andrebbe soppesata con estrema attenzione per cercare di lasciare in pace almeno la parte sommitale di questa “piramide”(2).

Ed ecco che qui torna la miccia di cui parlavo all’inizio. Fortunatamente pare che oggi ci siano molte più persone che hanno compreso il valore

intrinseco dell’ambiente naturale poco contaminato(3) iniziando a ragionare su un presente e soprattutto un futuro della montagna nel quale il turismo rappresenta una componente importante ma non l’unica. Ne è la prova concreta la reazione di protesta nata in opposizione alla Ciclovia del Bitto che, a forza di ruspe ed esplosivi, è ormai prossima al Lago Zancone, perla naturalistica e paesaggistica del nostro territorio. I dettagli si trovano nella lettera aperta del CAI Morbegno, che trovate qui di seguito, inviata in concomitanza con il presidio “Ribelliamoci Alpeggio!”

organizzato dall’Associazione

Proletari Escursionisti (APE) il 14 ottobre a cui hanno partecipato 35 persone, scrivente incluso, e persino un gruppo di navigati e-biker locali. A queste iniziative è seguita anche una raccolta firme online capace di raggiungere ad oggi 2450 adesioni a cui ha fatto seguito la formazione di un comitato spontaneo che sostiene i principi ben sintetizzati dal manifesto del presidio

APE: "Non siamo contrari alla manutenzione dei sentieri, ma al fatto che questa avvenga con escavatori ed esplosivi, che snaturano in modo irreversibile

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le caratteristiche ambientali e storiche di sentieri e mulattiere. La costruzione di ciclovie alpine, così come quella di nuovi impianti di risalita e di ogni opera che vuole sfruttare il territorio trasformando la montagna in un parco giochi per umani, si fonda sulla pretesa di poter arrivare ovunque e sempre, incuranti dei propri limiti. Narrazioni su decoro e inclusività tentano di celare che ciò che guida questi progetti è spesso unicamente l’interesse economico legato alle nuove forme di turismo". Tali valutazioni e preoccupazioni, ad oggi, non sono ancora tenute in considerazione da

una classe politica specchio di una società che vede esclusivamente nello sviluppo turistico “a tutti i costi” il futuro delle comunità alpine. Una visione poco lungimirante in un contesto climatico in rapida degenerazione che andrà a breve ad influenzare in modo significativo le scelte di vita di molte persone. Complice la spinta post Covid-19, lo smart-working e le invivibili temperature estive degli ultimi due anni, la cosiddetta migrazione climatica verticale, che sia solo stagionale o, per ora più timidamente, permanente, sta offrendo nuove prospettive e speranze.

Un ripopolamento in quota probabilmente inevitabile stante l’inarrestabile trend climatico attuale e futuro, che va ovviamente governato con saggezza, quella che spesso è mancata in passato, ma che può presentare una vera rinascita della montagna sotto prospettive diverse e più proficue, sia per gli abitanti che per l’ambiente. In tale contesto sarebbe opportuno iniziare a considerare come fondamentale una maggior attenzione verso la gestione della risorsa idrica, la mitigazione del rischio incendi e geo-idrologico, vere ed impellenti esigenze nella rapida accelerazione che stiamo vivendo verso un clima sempre più ostile. Contestualmente, ci si dovrebbe concentrare in maggior misura verso un miglioramento di quei servizi essenziali, spesso carenti, che possano rispondere alle reali esigenze di chi abita veramente la montagna, o vorrebbe farlo, o forse che sarà quasi costretta a farlo nei prossimi decenni.

(2) Incredibilmente, proprio le punte delle piramidi, ovvero le vette più elevate del nostro territorio sono oggetto dell’attenzione di aziende di telecomunicazioni per l’installazione di infrastrutture (antenne e locali tecnologici) di “privata” utilità. Si veda il caso del progetto di installazione di un’antenna per le comunicazioni finanziarie tra le borse europee sulla vetta del Paradisin alla testata della Val Gerola.

(3) considerando anche solo la pervasività delle microplastiche, ormai diffuse in ogni angolo del pianeta, non esiste più alcun luogo realmente incontaminato.

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NON EXPEDIT

Pubblichiamo qui di seguito la lettera aperta scritta della sezione del CAI di Morbegno contro la realizzazione di una ciclovia in alta Val Gerola, progettata, per ora fino, al lago Zancone

Molti conoscono il lago Zancone, in alta Val Gerola, e tutti quelli che lo conoscono ne apprezzano le particolari tonalità di colore, la limpidezza delle acque, la selvaggia bellezza dell’ambiente in cui è posto. Lo specchio d’acqua si trova all’interno del Parco delle Orobie Valtellinesi, in area protetta e vincolata. Proprio per le sue peculiari bellezze e per il vincolo normativo che lo protegge, l’ultima cosa che ci si aspetta e di vedere una pala meccanica che ne percorra le sponde. Eppure questo è uno scenario ormai imminente, tanto che i mezzi meccanici sono già saliti al vicino alpeggio di Trona. E’ stato infatti redatto un progetto per la realizzazione di una ciclovia intercomunale, e quella ora in atto costituisce l’attuazione di uno stralcio progettuale esecutivo. Le opere sono già state appaltate e ne è iniziata l’esecuzione. La via sostanzialmente parte poco oltre il rifugio di Trona Soliva, attraversa il circo vallivo per poi passare dalla parte opposta della valle della Pietra. Verrà quindi aperto un nuovo tracciato sulla sponda sopra il lago Trona, che dovrebbero raggiungere il lago Zancone, per poi procedere verso la Val Tronella, una delle pochissime valli incontaminate, non raggiunte da strade. Crediamo che gli ideatori del percorso abbiano voluto toccare uno dei punti più belli della valle per aumentare l’attrattività della via che intendono realizzare, a scapito però del sito stesso, che fa del suo essere luogo isolato ed incontaminato il suo punto di forza. lI CAI non è contro la frequentazione della montagna, anzi, promuove

l’andar per monti. E’ contro invece lo sfruttamento della montagna, ed in questa azione se ne ravvisano gli estremi. E’ un progetto che piega l’ambiente alle esigenze turistiche, forza l’orografia a favore di una percorribilità non connaturata allo stato dei luoghi. Non tutti i luoghi devo essere per forza raggiungibili ed occorre ricordare che la montagna può essere un luogo per ricrearsi ma non è un parco giochi. E’ un luogo in cui entrare in punta di piedi e da cui uscirne possibilmente senza lasciare traccia del proprio passaggio.

Sollecitati da molti nostri soci, preoccupati per l’avanzare di questo progetto, siamo entrati nel merito dei permessi autorizzativi, soprattutto per vedere come gli Enti proposti alla tutela di questi luoghi avessero risposto alle istanze dei richiedenti. La Soprintendenza al Paesaggio in sostanza ha dato il suo benestare alla realizzazione del tracciato purchè questo venga realizzato (giustamente a nostro parere) senza spostare o eliminare i massi che possano trovarsi sul percorso. Ora, chi conosce i luoghi in prossimità del lago Zancone saprà benissimo che è praticamente impossibile tracciare un percorso in quella zona senza spostare o far saltare diversi massi, se non disattendendo questa prescrizione cogente. Aggiungiamo inoltre che la via attraversa un tratto, sopra il lago di Trona, estremamente esposto alla cadute di slavine in inverno e di frane nel resto dell’anno. Realizzare un percorso su questo versante significa dover realizzare dei sistemi di ancoraggio piuttosto impattanti, e soprattutto il dover attuare un costante programma di

interventi di manutenzione, peraltro in un luogo molto lontano e difficile, con un conseguente aumento dei costi. Sapendo come i programmi manutentivi sono quasi sempre disattesi, è facile immaginare che in poco tempo il sentiero non sarà più praticabile. Nel frattempo altri enti e gruppi si stanno muovendo per far sentire il proprio dissenso verso questa azione e chiederne la non attuazione. Anche noi ci allineiamo a queste richieste.

Chiediamo la sospensione dell’intervento ed una sua rimodulazione, individuando dei percorsi alternativi a quello che prevede il passaggio dal lago Zancone. Offriamo la nostra collaborazione in merito, mettendo a disposizione la nostra conoscenza dei luoghi e la nostra competenza in tema di sentieristica, nell’ottica di salvare uno dei gioielli del Parco delle Orobie.

Facendo un discorso più generale diciamo che comunque siamo contrari all’apertura delle nuove ciclovie. Va detto che al loro primo apparire parevano un buon approccio alla montagna: la bici a pedalata assistita è un mezzo pulito, che non inquina e non produce rumore, con un motore elettrico in grado di dare una spinta propulvisa tale da vincere anche delle pendenze impegnative e quindi adatto a molti sentieri. Le sue ridotte dimensioni fanno si che non necessiti di vie particolarmente larghe, e che quindi con pochi aggiustamenti i sentieri esistenti potevano essere adattati alla loro percorrenza senza stravolgimenti.

Questo sulla carta.

Poi abbiamo visto le prime

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realizzazioni e ci si è accorti che le cose stanno ben diversamente. Il sentiero, immaginato dal progettista inserito armoniosamente nel paesaggio, nella sua fase esecutiva diventa uno sfregio nel verde, uno scasso aperto dallo scavatorista con la logica della minor spesa. Se il sentiero aggira il masso o l’albero e asseconda il pendio, la ciclovia tira dritto, eliminando ciò che trova sul suo percorso, cancellando i segni di antichi passaggi, le stratificazioni di percorsi secolari aperti da uomini e animali che condividevano lo stesso territorio.

C’è una differenza enorme tra il sentiero storico e le nuove ciclovie. Il primo è una vena, un’arteria pulsante in cui scorre la linfa di un terreno vivo, è organico al luogo in cui si innesta armoniosamente. La ciclovia

invece è una ferita nel paesaggio, un percorso che attraversa un ambiente ma da cui ne resta avulso, non lo asseconda ma lo piega alle proprie esigenze: scotica il prato, abbatte l’albero, fa saltare il masso. Dice bene Michele Comi in un suo scritto: “scassare l’impervio e livellare gli ostacoli lungo antiche vie è il sacrificio che tante vallate stanno offrendo per abbattere la barriera della fatica e consentire ai ciclisti di andare ovunque. Questo significa rinunciare completamente ad accogliere i nostri limiti, senza accettare la meravigliosa imperfezione di sentieri, rocce, boschi e pascoli, perdendo la possibilità di trovare un senso, relazioni ed esperienza autentica con le nostre montagne.”

La montagna è un ambiente

molto delicato, non in grado di assorbire azioni così violente ed invasive come l’apertura di questi percorsi per e-bike, se non in tempi lunghissimi. Paradossalmente questi progetti di valorizzazione del territorio ne minano l’aspetto più importante e cioè quello di essere luoghi incontaminati, lontani, non addomesticati. Inoltre sono interventi con uno scarsissimo grado di reversibilità. Facciamo quindi appello alla sensibilità degli amministratori e lanciamo un monito alle loro responsabilità perché non attuino interventi, apparentemente vantaggiosi e fruttuosi ma che in realtà possono rivelarsi estremamente controproducenti.

Club Alpino Italiano Sezione di Morbegno

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L’ANTICA VIA CAVALLERA IN VALMALENCO

PREMESSA

Il Comune di Chiesa in Valmalenco ha promosso in tempi recenti l’allestimento di un percorso escursionistico-didattico lungo la via Cavallera, antica via che da Sondrio sale al passo del Muretto e ridiscende nell’elvetico versante opposto, verso il Maloia, da qualche anno conosciuto anche come “sentiero Rusca”. Conoscendo l’operazione (di cui sono stato il progettista) ho proposto di portare qui una descrizione di questo itinerario, facendo in modo però che non fosse esposta solo sotto il profilo escursionistico ma anche storico. Ho pensato di affidarne la redazione all’ormai nota ChatGPT, un programma basato sull’intelligenza artificiale in grado di elaborare testi. Per far si che lo strumento non elabori contenuti generici e superficiali occorre “imbeccarlo” fornendo informazioni e indirizzandolo su sotto-temi specifici. Il risultato, che trovate qui sotto, mi sembra comunque interessante.

Alessandro Caligari

L’ANTICA VIA CAVALLERA IN VALMALENCO

Testo di ChatGPT

La Valmalenco, incastonata tra le vette imponenti delle Alpi Retiche, è un luogo straordinario che affascina per la sua bellezza naturale e la ricca tradizione culturale. Tra i tanti tesori che questa valle alpina nasconde, la Via Cavallera emerge come un itinerario unico che promette di portare i visitatori in un viaggio indimenticabile tra paesaggi mozzafiato e autentica vita montana

L’itinerario è una strada storica che per secoli ha collegato i villaggi della Valmalenco, consentendo il trasporto di merci e il passaggio di viandanti.

La Via Cavallera è una testimonianza tangibile della connessione millenaria tra Sondrio e la media Valtellina con il Passo del Maloja e la

Rezia interna. Questa via storica, già conosciuta in epoca preistorica e frequentata durante l'Impero Romano, ha giocato un ruolo cruciale nel medioevo, durante la riapertura delle Alpi, nell'ambito del commercio e nella dominazione grigiona. Durante questi tre secoli sotto l’influenza elvetica, la strada del Muretto divenne un crocevia vivace e strategico, trasformandosi nella via del vino per eccellenza. Battuta da numerosi mercanti retici, soprattutto dai bregagliotti, questa arteria commerciale giocò un ruolo chiave nel sostentamento economico della Val Bregaglia. La storia di questa via è intrecciata con l'arte del commercio e le ricchezze vinicole della Valtellina e della Valchiavenna. Gli scambi commerciali attraverso la via Cavallera divennero così rilevanti che la Val Bregaglia sviluppò un sistema di rotta commerciale

proprio su questo percorso. Conosciuta come la "Rotta del Muretto" o la "Rotta di Malenco", questa via commerciale divenne il cuore pulsante dell'economia locale. Le merci, in particolare il pregiato vino della Valtellina, fluivano attraverso questa rotta, alimentando la prosperità e la diversificazione economica della Val Bregaglia. Il dominio grigione portò con sé un periodo di crescita economica nella Val Malenco, e la Via Cavallera si rivelò cruciale in questo contesto. Il commercio fiorì lungo questa strada, trasportando merci di grande valore e svariati manufatti che divennero il simbolo dell'abilità artigianale locale.

La Val Malenco, già nota per i suoi pascoli rigogliosi, ebbe l'opportunità di diffondere la sua fama nella produzione di latticini e formaggi, le cosiddette “grassine”

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attraverso la Via Cavallera. La strada consentiva un agevole trasporto di questi prodotti freschi, permettendo agli abitanti della valle di accedere a nuovi mercati e ampliare la clientela. Burro e formaggi artigianali di eccellenza divennero ambasciatori del territorio, conquistando il

strada del Muretto si trasformò così in un autentico ponte tra la ricchezza del sottosuolo e le esigenze edilizie delle comunità vicine. La famiglia dei Capitanei di Sondrio giocò un ruolo significativo nel controllo e nella gestione delle risorse della regione. I Capitanei

Valtellina. Questo itinerario privilegiato diventò un crocevia di commerci e culture, con merci preziose che fluivano da e verso la vicina Repubblica di Venezia e da altri luoghi dell'Oriente, nonché dalla pianura padana. La Repubblica di Venezia, celebre per la sua posizione

palato di acquirenti oltre i confini della valle.

La Via Cavallera non era solo un percorso di gusto, ma anche una vetrina per i tesori naturali della Val Malenco. I manufatti di pietra ollare e serpentino, pregiati materiali estratti dalle montagne circostanti, divennero merce ambita. Le piòde, tegole realizzate con maestria da questi materiali, furono particolarmente richieste per la copertura dei tetti nelle regioni limitrofe. La

non solo avevano il compito di proteggere e amministrare la città di Sondrio, ma detenevano anche diritti di riscossione di pedaggi, dazi sulle merci in transito e vantaggi legati alle risorse estratte dalla Valmalenco.

Nel periodo del Basso Medioevo, la Strada del Muretto si trasformò in una delle vie più frequentate dai mercanti grigioni, che scendevano dal cuore delle Alpi per raggiungere la prospera

strategica nel commercio marittimo, contribuiva in modo significativo alla diversificazione delle merci lungo la Strada del Muretto. Tessuti fini, spezie aromatiche, grani e altri beni provenienti dall'Oriente venivano trasportati attraverso le montagne per soddisfare la domanda dei mercanti grigioni e delle comunità lungo il percorso

La pianura padana, fertile e prospera, era una fonte

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inesauribile di risorse. La Strada del Muretto consentiva ai mercanti di importare grani essenziali per l'alimentazione, tessuti di qualità, ferro per la fabbricazione di utensili e armi, nonché prodotti artigianali come cuoi e pellami. Questo flusso costante di merci trasformò la Valmalenco in un crocevia vitale per il commercio regionale. La Strada del Muretto facilitava

non solo il commercio di merci ma anche il trasporto di bestiame dalla Rezia verso la Valtellina. In particolare, l'importazione di bovini e cavalli, tra cui i rinomati cavalli todeschi, robusti e resistenti alla fatica, divenne un aspetto significativo del commercio lungo questa via. I cavalli todeschi erano apprezzati non solo come animali da lavoro ma anche

come cavalli da guerra, contribuendo alla forza militare delle comunità lungo il percorso.

Questa antica via è stata di recente recuperata e trasformata in un percorso escursionistico, utilizzabile sia a piedi, che a cavallo che in mountain bike, consentendo ai visitatori di immergersi nella storia e nella natura incontaminata della valle Nascosto tra le vette delle Alpi Retiche, il percorso escursionistico da Chiareggio al Passo del Muretto e al Maloja si snoda come un filo d'argento tra paesaggi selvaggi e testimonianze di una storia antica. Questo cammino, intriso di bellezza naturale e fascino storico, attrae escursionisti desiderosi di immergersi nella magnificenza delle Alpi e nelle tracce dei viandanti che hanno solcato queste terre per secoli. Il viaggio inizia nel borgo di Chiareggio, incastonato in una valle verde, dove le case tradizionali rispecchiano la bellezza architettonica delle Alpi.

Il sentiero si apre come un abbraccio della natura, attraversando prati fioriti e boschi secolari. Lungo il percorso, il fragore degli alberi e il canto degli uccelli si fondono in una melodia che accompagna gli escursionisti in un viaggio sensoriale. Arrivati al Passo del Muretto, la vista si apre su uno spettacolo mozzafiato: la Valmalenco da una parte e la Val Bregaglia dall'altra. Questo varco tra le vette è permeato di storia, testimone di secoli di viaggi, commercio e scambi culturali. La brezza fresca porta con sé il

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profumo dell'aria di montagna e il calore del sole abbraccia la pelle, creando un momento di pura contemplazione.

Il percorso continua verso il Passo del Maloja, attraverso sentieri che si intrecciano tra rocce scoscese e prati alpini. Qui, la storia si fonde con la leggenda: i racconti di viandanti medievali e mercanti di epoche passate si mescolano con il suono del vento tra le creste delle montagne.

La Via Cavallera non è solo un viaggio nella natura, ma anche un percorso attraverso la ricca tradizione culturale della Valmalenco. Lungo il tragitto, è possibile incontrare antichi borghi di montagna, chiese secolari e abitanti del luogo che custodiscono con orgoglio le loro radici culturali. Alcuni punti lungo il percorso offrono la possibilità di assaporare la cucina locale e acquistare prodotti tipici come

formaggi, salumi e artigianato locale. Questo itinerario è una testimonianza tangibile della storia delle Alpi, una via che ha unito comunità, ha facilitato il commercio e ha lasciato un'impronta indelebile nella cultura di questa regione montuosa. Un viaggio lungo

questa strada è un'affascinante immersione nelle epoche passate e nelle storie che risuonano tra le vette delle Alpi.

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Leonardo dellaeValgerola le montagne

Il Rinascimento italiano, periodo di fervente creatività artistica e rinascita culturale, è noto per la sua straordinaria produzione artistica che abbracciava molteplici discipline. Tra le opere d'arte più iconiche di questo periodo, si trovano dipinti che raffigurano sullo sfondo catene montuose, simboli di grandezza naturale e spiritualità. Le montagne infatti, nella simbologia

rinascimentale, erano spesso associate a significati più profondi e trascendentali. Contemporaneamente però il paesaggio iniziò a guadagnare importanza anche come soggetto indipendente. I pittori rinascimentali erano noti per la loro attenzione al dettaglio e all’esattezza nel rappresentare la natura. In molti dipinti le montagne sono ritratte con una precisione quasi scientifica, mostrando

la curiosità dell'epoca nei confronti del mondo naturale. Pittori come Leonardo da Vinci, Giorgione e Tiziano esplorarono la bellezza della natura attraverso le loro opere, inserendo spesso montagne come sfondo di paesaggi sereni o come parte integrante di opere più ampie. In particolare Leonardo da Vinci, personalità complessa e poliedrica, non si limitò ad eccellere nella pittura, ma estese il suo

genio anche alle scienze naturali e all'osservazione della natura. Tra le sue opere, molti dei suoi disegni e dipinti ritraggono paesaggi montani che manifestano la sua abilità nell'interpretare e rappresentare la complessità della natura. Nelle sue numerose osservazioni scientifiche, Leonardo da Vinci studiò anche le montagne

e le loro caratteristiche geologiche. I suoi taccuini contengono schizzi dettagliati di formazioni rocciose, creste montuose e fenomeni atmosferici legati alle regioni montane. In particolare, su un unico foglio sciolto contenuto nel Codice Atlantico, cronologicamente collocabile durante il periodo sforzesco e più precisamente attorno agli

anni1490-91, sono riportate delle annotazioni sulla Valsassina, sulla Valchiavenna e la Valtellina. E’ interessante notare che nel suo primo periodo milanese Leonardo è indicato nei documenti ufficiali come pittore e architetto (magister) ma a partire dagli anni ‘90 a queste cariche si affianca quella di ingegnere militare, funzione

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che implica la realizzazioni di strutture difensive e macchinari bellici. Questo comporta anche l’effettuazione di diversi sopralluoghi, soprattutto nelle aree critiche di confine. E’ molto probabile che Leonardo abbia raccolto diverse informazioni, attente agli aspetto orografici, in quest’ottica difensiva, allo scopo di rinforzare le strutture militari che Ludovico il Moro dispose anche per Chiavenna, Tirano, Morbegno e Serravalle, in quanto necessarie a seguito alle incursioni dei grigioni nei territori Valtellinesi del 1486. Leonardo ci lascia quindi questa descrizione della Valtellina:

“Voltolina, come detto valle circundata d’alti e teribili monti , fa vini potenti e assai e fa tanto bestiame che da paesani è concluso nascervi più latte che vino. Questa è la valle dove passa Adda, la quale prima corre più che 40 miglia per Lamagna. Questo fiume fa il pescio Tèmere, il quale vive d’argiento, del quale se ne truova assai per la sua rena. In questo paese ognuno po vendere pane e vino, e ‘l vino vale el più 1 soldo il boccale, e la libbra della vitella 1 soldo e ‘l sale 10 dinari e ìl simile il burro, ed è la loro libbra 30 once, ll’ova un soldo la soldata. A Bormi sono i bagni. In testa della Voltolina è le montagne di Borme, terribili e piene sempre di neve. Qui nasce ermellini (Codice Atlantico, f. 573r-b).

Leonardo parla quindi di una Valtellina come luogo attorniato da montagne alte e dall’accesso molto difficoltoso, perennemente coperte da neve. Ne descrive quindi i prodotti enogastronomici, il

vino, il latte ed il burro. Parla anche dell’Adda, anche se con un riferimento, difficilmente comprensibile, ad un suo transito per 40 miglia in territorio germanico. Oltre a queste testimonianze scritte Leonardo ci lascia però anche delle descrizioni grafiche di alcune montagne della provincia di Sondrio. C’è una serie di piccoli disegni, eseguiti evidentemente dal vivo, in cui Leonardo descrive con precisione diverse cime. Nel Codice Resta, conservato alla biblioteca ambrosiana di Milano, c’è un disegno eseguito a sanguigna su carta. Si tratta in realtà di un foglietto piuttosto piccolo (cm 10x5) ma in cui, con una notevole nitidezza e precisione vengono raffigurate alcune cime delle prealpi lombarde. Al centro svetta il Resegone attorniato da altre montagne della Valsassina. Molto simile è un altro piccolo disegno, a sanguigna e gessetto su carta, conservato alla Royal Library di Winsor. Con notevoli dettagli analitici sono raffigurate ancora le stesse prealpi lombarde. Il punto di vista però è più ravvicinato, per cui si distinguono e si identificano meglio le montagne descritte. Al centro sono raffigurate le caratteristiche sagome piramidali della Grignetta e della Grigna. Dietro a queste montagne spuntano delle vette per noi molto interessanti: oltre la Grigna emerge la cima del Legnone e dalla parte opposta svettano i contrafforti del Monte Due Mani che si erge dalla pianura ma soprattutto quelli del Pizzo dei Tre Signori, alla cui sinistra si notano i profili dei due corni del Pizzo Varrone e quelli del Piz

Melasch (Melaccio) e del Monte Rotondo; all’estremità sinistra un’altra importante cima della provincia di Sondrio il Pizzo Stella, sopra Chiavenna. Questi appunti grafici, oltre ad essere annotazioni utili alla raccolta di informazioni come scritto sopra, sono anche modelli funzionali alla creazione di molti degli sfondi di celeberrimi dipinti di Leonardo. Infatti ad esempio c’è chi vede le montagne di Civate nel paesaggio inquadrato dalle tre finestre del Cenacolo, oppure le montagne lecchesi e le Alpi Orobie a fare da sfondo alle due versioni della Vergine delle Rocce o al dipinto della Vergine con il Bambino e Sant’Anna o ancora alla Madonna dei Fusi. E’ possibile quindi che alcune cime Valtellinesi siano finite su quadri visti da milioni di osservatori in tutto il mondo. Facendo particolari triangolazioni geografiche sembra verosimile che Leonardo, famoso anche per la vista acutissima, abbia redatto alcuni dei disegni delle cime lombarde direttamente da Milano, magari da un torrione del castello sforzesco o dal cantiere del duomo. Mi viene da pensare allora quante volte ci è stato detto che da quella o quell’altra cima valtellinese, nelle giornate particolarmente terse è possibile vedere la Madonnina del duomo di Milano. Mi piace quindi pensare alla situazione inversa, immaginando Leonardo sui ponteggi del tiburio del duomo, in una giornata limpida che osserva con interesse il Pizzo Tre Signori, il Rotondo ed il Melasc e che con la sua consueta precisione li riporta sul suo taccuino degli appunti.

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Pizzo Arera

Cima di Menna

Grigna Sett.

Legnone Legnone

Grigna Mer.

Pizzo Rotondo

Monte Melaccio

Pizzo dei Tre Signori

Monte due Mani

Grigna Sett.

Sasso Cavallo Sasso Cavallo Monte Croce Cornizzolo Pizzo Stella Sasso dei Carbonari Sasso dei Carbonari

LE BAITE IN LEGNO DELLA VAL TARTANO

Questa Ricerca effettuata nella prima metà degli anni ’80 è stata pubblicata a puntate sul periodico della valle “Comunità Val Tartano”: con questo libro, dopo quasi 40 anni, si vuol fare il punto della situazione. Ho sempre sentito un fascino particolare per le baite in legno della Val Tartano dove, i ricordi tramandati a voce di generazione in generazione, ispirano ancora oggi l’idea di un tempo epico che contrassegnava la vita di montagna; il paesaggio arrivato a noi, con le 43 contrade, le decine di maggenghi, i 31 alpeggi, le diverse centinaia di baite e le migliaia di toponimi che lo umanizzano ancor più, esprimono con immediatezza il rapporto di simbiosi di quelle antiche popolazioni col territorio; le vicende umane, anche quelle familiari, raccontate e vissute con semplicità assieme a tutta la Comunità, danno della Società di quei tempi un’idea di convivenza solidale; racconti che ispirano, vien da dire, una visione omerica della realtà, dove tutto appare ingigantito:

la forza fisica, le fatiche, la fatica del vivere, la miseria, il senso drammatico della vita, insieme ad una infinita capacità di sopportazione sostenuta da un acuto senso del umorismo e da una fiducia incrollabile nella Provvidenza Divina.

In seguito, pur rivista la tendenza a mitizzare quel Passato, permane un fondo di nostalgia e d’ammirazione per la forza d’animo, la sapienza, l’originalità di quegli antichi montanari che il paesaggio ancora ci trasmette e di cui, queste baite in legno sono un emblema.

Esse rappresentano una peculiarità che ho sentito la necessità di far conoscere, per dare testimonianza di un patrimonio identitario che purtroppo (ed è inevitabile) sta andando perso, ma soprattutto non è considerato nel suo giusto valore e quindi lasciato deperire, salvo alcuni esempi di ristrutturazione; è augurabile se ne vedano in futuro nel maggior numero possibile, finché è possibile: delle 171 ancora presenti negli anni ’80 ne rimangono oggi 66! È da sottolineare infatti la singolarità, sia della loro sistematica diffusione in Val Tartano e non nelle valli limitrofe, sia per un’originalità costruttiva unica; sono costruzioni dette miste perché almeno tre delle pareti a piano terra (adibito a

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stalla) sono in muratura e, il piano superiore (il fienile) è a tronchi sgrossati con incastro a block bau e tre tipologie principali: a lòbia, a pùnta, semplice ; ne è stata individuata una quarta che segna il passaggio dal legno al sasso. Le date di costruzione delle baite a block bau vanno dagli inizi del 1600 alla fine del 1800.

Vien naturale ora riflettere sulla nostra Storia e l’eredità ricevuta, per capire e farne buon uso ; il degrado del territorio in atto da anni è sotto gli occhi di tutti, eppure vi sono segnali in controtendenza come ad esempio la generale attenzione alla salvaguardia dell’Ambiente e la nascita di numerosi gruppi operativi di volontari, la domanda sempre crescente di una Montagna integra insieme alla ricerca di prodotti locali di qualità, l’affezione degli oriundi che hanno mantenuto una radicata consuetudine . La trasformazione della Montagna avvenuta in Val Tartano soprattutto ad iniziare dagli anni ’60 del ‘900, (ma preparata, lungo un secolo,

dalla rivoluzione industriale) e coincisa con la costruzione della strada carrozzabile, ha stravolto un equilibrio secolare e prodotto una contraddizione profonda: il miglioramento delle condizioni di vita da una parte e dall’altra lo spopolamento e il conseguente degrado del territorio (da 1300 abitanti si è passati a poco meno di 200); trasformazione avvenuta in tutto l’arco Alpino con modalità ed effetti anche molto diversi, dipendenti da situazioni preesistenti (vocazione turistica, collocazione geografica, conformazione del territorio ecc. ...).

Senza dilungarmi in analisi complesse e inopportune in questa sede, voglio concludere con due considerazioni principali:

- L’Ambiente storico, cioè l’equilibrio, l’armonia tra Uomo e Territorio naturale creatosi nei secoli, è la risorsa principale da cui partire per immaginare il futuro;

- L’idea di base a cui far riferimento, deve appoggiare su una riflessione lucida e coraggiosa che affronti i nodi

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di uno sviluppo possibile. Gi aspetti principali da affrontare possono essere indicati nei seguenti: la manutenzione in generale del territorio con in particolare l’equilibrio idrogeologico e i limiti da porre alla richiesta di nuovo uso di suolo, il mantenimento delle contrade con la salvaguardia dell’architettura caratteristica, quale viabilità incrementare, come valorizzare la risorsa dei boschi, che fare dei prati che non si sfalciano più, il mantenimento della sentieristica, quali opere

necessitano gli alpeggi e in generale come rendere più sostenibile la tradizionale attività dell’allevamento di bestiame e, non ultimi, come limitare gli effetti negativi dell’isolamento della valle e la necessità di ripensare a un assetto istituzionale più adatto a rispondere alle sfide del futuro.

Le baite in legno della Val Tartano Comunità Valtartano.

Integrazioni e stato di fatto ad oggi, anno 2023 Di Giorgio Spini

Editore Quaderni Valtellinesi Collana” Architettura rurale” diretta da Dario Benetti

NATALINO

Franco Scotti

State sfogliando l’annuario relativo al 2023, ma ci sentiamo in dovere di anticiparvi una news attinente al 2024.

Nello scorso mese di gennaio, sulle nevi della Valtellina e Valcamonica, si sono svolti i World Winter Master Games, ovvero le Olimpiadi Invernali Master (over 30), e il nostro socio Natale Bavo si è aggiudicato ben due medaglie: ORO nello slalom speciale e ORO anche nello slalom gigante.

Natalino, maestro di sci classe 1943, ha surclassato gli avversari della sua categoria, ma non è nuovo per questi risultati.

Riportiamo a fianco un resoconto dei successi più significativi nella sua lunga carriera agonistica, dove si è confrontato e spesso ha sopravanzato anche ex atleti di coppa del mondo:

1996 e 1997: vittoria di categoria all’”Azzurrissimo” di Cervinia - ghiacciaio Ventina

2004 : 2 medaglie d’oro ai Campionati del Mondo Master a Scuol (CH)

2005 : 1° Coppa Italia cat. B

2006 : bronzo ai Mondiali all’Alpe D’Huez (F)

2010 : 3 medaglie d’oro alle Olimpiadi Master a Kranjska Gora (SLO)

2014 : argento ai Mondiali Master di Andorra

2015 ; medaglia d’oro ai Mondiali Master all’Abetone

Vanno aggiunti 13 titoli di Campione Italiano cat. Master e 2 titoli di Campione Italiano Maestri di Sci, per cui compare nell’Albo d’Oro accanto a Zeno Colò, Bruno Alberti e altre storiche figure dello sci italiano.

Quest’anno l’ultima gara in programma all’Aprica, il superG, è stata purtroppo annullata per le condizioni non ottimali della pista, e dico purtroppo perché per Natalino sarebbe stata una probabile occasione per una ennesima medaglia.

Con il nostro atleta, raro esempio di dedizione e invidiabile longevità sportiva, non possiamo che complimentarci e augurare un ulteriore futuro di successi! Mai l’ultima!

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CAI MORBEGNO ATTIVITÀ

Il Corso di Arrampicata 2022

Lasciate che vi racconti alcune brevi impressioni sull’emozionante corso di arrampicata libera organizzato dalla sezione CAI di Morbegno. Può darsi che, una volta arrivati alla fine, possa venire voglia anche a voi di iniziare ad arrampicare.

Le pareti rocciose, immobili compagne d'ascesa, sono il palcoscenico di questa avventura. Mezzo e fine di un viaggio verso l’alto che consente di toccare il fondo: affrontare paure e insicurezze,

ostacoli interiori che ci separano dalle nostre mete. La passione e la professionalità degli istruttori hanno creato un ambiente stimolante e accogliente in cui imparare a usare l’attrezzatura in sicurezza e poter prendere confidenza con i principi dell’arrampicata. I loro continui consigli, insieme ai calorosi incoraggiamenti dei compagni di corso, sono stati la colonna sonora di questa avventura: "oleeeè" , "dai, che ce la fai", "distendi bene quella gamba", "respira","fidati dei piedi",

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"metti le mani su quelle belle prese" (che, immancabilmente, una volta che si arriva lassù poi scompaiono).

Oltre all'acquisizione di abilità individuali, il corso pone anche le fondamenta per la creazione di legami autentici. In principio ci sono i compagni di arrampicata, così, perché per scalare bisogna essere almeno in due. Poi un giorno ti sorprendi che i tuoi compagni, da supporto nell’arrampicata, sono diventati persone importanti nella tua vita.

Per scrivere di esperienze vissute è necessario fermarsi a riflettere, bisogna prendere una pausa dalla vita spesso troppo frenetica e concentrarsi a ripensare e decidere cosa si vuol trasmettere. Questo bisogno e desiderio di prendersi una pausa mi ricorda proprio l’argomento di cui parlo.

Sono un’ arrampicatrice da pochi mesi e sicuramente non sono la persona adatta a parlare di tecniche, manovre o nodi, decido allora di parlare di me e del bene che questo sport e questa esperienza mi hanno lasciato. Come dicevo sopra, arrampicare in questi mesi per me ha significato prendersi una pausa, anzi metaforicamente direi prendersi un respiro. In una vita che sempre di più ti chiede di correre, di essere veloce, di arrivare prima, l’arrampicata, come ho avuto la fortuna di conoscerla io, ti chiede pazienza, di fermarti

Il Corso di Arrampicata 2023

e analizzare e di respirare, appunto. Ogni domenica, quando all’ombra di una falesia rivedevo i miei compagni accomunati dalla mia stessa passione, tornavo a respirare. Concentrarsi sui movimenti e sulle posizioni base, nella ricerca degli appoggi e degli appigli giusti mi ha permesso di allontanare per un po' lo stress e i problemi focalizzando testa, corpo e cuore sullo stesso obiettivo. L’arrampicata è uno sport che ti permette di conoscerti a fondo, devi affrontare la verticalità e la conseguente comprensibile paura del vuoto e dell’altezza, e nel farlo prendi consapevolezza

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di Alice Bertolini

dei tuoi limiti e dei tuoi punti di forza. Porsi degli obiettivi e provare a superarli permette di migliorare l’autostima e l’autoconsapevolezza, quando si riesce a raggiungere una sosta o si impara un movimento nuovo e se ti senti più tranquillo ad affrontare determinate salite accresce la fiducia in te e questo ti motiva ad andare avanti e a non mollare, certamente nell’arrampicata ma anche nella vita di tutti i giorni. Perché questo avvenga è importante avere degli insegnanti che sappiano guidarti appoggio dopo appoggio, noi dodici corsisti che abbiamo frequentato il corso di arrampicata libera 2023 organizzato dal CAI di Morbegno abbiamo avuto la fortuna di avere istruttori che ci hanno insegnato con pazienza le tecniche di arrampicata ma anche lo sguardo attento che bisogna avere verso la parete di roccia così da migliorare nella tecnica, nella forza, nella coordinazione e nell’equilibrio e nel decidere quali movimenti scegliere per progredire verso la salita. Insieme a questo ci hanno anche trasmesso la passione per questo sport, il rispetto della montagna e anche l’attenzione all’altro che arrampica e alla sicurezza. Soprattutto durante le prime lezioni teoriche e pratiche particolare attenzione era posta al modo in cui fare sicura, al controllo dell’attrezzatura e alla pratica del nodo a otto per legarsi all’imbrago. Il corso prevede infatti cinque lezioni pratiche la domenica nelle falesie del nostro territorio e quattro serate di lezioni

teoriche con a tema la catena di assicurazione, la storia dell’arrampicata e la traumatologia. La prima lezione pratica si è svolta a Piuro nella falesia Sasso del drago tra sguardi incuriositi e anche un po' impauriti, per tanti era il primissimo approccio all’arrampicata libera ed è stato fondamentale avere degli esperti che hanno spiegato le posizioni basi dell’arrampicata, le modalità di sicura e come fare il nodo a otto, ma anche, hanno compreso le difficoltà sia fisiche che psicologiche che naturalmente stavano vivendo i corsisti. Quel giorno e le successive quattro domeniche ci siamo dati appuntamento in altre falesie del nostro territorio, come il Sass Negher a Olgiasca di cui ricordo l’avvicinamento e le salite lunghissime ma la vista stupenda sul lago che compensava tutta la fatica; siamo stati alla falesia Lottano a Uschione, dove abbiamo imparato a fare la manovra su anello chiuso e a fare la Sostituzione. Una domenica ci siamo svegliati alle sei per raggiungere la Valsassina, alla falesia Zucco Angelone, dove alcuni dei corsisti hanno provato la salita da primi con corda dall’alto e infine siamo stati nella magnifica Val Masino, al Sasso Remenno.

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Corso di Scialpinismo 2022

Sarà per via della magia della neve, sarà per il fascino di questo sport o per i posti meravigliosi che ti permette di raggiungere e per la libertà che ogni volta è in grado si farti assaporare, sarà per le tante briciole di passione che a ogni gita gli istruttori riuscivano in qualche modo a trasmetterti, sta di fatto che una volta che cominci a “pellare”, poi è difficile fermarsi!

Personalmente, partendo praticamente da zero, questo è stato molto più di un corso: è stato per me un percorso in cui ho potuto conoscere e cominciare a vivere questo

fantastico sport sotto vari aspetti, partendo dalle nozioni teoriche, passando poi alle varie valutazioni dell’ambiente che ci circonda, di fondamentale importanza, che ci richiedono di andare in giro con occhio sempre vigile al fine di procedere sempre in sicurezza per vivere la montagna nella massima serenità, per poi far tesoro di tutte le dritte e i consigli sulla tecnica con sci ai piedi. Ma, oltre a tutto ciò, procedendo lungo questa “traccia” ho avuto la possibilità di conoscere persone segretamente follemente innamorate di questa attività e ragazzi, magari

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anche loro appena affacciati allo scialpinismo, ma con una grande voglia di crescere e di esplorare con cui sono tutt’ora in contatto.

Infatti, uno degli aspetti che mi ha fatto più piacere osservare è stato sentire come quelle persone che alla prima lezione erano sparse qua e là per la sala, poi tra un’inversione e l’altra, due battute, un paio di confidenze o di racconti, si sono pian piano tutte legate tra loro in un unico, allegro e armonioso gruppo regalandoci due mesi di puro divertimento tra cime, crestine e bivacchi.

Grazie di cuore a tutti, istruttori

e “corsisti”, per avermi regalato un’esperienza che ricorderò sempre con molto affetto e che mi farà nascere sempre un grande sorriso al solo pensiero dei panorami mozzafiato e delle gelate di cui abbiamo potuto godere (da fare a turno a star dentro al riparo nei bivacchi), dei tuffi di testa accidentali nella neve polverosa, della nostra carissima puzza di scarponi che ha invaso macchine e camere, delle prove ARTVA all’ombra e delle birrette in alto a fine giornata.

GRAZIE!

P.s. “Mai l'ültima!”

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Corso di Scialpinismo 2023

CORSO SCIALPINISMO 2023

La caratteristica principale è senza dubbio stata l'estrema carenza di materia prima, ciò nonostante siam riusciti a svolgerlo egregiamente.

Le uscite propedeutiche alle lezioni teoriche sono state effettuate fra Orobie, Valle spluga e Val Malenco mentre per la due giorni abbiamo optato per la zona del Sestriere.

I partecipanti hanno formato un gruppo particolarmente affiatato e uniforme che ha permesso di effettuare al meglio le uscite.

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Partecipanti:

Walter Angelini

Federico Barzaghi

Marco Barzaghi

Barbara Carnelli

Paolo Fumagalli

Marta Giovannini

Alice Marchetti

Fabiano Mognol

Cristian Molina

Gianpiero Ravelli

Emanuele Ricciardini

Savina Sedini

Clara Spini

Paola Villa

Uscite:

Monte Ponteranica (Val Gerola)

Passo Porcile (Val Tartano)

Bivacco Val Loga (Val loga) tamborello (Valle Spluga) passo di campagneda (Val Malenco)

Monte Giassez (Valle di Thures)

Monte Banchetta (Sestriere)

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Progetto Energy Il CAI per i Giovani

IL PROGETTO - Il CAI Morbegno ha avuto l’occasione di partecipare a un’importante iniziativa di rilevanza sovra regionale rivolta ai giovani: il progetto “ENERGY – Agire a scuola per l’ambiente”.

Il CAI, come ente nazionale, vi ha aderito nell’ambito dell’ECG (Strategia Italiana per l’Educazione alla Cittadinanza Globale) assieme ad altre sei sigle (capofila AVSI, organizzazione no profit che realizza progetti di cooperazione allo sviluppo e aiuto umanitario in 40 paesi, inclusa l’Italia).

E’ un progetto biennale da sviluppare negli anni scolastici 2022-23 e 2023-24, il cui scopo è, come si evince dal bando, “promuovere nei giovani azioni,

comportamenti e forme di partecipazione attiva volti alla tutela dell’ambiente, alla lotta agli squilibri climatici e alle mitigazioni dell’impatto antropico sull’ambiente naturale, in un’ottica di ambiente sostenibile, grazie ad azioni individuali e collettive in grado di costruire una crescente consapevolezza e responsabilità sui temi della sostenibilità”. Vi sono coinvolte 100 scuole secondarie di 1° e 2° grado, 550 insegnanti e 10.000 studenti.

IL RUOLO DEL CAI - Il Club

Alpino Italiano, contitolare del progetto, ha provveduto a selezionare 20 scuole, ognuna interagente con la sezione CAI territorialmente più vicina,

così suddivise: 4 in Emilia e Liguria, 6 in Lombardia e Veneto. L’idea guida era quella di accompagnare i ragazzi alla consapevolezza della necessità di preservare l’ambiente attraverso la frequentazione e la conoscenza di un parco, nazionale o regionale, di una riserva naturale o comunque di un’area protetta. Ogni scuola, libera di scegliere la propria meta, avrebbe dovuto progettare un percorso didattico, da sviluppare sia in aula sia in ambiente avvalendosi del contributo degli esperti CAI, e produrre uno o più elaborati sotto forma scritta, grafica o di filmato. Il CAI avrebbe sostenuto il progetto coprendo le spese per i trasferimenti e l’acquisto di

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eventuale materiale didattico utile allo svolgimento dell’attività.

IN LOMBARDIA – Con queste premesse, nel 2022 in Lombardia hanno raccolto l’invito a mettersi in gioco il Polo Liceale di Sondrio, un Istituto di Istruzione Superiore di Milano e uno di Menaggio, gli Istituti Comprensivi di Mantova 1, Gravedona ed Uniti (plesso di Gera Lario) e Morbegno (Damiani 2). Ciascuna scuola si è attivata inserendo la suddetta attività nel proprio piano di lavoro annuale e, identificata la meta (Parco del Monte Barro per Gera Lario e Morbegno, Parco delle Orobie valtellinesi per Sondrio, Parco dello Stelvio per Menaggio, Parco del Mincio per Mantova, Parco del Ticino per Milano), si è messa al lavoro già dai primi mesi del 2023, prima con un’attività preparatoria in aula, quindi con un’uscita sul campo effettuata fra aprile e maggio, per poter concludere i lavori entro il termine delle lezioni a giugno.

A MORBEGNO – A Morbegno hanno aderito al progetto le classi 1A e 2A ad indirizzo alpino dell’Istituto Comprensivo G.F. Damiani 2 che hanno operato parallelamente alle classi 1A e 1B di Gera Lario, con le quali hanno condiviso la meta (il Parco del Monte Barro), le operazioni logistiche, la presentazione da parte degli accompagnatori del CAI. Hanno poi seguito un percorso didattico separato in occasione dell’uscita in ambiente.

In aula, in entrambe le scuole, dopo la proiezione del video istituzionale per illustrare la

realtà del Club Alpino Italiano, si è parlato di sostenibilità ambientale, di ecosistemi e di biodiversità, per proseguire con il significato di parco e con l’inquadramento geografico, geomorfologico, faunistico, floristico e storico del Parco del Monte Barro.

L’uscita sul campo è stata

Nella pagina a fronte: un momento della caccia al tesoro archeologiconaturalistica ai Piani di Barra.

In alto: lezione di geomorfologia con gli alunni dell’I.C. Damiani di Morbegno.

Sopra: ciottoli rinvenuti nel terreno morenico del ghiacciaio dell’Adda.

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effettuata con l’assistenza degli esperti della Cooperativa Eliante, a cui il Parco demanda la gestione delle visite guidate. Mentre per gli alunni di Gera Lario l’attenzione è stata indirizzata verso i fenomeni migratori dell’avifauna con la salita al Roccolo di Costa Perla e alla storia antica con il successivo trasferimento al sito archeologico dei Piani di Barra, dove si è svolta una divertente caccia al tesoro storiconaturalistica, a Morbegno ci si è concentrati sulla flora e sugli aspetti geomorfologici dell’area protetta. E’ stata effettuata una visita al Centro Flora Autoctona di Villa Bertarelli (vedi più avanti), terminata la quale si è conclusa la giornata con una escursione sui terreni morenici di bassa quota, alla ricerca di curiosità floristiche

e geologiche. Trattandosi di territorio a substrato calcareo, i ragazzi della scuola Damiani, per completare l’attività, hanno prodotto un simpatico filmato nel quale viene raccontato e mimato il percorso di produzione della calce.

IL PARCO NATURALE DEL MONTE BARRO – La maggior parte di noi conosce il Monte Barro solo perché ci passa sotto la superstrada SS 36. Le sue modeste dimensioni e la sua quota che non raggiunge i 1000 metri (per la precisione 922 m slm) lo rendono una meta poco appetibile a chi arriva dal cuore delle Alpi. In realtà il Monte Barro è un mondo ricchissimo di motivi di interesse meritevoli di una visita, tanto che nel 1983 è diventato Parco regionale e

nel 2002 ha avuto l’investitura ufficiale di Parco Naturale del Monte Barro. Affermare che dalla sua cima si gode una vista a 360° non è affatto un semplice modo di dire. Partendo dal Resegone, proprio davanti a noi verso est e ruotando lentamente in senso antiorario, non abbiamo difficoltà a riconoscere gli abitati di Valmadrera e Lecco separati dal ramo orientale del Lario, il gruppo delle Grigne, i Corni di Canzo, i laghi briantei e tutto l’arco alpino occidentale fino al Monviso, la skyline di Milano e la valle dell’Adda che si distende verso sud. In questo piccolo mondo di calcare possiamo leggere la storia geologica dell'alta Lombardia e le vicende dei ghiacciai quaternari dell’Adda e dello Spluga che hanno

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modellato il lago di Como e il paesaggio della Brianza e che, ritirandosi, hanno dimenticato su questi pendii una quantità infinita di sassi erratici. Inoltre, grazie alla sua conformazione di isola calcarea esposta a tutti i punti cardinali, ospita una ricca e variegata flora costituita da oltre 1000 specie, alcune delle quali, soprattutto quelle rupestri della sua parte sommitale, sono di grande interesse botanico. Fra tutte la Pulsatilla montana, scelta come simbolo del parco. Ciò ha spinto la Regione Lombardia a creare qui il Centro Flora Autoctona, stazione sperimentale che, raccogliendo, producendo e conservando i semi nella “Banca di Germoplasma delle Piante Lombarde”, consente a chi lo richiede di rinaturalizzare i terreni invasi dalle specie alloctone, cioè estranee alla flora lombarda originaria. Ma non è tutto. Dal momento che il Monte Barro si trova su una delle rotte nordsud dell’avifauna migratoria, il roccolo di Costa Perla, utilizzato in passato per scopi venatori e ora dismesso, è stato riconvertito a osservatorio ornitologico con finalità scientifiche e didattiche attraverso la cattura, lo studio, l’inanellamento e il rilascio degli uccelli.

L’importanza del Parco del Monte Barro non risiede solo negli aspetti naturalistici, ma è anche da legare alla storia umana, antica e recente. Ai Piani di Barra, infatti, è possibile osservare le tracce di un insediamento di epoca gota che, con i resti delle torri di guardia nei pressi dell’Eremo, ci dà interessanti

informazioni sulla presenza dell’uomo in questo territorio nel V-VI secolo d.C. Presso l’antico nucleo di Camporeso, infine, è stato istituito il Museo Etnografico dell’Alta Brianza con le testimonianze del passato contadino di questi luoghi.

NEL 2024 – Nel 2024 alle scuole di Sondrio, Menaggio e Milano subentreranno gli IIS di Brescia, Muggiò e Gardone Val Trompia, mentre, in deroga a quanto previsto dal progetto, le scuole di Mantova, Morbegno e Gera Lario potranno proseguire con le stesse classi per completare la loro esperienza. In particolare, Morbegno e Gera Lario si scambieranno i percorsi didattici seguiti nello scorso anno scolastico.

Referenti del Progetto Energy

C AI Scuola

Francesco Carrer

G R CAI Lombardia

Dolores De Felice Riccardo Marchini

I.C. GF Damiani 2 – Morbegno

Prof. Mariella Spandrio (referente),

Prof. Cristina Bertarelli

Prof. Enrico Cameron

I.C. Gravedona e Uniti – Gera Lario

Prof. Paola Vergottini (referente)

Prof. Adele Vanoli

C AI Morbegno

AAG Riccardo Marchini (referente)

ANAG Mauro Gossi

C AI Dongo

AAG Sandro Vergottini (referente)

ANAG Mauro Gossi

Nella pagina a fronte: gli alunni della scuola di Gera Lario presso il roccolo di Costa Perla.

Sopra: impronta di conchiglia nella roccia calcarea.

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INAUGURAZIONE SENTIERO

CITTA’ ALPINA MORBEGNO

Nel 2019 il comune di Morbegno è stato insignito del titolo di “Città Alpina” dell’anno. Per festeggiare e dare risalto a questo riconoscimento, l’Amministrazione comunale ha chiesto a varie associazioni di realizzare un evento, invitando ciascuno di declinarlo in coerenza con le proprie competenze. Noi abbiamo deciso di realizzare un itinerario escursionistico, che toccasse anzitutto le due sponde della valle su cui si estende il territorio comunale, quella retica e quella orobica, e che raggiungesse tutte le frazioni e le principali emergenze sia storiche che etnografiche. E così è stato

pensato un percorso, che concatenava sentieri già esistenti a cui è stata data una veste unitaria, fatta di segnavie, cartelli e bacheche illustrative. Realizzate le varie infrastrutture, editi dei volumetti illustrativi, preparate delle magliette celebrative, si era pensato di inaugurare il sentiero nell’autunno del 2019, percorrendone a gruppi i vari tratti. Per varie ragioni tale data era stata poi spostata alla primavera del 2020. Le notissime vicende dell’arrivo della pandemia hanno impedito che l’evento si effettuasse, rimandandolo più volte fino alla data definitiva del 16 ottobre 2022.

Finalmente una bella domenica

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mattina, appunto di metà ottobre, ci si è radunati nella piazzetta Tre Fontane, non lontana dalla nostra sede e ideale punto di partenza del percorso orobico e di quello retico. C’è un bel numero di persone venute ad iscriversi, e a ciascuno viene regalata una sgargiante maglietta gialla. Il delegato della Convenzione delle Alpi, che ha seguito da vicino le vicende del conferimento del titolo di “Città Alpina”, tiene un breve discorso su queste iniziative; Alessandro descrive le vicende progettuali e realizzative del sentiero e quindi ci si divide in due gruppi, uno per versante, e si parte, con l’intento di trovarsi di nuovo qui, presso la sede CAI, nel primo pomeriggio per un pranzo comune. Il gruppo “orobico” risale la storica via Priula, raggiunge la frazione di Valle, quindi sale verso l’area del Pitalone, punto più alto del sentiero. In discesa raggiunge l’abitato di Arzo, quindi le località Ferlenda, Ortesida, Gropp per tornare a Morbegno nei pressi del rinascimentale santuario dell’Assunta. Da qui risale il sentiero pedemontano fino a tornare al punto di partenza. Contemporaneamente il gruppo “retico” ha percorso gran parte dell’abitato di Morbegno, raggiungendo a sua volta il santuario, poi ha piegato decisamente a Nord verso l’Adda, che ha attraversato sul ponte di Paniga. Da qui ha raggiunto Desco e si è arrampicato sulla cresta est della Culmen, per ridiscenderla dal versante Ovest. Da qui ha raggiunto Cerido, con il suo enorme torchio consortile, Cermeledo, Campovico e quindi è tornato a Morbegno,

entrandovi dal ponte di Ganda. Da qui ha raggiunto la sede CAI per il meritato ristoro. Qui gli “orobici” ed i “retici” si sono incontrati scambiandosi impressioni sulla giornata inaugurale, finalmente portata a termine.

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SALITA AL PIZ ROCCABELLA

Buio pesto. La sveglia che suona. Si parte per l’Engadina, in Svizzera, meta il Piz Roccabella. Le previsioni ci preannunciano una temperatura tra i -20 ed i -25. A volte mi chiedo chi ce lo fa fare, ma so che, una volta messi gli sci ai piedi, le cose cambiano completamente. Il tepore della macchina ci culla fino al passo del Maloja. Il termometro sul cruscotto ci dice che fuori ci sono -22 gradi: come sempre le previsioni, quando danno brutte notizie, ci azzeccano. Svoltiamo per il passo del Julier che riscendiamo dal versante opposto, dirigendoci all’ampio parcheggio dell’abitato di Bivio. Siamo un bel gruppetto, ci compattiamo e con gli sci in spalla attraversiamo il paese per prendere una stradina che

sale verso lo storico Septimer

Pass e che ci indirizza verso il nostro itinerario di salita. Nel primo tratto la neve non è bella: nei giorni precedenti ha tirato un vento forte che si è portato via la neve soffice. Il risultato è che la traccia, di neve compressa, è rimasta in rilievo rispetto all’intorno, e così risulta inutilizzabile. Comunque sia ci incamminiamo senza particolari patemi. Anche la temperatura intanto si è un pochino alzata e, muovendoci, il freddo non è più un problema. Proseguiamo costeggiando il torrente fino ad alcune baite, oltre le quali attraversiamo il corso d’acqua ghiacciato su un piccolo ponte di legno portandoci verso il lato opposto della valle. Continuiamo verso Ovest

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su un percorso abbastanza pianeggiante, puntando allo sbocco di una valletta laterale posta sulla sinistra che, con pendenze più sostenute, porta alla conca di Emmat. Proseguiamo leggermente verso sinistra rispetto al senso di marcia, fino a raggiungere un piccolo e curioso bivacco di legno (2277 metri). La costruzione è bizzarra, una specie di tenda canadese in assi di legno e lamiera, molto spartana, il cui profilo ci parla della necessitò di difendersi da nevicate molto abbondanti. Continuiamo in lieve pendenza verso la bocchetta d’Emmat, a 2500 metri, e qui ci fermiamo un attimo. Ci ricompattiamo, mangiamo qualcosa velocemente, scattiamo qualche foto, e

quindi ripartiamo per risalire il tratto più impegnativo. Sono gli ultimi pendii meridionali del Roccabella, con una pendenza abbastanza impegnativa. Saliamo a zig-zag e dopo una continua serie di inversioni raggiungiamo finalmente la cima, a 2730 metri. La salita al Piz Roccabella è considerata “una classica”, per cui c’è un discreto gruppo di gente. La cima è una delle più alte della zona, per cui c’è un bel panorama verso il passo del Julier e i Lai da Valmorera. Scendiamo dalla stesso itinerario di salita. Fortunatamente la neve è molto migliorata rispetto al tratto iniziale, anzi è diventata bella. Con molta soddisfazione ci godiamo una lunga sciata fino alle macchine.

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ADAMELLO

Il 2023 è stato l’anno della riscossa all’Adamello, vista la “ritirata” dell’anno precedente causata da un imprevisto e tortuoso percorso crepacciato sul Pian di Neve, che ci ha costretti a scendere prima di raggiungere la cima, a causa del ritardo accumulato rispetto alla tabella di marcia. Abbiamo pensato pertanto ad un itinerario più facile, meno alpinistico, lungo la via Terzulli, che si sviluppa su un iniziale traccia di sentiero, una via ferrata ed un ultimo breve tratto su ghiacciaio, pietraia e cresta finale. Gli iscritti alla gita sono 10. Partiti sabato mattina 22 luglio, superato Edolo fino a Sonico e seguendo

le indicazioni per la Val Malga, siamo giunti in auto fino alla località Ponte del “Guat” a quota 1.528 m, da qui a piedi abbiamo raggiunto il rifugio Gnutti a quota 2166 m, prima tappa del nostro percorso, che prevede un dislivello totale in salita di m 2011m, suddivisi in 638 m il primo giorno e 1373 m il secondo. Il Rifugio Gnutti è una piccola struttura confortevole, gestito da ragazzi giovani, che con la loro cortesia e cordialità, ci hanno offerto un ottimo servizio. Dopo il pranzo in rifugio, il pomeriggio è trascorso per qualcuno in relax e per altri passeggiando o facendo il giro del lago Miller vicino al

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rifugio. Terminata l’ottima cena, la serata si è conclusa con una breve spiegazione dell’itinerario che avremmo percorso il giorno seguente e alle ore 10, come sempre in tutti i rifugi le luci si spengono e per me inizia una nottata di dormiveglia, per poi prendere sonno poco prima che suoni la sveglia…..Di buon mattino dopo la colazione, alle cinque iniziamo la salita, dapprima su sentiero che poi diventa solo una traccia, per giungere alla base della ferrata Terzulli, a ricordo del capitano degli alpini Guido Terzulli, socio del CAI di Brescia, caduto sul fronte russo durante la Seconda Guerra Mondiale. La ferrata è stata recentemente oggetto di manutenzione e di messa in sicurezza nei punti più esposti, tant’è che senza difficoltà siamo arrivati al passo Adamello, quota 3220 m. Da qui, con piccozza e ramponi abbiamo percorso il breve tratto di ghiacciaio, stando a lato vicino alle rocce, senza addentrarci nel mezzo, per poi salire l’ultimo tratto su pietraia e cresta finale immersi nella nebbia, protagonista della giornata, a parte qualche breve occhiata di sole; tempo impiegato 5 ore e 30 minuti circa. Dopo una breve pausa e la foto di gruppo, iniziamo la discesa senza difficoltà, se non per un paio di passaggi lungo la discesa della via ferrata, che hanno richiesto un po’ di attenzione. Giunti al rifugio, dopo circa un ora di pausa, con abbigliamento più leggero, soprattutto le scarpe, abbiamo percorso l’ultimo tratto di discesa fino alle macchine e far ritorno a casa alle 21 circa. Grazie e complimenti a tutti i partecipanti.

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Al V AlpiniVal Zebrù

di Villard de Honnecourt

E’ l’inizio di luglio ed abbiamo programmato un’uscita in Val Zebrù, per raggiungere il rifugio 5° Alpini, partendo dal parcheggio di Niblogo, sopra San Nicolò Valfurva. Sappiamo che lo sviluppo è significativo e anche il dislivello è mediamente impegnativo per una gita sociale, attorno ai 1250 m, ma la giornata almeno inizialmente non è male, e così si parte con il necessario entusiasmo. Una carrabile in terra battuta si addentra nella

valle, dapprima incassata poi sempre più aperta, attraversa più volte il Torrente Zebrù e guadagna lentamente quota attraverso caratteristici nuclei di baite. Il corso d’acqua in tempi recenti ha fatto vedere la sua aggressività: un po’ ovunque ci sono sponde e fianchi erosi, alberi trascinati dalla corrente, briglie colme di massi. Oggi però è tranquillo, ed il suo scorrere scrosciando ci accompagna per tutta la prima parte del percorso.

Siamo nel Parco Nazionale dello Stelvio e si nota come le severe norme di tutela abbiano effettivamente conservato l’ambiente. Pochissime case, perlopiù vecchi fienili, molti dei quali ristrutturati e convertiti in edifici abitativi, ma sempre rispettando la tipologia costruttiva locale. La maggior parte sono edifici in blockbau, un sistema costruttivo tradizionale che fa uso di tronchi appena sgrossati sovrapposti orizzontalmente,

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bloccati a incastro negli angoli, appoggianti su un piano sottostante in muratura. In origine il livello inferiore ospitava la stalla e sopra il fienile. I prati circostanti sono ben curati, evidentemente concimati e sfalciati nei periodi opportuni. In questo momento sono verdissimi, punteggiati di fiori e frequentatissimi da insetti indaffarati. L’itinerario è piacevole e si prosegue chiacchierando, complice la pendenza non certo impegnativa. Questo è anche un limite di questo percorso, che “costringe” ad una percorrenza dallo sviluppo significativo prima di poter guadagnare quota. Cominciamo a guardare con una certa invidia le varie biciclette che ci sorpassano e scompaiono velocemente alla nostra vista. Comunque sia continuiamo il nostro cammino, raggiungendo

prima i Piazz, poi le baite di Zebrù di Fuori, di Dentro, Praminghen e quindi il Rifugio Campo, a circa 2000 metri. La nostra meta è però ancora lontana e quindi tiriamo dritto. Arrivati alla Baita del Pastore il percorso cambia. La strada carrabile lascia il posto ad un sentierino che si impenna decisamente e aggredisce il fianco solatio della valle. A questo punto però di solatio c’è poco. Il cielo si chiude e conferisce un grigiore al panorama, già monocromaticamente bigio di suo, dato che i verdi prati hanno lasciato il posto a sfasciumi di rocce; anche la vedretta soprastante è sporca di detriti e si allinea al colore dominante, tanto che le foto che scatto al rifugio, che ormai si vede in lontananza, sembrano in bianco e nero, se non fosse per l’acceso giallo delle coperture in lamiera

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dell’edificio. Le pendenze ora diventano importanti, forse per una sorta di contrappasso con il percorso fin qui fatto. Cominciamo a pestare un po’ di neve ma ormai siamo in vista del rifugio, posto a 2877 metri su una terrazza naturale. Abbiamo appetito e appena adeguatamente coperti ci sediamo sui tavoli esterni a mangiare. I gestori/e sono giovani e gentili e fanno dei dolci interessanti. Terminato il pranzo decidiamo di salire ancora un po’ sopra il rifugio, verso un punto panoramico. Scattiamo un po’ di foto ai ghiacciai agonizzanti e poi iniziamo a scendere, sapendo che la macchina è ad alcune ore di cammino.

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PIAZZI LA CIMA

La Cima Piazzi con i suoi 3429 m mi ha sempre attratto, soprattutto il versante che si vede percorrendo la strada per Livigno. Essendo però troppo impegnativa la salita da Isolaccia Valdidentro per una gita sociale, sia per il dislivello che per difficoltà tecniche, abbiamo optato per il percorso escursionistico dalla Val Viola. Partiti alle 6 di domenica 3 settembre da Morbegno, giunti ad Arnoga siamo entrati in Val Viola lungo la carrozzabile

fino al primo parcheggio dove, lasciate le macchina abbiamo raggiunto con un automezzo fuoristrada a noleggio il passo di Verva a quota 2300 m. L’itinerario ha un dislivello in salita di 1139 m ; la giornata è soleggiata con temperatura gradevole. La prima parte del percorso è una traccia segnata da ometti che costeggia sulla destra un torrente e arriva in prossimità di un Lago a quota 2600 m, da qui inizia il secondo tratto di salita, con 2 percorsi

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alternativi, uno più semplice ed uno più impegnativo lungo un canale, a tratti ripido con roccia instabile e sfasciumi. Pensando di aver imboccato il percorso più agevole, iniziamo a risalire il canale, che diventa però sempre più impegnativo, tanto da decidere di ritornare sui nostri passi e prendere il percorso alternativo. Il tratto di discesa non è stato per nulla agevole soprattutto per chi, allontanatosi dal gruppo si è trovato qualche decina di metri più avanti nel punto più impegnativo.

Quanto accaduto mi ha dato lo spunto per una riflessione personale, senza alcuna polemica, sui comportamenti da adottare in determinate situazioni, per non mettere in pericolo e in difficoltà se stessi, i responsabili della gita e il resto del gruppo; a volte in determinate situazioni, l’eccessivo entusiasmo di raggiungere la cima come in una sorta di competizione può creare situazioni difficili da gestire.

Ricompattata parte del gruppo e discesi un centinaio di metri, siamo risaliti lungo un tracciato decisamente più facile fino all’anticima, dove lungo l’unico breve tratto innevato di questo versante e una cresta attrezzata abbiamo raggiunto la vetta in 15 su 17 partecipanti. Dopo una breve sosta e l’immancabile foto di gruppo siamo scesi facilmente lungo l’itinerario di salita, con l’unico disagio di aver percorso a piedi il tratto finale di strada percorso in auto all’andata . Grazie a tutti i partecipanti e complimenti soprattutto a chi con maggior fatica ed impegno è riuscito a raggiungere la cima.

COMBOLO IL MONTE

Il monte Combolo è una bella cima panoramica sulla dorsale tra la Val Poschiavina e la Val Fontana. Dalla sua sommità si gode di un ottimo panorama sul Bernina e Masino, sulla catena delle Orobie dell’Adamello e Ortles. L’itinerario di salita classico e più gettonato è quello che parte da Prato Valentino nel comune di Teglio.

La nostra gita comincia alle ore 9 di domenica 24 settembre in una splendida mattina con cielo azzurro terso e una fresca temperatura. Partiamo dallo

Chalet Baita del Sole, a 1730 m, e cominciamo a sgranchirci le gambe risalendo la stradina sterrata che a tratti s’interseca con le piste da sci, per poi passare sul sentiero che ci permette di guadagnare quota più velocemente e raggiungere la fine degli impianti di risalita. Abbandoniamo le piste e il sentiero che sale al monte Brione, spostandoci a destra, per prendere la ex mulattiera militare che traversa in piano l’alta Val dei Cavalli fino a raggiungere il monumento dedicato agli alpini di Teglio.

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Qui una palina indica il percorso EEA di circa 40 minuti più lungo rispetto a quello da noi scelto, una sorta di sentiero attrezzato che sarebbe stato interessante percorrere in salita, ma il fondo instabile dovuto a una spolverata di neve caduta qualche giorno prima, avrebbe reso il percorso troppo impegnativo e rischioso. Decidiamo quindi di rimanere sull’itinerario prefissato. Proseguiamo lungo il sentiero posto alle spalle del monumento degli alpini verso la bocchetta della Combolina, a

2566 m, un bel terrazzo erboso di fronte alla suggestiva vetta di Rhon.

Dopo una sosta ristoratrice, riprendiamo la salita cominciando a pestare la neve su un tratto ripido, in parte attrezzato con catene, fino a raggiungere il filo di cresta che in breve ci ha portato sulla cima del monte Combolo, posto a 2900 m.

Sulla vetta brulla e sassosa c’è un ometto a forma piramidale in ferro di colore rosso un po’ malconcio e la vista è davvero imperdibile.

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GRUPPO 2008 ATTIVITÁ 2023

L’attività del Gruppo 2008 inizia con una gelida escursione alla Chamanna Boval, un luogo speciale ai piedi del ghiaccio del Mortertasch, riscaldato per un po’ dai brindisi del mio compleanno, mi ricordo anche il difficile rientro degli sciatori al crepuscolo.

Si ritorna in Valgerola per un classico appuntamento invernale con il Munt de Sura che pero’ ci accoglie con un cielo nuvoloso e rosse striature verso la pianura.

Sole splendente nell’uscita all’alpe Piazza per effettuare l’esercitazione Artva.

Fantastica la traversata sulla cresta, tra i pini carichi di neve, fino alla Pozza Rossa in un ambiente fiabesco.

La neve non è molta e noi andiamo a cercarla in Valmalenco al Piazzo Cavalli. Risaliamo la pista da sci dismessa e raggiungiamo, ravanando un po’ nel bosco, il piccolo bivacco Sufrina sotto il monte

Palino. Rientro veloce per gli sciatori e visita al piccolo zoo dei lama.

Per concludere alla grande

Gennaio, bella gita Cai in Val Febbraro, giro anello risalendo fino allo splendido sole di

Borghetto e discesa con un magnifico traverso su bellissimi pendii.

Febbraio inizia con una piccola impresa: andiamo ad affrontare il ripido Canalone dei Camosci allo Zucco Campelli. Il canale è in ottime condizioni e cosi anche il percorso in cresta che porta in vetta.

Si prosegue con una tranquilla uscita al Rifugio Pesciola slalomeggiando fra i dossi colmi di splendida neve e godendoci il magnifico panorama dominato dal Pizzo Coca.

Ecco il turno di una meta inusuale: la Cima del Larice in Val Bomino. Lungo avvicinamento da Nasoncio, poi bella la parte di risalita dell’alpe Bomino Vaga e difficoltoso issarsi sulla cima. A seguire un’altra classica salita il Ponteranica Centrale in Valgerola. Tutto molto ripido e sul più bello mi si rompe una ciaspola e mi trascino penosamente fino alla selletta finale.

In Vagerola sui versanti nord resiste un po’ di neve ed eccoci ad affrontare il bellissimo e matafisico canalone della Val Tronella per raggiungere il Benigni e la Cima Occidentale

dei Piazzotti. Si cambia scenario per un’escursione ad Avero, un borgo incantato costruito ai piedi del Pizzo Stella. Al Motto di Bondeno appare ancora lontano, ma poi lo raggiungiamo rapidamente. Si ritorna sulla nevi svizzere, partendo dallo Julier per salire sul Piz da las Coluonnas, un quasi tremila bello tosto che in cima trasformiamo in una festa carnevalesca con tanto di parrucca rossa.

Ed eccoci a Marzo e ad un’epica uscita su neve, raggiungere la Base del Torrione di Mezzaluna dalla Val Tronella, risalendo un difficile canalone con un passaggio obbligato molto ripido. Passiamo ed in breve ci portiamo verso la grande e misteriosa spaccatura del Torrione.

Si cambia scenario e si va’ a sud per un giro ad anello al Cimone di Margno, raggiungendo la Cima di Olino e rientrando dal Pian delle Betulle alla birra dell’Alpe Paglio.

Il Monte Moregallo l’abbiamo salito da vari versanti, ma ci mancava il Canalone della Belasa. E’ un nome da strega, anche se si tratta di un

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piacevole sentiero attrezzato che ci fa’ rimettere le mani sulla roccia e si raccorda nel finale con il percorso della cresta ovest fino alla vetta. Il pizzo d’ Alben si trova sopra Premana e si raggiunge passando dall’Alpe Chiarino. Poi si attraversa una splendida lariceta e si pesta un po’ di neve fino alla grande croce di cima.

Ormai siamo di casa nel lecchese e troviamo una scusa per andare in Grignetta: salire allo Zucco del Pertusio. Davvero appagante la Direttissima fino al Rosalba, in uno scenario incredibile e terso.

Quindi per cresta, ci facciamo strada tra i pinnacoli, fino della ripida scarpata per l’ometto di cima.

In una grigia domenica ci facciamo strada tra la folla che vuole arrivare sulla cima del San Primo al centro del triangolo lariano. Niente panorama e paesaggio dominato dal giallo dell’erba secca.

Facciamo ancora un’uscita su neve con la bella salita al bivacco Cecchini. Grandi panorami e discesa problematica per la neve che si sta ammollando.

Marzo si chiude con una scoperta magnifica: il percorso attrezzato del fiume Era salendo da Sonvico di Mandello. Lo abbiamo affrontato in un periodo con poca acqua e questo ci ha permesso di procedere senza difficoltà o guadi pericolosi, ma mi e’ rimasto il ricordo delle meravigliose cascatelle e delle pozze verdeggianti. La risalita, superando qualche roccetta, ci ha portato all’alpe Era, poi alla Gardata ed infine

a visitare la grotta dell’Acqua Bianca in val Meria. Ad aprile torniamo sul Monte Due Mani, ma da un altro versante: la cresta est che partendo dalle casere di Maggio e passando dallo Zucco di Desio, porta alla vetta. Bellissima traversata con giro ad anello, attraversando boschi e vallate del tutto sconosciute per tornare a Maggio. Lunga trasferta in terra bergamasca per salire sulla Corna Camoscera dal sentiero attrezzato, in quanto nel frattempo, la ferrata della Madonnina del Coren è stata smantellata con nostra grande delusione, un pochino mitigata dal giro ad anello fino al Rifugio dei Lupi di Brembilla.

Abbiamo sempre visto la Val Varrone dall’alto della Valgerola, ma questa volta andiamo a scoprirla risalendola da Premana e raggiungendo il Rifugio Casera Vecchia di Varrone immerso nella neve. La voglia di neve ci porta a due uscite per noi innovative e magnifiche: la risalita delle piste da sci ormai chiuse alla Cima Bianca di Bormio 3000 e alla Fuorcla Surlej risalendo il Corvatsch.

Maggio inizia con la salita al Rifugio Scoggione e la difficile traversata al Rifugio Legnone con neve gelata e con magnifici panorami della Bassa Valtellina, Val Lesina e della Pizza del Legnone. Affrontiamo anche un po’ di

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pioggerella, ma riusciamo a compiere l’anello di Baiedo, toccando il Rifugio Riva, la chiesetta di San Calimero e il rifugio Antonietta al Pialeral. Salire la cima della Cornetta è la motivazione che ci spinge ad affrontare un’altro notevole anello da Moggio, ai Piani di Artavaggio, Rifugio Cazzaniga e ad inventarci la traccia tra lo Zuccone Campelli ed il Piazzo che con notevole soddisfazione ci fa raggiungere la suggestiva Cornetta.

Finiamo il mese in bellezza con una lunga escursione ai Laghi di Deleguaccio da Premana. Molto ingaggiosa la salita al secondo lago seguendo un canalino attrezzato reso insidioso dalla neve.

A giugno raggiungiamo la Cima di Pai in Valgerola, dal versante della bocchetta di Stavello, dopo un’aspra lotta con le roccette della cresta. Quindi piacevole rientro ad anello dalla Val di Pai. Si continua nel lecchese con l’uscita Cai alla Ferrata Minonzio sullo Zuccone Campelli. Un percorso impegnativo, anche per la difficile discesa dal Canalone dei Camosci.

Trekking ad anello tra bergamasca e Val Tartano con salita al Pizzo del Vento dalla bocchetta di Budria. Un po’ di Sentiero 101, un tratto di GVO, agitare bene ed ecco uno splendido cocktail. Cambio di scenario e si va’

in Grigna per un itinerario ad anello dal Rifugio Bietti, salendo la ferrata del Sasso dei Carbonari fino alla bocchetta di Releccio e ridiscendendo dalla Via del Caminetto.

Qualche difficoltà per raggiungere l’attacco della ferrata, ma poi percorso e ambiente fantastici.

Escursione esplorativa sull’Alta

Via della Val Tartano dal lato della Val Budria. Saliamo dalla contrada Fognini fino ad incrociare il sentiero dell’alta Via e l’intenzione è quella di seguirla fino a Saroden. Dapprima tutto bene, bel percorso, ben segnato e con piacevoli scorci. Poi poco sotto la bocchetta di Culino, il sentiero praticamente

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scompare e dobbiamo cercare i radi segni ravanando dentro il bosco o superando vallette intricate. Ci blocca definitivamente la discesa in un ripido canale, attrezzato con una corda sulla cui sicurezza abbiamo parecchi dubbi. Riusciamo comunque a scendere in Val Budria sfruttando un provvidenziale piccolo sentiero.

A luglio ecco l’antica Via del Cardinello in Valle Spluga, esiste da millenni e percorrerla permette di effettuare un piccolo viaggio nel tempo, addentrandosi nelle nelle sue gole oscure ed ardite. Affrontiamo il pizzo Rodes con un po’ di apprensione, sia per il caldo, che per le difficoltà della cresta finale. Ma la tenacia che ci anima riesce a prevalere e tutti arriviamo in vetta.

In una bella domenica di luglio vogliamo salire il nostro primo tremila della stagione: il Piz Dals Lejs, cima Svizzera che ri raggiunge salendo dal passo della Forcola di Livigno. Torniamo nelle Orobie per scoprire la Val Vedello e le sue miniere di uranio. Ma la sfortuna ci prende di mira: un improvviso acquazzone ci costringe a cercare riparo in una provvidenziale galleria, poi dopo aver costeggiato a sinistra il lago di Scais, apprendiamo di non poter superare il torrente Caronno a causa di una frana che ha travolto il ponte. Ci tocca tornare sui nostri passi, inveire contro un cerbero guardiano che non ci lascia attraversare sulla diga e quindi perdere quota e risalire sul lato destro del lago per finalmente raggiungere la Val Vedello ed il passo del Forcellino. Qualcuno sale al passo

dell’Ables al mitico bivacco Provolino ed altri si preparano ad affrontare il week-end in Adamello organizzato dal Cai Morbegno con obbiettivo la vetta dalla via ferrata Terzulli. Magnifica impresa, grande fatica e niente panorama di cima, ma grande soddisfazione. Luglio termina con altre due uscite: alla Cima del Giarolo in Valgerola con discesa al Lago Rotondo e al Bivacco Primalpia nella stupenda Valle dei Ratti, con memorabile spaghettata. Iniziamo agosto con una bella e classica escursione in Valtartano al Monte

Moro. La parte migliore è l’attraversamento in sequenza degli alpeggi di Gavedii e Gavedun, poi un ripido canale e la cima.

In una giornata con forte vento decidiamo di raggiungere il rifugio Elisa da Rongio salendo tutta la Val Meria. Non contenti saliamo anche al Buco di Grigna con splendidi panorami della Grignetta e del Grignone. La giornata è caldissima e allora sulla strada del ritorno entriamo nella grotta dell’Acqua Bianca e utilizzando i frontalini riusciamo a scendere parecchio

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in un ambiente magico. La salita al monte Sobretta dalla strada del Gavia costituisce una facile ascensione ad una vetta estremamente panoramica, la giornata però non è delle migliori con pioggerella nebulizzata e un gran freddo. Allora il gruppo 2008 si inventa la staffetta con la cima, i primi che la raggiungono dopo poche foto, ridiscendono incontro agli altri e poi risalgono con loro in modo da non congelare. Il Pizzo Spadolazzo è una magnifico punto di osservazione sui monti e sui

inanellando due tremila nella zona del Passo Stelvio: il Piz Umbrail e la Punta di Rims. Paesaggi lunari, una splendida traversata, un bellissimo laghetto azzurro e la visione delle vette del’Ortles e del Gran Zebrù. In discesa, alla Forcola di Rims, in un ricco gioco di sfumature cromatiche, ammiriamo anche le trincee e le cannoniere della Grande Guerra. Poi ci volgiamo verso la valle del Braulio con i fantastici tornanti della strada dello Stelvio e con una lunga e piacevole traversata torniamo all’ex Dogana svizzera.

della calotta ghiacciata del Piz Roseg.

Altra lunga trasferta per raggiungere Pontresina e da lì entriamo in Val Roseg attraversando lo splendido bosco di larici e cembri per salire alla Chamanna Tschierva. Uno dei più suggestivi rifugi delle Alpi ai piedi della Biancograt del Piz Bernina e

le gioie della giornata. Poi ecco un’esperienza inusuale e romantica: salire su di una cima a vivere il tramonto, con i suoi giochi di luce e l’emozione del cielo cangiante dal arancio al rosso scuro. Il monte Bassetta, con il suo magnifico panorama, non delude le nostre

Vogliamo tornare protagonisti sulle cime e ci mettiamo alla prova con il Sasso Bianco ed il Sasso Canale. Affrontiamo un lungo crestone, poi un ripido canalino, quindi puro divertimento sulla crestina rocciosa che unisce le due cime e infine la verticale placconata della vetta Sasso Canale. Settembre inizia con una scalata impegnativa alla cima Piazzi organizzata dal Cai Morbegno. Molti del gruppo hanno partecipato e condiviso le vicissitudini e laghi della Valchiavenna. Si raggiunge facilmente costeggiando il lago Emet con il rifugio Bertacchi e poco prima del passo Niemet si gira a sinistra per affrontare la divertente crestina finale. Siamo nella fase più calda dell’estate e saliamo di quota

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aspettative e ci regala una serata magica, anche per la discesa nel buio con i frontalini accesi e la prospettiva di una famelica cenetta serale a base di pizza.

In una calda domenica con zero termico a 4600 metri, torniamo al passo della Forcola per salire il Monte Vago un tremila che domina Livigno. Splendida traversata e non banale la cresta finale con un piccolo diedro e roccette verticali. Nella discesa andiamo ad ammirare il meraviglioso lago Vago con la voglia irresistibile di tuffarsi dentro per capire il miracolo di quel favoloso color turchese.

Si va’ in Valgerola per un inedito anello intorno al Pic, un punto panoramico che domina Gerola.

Partiti da Fenile, abbiamo raggiunto il lago di Trona e

siamo discesi nella selvaggia Valle Pietra.

Sempre alla ricerca di percorsi che permettano giri ad anello ne percorriamo tre: prima quello del Lago di Scermendone: dal Prato Maslino, toccando San Quirico, il piano degli Spini, la cima Vignone, Baric, Alpe Vignone e rientro al Rifugio Marinella. Poi ad ottobre anello del Monte Motta: per cresta erbosa con roccette dal lago di Pescegallo e per traversata in un bellissimo bosco di abeti, larici e faggi per Bominallo e Nasoncio.

Quindi, cambiando scenario, quello del Sasso Cavallo una incredibile cavalcata con repentini cambi di prospettiva: dapprima saliamo al Monte Croce passando dal Baitello dell’amicizia, poi vertiginosa discesa dal Monte Pilastro

fino all’Arco di Prada, lunga traversata fino al Rifugio Bietti per affrontare l’insidioso sentiero attrezzato che porta alla bocchetta di Val Cassina, a questo punto, dopo una breve discesa ad una selletta su una cengia un po’ esposta con roccette saltellanti, abbiamo dovuto immergerci letteralmente nei mughi per seguire il sentierino che risale la panoramicissima vetta del Sasso Cavallo sospesa tra la Grignetta, il Sasso dei Carbonari, il Grignone, il rifugio Elisa, il Bietti ed il lago. Forse per la nebbia che risaliva la Val Meria e rendeva irreale il profilo scuro, irto di guglie e torrioni della Grignetta, mentre il sole pieno esaltava le forme ed i colori del Grignone, ci siamo fatti prendere dall’emozione di vivere un momento unico su di

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una montagna incantata. La trasferta engadinese per l’anello del Piz Chuern e la salita da Chiareggio al Passo del Muretto sono state altre due belle escursioni ottobrine. Un po’ di pausa per tempo perturbato ed eccoci a Novembre: giro ad anello a Sostila, poi sul lago al Rifugio la Canua situato sulle pendici del Bregagno, esplorazione al Monte di Lenno con indigestione di Santuari, Abbazie e Vie Crucis e a seguire l’anello del Sasso di San Martino.

Arriva la prima neve della stagione e come da tradizione ciaspoliamo da Pescegallo al passo di Salmurano. Ma la neve è pochina e si torna sul lago per un grande concatenamento di tre cime: il monte Crocione, il monte Tremezzo ed il Galbiga. Magnifici panorami sui laghi e scoperta di una stradina autunnale che dalla Val d’Intelvi, passando per Pigra raggiunge il Rifugio Boffalora. Torniamo a pestare un po’ di neve con un giro ad anello dal Dosso Chierico a Vesenda Alta e discesa dall’ Alpe di Garzino. Bello e un po’ triste passare dal grande “Avezz” di Vesenda che è ormai secco.

In una fredda domenica di fine mese proviamo la prima uscita in notturna sulla neve del Prato Valentino salendo fino al Dosso Laù ammirando il tramonto, le candide Orobie, la luna piena ed i caldi pizzocheri. Per contrastare il freddo torniamo sul lago per un piacevole anello al Sasso di Musso, partendo da Dongo, salendo alla Crocetta e alla chiesetta di San Bernardo. Scendiamo verso Musso e passando da Santa Eufemia torniamo a Dongo.

A Dicembre arriva un’altra nevicata seguita da pioggia e vento, ma riusciamo a gustarla ugualmente salendo a piedi da Morbegno al Rifugio della Corte, attraverso un bosco innnevato e fiabesco.

La voglia di iniziare veramente la stagione invernale ce la togliamo con una tosta salita al Munt de Sura con sci e ciaspole, trovando neve molto ghiacciata sulla rampa finale prima della cima.

Cerchiamo una meta adatta alle sole ciaspole e andiamo a ripescare un’idea magnifica: un giro ad anello all’Alpe Musella da Campo Franscia. Nella notte e’ nevicato e ci troviamo immersi in una pineta incantata, poi attraversiamo pianori infiniti con all’orizzonte splendide montagne bianche. La gita di Natale del Cai

Morbegno quest’anno si svolta all’estero al Piz Grevasalvas in Engadina: i ciaspolatori hanno raggiunto il Lej Nair, mentre gli sciatori si sono issati fino alla bella cima.

Ora un po’ di numeri: nel

2024 le escursioni del Gruppo 2008 sono state 65 e abbiamo partecipato anche a 7 uscite del Cai Morbegno. Per curiosità ho provato ad analizzare la distribuzione geografica delle uscite: 16 in Valssasina/Lecchese - 12 in Valgerola - 8 in Svizzera - 7 in Alta Valtellina - 6 sul lago di Como - 5 in Valchiavenna - 4 in Valtartano - 4 nelle Orobie – 3 in Valmalenco – 3 sulle Retiche/Valmasino – 2 in valle di Albaredo – 1 in provincia di Bergamo e 1 in provincia di Brescia.

Una nota triste è legata al nostro presidente onorario Antonio, che quest’anno ha fatto una sola gita con noi in Val Vedello e poi per motivi di salute ha deciso di ritirarsi. In conclusione il 2024 è stato un anno molto intenso con tante gite, ma sempre motivato dalla voglia di montagna, di avventura, di curiosità e di appagamento per i magnifici ambienti naturali che abbiamo potuto scoprire e ammirare.

NOTIZIE DALLA SEZIONE

I NUMERI DEL C.A.I. MORBEGNO

Alla data del 31.12.2021 gli iscritti sono 457 così suddivisi:

321 ordinari di cui 29 ordinari juniores, 99 famigliari e 37 giovani.

Ricordiamo che le iscrizioni si effettuano in sede.

CONSIGLIO DIRETTIVO

Presidente

Alessandro Caligari

Vice Presidente

Marco Poncetta

Segretario

Davide Bonzi

Consiglieri

Rita Bertoli

Mara Cavallotto

Giovanni Cerri

Domenico Del Barba

Francesco Spini

DELEGATI

Marco Poncetta

Domenico Del Barba

ISTRUTTORI DI ALPINISMO E DI

SCI ALPINISMO E ARRAMPICATA LIBERA

Enrico Bertoli (ISA)

Giulio Gadola (ISA)

Franco Scotti (ISA)

Cesare De Donati (IA+INSA)

Moreno Libera (IAL)

ISTRUTTORI SEZIONALI DI

ALPINISMO, SCI ALPINISMO E ARRAMPICATA LIBERA

Danilo Acquistapace

Andrea De Finis

Mirco Gusmeroli

Emil Del Nero

Moreno Libera

Riccardo Scotti

Marco Mazzolini

Alessandra Tagliabue

ACCOMPAGNATORI SEZIONALI DI ALPINISMO GIOVANILE (ASAG)

Rita Bertoli

Mara Cavallotto

Riccardo Marchini

Claudia Ponzoni

ACCOMPAGNATORI DI ESCURSIONISMO

Davide Bonzi (AE)

Alessandro Caligari (AE)

I CORSI

Corso di ginnastica presciistica

Tenuto dall’insegnante Loredana Pantaleo si sono svolti da novembre 2020-2021 ametà febbraio2021-2022 presso la palestra Girasole e presso la palestra di via Prati Grassi.

Corsi base di sci-alpinismo

Si sono regolarmente svolti nel 2022 e 2023

Corso di arrampicata

Si sono regolarmente svolti nel 2022 e 2023

LE GITE 2022

Escursionismo

•16 gennaio, Monte Garzirola

Scialpinismo

•13 febbraio, Piz Roccabella

•13 marzo, Piz Scalotta

Alpinismo

•23-24 luglio, Monte Adamello

LE GITE 2022

Scialpinismo

•22 gennaio, Cima di Lemma

•29 gennaio Val Febbraro

•5 marzo, Val loga

•17 dicembre, Grevasalvas

Alpinismo

•18 giugno, Ferrata Minonzio

•22-23 luglio, Monte Adamello

Escursionismo

•3 settembre, Cima Piazzi

•24 settembre, Monte

Combolo

Assemblea Annuale

Venerdì 23 febbraio

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