Annuario Cai 2015

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ANNUARIO 2015

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SOMMARIO

CAI Club Alpino Italiano Sezione di Morbegno

Via San Marco Tel. e fax 0342 613803 e-mail: info@caimorbegno.org www.caimorbegno.org

ANNUARIO 2015

ALPI, SVILUPPO SOSTENIBILE E ASPETTI DEMOGRAFICI di Oscar Del Barba

Redazione: Alessandro Caligari, Lodovico Mottarella

NOVEMBRE, DUE SALITE INSOLITE di Carlo Mazzoleni

Hanno collaborato: Stefano Barbusca, Alessandro Caligari, Andrea De Finis, Oscar Del Barba, Riccardo Marchini, Carlo Mazzoleni Andrea Mottarella, Lodovico Mottarella, Franco Scotti, Marco Poncetta.

ALFONSO VINCI di Alberto Benini

CORDILLERA CANTABRICA Fotografie: Arch. Andrea De Finis: pag. 32-33, 34, 35, 36-37 Arch. Franco Scotti: pag. 38-39, 40. 41, 42, 43 Alessandro Caligari: Pag. 81, 83, 88, 89, 90,91 Riccardo Marchini: pag. 56-57, 58, 59, 60, 61 Attilio Marinoni: pag. 70,71, 74 Carlo Mazzoleni: pag. 16, 17, 18, 19, 20 Andrea Mottarella: pag. 44-45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 55 Lodovico Mottarella: pag. I, II, III copertina,1, 2, 4, 5, 6-7, 8, 9, 10-11, 12, 13, 14, 15, 21, 22-23, 24-25, 26, 28, 30, 62-63, 66-67, 86-87 Riccardo Scotti: pag. 64-65, 68, 69 Mario Spini: pag. 72-73, 75, 84, 85, 92, 93

di Andrea De Finis

NEVE DI TURCHIA di Franco Scotti

NEPAL di Andrea Mottarella

Progetto grafico e realizzazione: Mottarella Studio Grafico www.mottarella.com

ATTIVITĂ€

Stampa: Tipografia Bonazzi

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E D I T O R I A L E

di Alessandro Caligari

E D I T O R I A L E

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Siamo alla 13° edizione dell’annuario del CAI Morbegno, ormai un appuntamento consolidato. Con il concludersi del quarto anno di presidenza sezionale scade il mio mandato, per cui mi affaccio da queste pagine per l’ultima volta. Ne approfitto quindi per tracciare una sorta di bilancio su quanto fatto fin qui, verificando quanto si è percorso della traccia che ci si era prefigurata. Uso la seconda persona plurale non come plurale maiestatis ma per indicare che non mi sono mosso da solo. Senza alcuna ossessione sul numero d’iscritti al Club, in questo mandato si è piuttosto cercato di allargare la partecipazione alle attività proposte, ed in particolare sforzandoci di portare più gente possibile in sede. Per questo abbiamo istituito, per esempio, alcuni appuntamenti conviviali fissi, come la “cena d’inizio estate” e le serate della “Musica in giardino”, che ci hanno permesso oltretutto di fruire dei panoramici giardini del Palazzo Malacrida. Con lo stesso scopo abbiamo istituito i “martedì del CAI”, serate con cadenza (quasi) mensile fatte di conferenze, filmati, presentazioni. A supporto di queste attività si è proseguito con l’arricchimento delle infrastrutture della sede (nuovi sistemi di proiezione, nuovi PC e apparecchi d’ufficio, nuovi arredi ecc), grazie anche all’apporto disinteressato di molti, a cui va il mio ringraziamento. Altri sforzi sono andati verso la creazione di un programma annuale riconoscibile, fatto di modalità e di appuntamenti fissi ricorrenti, alcuni tradizionali (rallyno Rosetta, uscita scialpinistica sociale, escursione al mare, Austria ecc) ed altri nuovi (Festival delle Alpi, Giro d’Estate, i conviviali accennati sopra). Sicuramente non ci si è trasformati in tour operator per puntare ad avere un grande numero di partecipanti, a scapito dell’identità dell’associazione. Cercando di coinvolgere persone giovani, eterno problema del Club, anche a livello nazionale, abbiamo proposto delle uscite adatte a famiglie, ma soprattutto, grazie all’impegno di Angelo, Claudia, Riccardo e Rita, abbiamo dotato la nostra sezione di quattro Accompagnatori d’alpinismo giovanile; prossimamente potremo istituire dei corsi per ragazzi anche da noi. In linea con quanto fatto da chi mi ha preceduto, abbiamo continuato le battaglie verso la tutela dell’ambiente montano e contro le aggressioni antropico-motoristiche che il territorio continuamente subisce, anche da parte di istituzioni amministrative. Si è poi cercato di migliorare la comunicazione con i singoli soci, istituendo le newsletter, realizzando un nuovo sito internet, proseguendo con l’annuario, arrivato come detto alla 13° edizione. Non tutto è andato come previsto, molte cose sono state solo accennate, altre ancora sono rimaste sulla carta. Limiti personali e contingenze hanno per forza di cose limitato intenti, intuizioni, progetti. D’altro canto, come dice Maugham, “la perfezione ha un grave difetto, tende ad essere noiosa”.


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LE ALPI

tra sviluppo sostenibile e aspetti demografici di Oscar Del Barba

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Il 18 aprile 2015 l’Infopoint di Morbegno della Convenzione delle Alpi ha organizzato la prima Presentazione della quinta Relazione sullo Stato delle Alpi che riguarda Demografia e Popolazione. Di seguito alcune considerazioni sul tema


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Il paesaggio culturale alpino si è sviluppato nell’arco dei secoli in stretta interazione con i fattori naturali dei luoghi, le dinamiche insediative e le diverse attività economiche come l’agricoltura e la silvicoltura. Intendendo il paesaggio culturale come sinonimo di territorio e come espressione delle caratteristiche sociali, economiche ed architettoniche del sistema insediativo, nell’ambito di una discussione sullo sviluppo sostenibile del paesaggio, non si può prescindere da un’analisi dei fattori trainanti che hanno caratterizzato lo sviluppo dell’Arco alpino. Molti sono i fattori per i quali sarebbe opportuno fare 10 CAI MORBEGNO

un’analisi approfondita. In primo luogo va menzionata l’agricoltura di montagna, che attualmente versa in condizioni di grave difficoltà. Nelle regioni montane sono sempre meno le persone che basano il loro reddito esclusivamente sul settore primario. Negli ultimi decenni si avverte come si stia affievolendo il legame diretto con il “suolo” ed il paesaggio da parte della società, in generale, ma anche di da parte del mondo rurale. Non vi è alcun dubbio, che Il paesaggio alpino sta cambiando in modo rapido. Con il mutamento del quadro economico e sociale sono cambiate le condizioni per lo sviluppo delle regioni montane. Entrambi questi aspetti hanno

infatti conseguenze sullo sviluppo demografico e sui cambiamenti del paesaggio. La regione alpina è senza dubbio un’area esemplare in cui applicare il modello di sostenibilità. Dal punto di vista ecologico l’arco alpino è una zona estremamente sensibile, caratterizzata da una morfologia imponente con rilievi elevati e pericoli ambientali sempre in agguato. I cambiamenti climatici, l’estrema sensibilità del regime delle acque e la stagione vegetativa che si accorcia all’aumentare dell’altezza rendono particolarmente vulnerabile l’area montana. Inoltre, nel caso delle Alpi, si aggiunge la questione dello uso produttivo intensivo del


territorio, che non trova eguali in quasi nessun’altra regione montana. Non a caso proprio per la regione alpina è stata sviluppata una convenzione internazionale per l’uso ecosostenibile del territorio. Sottoscritta nel 1991 a Salisburgo tra gli Stati alpini e l’Unione europea, la Convenzione per la protezione delle Alpi (Convenzione delle Alpi) rappresenta un’iniziativa pionieristica che tuttavia costituisce il primo strumento transnazionale, vincolante sul piano del diritto internazionale, per la gestione ecocompatibile dello sviluppo di un determinato territorio. In seguito, sulla base di tale modello, è stata elaborata la

Convenzione dei Carpazi e al momento si lavora per lanciare una convenzione per le Alpi Dinariche ed i Balcani. Il trattato si compone di una convenzione quadro e di relativi protocolli di attuazione, dai quali discendono misure per i temi centrali dello sviluppo delle regioni alpine. Per il tema che stiamo trattando i riferimenti principali sono i Protocolli riguardanti la protezione della natura, l’agricoltura, la silvicoltura, la pianificazione territoriale e lo sviluppo sostenibile, i trasporti e la Dichiarazione sulla popolazione e la cultura. Il territorio della Convenzione delle Alpi copre una superficie di 190.959 kmq e comprende

5.867 Comuni. Si estende per oltre 1.200 km dalla costa ligure fino alle porte di Vienna, coinvolgendo otto Stati alpini. Nel punto più largo, tra Rosenheim e Affi, a nord di Verona, l’area della Convenzione tocca i 300 km. Sono passati quasi tre decenni da quando, nel 1987, il Rapporto Brundlandt ha assegnato una nuova dimensione al concetto di “sostenibilità”. Dopo la conferenza di Rio del 1992, per il concetto di “sostenibilità” è cominciata un’incredibile marcia trionfale che l’ha portato a figurare in tutti i programmi strategici. È diventato così un principio universalmente valido e da integrare in tutte le questioni CAI MORBEGNO 11


relative allo sviluppo territoriale al quale si ricorre per disciplinare il rapporto tra le esigenze socioeconomiche, da un lato, e le risorse territoriali e naturali dall’altro. Tuttavia il concetto non è nuovo. Lo citava già Hans Carl von Carlowitz nella sua opera Silvicultura Economica pubblicata nel 1713, in cui descriveva l’economia forestale come una modalità per gestire in modo sostenibile i boschi: piantando alberi nuovi e curando il patrimonio boschivo esistente si poteva garantire l’approvvigionamento di legname a lungo termine. Il vecchio concetto è stato riscoperto e rivisitato alla luce dell’incalzante e crescente minaccia alla quale sono esposte le risorse naturali. Secondo il concetto moderno della sostenibilità, 12 CAI MORBEGNO

i bisogni della generazione contemporanea devono essere soddisfatti in modo da non mettere in discussione quelli delle generazioni future. In questo modo il principio della giustizia intergenerazionale è diventata parte della discussione sull’utilizzo delle risorse e accanto alle questioni della sostenibilità ambientale, della sostenibilità economica e dell’equità sociale, forma le fondamenta del concetto di sostenibilità. Oggi è difficile trovare qualcuno che non ne condivida i contenuti. I problemi nascono, quando gli obiettivi devono essere calati nella realtà e applicati in luoghi concreti, con l’aiuto di interventi concreti. Questa continua ad essere, ora come un tempo, un’operazione estremamente complessa,

poiché ad essere colpiti in primis sono sempre gli uomini ed i loro interessi. “Sostenibile” indica, nel concreto, una forma di utilizzo della natura e del paesaggio che può essere portata avanti nel tempo senza esaurire in modo irreversibile le risorse, cosa che, con le modalità di sfruttamento attuali, è quasi impossibile. Per la tutela della natura e la cura del paesaggio, il concetto di sostenibilità significa una nuova opportunità. Il concetto di sostenibilità ha tolto la questione ecologica dal suo isolamento e l’ha portata ad essere un tassello fondamentale dello sviluppo, dando alla tutela della natura l’occasione di superare il proprio carattere difensivo ed andare oltre il puro concetto della ‘protezione’.


Il concetto della sostenibilità ammette che gli sviluppi possono portare anche a modifiche territoriali e paesaggistiche, ed è di grande interesse proprio per lo sviluppo del paesaggio e dell’ambiente naturale. Le modifiche del paesaggio e della sua immagine non devono essere valutate in modo negativo a priori. Certo, se cambiano i fattori che compongono l’equilibrio paesaggistico la questione si fa molto più problematica, ma va ricordato che l’immagine del paesaggio è fortemente influenzata anche dal contesto culturale (Convenzione Europea del Paesaggio). Va accettato, che la protezione dell’ambiente naturale costituisce l’obiettivo di sviluppo prioritario solo in alcune frazioni di territorio. La

realtà dimostra come persino nelle aree protette sia difficile applicare misure di tutela e che spesso gli obiettivi non vengono raggiunti. Lo insegna in modo esemplare il Parco Nazionale dello Stelvio con i suoi problemi e le sue difficoltà. In una strategia di sviluppo sostenibile la protezione della natura e la cura del paesaggio devono tenere conto anche del contesto economico: devono riconoscere che la sostenibilità economica e sociale e il carattere partecipativo sono componenti integranti dello sviluppo, e poter distinguere il cambiamento produttivo da quello distruttivo. L’uso economico del territorio orientato alla sostenibilità deve da parte sua accettare, che uno sviluppo bilanciato è possibile solo all’interno di un

sistema “natura” funzionante a lungo termine. La sostenibilità va concepita come il processo alla ricerca della giustizia ideale, nel senso kantiano del termine. Ecco allora che la completa sostenibilità non potrà mai essere compiutamente raggiunta, potrà invece essere continuamente ottimizzata, attraverso sviluppi, nuove conoscenze e innovazioni. Così le nuove conoscenze spostano sia i limiti oggettivi di ciò che è sostenibile, sia i limiti di ciò che è fattibile, in un determinato luogo attraverso la compensazione tecnologica. In tal modo la sostenibilità diventa un principio d’azione valido per l’intera società, che impone a quest’ultima di confrontarsi continuamente con le proprie azioni e il territorio in cui è collocata. CAI MORBEGNO 13


Una cultura della sostenibilità vissuta in questo modo impone il confronto costante con il proprio ambiente naturale e le sue sensibilità ecologiche, con la propria storia e la propria cultura, nonché con le esigenze della storia e dell’economica di un determinato luogo Applicare il principio di sostenibilità va inteso come un processo di innovazione continua. Il confronto con la propria realtà, la formazione e la ricerca di un miglioramento continuo sono fondamentali. 14 CAI MORBEGNO

Lo sviluppo demografico corrisponde al processo di cambiamento quantitativo e qualitativo della popolazione in un territorio definito, cioè il cambiamento in numeri, composizione, struttura d’anzianità e distribuzione sul territorio. Partendo da questa definizione si può intuire come i vari trend nello sviluppo demografico possano interagire con il paesaggio. Attualmente nell’area della Convenzione delle Alpi vivono all’incirca 14 milioni

di abitanti, un numero mai raggiunto prima nella storia). Questo valore è di circa l’85 % superiore alla popolazione registrata intorno al 1870. Il confronto è opportuno perché questo periodo storico rappresenta l’ultima fase dell’era agricola nell’Arco alpino e perché in questi stessi anni ha inizio la fase nella quale, attraverso la costruzione dei grandi assi ferroviari, viene migliorata l’accessibilità all’Arco alpino (Linea del Brennero 1867) e


perché corrisponde alla fase antecedente il primo boom turistico. Tra il 1990 e oggi la popolazione delle Alpi è cresciuta circa dell’8%. In questo periodo la crescita demografica nell’arco alpino è stata maggiore rispetto a quella dell’Unione Europea. Ma non è sempre stato così. È a partire dagli anni ’70 in poi che la crescita demografica dell’arco alpino ha superato quella del resto dell’Europa La crescita non è distribuita in modo omogeneo in tutti i comuni alpini. Circa 2/3 dei Comuni nell’arco alpino vantano uno sviluppo positivo della popolazione. In modo particolare questo riguarda Comuni con una crescita economica in aree di fondovalle particolarmente ben collegate.

Da menzionare sono le grandi vallate intralpine come la Val dell’Adige, la valle dell’Inn, la Valle d’Aosta, la Valtellina ecc.. Un caso a parte è rappresentato dai grandi centri turistici che – anche se in posizioni periferiche o di difficile accessibilità – mostrano prevalentemente uno sviluppo positivo. Dinamici si dimostrano anche i Comuni lungo il perimetro dell’Arco alpino posti nelle vicinanze delle grandi o medie metropoli extra-alpine. Questi comuni, spesso a distanze ragionevoli dai centri urbani maggiori, offrono una situazione ideale per chi vi lavora, ma preferisce vivere in un ambiente con una migliore qualità di vita. Stagnazione o decrescita si ritrovano invece in regioni

periferiche e in regioni contrassegnate da una fase di depressione economica. Nel periodo 1990-2014 il 24 % dei Comuni nel perimetro della Convenzione ha uno sviluppo demografico negativo. Ad esempio la depressione nelle regioni austriache è legata in parte alla crisi economica dell’acciaio e alla depressione del settore minerario; nelle regioni italiane ci sono altri fattori che hanno influenzato questo sviluppo. Una situazione difficile la si trova anche nelle Alpi occidentali, in modo particolare ne sono colpite le parti montane del Piemonte e della Liguria. Nonostante il cospicuo numero di comuni di piccolissime dimensioni, anche nell’arco alpino si registra una tendenza verso la concentrazione. CAI MORBEGNO 15


Il fenomeno dell’abbandono delle aree più difficilmente raggiungibili, come le valli laterali e le aree di versante, e del fenomeno della concentrazione nelle vallate ha portato le persone a spostarsi verso centri di piccola o media dimensione. Così il 73 % della popolazione alpina si distribuisce nel 23,7 % dei comuni con più di 2.500 abitanti. Mentre nel 50% dei Comuni con meno di 1000 abitanti vivono solo l’8,9% della popolazione alpina. Un cenno particolare meritano i centri dell’arco alpino. In un contesto europeo si tratta di città di piccole dimensioni, che però sono di straordinaria importanza. Oltre il 35 % della popolazione 16 CAI MORBEGNO

alpina vive in centri con più di 10.000 abitanti. Questi centri sono luoghi importanti per lo sviluppo economico e culturale, nonché come base per offerte di servizi pubblici. Dallo sviluppo di questi centri traggono beneficio anche i comuni circostanti. Nell’Arco alpino si ritrovano tutti fenomeni demografici noti anche in altre regioni: prosperità e depressione, concentrazione e spopolamento, migrazione, sostituzione e invecchiamento. Pertanto anche gli effetti sul territorio e il paesaggio sono simili; mentre diversi sono i rischi a causa delle peculiari sensibilità ecologiche delle zone montane e della scarsità di superfici adatte ad

insediamenti permanenti. Le Alpi oggi non sono più quelle di un tempo perché il contesto socio economico europeo è cambiato e i territori alpini si distinguono per la forte polarità tra naturale e antropico, tra ambiente e urbanizzazione. Già oggi in alcune grandi vallate alpine la distinzione tra urbano e rurale è quasi impossibile (Voralberg). Dall’altra parte ci sono aree che si spopolano e comuni che hanno una criticità elevata. In questi comuni va posto la questione di “sopravvivenza”. Con l’abbandono dei giovani si perde il potenziale innovativo. I Comuni rischiano di pagare un prezzo sempre più elevato per la loro “perifericità”.


Coloro che non hanno la possibilità di guidare un’automobile, ad esempio perché anziani, devono far fronte ai crescenti disagi connessi alla cessazione delle attività commerciali e al taglio dei servizi, trasporto pubblico incluso. C’è inoltre il rischio che la rarefazione dei servizi e il conseguente abbassamento nella qualità della vita favoriscano l’esodo in comuni meno periferici e scoraggi l’arrivo di nuovi residenti. Gli effetti, anche locali, dell’invecchiamento della società richiedono un approfondimento urgente. Per mantenere l’attuale numero di abitanti nell’arco alpino ad ogni donna in età fertile dovrebbero corrispondere

1,9 bambini. Attualmente solo nelle alpi francesi viene raggiunta tale quota. Con una quota di 1,5 bambini per donna, la popolazione scenderebbe tra 100 anni al 55 % dell’attuale valore. Con il cambiamento della struttura di anzianità cambieranno le esigenze delle popolazioni, per esempio ci sarà necessità di abitazioni adatte agli anziani, di infrastrutture per il tempo libero adeguate, di infrastrutture sanitarie, di trasporto pubblico. Gli strumenti per una politica regionale capace di governare la crescita naturale della popolazione sono limitati. Ma proprio per questo motivo questi sviluppi andrebbero monitorati con grande attenzione. Va però sottolineato, che non esiste una strategia unica per l’intero arco alpino. Non esiste una sola montagna ma realtà eterogenee nell’ambito dell’arco alpino, di cui va tenuto conto. A livello locale, sono i comuni gli attori principali per lo sviluppo, ma forse varrebbe la pena di pianificare lo sviluppo territoriale a livello sovracomunale, e di elaborare un strumento di pianificazione

che interessi tutta una regione funzionale. Nell’ambito alpino questi ambiti corrispondono spesso con le singole valli o con le Comunità montane in fase di smantellamento. Comunque non c’è alcun dubbio che ci sia bisogno urgente di una nuova “cultura di confine”, caratterizzata da meno campanilismo e più spirito di collaborazione e solidarietà intercomunale. Il confine amministrativo non dovrebbe più essere considerato solo il limite del territorio di propria competenza, ma diventare punto di incontro e di collaborazione con il comune confinante. Molte regioni nell’Arco alpino cercano di allargare le proprie opzioni di sviluppo tentando talvolta anche vie particolarmente innovative, trovando un mix vincente tra sviluppo e conservazione. In questo senso lo “Statuto Comunitario per la Valtellina” potrebbe essere un ottimo punto di partenza per un processo di apprendimento locale e regionale e per lanciare una strategia di sostenibilità nella valle. CAI MORBEGNO 17


UN NOVEMBRE DUE SALITE INSOLITE

Canalone Marinelli al piz Roseg e Direttissima al Bernina di Carlo Mazzoleni

Pazzesco: nel momento in cui si scrive siamo giunti all’ottantaduesimo giorno senza perturbazioni di rilievo in Valle. Il 23 settembre venti centimetri di neve avevano imbiancato Pescegallo dandoci false speranze di un lungo e intenso inverno, ma da allora l’alta pressione e le temperature tropicali la fanno da padrone. Forse l’unico lato positivo di questa situazione è stato un novembre di condizioni ottimali per le salite d’alta quota, in anni normali già da tempo off-limits. E’ così proprio nei primi giorni del mese, dopo una telefonata organizzativa di pochi secondi, 18 CAI MORBEGNO

con il berghem-socio Stefano ci troviamo a scarpinare verso la capanna Marinelli nell’ultima luce pomeridiana. Sull’onda di un’intuizione genuina non influenzata da nessuna relazione recente, volgarmente: report, abbiamo fissato l’obiettivo del 4 novembre, significativamente san Carlo e 97esimo anniversario dell’Armistizio: si tratta del lungo canalone Marinelli sulla parete sud del piz Roseg. Salita visionaria aperta già nel 1881 dal mitologico Hans Grass Bergfuhrer di Potresina legato con Damiano Marinelli, a quel tempo doveva presentarsi come un gonfio toboga nevoso,

a superare gli oltre 700 metri di dislivello dal ghiacciaio di Scerscen superiore alla vetta; oggi invece il canale presenta zone “cicce” di neve, come il lungo conoide basale e l’imbuto finale, insieme a salti rocciosi verticali, talvolta da affrontare su esili linee di ghiaccio di fusione, altre da aggirare per cenge esposte in piena parete. Sta di fatto che la salita risulta di enorme soddisfazione, e il grado D(ifficìle) non è per nulla regalato. La vetta è poco più grande di un tavolino, a stento ci si sta in piedi, e il gelido vento nordorientale, che in virtù della felice esposizione della parete sud ci era rimasto


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Nelle pagine precedenti: a sinistra, dalla vetta del Bernina due magnifiche pareti nord, Roseg in primo piano, Disgrazia sullo sfondo. A destrala, sulla parte finale della direttissima. Qui a sinistra: quasi in vetta al Bernina: sullo sfondo l'intera Valmalenco, dallo Zupò allo Scalino al Disgrazia. Sotto: profondi tagli sul ghiacciaio di Scerscen e in salita sulla Direttissima. Nelle pagine seguenti: la parete sud del Roseg e sotto la sud-ovest del Bernina. Nel box il Canalone Folatti alla forcola d'Argent.

sconosciuto, ci spinge a una veloce discesa. Veloce per modo di dire! A certe quote, 3937m la cima, le condizioni non sono mai banali, e novembre è pur sempre novembre: l’espostissima e instabile cresta che conduce all’anticima ovest (salita lo scorso anno per la via Diembreger sulla parete nord) oppone difficoltà notevoli, dovute alla neve polverosa che nasconde le roccette in bilico: i tonfi dei blocchi che precipitiamo verso la val Roseg mille metri più in basso ci fanno venire brutti pensieri…

sta di fatto che una volta alla nevosa anticima le difficoltà tecniche svaniscono, resta solo da ritracciare tutto il ghiacciaio che dalla Eselgrat, meravigliosa e ripetuta cresta di IV grado che porta in vetta dalla capanna Tschierva, porta fino al passo Sella e quindi, tramite il ghiacciaio di Scercen superiore, al passo Marinelli. Si tratta di una passeggiata di quasi otto chilometri, affondando ogni passo nella palta glaciale scaldata dal sole, e con la corda costantemente in tensione per pararsi le chiappe

dai voraci crepi nascosti dalla neve. La traversata risulta però meno sfiancante del previsto: la psicologia lo può spiegare! Soddisfazione maturata e ambiente romanticamente sublime fungono da miglior droga! Tornato a casa, la vanità dell’alpinista, e l’orgoglio di aver azzeccato in pieno le previsioni circa le ottime condizioni della neve e del ghiaccio in parete, mi obbligano a condividere l’esperienza sul web. Il risultato è che una decina di forti alpinisti mi contattano

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per avere maggiori lumi sulle attuali possibilità dell’alta Valmalenco, e tra questi anche gli amici Fabio e Marco, anche loro bergamaschi, interessati alla via Direttissima sul versante sud del pizzo Bernina. Posso forse esimermi dall’accompagnarli? Certo che no! Così che dopo pochi giorni sono ancora, alla stessa ora, a mettere un piede dopo l’altro sugli interminabili sette sospiri verso la Marinelli. Incontriamo altri alpinisti che rientrano con la stessa espressione della volpe di ritorno dalla vigna, che adducendo pericoli oggettivi mostruosi, frane in parete e crepi enormi, tornano verso valle. Questo

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non può che aumentare la nostra determinazione! Mi sembra di essere il maestro Yoda: “fare o non fare, non c’è provare”. Nottata movimentata in Marinelli, stavolta: un maledetto topolino attenta alle nostre scarse provviste, ma nonostante questo come sempre il riposo in quota è “roccioso”, e alle quattro di mattina l’orso è più che mai restio a saltar fuori dalla tana. Una rinfrescata nell’aria frizzante e via sulle fresche tracce verso il passo Marinelli e il ghiacciaio. Questa volta l’avvicinamento, e la conseguente via di ritorno, prevedono uno sviluppo decisamente più contenuto, ma emozioni di superamento buchi decisamente più forti. Bei ponti sospesi e salti sul vuoto impegnano la cordata, rimasta a due elementi per il ritiro strategico di un Marco in condizioni fisiche non ottimali. La via, salita per la prima volta da Corti e Sala nel 1922, oppone difficoltà leggermente minori del canalone Marinelli, ma un’esposizione e una desolazione in parete decisamente maggiori. Passo atletico sulle picche per superare il muro della terminale, poi nella mostruosa rigola Fabio ed io decidiamo di slegarci: le possibilità di protezione sono tutt’altro che buone, e l’autonomia su un pendio del genere ci proietta in un mondo idilliaco in cui esitiamo solo noi e la grande parete… si sale, si scala e si pensa solo a quello, godendo del primo sole sulla schiena e badando a non ferire troppo il ghiaccio, procedendo con leggerezza. Dopo quello che è sembrato un minuto ci ritroviamo sotto i salti finali

della parete: qualche bella gulottina in piedi ci deposita sull’aerea cresta, appena sotto la cima italiana dedicata al generale Perrucchetti. La vetta svizzera saluta poco oltre, ma optiamo per scartarla e dirigerci verso la discesa. La cresta della normale del Bernina è molto più divertente di quella del suo dirimpettaio, troviamo fortunosamente alcune soste per aiutarci con la corda nei passaggi tecnici, esploriamo, non volontariamente!, un canale che sembrava diretto alla Marco e Rosa e che invece si mostra il punto più impegnativo della giornata, davvero ripido e con ghiaccio sottilissimo. Poco male, siamo in forma, recuperiamo senza farne tante la retta via e in velocità, per il canalone di cresta Guzza, rientriamo alla base. Il versante sud del Bernina si è rivelato davvero uno scenario grandioso per gli amanti di questo genere di salite, non particolarmente difficili, ma in uno scenario mozzafiato e con situazioni di progressione su neve, ghiaccio e roccia davvero entusiasmanti. Ci sono ancora molti itinerari di questo genere da esplorare, il topolino della Marinelli non resterà solo a lungo!


CHIOSA NECESSARIA. Nel momento in cui l’articolo che avete appena letto giunge in redazione, apprendiamo la notizia della morte di due alpinisti nel canalone Folatti, tra Cresta Guzza e Piz Argent. Il canalone non oppone difficoltà particolari, la pendenza è moderata se non negli ultimi 100 metri su un seracco, per la verità piuttosto smussato. Questa via fa parte di un trittico ideale, insieme alle due salite raccontate sopra, essendo nella stessa zona e su difficoltà e caratteristiche omogenee. Questo genere di scalate è però quello che presenta i maggiori rischi per gli alpinisti: gli esperti ne sottovalutano le difficoltà, i principianti le compiono per il “salto di qualità”. E’ un dato di fatto che un canalone di neve a 50° è al tempo stesso improteggibile e potenzialmente mortale in caso di scivolata. Bisogna quindi che la cordata sia costantemente consapevole della sua esposizione al rischio, e sappia valutare il proprio sistema di sicurezza in base alle condizioni individuali dei componenti: se questi sono dello stesso –buon- livello sarà buona norma che procedano slegati, gestendo ognuno il proprio margine di sicurezza; se invece un esperto scala con un compagno poco sicuro di sé sarà conveniente accorciare molto la conserva, nell’ordine di uno o due metri, di modo da prevenire la caduta del secondo, per non doverla arrestare del tutto. Và da sé che il margine di sicurezza del primo di cordata deve essere sempre abbondante, in caso di dubbi si procederà a tiri di corda o in conserva protetta, utilizzando tutti gli ancoraggi disponibili. In termini pratici, se per attraversare il ghiacciaio di Scerscen superiore è necessaria una conserva di almeno dieci metri, con eventuali nodi a palla, nel momento in ci si attacca il pendio, ovviamente a crepaccia terminale già superata, la detta conserva va prontamente ridotta o del tutto eliminata. Ne va della sopravvivenza della cordata: cinicamente parlando, un morto è meglio di due (o quattro, come è successo in analoghe condizioni sul monte Disgrazia un paio di anni fa), una singola scivolata è più facile da arrestare con il corretto uso delle piccozze rispetto al peso aggiunto del compagno. Non pretendiamo con queste righe di aver fornito un manuale di progressione su neve e ghiaccio, ma desideriamo che ogni alpinista si interroghi durante ogni ascensione Pizzo Roseg sull’effettiva sicurezza dei propri movimenti, e sui rischi che costantemente corre.

Scerscen

Pizzo Bernina

Rifugio Marco e Rosa

Rifugio Marinelli

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DI ALFONSO

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VINCI DA DAZIO di Alberto Benini

Periodicamente si assiste a una rinascita di interesse per Alfonso Vinci, uno dei figli più originali della Valtellina. Un personaggio capace di spaziare dalla filosofia, all’alpinismo, alla geologia, autore probabilmente della più bella via di ambito classico tracciata sulle pareti che versano la loro acqua nell’Adda. Forse il maggior scrittore mai nato in Valtellina. Ma la sua (relativa) fortuna continua a essere intermittente e non riesce ad affermarsi in modo permanente, consegnandogli un ruolo rinchiuso fra il recinto sempre più sconsolato della “letteratura alpinistica” e quello della memorialistica/

diaristica, un genere che in Italia non sembra avere, unitamente al racconto, un grande successo. Eppure andrebbe proposto agli autori di antologie per le scuole quale rappresentante novecentesco di quella letteratura d’azione cui Massimo Mila faceva riferimento introducendola pubblicazione dei diari di Gabriele Boccalatte. Dopo l’uscita delle sue Lettere tropicali, nel 1982 era stata Mirella Tenderini,nel 1989, a ripubblicare nella nascente collana dei “Cristalli di ALP” una nuova versione di Samatari, contemporaneamente alle Montagne di vetro di Dino Buzzati e a Le mani dure di Rolly Marchi. Un trio

coraggioso per un’operazione fortunata solo per metà. Certo, in generale, alla fortuna di Vinci non giova uno stile spesso di approccio non immediato, potremmo dire semplificando un po’, legato alla prosa degli scrittori sudamericani degli anni ’50 e ’60 coi quali sembra maggiormente imparentato che con la narrativa europea. In campo alpinistico ci avevano pensato nel 1988 Popi Miotti e

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Stefano Ardito ad intervistarlo, quasi contemporaneamente sulle maggiori riviste alpinistiche nazionali, riportando ad una presenza concreta e reale quello che per gli alpinisti era ormai soltanto un nome. Notevole sintomo dell’impermeabilità dei lettori dei libri di montagna ad altri generi letterari. Molto rilevante il convegno del 2005 a Sondrio nell’ambito del Sondrio Festival: Dieci milioni di chilometri intorno al mondo: Alfonso Vinci, Ulisse dei nostri 26 CAI MORBEGNO

tempi» promosso da Jacopo Merizzi, che non aveva mancato di sottolineare un aspetto non secondario e poco individuato: la giovane età di Vinci all’epoca in cui aveva compiuto le sue imprese. Il convegno aveva avuto un’eco nel successivo Festival di Trento con una bella mostra allestita dalla famiglia. Ma se pensiamo che il nome di Vinci non figura all’interno del libro di Alessandro Pastore Alpinismo e storia d’Italia, balza bene aglio occhi la sottovalutazione derivante

da un complesso di concause che non è questa la sede per analizzare nel dettaglio, ma che nell’insieme si rivelano abbastanza rivelatrici. Nel 2013 Luisa Mandrino gli ha dedicato un libro Vivere come se si fosse eterni che ambisce ad essere qualcosa di più di una biografia: una sorta di “romanzo di avventure ispirato alla vicenda di Alfonso Vinci” Personalmente l’operazione non mi convince (ma è un’opinione del tutto personale) perché al caso di Vinci la frase


dell’Amleto sembra attagliarsi a perfezione: “Ci sono più cose in cielo e in terra che nella tua filosofia”. Che bisogno c’è di romanzare una vita che è già un romanzo? A meno che quello della Mandrino non fosse uno stratagemma per risolvere le versioni discordanti e la difficoltà (per non dire l’impossibilità) di documentarsi come dovrebbe fare un onesto autore di biografie all’interno di una vita che è un intersecarsi continuo di storie. Comunque per venire più

modestamente alle montagne, cercheremo di riprendere qui la sua biografia alpinistica, evidenziandone alcuni aspetti, di sicuro interesse. E cominciamo col vedere l’attività che dichiara in occasione dell’ammissione nel Club Alpino Accademico, avvenuta nel 1939, ovvero quando ha 24 anni: una buona serie di salite in Grigna, fra le quali spiccano per difficoltà la Cassin al Sigaro e la Comici al Nibbio (ma non ci sono la Cassin al Costanza e la

Gandini al Cinquantenario), nelle Retiche “gran parte delle più note cime del MasinoDisgrazia-Bregaglia” fra le quali elenca: Sasso Manduino, Pizzo Ligoncio, Cime del Calvo, Pizzo Porcellizo, Trubinasca, Punta Torelli, Sant’Anna, Badile, Cengalo, Pizzi del Ferro, Pizzo di Zocca, Pizzi di Sciora, Pizzo Torrone, Monte Disgrazia, Pizzi Bruciati e poi: Bernina, Palù Bellavista, Cima di Musella, Pizzo Scalino. Prima ascensione invernale (con Luigi Binaghi, accademico comasco e pittore CAI MORBEGNO 27


Pizzo Cengalo 3367

Punta Angela 3215 A sinistra l'itinerario allo spigolo Sud -sud-ovest del Cengalo tracciato da Alfonso Vinci nel 1939

A destra, il Ligoncio da Ovest-nordovest con la via tracciata da Vinci nel 1938. Sotto, in arrampicata sullo spigolo Vinci. Nelle doppie pagine precedenti: lo spigolo Vinci ripreso da Ovest (pagina di apertura) e da Est, in secondo piano la Punta Sertori e il Badile.

nonché autore degli schizzi della guida di Bonacossa) del Pizzo Forato (2.968 m) in Val Chiavenna, il 22 febbraio 1939. Nelle Alpi Orobie dichiara di aver compiuto con Camillo Giumelli una lunga campagna nell’estate del 1935 quando vennero salite “quasi tutte le punte principali del gruppo centrale per vie non comuni e in parte nuove (non registrate) fra le quali il Pizzo di Diavolo di Tenda, la Punta di Scais, versante nord, il Pizzo Porola per il versante sud ovest, discesa dal canalone nord, Pizzo di Coca per il canalone nord e discesa per il canalone est, Pizzo Redorta, Pizzo del Diavolo Nord discesa per il versante est”. Molto ampia e varia l’attività nelle Dolomiti dove annota: “ Buona attività nel gruppo 28 CAI MORBEGNO

delle Pale di San Martino: Cima della Madonna per lo spigolo del Velo. Sasso d'Ortiga, Croda Grande, Monte Àgner, Lastei d'Àgner”. Nel Gruppo del Civetta supera la cima principale per la via Tissi. Affronta la Cima della Busazza per la via Videsott- Rudatis. Sulla Torre Venezia percorre diverse vie, tra le quali la Castiglioni-Kahn sulla parete Ovest ”aprendo su di essa un notevole variante diretta di 5° grado nell'estate 1936 (libro del Rifugio Vazzoler)”. Scala inoltre la Moiazza, il Castello e la Cima delle Nevere. Particolarmente notevole in questo gruppo, la terza ripetizione della Via TissiAndrich -Rudatis sullo spigolo ovest della Torre Trieste, “ via di 6° grado, alta 750 metri, salita in ore 8,30 (14

agosto 1938) da capocordata con Franco Nasoni”. Segnala inoltre una notevole attività in altri gruppi dolomitici, quali le Odle, il Sella, il Sassolungo e in molti gruppi delle Prealpi vicentine e bellunesi. Da ultimo Vinci menziona una discreta serie di sci alpinistiche: nelle Retiche Occidentali il Disgrazia, nelle Orientali il Cevedale. E poi il Monte Rosa, il Pizzo Bianco, il Colle del Turlo, il Col d'Olen, le capanne Gnifetti e Margherita , la Marmolada, l’Ortigara. Per quegli anni, nel complesso, un’attività di spicco, anche tenendo conto delle “facilitazioni” derivanti dall’essere un ufficiale degli alpini, ma senza dimenticare, per converso, che intanto stava per ottenere la seconda laurea. In occasione del convegno


Pizzo Ligoncio 3032

Punta della Sfinge 2802

sondriese avevo avuto l’occasione (e l’onore) di parlare del Vinci alpinista, precedendo l’intervento di Diego Di Donato, il suo primo editore, illuminato gentiluomo pugliese che esordendo, mi aveva ringraziato (figurarsi!) perché gli avevo fatto capire, a lui uomo di mare e di pianure, da dove derivasse a Vinci quel coraggio fisico straordinario che a dir suo (e c’era da credergli) era una delle sue caratteristiche più evidenti. Queste parole hanno rafforzato in me, lontano da ogni scontata retorica, l’impressione che davvero Alfonso Vinci abbia realmente, anche se non esclusivamente, acquisito quella straordinaria consapevolezza di sé proprio scalando le montagne. La sua attività è sempre

documentata in puntuali relazioni apparse sulla rivista del CAI alle quali si accompagnano due articoli ugualmente importanti Monti del Masino, regno del granito (”Le Alpi - Rivista Mensile” 1938 XVI Roma giugno-luglio vol. LVII n° 8-9) e L’evoluzione dell’alpinismo (”Le Alpi Rivista Mensile” 1938-39 XVII Roma febbraio vol. LVIII n° 4). Fermeremo la nostra attenzione sul primo che è una disamina lucida e direi quasi “scientifica” di quanto avvenuto negli anni che precedono e seguono l’uscita delle guida Masino Bregaglia Disgrazia (1936) opera del conte Aldo Bonacossa, ovviamente concentrata sulle imprese di “sesto grado” come è giusto che sia per un alpinista di punta. Eccone

l’inizio: Dove la potenza della montagna, abbandonata la coltre riposante dei ghiacciai si lancia verso il cielo più nuda; dove le catastrofi geologiche hanno mantenuto sul mare sconvolto delle pietraie un unico eccelso monolito, ivi può nascere un solo ardimento umano: la conquista del sesto grado. È su quella gigante isola di puro granito che sono i monti del Masino e della Bregaglia che l’impresa di sesto grado ha trovato una delle sue maggiori attuazioni, fuori dalla cerchia nativa delle Dolomiti. Qui infatti le forme più possenti delle nostre montagne sono rappresentate con una varietà e una costanza unica in tutte le montagne a costituzione arcaica. Ed eccolo, poco dopo, CAI MORBEGNO 29


enunciare chiaramente i parametri squisitamente sportivi che debbono essere utilizzati nella valutazione delle vie: Non si vuole qui portare in campo i soliti valori extrasportivi delle arrampicate su granito, quali l’elevata media altimetrica (generalmente superiori ai 3.000 metri), i grandi ghiacciai e i canaloni di neve nei quali quasi sempre si affondano le pareti, la lunghezza, talvolta enorme degli itinerari d’approccio, il clima nettamente da alta montagna ecc ecc. Codesti, in campo sportivo sono piuttosto non valori, valori negativi. 30 CAI MORBEGNO

Vogliamo piuttosto considerare l’arrampicata in sé e ponendoci così su un identico piano valutativo coll’arrampicata pura, accennare ad alcune notevoli differenze della estrema difficoltà in granito e in dolomia. Come già si è detto, esse derivano, e debbono sportivamente derivare, soltanto dalla diversa struttura geologica dei due tipi di roccia. La trattazione delle salite prese in esame nel seguito dell’articolo è preceduta da queste parole: La storia della conquista dei Monti del Masino si apre con nomi tedeschi; ma solo due

vie, e non le più belle, portano nomi stranieri; gli altri sesti gradi sono tutti italianissimi , e ciò ha maggior valore se si pensa che parte delle strutture più grandiose s’innalzano in territorio politicamente elvetico. Solo politicamente però, ché la Val Bregaglia manda le sue acque nella tranquillità del Lago di Como, e i suoi abitanti sono gli stessi di quelli del piano di Chiavenna. La disamina di Vinci si concentra nell’analisi di sette vie quasi tutte destinate a guadagnarsi lo statuto di classiche: Pizzi Gemelli Cresta NNO (Ferro da stiro) 1935


Nella pagina a fronte: la parete Est della Punta Sertori sulla quale sale una via di Vinci tracciata nel 1939. Al centro: Alfonso Vinci in arrampicata. A fianco e sotto: il monte Agnèr teatro di una epica salita di Alfonso Vinci.

Pizzo Trubinasca parete nord (Burgasser) 1935 Pizzo Badile parete nord-est (Cassin) 1937 Pizzo Badile parete nord –ovest (Castiglioni-Bramani) 1937 Pizzo Ligoncio parete ovest nord ovest che all’epoca non è ancora terminata, la concluderà proprio Vinci l’11 luglio del 1938 con Paolo Riva, ma che era stata oggetto di innumeri tentativi a partire dal “primo di Molteni e Valsecchi, a quelli dello scrivente, di Riva, di Pellizzari del Gruppo di Lecco, di Arcellaschi, di Riva (15 agosto 1937)” Punta Allievi parete est (BogaTizoni) 1937

Torrione est del Monte di Zocca spigolo sud-est (spigolo Parravicini) 1937 Curiosamente Vinci non mostra di conoscere l’esistenza della Gaiser-Lehmann al pilastro nord ovest del Cengalo che è del luglio di quell’estate di fuoco, che non a caso segue l’uscita della guida del Bonacossa, nella quale erano indicate quali questioni pendessero aperte nel gruppo. L’analisi è lucida, documentata, quasi asettica nell’individuare le cause della tragica fine di Molteni e Valsecchi e sembra veramente presentare “in nuce” tutte le caratteristiche della prosa del Vinci maturo.

Nel momento in cui scrive, nel suo carnet di apritore di vie nuove, c’è già una preda rilevante: la parete ovest del Castello delle Nevere, superata fra il 18 e il 19 agosto 1936 con Paolo, Riva e Camillo Giumelli. Una cima di 2.596 metri nel Gruppo del Civetta che “si manifesta per grandiosità nelle sue pareti rocciose occidentali, che si levano con un balzo di 900 metri fra le architetture più belle e articolate del Gruppo della Moiazza. […]… a detta dello stesso Rudatis, non resta di molto inferiore alle massime pareti delle Alpi”. Ma le due grandi estati del

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valtellinese-comasco saranno quelle del 1938 e del 1939. Nel ’38 chiude il conto col Ligoncio in compagnia di Paolo Riva l’11 luglio, facendo tesoro degli insegnamenti di Cassin al Badile e scegliendo un attacco meno diretto, ma più facile di quelli usati da Arcellaschi e compagni. Quattro giorni dopo è, col medesimo compagno, sulla ovest della Punta Milano. Una salita certo più breve e di minor impegno complessivo, dove trova pane per i suoi denti in “una fessura per la quale e la susseguente lastra liscia si raggiunge uno scomodo terrazzo inclinato (25 metri, 18 chiodi!)”. Nel 1939 si aggiudica con Gian 32 CAI MORBEGNO

Elia Bernasconi la parete ovest del Monte Agner (2872 m) nelle Pale di San Martino. Occorrono tre giorni (dal 15 al 17 luglio) per poter esclamare, alla fine: “Sotto di noi sta una delle pareti più alte delle Alpi…” Lucide, nel più puro stile Vinci, anticipatrici di un approccio anti-retorico al racconto di ascensione queste parole: Non c’è gioia nell’arrivo, non ci sono abbracci e strette di mano retoriche, non ci sono stupori verso il gigantesco panorama di valli e di nuvole, non ci sono entusiasmi. La poche parole negli ultimi tratti divengono aspre, dure: si ha in odio il compagno che è lento, l’ultimo salto che è duro, la nuvola che

minaccia, il vento che scuote le cime, lo stillicidio che intirizzisce In agosto torna nel Masino, nella zona della Capanna Gianetti, disegnando, il 14 agosto, con Riva e Bernasconi un curioso tracciato quasi “sinusoidale” sulla parete est della Punta Sertori (3.198 m) per poi compiere il suo capolavoro: lo spigolo sudsud-ovest della Punta Angela (Anticima Meridionale del Cengalo, 3.214 m). Occorre un giorno di scalata (il 16 agosto) per disegnare, con gli stessi compagni, questa “stupenda arrampicata di interesse superiore e di perfetta logica alpinistica”


Le prime salite di Alfonso Vinci sulle Alpi: 18-19 agosto 1936 Castello delle Nevere (Gruppo del Civetta) 11 luglio 1938 Pizzo Ligoncio (Gruppo del Masino Bregaglia) 14-16-17 luglio 1939 Monte Agnèr (Gruppo delle Pale di san Martino) 14 agosto 1939 Punta Sertori (Gruppo del Masino Bregaglia) 16 agosto 1939 Anticima meridionale del Cengalo (Gruppo del Masino Bregaglia)

Sopra: un ritratto di Alfonso Vinci A fianco: la parete Ovest-nord-ovest della Punta della Sfinge e del Pizzo Ligoncio.

Bibliografia nella quale esposizione, difficoltà, saldezza della roccia, varietà dei passaggi regalano a chi la percorre emozioni indimenticabili. Alla sua consacrazione, nel novero dei pochissimi in grado di aprire vie estreme tanto sulla dolomia che sul granito del Monte Bianco si frappongono gli eventi bellici che prenderanno avvio di lì a 15 giorni, con l’invasione della Polonia da parte della Germania hitleriana e che vedranno l’Italia coinvolta a partire dal giugno del 1940. E alla fine della guerra saranno altri teatri, alpinistici e non solo, a vedere Vinci come protagonista.

Interviste ad Alfonso Vinci: S. ARDITO in Incontri ad alta quota, Dall’Oglio, Milano 1988 e G. MIOTTI in “ALP” n° 43 (1988). Note biografiche in “ALP” n° 86 (1992) e presentazione di M.T. [Mirella Tenderini] in “ALP” n° 67 (1990). Vedere anche: Vita avventurosa di Alfonso Vinci da Dazio in “Valtellina magazine” n° 2 (giugno 1977) e Alfonso Vinci dalla Valtellina alle Ande in “Contract” n° 32 (2001). Gli articoli di Vinci relativi alle scalate sulle Alpi e pubblicati sulla “Rivista Mensile” del CAI sono: Monti di Masino regno del granito, in “RM”, 1938, pp. 421-427 (da integrare con la nota a pp. 166-167 di “RM” 1938-39); Evoluzione dell’alpinismo, in “RM”, 1938-39, pp. 204210; La parete ovest del Monte Agnèr, in “RM” 1939-40, pp. 415-420; Punta Sertori e Pizzo Cengalo, in “RM” 1940, pp. 42-44. La notizia del conferimento della medaglia d’oro al valore atletico si trova in “RM” 1940-41, p. 190. L’articolo di Paolo Riva La parete Ovest del Castello delle Nevere in “RM”, 1937, p. 281-282. Luisa Mandrino, Vivere come se si fosse eterni, Lecco, Alpine Studio, 2013,

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SCIALPINISMO NELLA

CORDILLERA CANTABRICA

di Andrea De Finis

Pratico lo scialpinismo dal 2010 e la voglia di prendere parte ad una spedizione lontano dalle Alpi è ormai in gestazione avanzata. L’occasione si propone all’inizio della scorsa stagione quando, dopo lunga e accorta manovra di corteggiamento, il Doc invita Mirko e il sottoscritto ad unirsi alla “spedizione” in terra di Cantabria che sta organizzando in fretta e furia con i suoi storici compagni di viaggio: obiettivo i Picos d’Europa.

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Il fatto che nel cappello introduttivo il termine spedizione appaia prima senza e poi tra virgolette non costituisce errore: effettivamente la trasferta cantabrica non può fregiarsi del titolo di spedizione, ma è da definirsi più modestamente come “settimana bianca extraalpina”. Poco importa! Si tratterà della mia prima volta con gli sci ai piedi lontano dalle Alpi, la compagnia è 36 CAI MORBEGNO

presentata come esperta e collaudata (e a posteriori aggiungo guascona e goliardica), la destinazione appare esotica: godersi mare e sole di Spagna è sicuramente piacevole ma abbastanza scontato, tastarne la neve appare invece quantomeno curioso. Inoltre, ma questo lo scopriremo solo in seconda battuta, Mirko e io, inconsapevoli, saremo testati per eventuali spedizioni (senza

virgolette) future, vedi Turchia orientale di lì ad un paio di mesi. Volando con frequenza per motivi lavorativi, considero normalmente il viaggio in senso stretto: inizia preparando la valigia al più presto il giorno prima del volo se non addirittura il giorno stesso e termina quando al rientro riverso il contenuto della stessa valigia in lavatrice. Questa volta il decollo non è


che una tappa del viaggio in senso lato, preceduta da una lunga e dettagliata opera di preparazione, a cui confesso di non aver dato alcun apporto (apprendimento passivo): logistica, organizzazione, studio del territorio, ricerca di eventuale reportistica, storico delle precipitazioni, il tutto all’insegna di un meticoloso lavoro di abbattimento e ottimizzazione dei costi. Di mio ci metto unicamente un’infarinata da Wikipedia della zona in termini storici e un paio di dritte enogastronomiche raccolte qua e là. Il 22 febbraio si parte. Linate-Madrid via Roma.

Dormo a Milano, in aeroporto ritrovo Doc e Mirko e faccio conoscenza con parte della truppa: Mao che, frequentando quelle zone per lavoro, tra una caña e l’altra (niente malizia, la caña è la locale birra piccola alla spina) ha avuto l’idea dei Picos; Vigilio e Denis dalla Magnifica Comunità di Fiemme per illustrarci dell’abete rosso e l’utilizzo che ne viene fatto dai mastri liutai; Emanuele, che vendendo apparecchiature per la risonanza magnetica si finanzia i giri in bici per tutto il globo; Umberto che fa delle vacanze una professione (a breve il suo resoconto pubblicato su

In questa pagina alcuni momenti della discesa dal Cuedo Redondo. Nelle pagine precedenti: in salita verso il Peña Regalia.

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“Bell’Europa”); quindi Bruno, che per descriverlo ci vorrebbe un intero articolo dedicato. A Roma è la volta di Roger, il quale, da buon ricercatore scientifico, si fa trovare attaccato al portatile e che mi cede di buon grado la gestione della cassa comune. A destino infine incontreremo Sonia, l’anima femminile del gruppo, l’indiscusso capo Paolo e Sole, il quadrupede che fa da mascotte. Atterrati a Madrid, subito in auto puntando a nord. La Cordillera Cantabrica è una sorta di appendice dei Pirenei che dai Paesi Baschi si estende verso ovest fin quasi alla Galizia; nonostante le quote modeste se paragonata agli standard della nostra 38 CAI MORBEGNO

Valle, i suoi versanti sono spesso verticali e creano gole profondissime pattugliate dall’alto da stormi di buitres (avvoltoi); le sue valli rimangono incastrate tra i monti che a nord precipitano in Atlantico e quelli che a sud le isolano dal resto della Spagna. Storicamente, credo io anche per la difficoltà di accesso dei tempi, parte proprio da qui la “Ruta de la Reconquista”: i Cristiani si organizzarono in queste zone prima di sferrare, capitanati dal Cid Campeador, l’attacco ai Mori e quindi riconquistare il resto della Spagna islamizzato. Tornando ai giorni nostri, questa conformazione fa sì che spesso il vincitore della Vuelta si decida su queste strade.

Provenendo da sud, scavalliamo la Cordillera dalla parte meridionale e di notte raggiungiamo Potes, il paesello che ci darà albergo fino al giorno del rientro. La neve è effettivamente caduta in maniera abbondante, ma purtroppo deturpata da molta pioggia e da temperature ballerine; il rischio valanghe è elevato tanto che, per non rischiare, in due occasioni ci vediamo costretti a cercare alternative anche all’itinerario automobilistico. In effetti il valore intrinseco delle diverse sciate non è da antologia, ma cornice, contesto ed atmosfera le rendono comunque memorabili. Al Peña Sagra (2030 mslm) subito emerge il fiuto di Paolo


che in piena bufera ci porta dritti alla vetta; il Peña Regalia lo raggiungiamo partendo dal Fuente De, dove veniamo a conoscenza che anche da queste parti esistono tutine; Il Pico Casquerres ci regala, sempre immersi nella bufera, alcune curve di polvere; da ultimo cronologicamente, ma primo della lista in quanto a gita il Cueto Redondo: il meteo benevolo e la vista del nucleo centrale dei Picos senza nubi fanno da eccezionale contorno ad una sciata finalmente di tutto rispetto. Le avverse condizioni meteo ci impongono di annullare le altre gite in programma, ma l’improvvisato “piano B” ci permette comunque piacevoli diversivi: una gita al mare

ad ammirare le scogliere che precipitano in mare creando scorci che rimandano a paesaggi tipicamente britannici; una sosta presso dei “furmagiatt” locali sotto l’attenta analisi di Mirko, vera e propria autorità in materia; un pieno di chuleton (di nuovo niente allusioni maliziose, si tratta di delicatissimo filetto) e vino tinto e un paio di zuppe di pesce che, data la vicinanza al mare, viene proposto come piatto tipico tra i picchi. Il giorno del rientro comincia col botto. Il Doc le pensa tutte pur di estendere la permanenza, dimenticandosi la valigia in appartamento e quindi obbligando metà Potes a svegliarsi di buonora per farcela recuperare: gli

stessi che ci hanno accolto benevolmente, probabilmente ci hanno salutato con un paio di sacramenti. Ci imbarchiamo mesti a Madrid ed ancora più mesti ci stiamo per dividere a Roma, quando sul telefonino ricevo una e-mail da Paolo: “Mirko e Andrea, se volete aggregarvi alla spedizione in Turchia, siete benaccetti” … Test superato…Tra due mesi saremo alle pendici dell’Ararat!

Sopra: in vetta al Cuedo Redondo

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NEVE DI TURCHIA di Franco Scotti

La leggenda narra che quando finì il diluvio universale Noè avesse non poche difficoltà a mantenere la calma dei suoi passeggeri animali e, poco prima di arenarsi sulle appena riemerse pendici del monte Ararat, due gatti bianchi riuscirono a sfuggire al controllo di Noè, si lanciarono in acqua e si misero a nuotare

verso la terra ferma. Erano i capostipiti del "gatto di Van", pregiata specie autoctona, bianca con un occhio azzurro e uno giallo, insolitamente a suo agio in acqua e in grado di pescare le aringhe nel lago di Van, assurta a simbolo di questa regione.

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Il lago di Van è il più grande lago della Turchia: 119 x 80 km ad una quota di 1700 m s.l.m. Si trova nell'angolo sud-est del paese nei pressi dei confini con Armenia, Iran, Iraq e Siria, origina dallo sbarramento di antiche eruzioni vulcaniche e non ha emissari. Nelle sue acque azzurre, che non gelano mai perchè ricche di sali minerali alcalini, si specchiano molteplici vette di 3000 e anche 4000 m che hanno stimolato la nostra curiosità di scialpinisti vagabondi, anche se la meta più prestigiosa della zona, ma pure la più turistica, è l’Ararat (m 5137). Ne ammirammo la mole nel 2012 dalla vetta del monte Aragaz (m 4090) in Armenia, a cui geograficamente appartiene 42 CAI MORBEGNO

e di cui è simbolo ufficiale nazionale in quanto sovrasta vicinissimo la capitale Yerevan, ma è mantenuto in territorio turco dal 1921 con la forza di un grosso dispiegamento militare. Questa regione, al confine fra medio oriente ed occidente, ha una complessa storia di contrasti etnici spesso tragici, come il genocidio armeno e l’ancora attuale “questione curda”, ed ora è molto vicina ai territori presidiati dall’ISIS, per cui alcune aree montuose non sono accessibili ai turisti. Questa atmosfera di tensione politica e sociale contrasta con la cordialità della popolazione curda che abbiamo avuto modo di apprezzare in varie occasioni. Ad eccezione dell’Ararat, non

esistono documentazioni o relazioni escursionistiche e tantomeno sci alpinistiche di questa zona per cui, sbarcati nel capoluogo Van, ci siamo affidati alla formula, già sperimentata in altri viaggi e molto stimolante, della scelta della meta"a vista", dopo solo un consulto della cartografia disponibile. L'orografia garantisce pendii regolari e spesso ampi e l'innevamento, presente seppur non abbondante dalla quota dei 2000 m , ci ha concesso magnifiche discese su firn primaverile. La meteo è stata bizzarra, un'alternanza di sole e rovesci nevosi con ventilazione più che vivace, e già alla prima "spellata", in una rabbiosa


Nella pagina a fronte: discesa verso il lago Van. Sopra: discesa dal M.Dagyöre (3130 m) e M.Tazarine (3045 m) A fianco: verso il M.Dagyöre. Nelle pagine precedenti: arrivo in vetta al Süphan Dağı (4058m)

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bufera, la mia pelle di foca nuova di zecca ha preso il volo verso la Siria! Il contesto di variabilità con cumuli primaverili, brevi rovesci nevosi, arcobaleni, ha colorato di sfumature e giochi di luce la magnifica salita al Süphan Dağı, imponente vulcano spento, che per Andrea è stato il primo "4000", dal dislivello impegnativo e discesa entusiasmante a picco sulle azzurre acque del lago. Segue il trasferimento di un centinaio di km a Doğubayazıt, alle pendici dell’Ararat, con le ultime luci del tramonto su uno spettacolare altopiano vulcanico a 2500 m di quota. Su lunga parte della strada, poco alla nostra destra, passa invece la cresta di confine con l'Iran, estremamente militarizzata. Il vento e la bufera comandano il gioco anche qui: dopo aver convinto i cavallanti, che trasportano cibo e tende, ad innalzare il campo dalla quota abituale di 2900 m a 3440 m, con l'intenzione di andare in vetta in una sola tappa, passiamo la notte a scalciare gli accumuli di neve che piegano le tende assordati dal frastuono dei teli che cercano di sradicarsi, e il mattino dopo dobbiamo rinunciare. Straordinaria l'efficienza degli accompagnatori curdi che, incuranti dell'inclemenza del tempo, con i cavalli che sprofondano nella neve fresca, abili e grandi conoscitori del percorso, riescono a salire sfruttando le dorsali più spazzate dal vento, e la sera, nella tenda mensa fra spifferi e pulviscolo nevoso, ci servono una cena completa dall'antipasto al dolce con le fragole! Sfumata la possibilità

di salire la vetta più nota e prestigiosa della zona, dopo un immancabile rigenerante Hamman con tanto di vigoroso e scorticante massaggio generale, ci rilassiamo assaporando l’imminente primavera sotto i mandorli in fiore dell’isola di Akdamar, che circondano la chiesa ortodossa della Sacra Croce, rara testimonianza della cultura armena nella regione. Le ultime due giornate ci regalano finalmente cielo blu con magnifici contrasti di colore, e ancora un ottimo firn tardo primaverile alle cime del M. Baset (3730 m), del M. Dagyöre (3130 m) e del M. Tazarine (3045 m), con l'aggiunta di fantastiche esperienze nei villaggi alla loro base! Pur essendo a pochi chilometri dalla strada principale, qui la gente continua a vivere di pastorizia in modeste costruzioni di legno e terra; la loro accoglienza ed ospitalità ogni volta ci sorprende. Dopo l’ultima discesa, al nostro ingresso al villaggio di Dagyöre siamo accolti come fossimo degli astronauti: tutte le donne e le ragazzine ci assalgono entusiaste, ci hanno seguito con lo sguardo durante tutta la gita, vogliono portare i nostri zaini con gli sci, provare i nostri occhiali da sole, ci scattano foto con le nostre fotocamere, ci invitano nelle loro umili case, assediano con particolare entusiasmo il giovane Mirco!. Forse gli uomini sono tutti al lavoro ma questa disinibizione collettiva è una sorpresa in un paese musulmano, e non posso fare a meno di pensare a un raffronto con la tipica diffidenza valtellinese nei riguardi dei “furest”.

Nella pagina a fronte, sopra: salita del M.Baset (3730 m) In basso: in vetta al Süphan Dağı (4058m) Qui sotto: bella neve sul M.Tazarine

Sintesi dell'attività svolta: 29 Marzo-10 Aprile 2015 Artos Dağı (3550 m) tentativo Nemrut Dağı (2813 m) Süphan Dağı (4058m) Ağrı Dağı (M.Ararat 5137 m) tentativo M.Baset (3730 m) M.Dagyöre (3130 m) M.Tazarine (3045 m)

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NE di Andrea Mottarella

L’Himalaya e i suoi 8000. L’Everest, il Sagarmatha, madre di tutte le montagne, il tetto del mondo. La montagna per eccellenza, teatro d’infinite imprese e cruenti tragedie alpinistiche. Quanti libri, quanti racconti e quante fotografie parlano di questa montagna e delle vallate circostanti, del suo popolo così forte e così umile. Una montagna talmente inflazionata che si può già 46 CAI MORBEGNO

dire di conoscerla, senza mai averla vista o vissuta in prima persona… ma non mi bastava e non bastava né a Daniele, né a Massimo, compagni di questa avventura un po’ surreale, che sto per raccontarvi. La decisione di partire fu presa all’unanimità: ciascuno di noi spinto dalle proprie motivazioni e, allo stesso tempo, frenato dalle proprie incertezze. Ci siamo sostenuti e spronati a vicenda. L’acquisto dei biglietti

aerei fu il passaggio che mise nero su bianco la data della partenza. Da quel momento, a patto di rimetterci un bel po’ di soldi, non fu più possibile tirarsi indietro. La scelta del periodo in cui partire è piuttosto obbligatoria per quanto riguarda l’Himalaya: verso la fine di marzo, infatti, vanno ad esaurirsi le correnti monsoniche e il sole comincia a scaldare maggiormente l’aria, rendendo


PAL il mese di aprile e quello di maggio ideali per i trekking e le spedizioni alpinistiche. Per la pianificazione e l’organizzazione del viaggio ci affidammo alle conoscenze dell’amico comune, Maurizio Folini, che, da diversi anni, presta il proprio servizio di pilota di elicottero in Nepal, per attività di soccorso e addestramento. Ricordo in particolare una cena, in sua compagnia, dove parlammo di

cosa portare con noi e di cosa invece non fosse necessario. La sua risposta e il suo consiglio non furono altro che il racconto della sua esperienza e dei suggerimenti a sua volta ricevuti e disse: -Solo il vostro spazzolino da denti-. Può sembrare assurdo, ma, oggi, se dovessi consigliare a qualcuno ciò che è veramente essenziale in un trekking lungo la valle del Khumbu, risponderei allo stesso modo, aggiungendo

solamente una buona scorta di bresaola e grana, che rendono la fatica e il recupero più sopportabili. E’ straordinario come la popolazione dei villaggi lungo il percorso del trekking si sia organizzata per soddisfare ogni necessità di noi “comodi” europei: wi-fi, corrente elettrica, farmacie, negozi di ogni sorta; insomma, fino alla quota di 3500 m circa, le esigenze di ciascuno possono essere facilmente appagate. CAI MORBEGNO 47


Prima di partire, ottenemmo, tramite il CAI, un’assicurazione che copre il recupero in elicottero in caso di infortunio e, non essendo necessario nessun permesso particolare per entrare in Nepal (solo il passaporto) e nessuna vaccinazione, il resto dell’organizzazione fu piuttosto semplice. Lungo il trekking saremmo stati accompagnati da una guida e da un portatore. Potrebbe sembrare inutile “assoldare” un portatore, ma io lo consiglierei: oltre che permettere una certa flessibilità sull’attrezzatura da portare con sé, si garantisce ad un nepalese un lavoro ben retribuito (mancia compresa), cibo e acqua in abbondanza; aspetti che non sono per nulla scontati. Il 15 aprile 2015, alle ore 23, 48 CAI MORBEGNO

partimmo da Milano Malpensa, in direzione Doha (Qatar), dove era previsto uno scalo di 3 ore. Il volo totale durò circa 14 ore e atterrammo all’aeroporto di Kathmandu verso le 15.30 del 16 aprile. Qui compilammo un documento per il visto turistico, che ci avrebbe permesso di sostare nello stato per 30 giorni. All’uscita dall’aeroporto trovammo ad accoglierci Lakpa Temba Sherpa (titolare dell’agenzia Monviso Treks & Expedition). L’impatto con Kathmandu non fu dei migliori. Se dovessi descriverlo in due parole non avrei dubbi: caos totale. In strada vige l’unica legge sovrana dove a sopravvivere è il più scaltro. I pedoni non possono certo attraversare leggendo le e-mail sul proprio smartphone. Concentrazione e

rapidità sono fondamentali per uscirne illesi. Le auto hanno magicamente aumentato la capacità massima di persone trasportate, i motorini possono sorpassare a destra, a sinistra, davanti e, quasi, quasi, persino al di sopra, e i ciclisti sono dei super eroi. A lato delle strade c’è di tutto: dalle scimmie alle galline, dall’uomo in giacca e cravatta all’uomo mezzo nudo e ogni genere di attività commerciale a cielo aperto, che si possa immaginare. E’ un vero casino, soprattutto per chi, come me, è cresciuto in Valtellina e ha un’idea di “caos” rappresentata dalla coda alla cassa di un supermercato o, al massimo, dal traffico della domenica sera per il rientro dei turisti. Il giorno successivo incontrammo la nostra guida,


Nella pagina a fronte: donna nepalese nei pressi dell’Everest View, poco prima del villaggio di Khumjung. A fianco: bambino nei pressi del villaggio di Phakding. Sotto: portatori su un ponte tibetano nei pressi del villaggio di Monjo 2835 m. Nelle pagine precedenti: Vista all’alba sul Tawache Peak 6495 m s.l.m.

un giovane ragazzo, tutto sorrisi e disponibilità, di nome Kulbir Rai. Salutammo Lakpa ed effettuammo una sorta di check-in per l’imbarco su un volo interno, che ci permise di raggiungere il villaggio di Lukla (2860 m) in circa 20 minuti. Il volo fu particolarmente suggestivo e potemmo osservare in lontananza le prime vette innevate dei colossi himalayani e, sotto di noi, il tipico paesaggio collinare nepalese, con villaggi composti da poche abitazioni e campi coltivati, sparsi ovunque. Atterrati a Lukla raggiungemmo un lodge (simile ad un rifugio

alpino), scortati da Kulbir, con il quale entrammo subito in confidenza: parlava molto bene l’italiano e aveva un’umiltà e una gioia straordinaria, che rompono facilmente quelle barriere che solitamente sorgono tra sconosciuti. Qui incontrammo Razkubyr Rai, fratello di Kulbir e nostro portatore. La prima tappa, che ci condusse al villaggio di Monjo (2835 m), fu poco impegnativa e procedemmo senza intoppi lungo un sentiero molto ampio e ben curato. Attraversammo il bellissimo villaggio di Phakding e, percorrendo i famosi ponti

tibetani, provammo le prime sensazioni di camminare nel vuoto. Il mattino dopo ci svegliammo accolti da una lieve nevicata, accompagnata da un freddo pungente. Consumata la colazione a base di chapati (pane indiano) e muesli, ripartimmo in direzione di Namche Bazar (3450 m), cuore della valle del Khumbu, dove si diramano tre vallate principali, collegate tra loro dal Renjo La pass, 5350 m, e dal Cho La pass, 5420 m. Proprio quest’ultimo è il passo che avremmo voluto percorrere, per poi raggiungere la valle CAI MORBEGNO 49


dell’Everest e la nostra meta: la cima del Kala Patthar. A Namche era giorno di mercato e fummo subito rapiti da questo villaggio scavato nella terra, come una grande arena di terrazzamenti su cui sorgono centinaia di abitazioni e di lodge. Purtroppo la nebbia non ci permise di godere della visione dei colossi himalayani. Alloggiammo nel nostro lodge, mangiammo e poi gironzolammo per il villaggio e i dintorni, dove cercai, con le mie macchine fotografiche, di catturare attimi e angoli suggestivi. La sera ci addormentammo con un leggero fastidio alla testa, assolutamente normale a quella quota, ma le preoccupazioni per l’acclimatamento erano comunque oggetto dei miei pensieri e fui sollevato di non essere l’unico a sentirne i primi sintomi. Il programma della giornata seguente prevedeva una salita fino a circa 3900 m, 50 CAI MORBEGNO

attraversando i villaggi di Khumjung e di Khunde, per poi scendere nuovamente a Namche Bazar e passare lì un’altra notte; ciò avrebbe permesso al nostro fisico di acclimatarsi meglio e più rapidamente. Al mattino ci svegliammo pieni di energia; lasciammo il villaggio e salimmo decisi a nord fino a 3700 m circa. Deviammo leggermente in direzione nordest e, in un istante, eccolo lì, come per magia, come d’incanto… finalmente i nostri occhi incontrarono il punto più alto della terra, l’Everest! Una piramide perfetta, scura, elegante nella sua maestosità e spaventosa nella sua grandezza. Ci fermammo, lo sguardo fisso su quella magia della natura. Oso solo immaginare quali siano state le sensazioni che i grandi alpinisti hanno avuto l’onore di assaporare solcandone la vetta. Lunedì 20 aprile lasciammo Namche, per inoltrarci nella valle del Khumbu, con destinazione Pangboche,

un villaggio situato a 3950 m circa. Non era questo il percorso programmato, ma, a causa delle intense nevicate stagionali, il passo che avremmo dovuto attraversare era impraticabile. Raggiungemmo Pangboche a metà pomeriggio e attirammo l’attenzione degli abitanti del paese con una pubblica scorpacciata di bresaola e grana. In quest’ occasione riuscimmo a socializzare anche con Razkhubir, incuriosito da queste pietanze sconosciute. Con lui, che si portò in spalla tutte le nostre inutili comodità, non fu facile instaurare un rapporto: sia per la lingua, sia perché non viaggiava con noi, ma lo incontravamo a destinazione. A mio parere i portatori sono gli eroi del Nepal. Quasi sempre sono uomini di piccole dimensioni, che trasportano sulla loro schiena centinaia di chili, per ore e ore, per giorni e giorni, in salita, in discesa, sulla neve,


sui sassi, con il sole, con la pioggia, con il caldo e con il freddo. Quello che però mi colpì, più di ogni altra cosa, furono le loro calzature: hanno una forte attrazione per le infradito, ma camminano anche a piedi nudi o con una specie di Superga senza suola. Insomma, non si pongono il problema della scelta fra scarponi, scarpe da trail, ammortizzazione, sistema anti pronazione.. loro semplificano il tutto prendendo ciò che hanno a disposizione o che raccattano lungo il sentiero. Mi sorprese vedere come, denudati dalle leggi della nostra società, sia stato per noi possibile condividere emozioni così reali con una persona culturalmente così differente. Ed è questa la grande magia della montagna: un ambiente che ti insegna a distinguere cosa è davvero essenziale, che ti insegna l'uguaglianza, ma soprattutto ti insegna l'umiltà, quella vera, quella di Razkubyr e di suo

fratello Kulbir. Penso spesso a loro con molto affetto, alle difficoltà che devono affrontare nel loro piccolo villaggio e spero davvero stiano bene. Il giorno dopo raggiungemmo Dhugla, a 4612 m. Durante la serata mi sentii poco bene, ma cercai di non preoccuparmene troppo. Anche i miei amici non stavano bene, ma i miei sintomi sembravano più importanti. Bisogna bere molto, è necessario che il fisico abbia una diuresi continua e frequente, per reagire il prima possibile e nel migliore dei modi all’aumento di quota. Inoltre, è necessario salire con calma e gradualmente, perché le conseguenze di un mancato acclimatamento possono portare all’edema cerebrale o all’edema polmonare. Oggi, ripensando a questa difficoltà del fisico ad adattarsi, mi rendo conto di come sia magnifico questo modo con cui la natura e la montagna impongono di rapportarsi a loro: attraverso

la calma, la pazienza e l’attesa nell’ascoltare il proprio corpo. Quella sera presi un antinfiammatorio e riuscii a dormire. Lasciammo il villaggio di Dhugla, per raggiungere le ultime abitazioni di Gorakshep, a quota 5170 m. Attraversammo il villaggio di Lobuche, per deviare, poco dopo, a sinistra e raggiungere la famosa piramide italiana dell’associazione EV-K2-CNR, centro di ricerca scientifica in alta quota. Venimmo accolti da alcuni nepalesi che lavorano lì e, con estrema ospitalità, ci venne concessa la possibilità di visitare l’interno di questa bellissima struttura. Proseguimmo il cammino al cospetto del Pumori e del Nuptse, in compagnia dell’infinita lingua glaciale, che ci apparì come un torrente in piena, dove i crepacci assumono la forma di onde impetuose. Raggiungemmo Gorakshep nel CAI MORBEGNO 51


pomeriggio, senza particolari difficoltà. Lungo l’ultimo tratto di cammino percorso, venimmo a conoscenza della possibilità di percorrere il Cho La Pass, poichè le condizioni metereologiche dei giorni trascorsi avevano ridotto la quantità di neve presente e di conseguenza il rischio valanghe. Valutammo le nostre condizioni fisiche e decidemmo che l’indomani avremmo provato la salita alla cima del Kala Patthar, 5643 m, e il giorno successivo avremmo potuto proseguire con il programma di origine. Fin dall’inizio, ancora prima di partire, abbiamo preso le 52 CAI MORBEGNO

decisioni insieme, sostenendoci a vicenda e con il tacito accordo di rinunciare nel caso in cui qualcuno non fosse stato nelle condizioni di continuare. Ciò rese il nostro gruppo affiatato e ci permise di confrontarci sempre con molta sincerità e schiettezza. La salita al Kala Patthar, anche se priva di qualsiasi difficoltà alpinistica, rappresentava per noi il traguardo di questo viaggio e quella notte fu molto difficile prendere sonno. Ci svegliammo presto, il cielo era ancora scuro, le stelle apparivano più vicine e l’atmosfera che si respirava intorno al lodge era di silenzio

e di grandezza. Mi sentii elettrizzato: il desiderio di partire e raggiungere la meta isolò la mia mente da ogni pensiero e preoccupazione non orientato a questo momento. Erano circa le 6 di mattina e, alle nostre spalle, le luci dell’alba scaldarono l’orizzonte con sfumature d’arancio e illuminarono la sommità del Thamserku e dell’Ama Dablam, esaltandone la maestosità. Di fronte a noi, alle spalle dell’Everest, raggi di luce esplosero in fasci lineari, che traboccarono lateralmente, quasi come se la luce facesse fatica a sormontare il tetto del mondo. Quando raggiunsi


che mi accompagnò per l’intera giornata. A Zonglha ricevemmo un’accoglienza davvero piacevole e passammo una bella serata al centro del salone del Lodge. È infatti abitudine dei nepalesi radunarsi intorno alla stufa, rigorosamente alimentata con escrementi secchi di Yak, per scaldarsi e per condividere qualche battuta in compagnia. Il giorno dopo era il 25 aprile; ci alzammo presto, impazienti di constatare con i nostri occhi le reali condizioni metereologiche. Uscimmo all’esterno, dove venimmo accolti da una lenta e leggera nevicata che già aveva trasformato il paesaggio circostante. Kulbir, però, ci confermò la possibilità di raggiungere il Cho La pass. Discutemmo tra di noi e forse per la prima volta ci trovammo in difficoltà nel decidere cosa fare. Massimo, da qualche giorno, accusava disturbi digestivi e ci disse che preferiva tornare indietro. Daniele, che con la salita al Kala Patthar aveva la vetta cominciai a scattare fotografie all’impazzata e, con il resto del gruppo, mi fermai ad osservare la montagna più alta della terra. Eravamo a 5640 m e lei era ancora così incredibilmente alta e lontana. La sua cima era già soffiata dal vento, con una forza e un’energia quasi percepibile. Non ci trattenemmo molto sul Kala Patthar; dovevamo infatti scendere e tornare al villaggio di Lobuche, per poi raggiungere Zonglha, destinazione del giorno successivo e punto di partenza per il Cho La Pass. La soddisfazione di essere arrivato lassù mi regalò una sensazione di appagamento,

raggiunto il suo obiettivo, si rese disponibile a qualsiasi destinazione. Io, avendo superato le difficoltà iniziali, godevo finalmente di buone condizioni fisiche e desideravo continuare per immortalare, attraverso le mie fotografie, più luoghi possibili di questa avventura. Decidemmo comunque di tornare indietro e partimmo con destinazione Dingboche, dove arrivammo verso mezzogiorno. Prendemmo posto in fondo al grande salone del lodge, vicino a grandi vetrate che permettevano di allungare lo sguardo sulla vita del villaggio. Kulbir e suo fratello si sedettero distante da noi, una consuetudine che si ripeteva ad ogni pasto e che ci faceva terribilmente arrabbiare. Non so perché lo facessero, forse per rispetto o per timore di darci fastidio. Mentre consumai in tranquillità un piatto di momo (ravioli nepalesi), le vetrate della sala cominciarono a sbattere, come se si fosse alzato un forte vento. Questa sensazione venne confermata da Massimo

In alto: Razkhubir, (nostro portatore) sulla piana di Pheriche, alle sue spalle l’Ama Dablam 6812 m e il Thamserku 6623 m. A fianco: il ghiacciaio del Khumbu. Nelle pagine precedenti a sinistra: bandiere di preghiera sventolano al cospetto dell’Ama Dablam 6812 m, a destra Il villaggio di Namche Bazar 3440 m.

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che esclamò:-Senti che vento! Lo diceva Kulbir che qui nel pomeriggio soffia sempre forte…-. Passò qualche secondo e il tremore aumentò senza sosta, che venne interrotta solo dall’esclamazione decisa di un alpinista cinese:Earthquake, earthquake!!!(terremoto, terremoto!!!). Ci alzammo tutti rapidamente e corremmo verso l’esterno. Lungo il corridoio fummo sbattuti a destra e a sinistra in un interminabile istante di angoscia. Raggiungemmo l’esterno, dove udimmo frane e valanghe tutt’intorno a noi (secondo me bisogna specificare che non si VEDEVA 54 CAI MORBEGNO

nulla). Restai senza fiato, con lo sguardo fisso verso la montagna. Solo qualche attimo, poi tutto tornò come prima. La neve scendeva lentamente. Alcuni nepalesi, che stavano costruendo un’abitazione di fronte al nostro lodge, tornarono al loro lavoro. Kulbir ci tranquillizzò subito:-Normale normale!!- disse -Uno o due all’anno qui. Normale!!!-. Le sue parole e l’immediata ripresa delle attività da parte della popolazione del villaggio, quasi come se nulla fosse successo, ci tranquillizzarono e rientrammo nel lodge. Da quel momento in poi, però, notizie catastrofiche ci raggiunsero come una raffica

di mitra e aumentarono il panico e la tensione dentro di noi. Cominciarono ad arrivare anche le prime informazioni tecniche. L’epicentro del sisma, di magnitudo 7.8, fu rilevato a Pokhara, un paese a circa 150 km da Kathmandu e a 280 km da noi. Aveva provocato migliaia di vittime e innumerevoli danni nella capitale nepalese. In seguito le informazioni arrivarono sempre più drammatiche e sporadiche a causa dell’intasamento delle linee telefoniche. Giunse anche la notizia di una valanga al campo base dell’Everest, che lo aveva investito provocando diverse vittime. Il numero


di decessi a Kathmandu andò crescendo in modo esponenziale con il passare delle ore. Il pensiero che avremmo potuto trovarci sul Cho La pass, proprio all’orario della scossa, ci invase. Cominciarono anche a sorgere in noi alcuni dubbi su come avremmo dovuto organizzarci nei giorni a seguire. I problemi e le nostre preoccupazioni maggiori furono rivolte alle scosse di assestamento, che comunemente si susseguono alla scossa principale, al giorno e all’ora del volo di rientro da Lukla a Kathmandu, che, per nessun motivo, potevamo perdere. La tranquillità e la

sicurezza che Kulbir dimostrò inizialmente si trasformarono in timore e preoccupazione, soprattutto per la condizione della sua famiglia che viveva a Kathmandu e che non riusciva a contattare. Decidemmo di partire il giorno successivo, con destinazione Khumjung. Qui sapevamo dell’esistenza di un lodge gestito da un italiano, l’alpinista Floriano Castelnuovo di Lecco, al quale avremmo potuto chiedere riparo e consigli. Khumjung era distante 2 giorni di trekking dalla nostra posizione, ma decidemmo comunque di provare a raggiungerlo l’indomani. Riuscimmo a comunicare con i nostri parenti in Italia, banalizzando la situazione, con lo scopo di non creare in loro eccessive preoccupazioni. Quella sera il cielo ci regalò uno spettacolo unico. La perturbazione si dissolse completamente in una limpidezza unica, riempita da un’esplosione di stelle, che illuminarono tutt’intorno le alte vette himalayane. La mattina successiva ci svegliammo presto; raggiungere Khumjung da Dingboche in un solo giorno richiedeva molte ore di cammino e non potevamo sapere quali imprevisti avremmo incontrato e quanti danni il sentiero avesse subìto durante il terremoto. Procedemmo di buon ritmo senza grosse difficoltà. Restai molto stupito nel vedere come la popolazione avesse reagito immediatamente, con un grande spirito di

sacrificio e desiderio di andare avanti. Le strutture, quasi tutte costruite a secco, o con l’utilizzo di pochissimo cemento, risultavano per la maggior parte segnate dal terremoto, soprattutto ai piani alti e nei sottotetti, dove, con tutta probabilità, l’oscillazione era stata maggiore. Superati alcuni villaggi, il sentiero cominciò a scendere deciso, quando, ad un tratto, mi fermai impietrito. La terra si mosse tutt’intorno. Qualche secondo e mi resi conto che si trattò di una scossa di assestamento. Una ragazza francese, che stava camminando davanti a me, si voltò e mi afferrò per un braccio stringendolo. Guardammo entrambi verso l’alto, con il terrore di vedere qualche masso crollarci addosso. Furono secondi interminabili, una sensazione d’impotenza mi invase. La montagna si spostava a destra, a sinistra e poi ancora a destra, con una forza che potei percepire. Durò qualche istante e poi tutto si placò in un’atmosfera di silenzio assoluto. I nostri passi successivi furono sempre più rapidi: sapevamo che trovarsi nel fondo valle con quelle scosse era rischioso e per questo dovevamo raggiungere Khumjung il prima possibile. La sua posizione, che poggia su un altopiano, ci avrebbe messo al sicuro dalla possibilità di frane. Attraversammo il ponte tibetano con il cuore in gola, sperando di non avvertire un’ulteriore scossa

Sopra: l’Everest dalla cima del Kala Patthar 5643 m. Nelle pagine seguenti, a sinistra: danni provocati dal terremoto ad una abitazione lungo il rientro al villaggio di Lukla. A destra: da sinistra a destra Massimo, Maurizio, Andrea e Daniele presso il villaggio di Lukla.

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proprio in quel momento. Ci arrivarono nel frattempo nuove notizie: l’aeroporto di Kathmandu era stato chiuso per danni alla pista principale, oltre che alla struttura, e di conseguenza erano sospesi anche i voli da Lukla. Il numero delle vittime a Kathmandu continuava ad aumentare. I dubbi e gli interrogativi, circa i giorni seguenti, crescevano nella nostra mente, fino a quando, nel tardo pomeriggio raggiugemmo, esausti, il villaggio di Khumjung. La gente aveva già iniziato ad organizzarsi, alloggiando in tende montate nei campi circostanti. Attraversammo il paese e trovammo finalmente il Panorama Inn Lodge, dove venimmo accolti da Doma, una donna nepalese, che ci offrì la possibilità di dormire all’esterno del lodge, in una specie di gazebo con il tetto in lamiera. Accogliemmo di buon grado la nuova sistemazione 56 CAI MORBEGNO

e scoprimmo che Doma è la moglie di Floriano e che lui era in Italia per impegni di lavoro. Mi sentii finalmente più sollevato, perché qui potevamo stare tranquilli in caso di nuove scosse. Aiutammo la famiglia di Doma e alcuni nepalesi a montare delle tende nel prato e cercammo di renderci disponibili verso chi aveva bisogno. Il tempo peggiorò nuovamente e con lui i miei pensieri. Le preoccupazioni erano rivolte al rientro a Kathmandu: mi chiedevo se avessero riaperto l’aeroporto e, come e dove, avremmo passato i tre giorni che precedevano il volo di rientro in Italia e che avremmo dovuto trascorrere proprio nella capitale. Durante la notte sentimmo ancora un paio di scosse , ma per fortuna furono leggere e non provocarono ulteriori danni. Il giorno successivo aiutammo nella ricostruzione del muretto che delimitava il lodge e

ripulimmo il sottotetto da tutti i sassi crollati. Fu importante impegnare la mente in qualcosa e fummo felici di sentirci utili in qualche modo. Riuscimmo a telefonare a Lakpa, che fortunatamente ci confermò il volo da Lukla a Kathmandu per il primo di maggio, e a Maurizio che, nel frattempo, era stato chiamato in Nepal, con urgenza, per effettuare i soccorsi in elicottero al campo base e ai campi avanzati dell’Everest. Soccorsi che a quelle quote richiedevano una certa dose di esperienza e di capacità. Kulbir ricevette informazioni sulle condizioni del sentiero che collegava Namche a Lukla, che risultava piuttosto praticabile. Decidemmo di partire l’indomani mattina per Lukla. Viaggiammo veloci e senza particolari difficoltà. Il terremoto, almeno in questa parte del Nepal, sembrò essersi definitivamente placato e la


popolazione era all’opera nella sistemazione dei danni subiti. La sera ci ritrovammo a cena con Maurizio e fu un momento magico, all’insegna dei racconti delle nostre disavventure, ma anche dell’esperienza unica che stavamo vivendo. Lui ci descrisse i soccorsi effettuati e, in particolare, le condizioni devastanti del campo base dell’Everest. Riuscimmo, per la prima volta, a mangiare fianco a fianco con Kulbir, impedendogli di servirci i piatti e obbligandolo a restare seduto a scherzare con noi. Non nego che fummo costretti ad utilizzare un piccolo ricatto per ottenere questo risultato: “No cenare qui, no mancia”. Funzionò alla grande! Quando penso al Nepal e devo raccontare cosa mi ha colpito più di ogni altra cosa, penso proprio a Kulbir, a quella sua semplicità e a quella sua umiltà, senza confini, che ti riempie il cuore d’immenso, prima ancora delle montagne più alte della terra. Partimmo per Kathmandu la mattina del giorno dopo. Prendemmo un volo interno, che effettuò uno scalo all’aeroporto di Biratnagar , vicino al confine con l’India. Qui venivano dirottati tutti i voli minori, per evitare di intasare l’aeroporto di Kathmandu, che era già sufficientemente trafficato dagli aerei cargo per gli aiuti umanitari e per i voli di emergenza gestiti dalle ambasciate dei vari stati. Giunti nella capitale trovammo ad attenderci Lakpa, con cui attraversammo Kathmandu, per dirigerci verso casa sua. Lo sguardo era continuamente colpito da flash di distruzione e di persone, che si erano

radunate nei parchi e nei giardini, in accampamenti di fortuna. Arrivati alla casa di Lakpa, che fortunatamente aveva subito pochi danni, incontrammo due simpatici ragazzi bresciani, che come noi erano stati coinvolti dal terremoto durante il loro trekking e aspettavano il volo di ritorno in Italia. Confrontammo le nostre esperienze, nell’attesa di pranzare e ci dissero che lì vicino c’era un’agenzia della nostra compagnia aerea, dove avremmo potuto chiedere di anticipare il volo. Decidemmo quindi di farci accompagnare subito da Lakpa presso l’agenzia e riuscimmo a prenotare il volo già per il giorno stesso e così, dopo pranzo, tornammo all’aeroporto di Kathmandu e ci imbarcammo. Era il primo maggio 2015 e il nostro sogno e la nostra avventura stavano ormai per terminare. Di tutte le fantasie che hanno affollato la mia mente in quelle settimane

precedenti la partenza per il Nepal, la più remota è stata senza alcun dubbio quella che poi si è tramutata in realtà. Una fortuna a due facce: quella che prima rovina il sogno e quella che poi ti assiste nel prendere le giuste decisioni (a cosa ti riferisci esattamente? ti cambia nell’anima?). A distanza di qualche giorno, tornato alla mia comoda realtà, inizio a metabolizzare quanto ho vissuto. Non posso fare a meno di pensare a quel popolo che, con il semplice sguardo, cattura il tuo cuore grazie ad un'umiltà e ad una sincerità, che fino ad allora non credevo esistessero. Un popolo privato di quel nulla che aveva, al quale è chiesto uno sforzo ancora più grande del sudore che versa ogni giorno con il suo duro lavoro. Oggi voglio pregare per loro e, con l'ottimismo che contraddistingue i loro magici sorrisi, augurar loro di rialzarsi e ripartire al più presto.

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ALPINISMO GIOVANILE Un anno intenso di Riccardo Marchini

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Il 2015 è stato dedicato all’amico Nicola Martelli, anima dell’Alpinismo Giovanile provinciale, deceduto lo scorso anno in circostanze drammatiche nel gruppo del Bernina. Due gli eventi con i quali l’AG ha voluto ricordarlo. In maggio gli è stato intitolato l’Anello della Scala dei Pizzi, percorso escursionistico ideato da Nicola nel 2005 e realizzato dalla Sezione Valtellinese del CAI con il coinvolgimento del Liceo Scientifico Carlo

Donegani di Sondrio. Il sentiero si snoda da Cagnoletti, all’ingresso della Valmalenco, e raggiunge, dopo una bella salita nel bosco e un affaccio panoramico sulla vallata, i nuclei di Pizzi e Marsciana, per poi ritornare al punto di partenza lungo il versante sinistro della valle del Valdone. Il secondo appuntamento, ancora più coinvolgente, ha raccolto il 28 giugno, nel 1° anniversario della scomparsa, ragazzi, accompagnatori e amici alla Punta Marinelli per la posa di una targa a ricordo di Nicola e di sua moglie Carla. La Punta Marinelli, nei

cui pressi Nicola ha trovato la morte in una gelida notte di bufera, era luogo a lui particolarmente caro. Per l’occasione è stata modificata la denominazione della Scuola che dal 2016 si chiamerà “Scuola di Alpinismo Giovanile della Provincia di Sondrio Luigi Bombardieri e Nicola Martelli”. L’attività annuale della Scuola si è svolta con un cambio di formula rispetto agli anni passati: non più un corso, ma una serie di escursioni aperte, fra le quali i ragazzi hanno potuto scegliere in base alle loro preferenze e ai tempi dettati dagli impegni famigliari. La partecipazione è stata discreta, anche se inferiore rispetto al passato. CAI MORBEGNO 59


La nota positiva, almeno per la nostra sezione, è che dei 40 ragazzi che hanno aderito al programma di uscite, 9 provenivano dal CAI Morbegno. Le escursioni sono state varie per la scelta delle mete e stimolanti per i temi trattati: 13 uscite per tutti, aventi come temi l’ambiente innevato, l’etnografia, la geologia, la flora, la fauna, l’orientamento, 60 CAI MORBEGNO

le tecniche di arrampicata e la vita in rifugio (due pernottamenti); 2 uscite invernali con pelli di foca per i giovani di 3a fascia (14-17 anni); Trekking di 6 giorni in Alta Valtellina per i giovani di 2a e 3a fascia (12-17 anni); 1 uscita in ferrata (Centenario al Resegone) per i giovani di 2a e 3a fascia.

Che dire; il trekking, che ha visto la partecipazione di 14 giovani (4 le ragazze), ha riscosso, come già negli anni passati, un alto gradimento, tanto più che prevedeva come momento significativo la salita, facile ma non banale, al pizzo Tresero; la ferrata, con il suo fascino di esperienza alle soglie dell’alpinismo, ha coinvolto una decina di ragazze e ragazzi,


desiderosi di confrontarsi con qualcosa di più impegnativo rispetto alla normale attività escursionistica. Anche le gite più “tranquille” hanno offerto momenti interessanti di crescita culturale. E’ il caso, ad esempio, dell’escursione al Sasso Malascarpa nel Triangolo Lariano, nel corso della quale è stato affrontato, fra l’altro, il tema delle piogge acide

ricorrendo a qualche semplice esperimento effettuato in loco sulle rocce carbonatiche. Oppure è il caso dell’uscita sul “Sentiero del contrabbando e della memoria” da Baruffini al Sasso del Gallo, dove un’istruttiva dimostrazione di confezionamento di una “bricolla” utilizzata dagli “spalloni” per il trasporto della merce attraverso il

Nella pagina a fronte: in vetta alla Punta Marinelli. Sopra: ciaspolata in val Viola e arrampicata sulla falesia di Tronella. Nelle pagine precedenti: in cordata lungo l'itinerario al Tresero.

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confine ha arricchito le spiegazioni a voce di quel particolare fenomeno sociale che ha caratterizzato la nostra provincia in anni passati. Intenso anche il rapporto con le scuole della provincia. Ricordiamo che dal 2012 esiste un protocollo d’intesa fra il MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) e il CAI che prevede momenti di collaborazione rivolti agli alunni delle scuole di ogni ordine e grado, aventi come obbiettivo la conoscenza della montagna e la crescita motoria nelle discipline di carattere alpinistico. Abbiamo iniziato a febbraio partecipando 62 CAI MORBEGNO

alla settimana di laboratori organizzata dalla Scuola Media di Ponte in Valtellina, per continuare in aprile e in maggio con incontri dedicati all’orienteering presso l’ITIS Mattei di Sondrio e il Liceo Scientifico Donegani pure di Sondrio, senza trascurare le scuole primarie (Castione, Chiesa in Valmalenco, Campovico, Morbegno) con le quali abbiamo condiviso giornate di giochi aventi come tema la montagna. Di particolare spessore, in ordine a quanto previsto dall’accordo MIUR-CAI, lo stage di tre giorni al rifugio Gerli-Porro con La 1a classe del Liceo Scientifico

Sportivo di Sondrio e la settimana “La Scuola incontra la Montagna”, rivolta a due quinte classi dei licei di Sondrio e Chiavenna, organizzata dalle fondazioni Bombardieri e Credito Valtellinese, alla quale la nostra Scuola ha contribuito con la presenza di due suoi Accompagnatori. Ed ecco un po’ di numeri per illustrare la nostra ricca attività: Giornate attività AG: 22 Giornate attività Scuole: 57 Giovani AG (8-17 anni): 40 Studenti coinvolti: 550 Accompagnatori AG: 23 Aiuti: 3 Insegnanti coinvolti: 35


E per il 2016? Il programma è già pronto. Dobbiamo solo valutare la concreta effettuabilità del trekking. 13 marzo Ciaspolata con giochi sulla neve al lago Palù. 3 aprile Escursione etnografica al Mulino Menaglio di San Rocco di Teglio 17 aprile Escursione geo-morfologica alle Piramidi di Postalesio 1 maggio Escursione botanica al Monte Barro 22 maggio Anello della Scala dei Pizzi (la sentieristica)

5 giugno Raduno regionale di Alpinismo Giovanile Settimana estiva 11 luglio Da Campagneda alla Val Poschiavina 12 luglio Cima di Dassola 13 luglio Arrampica-orientarsi ai Bagni di Màsino 14 luglio Salita al rifugio Bignami (pernottamento) 15 luglio Traversata al rifugio Carate per la bocchetta di Fellaria e salita al Monte delle Forbici 16 luglio

Visita alle cave di pietra ollare dell’Alpe Pirlo Per i soli ragazzi over 13 Dal 25 al 30 luglio Trekking nelle Dolomiti bellunesi con salita alla Tofana di Rozes 27 e 28 agosto Rifugio Grassi (pernottamento) e Pizzo Tre Signori” 18 settembre Ferrata del Torrione Porro

Nella pagina a fronte: foto ricordo al rifugio Pizzini. Sopra: verso il rifugio V alpini.

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CAIMORBEGNOATTIVITÀ

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SCIALPINISMO CHE Il mio corso con il CAI Morbegno di Marco Marchetti

Lo scialpinismo mi affascina da sempre, da quando l’ho scoperto qualche decennio fa. Ma la vita e le sue “esigenze” per fatti vari e coincidenti mi hanno tenuto lontano dal praticarlo. Poi sempre lei, la vita, mi ha dato l’occasione di conoscere il CAI di Morbegno; forse tardi per l’età che ho ma doveva andare così ed è comunque meglio che non averlo incontrato affatto. 66 CAI MORBEGNO


PASSIONE

Il CAI di Morbegno e i suoi corsi, i suoi istruttori e i suoi soci e, grazie a loro, lo scialpinismo e la montagna così diversa da come la vedevo e la conoscevo prima. Non è cambiata lei ovviamente, è mutato il mio modo di vederla. Lo scialpinismo, un sogno che deve essere vissuto con la forza e la determinazione di un lupo e la dolcezza di un rapace in volo, una scoperta di tutto ciò che ci circonda

e che qualcuno ci ha donato (in prestito, non per sempre e non come proprietà) e ciò che abbiamo dentro (ciò che siamo veramente nel nostro intimo), una conquista di se stessi da parte della montagna e di tutto ciò che essa è (come ho sentito già dire non si conquista la montagna è lei che conquista noi). E’ incredibile da pensare ma la montagna vissuta con questo corso, nell’inverno del 2015, ha

lasciato dentro di me un pezzo di quel mondo occupando una parte, certo tutt’altro che piccola, del mio essere. Sembra strano ma il vivere quotidiano è diventato, grazie “all’andare in montagna con le pelli ai piedi prima e lasciando scie dietro dopo” con quei ragazzi del CAI di Morbegno, meno pesante e difficile. Difficile è diventata l’attesa della neve, che sembra non arrivare mai; pesante CAI MORBEGNO 67


è diventato il guardare i propri sci fermi ad attendere, intollerante attendere la stagione che verrà. Questo combina il corso scialpinistico del CAI di Morbegno in chi lo ha frequentato. Troppo poche le lezioni teoriche per quanto siano bravi i docenti, per come ti sanno coinvolgere ed appassionare e per quante cose ci sono sempre da imparare. Troppo poche le uscite per quanto è bello andare con le pelli ai piedi in salita e giù “a tuono” in discesa; per quanto è entusiasmante e totalizzante la

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montagna. Avevo paura di non essere alla loro altezza, e forse è anche vero, ma sono stati capaci di far sì che non me ne accorgessi (o quasi, non esageriamo). Temevo di non riuscire a stare loro dietro in salita come in discesa ma hanno avuto la forza di sopportare “una palla al piede” per insegnarmi e trasmettermi quanto più potevano del loro “saper andare in montagna”. Sapevo di non sapere sciare come dovevo e hanno avuto la capacità di impostarmi subito al meglio grazie a pochi facili accorgimenti tanto da non


farmi mai sentire ridicolo al loro confronto. Si inizia questo corso con tanto amore e interesse per lo scialpinismo e si termina con una malattia che ti pervade e dalle quale sei cosciente di non poter più guarire. Loro, gli istruttori ed il CAI tutto, hanno fatto tanto per “ammalarti” trasmettendoti il germe che ti infetta e ti penetra nel sangue. La montagna poi fa il resto; con il suo urlante silenzio, con i suoi maledetti strapiombi che ti attirano e ti respingono in una sorta d’infinito balletto tra l’amore e la repulsione che il vuoto ti crea dentro, con i

suoi canali vertiginosi dove gettarsi è l’unica cosa che devi fare quando li guardi dall’alto, con le sue discese impossibili da fare ma che devi fare, con la sua solitudine che unica nella bolgia veramente mortale della vita ti fa sentire vivo e ti da un senso all’esistenza. Non so perché amo lo scialpinismo e forse non lo sanno neanche al CAI di Morbegno, ma non ha alcuna importanza ciò. Importante è amare la montagna, andarci il più spesso possibile e rispettarla. Non sappiamo il perché ma non è importante sempre sapere e

Le uscite con gli sci 17 gennaio Selezione Alpe Palù 18 gennaio Cima della Rosetta 25 gennaio Passo di Porcile 11 febbraio Pian dei Cavalli 15 febbraio Piz Belvair 22 febbraio Alpe Piazza 7-8 marzo Rifugio Jenascth salta al Piz Surgonda e al Piz D'Agnel

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capire. Ogni uscita ha avuto la sua magia e ha lasciato dentro i suoi indelebili ricordi; i volti, le frasi, i sorrisi, le battute, gli insegnamenti e la gioia di essere lì e non altrove. Anche salite facili hanno dato emozioni eccelse e vera gioia di essere lì “con i ragazzi del CAI di Morbegno” e con gli altri neofiti. Ad ogni sera di lezione e a ciascuna uscita il proprio valore, le proprie sensazioni e le proprie emozioni. L’emozione dei silenzi, le salite ripide e le veloci discese bianche con gli istruttori che non ti perdono di vista un attimo solo e la tua ombra che ti tiene compagnia; e anche contenti di essere lì come pochi privilegiati. 70 CAI MORBEGNO

Mi hanno insegnato che lo scialpinismo, anche se ai profani può sembrare una pratica assurda e faticosa per rischiare la pelle, è in realtà la spasmodica tensione di tutte le proprie capacità e facoltà verso lo scopo di uscire indenni e felici dalle difficoltà. Cos’altro è la vita di tutti i giorni se non questo? Con la differenza che speso la vita di tutti i giorni non è bella, la montagna lo è sempre comunque essa sia e la si trovi nelle uscite. Le montagne che mi hanno fatto salire con loro sono diventate parte di me stesso. Potrò dimenticare tante cose ma mai le esperienze vissute con questo corso. Mi è stato insegnato che lo

scialpinismo è scuola di vita: ognuno ha le proprie possibilità e le proprie caratteristiche e preferenze, la propria forza e il proprio allenamento ma la montagna è lì per tutti. C’era chi si lamentava sempre per la fatica, per la fame, per la sete, per la salita, per la neve una volta troppo fresca una volta troppo dura, c’era chi non ce la faceva proprio e allora altri gli portavano lo zaino oltre al proprio, c’era chi a scendere era sempre per terra e allora gli altri lo aspettavano e spesso gli cercavano “i pezzi” vari persi e sepolti sotto la neve; ma per tutti c’è stato spazio; a ognuno di loro il corso ha offerto e dato qualcosa. L’essere giunti in vetta, il darsi una stretta di mano, un


abbraccio felice e quello che si è creato con il gruppo, con i compagni di purtroppo sempre poche gite è il tanto che ti resta dentro. Ho appreso che lo scialpinismo per certi fortunati diventa finanche un’arte (per me purtroppo non è così) che con sicurezza, disinvoltura, velocità fa di una sciata un capolavoro estremo che però non lascerà tracce nella neve al sole per riproporsi sempre come cosa nuova per lo scialpinista che verrà. Mi hanno insegnato che il pericolo è ovunque, in montagna forse più che altrove, e perciò la paura deve essere affrontata con lucidità, coscienza e conoscenza senza farsi dominare dalla stessa.

Indimenticabile infine la due giorni allo “Jenatsch”, vuoi per il divertimento, vuoi per la fatica, vuoi per il bel tempo. O forse vuoi per la troppa birra in allegra e divertente compagnia. La sera del sabato poi quando Annalisa per prendere una boccata d’aria è uscita dal rifugio e ha pensato bene, nel buio assoluto della notte, di sgranchirsi le gambe pattinando sul ghiaccio e rovinando per metri, sparendo dalla nostra vista per alcuni lunghissimi minuti senza dare più segni di vita, abbiamo pensato che avesse incontrato lo “yeti” o che l’avremmo ritrovata a primavera dopo il disgelo e con la fioritura dei prati. Andò bene però e malgrado qualche acciacco al

fondo schiena tornò fra noi. Forse con un tasso alcolico leggermente elevato ma fu ancora dei nostri. Da provare la due giorni conclusiva del corso; senza se e senza ma, senza ombra di dubbio, senza incertezza alcuna, sicuramente da non perdere e per me da ripetere.

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CIMA SAN GIACOMO di Marco Poncetta

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Nel centenario della Grande Guerra, domenica 29 marzo, la gita scialpinistica del Cai Morbegno si è svolta sul ghiacciaio dei Forni, gruppo Ortles-Cevedale, e precisamente sulla cima di San Giacomo, 3281m. Con il gruppo dell’Adamello, anche l’Ortles-Cevedale è stato teatro della terribile Guerra Bianca, la guerra della neve e dei ghiacciai, che comportò un’occupazione delle alte quote senza precedenti. Fu una battaglia contro un nemico spesso invisibile, contro condizioni ambientali impossibili, contro temperature che in inverno scendevano mediamente 15 gradi sotto


lo zero, con picchi notturni di –20°; una lotta alla sopravvivenza in cui il numero maggiore di vittime lo hanno fatto il freddo, la fame, le valanghe e non l’artiglieria. Il San Giacomo è una cima meno blasonata rispetto alle numerose vette del comprensorio, soprannominate “ le tredici cime”, (monte Cevedale, monte Rosole, Palon della Mare, monte Vioz, punta Taviela, cime di Pejo, rocca Santa Caterina, monte Giumella, monte San Matteo, punta Dosegù, punta Pedranzini, pizzo Tresero) tutte concatenate tra di loro insieme all’imponente e solitario Gran Zebrù. Ma la sua

vetta, balcone affascinante su queste spettacolari montagne, le molteplici possibilità di discesa con gli sci, soprattutto dal versante nord, e la sua posizione primaria alle porte del ghiacciaio fanno sì che questa cima sia spesso più frequentata delle altre. Domenica 29 marzo, alla base della diga a 2170 m erano 38 gli scialpinisti pronti a guadare il torrente Frodolfo per portarsi sulla sponda destra, mettere gli sci ai piedi e cominciare la graduale salita. L’itinerario scelto è quello del versante nord, con salita verso la base del canalino di S.Giacomo, passando per l’avvallamento detto “ pluviometro” e

puntando verso la Punta Cerena, a circa 3100 m, per raggiugere il pianoro alla base dell’ultimo tratto ripido, da percorrere senza sci fino alla vetta posta a 3281m. Tutto si è svolto nel migliore dei modi, dal cielo coperto nelle prime ore della giornata si è arrivati al sereno sulla cima, che ci ha permesso di godere dello splendido panorama, scattare le foto di rito e intraprendere la discesa, davvero bella, sull’ampio vallone delle 100 curve e poi per il ripido canalino di S. Giacomo e sulla neve, un po’ cotta ma ancora portante, fino al parcheggio delle auto.

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4061 GRAN PARADISO di Marco Poncetta

Il Gran Paradiso è stata, per la nostra sezione, la meta scialpinistica più importante della stagione, la vetta più alta (4061 m) tra tutte quelle situate completamente in territorio italiano. Dedichiamo a questa avventura il week-end del 18-19 aprile, come al solito nell’incertezza meteo. Destinazione Valsavaranche (Aosta). Sulla strada che porta a Pont, a una manciata di km prima del paese, un parcheggio sterrato delimitato da uno steccato di legno scuro con una bacheca mi ricorda, come riportato da molteplici report, che quello è il punto di partenza della nostra gita, nonché posto ideale per far fermare il pullman. Sono le 13.30 di sabato 18 aprile, non è molto che abbiamo lasciato l’autogrill per la pausa pranzo, ma questa ultima ora di viaggio mi è sembrata un’eternità. Sorrido ripensando al caos sull’area polverosa di quel piazzale: un intreccio di sci, 74 CAI MORBEGNO

bastoncini, scarponi, zaini faceva da ostacolo a tutti noi trentacinque partecipanti, costringendoci a saltare come camosci da un posto all’altro per trovare il punto a noi ideale per prepararci. La nostra prima destinazione è il rifugio Chabod (2750 m). Attraversato il torrente Savara, sul ponte che conduce all’alpe Pravieux, ci siamo incamminati lungo il sentiero estivo, e, dopo circa quarantacinque minuti, nei pressi dell’alpeggio Lavassey (2194 m), poco dopo aver calzato gli sci, un problema al socio Enzo ci ha messo in apprensione: vedere il puntale del suo attacco sulla


neve, rotto in due parti non è stato divertente. Solo grazie alla sua tenacia e alla sua fortuna di conoscere molto bene, per motivi di lavoro, il territorio e le persone che ci abitano, è riuscito a rientrare al paese, sostituire gli sci e poi raggiungerci in serata al rifugio. Proseguendo con la nostra salita, su neve ormai cotta del tardo pomeriggio, abbiamo raggiunto il rifugio, intitolato nel 1966 allo storico nonché alpinista Federico Chabod, alle 17, dopo 920 m di dislivello. L’accoglienza al rifugio è ottima, la struttura è accogliente e famigliare e la veranda, dove abbiamo trascorso qualche ora aspettando la cena, è un balcone fantastico sul ghiacciaio e soprattutto sulla cresta Nord-ovest del Gran Paradiso, illuminato dal caldo colore del sole ormai al tramonto. Nel cielo terso di sabato sera durante la notte arriva, con qualche ora di ritardo CAI MORBEGNO 75


rispetto alle previsioni, una perturbazione che, come preventivato, ha portato un po’ di pioggia all’altezza del rifugio e un po’ di neve in quota. Le condizioni alle 5 del mattino, orario di sveglia, non erano entusiasmanti: una fitta nebbia ritardava la luce del giorno e metteva in dubbio la nostra salita verso la cima. Solo dopo qualche consultazione tra noi responsabili, supportati dal parere del gestore del rifugio, nonché guida alpina, abbiamo deciso che si poteva tentare la salita, spinti comunque dal fatto che il tempo evolveva 76 CAI MORBEGNO

verso il bello. La salita per la Via Normale al Gran Paradiso da questo versante (difficoltà BSA) presenta uno scenario più alpinistico visto l’ambiente che si attraversa e di conseguenza bisogna far più attenzione, essendo il ghiacciaio del Laveciau più “crepacciato” rispetto alla classica salita dal Vittorio Emanuele. Si parte con gli sci ai piedi direttamente dal rifugio, seguendo una dorsale che scende con un traverso gelato, che mette subito in difficoltà nello stare in piedi. Poi, raggruppati, saliamo lungo una spalla fino a quota 3100

m, passando in diagonale sotto la base del Piccolo Paradiso e quindi sotto la Nord del Gran Paradiso, confortati dal fatto che, salendo, la nebbia si stava man mano diradando. Affrontiamo quindi la parte più ripida del ghiacciaio Laveciau che porta verso la “Schiena d’Asino”, dove si interseca la traccia di quelli che salgono dal rifugio Vittorio Emanuele. Proseguiamo a sinistra piegando verso il Colle di Moncorvè; qui si vedono nitidamente degli spuntoni rocciosi slanciarsi al limite estremo del ghiacciaio perché la nebbia l’abbiamo lasciata


alle spalle da tempo, e sempre puntando a sinistra saliamo il ripido pendio fino al limite del crepaccio terminale. Lasciati gli sci saliamo lungo il filo di cresta alla spicciolata, perché qui il traffico è tanto e gli spazi di passaggio ristretti. Passando per facili rocce, arriviamo fino alla madonnina del Gran Paradiso, limite estremo della salita, che indica la vetta a 4061 m. La foto è di rito, la panoramica a 360 gradi sulle vette che fuoriescono da un mare di nuvole è speciale e l’entusiasmo sale alle stelle: strette di mano, pacche sulle spalle, complimenti che si

scambiano, è sempre questo il momento più bello di quando si va in montagna. La discesa con gli sci è lungo il ghiacciaio che scende verso il rifugio dedicato a Vittorio Emanuele II, Re d’Italia, che creò nel 1856 in queste zone la riserva reale di caccia, oggi Parco Nazionale del Gran Paradiso. Percorriamo con pendenze costanti ampi spazi e su ottima neve (unica pecca un tratto di 700/800 m di dislivello, con nebbia fitta). Sciamo compatti in gruppo, per non perdere nessuno fino alla grande struttura semi cilindrica in lamiera del rifugio. Si

scende poi ancora su neve marcia fino in fondo alla valle a Pont Valsavaranche, dove si conclude la nostra gita. Abbiamo centrato l’obiettivo, l’organizzazione è riuscita al meglio e tutti abbiamo raggiunto la meta, senza grandi complicazioni: grazie a chi, con me, ha reso possibile questo fine settimana e grazie a chi c’è stato, per averlo reso indimenticabile.

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STRAPIOMBI &

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PLACCHE

il corso di arrampicata di Stefano Barbusca

Dal primo nodo “a otto” al primo spit superato con le gambe tremanti, fino alla prima via da primo. Sì, ammettiamolo subito: questo finale c’è stato solo per i più bravi. Ma alla fine dell’ultima lezione, nel momento dei saluti, lo hanno sottolineato tutti: il corso d’alpinismo su roccia organizzato dalle sezioni di Morbegno e Chiavenna del Cai è stata una gran bella esperienza. Sia a livello alpinistico, sia umano. Cominciamo dalla parte teorica: abbiamo imparato a conoscere i materiali e gli itinerari, ci hanno insegnato a tenere d’occhio le condizioni meteorologiche e l’alimentazione, senza dimenticare la sicurezza. E soprattutto ad affrontare con il giusto spirito, coscienti dei propri limiti e delle proprie capacità, ogni uscita, dalla più semplice a quelle che, in futuro, potranno essere ben più impegnative. Gli itinerari, con la loro bellezza e – non lo neghiamo – la necessità di tirar fuori le unghie per cercare l’appiglio quasi invisibile, hanno fatto la loro parte. Dopo la prima domenica trascorsa nella palestra di Prosto di Piuro, sede delle attività dell’associazione “I rampicanti”, le mete delle uscite del weekend sono state il Sasso del drago, i Piani di Bobbio, la Grignetta, la Valmasino e Bette. Un bel mix CAI MORBEGNO 79


di strapiombi e placche, calcare e granito sui quali – citando le dritte degli istruttori “guarda che presona gigante!” oppure “fidati dei piedi che non c’è niente!”. E poi tanti altri insegnamenti: le posizioni fondamentali, le mosse da utilizzare e gli errori da evitare, i nodi e le calate. Per ogni istante, si è passati da un briciolo di tensione all’immensa soddisfazione di aver superato un piccolo limite personale. Fin qui siamo rimasti agli aspetti sportivi, tecnici, al bello dell’imbragarsi, controllare i nodi, salire, appendersi, guardar giù per 80 CAI MORBEGNO

osservare che sì, fittone dopo fittone, siamo arrivati in cima, «ce l’abbiamo fatta, e chi l’avrebbe detto stamattina?». Ma il bello del corso è stato anche la possibilità di scoprire ambienti vicini, a volte situati a pochi chilometri da casa, che fino a quest’autunno erano rimasti sconosciuti. Dalle soste – ce ne siamo accorti subito – si vede un mondo strano, fatto di mezzacosta dimenticata e di angoli di pianura lontani dalle strade e dai capannoni del nostro fondovalle. Si guarda all’ingiù e si riflette sulle corse che animano la vita di coloro – noi compresi – che


stanno sotto, immersi nella quotidianità. Il merito, ci piace scriverlo forte, va ai nostri istruttori: Gianfranco, Cesare, Moreno, Mario, Igor, Nicola, Pio e Marco. Ci hanno trasmesso passione, voglia di conoscere le tecniche e la cultura dell’alpinismo, senza dimenticare la loro inesauribile pazienza. Ma ci piace soffermarci anche sulla capacità di offrire il proprio tempo libero, oggi che – lo vediamo in moltissimi contesti ad ogni altitudine – la disponibilità a occuparsi degli altri è un qualità sempre più rara. Tra gli allievi – quasi

tutti impiegati di pianura che trascorrono le proprie settimane inchiodati alla scrivania – è nata una bella amicizia, stretta come i barcaioli delle soste sin dai primi tiri. Per alcuni di noi è stata anche la prima occasione di incontro con il Cai, con la sezione della propria valle, le newsletter e la stampa nazionale come Montagne 360°. In un momento segnato da tanta confusione, le pratiche e le idee di quella che è diventata la nostra associazione sono diventate una componente importante non solo del

nostro essere persone di montagna, ma anche cittadini. «I monti sono maestri muti e fanno discepoli silenziosi», si legge sulla parete della sezione di Chiavenna. Un bell’insegnamento, che ci porteremo dentro. Sia quando saremo imbragati, sia nel corso delle nostre giornate di pianura.

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I PONTI DELLA

VIA MALA di Alessandro Caligari

Qualche tempo fa ho assistito ad una conferenza di Gianfranco Bronzini, architetto dello studio svizzero Conzett, Bronzini & Gartmann, in cui il relatore illustrava alcune sue opere, tra cui un paio di passerelle realizzate sulla via Mala, nel Canton Grigione. Sia i ponti che l’ambiente in cui erano inseriti mi sono sembrati molto accattivanti e così, qualche mese dopo, ho organizzato un’escursione nella zona. Una domenica mattina, appena italiani e svizzeri si sono accordati per riaprire il passo dello Spluga, siamo partiti per Zillis nei Grigioni, punto di partenza della nostra 82 CAI MORBEGNO

escursione fin sul fondo della mitica via Mala. Questa strada un tempo era molto odiata: il suo nome significa “pessima strada”, dato che questa profonda gola del Reno Posteriore era un pericoloso passaggio obbligato. In effetti, anche oggi, percorrerla ci trasmette qualche brivido. Rocce alte fino a 300 m delimitano questa forra, in alcuni tratti larga sul fondo solo pochi metri, buia, umida, con un incessante rombo d’acque. Nonostante questo e nonostante i pericoli oggettivi che c’erano, la gola costituiva, già più di un millennio fa, uno dei migliori accessi ai

passi dello Spluga e di San Bernardino, e quindi era molto trafficata. Perciò, incuriositi, siamo partiti anche noi. Arrivati a Zillis lasciamo le auto e cominciamo a camminare sulla sponda orientale, alla destra idrografica. Imbocchiamo una stradina che attraversa dei piccoli abitati, con edifici in legno molto antichi e molto ben conservati, con elvetici fiori d’ordinanza alle finestre. In breve la strada si abbassa, fino ad arrivare al letto del fiume, che attraversiamo grazie al Punt de Suransuns, una delle passerelle progettate da Conzett, Bronzini e


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Gartmann e che hanno fatto da esca al nostro viaggio. In effetti è un ponte molto interessante. Realizzato nel 1999 è progettato partendo da due idee molto semplici: l’uso di un sistema costruttivo basato sull’idea di un nastro teso tra le due rive e la scelta di costruire una passerella in pietra. Il risultato è quello di un ossimoro statico, dato da un sistema costruttivo dall’aspetto leggero, realizzato però con un materiale greve come il granito. L’effetto è ottenuto combinando tra loro pietra e acciaio, utilizzando quattro piatti metallici sospesi tra le due rive, che supportano sottili lastre di granito, con il fondamentale contributo del parapetto in acciaio. A turno attraversiamo la passerella, cercando invano di farla ondeggiare, e ci portiamo sulla sponda opposta. Siamo all'inizio del tratto più stretto della Via Mala e l'ambiente è molto suggestivo. Risaliamo il versante opposto della valle, raggiungendo la strada cantonale. La seguiamo per un breve tratto, arrivando al punto più impressionante della Via Mala, scavalcato da due ponti ravvicinati (uno è quello della strada cantonale, l’altro è il Wildener Brücke, costruito nel 1739). Passiamo dalla parte opposta della gola grazie al ponte vecchio e raggiungiamo in poco tempo un interessante chiosco in cemento armato, da cui scendiamo per visitare il fondo della gola, grazie ad una serie di scale e passerelle. I giochi di colore delle acque, il loro svolgersi in sinuosi e ipnotici vortici, le particolari formazioni rocciose, trasmettono una forte sensazione di pericolosa 84 CAI MORBEGNO

bellezza naturale, che incute timore ma che nel contempo incanta, attrae. Ci sono una serie di marmitte dei giganti (che però gli svizzeri chiamano “pentole dello strudel”), cascate, gallerie scavate nella roccia, pietre in bilico da secoli ed altre curiose amenità. Al termine della visita risaliamo alcune centiania di gradini e ci rimettiamo in cammino. Siamo ora ad un bivio: si tratta di scegliere tra il comodo tragitto per il "Verlorenes Loch", e quello più lungo e faticoso della Veia Traversina. Ovviamente scegliamo quest'ultimo. Ci troviamo a questo punto in buona compagnia. Oltre ad un discreto numero di escursionisti, ci sono molte persone, per lo più giovani, attrezzate con abbigliamento assolutamente inadeguato ad un'escursione, ma a suo modo molto trendy e alternativo. In breve riconosco le familiari figure degli studenti di architettura, irragionevolmente affezionate al loro look, qui in faticosa uscita per vedere e fotografare le passerelle di Conzett e C. Infatti, dopo non pochi dentro-e-fuori in innumerevoli vallette laterali, arriviamo all'altro ponte. Si tratta anche questa volta di una lunga passerella sospesa, sopra un discreto baratro, che però è fatta di legno e funi metalliche. Dato che supera un significativo dislivello (22 metri), l'impalcato è fatto a gradini. Una volta opportunamente fotografato il ponte, riprendiamo il sentiero che sale a destra. Il terreno è ripido e a tratti offre scorci impressionanti sulla sottostante Via Mala; attraversiamo suggestivi

pascoli pensili, come quello con i ruderi dell’antica cappella di Sant’Albino, alla cui sinistra sprofondano le verticali pareti rocciose della gola. Proseguiamo ancora tenendoci in quota e, prima della discesa finale su Thusis, il sentiero si regala un’ultima meraviglia, portandoci ai piedi della fortezza dell’Hoehen Raetien, un insediamento altomedioevale su una collina, comprendente una chiesa, una torre difensiva, un’importante torre centrale ed altri edifici annessi. Da qui la vista spazia sul fondovalle e sul sottostante centro di Thusis, in cui ci dirigiamo. Raggiunto l'abitato cerchiamo la stazione per prendere la corriera che ci porterà alle macchine, lasciate a Zillis. Una volta raggiunto il parcheggio, avendo camminato di buon passo e dato che le giornate ormai sono lunghe, valutiamo che abbiamo ancora del tempo a nostra disposizione. Così ci concediamo un ultimo piacere: la visita alla chiesa di San Martino ed al suo clamoroso soffitto ligneo decorato, che gli svizzeri, un po’ pomposamente, definiscono la cappella sistina delle Alpi. Quando ormai, a furia di guardare in alto, avevo preso un devastante torcicollo, il guardiano ci viene incontro con degli ingegnosi specchi che agevolano non poco la visita. Concludiamo la nostra inconsueta uscita escursionistico-architettonica, soffermandoci a leggere le lapidi del cimitero che circonda la chiesa. Terminata la lettura di questa antologia di Spoon River elvetica, risaliamo lo Spluga e rincasiamo.


Nelle pagine precedenti, a sinistra Thusis e l'imbocco della Via Mala in un'acquerello di William Turner. A destra vista sui due ponti. A fianco dall’alto: Il Punt de Suransus, l’elegante e apparentemente semplice passerella progettata da Conzett Bronzini e Gartmann Il ponte sospeso a gradini, in legno e metallo, sul percorso della Veia Traversina La chiesetta romanica all’interno della fortezza dell’ Hoehen Raetien

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FESTIVAL DELLA

ALL’ALPE PIODA Anche quest’anno il CAI Morbegno ha aderito alla manifestazione del “Festival della Alpi”, istituita nel 2010 e diventata un appuntamento fisso. Questa volta abbiamo deciso d’inserire un’escursione in valle Pioda. Perchè proprio qui? Probabilmente perchè è una valle attraverso cui ci si passa, ma non un luogo in cui ci si va appositamente. In effetti non ci sono cime classiche, non ci sono rifugi significativi, non è un posto esattamente a portata di mano. Così decidiamo di farne, una volta tanto, la meta di una gita fine a se stessa. L’idea è di fare due gruppi: il primo si accontenterà di arrivare all’Alpe Pioda, mentre un secondo si prefigge di raggiungere il bivacco Kima, ultima struttura realizzata sul sentiero Roma, e magari spingersi fino al bivacco Odello Grandori. Le ultime notizie lo danno piuttosto male in arnese, per cui siamo anche un po’ curiosi di verificare questa voce. Così la mattina del 28 giugno 86 CAI MORBEGNO

partiamo per la Val di Mello. Il gruppo è abbastanza folto ed eterogeneo. La presenza, in uno zaino, di un paiolo per la polenta mi fa subito capire le reali intenzioni di buona parte della truppa. La giornata è bella, di quelle che ti mettono allegria, e con questo spirito attraversiamo tutta la Val di Mello. Dalla Rasica in poi si comincia a salire, in un sentiero un po’ arcigno e scontroso. Le pendenze non tarpano la vocazione ciarliera del gruppo, che in un tempo ragionevole esce dal bosco buio e arriva all’Alpe Pioda. Una volta qui, la determinazione al raggiungere il lontano bivacco subisce una mazzata micidiale: oltre alla tranquilla bellezza del posto, che invita ad una sosta prolungata, ecco che dagli zaini cominciano ad uscire, assieme al già citato paiolo, delle patate, bottiglie di vino, formaggi e ogni ben di Dio. Ci si accampa così in riva al torrente, dove in breve si allestisce una cucina degna di un campo scout. In attesa della

ALPI

giusta doratura delle patate e della corretta cottura della taragna, ci esibiamo in plastici tuffi in una vicina pozza, dalla temperatura non proprio tropicale. Un fiorire di piatti di plastica ci dice che il pranzo è servito. Mangiato e bevuto, l’abbiocco post prandiale dà la


spallata decisiva alle residue intenzioni di raggiungere l’ormai remotissimo bivacco Kima. Il successivo giro di dolce, caffè e ammazza-caffè sancisce definitivamente che, anche questa volta, di andare in cima alla valle Pioda non se ne parla nemmeno. CAI MORBEGNO 87


CAIMORBEGNOGIROD’ESTATE2015

GIRO Il Giro d’Estate è la giornata in cui festeggiamo una sorta di virtuale compleanno della nostra sezione proponendo alcuni itinerari diversi, che però convergono in una stessa meta. Quest’anno abbiamo scelto la Val Masino. Si è pensato che punto d’arrivo comune sarebbe stato il rifugio Omio. Come consueto abbiamo fatto tre proposte: un’escursione facile, adatta a famiglie che partendo dai Bagni salisse direttamente al rifugio; un’altra escursione, un pochino più impegnativa e sicuramente più lunga, che prevedeva il medesimo punto di partenza ma che poi imboccasse la val Parcellizzo, raggiungesse la capanna Gianetti e quindi, attraverso il passo di Barbacan scendesse alla Omio. Un terzo itinerario, questa volta alpinistico che prevedeva un’arrampicata sulla cima della Sfinge. Di seguito i tre racconti di altrettanti itinerari.

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D’ESTATE

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BAGNI DI MASINO RIFUGIO GIANETTI RIFUGIO OMIO di Alessandro Caligari

Mattino del 12 luglio. Il nostro gruppo, abbastanza numeroso, lascia il parcheggio dei Bagni ( 1172 m) e prende il sentiero che sale verso la Gianetti. Il primo tratto non mi è mai piaciuto granchè, ma il sentiero cambia decisamente quando si arriva alle Termopili. Attraverso per primo lo stretto passaggio, e quando passo accanto alla vecchia scritta, tracciata con la vernice , qualcuno me ne chiede il significato. 90 CAI MORBEGNO

Mi viene in mente la prima volta in cui, ragazzino, ho raggiunto questo tratto con l’iscrizione fatta di caratteri misteriosi e per me quasi illeggibili. Allora avevo fatto la stessa domanda a mio padre, che mi ha raccontato dell’episodio dei 300 spartani. Ancora adesso, quando sento parlare delle Termopili, mi viene immancabilmente in mente lo stretto passaggio tra due massi sul sentiero per la Gianetti. Il sentiero esce dal bosco e sale deciso fin al piano del Porcellizzo, conca molto fotogenica con i suoi rododendri, i meandri del torrente e le cime sullo

sfondo, che immancabilmente finisce sul calendario della banca popolare. Qui gli alberi terminano ed il sentiero, dribblate le statiche mucche ruminanti, riprende a salire. Arrivato quasi al rifugio, vengo salutato e fermato da un gruppetto di ragazzi e ragazze stranieri, mai visti prima, che però sembrano sapere parecchie cose sul mio conto, sulla mia meta e sul gruppo che segue. In breve vengo a sapere che hanno trascorso la serata precedente con Angelo DD, che evidentemente ha scelto di anticipare il gruppo, prendendosi una mezza giornata in più di tranquilla salita. Infatti arrivato alla


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Gianetti (2534 m), trovo Angelo e compagnia che ci stanno aspettando. Ci fermiamo un po’, parliamo con il gestore Mimmo, quest’anno soddisfatto della stagione, e poi ripartiamo per il Barbacan. A metà strada ci fermiamo a più riprese ad osservare l’elicottero del Soccorso che sta sorvolando la via “Dalai Lama” sul Cengalo. Sappiamo, dai racconti del gestore, che in quel punto della parete è impegnata una cordata di ragazzi locali, che evidentemente ora si trova in difficoltà. Dato che alcuni di noi li avevano conosciuti la 92 CAI MORBEGNO

sera prima, scatta una certa apprensione per la sorte dei due arrampicatori. L’elicottero staziona sempre nello stesso punto per molto tempo, per poi dirigersi a valle. Verremo poi a sapere che il primo di cordata è caduto ma che se l’è cavata, anche se un po’ malconcio. Riprendiamo a camminare e, dopo un facile sentiero, arriviamo al superamento della bastionata del Barbacan che però è reso più facile e sicuro da corde fisse, poste nei tratti più impegnativi. Non tutti però si trovano a loro agio, così saliamo tranquilli, con prudenza.

In cima al passo incontriamo Antonio e Alda, transfughi del gruppo “familiare” che ci sono venuti incontro. A questo punto mi separo dal resto del gruppo, che si ferma a mangiare, e scendo velocemente dalle ripide pendici del Barbacan fino alla Omio, dove raggiungo i miei due bambini, saliti fin qui con il primo gruppo. Tiro fuori la corda dallo zaino e ci mettiamo ad arrampichettare un po’, dietro al rifugio. Mentre aspettiamo sia il gruppo della Sfinge che quello della Gianetti mi raccontano la loro escursione.


GITA ALLA OMIO di Anna Chiara, 11 anni e Francesco, 7 anni

Il 12 luglio, di domenica, assieme alla mamma siamo arrivati con l’auto ai Bagni di Masino, dove abbiamo conosciuto i nostri “compagni di viaggio”: Antonio, Enrico e Alda. Abbiamo cominciato a camminare in un boschetto; la strada era in salita, con il terreno sassoso, formata da terra umida, e si snodava tra gruppetti di alberi. Era delimitata da staccionate composte da tronchi d’alberi. Oltre il bosco c’era una radura piana, con alti sassi, dove ci siamo fermati a fare una sosta, ammirando la bellissima panoramica montuosa che ci offriva il luogo. Ci siamo inoltrati in un secondo bosco, non molto diverso dal primo, ma meno fitto e con più spazi aperti. Quando siamo usciti dal bosco ormai rado, abbiamo percorso una stradina polverosa, che era interrotta, a volte, da grandi massi di granito. Siamo passati davanti ad una grotta piena zeppa di orme di animali, che aveva delle rovine di una specie di rifugio, costruito nel suo interno. Proseguendo abbiamo incrociato un grandissimo sciame di farfalle, tutte della stessa specie; erano marroni con qualche macchia rossa e arancione. Poco dopo abbiamo incontrato una mandria di mucche, tori e vitellini che pascolavano. Noi l’abbiamo attraversata senza paura (o quasi, perché abbiamo dovuto fiancheggiare un toro nero con le corna, libero). Finalmente, dopo due ore di salita, siamo arrivati al rifugio Omio!

Abbiamo mangiato i panini e dopo pranzo Francesco si è addormentato e ha dormito per un’ora. Quando (finalmente) si è svegliato, con il nostro papà, che nel frattempo era arrivato dall’altro giro, abbiamo “scalato” un’enorme roccia con le corde. Poi abbiamo aspettato le persone che facevano l’itinerario della Sfinge, divertendoci. Quando sono arrivati siamo scesi in fretta, rischiando di cadere perché i sentieri erano molto irregolari, con scavature profonde. Dopo un’ora e trenta minuti siamo arrivati all’auto e siamo tornati a casa.

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LA VIA DEI MORBEGNESI ALLA PUNTA DELLA SFINGE di Marco Poncetta

Un impronta alpinistica di spessore per il “ Giro d’estate 2015” è stata la Via dei Morbegnesi sulla parete SudEst della Punta della Sfinge. La Punta della Sfinge è una delle cime più importanti della Valle dell'Oro, le cui vie sono tra le più battute di quest'anfiteatro. Il suo profilo Nord-Est richiama quello di una sfinge egizia, da cui il nome. La via scelta è una salita classica, sicuramente la più frequentata di questo versante, e corre attraverso il lungo diedro che taglia 94 CAI MORBEGNO


verticalmente la grande parete. Intitolata ai morbegnesi Piero Botta, Felice Bottani, Giuseppe Dell’Oca, Antonio Passerini e Luigi Romegialli, che nel 1964 la salirono per la prima volta, presenta difficoltà nella prima parte della parete dal IV al V+, la seconda parte invece, in corrispondenza degli strapiombi gialli sommitali, difficoltà fino al VI. Dopo il pernottamento presso il rifugio Omio, domenica 12 luglio, gli alpinisti hanno affrontato la parete guidati dagli istruttori Mario e Cesare, la cui professionalità ha permesso anche ai meno esperti di godere della salita in piena tranquillità.

L’arrampicata si è sviluppata per circa 270 m e sette tiri di corda su ottimo granito, disturbata solo in alcuni passaggi da grossi ciuffi erbosi. Nonostante qualche difficoltà V+ dovuta al non raro incastro della corda nelle calate in doppia e al conseguente VI ritardo all'appuntamento con il resto del gruppo, è stata un’esperienza importante oltre che formativa. IV VI V+ IV+ III

IV-

IV

IV+

IV

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NOTIZIE DALLA SEZIONE I NUMERI DEL C.A.I. MORBEGNO Alla data del 31.12.2014 gli iscritti sono 475 così suddivisi: 316 ordinari, 110 famigliari e 38 giovani. Ricordiamo che le iscrizioni si effettuano in sede e presso gli sportelli del Credito Valtellinese di Via Ambrosetti. CONSIGLIO DIRETTIVO Presidente Alessandro Caligari Vice Presidente Marco Poncetta Segretario Davide Bonzi Consiglieri Del Barba Domenico Bertoli Rita Pezzini Tarcisio Bavo Vincenzo Mafezzini Alda De Donati Angelo Bertoli Enrico Mazzoleni Carlo DELEGATI Alessandro Caligari Domenico Del Barba ISTRUTTORI DI ALPINISMO E DI SCI ALPINISMO Bertoli Enrico (ISA) Gadola Giulio (ISA) Riva Marco (ISA) Scotti Franco (ISA) De Donati Cesare (INSA) ISTRUTTORI SEZIONALI DI ALPINISMO E DI SCI ALPINISMO Danilo Acquistapace 96 CAI MORBEGNO

Andrea De Finis Mirco Gusmeroli Luca Gusmeroli Moreno Libera Riccardo Scotti Mario Spini ACCOMPAGNATORI SEZIONALI DI ALPINISMO GIOVANILE (ASAG) Rita Bertoli Riccardo Marchini Angelo Moiola Claudia Ponzoni ACCOMPAGNATORI DI ESCURSIONISMO Davide Bonzi (AE) Alessandro Caligari (AE) I CORSI Corso di ginnastica presciistica Tenuto dalla proff Adele Cusini si è svolto da ottobre 2014 al marzo 2015 presso la palestra provinciale del Liceo Artistico. Corso base di sci-alpinismo Si è svolto da gennaio a marzo, articolato in 7 lezioni teoriche presso la sede CAI e 6 esercitazioni pratiche in montagna. Il corso ha visto Igor Scaramella direttoree Marco Riva vicedirettore. I diplomati: Emil Del Nero Oreste Zecca Marco Marchetti Sandro Borromini Matteo Vairetti Martino Rapella

Annalisa Mottarella Tamara Bonetti Albano Pologna Tommaso Corti Marco Mazzolini Samuele Spreafico Alberto Rapella Riccardo Barana Giorgio Balatti Le Uscite: Selezione alpe Palu’ 17 gennaio Rosetta 18 gennaio Passo di Porcile 25 gennaio Pian dei Cavalli 01 febbraio Piz Belvair 15 febbraio Alpe Piazza 22 febbraio 7/8 marzo salita al piz Surgonda e al piz D’Agnel. Corso di arrampicata uscite pratiche • Sasso del Drago • Piani di Bobbio • Grignetta • Val Masino • Placche di Bette SCI DI FONDO Quattro giorni in Val Pusteria LE GITE Gite sezionali • 4 uscite scialpinistiche nelle Orobie ed in Engadina (Pizz Emmat Dadaint), Cima San Giacomo, Gran Paradiso • Uscita notturna scialpinistica e ciaspole a Pescegallo • Escursione sulla Via Mala • Festival delle Alpi: Alpe Pioda • Il CAI al mare. Traversata Levanto-Framura • Escursione all’Alpe dell’Oro • Compleanno CAI: Sfinge (Alpinismo) – Rifugio Omio (gita familiare) – Attraversata Gianetti-


Omio (escursionismo) • SentieroPaniga: Val TronellaZancone-Salmurano Gruppo 2008 Uscite tutti i mercoledì, (meteo permettendo) In Valgerola, Valtartano, Valle Spluga, Valmalenco, Valmasino, Valle dello Spöl, Monti lariani occidentali ed orientali, Triangolo lariano per un totale di 45 uscite. I MARTEDÌ DEL CAI • “Club 4.000” con Giovanni Rovedatti • BMFF World Tour Italy • “Alaska, sulle tracce dei ghiacciai” con Riccardo Scotti

XXVI RALLYNO DELLA ROSETTA Si è svolto il 1 marzo. Totali iscritti: 31 coppie • Vincitori regolarità: Colli Flavio-De Donati Cesare • Vincitori salita: Corazza Matteo-Zugnoni Davide • Vincitori discesa: Colli FlavioDe Donati Cesare

MUSICA IN GIARDINO • “Concerto per chitarra e percussioni” con Corrado Stuffo e Francesco Portone

I RITROVI CONVIVIALI • Venerdì 19 giugno CENA D’ESTATE momento conviviale informale nei giardini del palazzo Malacrida • Venerdì 23 ottobre CASTAGNATA • Venerdì 18 dicembre AUGURI NATALIZI

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