Annuario Cai Morbegno 2017

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ANNUARIO 2017 CAI MORBEGNO 1


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ANNUARIO 2017

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SOMMARIO

CAI Club Alpino Italiano Sezione di Morbegno

Via San Marco Tel. e fax 0342 613803 e-mail: info@caimorbegno.org www.caimorbegno.org

ANNUARIO 2017

LA CORDATA di Mario Spini

Redazione:

Alessandro Caligari, Lodovico Mottarella

90 ANNI DI SENTIERO ROMA di Alessandro Caligari

Hanno collaborato: Alunni IA Scuola Damiani, Alberto Benini, Jacopo Cairati, Alessandro Caligari, Anna Del Barba, Emil Del Nero, Giulio Gadola, Arturo Giovanoli, Mirco Gusmeroli, Moreno Libera, Riccardo Marchini, Attilio Marinoni, Chiara Marveggio, Anna Mondora, Lodovico Mottarella, Vincenzo Pascucci, Chiara Piatti, Marco Poncetta, Franco Scotti, Riccardo Scotti, Mario Spini, Pierangelo Tognini, Pietro Vettovalli, Maurizio Zambelli

Fotografie: Jacopo Cairati: 94, 95 (sopra) Alessandro Caligari: 91(centro, sotto) Anna Del Barba: 58(sotto) Emil Del Nero: 76, 77(sotto), 100-101 Giulio Gadola: 86, 87(sopra) Arch. A. Giovanoli: 35, 37, 38, 40 Mirco Gusmeroli: 48-49, 50, 51, 52, 53, 54, 55 Riccardo Marchini: 62, 63sotto, 64, 65, 67(sotto), 68(alto, sotto), 69, 140-105,106, 107 Stefano Jeantet: 58-59(sopra) Attilio Marinoni: 84-85 Chiara Marveggio: 96-97, 98, 99, 103(sopra) Arch. Nives Meroi: 8, 9, 10, 11 Anna Mondora: 92, 93 Lodovico Mottarella: I, II, III, IV di copertina, 1, 2, 3, 4, 5, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28-29, 30, 31(sopra), 56-57, 58(sotto), 74-75, 78-79, 8081, 82, 83, 111, 112 Vincenzo Pascucci: 70-71, 72, 73 Marco Poncetta: 77(sopra), 87(sotto), 88, 89, 91(sopra), 95(sotto), 102, 103(sotto), 108, 109 Franco Scotti: 42-43, 44, 45, 46-47 Riccardo Scotti: 31(sotto) Pierangelo Tognini: 60-61, 63(sopra), 67(sotto) Pietro Vettovalli: 66(sotto), 67, 68(centro)

LA FRANA DEL CENGALO di Riccardo Scotti

IL CUSTODE DELLA BREGAGLIA diAlberto Benini

SCIALPINISMO IN CORSICA di Maurizio Zambelli

KIRGHIZISTAN di Mirco Gusmeroli

PERĂ™ di Riccardo Marchini

Progetto grafico e realizzazione: Mottarella Studio Grafico www.mottarella.com

Stampa: Tipografia Bonazzi

ATTIVITĂ€ Piz Campagnun Corso di scialpinismo Rallyno della Rosetta Punta Tuckett

Sacra di S.Michele Corso di Roccia Sentiero dei Fiori Pizzo Tresero

Pizzo Rachele Alpinismo giovanile Scuola e montagna

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Valorizzazione della montagna e promozione turistica e culturale sono alcuni degli obiettivi che il Club Alpino Italiano con le sue Sezioni si prefigge attraverso numerose iniziative. Molte di queste, a livello nazionale e di carattere collettivo, non solo ci riescono pienamente, ma contribuiscono anche a tenere unito il nostro soda lizio: ne sono un valido esempio il Festival delle Alpi e delle montagne italiane, giunto alla settima edizione, e Cammina CAI2017, che entrambi verranno riproposti anche nel 2018. Il Festival delle Alpi e delle montagne italiane è organizzato dall’Associazione Montagna Italia in collaborazione con il CAI, e coinvolge enti, sezioni e sottosezioni di tutta Italia, organizzando manifestazioni legate a vario titolo alla montagna: passeggiate alla scoperta di rifugi e luoghi di montagna, escursioni, alpinismo, agricoltura montana, folklore, attività di valorizzazione della natura, dell’ambiente e della biodiversità con attenzione particolare alle foreste. Le iniziative organizzate per rientrare nel calendario del Festival devono tenersi nel medesimo fine settimana, solitamente in estate, in località montane o comunque devono essere legate alla montagna. È così che viene a crearsi una forte cartolina comunicativa che riunisce tutta l’Italia con un comune obiettivo: avvalorare le potenzialità culturali, turistiche ed economiche della montagna, favorendo la socialità tra coloro che la frequentano. Si vuole in questo modo anche combattere la destagionalizzazione dei flussi turistici, mettendo in risalto la varietà delle offerte che la montagna propone anche d’estate, promuovendo tipicità locali del nostro Bel Paese. Con queste medesime finalità dagli anni novanta il CAI promuove un settore particolare dell’escursionismo dedicato ai percorsi storici e devozionali: nel periodo in cui si impone all’attenzione internazionale il Cammino di pellegrinaggio a Santiago de Compostela, il CAI vuole favorire la riscoperta delle più antiche civiltà italiche. È da qui che, in prospettiva del Giubileo del 2000, si gettano i presupposti per lo sviluppo dell’itinerario della Via Francigena e, dal 1995 al 1999, si tiene CamminaItalia, un’iniziativa focalizzata su itinerari di lunga percorrenza in quota. Il successo di questi percorsi ha dato la spinta alla creazione di altri itinerari storici di lunga percorrenza, favorita anche dalla maggiore attenzione e sensibilità della popolazione italiana verso una nuova forma di escursionismo più spirituale, esperienziale ed emozionale. Nel 2013 con CamminaCAI150 è stata programmata la percorrenza in contemporanea di alcuni cammini storici, la Via Francigena da nord, la Via Micaelica da sud e la via Salaria da est, con arrivo congiunto a Roma. Si è trattato di un evento collettivo reso possibile grazie alla partecipazione coordinata delle sezioni e alla propensione del nostro Club alla valorizzazione del patrimonio viario storico-culturale. Da questa esperienza è nato il gruppo di lavoro Cammini Storici e Religiosi, da cui lo scorso anno è scaturita l’idea di proporre un evento di più vasta portata, Cammina CAI2017. È stata l’occasione di offrire varie possibilità di cammino e insieme di conoscenza dell’Italia, poiché molti percorsi sono stati individuati e attrezzati, grazie all’esperienza che il CAI mette a disposizione di enti e associazioni nella conoscenza e nella tutela dell’ambiente, nell’organizzazione di reti escursionistiche e nella segnaletica. Ma soprattutto è stata un’altra importante occasione di coinvolgimento per coloro che, come noi, amano la montagna.

E D I T O R I A L E

di Marco Poncetta

E D I T O R I A L E

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di Mario Spini

Per cordata si intende comunemente un sistema di progressione, su roccia o ghiaccio, nel quale gli arrampicatori, per assicurarsi, sono legati alla medesima corda. Dietro l’aspetto tecnico, oggetto di puntigliosi insegnamenti nei corsi di alpinismo, c’è però una componente che va oltre il gesto fisico e coinvolge la sfera emotiva e relazionale delle persone.

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Nelle nostre salite su roccia, raggiungere un buon affiatamento con il proprio compagno di cordata è spesso un requisito importante per poter perseguire l’obiettivo che ci prefiggiamo: sia esso una performance sportiva, la salita di una via difficile per l’appagamento di una ambizione personale, oppure vivere le emozioni dell’arrampicata in un ambiente naturale incontaminato o, solamente, il raggiungimento di un beneficio fisico e mentale che affranchi dalle fatiche della vita quotidiana. Per affiatarsi è necessario che ci sia armonia, condivisione delle motivazioni e degli intenti; quando poi le ragioni della nostra passione per la montagna e l’arrampicata hanno radici più profonde, quello che andiamo a cercare nei nostri compagni possono essere le affinità elettive, cioè quella naturale e istintiva sintonia che si crea tra persone che hanno idee e sensibilità molto simili.

Mi riferisco, in quest’ultimo caso, ad una dimensione più emozionale dell’arrampicata, nella quale la soddisfazione ricercata e le motivazioni risiedono proprio nelle emozioni vissute: quelle suscitate dalla padronanza del gesto fisico, dalla capacità di mantenere il controllo nelle situazioni più pericolose, oppure quelle avvertite nel momento in cui sentiamo che ci stiamo misurando direttamente con la natura, immersi nella sua bellezza ed, a volte, intimoriti dalla sua forza. Quando si percepisce un’affinità con il proprio compagno, condividere un’avventura in montagna, vivere insieme queste emozioni, ne amplifica certamente la percezione, ed in alcuni casì, può costituire il valore aggiunto di una cordata. Sono, questi, spunti di riflessione che possono condurci ad indagare le

ragioni della nostra passione aiutandoci a comprendere, appunto, ciò che cerchiamo nelle nostre salite. Nella letteratura alpinistica possiamo trovare narrate le salite di diverse celebri cordate che si sono affermate per ragioni diverse; alcune di queste hanno lasciato a loro modo un segno, rappresentando un’originale interpretazione di questo stretto legame che unisce “i conquistatori dell’inutile” e li ha condotti, in alcuni casi, ad esplorare insieme i confini dell’alpinismo. Voglio ricordare qui due cordate che hanno espresso, con la loro esperienza, due modi diversi di vivere l’avventura della montagna.

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Nives Meroi e Romano Benet Nives Meroi e Romano Benet sono una coppia in montagna come nella vita; a partire dal 1994, anno in cui cominciano ad esplorare le montagne più alte del mondo partendo proprio da una delle più difficili, il K2, si sono via via fatti conoscere nel variegato mondo alpinistico himalaiano, con la discrezione e la sobrietà che li ha sempre contraddistinti. La loro visione di alpinismo è ancorata ai valori dell’alpinismo classico d’avventura, all’insegna del “by fair means”; non fanno uso di ossigeno nè di portatori di alta quota, procedendo con lo stile capsula, portandosi sulle spalle il materiale per installare i campi, battendosi la traccia, utilizzando solo brevi tratti di corde fisse sui passaggi più difficili, affrontando la salita da soli o con un ristretto numero di amici, tra i quali Luca Vuerich è stato quello con cui hanno instaurato il legame più forte. La loro genuina passione per la montagna li ha condotti a esplorare le pareti dei 14 ottomila in un percorso di crescita sia alpinistico che affettivo, con il quale hanno potuto maturare la loro singolare esperienza di vita in coppia. Lei, bergamasca del 1961 e lui, tarvisiano del 1962, si sposano nel 1989 e si trasferiscono a vivere a Fusine nelle alpi Giulie, dove lui fa la guardia forestale. Come abbiamo detto, la prima esperienza himalaiana è al K2 dove, al tramonto del 31 luglio del 1994, insieme a Filippo Sala, raggiungono il punto più alto a 8.450 m. sull’inviolato spigolo nord ad 10 CAI MORBEGNO

appena 200m dalla vetta, procedendo nell’ultimo tratto in stile alpino senza corde fisse su terreno misto con difficoltà sostenute. Il primo ottomila arrivò nel 1998, il Nanga Parbat (8125 m) raggiunto in condizioni ambientali difficili in una atmosfera ricca di elettricità (i fulmini a ottomila metri sono rari ma comunqe hanno già fatto vittime); la nebbia lungo il ritorno mette a dura prova le proverbiali capacità di orientamento di Romano: di lui Erri De Luca nel suo libro Sulla Traccia di Nives dice “ha un cervello di uccello

migratore, e sa trovare la rotta anche alla cieca”. E, sempre sulla montagna Pakistana, Nives ricorda: “Abbiamo litigato a qualunque quota. Il litigio più alto lo facemmo al Nanga Parbat a settemilatrecento. Più su è impossibile, manca il fiato da sprecare in baruffe... Quassù noi ci amiamo e pure litighiamo, anche più amaramente che a casa. Ci amiamo e pure ci facciamo un male amaro, un contrasto teso che ci fa stare zitti giorni interi. Ci amiamo e ci aizziamo. Non credo ci sia un’altra coppia alpinistica che si è messa così spesso alla prova come noi due. Siamo un


A fianco: Romano Benet e Nives Meroi Sotto: Nives Meroi in arrampicata

laboratorio dell’amore ad alta quota.” (1) Nel 1999 centrano una accoppiata, a distanza di soli dieci giorni una dall’altra: Shisha Pangma (8046 m) e Cho Oyu (8202 m). Queste due salite confermano il valore della loro cordata e li pone tra i protagonisti dell’alpinismo himalaiano del momento; Nives è ora l'italiana con più Ottomila e, di fatto, una tra le più forti alpiniste d’alta quota. Passano quattro anni: nel 2003, si replica con la salità, nell’arco di 20 giorni, di tre cime nel Baltoro: Gasherbrum I (8068 m), Gasherbrum II (8035 m)

e Broad Peak (8047 m). Sino ad allora ci era riuscito solo lo svizzero Erhard Loretan che addirittura aveva fatto ancora meglio impiegando, in tutto, 17 giorni; però Nives è la prima donna a concludere il trittico. Il giorno in cui con Luca raggiungono la cima del Gasherbrum I, a tre quarti della salita, Nives perde un rampone mentre Luca e Romano sono più in alto e non possono aiutarla; riesce comunque a raggiungere i compagni in vetta dove riceve una pesante romanzina: “la cima del Gascherbrum 1 è stata quella sulla quale invece di un

abbraccio, ho ricevuto la più massiccia carica di improperi della carriera. Me li sono tenuti, ho fatto la brava. A quella quota e dopo ore difficili non avevo neanche voglia di replicare. Ho abbassato le orecchie e via in discesa, Romano davanti e io dietro” (1). Salgono il Broad Peak in solitudine, in condizioni di tempo pessimo; sono ormai a fine stagione e sta arrivando il monsone, le altre spedizioni hanno già abbandonato il campo base. “Salivamo e il giorno peggiorava. C’era di che tornare indietro e dirsi comunque soddisfatti. Macchè. CAI MORBEGNO 11


Andavamo su nel buio della nebbia e nessuno di noi diceva niente. Ognuno di noi tre pensava bè, se si prosegue vuol dire che si può, che non è così brutta come sembra a me. Insomma nessuno parlava per dire che era un azzardo salire alla cieca. Così forzammo quell’uscio sbarrato, arrivammo in cima ostinati e uniti, in fila per non perderci di vista in quello spazio vuoto. Non so come Romano trovò la via giusta in mezzo al labirinto di quel giorno. Lo seguivo per istinto e per non farmi staccare, ma non ci credevo. Mi aspettavo che si fermasse, che cercasse tracce di salita: no, scendeva zitto e preciso come su una pista battuta” (1). L’anno dopo nel 2004 è la volta del Lhotse (8516 m). Così scrive Manuel Lugli su Planetmountain nel giugno 2017 “Nives e Romano discutono spesso in montagna – e non solo. Come tantissime coppie normali. Ma quando arriva il momento, sanno che la loro forza si amplifica nell’armonizzazione dei loro passi. Anche questo non vuol dire muoversi sempre insieme; diverse volte Romano ha preceduto Nives su qualche montagna, attendendola in vetta per parecchi minuti”. Così succede infatti sul Lhotse: “Di solito Romano arriva e mi aspetta. Sul Lhotse, a ottomilacinquecento, è rimasto ad aspettarmi un paio d’ore. Quando qualunque alpinista non vede l’ora di cominciare la discesa, anche per non raffreddarsi lui è rimasto a ottomilacinquecento col tempo che iniziava a peggiorare, è stato ad aspettarmi , certo che sarei prima o poi arrivata. Non è sceso a vedere se per 12 CAI MORBEGNO

caso ero tornata indietro, se avevo rinunciato. Era certo che sarei salita e ha aspettato la sua Nives, per poterci toccare là sopra. E questo non è solo amore, ma una fiducia smisurata. E se non è amore, dev’essere qualcosa di altrettanto violento, scatenato, se non è amore ha la forza di una valanga.” (1). Nel 2006 salgono dapprima il Dhaulagiri (8167m) e poi il K2 (8611 m) lungo lo sperone degli Abruzzi. Quest’ultima salita alla vetta avviene in perfetta solitudine: sono infatti soli sulla montagna, dopo che il maltempo aveva rallentato e poi fermato le altre tre cordate americane impegnate sulla stessa salita. Il decimo ottomila, l’Everest (8850 m), arriva nel 2007 lungo il versante Tibetano. La cima è raggiunta dopo due notti passate a 8100, in attesa di un miglioramento

del tempo. Sulla vetta si ritrovano assieme ad altre 15 persone, partecipanti alle cosiddette spedizioni commerciali. "L'Everest non è per gli alpinisti", è il commento di Romano. Nel 2008 è la volta del Manaslu (8156 m.) che salgono lungo la via normale, vivendo anche qui, come all’Everest, l’affollamento dato dalla presenza di spedizioni commerciali alle quali riconoscono però sportivamente di avergli agevolato la salita facendogli trovare spesso la traccia già battuta. Raggiungono comunque la vetta insieme a Luca Vuerich appena 15 giorni dopo il loro arrivo al campo base. Di fatto, Nives, si trova ora al vertice della classifica delle salite femminili senza ossigeno sugli 8000, al fianco dell'austriaca Gerlinde


Kaltenbrunner; questo a prescindere dal fatto che abbia sempre rifiutato di esser mossa dalla competizione in atto per divenire la prima donna sui 14 ottomila, affermando che la corsa non aveva a che fare con il suo alpinismo e quello di Romano. Giungiamo così al 2009, sul Kangchenjunga (8586 m.), quando a 7500 metri Romano non si sente bene e non è più in grado di continuare la salita. Nonostante le buone probabilità di raggiungere la vetta e vincendo le insistenze di Romano che si dice disponibile ad attenderla lì di ritorno dalla cima, Nives decide però di rinunciare: “non ti farò aspettare” gli risponde ed accompagna, senza indugi, il compagno al campo base salvandogli in questo modo la vita. Non aveva senso proseguire da sola. Questa scelta fa comprendere

una visione molto personale di quella che è stata chiamata “la corsa ai 14 ottomila” che assume per loro un significato solo nella condivisione di un percorso insieme. Così Nives si esprime, nel libro citato di Erri de Luca “Sulle Tracce di Nives”, quattro anni prima di vivere l’avventura sul Kangchenjonga: “Questo amore-

In alto a sinistra: al campo base dopo la salita del Lhotse Nives, Romano e Luca Vuerich Sopra a destra: Nives in vetta al K2 Qui sopra: lungo la salita al Lhotse

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ammore nostro è la cosa che ho in più rispetto alle scalatrici che in questi anni hanno tentato e tentano come me di toccare le maggiori altezze del pianeta. L’amore nostro è la forza che mi ricarica per semplice contatto, che spinge anche quando non ho più fiato, perchè so che c’è lui con me là sopra , e così continuo. L’amore nostro è il mio combustibile, un’energia pulita. Se mi riuscirà di completare il giro dei 14 ottomila, sarà per questo amore. Altre prima di me sono cadute sulle stesse montagne, desiderate con più forza della vita stessa. Io non sono migliore, più brava di loro, però ho Romano con me... Lui ce la farebbe anche da solo, ma in due,con me, per lui è più bello, più goduto. Pure per me è così, però con la certezza che senza di lui mi mancherebbe la volontà, più che la forza. Mi mancherebbe il suo silenzio, il sonno, la traccia sulla neve, che riconosco tra le altre, il colpo che lascia la sua piccozza. Anche se non è a vista, so di stare con lui...però così come siamo forti, siamo fragili il doppio. Senza uno di noi, l’altro non può. Noi siamo quest’ impresa in comune di scalare, non possiamo accettare altro formato. Non è un patto, non l’abbiamo scritto e nemmeno detto. E’ così. Esistono cose semplici e dure che non serve dirsi”. (1) Per la coppia è dunque l’inizio di un periodo difficile che li vede comunque sempre uniti nel combattere l’aplasia midollare che affligge Romano. Dopo due anni di cure e due trapianti, nella vita come in montagna, ne escono vincitori: Romano guarisce e nell’autunno del 2011 torna all’alpinismo d’alta quota con la salita del Mera Peak (6476 m). 14 CAI MORBEGNO

Il cammino sugli ottomila riprende proprio da dove si era fermato, sul Kangchenjunga, che viene raggiunto nel maggio 2014. E’ la sorella di lei, Leila, che con stile telegrafico da la notizia sul suo blog, sorprendendo tutti in quanto Nives e Romano non avevano praticamente detto a nessuno di questo loro ritorno sulla montagna. Giungiamo dunque alla storia recente: nel 2016 arriva il Makalu (8473 m) e, infine, nel maggio 2017, il quattordicesimo ottomila, l’Annapurna (8091 m) completando così un lungo cammino che al di là del risultato sportivo/ alpinistico rappresenta per tutti un esempio per la forza,

la caparbietà, la dedizione reciproca con le quali due persone hanno condiviso la loro avventurosa vita. Nives è la seconda donna nella storia ad aver raggiunto la vetta di tutti i 14 ottomila senza ossigeno; lei e Romano sono però la prima coppia che ha condiviso questo risultato. Proprio mentre mi documentavo su internet, sul blog di Leila Meroi, ho trovato citata una frase di Nietzche, che mi ha colpito per quanto possa esprimere, in estrema sintesi, la qualità che, forse più di altre, ha sostenuto Nives e Romano nella loro straordinaria vita alpinistica: “Non la forza, ma la costanza di un alto sentimento fa gli uomini superiori”.


A fianco: Royal Robbins e Liz Sotto: in arrampicata sulla parete nord del Half Dome

Royal Robbins e Don Peterson Alla luce delle considerazioni fatte sino ad ora, possiamo dire che la cordata RobbinsPeterson si pone agli antipodi della coppia Meroi–Benet, per una molteplicità di ragioni che ci saranno più chiare in seguito. Innanzitutto si tratta di una cordata “estemporanea” che è durata solo l’arco di tempo di otto giorni, nell’ottobre del 1969, il tempo occorso ai due arrampicatori per compiere la prima salita di Tis-sa-ack, una via diretta lungo le striature nere che caratterizzano la parete nord-ovest dell’Half Dome nella Yosemite Valley (una leggenda indiana narra

che le striature nere siano il segno delle lacrime di una fanciulla indiana, Tis-sa-ack, lasciata dal suo spasimante). Sebbene avesse solo 34 anni, Royal all’epoca era già un alpinista affermato. Insieme al suo storico antagonista, Warren Harding, poteva essere considerato il padre dell’arrampicata moderna americana che si era sviluppata sulle grandi pareti di Yosemity dalla fine degli anni ’50. Avevano contribuito entrambi a sviluppare l’arrampicata stile big-wall essendo stati i primi ad affrontare le grandi pareti di El Capitain e dell'Half Dome, dimostrando grandi doti tecniche e di ardimento. Royal aveva una personalità molto carismatica; amante

della musica classica, incline alla introspezione, aveva un approcio alla roccia più attento all’etica, privilegiando un impiego limitato di mezzi artificiali (leggi chiodi a pressione). Era un purista, e forse per una sua certa presunzione intellettuale che lo spingeva a voler imporre il proprio pensiero, per molti era considerato un moralista. Warren da parte sua aveva una personalità altrettanto forte ma più sanguigna; era intollerante alle regole, un anarchico, e non ultimo un gran bevitore, oltre naturalmente ad essere un arrampicatore tenace dotato di grande audacia. Proverbiale la polemica tra i due che si consumò sulle pagine della CAI MORBEGNO 15


rivista californiana Ascent, coinvolgendo proprio la via Tis-sa-ack di Royal. Warren aveva salito nel novembre del 1970 la Parete della Prima Luce del Mattino sul El Capitan utilizzando una tecnica di assedio, durata 27 giorni, con un massiccio utilizzo di mezzi artificiali (300 chiodi a pressione), seguito da una troupe televisiva per sfruttare commercialmente l’impresa. Aveva naturalmente suscitato le critiche di Royal che, pochi mesi dopo, in pieno inverno attaccò la stessa via per schiodarla e metter fine allo scempio. Successe però che dopo aver smartellato i primi 40 chiodi a pressione, man mano che saliva, si convinse che non si trattava di un banale esercizio da carpentiere, riconobbe il valore della salita e la sua bellezza, comprendendo di non aver nessun diritto di distruggere la via: interroppe così la schiodatura e prese forse consapevolezza della sua eccessiva presunzione nel voler sempre imporre la propria etica arrampicatoria agli altri. Dopo solo sei giorni raggiunse la cima. In effetti Warren non aveva forato a vanvera; in diversi punti aveva anche usato la tecnica dei bat-hook che consiste nel praticare solo corti fori nella roccia a cui appendere un cliff-hanger, un gancio, ripetendo magari l’operazione per diversi metri. Così Warren scrive su Ascent: “Sinceramente il mio più grande interesse sarebbe quello di capire se esiste qualche possibilità clinica per analizzare con sufficiente chiarezza gli oscuri labirinti mentali di R.R..Forse R.R. fa una certa confusione 16 CAI MORBEGNO

tra l’etica arrampicatoria ed argomentazioni sottili (oscure?) di moralità, prostituzione... come ad esempio, una salita realizzata con 100 chiodi ad espansione (leggi Tis-sa-ack) ossia una fanciulla che costa 100 dollari la notte, va bene, è cosa giusta. Ma una via aperta con 300 chiodi ad espansione, ossia una fanciulla da 300 dollari la notte, allora no, non va più bene, è immorale, scandaloso, riprovevole...” (2) Dopo questa digressione per presentare la figura carismatica di Royal, torniamo all’ottobre del 1969: Roy è in Yosemite per compiere la salita diretta dell’Half Dome che aveva già

tentato l’anno prima con Chuck Pratt e Dennis Hennek. Non ponendo contare sugli stessi compagni, già impegnati, riceve proprio da Pratt il suggerimento di chiedere a Don Peterson, un giovane e talentuoso arrampicatore che si era già messo in luce per diverse difficili salite tra le quali una veloce ripetizione della via del Diedro su El Capitan. Si forma dunque una cordata inedita, in cui il giovane emergente, sicuro di se, consapevole delle proprie capacità, non mostra alcun timore reverenziale nei confronti della leggenda di Yosemite, Royal Robbins, che


da parte sua si sente punto nell’orgoglio di dover difendere la propria fama. La salita viene raccontata in un bellissimo articolo firmato da Royal, comparso su Ascent nel maggio 1970 (in Italia pubblicato su Scandere 1979 – Annuario del CAI Sez. Di Torino), nel quale i due protagonisti parlano direttamente in prima persona. “Peterson - In mattinata ci mettemmo d’accordo per la salita. Robbins sembrava posseduto dal demonio . L’idea di andare a fare il Dome lo aveva completamente suonato.” (3) La base della parte viene raggiunta dai due dopo un lungo e faticoso

avvicinamento gravati dal peso di enormi zaini. “Robbins - Ci fermammo dove cominciano le grandi placche e guardammo in su. “Non sai eh che ti aspetta lassù?” gli chiesi in tono scherzoso. “Bene, replicò Don, non sarà certamente più duro delle cose che ho già fatto nella valle”. Tornai completamente frigido. Il tono degli otto giorni successivi fu sempre di questo tipo.” (3) “Peterson – Ciò che non riuscivo a mandar giù era il suo tono di superiorità. Per lui non c’era discussione: lui era Royal Robbins, lui era il capo. Non mi andava giù. Cristo! , avevo fatto nella Valle salite dure

come quelle che aveva fatto lui, e poi avevo realizzato il tempo più veloce sulla via del Diedro. Poi, quando arrivammo alla base della parete, mi mandò a prendere l’acqua. Era troppo. Non potevo digerire questa offesa.” (3) Il primo giorno percorrono i primi tre tiri già saliti l’anno prima e raggiungono una cengia chiamata il dormitorio. “Robbins - ...Era strano arrampicare con Don. Come tutti i giovani arrampicatori era frenetico e impaziente. Era abituato ad essere velocissimo e a salire sempre...Ma ancora non mi aspettavo di sentire le scariche di impazienza di Don correre lungo la corda fino a me come un flusso continuo di corrente elettrica. E neanche mi aspettavo una frattura tra le due generazioni, ma in realtà ci fu. Per otto giorni ci saremmo chiusi in un conflitto serrato, ciascuno troppo orgoglioso per comprendere le debolezze dell’altro.” (3) Il secondo giorno li vede impegnati a salire la Zebra, un lungo diedro sul quale Don si esibisce facendo dei numeri, prima incastrando tre bong uno nell’altro e poi facendo un paio di voli per superare una lama staccata che non vuole accogliere i suoi micro nuts. Raggiungono così il Terrazzo del Crepuscolo, il punto più alto del tentativo dell’anno precedente. “Robbins – Sopra di noi iniziava una fessura molto balorda, larga cinque pollici. Don andò a vedere, ma mi disse: “Vuoi provare tu?” “Non mi farà per niente schifo provare, anzi...” gli risposi”...”Così per circa un’ora trafficai con Bongs piantati per largo e con bongs di quattro pollici spessorati da un chiodo CAI MORBEGNO 17


angolare...Era disgustoso come può esserlo l’inferno. Se uno solo di quei bongs avesse mollato, sicuramente sarei piombato giù in braccio a Don... Quando Don venne su, fui abbastanza goduto nel sentirlo dire che forse lui non sarebbe stato capace di fare la fessura. Forse ora la tensione tra di noi avrebbe potuto allentarsi. Probabilmente lui si aspettava che io gli dicessi: “ma va! Ce l’avresti fatta di sicuro!”, ma io non volli rinunciare all’unico punto di vantaggio che avevo guadagnato”. (3) Al terzo giorno, dopo aver piazzato una lunga fila di chiodi a espansione, giungono alla base di un tratto ancora difficile in arrampicata libera. “Robbins - ...un’altra di quelle porche fessure da cinque pollici, troppo larga per i nostri bongs e troppo stretta per cacciarvisi dentro. Mi lanciai in una terribile arrampicata ad incastro, strisciando e contorcendomi disperatamente nelle fessura leggermente strapiombante, che buttava fuori inesorabilmente... Con due bei chiodi ad espansione come punto di sosta e come ancoraggio per bivaccare appesi, mi ritrovai salvo e felice, con null’altro nella mia testa che i seguenti 250 metri di parete. Don voleva provare la fessura ad incastro, perchè io gli avevo detto che probabilmente era il passaggio in arrampicata libera più duro che avessi mai fatto su una grande parete, ma io gli dissi: “non c’è tempo, amico”, ed infatti tempo non ce n’era. Mi sentii molto sollevato, perchè temevo che Don potesse superare la fessura facilmente e temevo anche che poi andasse giù in valle a sputtanarmi con gli amici, dicendo che io avevo trovato eterno, ma in realtà 18 CAI MORBEGNO

non era poi così duro come io gli avevo detto. All’inferno, in ogni caso la verifica sarebbe giunta con la prima ripetizione. Lasciai allora che il passaggio conservasse la sua reputazione per un anno intero”. (3) Al quarto giorno Don inizia a mostrare segni di insofferenza per la lentezza della loro progressione. ”Peterson – All’incirca a questo punto cominciai a sentirmi non troppo tranquillo. Robbins aveva impiegato quasi un giorno intero per fare un tiro di corda. Non riuscivo proprio a capire come avremmo fatto a uscire a quell’andatura. Sapevo che Royal doveva piantare un sacco di chiodi ad espansione, ma lo starmene lì sulle staffe ad aspettare che lui finisse, mi faceva incazzare in modo feroce. Probabilmente io sarei stato più veloce. Stavamo usando troppi chiodi ad espansione, quando sopra di noi si alzava ancora un’immensa parete liscia e verticale. Cosa sarebbe accaduto se i chiodi non fossero bastati? Ma la sola cosa che Robbins sapeva dire era: “Possiamo sempre tornare indietro oppure ci possono tirare fuori dall’alto...”. (3) ”Robbins – Detestavo piantare quei chiodi ad espansione... io ero a picchiare e in continuazione mi giungeva dal basso il flusso costante di imprecazioni e di bestemmie, fino a giungere all’eiaculazione finale: “E’ tutto una merda!”. Da allora in poi dovetti combattere contro due forze avverse: la parete e Peterson. Ormai avevo imparato ad aspettarmi un grugnito di rimprovero al mio minimo errore, come non mandare su il chiodo giusto (“Che Dio ti fulmini! Me ne mandi di

tutti tipi meno quello che mi serve!”) o come dimenticare per un attimo di tenere la corda tirata. Cominciavo a sentirmi un incapace. Le cose non stavano proprio come Don diceva, ma per me era importante il fatto che lui le dicesse. Era una esperienza unica, totalmente nuova, arrampicare con uno che liberava tutte le sue emozioni in assoluta libertà di espressione. Ero come shoccato e leggermente terrificato dalle esplosioni di collera che Don liberava senza inibizione alcuna. Probabilmente sarebbe stato più salutare rispondergli a tono, avergli urlato: “Peterson! Vai a dar via il culo!” ogni volta che mi ero sentito insultato e sputtanato, concretamente o solo per mia immaginazione, durante la salita. Certo anch’io non mancavo di espressioni del genere. Le cose che avrei detto a Don erano sicuramente ben peggiori di quelle che lui disse a me, direttamente o implicitamente. Ma quando io le dissi, tenni la bocca chiusa.” (3) Robbins aveva previsto di fare la via in sei giorni ma ormai sono giunti all’ottavo; questo sia per le difficoltà dell’arrampicata artificiale, ma soprattutto per la fatica e il tempo necessario per forare la roccia (con punta e martello!). “Peterson - il lavoro di bucatura divenne un pò più rapido, ora che Royal usava le punte corte e metteva i chiodi più vicini. Ne metteva uno buono, poi due cattivi, e poi ancora uno buono; poi scendeva a recuperare i due cattivi e li piantava più in alto...E’ come un castoro che lavora per costruire la sua diga, lento e metodico...” (3) Superati gli strapiombi terminali giungono in vetta ormai nell’uscurità dove li


attende l’amico di Royal, Glen Danny, che li assite da vicino negli ultimi metri della salita. “Robbins - ...nell’oscurità tasto con le dita le fessure , picchio alla cieca con il martello massacrandomi le mani e i chiodi non tengono ed io mi lamento nel buio riempiendo di angoscia il cuore del mio compagno, gli chiedo di mandarmi su i suoi chiodi e le staffe per poter uscire ma lui si rifiuta ed io dico a Glen: “E’ tutta la via che fa così, tutta la via è sempre stato così”. (3) Non possiamo certo parlare, riferendoci alla cordata Robbins–Peterson di sintonia, affiatamento, affinità. Durante la salita di Tis-sa-ack si è consumato un vero e proprio conflitto generazionale, tra due personalità difficilmente conciliabili, nato forse da una eccessiva presunzione di entrambi, dalla incapacità di relazionarsi e dalla mancanza di volontà ad approfondire una conoscenza sulla base di

una stima reciproca. Forse la competitività generatasi può aver costituito uno stimolo in certi frangenti; ma sono più portato a pensare che l’incapacità di fornirsi un sostegno psicologico reciproco nei momenti di maggior difficoltà, l’assenza di empatia, abbiano costituito un peso, un grosso limite e reso la salita, seppur significativa dal punto di vista del risultato tecnico, un’occasione mancata sotto l’aspetto umano. Dobbiamo comunque considerare che, se il rapporto con Don non fosse stato così spinoso e tormentato, probabilmente Royal non avrebbe avuto una ragione per indagare con tale lucidità introspettiva i loro comportamenti e le loro emozioni e, di conseguenza, non avrebbe potuto consegnarci uno dei brani più originali della letteratura alpinistica.

Sopra: un pezzo di storia dell'arrampicata californiana, in vetta al Capitan, da sinistra, Tom Frost, Royal Robbins, Chuck Pratt e Yvon Chouinard. Nella pagina precedente: Robbins sulla via Salathè al Capitan e sul Half Dome

Note (1) Erri De Luca “Sulla Traccia di Nives” (2005) ed. Mondadori. (2) Warren Harding “Riflessioni di un arrampicatore malandato” rivista Ascent – luglio 1971. (3) Royal Robbins “Tis-sa-ack” rivista Ascent – maggio 1970 – pubblicato in Italia su Scandere 1979 – Annuario del CAI Sez. Di Torino.

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IL SENTIERO

ROMA

90 anni e non sentirli di Alessandro Caligari

Pochi percorsi possono reggere il confronto con il sentiero Roma. Una traversata mai banale, ad una quota costantemente rilevante, al piede di imponenti bastioni di granito. Una successione di valli a cui si accede attraverso passi spesso nascosti fino all’ultimo momento. La sua percorrenza rientra nella sfera dell’escursionismo ma richiede comunque delle competenze alpinistiche, soprattutto quando il sentiero mostra il suo lato più severo; con il brutto tempo, la nebbia o semplicemente negli anni in cui la neve tarda a ritirarsi completamente, il sentiero può diventare ostico se non pericoloso. Ha da sempre un buon successo di pubblico: probabilmente è l'Alta Via più nota e frequentata delle Alpi Centrali. Il tratto originale si svolge lungo la testata della Val Masino, nelle Alpi Retiche. Voluto dalla Sezione di Milano del CAI è stato tracciato dalle guide locali a partire dal 1928. Lo scopo principale era quello di collegare tra loro i rifugi 20 CAI MORBEGNO

di proprietà della sezione, in modo tale che potessero essere frequentati in serie, senza dover scendere a valle. Il tratto originale partiva dai Bagni di Masino (quota 1172) e saliva al rifugio Gianetti (quota 2534). Da lì proseguiva verso Est, raggiungendo il rifugio Allievi-Bonacossa (quota 2385) e quindi il rifugio Ponti (quota 2559). Scendeva poi verso la Piana di Predarossa e da qui verso il fondovalle, presso l'abitato di Filorera. Successivamente le fu annesso il cosidetto “sentiero Risari” il percorso cioè che

dal Rifugio Omio (quota 2.100) raggiungeva la capanna Gianetti. Molti ritengono che questo sia il “vero” sentiero Roma, circoscrivendo quindi il percorso alla testata della Val Masino. Altre versioni invece accettano le successive addizioni: ad Ovest il sentiero trova un nuovo inizio a Novate Mezzola, e risalendo la Val Codera raggiunge il passo dell'Oro e di lì la Val Masino ed il rifugio Omio. Ad Est il sentiero, dal rifugio Ponti, anzichè scendere verso la piana di Predarossa, sale fino al rifugio Desio, posto al Passo di Corna Rossa; di qui, imboccata la Val Airale scende fino al rifugio Bosio e quindi al paesino di Primolo, sopra Chiesa in Valmalenco oppure a Torre Santa Maria, che appunto ora alcuni ritengono essere uno degli estremi del sentiero Roma. Proviamo a percorrere idealmente il primissimo itinerario, quello che dai Bagni di Masino sale al rifugio Gianetti. Punto di partenza sono appunto le terme,


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stazione di antica data. Ce ne sono pervenute notizie fin dal '400, quando il podestà di Morbegno scriveva al duca milanese Francesco Sforza, magnificando le proprietà salutari delle acque dei bagni. Nel '500 ne parla più volte il noto novelliere rinascimentale Matteo Bandello. Di stanza a Caspano nei mesi estivi, a più riprese si reca ai Bagni per goderne delle acque, dandocene una descrizione anche in alcune delle sue novelle. Nel seicento una prima struttura in legno dava ospitalità a chi saliva fin qui per soggiornarvi, mentre nel secolo successivo la costruzione, crollata per le nevicate, viene sostituita da un nuovo edificio d'accoglienza, sopravvissuto fino ai primi decenni dell'800, quando a 22 CAI MORBEGNO

sua volta viene rimpiazzato da un edificio più moderno, in muratura. Col tempo la stazione si dotò di vari corpi di fabbrica, dalle svariate destinazioni, dal ristorante al bazar. Oggi i Bagni, seppur ristrutturati di recente, per varie vicende sono chiusi al pubblico, attendendo un auspicato rilancio. Lasciata la stazione termale il sentiero inizia subito a salire, imboccando la Val Porcellizzo. Il sentiero è nel bosco, fino al pascolo della Corte Vecchia, le cui baite sono utilizzate dai pastori all'inizio della stagione d'alpeggio. Dalla Corte il sentiero passa attraverso due enormi massi di granito; è un tratto stretto ed obbligato, che ad alcuni ha fatto tornare alla mente le Termopili, cioè lo stretto passo in cui lo spartano

Leonida, con i suoi 300 compagni, tenne in scacco per diverso tempo lo sterminato esercito persiano di Ciro il Grande. Una grande scritta, in caratteri greci ricorda questa intitolazione, probabilmente dovuta al conte Lurani sulla fine dell'800. Il sentiero continua a salire piuttosto sostenuto, incontrando altre baite, fonti, corsi d'acqua , risalendo la sponda sinistra idrografica della valle, fino da aprirsi, improvvisamente, allo splendido piano dello Zucùn. Si tratta di un pianoro erboso, percorso dalle anse del torrente, punteggiato da rododendri e da cui si apre una fotogenica vista sul Badile e Cengalo. Attraverso un ponte ci si porta sul versante opposto della valle, dove il sentiero torna a salire decisamente,


puntando alla capanna Gianetti. Situata nella parte alta della Val Porcellizzo, gode di una notevole vista sulla Val Masino e sulle retrostanti celebrate cime. Per iniziativa del conte Francesco Lurani Cernuschi, nel 1887 il CAI Milano fece erigere la piccola capanna Badile. Distrutta da una slavina nel 1901, sulle sue rovine sorse tre anni più tardi un secondo rifugio, dotato di un unico locale con 6 posti letto. L'accresciuta importanza alpinistica della zona rese necessaria una più grande e confortevole struttura, costruita nei pressi e inaugurata nel 1913, poi dedicata all'alpinista milanese Luigi Gianetti, suo mecenate. Durante la prima guerra mondiale il rifugio è utilizzato dagli alpini, mentre nel 1944 è incendiato dai nazifascisti perché ritenuto base partigiana. Ricostruito nel 1949, è ampliato nel 1954 e nel 1977 e ristrutturato nel 1994. Da quando è custodito, è in mano alla famiglia Fiorelli: Giacomo, guida alpina, dal

1913; il figlio Giulio dal 1949 e ora il nipote Giacomo. E’ dotato di 93 posti letto, più 13 nell'adiacente locale invernale (il bivacco Attilio Piacco, costruito nel 1961 sui ruderi della capanna Badile). Come prima accennato, alla Gianetti ci si arriva anche dal rifugio Omio, posto nella più occidentale valle dell'Oro. Per molti il sentiero Roma comprende anche il

Nella pagina a fronte: lo spigolo Vinci al Cengalo dal Sentiero Roma. In alto: in val del Ferro nei pressi del bivacco Molteni-Valsecchi. Sopra: al passo del Qualido. Nelle pagine precedenti: l'attraversamento del passo dell'Averta e nel tratto tra il Barbacan e il rifugio Gianetti con lo sfondo del Cengalo.

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passaggio da questo rifugio. Punto di partenza anche per la Omio sono i Bagni Masino, ma anziché imboccare la val Porcellizzo come avviene per la salita alla Gianetti, si prosegue oltre. Il sentiero, quasi sempre nel bosco e dal fondo piuttosto accidentato, sale ripido fino ad un piccolo alpeggio, da cui si apre un cono visivo verso il Badile, per poi riprendere quota fini alle baite della casera dell'Oro. Appena usciti dal bosco ci si imbatte in un caratteristico ricovero per bestie e pastori, sotto un enorme masso. Risalendo l'alpeggio si arriva al rifugio Omio, a quota 2100 m. La capanna non è grande, ospita una quarantina di persone. 24 CAI MORBEGNO

E' intitolata ad Antonio Omio, caduto nel '35 sulla Punta Rasica. Da qui parte il sentiero Risari, nato nei primi decenni del '900 e dedicato ad Ambrogio Risari, membro della SEM, noto soprattutto per la sua attività di costruzione e ristrutturazione di rifugi. Tra queste proprio anche la progettazione e la successiva ricostruzione della Omio. Dal rifugio la traccia sale in direzione Nord, verso la Punta Milano, sotto la quale c'è un bivio: a sinistra si va al Passo dell'Oro, mentre il nostro sentiero prosegue verso destra, risalendo un canale di sfasciumi; al termine si guadagna una cresta che porta al passaggio del Barbacan.

La discesa dal passo non è banale e le catene con cui è attrezzata spesso si fanno apprezzare. Terminato questo tratto un po' impegnativo si raggiungono i magri pascoli della val Porcellizzo e quindi, si raggiunge la Gianetti. Da qui si riparte, seguendo le croci rosse segnavia, passando al cospetto delle cime che hanno fatto la storia dell'alpinismo. Lasciati Badile e Cengalo, il sentiero sale al passo del Camerozzo (m. 2765). Anche qui delle corde fisse aiutano nella discesa verso la Val del Ferro. In questo tratto Popi Miotti segnala che sono ancora visibili i segnavia originali. Si tratta di fasci littori stilizzati, color amaranto, che ci ricordano


che il sentiero fu tracciato nel periodo del ventennio fascista, e che deve il suo nome a un intento celebrativo. La traccia prosegue mantenendosi in quota; un po' più a valle, al centro dell'anfiteatro e sotto un grande masso, è posto il bivacco Molteni-Valsecchi. Ricorda i due alpinisti comaschi, morti nella prima ascensione alla Nord-Est del Badile, durante la quale si unirono alla cordata di Cassin. Passando sotto le cime dei Pizzi del Ferro ci si avvicina al Passo del Qualido. Da qui si scende nell'omonima valle, una delle più isolate della costiera del Masino. E' anche una delle meno frequentate, soprattutto per la mancanza

di cime alpinisticamente significative, ed anche a causa del suo non facile accesso dal fondovalle. Per queste ragioni in val Qualido non ci sono né rifugi né bivacchi in cui sostare. Da molti anni poi anche l'alpeggio sottostante non viene più “caricato”. A ricordarci del periodo della monticazione resta però il grandioso “Camarun”, capiente ed ingegnoso ricovero per il bestiame, di cui abbiamo riferito nell'Annuario 2016. Percorsa per intero la valle ci si avvicina al canale che porta al Passo dell'Averta (m. 2540), che a sua volta introduce alla valle di Zocca. Il sentiero prosegue con dei saliscendi fino ad incontrare

il rifugio Allievi Bonaccossa (m 2385). Il primo edificio realizzato, conosciuto come capanna Zocca, risale al 1897 e fu costruito dalla sezione di Milano. Venne rifatto nel 1905 ma fu presto distrutto da una valanga. Il grandioso, quanto inutile, progetto della linea Cadorna, che prevedeva la realizzazione di presidi militari per contrastare eventuali avanzate nemiche dalla vicina Svizzera, fa sì che si decida di riedificare il rifugio, da adibire ad avamposto militare. Fu dedicato a Francesco Allievi, alpinista appassionato della Val di Zocca. Utilizzato dai partigiani, nel '44 fu pesantemente danneggiato dai nazisti. Terminata la guerra, CAI MORBEGNO 25


nel 1950 viene completamente ristrutturato e, dal 1988, affiancato dal rifugio dedicato ad Aldo e Alberto Bonaccossa. Nel 2000 una slavina produce grossi danni, dopodichè la capanna viene nuovamente ristrutturata. Sopra l'Allievi sorge la vetta più alta del gruppo del Masino: si tratta della Cima di Castello, che raggiunge 3392 m. Assieme alla Punta Rasica, alla Cima di Zocca e alla Punta Allievi costituisce un gruppo alpinisticamente rilevante. Lasciato il rifugio si prosegue verso Est, rimanendo grosso modo in quota, fino al Passo del Torrone. Da qui si scende, utilizzando corde fisse che immettono in un canalone, fino ai magri pascoli sottostanti dell'omonima valle. Al centro è posto il bivacco intitolato alla memoria di Antonio Manzi, tenente degli Alpini ucciso 26 CAI MORBEGNO

dai nazifascisti durante la Resistenza. Alle sue spalle sorgono delle cime importanti per le loro vie d'arrampicata, come i Torroni e soprattutto il Picco Luigi Amedeo. Completa lo skyline il caratteristico Ago del Torrone, una guglia granitica di una quarantina di metri. Le tracce del sentiero qui sono scarse, ma le croci rosse dei segnavia sono sempre evidenti. Il percorso si dirige verso Nord Est, fino ai piedi del Torrone Orientale e da lì ai 2950 m. del Passo del Cameraccio, punto più alto di tutto il sentiero Roma. Il valico introduce nel grande anfiteatro della Val Cameraccio, ampio circo dai confini poco marcati. Da qualche anno, a metà della valle sorge il bivacco Kima (2654 m). Realizzato in muratura, poco sotto il Passo di Mello sulla dorsale dell'evidente morena

ai piedi dei residui del Ghiacciaio del Monte Pioda, è intitolato alla memoria di Pierangelo Marchetti detto appunto “Kima”, guida alpina morta tragicamente durante un'operazione di soccorso alpino. Attraversata l'ampia vallata, da alcuni considerata in realtà la parte sommitale della Val di Mello, con la quale in effetti è in evidente continuità, ci si avvicina alla Bocchetta Roma. Alcune staffe e corde fisse aiutano a risalire il canalone che introduce al roccioso valico. Ci si immette quindi nella Valle di Preda Rossa, al cospetto dell'imponente mole del monte Disgrazia. A questo punto si scende decisamente, su blocchi di granito, fino a raggiungere il rifugio Cesare Ponti (2559 m). In questa zona, nel 1881, su iniziativa del conte Francesco Lurani Cernuschi, tra i primi


esploratori e illustratori del comprensorio, sorse la capanna Cecilia (in omaggio alla moglie), primo rifugio della Val Masino. Nella seconda metà dell'ottocento infatti si intensificano le ascensioni al gruppo del Disgrazia. Si pone allora la questioni del cercare di spezzare, con un punto d'appoggio, un avvicinamento alla cima, fino ad allora molto pesante. Donata nel 1883 alla sezione di Milano del CAI, la piccola costruzione da 5-6 posti si rivela ben presto dimensionalmente insufficiente come base per le ascensioni al Disgrazia. Nel 1890 le subentra nei pressi un nuovo fabbricato, comunque altrettanto modesto. Distrutto da una valanga prima di fine secolo, è ricostruito in dimensioni assai maggiori nel 1928 grazie al generoso

A fianco: in primo piano la parete del Picco Luigi Amedeo, piĂš a destra la Quota 2951, la punta Ferrario, l'Ago del Torrone e il Torrone orientale. Sotto: la bocchetta Roma da versante di Predarossa. Nelle pagine precedenti: lungo il sentiero verso il passo di Val Torrone e, a destra, in Val Torrone sovrastati dal Picco Luigi Amedeo

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Rif. Gianetti 2534

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Val Porcellizzo

Val del Ferro

Val Qualido

Rif. Omio 2100

concorso della famiglia Ponti, in memoria del noto banchiere milanese, a lungo consigliere della sezione CAI. Ristrutturato nel 1986, nel 2005 e nel 2007, è dotato di 60 posti letto più 6 nell'annesso locale invernale. Sostati al rifugio, si riparte raggiungendo la morena sottostante, fino ad un bivio. Qui bisogna decidere se affrontare il percorso originale, e quindi continuare a scendere verso la piana di Predarossa, oppure risalire il passo di Corna Rossa e spostare l'arrivo in Val Malenco. La prima opzione porta ad un altopiano tra i più belli della zona. Posto a duemila metri di quota, affiancato a meridione da un bastione costituito da sfasciumi di rocce rossastre, da cui il nome, è livellato dai sedimi portati dal torrente; il corso d'acqua, pigro e dai colori che possono mutare dall'azzurro, al verde, al grigio fangoso, descrive delle anse che sembrano ripiegarsi su se stesse, fino al lembo occidentale del piano. Qui il terreno ha una brusca impennata verso il basso che porta tutto, acqua, sassi ed escursionisti fino al fondovalle, meta finale del sentiero. L'altra 28 CAI MORBEGNO

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San Martino opzione invece, anziché farci chiudere un anello (anche se in realtà dal fondovalle d'arrivo, cioè Filorera, fino a tornare ai Bagni non è che manchi poco), ci porta da tutt'altra parte, in Val Malenco. Come detto, al bivio anziché scendere si risale verso il rifugio Desio. Superata la grande morena centrale della valle di Preda Rossa, si attraversa un nevaio e quindi ci si inerpica sul versante occidentale della costiera, fino al Passo di Corna Rossa (m.2836). Il rifugio Desio prende il nome dall'omonima cittadina, in provincia di Milano, la cui sezione del CAI è proprietaria della struttura. Situato proprio su una cresta che divide le due valli, il rifugio venne eretto nel 1924 ed all'inizio, proprio per via della sua ubicazione, venne chiamato rifugio Corna Rossa. Nel 1970 sono stati apportati notevoli lavori di ristrutturazione, ma le abbondanti nevicate dell'inverno 2000/2001 compromisero la stabilità e quindi la sicurezza della

struttura. Venne quindi dichiarato inagibile. Dalla Desio un ripido sentiero scende nella Val Airale, che confluisce nella val Torreggio dove si trova il rifugio Bosio, tranquillamente immerso in un rado bosco di larici. La traccia continua poi fino alla Val Malenco (per alcuni fino a Primolo, per altri a Torre Santa Maria) dove termina la “versione lunga” del sentiero Roma. Oggi il sentiero Roma è percorso da un'eterogenea tipologia di persone. La maggior parte sono escursionisti, che spesso coprono integralmente il tracciato. Se inteso nella versione lunga, cioè il tratto da Novate alla Val Malenco, viene percorso generalmente in un tempo che varia dai tre ai cinque giorni. Ma c'è anche chi ci impiega molto meno. Dal 1995 lungo il Sentiero Roma si corre il Trofeo Kima, una maratona d'alta quota considerata tra le più


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Val Torrone Rif. Bonacossa 2385

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Biv Kima 2700 Val Cameraccio Rif. Ponti 2559

Val di Zocca

IL SENTIERO ROMA DIFFICOLTÀ Svolgendosi in ambiente d’alta montagna richiede un buon allenamento ed esperienza. I tratti cruciali corrispondono all’attraversamento dei passi sulle costiere rocciose che dividono le varie valli: mai banali, seppure attrezzati, essi sono spesso molto difficili in caso di cattivo tempo o di forte innevamento.

impegnative del panorama mondiale di skyrunning. Il trofeo è dedicato alla memoria di Pierangelo Marchetti "Kima", di cui abbiamo detto in precedenza. Il percorso si svolge su una distanza di 50 chilometri con più di 3800 metri di dislivello. I vincitori compiono l'intero tragitto, affrontato in senso antiorario con partenza e arrivo a Filorera, in poco più di 6 ore. Anche il “percorso lungo” ha i suoi record. Per quanto concerne l'itinerario che parte da Novate Mezzola e arriva sino a Torre Santa Maria, il record appartiene a Fabio Contessa che riuscì a coprire i 72km con 5800m dislivello positivo del Sentiero in sole 9h04’27”. Nel 2018 ricorrono i 90 anni del tracciamento del Sentiero Roma; sia che si voglia correre, che si voglia camminare con calma, il percorso resta sempre un itinerario grandioso, che lascia un ricordo indelebile e delle sensazione profonde a chi lo percorre.

ATTREZZATURA Oltre all’abbigliamento e a calzature adatte alla quota, munirsi di imbragatura, cordino e alcuni moschettoni per assicurarsi alle corde fisse oltre ad una corda, una piccozza ed un paio di ramponi per comitiva. E’ consigliabile informarsi sulle condizioni di innevamento PERIODO CONSIGLIATO da luglio a fine settembre DISLIVELLO E TEMPI 3036 m in 18 ore così suddiviso: Bagni Masino-Rif. Omio dislivello in salita 930 m – da 1170 a 2100 m tempo: 2 h e 30 min Rif. Omio-Rif.Gianetti dislivello in salita 550 m – dislivello in discesa 120 m tempo: 2 h e 30 min Rif.Gianetti-Rif.Bonacossa dislivello in salita 580 m – dislivello in discesa 730 m per il p.so Camerozzo 2765 m il p.so Qualido 2647 m e il P.so dell’Averta 2540 m tempo di percorrenza: 5 h Rif.Bonacossa-Rif.Ponti dislivello in salita 1150 m – dislivello in discesa 976 m attraverso il p.so Torrone e Cameraccio 2950 m e la Bocch. Roma 2898 m tempo di percorrenza:8 h I tempi sopra riportati si riferiscono ad un escursionista mediamente allenato, va da sè che possono subire variazioni (6h e 10 min sono il record per lo stesso percorso con partenza e arrivo a Filorera dal vincitoredel Trofeo Kima nel 2016) anche sulla base dell’innevamento residuo

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LA FRANA DEL

CENGALO di Riccardo Scotti

Ventitrè agosto 2017 ore 9.30: 4 milioni di metri cubi di granito si staccano dal versante nord del Pizzo Cengalo. La parete è un muro e gli enormi blocchi cadono praticamente in verticale per circa 200 m schiantandosi su un ramo del piccolo Vadrec dal Cengal a 2500 m. L’impatto è tremendo e con molta probabilità una buona porzione del ghiacciaio viene disgregata meccanicamente e fusa istantaneamente a causa delle enormi forze di attrito in gioco. Il miscuglio di roccia e acqua si riversa nella Clavera della Bondasca,

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proprio dove, fino a qualche anno fa, correva il famosissimo sentiero del Vial che collega le Capanne Sciora e Sasc Furä. La frana scorre su un pendio detritico ricco di acqua che arriva dal torrente glaciale del Vadrec da la Bondasca, in piena a causa del caldo estivo. Altra acqua che si mischia ai detriti.


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Sei anni prima, il 27 dicembre 2011, una frana staccatasi dalla stessa posizione, simile seppur più piccola (1.52 milioni di metri cubi), era arrivata fino qui fermando la sua corsa alla base del pendio. Era inverno, acqua allo stato liquido non ce n’era così che la frana si esaurì. Questa volta invece la frana, tecnicamente una “rock avalanche”, valanga di roccia, si trasforma, cambia pelle e diventa una colata di detrito, fango e blocchi di granito che iniziano a correre velocemente lungo la Val Bondasca, travolgono strade, ponti, alpeggi e baite nel giro di pochi minuti. Vengono inghiottiti dalla colata anche 8 escursionisti che scendevano dalla Capanna Sciora mentre altri si salvano in modo rocambolesco. La colata arriva a Bondo e travolge una stalla ed alcune abitazioni. Il fango invade le case e poi, in modo meno distruttivo, percorre tutta l’asta fluviale fino a sporcare 32 CAI MORBEGNO

di limo il Lago di Novate Mezzola e persino il Lago di Como. L’emergenza non si esaurisce, nella notte e nei giorni successivi nuove colate invadono nuovamente Bondo ed il fondovalle, mettendo in ginocchio un’intera comunità con un paese evacuato e la viabilità bloccata. Una frana epocale, non tanto per i danni o le sue dimensioni, come riferimento la Val Pola è stata 10 volte più grande. L’evento ha una sua valenza simbolica poichè, forse per la prima volta a livello Alpino, una frana messa in relazione diretta con i cambiamenti climatici arriva ad interessare il fondovalle. Dalla caldissima estate 2003 le montagne hanno iniziato ad incrementare il numero di crolli, ma si trattava pur sempre di situazioni abbastanza circoscritte e di interesse esclusivamente alpinistico. Il rapporto fra innalzamento delle temperature e stabilità dei versanti è una disciplina

giovanissima, che ha iniziato a svilupparsi proprio a seguito dei crolli del 2003. Ci siamo sempre sentiti dire che con i cambiamenti climatici si ritirano i ghiacciai, si espande la vegetazione e si innalzano gli oceani, mentre poco o nulla si sa riguardo la stabilità delle nostre montagne in un contesto di violento innalzamento delle temperature. Le comunità alpine non sono mai state preparate ad un incremento di frequenza di eventi catastrofici di questo genere. Entrando più nello specifico occorre chiarire che le dinamiche di innesco e le cause dell’evento franoso del Cengalo andranno analizzate a livello scientifico in modo serio ed accurato. I tempi della ricerca scientifica sono lunghi, ci vorranno almeno 1-2 anni prima di poter vedere i risultati degli studi. Per ora non c’è quasi nulla a riguardo, se non qualche considerazione estrapolata dai tecnici che


da anni stavano studiando la montagna. Questa analisi non ha pretese di scientificità e si tratta solo di ipotesi e di congetture basate sulle poche informazioni disponibili. La parete nord del Cengalo, così come molte altre pareti

alpine al di sopra dei 2500 m è in permafrost, ovvero, al di sotto di una certa profondità che va da qualche centimetro a qualche metro, la temperatura della roccia è costantemente al di sotto dello zero mentre in superficie può andare sopra

Nella pagina a fronte: lungo il Viale, poi chiuso dopo l'evento del 2011 Sopra: la parete del Cengalo prima e dopo la frana del 2011 e uno dei cartelli affissi in Val Bondasca.

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zero in estate e va di molto sottozero in inverno. Per millenni il freddo si è infiltrato nella parete a causa delle costanti basse temperature dell’aria. E’ intuitivo quindi comprendere come la temperatura della roccia vada gradualmente aumentando man mano che si va in profondità fino ad arrivare ad un punto (a qualche decina di metri di profondità) in cui la roccia tornerà sopra lo zero. Per una serie di motivi legati alla tettonica ed alla storia post-glaciale una parte della parete nord del Cengalo è contraddistinta da un reticolo di fratture molto fitte e profonde. Non si tratta di granito compatto così come appare invece la vicina parete nord est del Badile. Queste fratture sono tendenzialmente riempite da ghiaccio formatosi per la percolazione di acqua di fusione nivale che, entrando nel cuore della montagna e trovando temperature sottozero, per secoli si è trasformata in ghiaccio istantaneamente. Questo ghiaccio è in genere molto antico, in alcuni contesti è stato datato fino a 6000 34 CAI MORBEGNO

anni. Una data non casuale visto che, proprio a quel tempo, dopo un lungo periodo relativamente caldo chiamato optimum termico olocenico, iniziò il graduale abbassamento delle temperature del pianeta. Questa tendenza al raffreddamento è stata lenta e graduale, quasi impercettibile se non sul lungo periodo ma con un picco negativo poco più di un secolo fa all’apice della Piccola Età glaciale. Il successivo rapidissimo aumento delle temperature in gran parte dovuto alle attività antropiche (sulle Alpi nell’ordine dei 2° per secolo), ha azzerato 6000 anni di raffreddamento riportando il clima Alpino a condizioni simili a quelle dell’optimum olocenico. I ghiacciai hanno reagito in modo lineare, rapido, efficace, scomparendo quasi completamente. Il permafrost è più arcigno, nascosto all’interno del granito, e necessita invece di tempi più lunghi per riscaldarsi ed eventualmente scomparire. Inoltre, a differenza dei ghiacciai, la permanenza del permafrost dipende molto anche dalle temperature

invernali, quando il gelo può penetrare all’interno della montagna compensando in parte le caldissime estati del nuovo millennio rendendo l’intero processo più lungo, lento e complesso. Con molta probabilità le anomalie termiche degli ultimi 30 anni hanno iniziato ad intaccare l’equilibrio statico dell’intero ammasso composto da roccia e ghiaccio. In che modo? Il ghiaccio si può deformare, e si deforma in modo molto più facile aumentando di temperatura, non è quindi necessario che si trasformi in acqua per mettere in movimento una frana. La deformazione inizia già quando la sua temperatura si avvicina al punto di fusione. È quindi possibile che il ghiaccio di queste profonde fratture sia stato oggetto di riscaldamento in parte a causa dell’aumento delle temperature e in parte a causa della percolazione di acqua dovuta ai violenti e “caldi” temporali estivi che, alle quote del Cengalo, un tempo erano quasi sempre nevosi grazie alle temperature estive mediamente più basse. A causa dell’alta inerzia termica


A fianco: la frana recente da frame video. Sotto: la parete del Cengalo fotografata dopo l'evento recente, si noti la scomparsa quasi totale del ghiacciaio letteralmente sgretolato dalla frana.

della roccia, il riscaldamento a grande profondità è molto lento e graduale tanto che crolli di questo tipo possono accadere in ogni stagione dell’anno, come infatti è avvenuto nel dicembre 2011. L’aspetto scientificamente più sorprendente della frana del Cengalo è stata sicuramente la sua trasformazione istantanea da rock avalanche a colata detritica. Da dove potesse venire tutta l’acqua presa in carico dai detriti lo abbiamo ipotizzato. E’ da rimarcare il fatto che, in assenza di forti piogge, un decorso del genere sia stata una grossa sorpresa per tutti (addetti ai lavori e non). Questo evento deve servire da insegnamento per un futuro in cui i cambiamenti climatici, come in questo caso, potranno generare fenomeni sorprendenti ed inattesi. C’è ancora molto da imparare sull’interazione di diversi processi, apparentemente scollegati fra loro, le cui conseguenze possono coinvolgere non solo gli alpinisti ed il loro terreno di gioco, ma intere comunità alpine. CAI MORBEGNO 35


ARTURO GIOVANOLI SILENZIOSO CUSTODE DELLA BREGAGLIA di Alberto Benini

Diciamolo subito, ancor prima di cominciare: è impossibile almeno per noi tradurre sulla carta la personalità di Arturo Giovanoli guida bregagliotta, custode di quel luogo magico e fuori dal mondo (anche se sotto vi corrono a migliaia le auto dei milanesi diretti Sankt Moritz) che è Nossa Dona. Ma abbiamo deciso di provarci lo stesso perché l’Arturo vale la pena e anche l’eventuale fallimento.

ANTEFATTO Il primo incontro risale a molti anni fa: alla ricerca di informazioni per la biografia di Casimiro Ferrari, Giuliano Maresi mi aveva accompagnato a bussare alla porta della casa estiva dei conti di Stampa. Ve lo faccio un risotto? Ed erano quasi le quattro del pomeriggio. Avevamo faticato non poco a rifiutare, alla fine piuttosto malvolentieri 36 CAI MORBEGNO


per quel malinteso senso dell’educazione e per la longobarda tendenza a rispettare gli orari di pranzo e cena che il nostro ospite aveva ormai relegato nei ricordi di una vita familiare che ora, da lupo solitario, poteva guardare con la stessa distanza delle macchine che correvano sotto di lui dirette alla verde Engadina. Nella stua della casa Arturo ci aveva

affascinato col racconto di Casimiro che tentava con la sua tipica ostinazione (“I fatti mi danno torto? Tanto peggio per loro!”) di produrre formaggio nella sua estancia di Punta del Lago: l’aria troppo secca non consentiva il processo e dopo un po’ l’ostinato Casimiro arrivava a proporre le sue produzioni accompagnandole con la frase: “Dimmelo che fa schifo!” prima di rinunciare

definitivamente per la gioia di ospiti e collaboratori alla produzione. Non era tanto ciò che raccontava a stregare, ma la sua attenzione ai particolari, la sua fine intelligenza e la sua delicatezza di spirito. Che colpiva in un uomo dalla struttura fisica di un vigore straordinario, frutto di anni su e giù per le montagne e di una mai abdicata militanza da taglialegna. CAI MORBEGNO 37


PUNTATA PRIMA Quel risotto è rimasto sospeso finché, passa un giorno, passa l’altro ci siam decisi a accettare quell’invito. E così nel dicembre del 2016, in compagnia di Pietro Corti siamo saliti di nuovo a Nossa Dona (che è come dire Nostra Signora). E diciamo subito che il risotto con le salsicce (“son quelle del Giancarlo di Stampa”) divorato nella cucina, su un tavolo “di misura per quattro” valeva il viaggio. E spero ne valga altri in futuro. Ma ancor più lo valevano i racconti di Arturo, la visita guidata alla chiesa (protestante), che dà il nome (cattolico) al poggio dove la splendida torre medievale ricorda (ce ne fosse bisogno…) che ci troviamo in un punto da cui il controllo sulla valle della Maira è perfetto. Arturo ci racconta che i Castelmür ci han costruito la casa che lui occupa attualmente come luogo di vacanza estivo. E lui lì c’è nato: i suoi erano i custodi del luogo, che oggi, passato in proprietà pubblica, si giova del suo lavoro di instancabile manutenzione. E non serve la competenza contadina di Giuliano ad attestarlo: basta guardare come tutto è in ordine perfetto, il prato tagliato con svizzera precisione e tutto emana un senso di bello, niente affatto artificiale: Arturo non è certo un regolare, ma è un esteta e il senso del bello traspare anche dal disordine della sua casa. E’ un’altra giornata di tempo bigio, ma dentro, oltre alla stufa, ci scaldano i racconti bregagliotti dei due militanti alpinisti di vecchia data. Sarebbe stato bello vederli ingaggiare una delle loro 38 CAI MORBEGNO

nobili gare sugli ultimi tiri dello spigolo, ma ci tocca accontentarci di sentirli raccontare di canaloni ghiacciati e di ritorni dalla nordest lungo il Passo del Porcellizzo dove “se viene giù un sasso io lo schivo di sicuro, ma se son con un cliente come faccio? Il cuore mi salta qui….” Arturo racconta di quando si arrampicava “stile orso” abbrancandosi (o abbracciandosi) sugli alberi. E poi tenendosi stretto con le gambe fletteva il tronco all’indietro tonificando gli addominali… E racconta di quando era ragazzotto e tagliava legna sul pendio di fronte ed era inciampato rotolando giù senza riuscire ad arrestarsi. “E quelli sotto quando mi hanno visto han pensato quello lì è morto di sicuro.. “ E invece… Quando ce ne andiamo verso Lecco ci rimane la voglia di ascoltarlo di nuovo anche se i problemi del trascrivere le conversazioni con lui sono molti. Intanto sembra di stare in una pagina di Gadda, digressioni, rapidissimo trascorrere dal grande al piccolo, salti temporali e spaziali, legati al suo modo far procedere il discorso per analogia di sensazioni, dimenticando il procedere cronologico o spaziale. Un modo al quale bisogna abbandonarsi per ritrovarsi in un mondo che per noi cittadini sarà sempre “altro”. E poi c’è la lingua: un italobregagliotto rifoggiato a “formato Arturo” pieno di espressioni che accompagnate dal gestire delle mani (altra cosa irraccontabile) danno corpo (in senso letterale) alla descrizione, trasportandola in

un ambito quadridimensionale. E così in una frase sola ci stanno cose lontanissime: l’Antartide e un bombo (bombolo, in arturese) bregagliotto, le capre, il Badile e le traversate patagoniche… Più mille considerazioni sulla vita. PUNTATA SECONDA Ci siamo ritrovati in questo dolce novembre del 2017 nella baita del Giuliano a Berzo a pochi passi dallo Schiesone in secca. L’Arturo è in trasferta:“venendo giù in frontiera c’era un traffico che credevo di arrivar giù a Parigi, mica a Chiavenna..”. Gli do appuntamento davanti alla stazione di Chiavenna mentre Giuliano e Olga rianimano la baita, mettendo su polenta. L’Arturo è lì in stazione che aspetta: ha appena ritirato un ingrandimento di una foto scattata pochi giorni prima nei pressi del bivacco Chiara e Walter: una festa di colori, di quinte di montagne, “Non sono un gran fotogràfo, ma mi piace fare le foto, per avere dei ricordi….” Per non essere un gran “fotogràfo” direi che non se la cava male.. “Siamo andati una mia amica e io. Lei aveva guardato col computer le previsioni: non è bello, ma non pioverà… siamo partiti da Soglio e abbiamo camminato tutto il giorno nella nebbia. Se trovi il momento giusto, ogni tanto nella nebbia vedi qualcosa… la sera ho visto il Badile. La luce era bella se avevo l’apparato buono, magari…. E la mattina ho ricevuto la paga: questa era la luce del mattino… Che bello vedere delle cose così…”


Nella pagine precedenti: Pietro, Arturo, Giuliano a Nossa Dona e un acquarello originale di Arturo A fianco: “Da qui, messere, si domina la valle� Sotto: Arturo a Berzo Nella pagina successiva: un giovane Arturo coi suoi capretti e in cima al Dent da Luf

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“Settimana scorsa sono andato con il mio nipotino di 6 anni al Legnone… eravamo con un gruppo del CAI Chiavenna, loro andavamo veloci “Sai – gli ho detto- loro son dei professionisti…”. Poi verso la fine siam passati davanti noi e siamo arrivati in cima per primi: “Nonno allora siamo un poco professionisti anche noi..” Intanto arriva in perfetta sincronia anche il Pietro. E attacchiamo subito a parlare della grande frana di questa estate. “Dopo vi faccio vedere le foto. Faccio tante foto, ma per ricordi, per spiegare alla gente..” A Berzo, quattro case, una santella e una fontana, ci accoglie l’asino Pippo con la sua Nina, fresca mamma di un meraviglioso cucciolo e la cagna Bernie, feroce custode scodinzolante. La polenta è quasi pronta. “Ti piace la polenta, Arturo?” fa Olga, da brava padrona di casa. “A me piace tutto, se no come facevo a girare il mondo.? Ho mangiato anche la carta e che carta, in Patagonia…” La cosa straordinaria di Arturo, che ha scalato dall’Himalaya all’Alaska, alla Terra del Fuoco è la capacità di utilizzare la Bregaglia come uno straordinario paradigma della montagna e dell’ambiente naturale in generale. Lui lì c’è nato e cresciuto ha firmato alcune imprese che ne certificano il valore, fra le quali la prima invernale alla Punta Sant’Anna (via Bonatti) col cugino Guido a fine dicembre 1974. E nel gennaio del 1993 con Franco Della Torre l’integrale invernale dell’Ago di Sciora, riprendendo il percorso diretto lungo lo spigolo ONO tracciato nel 1969 da Kasper e Stussi che raddrizza la via 40 CAI MORBEGNO


di Risch, a sua volta ripresa in prima invernale da Chiappa e Zocchi nel 1971. E chi guarda all’orientamento delle pareti e sa cos’erano gli inverni in Bragaglia capisce di chi e di che cosa si sta parlando.. LA BREGAGLIA FERITA Già.. la Bregaglia ferita ci mette poco a entrare nei discorsi: “Pensa la frana è venuta giù e ha lambito le case di Lera, dove avevo le capre da giovane e c’è la casa di mio fratello. Pensa è passata a quattro metri e ha fatto cadere una pianta che ha rovesciato la pioda su cui mio fratello fa le cotolette… Alla nostra casa non è successo niente… Pensa che in una casa di un alpeggio un sasso grande come un bicchiere, proiettato dalla forza della frana, ha forato la copertura del tetto e le tavole. È successo anche a degli alberi di venir bucati così… E le case di Bondo? Ah quelle vecchie niente, io non sarei neanche scappato… magari ci sarà da preoccuparsi un po’ a primavera quando si scioglie la neve… “E il Badile?” “Ah il Badile è venuto bianco dalla paura (ride, facendo riferimento a tutta la polvere volata in giro..). Dall’altra parte il Ferro da Stiro ha fatto argine, se non scavalcava anche l’altra morena .. Quando avranno finito di livellare tutto quello che è venuto giù, a Bondo ci sarà il sole tutto l’anno e potremo dire ‘Andiamo su a guardar giù il Badile’. Pensate che due settimane e mezzo prima sono andato col mio nipotino alla Sciora che volevo fargli toccare il ghiaccio. C’era lì un larice che la frana

dopo gli ha strappato tutte le rame e se ero lì io … una polvere rossa nell’aria e ciao.” PERSONAGGI, BALENE E BOMB(OL)I “Casimiro l’ho conosciuto nel negozio del Cassin: ero giù a a comprare del materiale e c’era ‘sto ometto piccolo… io spiegavo come usare i nuts e lui mi prendeva come un po’ in giro. E qualcuno che era lì mi fa: ‘Ma lo sai che è quello che ha fatto il Cerro Torre..’. Poi non so perché ci siamo messi a parlare di capre e di falci. E di come si sfalcia. Non abbiamo mai parlato di montagna né qui né in Patagonia: solo di bestie .. Mi aveva anche proposto di lavorare con lui con le capre, ma avevo appena venduto le mie e fatto il corso guida.. non volevo tornare indietro. Pensa quando facevo il pastore andavo a prendere le mie capre che erano 45/50 nella Trubinasca le mungevo e poi le mandavo. Guardavo se andavano verso Sass Fura o verso Sciora. In estate facevamo una malga su in Sciora sotto il Cengalo e in un’ora e mezzo facevo tutto e dopo mungevo e le mandavo. La sera loro non andavano lontano massimo verso la Trubinasca. Io mungevo mattina e sera e facevo mattina e sera i mascarpin. Li tenevo 3 o 4 giorni e se non veniva il papà a prenderli, allora prendevo una carica e li portavo al castello e lui lì aveva fatto una cantina … da regolare … lui era uno svizzero vero: io son capace a lavorare tanto, ma non son così preciso anche a coltivare il formaggio .. Per fare buon formaggio devi essere pignolo… io i miei difetti li conosco: se c’è da camminare portare non ho problemi… Il vallone dei contrabbandieri,

(quello della Trubinasca) l’ho sceso una volta con Giulio Fiorelli.. me lo ricordo al suo rifugio. Io avevo sempre una fame da lupi e lui: ‘Gh’ho pu nient: adess te do un piatt de degiun’. Bianco Lenatti il vino lo beveva in una tazza di legno e bevevamo quasi sempre … E alla Marco e Rosa ero sempre un po’ sbronzo…. Quest’anno sono andato in Antartide: è passata una mia amica che sta con giornalista del meteo alla radio. ‘Perché non vieni in Antardite?’ Non mi piace più girare tanto con l’aeroplano, e poi ero mezzo in parola con dei clienti per delle salite.. E passa qualche giorno e questi mi chiamano che hanno avuto degli impegni.. Lasciami pensare. E lui voleva contrastare [=confrontare] i ghiacciai come erano 20/30 anni fa. Son partito più che altro per marivöia [=curiosità] e dopo da Ushuaia abbiam fatto 10 giorni di mare Antartico con onde di 10/15 metri, anche se non c’era vento. E la nave, perché era un nave, mica una barca, che ballava… Poi siamo andati a vedere le balene: ne abbiam viste una trentina e una è passata sotto il mio gommone. Se ci toccava con la coda ci spediva su così in alto che … nevica… Ma anche se era grande come un camion mi veniva da abbracciarla. Le ho quasi sentite nel cuore queste balene… E mi veniva da pensare a un bombolo [=bombo] che aveva sbattuto una volta in un vetro della mia casa. L’avevo raccolto e appoggiato su una statua fuori dalla porta e avevo aspettato che si riprendesse. E una sera, qualche mese dopo che ero andato a dormire sopra il Dent da Luf, sotto i Pizzi dei CAI MORBEGNO 41


Vanni da solo ne sono arrivati due… secondo me si eran parlati, con quello che avevo salvato.. che li ha mandati a salutarmi… Non so è come se certe cose legate alla natura parlassero un linguaggio che noi umani non conosciamo più… e di cui percepiamo solo qualche frammento. E queste cose così grandi o così piccole a volte ce lo ricordano…. GUARDA UMANO COME SI FA…. Quel posto sotto la cresta dei Pizzi dei Vanni era un po’ che ci volevo andare a dormire.. e son partito da Lera.. non è c’erano tanti posti piani: alla fine ho dormito praticamente sulla cimetta, vicino alla parete dove avevo aperto una via dedicata a Renata Pool.. Ho preso la roccia ed ero su quasi sul verticale. Ho bloccato la corda.. eh, avevo un carichetto un po’ pesante. Ho fatto 2 tiri così… Era il giorno più lungo dell’anno: il sole è andato giù alle 9 meno 10 e quando facevo così [il gesto è lasciato alla fantasia dei lettori] con le mani avevo tutto l’universo. Volevo vedere i camosci quella sera. Quattro giorni prima ero stato su a guardare questi camosci piccoli che vengono fuori e si lasciano scivolare sulla neve: son proprio carini. E dopo ci pensavo su …. La mattina mi sveglio e mi salta fuori il camoscio e mi salta giù bello baldanzoso. Giù per la neve come a dire: ‘Guarda qui umano come si fa a camminare sulla neve…’ e lì c’era il taglio della valanga. Dopo è venuto verso di me e mi guardava … Il Dent da Luf è stata la mia prima via di roccia, con mio cugino e una vecchia corda rubata allo zio Reto che non era lunga abbastanza da far 42 CAI MORBEGNO

Sopra: Ferro da stiro “artigianale” Sotto: Michel Darbellay, Camille Bournissen e Daniel Triollet a Bondo dopo la prima invernale della nordest del Badile.

le doppie. E avevamo portato una bottiglia di Riccadonna per lasciare i nostri nomi e l’abbiamo lasciata vicino a quella di birra abbandonata da zio Reto. Sono andato su 10 anni dopo con gente. Sai che erano colate insieme da un fulmine? Il vetro non rotto,

proprio colato… Il pezzo in basso è un po’ più difficile dello spigolo [naturalmente si intende del Badile]. Andavamo anche con una corda di mio papà che adoperava per tirar su i secchi: se mettevi due moschettoni non veniva dietro.. E quasi quasi ci potevi


spingere sul il primo… Un colpo lui un colpo io.. Ah, ma era impossibile.. DAL FERRO DA STIRO AL BADILE La prima volta che ho scalato una vera montagna ero ancora un capraio. E col Bruno abbiamo fatto il Ferro da Stiro in un’ora e cinque. Son partito, ho munto le mie capre e su a fare il Ferro. Lui è partito e io dietro. Il Badile l’avrò fatto 200 volte. Lo spigolo lo facevo da solo se avevo un cliente che mi aspettava in Gianetti. Meglio che passare dal Porcellizzo… Una volta ho fatto lo spigolo con una coppia. Erano chirurgi della Svizzera Tedesca e io col tedesco mi arrangio piuttosto male. Eravamo partiti bene, ma poi a lei avevano ceduto le braccia e siamo arrivati in vetta molto tardi. ‘Dobbiamo dormire qui in cima nel bivacco?’ ho chiesto. Mi è parso di capire un no e siamo scesi: ci son volute quasi tre ore per scendere e alla base mi fanno: “Ma perché non abbiamo dormito su?” Visto che eravamo scesi quasi al buio e senza pila aggiungono: ‘Ma come hai fatto a trovare la strada?’ E io: ‘E voi quando fate un’incisione come fate a trovare il fegato?’…. PARENTI E AMICI Mio zio Reto [la celebre guida Reto Giovanoli] faceva la guida e lavorava in cava, mio padre invece era muratore, ma lavorava bene anche il legno. Era un preciso e mio fratello è piastrellista. Un preciso, come mio padre. Di tutto il mio andare in giro quel che conta sono le persone. Ho lavorato anche sugli impianti a Sankt Moritz. Un lavoro che non mi piaceva, ma facevi dei begli incontri… Qui in Bregaglia

ci sono molte persone alle cui sono legato. A Soglio Katrin Hagen che è medico e che va sempre in Nepal per aiutare le persone malate. E poi c’è Elda Giovanoli Simonett: i suoi libri sono bellissimi, quando parliamo di politica lei e io ci capiamo. Se non la conoscessi certe volte non ci crederei. Ha più di 90 anni, ma è sempre perfetta nell’aspetto e sempre sensibile sull’ingiustizia.. Il mio maestro elementare è stato Arnoldo Giacometti… Ho un amico a Santa Maria Rezzonico con cui usciamo in barca: mi piace andare a vela sul lago.. Al corso guida il mio istruttore è stato Michel Darbellay il primo solitario all’Eiger, guarda ho qui la foto di quando hanno fatto la prima invernale del Badile… FOTO VECCHIE E NUOVE Scorriamo gli album di vecchie foto: con una Bregalia verdissima, come non la vedremo più per anni. E poi grandi nevicate, immagini di bei giri con gli amici, a cominciare da una gita di ragazzotti dalla Bregaglia a Codera. Per ogni immagine Arturo ha una frase che è insieme semplice e acuta, nel cogliere nessi che solo una sensibilità nutrita da una vita a contatto diretto con la natura e con le persone può rivelare. Nei giorni precedenti la frana mi hanno detto che le bestie erano inquiete: pensa che i camosci non si fermavano a leccare il sale lasciato dai cacciatori. Qualcuno dice di aver visto perfino i serpenti che scappavano. C’era un’aria pesante di polvere… Poi la polvere è arrivata fino al ponte del sentiero che porta in Sciora. E certo che per un po’ di anni

di lì non si potrà più passare: se va dentro uno che ha soldi e resta morto… sai andiamo ancora in storie… Ormai siamo come gli americani: serve sempre qualcuno cui dare la colpa. È così e basta…. Se muoio io sono morto e basta… E pensare che viaggiamo nel vuoto a 30 km al secondo. Pensa se si ferma di colpo… Che botta. E a chi la diamo la colpa? Quella mattina ero andato a raccogliere le foglie da portare alle capre e volevo quasi andar su Bondo, a un certo punto guardo giù da casa mia verso la galleria e comincio a vedere elicotteri in volo… “Andiamo giù a vedere di cosa è successo” faccio a mio nipotino.. Si sentivano i rumori dei guardrail che si strappavano dai supporti per la pressione dei detriti. Abbiamo preso un sentiero in costa per vedere cosa succedeva e quando passava l’elicottero ci nascondevamo … Penso che abbia visto delle cose che pochi bambini hanno potuto vedere… Il castello mi piace: è un bel giocattolo per i mie nipoti… a me è sempre piaciuto girare, ma negli anni la passione mi è un po’ diminuita: quando ho visto cosa abbiamo fatto ai nativi, per esempio, nella Terra del Fuoco dove la gente del posto l’hanno eliminata, anche malamente, anche divertendosi e penso che quelle cose la abbiamo fatte noi…..non so… Ci lasciamo con questa osservazione piena di dubbi. Ed è un peccato che, dopo che gliene hanno rubati alcuni, affidati peraltro all’ineffabile servizio postale svizzero, l’Arturo non ti raggiunga più con un suo acquarello mandato per posta per ringraziarti della giornata passata insieme. Cose di altri tempi. CAI MORBEGNO 43


CON GLI

SCI

SULL' di Maurizio Zambelli

"In Corsica, duie volte nantu à trè ùn ci hè neve"

"In Corsica, duie volte nantu à trè ùn ci hè neve" quindi, confidando in questo detto còrso, ci imbarchiamo a Livorno con destinazione Bastia. Nell’attesa del traghetto, riaffiorano i ricordi di vacanze trascorse in Corsica, con i figli ancora bambini, in bicicletta e in moto, ma mai con gli sci appresso. Partono così nella mia mente i must della Corsica. Le birre Pietra e Colomba, una alle castagne e l’altra alle bacche di macchia mediterranea, i maiali neri che attraversano senza preavviso

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la strada, le mucche di taglia piccolissima al pascolo brado, il pastis “dami “ con annessa la caraffa per acqua e ghiaccio, la spiccata prevalenza alla cucina di terra anziché quella di mare, il carattere un po’ ruvido dei Corsi, le pozze d’acqua limpidissima dei torrenti, le strade senza alcuna protezione a picco sui canyon o sul mare, la Legione Straniera e per finire il GR 20 che percorre la catena montuosa Corsa. Sul traghetto, contrariamente a quanto accade in estate, nessun turista e, a farci compagnia, uno squadrone di

camionisti che, con i camion più disparati, portano sull’isola le scorte di generi mancanti. Una volta a destinazione all’inizio della Valle della Restonica alle porte di Corte, percepiamo che le indicazioni avute dal web riguardanti l’innevamento sono ottimistiche, non ci sono tutti quei centimetri di neve dichiarati nei vari siti consultati in anticipo! Senza perderci d’animo ci organizziamo per il giorno successivo. Essendo domenica, e la zona è abbastanza frequentata,


ISOLA-MONTAGNA

chiediamo conferma ad alcuni sci-alpinisti indigeni incontrati sulla strada che sale al Col del Vergio sulla nostra scelta e ci confermano la fattibilità dell’itinerario. La settimana precedente il nostro arrivo, in effetti, le precipitazioni nevose sono state abbondantissime con coltri di oltre un metro a quote collinari (400-500 m) però, causa il clima mediterraneo dell’isola, completamente sciolte in pochi giorni.

Dai 1300-1400 m di quota lo spessore della neve è comunque ancora più che sufficiente per intraprendere le gite che avevamo preparato a tavolino prima della partenza. Le condizioni della neve sono,

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come previsto, molto variabili e si spazia da un manto marmoreo dei versanti nord a un firn primaverile sui versanti sud e sud-est. Tutte le gite si svolgono in ambienti molto selvaggi e isolati che non le rendono mai banali. Merito del paesaggio, si ha sempre la sensazione di essere in alta montagna nonostante la quota non superi mai i 2700 m. Probabilmente, questa impressione è dovuta al fatto che il sistema montuoso Corso è al centro dell’isola e l’orizzonte a 360 gradi è il mare Tirreno senza interposizione di altre catene montuose. Altra caratteristica molto apprezzata ed esteticamente “patagonica“ in questa stagione è la formazione sulle rocce granitiche delle vette 46 CAI MORBEGNO

di incrostazioni di ghiaccio dai contorni veramente stravaganti. Cavolfiori, più o meno rigonfi, lunghe lame disposte in posizione orizzontale formate dal vento marino contrastano con il grigio scuro del granito e il blu cobalto del cielo. A quote inferiori con gli sci si attraversano senza grossi problemi meravigliose foreste di pini marittimi, abeti rossi, pini di Corte e faggi, mentre a quote poco sopra i 1000 metri le foreste sono di betulle alternate a castagneti. Il meteo, tipico dell’isola in veste invernale, è nel complesso buono e ci concede cinque gite e un solo giorno di pioggia dedicato a un po' di turismo nei paesini semiabbandonati dell’interno.

A volte, entrando in questi piccolissimi borghi, tutti costruiti su promontori o in posizioni dominanti, si ha l’impressione di vivere in un'altra epoca, quando il controllo del territorio dai possibili attacchi dal mare era prioritario. Raramente incontriamo degli abitanti nelle viuzze, nonostante s’intuisca che qualche nucleo famigliare risieda nelle case costruite con i sassi locali, però è stato sufficiente lo scambio di opinione con un pittoresco abitante di Soveria per capire un po’ più a fondo lo spirito Corso. Innanzitutto emerge l’orgoglio di un popolo che crede fortemente nella propria identità, che si sente un po’


Nelle pagine precedenti: bella farina in discesa dalla Pointe des Eboulis. Nella pagina a fianco: avvicinamento a secco alla Bocca di i Mori. Sopra: poco sotto la Bocca di i Mori al cospetto della Paglia Orba. Qui a fianco: sbucati dalla nebbia in vetta alla Petra. Niella Nella pagina successiva: nel vallone della Pointe des Eboulis.

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sfruttato dalla madre patria Francia e che ha sempre la speranza di diventare indipendente. Esprimendosi in lingua Corsa, da noi italiani facilmente interpretabile in quanto un misto fra genovese e sardo, il nostro intervistato ci fa scoprire come sono soprannominati i parigini che vengono in vacanza in estate: “pinzuti “, derisi apertamente perché mangiano “pumataghji “ senza sale né olio, e il motivo per cui i paesini sono così arroccati in zone strategiche. Veniamo anche a conoscenza di una triste storia riguardante la Grande guerra, in cui moltissimi Corsi persero la vita perché reclutati in massa con regole molto differenti da quelle applicate in Francia. La nostra base logistica è stata Corte, ex capoluogo dell’isola. La caratteristica che più colpisce quando ci si arriva è la 48 CAI MORBEGNO

sua Cittadella fortificata, che si eleva sul resto della città sopra ad uno sperone roccioso. Il suo grado di conservazione non è dei migliori, però passeggiare la sera nelle vie e nelle piazze ha un fascino particolare e malinconico. Corte è sede universitaria e questa caratteristica la rende un città culturalmente vivace e piena di eventi e manifestazioni interessanti. A fronte di una popolazione di 6000 abitanti Corte vanta una frequentazione di circa 4000 giovani universitari provenienti da tutta l’isola. Ci sono molte cose da scoprire in Corsica, non per nulla denominata l’isola continente. Durante la nostra permanenza abbiamo solo assaporato alcune sci-alpinistiche possibili sull’isola, molte altre sono state individuate, altre solo ipotizzate e altre ancora da valutare con un

innevamento diverso. Per certo è che in Corsica le condizioni nivologiche mutano con una velocità incredibile, e il ghiaccio vivo può prendere il posto alla neve primaverile in pochissime ore e viceversa. Per questo motivo tutte le gite vanno intraprese con l’attrezzatura completa di rampant, ramponi e picozza. Normalmente la neve, grazie all'aria umida del mare e alle temperature non troppo rigide, si assesta velocemente formando un manto compatto. Chiaramente nei tratti più ripidi con il caldo primaverile aumenta il pericolo di valanghe come anche in caso di neve fresca, nei pendii più ripidi all'ombra o con neve ventata. Altro fattore da non sottovalutare è l’isolamento percepito e reale su tutti gli itinerari in quanto in zone impervie e pochissimo frequentate in inverno. Molto


CORSICA

attività scialpinistica

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probabilmente in estate la zona montuosa è maggiormente frequentata per percorrere il “Sentier de grande randonnée 20” o GR 20, in corso chiamato “Fra li monti”. Questo è un percorso escursionistico lungo circa 180 km che si sviluppa dal comune di Calenzana in Corsica Settentrionale fino a quello di Conca nella Corsica del Sud. Durante tutte le gite a piedi e con gli sci e nei trasferimenti in auto nella zona montuosa, abbiamo sempre avuto la compagnia del nibbio reale che dal cielo, con volo circolare, perlustrava il terreno in cerca di prede. Con un’apertura alare che può arrivare a 1,5 m, è facilmente riconoscibile per la coda a freccia. Dopo l’ultima gita sci – alpinistica, abbandonati i canyon, foreste, nibbi e neve facciamo rotta verso il mare. Il pomeriggio è tiepido e soprattutto non ventoso,

quindi dopo un tentativo non riuscito di raggiungere la spiaggia per l’alto livello dell’acqua nella laguna di Ostriconi, ci spostiamo sulla sabbia di Lozari. Così come nel Peloponneso e a Creta lo scorso anno, perché non concludere la settimana con un bagno in mare tonificante e rigenerante? Detto, fatto! La temperatura del Tirreno non è quella dell’Egeo o del Mar Libico ma qualche bracciata la si può fare, dopodiché si apprezzano ancor di più il pile e il piumino lasciati sulla spiaggia. Il ritorno in Italia ci riserva un trattamento di riguardo sul traghetto BastiaLivorno. Segnalati dall’Ente Turismo Francese come troupe giornalistica, siamo invitati dalla Corsica Ferries a una colazione e un pranzo veramente da ricordare per la qualità dei piatti e dei vini.

1 Pointe des Eboulis 2640 m.

Dalla strada montana che porta da Lozzi alla Bergerie de Petra Pinzuta 1460 m • dislivello 1300 m • sviluppo 14.6 km

2 Bocca di i Mori 2295 m.

Dalla strada per il Col de Vergio, presso il tornante detto Fer à Cheval 1325 m • dislivello 970 • sviluppo 17.2 km

3 Capu a u Tozzu 2007 m.

Dalla strada per il Col de Vergio, presso la Funtana di Carulina 1140 m • dislivello 930 m • sviluppo 8.7 km

4 Petra Niella 2345 m. Dalla Strada Forestale di Cervellu a quota 1080 m • dislivello 1330 m • sviluppo 12.5 km

5 Monte Tortu 2262 m Punta Orlandino 2272 m. Dalla strada che da Ghisoni porta al Campu di neve sito a E Capannelle 1243 m • dislivello 1130 m • sviluppo 13.2 km

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Kirg hizi stan di Mirco Gusmeroli

Il Kirghizistan è, in linea di massima, un paese prevalentemente montuoso con poco più di 5 milioni di abitanti. Le vette più conosciute sono il Pic Lenin 7134 m e il Khan Tangri 7010 m. La catena montuosa di At-Bash, meta del nostro viaggio, si estende in direzione ENE-WSW per circa 100 km e una larghezza di 25 con numerose valli trasversali e vette che superano i 4000 metri. Le informazioni su questi monti sono scarse e, forse per questo, Paolo e Roger incuriositi hanno deciso di intraprendere questa avventura. Questa, dopo la bellissima esperienza dello scorso anno, è 50 CAI MORBEGNO

la seconda volta che mi reco in Khirghizistan. Quando mi viene riproposto il bis, senza pensarci più di tanto, ho confermato la mia presenza. In fase di preparativi valutiamo che le vette più alte sono troppo distanti, per gite da effettuarsi in giornata, dal paese dove alloggiamo. Con l’agenzia di appoggio concordiamo quindi di collocare un campo Yurte all’interno della valle Tuyuk Bogoshti (dove l’anno passato salimmo il Choku Kiara 4016 m). Dal piccolo villaggio di Birinchi May (1° maggio) decidiamo di trasportare a dorso di cavalli, in un’ampia radura a circa 2800 m di quota, il materiale per montare il campo.


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Il gruppo dovrebbe essere composto da: Paolo Vitali, Sonja Brambati, Ruggero Vaia (Roger), Franco Scotti, Franz Carrara, Giulia Meregalli, Fedorino Salvadori, poi tre nuovi in questa esperienza Daniele Bazzanella, Emanuele Zuccotti, Andrea De Finis e inifine io. Purtroppo per motivi vari danno forfait tre elementi fondamentali, i nostri capospedizione Paolo e Sonja e l’amico Franco, il nostro medico. 52 CAI MORBEGNO

Domenica 2 aprile – Si parte! Il gruppo di otto si riunisce a Istanbul per poi proseguire per la capitale Bishkek dove atterriamo alle sei di lunedì. Subito in pulmino per 360 km ci trasferiamo ad AtBashi, ci accoglie la signora Burulsun, che ci ospiterà fino a mercoledì, giorno fissato per il trasferimento al campo Yurte. Martedì 4 aprile Il tempo non è dalla nostra. Con l' Ural 4320, fornito dall’agenzia e guidato da Sasha

(soprannominato lo scorso anno “gamba di legno” per la poca sensibilità a usare il pedale del freno), ci dirigiamo a Bolshevik da dove ha inizio un itinerario, progettato lo scorso anno, che porta ad una vetta di circa 3800 m. Valutando un po’ le condizioni si vede fin da subito che la neve è abbondante, ma umida e non portante. Decisamente pessime condizioni, risultato di alcune settimane di copertura nuvolosa.


Si spera che a quote superiori le condizioni del manto migliorino. Giungiamo a quota 3200 m e la situazione è sempre la stessa: molto frequenti i rumori di assestamento e, pur risalendo pendii non eccessivamente ripidi, è meglio tenere le antenne ben dritte. La discesa è orribile, pura sopravvivenza... Con queste condizioni è molto chiaro che non si riuscirà a fare nulla su pendii ripidi, il rischio di valanghe sarebbe troppo elevato.

Nelle pagine precedenti: un momento della salita al Choku Kuumamy Nella pagina a fianco: salita verso il Choku Sonja sul ghiaccio del Kok-Moinok Qui sotto: sulla cresta ad est del campo yurte In basso: Rino, Andrea ed io sulla cima del Choku Bocia

Mercoledì 5 aprile È il giorno del trasferimento al campo Yurte e piove. Decidiamo di posticipare e, nel frattempo, visitiamo una scuola. Ci accompagna la nostra padrona di casa, che ci lavora. Visitiamo numerose classi, una bella esperienza che finisce in palestra con una partita a pallavolo con studenti e insegnanti. Giovedì 6 aprile Trasferimento al campo Yurte. Con grande delusione scopriamo che il campo è

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installato a 2400 metri di quota, ben 5 km più a valle dal punto stabilito. Isabk, responsabile del campo, si giustifica dicendo che, causa l’abbondante presenza di neve, i cavalli faticavano a proseguire. In seguito, salendo, constatiamo che almeno fino a 2600 metri di quota sarebbero potuti arrivare. Pazienza! Almeno le yurte sono accoglienti, riscaldate, dotate di letti, materassi e coperte. 54 CAI MORBEGNO

Nella yurta-cucina opera Cinara, la cuoca che cucinerà nei prossimi giorni. La gita di perlustrazione si conclude nella zona chiamata Buuma davanti a un salto di 150 metri che separa la parte inferiore dalla valle dal Bakai, la vasta zona di alta quota. Si presenta come un canyon interrotto da insuperabili cascate: impossibile proseguire! Ci consoliamo, il tempo è stato

bello e anche per i giorni a seguire pare sarà stabile, pure le condizioni della neve sono migliorate. Durate la serata Isabk dà il benvenuto al gruppo. Onorato di aver per la prima volta montato un campo yurte in periodo invernale, si scusa per non essere riuscito a farlo nel punto stabilito offrendo shottini senza interruzione. La sua dispensa di alcolici è infinita!


A sinistra in alto: colazione nella yurta. Sotto: un momento di sosta lungo la cresta ad est del campo e, qui a fianco, io sulla stessa cresta.

Venerdì 7 aprile Rincitrulliti dalla baldoria della sera precedente, decidiamo di limitarci a sondare una pendio che sovrasta ad est il campo. Con pendenze dolci, su itinerario di cresta, dovremmo raggiungere i 4000 metri di quota dove, supponiamo, si possa osservare la valle laterale della Tuyuk Bogoshti, seconda e ultima possibilità per raggiungere le zone alte.

La cresta si presenta con una struttura rocciosa discontinua e, a quota 3450, decidiamo di desistere. La sciata è splendida, è polvere fino in fondo, ottima discesa! Alle yurte troviamo addirittura una troupe televisiva kirghisa che ci intervista a lungo: un paio di giorni dopo la tv kirghisa avrebbe trasmesso un servizio di 15 minuti. Ormai siamo delle star!

Sabato 8 aprile È il giorno decisivo e tentiamo di forzare un passaggio per accedere alla zona di alta quota. Ci dirigiamo verso una valle laterale, detta At-Jailoo (pascolo dei cavalli) e con un po’ di fortuna troviamo un sentiero, probabilmente usato dai pastori nelle stagione estiva, che ci porta al primo ripiano a 3400 metri. Salendo, la valle descrive una CAI MORBEGNO 55


curva a destra poi a sinistra, siamo al temuto salto. Io ho l’onore di tracciare. Man mano che salgo mi rendo conto che si tratta di un canale stretto tra rocce dal quale riesco a sbucare senza togliere gli sci. Davanti a me si apre un mondo: decine di vette che superano i 4000 metri, un vero spettacolo! Siamo a 3750 metri, qui inizia l’enorme conca glaciale detta Kok-Moinok. Proseguiamo e puntiamo la vetta più vicina. Guardo il gps, siamo a 4020 metri. Scatto una foto al resto del gruppo che sta salendo e riprendo a batter traccia sul pendio davanti a me che sembra non finire mai. Ci siamo, sono in cresta ma manca qualcosa, la vetta. Aspetto Franz e insieme decidiamo di salire a piedi la punta più vicina. In poco tempo siamo in vetta, 4135 metri. La chiameremo Choku Bocia, un omaggio a me che sono il più giovane del gruppo. Addirittura costruiamo un omino di pietre, una bella foto al gruppo e al fantastico panorama. Siam pronti per la discesa, una sciata che sembra infinita, impieghiamo più di tre ore per arrivare al campo. Domenica 9 aprile Sapendo di avere a disposizione una decina di vette che superano i 4000 metri, siamo tentati di tornare dove eravamo ieri, ma i 1800 metri di dislivello affrontati si fanno sentire. Forse è il caso di pensare a una gita di defaticamento, decidiamo quindi di perlustrare la dorsale in sinistra orografica. La meta è un’elevazione a 3400 56 CAI MORBEGNO

metri di quota ma, arrivati al punto stabilito, presentandosi la cresta molto agevole decidiamo di proseguire fino ad una vetta di 3750 metri. Qui si apre un panorama su tutta la vallata principale. Solite foto di rito e diamo inizio al divertimento: polvere in alto, polvere nel bosco e fino alle yurte. Taki, il giovane custode forestale, ci riferisce che la cima salita ha un nome, Choku Kuumamy. Lunedì 10 aprile Ultimo giorno al campo, in serata ci trasferiremo di nuovo in paese. Si parte molto presto e puntiamo la zona del KokMoinok nel tentativo di salire un altro 4000. Gran parte dell’itinerario è già tracciato, comunque teniamo un passo moderato per risparmiare energie. Appena sotto i 4000 metri teniamo la sinistra orografica per poi piegare a destra e prendere una cresta. Lasciati gli sci con facile arrampicata raggiungiamo la vetta a 4265 metri di quota. Sette ore abbondanti di salita, ne è valsa la pena. Finora questa è la

vetta più alta raggiunta nella catena dell’At-Bash, dedichiamo la cima all'amica Sonja che avrebbe voluto, come sempre, essere con noi. Qualche scatto e poi, adocchiato un un bel terrazzo roccioso una ventina di metri sotto, riparato dal vento e ben soleggiato, decidiamo di rifocillarci per poi intraprendere la fantastica discesa. Arriviamo al campo dove troviamo Anarbek e Sasha che con il suo Ural ci riporta al paese. Martedì 11 aprile Il tempo è peggiorato e, quasi contenti della meteo avversa, accettiamo l’invito a pranzo di Isabk, il responsabile del campo yurte. Forse questa è la parte più impegnativa del viaggio: uscire dalla sua casa in posizione verticale dopo le abbondanti libagioni. Mercoledì 12 aprile – Giorno del trasferimento a Bishkek. Durante il tragitto visitiamo la torre di Burana, nei pressi di Tokmok, un minareto di un antico caravanserraglio sulla via della seta. La serata si conclude con la cena a Bishkek, nel caratteristico


A sinistra: le ultime roccette sul Choku Sonja. Qui a fianco: l'Ural 4320 usato nei trasferimenti, sullo sfondo parte della catena montuosa dell"At-Bash

ristorante Navat dove abbiamo l’onore di avere ospite Vladimir Komissarov, geologo, presidente dell’Associazione nazionale delle guide alpine e autore della preziosa rassegna sullo stato dell’alpinismo in tutti i gruppi montuosi del Kirghizistan. Ci assicura che i 4000 da noi saliti sono vergini e avranno i nomi che abbiamo loro assegnato. Pratico lo scialpinismo da circa sette anni e questa è la terza spedizione scialpinistica fuori dalle Alpi, seconda esperienza sulla splendida catena del AtBash. Occorre considerare che qualsiasi banale incidente in questi luoghi sperduti può essere un grave problema,

squadre e mezzi di soccorso in montagna non esistono, in particolar modo nel periodo invernale. È stato un onore e un vero piacere far parte di questo gruppo, gli imprevisti non sono mancati: la rinuncia di tre compagni fondamentali, le pessime condizioni iniziali del manto nevoso, il meteo non al meglio, il campo a una quota molto inferiore da quella stabilita e passaggi impossibili per accedere alle zone di alta quota. Tuttavia questo fa parte del gioco ed è implicito nella ricerca dell’avventura. Abbiamo complessivamente avuto fortuna, sia con il tempo che, dopo un inizio poco incoraggiante, ci ha

aperto una finestra di sereno durata alcuni giorni, sia con il gruppo affiatatissimo: ciascuno ha collaborato per la buona riuscita, nessuno si è lamentato dei disagi. Franz e Ruggero mi hanno dato fiducia lasciando che io tracciassi la maggior parte delle salite. È una bella soddisfazione sentirsi dire di avere fatto le giuste scelte di itinerario! É stata una fantastica esperienza e chissà, magari un giorno ritornerò per continuare l’esplorazione che abbiamo iniziato. Per noi scialpinisti l’At-Bash, con tutte le sue valli e le sue vette, ha ancora tante sorprese da offrire.

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SCI

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ANCHE QUESTO È

ALPINISMO di Anna del Barba

Non c'e' che dire... lo scialpinismo è probabilmente lo sport di famiglia, a partire dal nonno Mino che da papà ci ha instradato e accompagnato, insegnandoci ad amare la montagna e, per dirla tutta, testando la nostra passione fin da subito facendoci cominciare con un bel paio di sci con gli attacchi fissi perchè...insomma "...Prima di fare la spesa grossa bisogna essere sicuri che vi piaccia!", spronandoci ad ogni difficoltà con quello che é diventato un pò il suo motto" Anche questo é scialpinismo!". E con queste parole chiudeva ogni nostro tentativo di lamentela di fronte alla fatica

che ci aspettava. Il ricordo va a tante domeniche passate a salire sui pendii delle nostre belle valli godendo dei paesaggi, della neve e della compagnia di tanti amici. Poi le discese in neve fresca.... e qui il tributo va a Giulio, che mi ha insegnato a migliorare la mia tecnica per riuscire a divertirmi sempre di più. Ecco...questa è essenzialmente la mia idea di scialpinismo, certo non avrei mai pensato di associarlo a parole come velocità, tempi, prestazioni, materiale super-leggero...ma poi, come sempre, arrivano i figli a capovolgerti la vita e mi ritrovo in un pomeriggio CAI MORBEGNO 59


di febbraio su un pullmino dello Sci Club Val Tartano in compagnia di Giulio, Chiara e di alcuni amici dello sci club in direzione Alpago (BL), per andare a fare il tifo al nostro Alessandro, che é stato convocato in nazionale per partecipare ai mondiali di scialpinismo. Confesso che l'occasione é davvero emozionante, tanti giovani disposti a fare fatica, molta fatica, che hanno alle spalle un inverno di allenamenti, gare, tensione, successi e difficoltà, domeniche fatte di levatacce e di freddo, ma anche tanta voglia di stare insieme, di ridere e di divertirsi...forse non è lo sci-alpinismo a cui ho sempre pensato e che ancora continua ad essere lo sport che mi piace tanto, però devo ammettere che questi ragazzi sono un esempio di tenacia e di determinazione...e allora mi sorge spontaneo ripensare alle parole del papà: " Anche Nelle pagini precedenti: Anna con papà Domenico in discesa dal Munt de Sura in una foto "d'epoca" In queste pagine, in senso orario: sopra Alessandro Gadola impegnato nella discesa dei Campionati del Mondo ad Alpago; sotto, ancora Anna e papà Domenico al Munt de Sura in una recente uscita; a fianco, prime uscite scialpinistiche di Alessandro con papà Giulio.

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questo é scialpinismo!" Può darsi che sia una questione di generazione, certo per me la bellezza di andare in montagna in inverno non sta sicuramente nel salire a "crapa basa" o nel lanciarsi in vertiginose discese "giù al driz" perché devo vincere... ma forse non sono in grado di capire ...quello che mi sento di dire é un grazie al mio papà Domenico che mi ha iniziato a questa stupenda attività, a mio marito Giulio che mi ha insegnato a scendere in neve fresca e con cui ho condiviso la maggior parte delle mie sciate e a mio figlio Alessandro, che mi dimostra che la stessa passione che ci accomuna può essere vissuta in modi diversi. L'augurio per tutti noi è quindi di continuare ancora per molto tempo a salire insieme sulle nostre montagne, ognuno con lo stile e con l'idea di scialpinismo che preferisce: "Mai l'ültima!".


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ANDE ATTO TERZO di Riccardo Marchini

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Ecuador, Cile, Bolivia. Dopo l’abbuffata di vulcani dalle siluette tronco coniche emergenti dall’altipiano e di crateri sprigionanti un pungente odore di zolfo, con la solita affiatata compagnia rivolgiamo l’attenzione alle montagne del Perù che offrono paesaggi e profili più alpini. Anzi himalaiani, dal momento che il Perù conta 30 vette sopra i 6000 metri e oltre un centinaio sopra i 5000. Il nostro obbiettivo sono tre cime della Cordillera Blanca:

Ishinca, Orus e Pisco, il trittico più gettonato da chi, come noi, chiede di poter “fare montagna” senza affrontare le scomodità di campi intermedi con relativi pernottamenti in tenda. Qui il bianco è di casa per via della quota. Ghiaccio e neve formano spesse calotte sommitali che debordano dalla cresta come panna montata e, spingendosi verso il basso lungo le ripide pareti, danno origine a caratteristiche strutture a canne d’organo, candidi drappeggi di manti regali. Inoltre la roccia di cui sono costituiti questi imponenti monumenti è una granodiorite molto chiara; granito bianco, lo chiamano qui. I nomi delle cime peruviane sono di quelli che riecheggiano nella testa di chi si interessa di alpinismo: Huascaran, la più alta con i suoi 6768 m, Huandoy, Alpamayo, Yerupaja. Jirishanca e Siula Grande, che ha visto la tragica avventura di Joe Simpson e Simon Yates nel 1985, immortalata in un libro e nel film “La morte sospesa”. E infine, per parlare anche un


po’ di noi, il Pushcanturpa nel gruppo dello Huayhuash, teatro della vittoriosa spedizione del CAI Morbegno nel 1975. Non sono da meno i nomi degli scalatori che hanno reso famose queste cime: Renato Casarotto, cui è dedicato il Centro di Andinismo di Mascarà, Walter Bonatti, Andrea Oggioni, Casimiro Ferrari e Riccardo Cassin con tutto il gruppo dei Ragni di Lecco, solo per citare, con un po’ di campanilismo patriottico, alcuni degli italiani. L’attività alpinistica (o sarebbe meglio dire andinistica) del Perù è stata favorita in questi ultima decenni dalla costruzione di alcuni rifugi, quattro per l’esattezza, tutti per opera dei volontari dell’Operazione Mato Grosso (OMG), movimento nato nel 1967 grazie all’intuizione e alla caparbietà del missionario valtellinese padre Ugo De Censi che, oltre a creare molte iniziative di carattere umanitario e sociale (infermerie, ospedali,

asili nido, scuole di intaglio legno, falegnameria, arte e decorazione), ha intravisto nella montagna un possibile sbocco lavorativo per molti giovani campesinos e un’occasione di crescita personale per chi dall’Italia, ma non solo, partiva con la voglia di dare una mano, ubbidendo allo slogan “Salire in alto per aiutare chi sta in basso”. In questo contesto è nata l’agenzia Guide don Bosco 6000, con base nel già citato Centro di Andinismo Renato Casarotto di Mascarà dove si sono formati numerosi giovani ora inseriti fra le guide d’alta montagna UIAGM e dove viene proposto un tipo di turismo rispettoso della popolazione locale, che genera lavoro non solo per le proprie guide, ma anche per portatori, cuochi, conducenti muli, taxisti ecc. Montagna ma non solo. Il Perù è il cuore della civiltà Inca. Chi non ha sentito parlare di Cuzco, della Valle Sacra e, soprattutto, di Machu Picchu, il mitico villaggio che dal 2007 è stato eletto come una

delle 7 meraviglie del mondo moderno? Potevamo non approfittare di quest’occasione per visitare questi luoghi così importanti per la storia dell’America latina? Certo che no. Ed eccoci allora a scarpinare fra muraglioni incredibili, terrazzamenti antichi, stradine che trasudano una storia a noi sconosciuta, aiutati da una bravissima guida turistica; la stessa che, curiosità, ha assistito Matteo Renzi nella sua visita a Machu Picchu quando era Presidente del Consiglio. Più che dilungarmi in una cronaca che solo un bravo scrittore riuscirebbe a rendere accattivante, vorrei lasciar parlare le immagini, non prima però di aver ricordato chi ci ha permesso di portare a termine una bella avventura: la guida turistica Pepe e le guide d’alta montagna Miguel, regista di tutto il soggiorno, Manuel e Nilo.

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1-Cuzco, a 3400 m nel sud del paese, conta circa 300.000 abitanti. Fu il cuore dell’impero Inca ed è considerata la capitale storica del Perù. Dal 1983 fa parte del patrimonio UNESCO dell’umanità. Qui la Plaza de Armas con la chiesa della Compagnia di Gesù durante una chiassosa e coloratissima manifestazione. 2 – Fortezza di Saqsaywaman nei dintorni di Cuzco. Dalle cronache dei conquistadores spagnoli (gli Inca non possedevano la scrittura) sappiamo che questi muraglioni vennero costruiti nel XV secolo impiegando circa 30.000 operai per 50 anni. 3 - E’ incredibile l’abilità degli Inca nel lavorare le pietre da costruzione, tanto più che non conoscevano il ferro. Questi massi colossali erano modellati con attrezzi di bronzo e con pietre più dure prima di essere rifiniti con la sabbiatura. E’ ancora un mistero come potessero farle combaciare in modo così perfetto. Qui la pietra dai dodici angoli, la più fotografata nel centro storico di Cuzco.

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4 – Terrazzamenti di Pisaq nella Valle Sacra. Le superfici agricole artificiali servivano per sfruttare al meglio il territorio. Con una variazione altimetrica fra i 3200 e i 3600 metri, erano coltivate a mais nella parte più a bassa quota, a patate (il Perù ne ha circa 3000 varietà) nei ripiani intermedi e a quinoa più in alto, a ridosso del piccolo villaggio Inca.


5 – Valle dell’Urubamba, la valle sacra il cui fiume confluisce nel Rio delle Amazzoni. Le capsule spaziali appiccicate alla parete rocciosa altro non sono che le camere di un albergo. Per raggiungerle è necessario affrontare una breve via ferrata. Costo del soggiorno: 800 $ a notte. 6 – Tempio del sole a Ollataytambo nella Valle Sacra. Le enormi pietre che avrebbero dovuto costituire l’altare (rimasto incompiuto) erano prelevate da una cava a 6 Km di distanza, sul versante opposto: calate, chissà con quali marchingegni, sul fondo valle, erano trasportate al di là del fiume e tirate su fino al sito prefissato.

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7 – Machu Picchu, il sito archeologico Inca più famoso, patrimonio dell’umanità, edificato a 2400 m su una dorsale a picco sulla valle dell’Urubamba. La cittadella, scoperta nel 1911 dopo 400 anni di oblio, pare che potesse ospitare circa 770 persone. L’allineamento di alcuni edifici rispondeva a esigenze di carattere astronomico. 8 –Alle spalle del borgo si staglia lo Huayna Picchu (2700 m), la “giovane vetta”, contrapposta a Machu Picchu che in lingua quechua significa “vecchia vetta”. Vi si può salire percorrendo un ripido sentiero scalinato che si sviluppa a tornantini lungo la lista boscosa visibile al centro del versante di sinistra.

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9 – Cordillera Blanca. Nevado Ranrapalca (6162 m) ripreso dalla Cordillera Negra. Qui il versante ovest. Nei giorni seguenti ne potremo ammirare l’imponente versante est. 10 – Laguna Churup (4450 m) nel Parco Huascaran. E’ la seconda giornata di acclimatamento. La prima, alla laguna Wilcacocha, a 3750 m sulla Cordillera Negra. Alle spalle del lago il nevado Churup (5500 m). Anche qui, come da noi, è in atto un forte ritiro dei ghiacciai. 11 – Verso il rifugio Ishinca. Lasciato il minibus a Pashpa (3700 m) affrontiamo i 14 Km di sentiero per raggiungere il rifugio. Ci precedono tre miti asinelli ai quali abbiamo affidato il materiale alpinistico.

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12 – Verso il rifugio Ishinca. La pista che penetra nella quebrada, profonda gola dai ripidi versanti, attraversa un bel bosco di quenuas (Polylepis rugulosa, appartenente alla famiglia delle rosacee), endemiche delle Ande, che possono vegetare fino a 5000 metri. 13 – Il rifugio Ishinca (4350 m). E’ uno dei quattro comodi ricoveri d’alta quota nati dal progetto OMG. Qui si respira aria italiana; dal gestore, toscano, all’esposizione di gagliardetti delle più svariate sezioni CAI. 14 – Nevado Tocllaraju (6032 m) ripreso dal rifugio Ishinca. E’ una delle più ambite vette della zona. Classificato da PD a D secondo la bibliografia, richiede due giorni di scalata con un campo intermedio a quota 5100 m. 15 – La salita al nevado Ishinca (5530 m), impegnativa e non banale, offre uno spettacolo mozzafiato sia per il ghiacciaio su cui si procede sia per lo scenario circostante. Il bel trapezio roccioso che sfila sulla destra è il versante est del nevado Ranrapalca (6162 m), già ammirato da ovest tre giorni prima. 16 - Nevado Ishinca (5530 m). Sembra non mancare molto, ma in considerazione dell’alta quota, c’è ancora da faticare un bel po’. 17 – Nevado Urus (5495 m). Il tempo è peggiorato, ma il cronoprogramma va rispettato. Forzando un po’ i tempi, Dario e Pietro raggiungono la vetta con la guida Nilo e l’aiuto gestore canadese del rifugio Ishinca. 18 – Quebrada del Llangonuco. La laguna Chinancocha vista attraverso la trama contorta delle quenuas. Siamo a 4000 m e ci stiamo dirigendo al rifugio Perù. 19 – Il nevado Pisco (5760 m) emerge alle spalle della poderosa morena. Doveva essere l’ultima salita, la più prestigiosa. Rinviata l’ascensione in seguito al suggerimento delle guide, anche l’approccio del giorno successivo non ha avuto esito positivo: la partenza troppo ritardata rispetto alla norma e l’eccesso di neve fresca in quota hanno fatto desistere Dario e Pietro che se l’erano sentita di provarci comunque. Peccato.

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20 – Dintorni del rifugio Perù. La delusione per la mancata ascensione non ha impedito di consolarci con la vista degli scenari circostanti. I nevados Huandoy (6395 m il più alto) che fanno da fondale al rifugio Perù (4675 m), il primo dei ricoveri OMG, realizzato come campo base del Pisco. 21 – Nevado Chaccarraju (6112 m). Si erge spettacolare, gonfio come una meringa, di là dalla costiera che digrada dal Pisco. 22 - Nevados Huascaran. L’impressionante parete di 1400 metri visibile a destra fu vinta da Renato Casarotto nel 1977 dopo 17 giorni di scalata solitaria. Tutti i tentativi di ripetizione successivi fallirono. C’erano quasi riusciti i camuni Battistino Bonali e Giandomenico Ducoli nel 1993, ma a 200 metri dalla vetta furono travolti da una valanga di ghiaccio che li scaraventò alla base della parete.

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23 – Riccardo, Dario, Pietro, Patrizia, Flavio e Pierangelo. 24 – Le nostre simpatiche guide Manuel e Nilo.

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L’Outeniqua Trail di Vincenzo Pascucci

La domanda che tutti ci hanno fatto è questa: è proprio necessario andare in Sud Africa per fare un bel trekking. La risposta ovvia è no. Ma se si è amanti del viaggiare, di vedere posti, ambienti e culture diverse, e si è un po’ avventurosi la riposta è sì, e ne vale la pena. L’occasione è stato il convegno mondiale di geologia che si svolgeva a Città del Capo, l’idea quella di fare un trekking di 7 giorni in autonomia in un posto diverso dai soliti in cui siamo abituati a muoverci. Andare in Sud Africa è di sicuro un viaggio emozionante (e lungo); di norma ci si dedica alla visita dei grandi parchi nazionali dove è possibile vedere i “big five”, ovvero i cinque grandi mammiferi dell’Africa (Elefante, Bufalo, Rinoceronte, Leone, Leopardo). Raramente si decide di andare in Sud Africa per fare un trekking. Più raramente si decide di fare l’Outeniqua Trail, forse uno dei più difficili. Le guide lo definiscono così “The Outeniqua Trail is one of the toughest (if you do the entire trail) and well known trails in South Africa”. Le difficoltà non sono sicuramente paragonabili alla fatica fisica legata alla 72 CAI MORBEGNO

salita di una cima delle Alpi, ma al fatto di essere per 7 giorni in un posto isolato, in Africa (anche se quella del sud), in autonomia totale di cibo, in una realtà dominata da ambienti come la giungla, la savana o la foresta vergine che non sono assolutamente parte della nostra cultura. Il viaggio comincia da Città del Capo, una città magnifica dove si respira aria di nuovo, bello ma che allo stesso tempo è un po’ retrò. Passeggiare sulla Main Street è come fare un viaggio nel tempo lungo trequattro secoli. Visitare il porto fa capire come al di là del Capo di Buona Speranza possa capitare di tutto. Da Città del Capo si prende un aereo per Porth Elizabeth (scelta fatta da noi) o per George. Da qui con un taxi a noleggio (il prezzo in Sud Africa per questo tipo di servizi è basso) si raggiunge Plettenberg Bay o Knysna e poi l’ingresso del Parco Nazionale di Knysna (Garden Route (Tsitsikamma, Knysna, Wilderness) National Park – www.sanparks.org). Noi avevamo prenotato tutto dall’Italia per essere sicuri di non avere sorprese. Prenotare vuol dire avere garantito l’accesso al parco (e quindi al

trekking) ed ai rifugi (hut) dove è obbligatorio dormire. Non è consentito campeggiare nel parco per via degli animali. Ogni rifugio può ospitare 12 persone, per cui l’accesso è limitato. Per l’Outeniqua Trail, non ci sono mai problemi di sovraffollamento, cosa che invece succede per il più popolare Otter Trail. Il costo totale del trekking è di circa 2000 RAND (130) per due persone. Si può fare tutto via e-mail contattando con un po’ di fortuna e pazienza gli addetti del parco. Diciamo che non è semplicissimo, ma si può fare. A Knysna, comunque, si ricevono tutte le informazioni necessarie, un numero di telefono per eventuali emergenze e, soprattutto, la mappa del trekking. La mappa è fatta molto bene. Tutto il percorso è ben segnato e sono indicati i chilometri mancanti per raggiungere i vari “hut” dove pernottare.


Siamo partiti abbastanza presto da Plettenberg Bay per il Beervlei Hut, punto di partenza del trail. Il trekking si fa solo da E a W, per ragioni logistiche del parco. Da qui si deve raggiungere il Windmeulnek hut che dista 16-17 km. La guida indicava 5½h di cammino e quindi eravamo abbastanza ottimisti di raggiungere il rifugio nel primo pomeriggio al massimo. In realtà abbiamo subito scoperto che i tempi sono stati calcolati sulla base di un trekking leggero e senza soste!! Noi ci abbiamo messo un po’ meno di 7h: il dislivello totale è di 1000 metri, avevamo gli zaini molto pesanti e, soprattutto, volevamo goderci il paesaggio in pieno. Poco dopo la partenza il sentiero si butta in nella prima foresta vergine. Le foreste di Knysna e dei Monti Outeniqua sono state per decenni tagliate per ricavarne legname pregiato. Oggi sono protette e hanno recuperato il loro naturale aspetto selvaggio. L’emozione è forte, anche se la presenza di qualche vecchia strada ci fa adattare gradualmente “al totalmente soli”. Camminare nella foresta è bello rilassante e non fa sentire la stanchezza. Il primo vero problema si è però presentato 7 km dopo la partenza dove abbiamo dovuto guadare il primo fiume. Abbiamo fatto il trekking dal 7 al 13 settembre 2016, ovvero durante l’inverno australe. Questo consente di sicuro temperature per noi simili a quelle della primavera durante il giorno (molto fredde di notte), ma anche di essere in pieno periodo delle piogge. Le piogge possono in un attimo trasformare dei pigri e secchi torrenti in veri e propri fiumi.

Siamo stati fortunati perché abbiamo iniziato il trekking qualche giorno dopo un forte temporale, ma questo ha solo ridotto in parte i problemi dell’attraversamento dei fiumi. Normalmente si attraversa un grosso fiume al giorno, ma i guadi anche di piccoli torrenti possono creare delle difficoltà. Difficoltà che abbiamo risolto sia sistemando delle corde per aiutarci nell’attraversamento che facendo una teleferica con cui trasportare gli zaini da una riva all’altra sia, più semplicemente, spogliandoci e attraversando il fiume facendo attenzione a non scivolare. Ogni guado ci ha portato via da ½h a 1h ma la soddisfazione di aver attraversato un fiume è sempre stata molto alta. Dopo aver attraversato il primo abbiamo scritto nel diario “con l’aiuto del bastone, scalzi, in mutande con lo zaino sulle spalle abbiamo attraversato il fiume. L’acqua è gelida, rossa e non si vede dove si mettono i piedi… abbiamo pensato di cadere più volte…ma poi siamo fuori: euforia!! Ci asciughiamo, facciamo pausa con un tramezzino al sole e poi via…ci aspettano altri 11km!!” L’arrivo al primo rifugio (Windmeulnek Hut) è stata un’emozione che non dimenticheremo mai. Alla fine di una salita interminabile il rifugio ci è comparso all’improvviso dietro ad una curva. Scriviamo “mai desiderato tanto vedere una casina di legno con dei letti dentro”. Arrivati comincia la lotta contro il tempo. Ovviamente non c’è luce elettrica e dobbiamo nell’ordine: fare la legna per accendere il fuoco e cucinare/ scaldarci, lavarci e prepararci

per la notte. Il buio arriva alle 18. Tutti i rifugi, anche se molto essenziali, sono ben organizzati con cisterne d’acqua (che va comunque potabilizzata con amuchina), un ascia con cui fare o spaccare la legna (di norma ci sono dei grossi tronchi tagliati da poter pezzare), dei bagni, una doccia con acqua “gelida” e dei letti con materassi. La prima cena è stata “da gran gourmet”: risotto (liofilizzato) agli asparagi e salsicce alla brace…poi abbiamo alzato la testa e ci siamo goduti la vista di un magnifico cielo stellato. Il secondo giorno Windmeulnek Hut-Platbos Hut di circa 17 km, con una ascesa totale di 1130m ed una discesa di 1377m è stato il giorno in assoluto più impegnativo. Le 5½h e mezza previste dalla guida sono diventate 8h. Il sentiero in molti punti era un pantano, viscido e a strapiombo sul nulla, con decine di piccoli torrentelli da superare e spesso mal segnato. Siamo arrivati al rifugio al buio con la frontale, stanchi morti. L’idea di dover fare la legna per scaldarci e cucinare non era assolutamente piacevole, ma non potevamo fare altrimenti. Poi davanti al fuoco tutto è diventato diverso, quasi magico. Il terzo giorno siamo stati controllati da un ranger (unica volta in 7 giorni) poi ci siamo incamminati verso il Milwood Hut (15.5 km). Millwood era una prosperosa città mineraria dei primi del ‘900. Siamo abbastanza curiosi e questo ci fa muovere velocemente. Così velocemente che non facciamo caso alle impronte di elefante ed al sentiero davanti a noi “pulito”, molto pulito. Le orme fresche ci accompagnano, con CAI MORBEGNO 73


un po’ di ansia, per buona parte della giornata. Scriviamo “il sentiero è perfetto con numerosi sali-scendi che fanno riprendere il fiato e paesaggi mozzafiato. Si vede il mare da una parte e la catena degli Outeniqua dall’altra”. Anche il guado di questa giornata è “mozzafiato”. Il fiume è molto grande e pieno d’acqua. L’arrivo al villaggio minerario è un po’ sottotono. E’ rimasto solo un cartello che indica la “Main Street”. Poco più avanti c’è il villaggio moderno: poche case deserte forse usate solo d’estate. Il rifugio era la vecchia sede della forestale. Un bella casetta in legno su due piani dotata di una doccia con acqua calda e corrente elettrica!! Manca però l’ascia con cui pezzare la legna. Dettaglio non da poco, dovendo necessariamente accendere un fuoco. Lo superiamo raccogliendola direttamente nel bosco e usando un po’ di fantasia per 74 CAI MORBEGNO

rompere i grossi ciocchi. Il quarto giorno (17 km) abbiamo cominciato ad avere i piedi distrutti e, soprattutto, a razionare (molto) il cibo. Con i cerotti su tutti i piedi e il morale alle stelle abbiamo attraversato il fiume Knysna come se fosse una cosa normale e ci siamo arrampicati lungo l’unica ferrata del trekking. Non difficile, ma lunga e non proprio fittonata a dovere!! Il bello, però, doveva ancora a arrivare. A soli 2km dal Rondebossie Hut il sentiero fino a quel punto molto aperto e luminoso, si è buttato nella foresta vergine diventando buio ed infinito. Il rifugio è comparso all’improvviso in mezzo ad uno spiazzo mentre cominciava a piovere. Di sicuro il Rondebossie è stato il rifugio in assoluto più spartano e la notte la più fredda. Abbiamo dormito davanti al fuoco che è rimasto sempre acceso. Per cena risotto con radicchio e speck allungato con il dado,

una fetta di panbauletto…e buona notte!! Il quinto giorno, solo 13 km, ci aspettava l’ascesa al Monte Jonkersberg. Cartelli minacciosi ci avvertivano della difficoltà della salita. Di per se solo 700m di dislivello, ma semiverticali!!! La discesa è però stata incredibile. Quasi subito il sentiero ha abbantonato il fynbos (paesaggio simile a quello della macchia mediterranea) per infilarsi in una foresta dominata da felci alte alcuni metri e alberi giganti. Eravamo entrati nella giungla. Non abbiamo visto animali (si vedono solo quando i ranger te li fanno vedere!!!), appena ci sentivano scappavano, ma le orme sul terreno ci dicevano che non eravamo soli. Tra queste la meno tranquillizzante è stata quella di un “gatto” enorme. Non ci siamo fatti molte domande sul tipo di gatto e siamo andati avanti. Fisicamente e mentalmente ci


eravamo abituati al peso dello zaino ed a camminare per circa 7h al giorno. Il vero problema era il cibo. Andavamo avanti a risotti liofilizzati, fette di panbauletto con sopra un po’ d’olio (portato rigorosamente dalla Toscana), caffè istantaneo, the e zucchero. Avevamo decisamente fame. Al Diepwalle Hut, l’unico vicino ad un villaggio, abbiamo sperato di trovare qualcosa da mangiare. Ma le nostre aspettative sono rimaste tali. Il rifugio, molto carino, è una specie di mezza palafitta. La zona notte piccola e, quindi, calda, quella dove mangiare molto pratica con una serie di barbecue. I bagni hanno l’acqua calda. Il sesto giorno cominciamo ad essere un po’ stanchi. Il cibo è scarso e le energie quasi finite. Il paesaggio è però mozzafiato. Camminiamo in cresta con il mare alla nostra destra. Facciamo buon parte del percorso (totale 16.5 km) di buon lena. Mentre ci stiamo riposando e sistemando i cerotti, il barrito di un elefante, ci suggerisce di muoverci velocemente verso il Fisantehoek Hut. E’ l’ultimo rifugio del trekking, ci arriviamo sotto la pioggia. Dentro però troviamo una vasca da bagno che ci fa dimenticare tutte le fatiche, almeno per un attimo. Il settimo e ultimo giorno ci aspettano solo 12 km di sentiero. Una passeggiata. Arriviamo a Harkerville stanchi ma immensamente felici. Alla fine abbiamo fatto circa 120 km (incluse le divagazioni), perso 6 kg a testa (io dovrei farlo più spesso), attraversato la regione di Knysna passando per le sue foreste e giungle e vissuto

emozioni incredibili. Leggendo i libri dei rifugi abbiamo scoperto di essere stati tra i pochissimi ad aver fatto in modo completo l’Outeniqua Trail in inverno ed autonomia.

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CAIMORBEGNOATTIVITÀ

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IL PIZ CAMPAGNUN prima scialpinistica dell'anno di Marco Poncetta

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Andare in Engadina, per la prima scialpinistica dell’anno 2017, si è rivelata una scelta vincente. La poca neve di questa prima parte dell’inverno non ci ha permesso di trovare valide alternative alla Val d’Agnel, oltre il Passo dello Julier, una delle poche zone, a distanza chilometrica accettabile, con qualche centimetro di neve in più rispetto a quanto presente sulle montagne di casa nostra. Il numero considerevole di auto parcheggiate presso “La Veduta” ne è stata la conferma, molti


altri scialpinisti hanno avuto la stessa idea. Le basse temperature (-17°C) non ci hanno scoraggiato e ci siamo messi velocemente sugli sci per cercare di scaldarci e raggiungere velocemente una zona soleggiata. Dopo 30 minuti di salita ci consultiamo e all’unanimità decidiamo di cambiare meta. In una giornata con grado 3 sulla scala del rischio valanghe, il Piz Campagung, per le sue pendenze più dolci, la minore presenza di vento e un innevamento più continuo e costante, ci è parso una meta più sicura, poi, delle evidenti tracce a serpentina dalla cima,

hanno catturato la nostra attenzione al contrario della cresta ventata e scarsa di neve del Piz Surgonda. Chi pensava di dover rinunciare a qualche metro di dislivello, per la differente altitudine tra le due vette, ha trovato il tempo di rimediare ripellando e ripetendo i primi 200 m di discesa su fantastica neve polverosa. Purtroppo non siamo riusciti ad evitare tutte le insidie e, causa sassi, qualche danno alle solette abbiamo dovuto portarcelo a casa. Rientrati in Italia nel primo pomeriggio, come al solito tappa, merenda e scambio saluti. CAI MORBEGNO 79


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IL MIO CORSO DI SCIALPINISMO di Chiara Piatti

La mia decisione di iscrivermi ad un corso di sci alpinismo è nata così, quasi per caso. É nata dai miei amici che, tra un tiro e l’altro nelle sere estive passate al Sasso Remenno, mi continuavano a dire “Dai Chiara, fai scialpinismo”,“Guarda che è bello”,“Su su che ci divertiamo”. Ero scettica all’inizio, lo devo ammettere: perchè mai avrei dovuto fare tutta quella fatica per fare una singola discesa quando ci sono delle comode e veloci seggiovie che ti permettono di sciare su piste lisce come biliardi? “Siamo nel 2017, sfruttiamo questi prodigi di tecnologia quali gli impianti di risalita e i gatti delle nevi!” mi dicevo tra me e me. Dall’altro lato l’idea mi solleticava, quindi alla fine decido di andare contro tutti i miei sacrosanti principi e mi iscrivo al corso. La salita è sempre piacevole, salendo in compagnia si chiacchiera, fino a quando il fiatone lo permette, e si possono ammirare paesaggi

spettacolari. Uno su tutti, secondo me, è quello dalla cima del Piz Emmat, sembra quasi di toccare con mano la mitica parete nord del Badile. É proprio, però, raggiungendo la cima che arriva il dramma: la discesa! Tutti ovviamente sono contenti di arrivare in vetta, finalmente la fatica è terminata e ci si può divertire nella famosa polvere; che tra l’atro non si è fatta molto vedere quest’anno, giusto per complicare ulteriormente le cose. Io, invece, guardo questa neve fresca con lo stesso terrore con cui si guarda uno squalo. Tenete conto che sono una pistaiola doc, dopo anni e anni passati a sciare su neve tirata a lucido non è mica facile cambiare. In qualche modo la pelle l’ho sempre portata a casa, nonostante le mie discese siano sempre state avventure tragicomiche, quasi più tragiche direi. Ho, però, scoperto di essere un fenomeno sulla famigerata crosta, proprio su quel tipo di neve che ogni scialpinista spera di non trovare mai. Sì proprio quella, io lì so ‘na grande.

Il tempo sempre ci assiste durante il corso e riusciamo a fare delle bellissime uscite nei luoghi più vari: dal Munt de Sura in Valgerola al Monte Pedena nella valle di Albaredo, dal Cecchini allo Spluga al Piz Emmat Dadaint in Engadina per poi concludere con una bellissima due giorni in Val Viola salendo il pizzo Dosdè. È proprio quest’ultima l’uscita che ho preferito: il mio primo 3000 scialpinistico. Passiamo un sabato tranquillo, raggiungendo il bellissimo rifugio Federico in Dosdè e facendo prove Artva, per poi affrontare la cima la domenica con grande soddisfazione. Non sono diventata una campionessa, c’è ancora tantissimo da migliorare su tutti gli aspetti, ma, grazie al corso, ho acquisito la consapevolezza di come poter affrontare la montagna in sicurezza. Oltre a ciò, si è formato un bel gruppo, ci si diverte e si passano tante belle domeniche. Dunque, cosa aspettate ad iscrivervi?

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IL RALLYNO DELLA

ROSETTA GARA DI REGOLARITÀ 1°: Bonini Angelo - Ravasio Maria Luisa 2°: Del Barba Anna - Gadola Giulio 3°: Cortelazzi Enrico - Zecca Simone

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VELOCITÀ SALITA 1°: Franchetti Omar - Valente Jacomo 2°: Bulanti Erica - Bulanti Giorgio 3°: Cornaggia Pierangelo - Landi Gianluca


GARA DI DISCESA 1°: Del Barba Pietro - Orlandi Mauro 2°: Colli Flavio - De Donati Cesare 3°: Codega Davide - Fransci Marco

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La giornata è discreta, un po’ velata ma con bei tratti di azzurro. La neve c’è ma è appena sufficiente, con i tratti più esposti al sole che cominciano ad essere spelacchiati. Comunque le premesse per un bel Rallyno ci sono, ed infatti un numero consistente di persone si presenta alla partenza della 29° edizione della tradizionale manifestazione, organizzata dal CAI Morbegno. Sono quasi un centinaio i concorrenti che, a coppie, seguono le rosse bandierine che portano verso la cima della Rosetta. Con passo cadenzato, ricordiamo infatti che la competizione principe è una gara di regolarità, il lungo serpentone colorato risale zigzagando il pendio. C’è anche chi va di fretta, infatti la manifestazione prevede parallelamente anche una gara 84 CAI MORBEGNO

di velocità; i primi coprono i 560 metri di dislivello in mezz’ora, mentre gli ultimi ci impiegano tre volte tanto. Terminata la salita, ci si cambia, si tolgono le pelli e ci si abbassa fino al muro finale, dove Angelo ha preparato il suo famigerato gigantone, per la prova di discesa. Le porte in canna di bambù disegnano un percorso sempre abbastanza impegnativo, in cui non riesci mai a prendere il ritmo. Preoccupati dall’evitare le “vasche” più profonde si cerca di risparmiare un po’ le gambe, che immancabilmente arrivano al traguardo in fiamme. La festa, perché di questo si tratta, continua davanti ad un bel piatto di polenta e costine. Al termine premi per tutti, con i consueti sfottò e complimenti che arrivano man mano che viene snocciolata la classifica.


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di Giulio Gadola

Sto correndo in montagna un sabato mattina con il mio amico Ale. Lui è più appassionato di me alla corsa, si allena più spesso ma soprattutto va più veloce. Quando siamo in giro insieme però tiene un regime un po’ ridotto e io, per non farlo aspettare troppo, cerco di tenere il mio massimo. Questo fa si che il cuore pompi tutto quel che può per mandare il sangue ai muscoli, portare l’ossigeno necessario a reggere lo sforzo e permettermi di sostenere la “prestazione”.

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E’ a questo punto che mi chiede se voglio scrivere un articolo sulla gita scialpinistica alla Tuckett per l’annuario 2017. Non so se stavamo chiacchierando come spesso accade o se è stato frutto di una sottile ed oculata tattica, fatto sta che, complice la mancanza di ossigeno al cervello, ho risposto che me ne sarei occupato.


TUCKETT chi era costui?

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Ed eccomi inguaiato! Per lungo tempo ho tenuto l’idea in fondo a qualche cassetto della memoria trovando sempre qualcosa di meglio da fare o da pensare. Ma poi il tempo ha iniziato a stringere e allora ho pensato: ”Dico all’Anna di pensarci lei!” Ma poco prima anche lei è stata incaricata di scrivere un articolo sulla partecipazione del nostro “bambino” ai mondiali di scialpinismo. Niente da fare, devo arrangiarmi da solo. Non voglio finire nella banale e scontata cronaca di una seppur bella giornata in montagna del tipo: ci siamo trovati il tal giorno alla tal ora siamo partiti per il Passo dello Stelvio, siamo arrivati tutti in cima, abbiamo fatto una bella sciata e concluso con una 88 CAI MORBEGNO

meritata birra. E’ vero che è andata così ma voglio evitare una cronistoria insipida, poco interessante per chi non ha partecipato alla gita ma probabilmente noiosa anche per chi c’era. Una sera stavo esprimendo queste mie perplessità parlando con il Mario, scrittore ben più brillante e illustre di me sulle pagine dell’annuario. Condividendo le mie perplessità, mi consiglia di fare una ricerca sul nome della cima e sulla sua storia. Mi ha così dato l’illuminazione che cercavo. Oggi su internet si trova di tutto e quindi mi metto all’opera. “La cima Tuckett (3462 m.) o Tuckett-Spitze fa parte del sottogruppo Trafoi-Thurwieser e fu conquistata per la prima

volta da Julius Payer e Johann Pinggera il 12 settembre del 1866 che risalirono la cresta nord. La cima, posta tra il passo cui dà il nome e il Passo Cima di Campo, venne così battezzata dallo stesso Payer a memoria di F. Tuckett, alpinista inglese tra i primi a cimentarsi con queste vette.” Questa è stata la prima sorpresa, pensavo che Tuckett fosse il nome del primo salitore. E Payer? Fino ad oggi l’ho sempre associato al rifugio sulla normale per l’Ortles che, circa 30 anni fa, io e il mio amico Ivan avevamo accuratamente evitato perché sempre affollatissimo, e, a quanto ci dissero, con cibo che lasciava a desiderare e coperte ben polverose. Wikipedia mi informa che


Julius Johannes Ludovicus von Payer (1841-1915), è stato un alpinista, esploratore e pittore austro-ungarico , nato in Boemia. Fu un militare in carriera e dopo gli studi a Cracovia (Polonia) e nei pressi di Vienna, fu di servizio a Verona e a Venezia. Iniziò nel 1862 una serie di viaggi esplorativi nelle Alpi del Tirolo meridionale e negli Alti Tauri. Fece esplorazioni di carattere alpinistico nei due gruppi montuosi dell’Adamello e della Presanella, e il 16 settembre del 1864, assieme a due guide della Val Rendena, conquistò la vetta dell’Adamello (3539 m). Questa fu la maggiore impresa alpinistica di Payer. Nel 1865 fu la volta del gruppo dell’Ortles-Cevedale, dove Payer effettuò alcune prestigiose CAI MORBEGNO 89


ascensioni. Degne di nota, oltre alla conquista della vetta del Cevedale (sino a quel momento inviolata) avvenuta il 7 settembre, la prima ripetizione della via normale nord dell’Ortles e la salita al Gran Zebrù lungo un versante ritenuto molto difficile. Nel 1868 partecipò alla seconda spedizione polare tedesca, che si protrasse sino al 1870. Nel 1871, realizzò una spedizione polare tra Svalbard e Nuova Zemlja, mentre l'anno successivo, partecipò alla spedizione polare austroungarica, durante la quale venne scoperta la Terra di Francesco Giuseppe. Sicuramente fu un gran personaggio, ma se uno come lui dedicò una sua prima ascensione a Tukett … chi fu costui? Il buon Wikipedia mi viene sempre in aiuto ed apprendo che Francis Fox Tuckett (1834– 1913) è stato un alpinista britannico. Fu vicepresidente dell'Alpine Club inglese nel biennio 186668 e membro della Royal Geographical Society di Londra. A soli otto anni, trascorse la sua prima estate a Chamonix, dove il padre lo introdusse alla 90 CAI MORBEGNO

montagna con un'escursione sulla Mer de Glace. Nel 1856 diede inizio alla sua intensa carriera d'esplorazione montana partendo dall'allora piccola ma già rinomata base di Zermatt. Nello stesso anno compì la sua prima ascensione all'Aletschhorn , nelle Alpi Bernesi. Nel 1860 conquistò il Finsteraarhorn e raggiunse per primo - dal versante savoiardo - il Col de l’Argentiére. Negli anni successivi affrontò vittoriosamente l'ascensione del Monte Rosa, del Breithorn, del Monviso e di numerose altre cime nelle alpi occidentali. A metà luglio del 1861 compì la sua prima ascensione al Monte Bianco. Nel 1864 iniziò ad esplorare le alpi CentroOrientali e le Dolomiti, che per molti anni divennero il suo principale interesse. Nell'estate del 1864 salì per primo la cresta sud-orientale del Gran Zebrù, e conquistò il Monte Disgrazia. Gli fu intitolata una vetta di 3.462 metri (la Cima Tuckett), scalata per la prima volta da Julius Payer e Johann Pinggera. Dopo aver salito la Marmolada, conquistò la Cima Adamello, nella stessa estate compì l'esplorazione del Gruppo delle

Pale di San Martino. Nel 1870 riuscì a raggiungere per primo la vetta del Cimon della Pala. Di tale impresa Tuckett fornì un dettagliato resoconto sul Bollettino CAI del 1871 . Nell'agosto del 1871 giunse nel Gruppo delle Dolomiti di Brenta, scoprendo una via di salita alla Cima Brenta. Dopo il 1872 Tuckett, ormai universalmente riconosciuto come un'autorità indiscussa dell'alpinismo mondiale, lasciò l'esplorazione delle Alpi e si votò all'escursionismo scientifico, compiendo molti


viaggi alla scoperta delle montagne statunitensi (1884), norvegesi (1886-1887), greche e balcaniche (1880), spagnole e nordafricane (1888) Abbandonata l'esplorazione degli ambienti montani, Tuckett si dedicò ai viaggi, realizzando per tre volte il giro del mondo. Forse a causa della sua attività di esploratore e viaggiatore, per due volte venne arrestato come spia. Nel 1896, all'età di 62 anni, si sposò. Negli anni successivi continuò a viaggiare accompagnato dalla moglie. Nel giugno del 1913, al ritorno

da un viaggio in Giappone, morì nella sua villa di Frenchay per un letale attacco di erisipela (infezione acuta della pelle). Insomma il 21 maggio 2017 sono partito per una delle tante escursioni scialpinistiche in un bellissimo ambiente, con una bellissima neve ed un bellissimo tempo, conclusa con la solita meritata birra, ma questa volta ho scoperto di aver incrociato le linee dei miei sci con quelle percorse più di 150 anni prima da Payer su una montagna dedicata a Tukett. Ringrazio quindi l’Ale che mi

ha “ingabolato” e il Mario che mi ha illuminato, perché ho avuto, con piacere, l’occasione di conoscere questi due personaggi di cui ignoravo la storia, che hanno rievocato atmosfere ed imprese d’altri tempi e che hanno reso gradevole quella che vedevo come un’incombenza. Spero quindi di non averti annoiato, lettore critico e severo, ma di avere arricchito anche la tua sciata, se eri dei nostri quel giorno, od invogliato a fare un giro da quelle parti se non ci sei mai stato.

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LA SACRA DI SAN MICHELE

in ferrata e in escursione verso l'Abbazia di Alessandro Caligari

E’ tarda primavera, gli sci sono ormai in garage, e allora, per quanto riguarda le attività del CAI, cambiamo radicalmente genere. Per il week-end del 7 maggio abbiamo messo in programma un itinerario per noi piuttosto inconsueto; si tratta di salire alla Sacra di San Michele, millenario complesso monastico, una delle architetture più interessanti del Piemonte. Di origine medioevale, è collocato sul Monte Pirchiriano, alla quota di 962 m, all'imbocco della valle di Susa. Un tempo ambitissima meta e luogo di transito per i pellegrini tra Italia e Francia, dopo una lunga decadenza è stato ristrutturato in tempi relativamente recenti ed affidato alla cura dei Padri Rosminiani. Oggi tutti possono arrivare in auto alla Sacra di San Michele e godersi il panorama. Noi abbiamo deciso di farlo dividendo il gruppo in due; uno avrebbe salito 92 CAI MORBEGNO

uno dei comodi sentieri che, attraversando alcuni borghi, con una facile escursione portano in cima; l’altro avrebbe percorso, in arrampicata, le ripide pareti del monte Pirchiriano. L’intento era quello di trovarci tutti assieme in cima, per poi visitare l’abbazia. La Ferrata della Sacra, intitolata a Carlo Giorda, è caratterizzata da un notevole panorama, ed è catalogata complessivamente come “moderatamente difficile”; in realtà è sì esposta, ma non particolarmente impegnativa, se non in alcuni passi del primo tratto ed in quello finale. E’ caratterizzata da una fune metallica rivestita di gomma, che oltre alla sicurezza svolge anche la funzione di appiglio per la progressione, data la presenza piuttosto scarsa dei noti gradoni in ferro. Le relazioni ci dicevano che la zona è sovente esposta da un forte vento; infatti , appena

scesi dal pullman siamo stati accolti da folate d’aria fredde e poco incoraggianti, che portavano anche gocce di pioggia. Vestiti come astronauti ci siamo messi in coda, perché davanti a noi c’era un corposo gruppo di una scuola d’alpinismo. Con manovre non proprio ortodosse abbiamo superato la comitiva di allievi, per poi procedere spediti verso la cima. La roccia era compatta, non particolarmente scivolosa perché il versante della montagna è in genere ben soleggiato. Non abbiamo incontrato grosse difficoltà tecniche o lunghi tratti verticali, ma l'ampiezza dell'itinerario consigliava che non venisse affrontato da principianti. Per chi si volesse cimentare con questa ferrata, segnaliamo che ci sono due possibili vie di fuga, la prima dopo circa 300 m, a livello di ''Pian Risulet'', da dove un sentiero riporta in paese; una


seconda dopo circa 500 m di dislivello, all'altezza di “U Saut du Cin” da dove si può raggiungere in una ventina di minuti la borgata San Pietro. A metà della via c’è un ponte tibetano, non adatto a chi soffre di vertigini. Inizialmente dotato solo di tre cavi, uno per i piedi e gli altri due per le mani, ora ha anche una sorta di impalcato, per cui è percorribile abbastanza agevolmente. Le relazioni davano dei tempi di percorrenza che si aggiravano dalle 4 alle 6 ore. In realtà, senza fare delle corse, in circa 3 ore siamo arrivati ai piedi dell’abbazia, che da qui ci appariva più una fortezza militare che una struttura monastica. Girandole attorno, alla spicciolata abbiamo raggiunto l’accesso principale, dove abbiamo incontrato l’altro gruppo, quello degli escursionisti. Partiti assieme ma arrivati prima di noi, i camminatori hanno intrapreso una scarpinata su uno degli antichi sentieri che dava la possibilità di ammirare l’imponente edificio della Sacra di San Michele da una prospettiva diversa. Pranzato tutti assieme sul verde sagrato dell’abbazia, abbiamo atteso il nostro turno per una visita guidata. Monumento simbolo della Regione Piemonte e luogo che ha ispirato lo scrittore Umberto Eco per il best-seller Il nome della Rosa, la Sacra di San Michele è un’antichissima abbazia costruita tra il 983 e il 987 sulla cima del monte Pirchiriano, a 40 km da Torino. Dall’alto dei suoi torrioni si possono ammirare il capoluogo piemontese e un vasto panorama della Val di Susa. All’interno

della Chiesa principale della Sacra, risalente al XII secolo, sono sepolti membri della famiglia reale di Casa Savoia. Man mano che entriamo, la Sacra ci svela alcuni dei suoi elementi più suggestivi: la statua di San Michele Arcangelo, lo Scalone dei Morti con il romanico Portale dello Zodiaco e la leggendaria Torre della Bell’Alda. Terminata la visita, che credo sia interessante anche per chi non è appassionato d’architettura o d’arte, siamo scesi da un itinerario diverso da quello di salita, questa volta tutti assieme. Il percorso, sul versante Ovest del monte Pirchiriano, non era molto panoramico ma comunque piacevolmente immerso in una verde faggeta. Il pullman, in pochi minuti ha raggiunto l’autostrada per poi far rotta verso casa. CAI MORBEGNO 93


DA SPETTATORI IL CORSO DI ROCCIA AD ATTORI VISTO CON GLI OCCHI DI UNA PRINCIPIANTE di Anna Mondora

Ho sempre guardato con il naso all'insù le pareti della Valmasino in cui spesso vedevo i colori degli alpinisti impegnati a scalarle. Il mio primo pensiero è sempre stato "quelli sono matti". Ma proprio quella loro "pazzia" mi ha da sempre incuriosita, attratta e affascinata. Mi sono iscritta al corso di roccia organizzato dalle sezioni di Morbegno e Chiavenna del CAI senza sapere molto bene cosa mi aspettasse, sono sincera. Un mondo a me totalmente sconosciuto e visto solo dal basso, con il naso all'insù appunto. La pazienza (quanta pazienza!) e la passione degli istruttori (Paola, Cesare, Gianfranco, Mauro, Mario, Marco, Moreno e Pio) hanno permesso anche a una principiante come me di 94 CAI MORBEGNO

avvicinarsi a questa realtà, una realtà fatta di fatica, impegno, attenzione, ma anche tanta soddisfazione. Sì, perché di momenti in cui ho detto "non ce la faccio" ce ne sono stati tanti, ma la soddisfazione di averli superati ha ripagato ogni sforzo. Le lezioni teoriche alla palestra di Piuro, i primi contatti con la roccia, le prime calate in corda doppia, gli insegnamenti sui nodi, le tecniche di assicurazione, i metodi di progressione, ma anche le risate, le battute e gli scherzi: un mix perfetto che ci ha permesso di avvicinarci a un mondo per alcuni di noi ancora tutto da scoprire, che unisce persone che amano la montagna, la rispettano e - perché no - ogni tanto

la "sfidano". È passato tanto tempo da quella prima difficile - uscita al Pizzo Boga e tutti, principianti e non, possiamo dire di aver imparato tanto, da cose più tecniche ad altre più banali, come respirare (lo so, sembra una sciocchezza, ma vi garantisco che non è così scontato...). Valmasino, Valchiavenna, Lecchese, Liguria: rocce diverse, così come i paesaggi che ci hanno offerto, tutti meravigliosi e finalmente - visti da un'altra prospettiva: guardando "all'ingiù". E leggendo negli occhi dei tanti che ci vedevano quel mio vecchio pensiero: "quelli sono matti". Grazie di cuore a chi ha permesso tutto questo, sperando sia solo l'inizio della nostra avventura da aspiranti alpinisti.


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Il Sentiero dei di Jacopo Cairati

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Morbegno, 16 luglio 2017 ore 6:00. Ritrovo in piazza S. Antonio, la meta è il "Sentiero dei Fiori", via ferrata che si sviluppa tra le cime rocciose e aguzze dell'Adamello, e che in alcuni punti arriva a toccare la quota di 3000 m. Gli aspetti propriamente tecnici relativi alla gita, vorrei qui tralasciarli per tre motivi: il primo poiché non sono particolarmente bravo ed esperto a scrivere recensioni tipicamente escursionistiche; il secondo (che viene in aiuto del primo) è una giustificazione più che veritiera: ormai su internet ci sono numerosissime e dettagliate recensioni e pertanto la mia non aggiungerebbe nulla di nuovo rispetto a quanto già in circolazione; il terzo ed ultimo motivo, forse quello veramente più importante,

è legato soprattutto alla storicità e al valore socioculturale del percorso. Il "Sentiero dei fiori", attraverso una serie di cavi in acciaio, scalette, gallerie scavate nella roccia e passerelle sospese nel vuoto, conduce l'escursionistaspettatore lungo un percorso di guglie e ghiacciai, un tempo teatro di guerra e scontri tra le truppe italiane e austriache. In questi ambienti vertiginosi ed ostili si è combattuta la Guerra Bianca (ovvero la Prima Guerra Mondiale ad alta quota, da qui l'aggettivo "bianca" per indicare la neve che rivestiva le montagne e che circondava gli Alpini). Come si sa, essa è stata una guerra tutt'altro che pura (come potrebbe far pensare, in maniera fuorviante, l'aggettivo bianca), ma anzi è stata una delle più sanguinose ed assurde. Oltretutto per ragioni strategico militari


Fiori

e non solo, è stata l'unica guerra ad essere combattuta in alta montagna. Una guerra atroce, brutale che ha portato sofferenze e incubi anche nella memoria delle generazioni presenti. Una guerra brevissima, ma che ha lasciato cicatrici profonde, ancora oggi visibili, sul suolo alpino. Il "Sentiero dei fiori" conduce l'uomo moderno in un museo a cielo aperto, collocato in alta montagna e il cui unico biglietto da pagare è quello della funivia. Un luogo mistico e sacro. Un pellegrinaggio dove la memoria è ancora vivida e dove il religioso silenzio per i caduti di guerra si unisce a quello dei possenti giganti di pietra. Un luogo in cui un tempo scorreva sangue sulle rocce, ora lascia scorrere fiumi di speranza verso l'orizzonte della valle. CAI MORBEGNO 97


PIZZO

TRESERO

D’ESTATE di Alessandro Caligari

L’alzataccia è più che altro un fastidioso pensiero della sera precedente. Superato lo shock della sveglia, in un attimo ci si mette in piedi e ci si prepara per l’uscita. La meta è il Pizzo Tresero, quota m 3602, in Valfurva, da salire dal fianco meridionale del crestone SudOvest. L’entusiasmo iniziale scema un po’ dopo il lungo tragitto in auto, specialmente per chi soffre la macchina, causa la rognosa strada provinciale che sale al Passo del Gavia. Comunque sia tutto torna nuovamente al bello quando si comincia finalmente a camminare. Dal rifugio Berni, posto un paio di chilometri prima del passo e dedicato al capitano degli alpini caduto sul San Matteo nel 1918, scendiamo brevemente per entrare nella valle del Dosegù, dove scorre l’omonimo torbido torrente, dal color verdemarrone. Lo attraversiamo su una passerella sospesa, chiamata “ponte dell’Amicizia”, che ci immette su un ripido versante fatto di depositi 98 CAI MORBEGNO

morenici e di pascoli molto magri. E’ il regno dell’erba iva, che tappezza letteralmente ampi spazi ai lati del sentiero. Siamo molto tentati dal farne un bella sacchettata (Rita mi sta già spiegando come fare per essiccarla correttamente), sennonchè ci ricordiamo di essere all’interno del Parco dello Stelvio e che l’erba iva è una specie protetta, per cui desistiamo dall’intento. Man mano che saliamo, il rado pascolo cede il posto agli sfasciumi. Passato un valico arriviamo al cospetto del frastagliato ghiacciaio del Dosegù, che negli ultimi anni si è ritirato in maniera vistosa. Sopra, in posizione dominante, si alza l’arrotondata punta San Matteo. Ci immettiamo quindi nella valle della vedretta del Tresero. A questo punto dobbiamo scegliere se salire dalla cresta Sud-Ovest, toccando il bivacco Seveso, oppure passare dal ghiacciaio. La presenza di un numeroso gruppo nei pressi del bivacco, rumoroso e all’apparenza non


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troppo esperto, ci fa optare per la vedretta, soprattutto dopo che questi fanno rotolare verso noi alcuni sassi. Allora percorriamo il ghiacciaio fino alla base di un canalone di sfasciumi, che dobbiamo risalire per portarci alla cresta finale. Qui triboliamo un po’, a causa di un paio di passaggi un po’ delicati. Sfruttando quel che resta di corda fissa i primi del gruppo riescono a superare le difficoltà, ma poi la prudenza ci consiglia di prendere dallo zaino una corda di sicurezza, per permettere a tutti di forzare il passaggio in tranquillità. Come prevedibile però la cosa porta via diverso tempo. In tanto il primo gruppo, raggiunta la cresta, guadagna la vetta senza altre 100 CAI MORBEGNO

difficoltà. La temperatura è bassina, per cui ci copriamo bene mentre aspettiamo il resto del gruppo. Dalla cima la vista è ottima, seppur oggi un po’ guastata dalla nuvolaglia che ad intermittenza ci copre le varie cime. Ecco che a turno emergono il Disgrazia, il Bernina, il massiccio dell’Ortles, Il Gran Zebrù e tutte le altre dodici delle “Tredici cime”, di cui anche il Tresero fa parte. Addentati un paio di panini ecco che arriva il resto del gruppo. Mentre anche loro si coprono e mangiano mi guardo in giro. Attorno alla vetta ci sono resti dei trinceramenti della guerra combattuta tra Italiani e Austro-Ungarici. I primi, nel 1917 riuscirono a

conquistare la vetta, mentre gli altri si trincerarono sul vicino San Matteo. Restarono a spararsi e a patire un freddo cane per dei mesi, per cercar di stappare l’uno all’altro poche centinaia di metri di confine, nella battaglia più alta mai combattuta sulle Alpi. Dal caldo del mio abbigliamento tecnico mi sembra incomprensibile (ma probabilmente lo era anche allora) la motivazione di questa lotta in quota, che costringeva a scavare tunnel nella roccia, issare cannoni a forza di braccia e ricavare trincee nel ghiaccio, a trenta gradi sotto zero. Mi chiamano per la foto di gruppo, così lascio i resti della guerra Bianca per andare sotto la grande croce


di vetta. Cominciamo quindi a scendere dalla stessa via di salita, evitando però le placche che ci avevano attardato all’andata, prendendo una variante poco distante, su un terreno decisamente instabile ma dotato di tre lunghe corde fisse. Dobbiamo procedere con una certa attenzione perché, oltre al pericolo di far cadere massi su chi ci precede, spesso ci si trova su sfasciumi che poggiano sul ghiaccio e che franano a valle con facilità.

Usciti dalla zona del ghiacciaio riprendiamo il facile sentiero che torna al passo. Ci fermiamo per una sosta nei pressi di un bel laghetto glaciale. Siamo un po’ accaldati e l’acqua è limpida ed invitante, ma la temperatura dell’aria smorza le velleità balneari. Riprendiamo la discesa e Rita guarda nuovamente quel ben di Dio di erba iva incontrata all’andata, ma ormai abbiamo deciso che resterà dov’è.

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IL PIZZO RACHELE di Alessandro Caligari

Visto dal rifugio Gerli Porro, in Val Ventina, il Pizzo Rachele fa bella mostra di sé: una bella piramide, piuttosto alta che si affaccia sul ghiacciaio. Mi incuriosisce il nome ma su internet non ho trovato nessuna spiegazione, e neppure il “capanàt” mi è d’aiuto; forse è una dedica, un po’ untuosa, fatta nel ventennio fascista, forse invece c’è una ragione più romantica. Ci informeremo meglio. Comunque sia siamo quasi una trentina di persone partite da Morbegno per salire il Pizzo o per lo meno per girargli intorno. Da Chiareggio saliamo compatti, raggiungiamo il rifugio e poi ci addentriamo nella valle, risalendo l’orlo della morena di sinistra. Seguiamo i segnali dell’Alta Via della Val Malenco che ci porta a salire il ripido 102 CAI MORBEGNO

pendio verso il Passo del Ventina, a quota 2.675 m. A metà salita cominciamo a calpestare neve, caduta nei giorni precedenti. Tra neve e sfasciumi, che non ci agevolano, arriviamo al valico, che ci permette di affacciarci sull’altro versante, dove possiamo vedere i laghetti di Sassersa, meta di una buona parte del gruppo. Scattiamo qualche foto, mangiamo qualcosa e poi ci separiamo: alcuni vanno ai laghi e successivamente scenderanno fino a Primolo, altri raggiungeranno anche loro i laghi ma poi torneranno dalla stessa strada percorsa in precedenza, per raggiungere, con le auto, quelli del gruppo precedente. In undici invece saliamo alla cima del Pizzo Rachele.


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Partiamo sulla cresta Ovest, inizialmente senza alcuna difficoltà particolare. Capiamo però presto che la neve ci avrebbe procurato qualche grattacapo: un manto di una ventina di centimetri copre ogni traccia di salita e ci nasconde le placche scivolose che ogni tanto ci troviamo sotto i piedi. Così la salita, normalmente abbastanza semplice, si presenta oggi un po’ più complicata. Al primo intaglio dobbiamo già tirar fuori la corda dallo zaino; un salto di alcuni metri, sopra un versante esposto, ci obbliga a legarci e a mettere qualche 104 CAI MORBEGNO

protezione per superare il tratto in sicurezza. Anche gli scarponi bagnati e slittanti non ci aiutano a salire in tranquillità sulla roccia. Comunque sia, tutti superano l’ostacolo e si torna a risalire il versante, sempre più bianco e scivoloso. Così mettiamo mano anche alle picozze e proseguiamo fino alla parte finale della salita. Un canalino stretto e bagnato ci obbliga nuovamente ad attrezzare la salita, così come il traverso finale che ci porta in cima. Siamo decisamente in ritardo sulla tabella di marcia, ma fortunatamente le previsioni

meteo favorevoli hanno mantenuto quanto promesso, cosicchè, nonostante un vento un po’ fastidioso, godiamo di un bel tempo e quindi di una certa tranquillità. Dalla cima il panorama è notevole, anche se un po’ limitato dalla nuvolaglia che ci gira attorno dalla mattina. Scattate le foto di rito ci affrettiamo a scendere. Sappiamo che scendere dei tratti in doppia, in undici, non è una cosa veloce per cui cerchiamo di affrettare i tempi, attrezzando a volte anche due calate parallele. Senza intoppi particolari arriviamo nuovamente al


passo e da qui al rifugio. Non è certo presto, ma crediamo di esserci guadagnati almeno una birra, così ci fermiamo alla Porro dove scambiamo due chiacchiere con il gestore, soddisfatto dell’affluenza domenicale, e con alcuni alpinisti che ci informano sui loro programmi dei giorni successivi. Il comodo sentiero ci porta velocemente alle auto in attesa a Chiareggio. C’è “campo” per i cellulari, così possiamo avvisare casa che è tutto a posto, ci siamo solo attardati per goderci con calma una salita in stile alpinistico. CAI MORBEGNO 105


ALPINISMO GIOVANILE Con la scuola provinciale “BOMBARDIERI-MARTELLI”

di Riccardo Marchini

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Il 2017 della Scuola di Alpinismo Giovanile “Bombardieri-Martelli” è stato intenso e ricco di iniziative sia per l’attività interna al CAI sia per i rapporti con le scuole. Da gennaio a ottobre sono state effettuate 13 gite di una giornata, 2 uscite con pernottamento, 1 stage di quattro giorni e sono state messe in atto, mediante ripetuti interventi, collaborazioni con 7 istituti


scolastici. Per portare a termine questo gravoso impegno, che ha interessato 38 ragazzi della “BombardieriMartelli” e circa 500 studenti, si sono avvicendati i 20 Accompagnatori della Scuola. Così recita la fredda statistica. Entrando nel merito, le uscite sono state programmate in modo da poter affrontare i temi legati alla montagna e alla nostra realtà territoriale. I ragazzi hanno potuto

confrontarsi con l’ambiente innevato, la progressione su terreno scabroso e attrezzato, l’orientamento con carta e bussola, la lettura del paesaggio con tutti i suoi contenuti naturalistici. Non meno importanti sono state le gite di carattere etnografico e storico per conoscere i terrazzamenti, i castelli e un’antica ferriera dismessa, patrimonio culturale della nostra valle. Questo programma

corposo e vario è stato preceduto in febbraio da un breve corso di sci alpinismo rivolto ai giovani over 13, realizzato con la collaborazione degli Istruttori della Scuola provinciale di alpinismo e sci alpinismo che operano a Morbegno. Erano pochi ma determinatissimi gli otto allievi che si sono cimentati con le pelli di foca, l’inversione nei tornanti e le discese in neve non battuta. Hanno assicurato CAI MORBEGNO 107


che ci riproveranno. La stage in val Fontana, con campo base alla ex caserma “Erler” della guardia di finanza, ci ha permesso di trascorrere quattro giorni di escursioni (San Bernardo, rifugio CedernaMaffina, Valle dei laghi e passo dell’Arasè), ravvivati, nei momenti di riposo, da giochi, proiezioni, ottimo cibo e un po’ di “sano casino” socializzante. In questa buona annata è da rimarcare la bella serata autogestita al rifugio Caprari in valle del Livrio, nell’ambito dell’iniziativa “Giovani in vetta” proposta dal Parco delle Orobie. Grazie a un cielo incredibilmente terso per il mese di luglio, il prof. Claudio Bongini, astronomo, ha saputo intrattenere i ragazzi in una coinvolgente lezione all’aperto sulla storia del sistema solare, seguita da una altrettanto interessante lettura del cielo 108 CAI MORBEGNO

stellato. La salita, il giorno seguente, al Corno Stella ha concluso degnamente l’avventura didatticoescursionistica. Il gran finale con la festa dell’Arrampicaorientarsi è stato celebrato in tre teatri diversi sotto lo sguardo attento dei genitori. Doveva svolgersi ai Bagni di Màsino, ma il maltempo ha suggerito, vista la stagione, il rinvio e il cambio di campo. Poco male, perché la palestra della Sassella (arrampicata), il parco Bartesaghi (giochi di orienteering e di progressione col set da ferrata) e Castione (pranzo e saluti) si sono rivelate le sedi più idonee per una chiusura in bellezza. Numerosi, dicevamo, gli interventi nelle scuole. La “Bombardieri–Martelli” è sta coinvolta, attraverso attività in aula ed escursioni in ambiente,

nelle iniziative curriculari della Scuole primarie “Bagiotti” di Castione e “Battisti” di Sondrio, delle Scuole medie “Quadrio” di Ponte in Valtellina e “Damiani” di Morbegno, dell’ITIS “Mattei” di Sondrio, dei Licei scientifici “Sacro Cuore” di Milano e “Donegani” di Sondrio. Particolarmente intenso il lavoro svolto con l’indirizzo sportivo del liceo del capoluogo, arrivato oramai al quarto anno: oltre al consueto stage di tre giorni al rifugio Gerli-Porro con la 1a classe e agli incontri, teorici e pratici, di arrampicata con la 2a, gli Accompagnatori della “Bombardieri-Martelli” hanno assistito gli alunni della 3a classe nella salita su ferrata Torrione Porro in Valmalenco e gli studenti di 4a ,oramai diventati vecchie conoscenze, nella traversata da Chiareggio al Maloja per il passo del Muretto.


ALPINISMO GIOVANILE attività

• 29 gennaio Sci & pelli al Palù • 12 febbraio Sci & pelli al Munt de Sura • 19 febbraio Sci & pelli al Monte Pedena • 26 febbraio Sci & pelli al Piz d’Emmat • 12 marzo Giochi sulla neve a Salmurano • 2 aprile Via dei terrazzamenti Tirano-Teglio • 23 aprile Anello del Moregallo nel Triangolo lariano • 7 maggio Alpe Granda in media Valtellina • 21 maggio Premadio e le Torri di Fraele in alta Valtellina • 28 maggio Raduno regionale ai Piani d’Erna Resegone • 18 giugno Alpe Cima in Valchiavenna • dal 30/06 al 3/07 Stage Rifugio ANA in val Fontana • 11 e 12 luglio Rifugio Caprari & Corno Stella per “Giovani in vetta” • 30 e 31 luglio Rifugio Frasnedo & Rifugio Volta in val dei Ratti • 24 settembre Via dei castelli Tirano-Grosio (con le famiglie) • 8 ottobre Festa di chiusura “Arrampicaorientarsi” (con le famiglie)

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SCUOLA E MONTAGNA Alunni della I A della Scuola secondaria di primo grado IC 2 Damiani Morbegno

Sabato 07 ottobre 2017 noi alunni della classe I A della Scuola secondaria di primo grado dell’Istituto comprensivo Damiani di Morbegno insieme alla professoressa Bertarelli siamo stati invitati nella sede del CAI Morbegno presso i giardini di Palazzo Malacrida per vedere la mostra Orobie in cartolina. Abbiamo accolto l’invito con entusiasmo, perché la nostra classe è una delle quattordici classi in Europa che sta sperimentando, all’interno del progetto europeo YOUrALPS, un modello di scuola alpina. Siamo stati ricevuti calorosamente dal presidente della sezione di Morbegno del CAI Marco Poncetta, da Riccardo Marchini e da Luca Villa, referente di È Valtellina, l’associazione che ha curato la mostra. 110 CAI MORBEGNO

Marco Poncetta ci ha spiegato che cos’è il CAI, quali sono i suoi scopi e le sue attività; è stato molto interessante e abbiamo capito quanto sia importante andare in montagna con competenza e in sicurezza. Riccardo Marchini, Accompagnatore di Alpinismo Giovanile, ci ha presentato le finalità della Scuola di Alpinismo Giovanile della provincia di Sondrio, ossia di far avvicinare noi ragazzi alla montagna, facendocela conoscere grazie a tante uscite in ambiente alpino, che spaziano dalla neve, alla roccia, alle tradizioni e alla flora e alla fauna. Luca Villa ci ha illustrato la mostra, raccontandoci tanti aneddoti e facendoci riflettere su diversi particolari dei luoghi rappresentati nelle cartoline; abbiamo potuto


anche confrontare come alcuni di questi si siano trasformati con il passare del tempo, i cambiamenti climatici e la presenza dell’uomo con le sue attività legate al lavoro o al turismo. Le storie che ci hanno raccontato erano talmente appassionate che tutti ci immaginavamo di essere lì tra quei bellissimi paesaggi. Le cartoline, ben 250, illustravano in bianco e nero o a colori, quelle più recenti, cime delle Orobie, laghi, rifugi e animali alpini dal Passo San Marco al Monte Legnone. Al centro della sala c’era un tavolo con tanti annuari del CAI degli anni scorsi, riviste, materiale fotografico, libri appartenenti a collezioni private riguardanti le montagne. Da parte nostra c’era

meraviglia e stupore per chi ha potuto ricordare la gita in montagna con i genitori o i nonni e riconoscerne i luoghi, e per chi non c’era mai stato e la voglia di andarci era nata; al rientro per strada, infatti, la cantilena era “Prof vero che ci porta al lago di Pescegallo, ma anche al Pizzo dei Tre Signori e al Legnone!” Per noi tutti, questa visita, è stata molto significativa, perché ci ha insegnato molte cose importanti che non conoscevamo delle nostre montagne. Grazie anche al materiale e agli annuari che ci sono stati regalati, abbiamo dato vita alla nostra biblioteca alpina di classe. Ha molto successo, ci piace leggere soprattutto gli itinerari delle varie uscite del CAI, nella speranza di andarci poi veramente.

Per alcuni di noi è stata un’esperienza nuova, perché non hanno confidenza con le montagne e non le frequentano, benché ci vivano. Per altri è stato avvincente, perché hanno visto in cartolina luoghi che conoscono e in cui vanno con la loro famiglia e hanno compreso che la montagna è legata alla loro vita. Perciò questa è stata e continuerà ad essere un’esperienza meravigliosa che ci ha collegato e riconnesso al nostro territorio. La prima di tante esperienze che faremo anche insieme al CAI di Morbegno.

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NOTIZIE DALLA SEZIONE I NUMERI DEL C.A.I. MORBEGNO Alla data del 31.12.2017 gli iscritti sono 477 così suddivisi: 338 ordinari di cui 26 ordinari juniores, 103 famigliari e 36 giovani. Ricordiamo che le iscrizioni si effettuano in sede e presso gli sportelli del Credito Valtellinese di Via Ambrosetti. CONSIGLIO DIRETTIVO Presidente Marco Poncetta Vice Presidente Alessandro Caligari Segretario Davide Bonzi Consiglieri Domenico Del Barba Rita Bertoli Vincenzo Bavo Alda Maffezzini Francesco Spini Emil Del Nero Enrico Bertoli Mirco Gusmeroli DELEGATI Marco Poncetta Domenico Del Barba ISTRUTTORI DI ALPINISMO E DI SCI ALPINISMO Enrico Bertoli (ISA) Giulio Gadola (ISA) Marco Riva (ISA) Franco Scotti (ISA) Cesare De Donati (INSA)

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ISTRUTTORI SEZIONALI DI ALPINISMO E DI SCI ALPINISMO Danilo Acquistapace Andrea De Finis Mirco Gusmeroli Emil Del Nero Moreno Libera Riccardo Scotti Mario Spini ACCOMPAGNATORI SEZIONALI DI ALPINISMO GIOVANILE (ASAG) Rita Bertoli Riccardo Marchini Claudia Ponzoni ACCOMPAGNATORI DI ESCURSIONISMO Davide Bonzi (AE) Alessandro Caligari (AE) I CORSI Corso di ginnastica presciistica Tenuto dall’insegnante Massimo Maffezzini si è svolto da novembre 2016 al marzo 2017 presso la palestra provinciale del Liceo Artistico e presso la palestra di via Prati Grassi. Corso base di sci-alpinismo Si è svolto da gennaio a marzo, articolato in 7 lezioni teoriche presso la sede CAI e 6 esercitazioni pratiche in montagna. Il corso ha visto Marco Riva direttore Cesare De Donati vicedirettore.

Le Uscite: • Selezione alpe Palu’ su pista 21 gennaio • Piz Roccabella 22 gennaio • Val Loga 29 gennaio • Munt de Sura 12 febbraio • Piz d’Emmat Dadaint 26 febbraio • Pizzo di Dosdè 18/19 marzo Corso di arrampicata • Sasso Remenno Valmasino • Pizzo Boga a Lecco • Placche di Bette Chiavenna • Schenun Valmasino • Finale Ligure • Placche di Lirone a Chiavenna ALPINISMO GIOVANILE Con la Scuola di Alpinismo Giovanile “Bombardieri-Martelli” della Provincia di Sondrio. Attività da marzo a settembre con 13 uscite. LE GITE Gite sezionali • Scialpinismo Piz Campagnung, Piz Lagrev, Piz Tambò, Monte Rosa, Cima di Tuckett • Uscita notturna scialpinistica e ciaspole a Pescegallo • Escursionismo Alpe Piazza di Albaredo, Val di Rezzalo, Pizzo Stella, 4 giorni sulle Dolomiti, Via Priula, Pizzo Tre Signori • Alpinismo Pizzo Rachele, Pizzo Tresero • Ferrate Sacra di San Michele, Sentiero dei Fiori dell’Adamello


Gruppo 2008 Uscite tutti i mercoledì, meteo permettendo, per un totale di 46 uscite. I MARTEDÌ DEL CAI • Il mattino sorge ad est (film) • Sulla N.E. del Badile Danilo Valsecchi racconta la salita di 30 anni fa con Cassin • Verso Dove (film) • Verticalmente démodè – Last Base (film) • Asgard Jamming (Film) 29°RALLYNO DELLA ROSETTA Si è svolto il 12 marzo. Totali iscritti: 47 coppie

• Vincitori regolarità: Bonini Angelo-Ravasio Maria Luisa • Vincitori salita: Franchetti Omar-Valente Jacomo • Vincitori discesa: Del Barba Pietro-Orlandi MauroDe Donati Cesare

MUSICA IN GIARDINO • Concerto di canti di montagna con il Coro Alpino di Berbenno ISTITUZIONALE • Venerdì 17 febbraio Assemblea Annuale di Sezione

I RITROVI CONVIVIALI • Venerdì 23 giugno CENA D’ESTATE momento conviviale informale nei giardini del palazzo Malacrida • Venerdì 20 ottobre CASTAGNATA • Venerdì 22 dicembre AUGURI NATALIZI

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