Segno 248

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segno Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 ROC ¡ Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910 00 in libreria

E 5.

Anno XXXIX

APR/MAG 2014

248

Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

ETTORE SPALLETTI / MAXXI Roma

VETTOR PISANI / Madre Napoli - Teatro Margherita Bari

LUCIANO FABRO / CIAC Foligno


Photo: Jimmy Kets

Fri 25–Sun 27 April 12 noon – 8 pm Brussels Expo www.artbrussels.com

@ArtBrussels artbrussels


#247 sommario

no /colore

architettura, scienza, musica, moda

marzo - 9 aprile 2014

segno Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 ROC ¡ Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910 00 in libreria

E 5.

Anno XXXIX

APR/MAG 2014

aprile/maggio 2014

248

Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

lunedĂŹ 31 marzo

Prolusione > Guido Strazza e e percezione dei colori > Lamberto maffei martedĂŹ 1 aprile

Disegno / Colore > CriStina aCidini mercoledĂŹ 2 aprile

/ Colore / Paesaggio: tra pittura e fotografia riSa daLai emiLiani | roberta VaLtorta

# 248 - Aprile/Maggio 2014

corso a cura di Guido strazza

in copertina

Forma / Moda / Colore | roberta orSi Landini | CarLo berteLLi mercoledĂŹ 9 aprile

Linea / Tratteggio / Trama / Colore Strazza | marzia faietti | franCo Purini lezioni a ingresso libero orario 17.30 - 20.00

ETTORE SPALLETTI / MAXXI Roma

VETTOR PISANI / Madre Napoli - Teatro Margherita Bari

LUCIANO FABRO / CIAC Foligno

dat t i c a

i a na z i o na l e d i s a n lu c a

zza dell’Accademia di San Luca 77, Roma

0 | didattica@accademiasanluca.it | www.accademiasanluca.eu

Ettore Spalletti Luciano Fabro Vettor Pisani

4/15 News gallerie e istituzioni Agenda Mostre & Musei in Italia e all’Estero a cura di Lucia Spadano Aste e mercato in ascesa (Piero Tomassoni)

Bethan Huws [30]

Vettor Pisani (Raffaella Barbato pag.16/19) Luciano Fabro (Lucia Spadano pag 20/23) Giulio Paolini (Stefano Taccone pag24/25) Marcelo Cidade, Jonathas De Andrade, Andre Komatsu Ornaghi&Prestinari (Rita Olivieri pag 26/29) Bethan Huws (Maria Letizia Paiato, pag 30/31) Ettore Spalletti (Paolo Balmas, pag 32/39) L’Occhio musicale (Simona Olivieri pag 40/41) Carlo Aymonino/Studio di archivi e Collezioni (Vincenzo D’Alba e Francesco Maggiore pag 42/47) Blue and Joy (Chiara Guidi pag 48/49) Andrew Gilbert (Camilla Nacci pag 50) Gianni De Tora (Raffaella Barbato pag 50/51) Raimondo Galeano (Lucia Spadano pag 51) Rosario Genovese (Rosalba Di Terna pag 52) Agostino Bonalumi (Simona Caramia pag 52) Gianni Piacentino (Ilaria Piccioni pag.53) Andrea Schon (Paolo Balmas pag 53) Francesco Guerrieri (Gabriele Simongini pag 54/55) Vincenzo Marsiglia (Chiara Canali pag 56/57) Marcello Diotallevi (Daniele Decia pag 58) Omar Galliani (Lucia Spadano pag 59) H.H. LIM (Giuliana Benassi pag 60) L’Eterno Ritorno (Maria Letizia Paiato pag 61) Sironi e la Grande Guerra (Maria Letizia Paiato pag 62/63) Il Piedistallo Vuoto (Intervista a Marco Scotini a cura di Luciano Marucci pag 64/65)

Carlo Aymonino [42]

news e tematiche espositive su www.rivistasegno.eu

& documentazione 16/75 attivitĂ  espositive / recensioni

/ Concorsi 66/72 Osservatorio Editoriale/ Libri Memorie d’arte

Francesco Guerrieri [54]

aPuCCi

martedĂŹ 8 aprile

Giulio Paolini [24]

lunedĂŹ 7 aprile

Suono / Colore Guido barbieri | CLaudio Strinati

segno Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

giovedĂŹ 3 aprile

rchitettura / Colore > PaoLo PortoGheSi mmagine del colore > manLio bruSatin

H.H. Lim [60]

Fiere d’Arte: ArteFiera Bologna, The Armory Show, Art London, ARCO Madrid (a cura di Lucia Spadano, Massimo Sala, Lisa D’Emidio, Dalia Della Morgia pag 66/69) Memoria/Progetto di memoria Didattica all’Accademia Nazionale di San Luca (Ilaria Giannetti pag 70/71) Libri&Cataloghi (a cura di Ilaria Piccioni, Simona Caramia, Raffaella Barbato pag 72)

segno

periodico internazionale di arte contemporanea

Direzione e redazione Corso Manthonè, 57 65127 Pescara Telefono 085/61712 Fax 085/9430467 www.rivistasegno.eu redazione@rivistasegno.eu

Direttore responsabile LUCIA SPADANO (Pescara) Condirettore e consulente scientifico PAOLO BALMAS (Roma) Direzione editoriale UMBERTO SALA

ABBONAMENTI ORDINARI E 25 (Italia) E 40 (in Europa CEE) E 50 (USA & Others)

Soci Collaboratori e Corrispondenti: Paolo Aita, Raffaella Barbato, Giuliana Benassi, Simona Caramia, Lia De Venere, Anna Saba Didonato, Marilena Di Tursi, Matteo Galbiati, Antonella Marino, Luciano Marucci, Francesca Nicoli, Cristina Olivieri, Rita Olivieri, Simona Olivieri, Maria Letizia Paiato, Ilaria Piccioni, Gabriele Perretta, Gabriella Serusi, Stefano Taccone, Antonello Tolve, Piero Tomassoni, Paola Ugolini, Stefano Verri, Maria Vinella.

ABBONAMENTO SPECIALE PER SOSTENITORI E SOCI da E 300 a E 500 L’importo può essere versato sul c/c postale n. 15521651 Rivista Segno - Pescara

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>news istituzioni e gallerie<

Milano

miart 2014

ella presentazione di miart, il direttore Vincenzo De Bellis ha N sottolineato come “Moderno e Con-

temporaneo” vengono proposti con continui rimandi o con echi più o meno espliciti: una occasione per riflettere sulla continuità fra passato e presente e sulla possibilità di sperimentare strategie istituzionali alternative a quelle consuete. L’obiettivo è anche quello di un percorso che porti miart ad essere attiva nella produzione moderna e contemporanea durante tutto l’anno e non solo nei tre giorni dell’evento fieristico. Le sezioni della fiera e gli eventi in città si basano su un principio di “attraversamento” di discipline diverse con il desiderio di intercettare pubblici provenienti anche da altri ambiti per definire nel campo dell’arte un luogo idoneo alla comunicazione tra i saperi, un luogo di “scambi”. De Bellis - si augura che miart diventi un collettore di ambiti, strutture ed esperienze variegate in grado, da una parte, di connettere tra loro le specificità che esistono nel tessuto culturale ed economico di Milano, dall’altro, di incubare importanti realtà internazionali. Nel programma di eventi collaterali a Miart, sono da evidenziare le partecipazioni di istituzioni private come Hangar Bicocca e Triennale, e particolarmente della Fondazione Trussardi. Le Sezioni di miart: Established, sezione che riunisce gallerie operanti da anni nella promozione dell’arte moderna e contemporanea. La sezione si divide in tre sottocategorie Masters – Contemporary – First Step a seconda della tipologia di galleria e di progetto espositivo che viene presentato. Emergent è la sezione riservata a 20 giovani gallerie d’avanguardia, con una riconosciuta attività di ricerca artistica sperimentale. THENnow è la sezione a invito di 8 coppie di artisti, nella quale si confrontano un artista storico e uno appartenente a una generazione più recente. Object è la sezione che presenta gallerie attive nella promozione di oggetti di design contemporaneo concepiti in edizione limitata e fruiti come opere d’arte. Conflux è una nuova piattaforma di miart 2014 che propone progetti e installazioni site-specific di singoli artisti o coppie di artisti internazionali rappresentati da gallerie provenienti da Sud America, Stati Uniti, Medio Oriente e Europa. 4 - segno 248 | APR/MAG 2014

Le Gallerie partecipanti a Miart 2014: A Palazzo, Brescia / Ancient & Modern, London / AMT, Bratislava / Aria d’Italia, Milan / Arte 92, Milan / Arte Centro - Lattuada Studio, Milan-New York / Artesilva, Seregno / Alfonso Artiaco, Naples / Enrico Astuni, Bologna / Laura Bartlett, London / Rod Barton, London / Galleria Bergamo, Bergamo / Bianconi, Milan / Blu, Milan / BolteLang, Zurich / Thomas Brambilla, Bergamo / Brand New Gallery, Milan / Sandy Brown, Berlin / Brundyn + Gonsalves, Cape Town / Ca’ di Fra’, Milan / Cardelli & Fontana, Sarzana / Cardi, MilanPietrasanta / Carlos / Ishikawa, London / Centro Steccata, Parma-Milan / Circus, Berlin | Claudio Poleschi Arte Contemporanea, Lucca / Clifton Benevento, New York / C L E A R I N G, Brooklyn-Brussels / Collicaligreggi,

Catania / Contini, Venice-Cortina d’Ampezzo-Mestre / Continua, San Gimignano-Beijing-Le Moulin / Raffaella Cortese, Milan / Cortesi Contemporary, Lugano / Guido Costa Projects, Turin / Riccardo Crespi, Milan / Studio Dabbeni, Lugano / Monica De Cardenas, Milan-Zuoz / Massimo De Carlo, Milan-London / Luisa Delle Piane, Milan / Demosmobilia, Chiasso / Dep Art, Milan / Design Gallery Milano, Milan / Die Galerie, Frankfurt / Dilmos, Milan / Anat Ebgi, Los Angeles / Eidos Immagini Contemporanee, Asti / Erastudio, Milan / Essex Street, New York / Isabelle van den Eynde, Dubai / Fabbrica Eos, Milan / Frediano Farsetti, Florence / Fluxia, Milan / Foxy Production, New York / Freedman Fitzpatrick, Los Angeles / FreymondGuth, Zurich / Lars Friedrich, Berlin / Frittelli Arte Contemporanea, Florence / Frutta, Rome / Fumagalli, Milan / Gariboldi, Milan / Gasconade, Milan / Gaudel de Stampa, Paris / François Ghebaly, Los Angeles / Studio Guenzani, Milan / Dan Gunn, Berlin / Andreas Huber, Wien / L’Incontro, Chiari / A arte Studio Invernizzi, Milan / kaufmann repetto, Milan / Kendall Koppe, Glasgow / Andrew Kreps, New York / Matteo Lampertico, Milan / Laveronica, Modica / Elaine Levy Project, Brussels / David Lewis, New York / Josh Lilley, London / Lisson Gallery, London-Milan-New York-Singapore / Lorenzelli Arte, Milan / Luce, Turin / Magazzino, Rome / Main Gallery, Tirana-Los Angeles / Gió Marconi, Milan / Primo Marella, Milan / Mary Mary, Glasgow / Mathew, Berlin / Mazzoleni, Turin / Meyer Riegger, Berlin-Karlsruhe / Francesca Minini, Milan / Massimo Minini, Brescia / The Modern Institute

ASTE E MERCATO IN ASCESA

Si è tenuta a Londra la prima tornata di aste dell’anno. Il mercato si conferma in continua espansione, e ancora una volta premia la qualità (e l’Italianità). a sessione invernale di aste londinesi ha portato risultati molto Lpositivi, e ha in particolare confermato alcune importanti tendenze del mercato che già da qualche tempo appaiono chiare agli osservatori e agli operatori specializzati. Il clima generale è di grande entusiasmo e crescita stabile. Sono tre le caratteristiche principali, emerse soprattutto negli ultimi anni, a cui prestare attenzione: Qualità. C’è stato un periodo, quello dei soldi facili in borsa, della liquidità e dei megabonus, in cui molto spesso il bene acquistato in asta o in galleria era il nome dell’artista, più che l’opera in sé. Al nome corrispondeva una garanzia, e in pochi (tra i nuovi arrivati del mercato) sapevano distinguere un pezzo buono da uno cattivo. Oggi, per quanto il nome sia ancora un forte fattore trainante, specialmente per artisti più giovani e “di moda”, l’attenzione si concentra molto di più su componenti dell’opera quali il periodo, lo stato di conservazione, la bibliografia, e in generale la qualità. Difficile dire se questo accada perché il pubblico che acquista (ormai spesso investitori più che collezionisti) sia realmente cresciuto da un punto di vista culturale, o perché sia aumentata l’influenza della consulenza di esperti e advisor. Probabilmente gran parte dei compratori non sanno ancora riconoscere la qualità – difficile

immaginare un’evoluzione radicale in un campo così difficile e in un tempo così breve – ma hanno capito che selezionare è importante, e quindi ascoltano e si fanno consigliare da chi ha più esperienza. Conferme di questo arrivano da lotti di tutte le aste, inclusa la vendita quasi interamente italiana “Eyes Wide Open” da Christie’s, dove si sono registrati prezzi altissimi per bei lavori di Burri, Pistoletto, Boetti, Kounellis e Fabro (ma altre opere degli stessi artisti sono andate invendute o sotto stima). L’asta serale di Sotheby’s ha visto, per esempio, un grande successo per lo splendido Cy Twombly Untitled (Rome) e per un potente Rosso Plastica di Aberto Burri, mentre sia Richter che Basquiat non hanno scatenato i rialzi che in molti si aspettavano. Volatilità nel breve. Uno dei risultati dell’ingresso di grandi capitali nell’arte contemporanea è che spesso si creino delle storture di mercato simili a quelle della borsa, derivanti da polarizzazioni di attenzione più o meno pilotate verso artisti nuovissimi, o nomi che per anni avevano ricoperto ruoli minori e che improvvisamente si trovano sulla bocca di ogni gallerista e investitore à la page. Valorizzazioni spesso slegate dal ruolo storico e culturale dell’artista, ma dettate da meccanismi stagionali o speculativi. Fortunatamente questo non va, per ora, a incidere sul successo e sull’at-


>news istituzioni e gallerie< / Toby Webster, Glasgow / Monitor, Rome / Nero, Arezzo / NON, Istanbul / Nuova Galleria Morone, Milan / Lorcan O’Neill, Rome / OHWOW, Los Angeles / Open Art, Prato / P420, Bologna / Francesco Pantaleone, Palermo / Peres Projects, Berlin / Plan B, Cluj-Berlin / Poggiali e Forconi, Florence / Poleschi Arte, Milan-Forte dei Marmi-Lucca / Praxis, Buenos Aires-New York / Eva Presenhuber, Zurich / ProgettoarteElm, Milan / Project Native Informant, London / prometeogallery, Milan / Proposte d’Arte, Legnano / Raucci/ Santamaria, Napoli / Repetto, Acqui Terme-Milan / Michela Rizzo, Venice / Robilant+Voena, London-Milan / Thaddaeus Ropac, Paris-Salzburg / Lia Rumma, Milan-Naples / Studio SALES di Norberto Ruggeri, Rome / Federica Schiavo, Rome / Libby Sellers, London / Micky Schubert, Berlin / Mimmo Scognamiglio, Milan / SMAC Art Gallery, Cape Town-Stellenbosch / Southard Reid, London / Spazia, Bologna / SpazioA, Pistoia / Sprovieri, London-Rio de Janeiro / Standard (Oslo), Oslo / Gregor Staiger, Zurich / Studio Marconi ‘65, Milan / Supplement, London / Swing, Benevento / T293, Naples-Rome / Talents Design, Tel Aviv / Tega, Milan / The Gallery Apart, Rome / Tonelli, Milan / Tornabuoni Arte, Florence-Portofino-Forte dei Marmi-Paris / Toselli, Milan / Steve Turner Contemporary, Los Angeles / Valmore Studio d’Arte, Vicenza / Federico Vavassori, Milan / VI, VII, Oslo / Vilma Gold, London / Jonathan Viner, London / Studio Giangaleazzo Visconti, Milan / Vistamare, Pescara / Whatiftheworld, Cape Town / VeneKlasen/Werner – Michael Werner Gallery, Berlin-New York-London /

ZERO…, Milan

 • THENnow a cura di Giovanni Carmine e Alexis Vaillant
 Carla Accardi
(Massimo Minini, Brescia) - 
Nicolas Party
(The Modern Institute / Toby Webster, Glasgow); John Divola
(Laura Bartlett, London) - 
Oscar Tuazon
(Eva Presenhuber, Zurich); Jimmie Durham
(Sprovieri, London-Rio de Janeiro) - 
Luca Francesconi
(Fluxia, Milano); Imi Knoebel
(Thaddaeus Ropac, ParisSalzburg) - 
Elad Lassry
(Massimo De Carlo, Milan-London); Paolo Icaro
(P420, Bologna) - 
Jonathan Binet
(Gaudel de Stampa, Paris); Rudolf Polanszky
(Ancient & Modern, London, Andreas Huber, Wien) Sonia Kacem
(Gregor Staiger, Zurich and T293, Rome-Naples) - Mario Schifano
(Studio Marconi ‘65, Milan); Cory Arcangel
(Lisson Gallery, London-Milan-New York-Singapore); Giuseppe Uncini
(Fumagalli, Milan) - 
Matias Faldbakken
(Standard (Oslo), Oslo). • Conflux
 a cura di Abaseh Mirvali
:
Collaborative project | Rokni Haerizadeh, Ramin Haerizadeh, Hesam Rahmanian & Iman Raad, Isabelle van den Eynde, Dubai
Waldemar Zimbelmann, Meyer Riegger, Berlin-Karlsruhe 
Goldin+Senneby and Meriç Algün Ringborg, NON, Istanbul 
Gaspar Libedinsky, Praxis, Buenos Aires-New York 
Edgar Orlaineta, Steve Turner Contemporary, Los Angeles


Emergent
Curated by Andrew Bonacina

Rod Barton, London / Thomas Brambilla, Bergamo / Sandy Brown, Berlin / Carlos / Ishikawa, London / 
C L E A R I N G, Brooklyn-Brussels / Essex Street, New York / Freedman Fitzpatrick, Los

tenzione verso i veri maestri (giovani o vecchi), ma sicuramente è causa di distrazione e confusione, oltre che di sfiducia nei confronti di un mercato pronto a pompare artisti poco più che ventenni per un anno o due, per poi abbandonarli in favore di altri nuovi arrivi. Si è parlato anche troppo del fenomeno Oscar Murillo, passato nel giro di mesi da poche decine a qualche centinaio di migliaia di dollari. A Londra si è confermato l’interesse nei suoi confronti, anche se apparentemente già intiepidito dopo il successo di New York, e forse eclissato da quello di Lucien Smith, classe 1989, presente in tutte e tre le aste serali con opere che hanno venduto a prezzi multipli della stima massima. Nei giorni precedenti alle vendite era facile sentire le giovani specialist delle case d’asta parlare di questo giovanissimo come “il nome del momento” e come quello che “ora ci piace molto”, quasi si fosse a una sfilata di moda o si stesse parlando dell’ultimo astro nascente delle calzature tacco 12. Ci si chiede invece delle sorti di chi prima sembrava un assoluto must, da Anselm Reyle a Raqib Shaw, fino, ancor più recentemente, a Jacob Kassay, ormai assenti o relegati alle più modeste Day Sale, le aste mattutine (“Perché, esistono anche aste mattutine?”, commentava sferzante un’influente dealer basata tra Londra e New York). Interesse per l’Italia. La nota più positiva arriva, per una volta, dall’Italia, o meglio da quegli artisti che l’Italia rappresentano, soprattutto fuori confine, e che nel tempo sono riusciti

non solo a lasciare un segno permanente nella storia dell’arte, ma a farsi rispettare e desiderare nelle più importanti piazze mondiali. Parliamo non solo di Fontana, Burri, Manzoni e Castellani, che continuano a portare alto il tricolore in mostre importanti e in tutte le aste che si rispettino, ma anche di quegli artisti in costante crescita che continuano a ottenere risultati notevoli, come Boetti, Pistoletto, Pascali e Kounellis, trionfanti nell’asta “Eyes Wide Open” della collezione di Nerio e Marina Fossati, e di quelli che hanno avuto bisogno di più tempo per essere riconosciuti dal mercato internazionale ma che oggi ottengono riscontri degni della loro importanza storica, tra cui Francesco Lo Savio, Luciano Fabro, Giulio Paolini e Giuseppe Penone. Importante anche vedere come, in questo contesto, siano stati inclusi artisti pressoché inediti per il pubblico londinese, quali Emilio Prini e Vincenzo Agnetti, rappresentativi di un concettualismo rigoroso e difficile sotto molti punti di vista, ma anche poetico e affascinante per chi abbia la passione di approfondirne la conoscenza. Ai successi in asta fanno coro anche alcune mostre in galleria: diversi dealer londinesi stanno dimostrando interesse a esporre importanti nomi italiani, in testa Gagosian che propone nel suo spazio di Davies Street una raffinatissima giustapposizione tra Concetto Spaziale, la fine di Dio di Lucio Fontana e HIM di Maurizio Cattelan (“La fine di Dio”, a cura di Francesco Bonami, fino al 5 aprile). Piero Tomassoni

Angeles / Freymond Guth, Zurich / Lars Friedrich, Berlin / Frutta, Rome / Gasconade, Milan / Dan Gunn, Berlin / Kendall Koppe, Glasgow / David Lewis, New York / Luce, Turin / Mathew, Berlin / Project Native Informant, London / Southard Reid, London / Supplement, London / VI, VII, Oslo


 • Object
a cura di Federica Sala:
Aria d’Italia, Milan / Luisa Delle Piane, Milan / Demosmobilia, Chiasso / Design Gallery Milan, Milan / Dilmos, Milan / Erastudio, Milan / Nero, Arezzo / Libby Sellers, London / Swing, Benevento / Talents Design, Tel Aviv.

 • In collaborazione con Fondazione Trussardi, al Civico Planetario Hoepli, corso Venezia 57, CINE DREAMS, progetto espositivo di Massimiliano Gioni e Vincenzo De Bellis, con installazioni, proiezioni multimediali, interventi sonori e video di tre artisti: Stan VanDerBeek, Future Cinema of the Mind, Jeronimo Voss, Eternity Through the Stars, Katie Paterson, Performance. Civico Planetario Hoepli, Milano

Alberto Burri, Combustione Lucio Fontana e Maurizio Cattelan

APR/MAG 2014 | 248 segno - 5


>news istituzioni e gallerie< TERAMO

Prima del film

Fellini, Scola, VirzĂŹ

Tre grandi registi e sceneggiatori italiani come non gli abbiamo mai visti. Federico Fellini, Ettore Scola e Paolo Virzì saranno presentati nella mostra “Prima del film” - presso L’ARCA/Laboratorio per le arti contemporanee di Teramo- attraverso la verve creativa della fase progettuale che precede l’opera cinematografica. La mostra apre al pubblico dal 6 aprile fino al 22 giugno; in esposizione oltre cento disegni su carta dove sarà possibile scorgere e riconoscere le tracce visive delle pellicole più celebri dei cineasti. La scelta da parte dei curatori (Dimitri Bosi, Umberto Palestini e Mario Sesti) di un taglio generazionale trasversale, consentirà di far luce su un modus operandi che costituisce un filo conduttore nella compagine culturale del cinema italiano. La mostra sarà corredata di un catalogo e della produzione di un documentario.

Federico Fellini, La bagnante bellissima, 1959 pennarelli su carta

BARI

Fondazione Museo Pascali, Polignano

Virginia Ryan

Dal 12 aprile al 15 giugno, mostra personale di Virginia Ryan, intitolata Fluid Tales, curata da Rosalba Branà e Lia De Venere. L’artista, australiana di nascita, ha vissuto a lungo in altri continenti e da diversi anni lavora in Africa. In particolare, durante la permanenza in Ghana e Costa d’Avorio, ha realizzato delle installazioni attraverso le quali la cultura e la spiritualità delle popolazioni indigene vengono rilette con modalità rispettose della loro sensibilità e al tempo stesso innervate da tensioni legate al vivere contemporaneo. Con l’installazione Surfacing, Virginia Ryan evoca le figure mitiche delle Mami Wata (dall’inglese Mammy Water), metafore dei pericoli della navigazione, ma anche simboli dell’archetipo del femminile e simili per molti aspetti alle sirene, creature ibride che si incontrano spesso nelle mitologie occidentali, capaci di ammaliare con il loro canto melodioso e di portare alla perdizione gli umani. Accanto alle grandi code di lunghi capelli neri, come emerse dagli abissi marini e fluttuanti nell’aria, con cui Ryan raffigura le divinità africane, sono espo-

sti alcuni disegni raffiguranti delle sirene che Frédéric Bruly Brouabré, il più importante artista ivoriano, recentemente scomparso, ha voluto realizzare per Virginia alcuni anni fa. Duemila fotografie, recuperate dall’artista negli studi fotografici di Gran Bassam, la vecchia capitale coloniale della Costa d’Avorio, e salvate dalla distruzione o comunque dall’oblio, sono riunite nell’installazione I love you, che costituisce una efficace testimonianza del vissuto di individui degli ultimi vent’anni – immagini di nascite, matrimoni, feste di famiglia, momenti di svago – e insieme un invito alla riflessione su ciò che accomuna le vite di persone appartenenti a culture diverse.

MILANO

UBS Art Collection alla GAM

UBS presenta la prima esposizione in Italia di opere dalla UBS Art Collection, una delle più ampie collezioni private di arte contemporanea al mondo. Dal 21 marzo al 21 giugno nelle sale della GAM - Galleria d’Arte Moderna di Milano, la mostra sancisce l’avvio di un rapporto di partnership tra UBS e GAM che, con interventi diversi, si propone di valorizzare e accendere i riflettori su una delle più preziose istituzioni culturali milanesi. A cura di Francesco Bonami, Year After Year, opere su carta dalla UBS Art Collection, esplora la produzione realizzata da grandi artisti attivi dagli anni Sessanta a oggi. In mostra sono presentati cinquanta lavori di trentacinque artisti, tra i quali: Frank Auerbach, Charles Avery, Georg Baselitz, Troy Brauntuch, Chuck Close, John Currin, Lucian Freud, Robert Gober, Jenny Holzer, Martin Kippenberger, Roy Lichtenstein, Robert Longo, Sigmar Polke, Ed Ruscha, Jim Shaw, Cy Twombly, Robin Winters. Attraverso un corpus di lavori di grande qualità e pregio, la mostra indaga un medium e una tipologia di opere in grado di restituire aspetti inediti e chiavi di lettura nuove. La fragilità della carta custodisce l’intimità e la delicatezza del gesto primigenio, la genesi del lavoro artistico, e nel rapporto tra leggerezza del disegno e monumentalità della parete si apre la frontiera dello spazio dipinto.

Virginia Ryan, I love you

Robert Longo, Untitled, 1981 Charcoal and pencil on paper, 243.8 x 152.4 cm. Š Robert Longo. UBS Art Collection Roy Lichtenstein, Crying Girl, 1963 Ink on paper, 49.5 x 64.5 cm. Š Estate of Roy Lichtenstein. UBS Art Collection

6 - segno 248 | APR/MAG 2014

Museo del Novecento

Munari politecnico

Nello Spazio Mostre al piano terra, l’esposizione “Munari Politecnico”, realizzata in collaborazione con la Fondazione Jacqueline Vodoz e Bruno Danese, è un’importante occasione per presentare parte del consistente nucleo di opere di Bruno Munari raccolte dai due collezionisti nel corso della loro attività e conservate presso la Fondazione. L’obiettivo è quello di raccontare attraverso le opere della collezione la dimensione artistica di Bruno Munari, aspetto generativo della politecnica figura dell’autore. Accanto alla mostra, il Focus è dedicato all’opera fotografica , in parte inedita, realizzata da Ada Ardessi e Atto, autori che hanno collaborato a lungo con Munari . Bruno Munari, Scultura da viaggio, 1958 Edizione Isetan Tokyo cartoncino bicolore, cm 30x30. Courtesy Fondazione J.Vodoz e B.Danese. Foto Roberto Marossi

Pac Padiglione Arte Contemporanea

Regina JosĂŠ Galindo

25 marzo - 8 giugno 2014 Il PAC apre la stagione espositiva tornando a parlare del corpo, con una grande mostra personale e una nuova performance di Regina José Galindo, Leone d’Oro alla 51. Biennale di Venezia come migliore giovane artista. Curata da Diego Sileo ed Eugenio Viola, Estoy Viva è la prima - e più completa – antologica dell’artista mai realizzata. L’ultimo decennio del secolo scorso - affermano i due curatori - ha registrato una rinnovata attenzione per le poetiche legate al corpo e all’azione, solo in apparente continuità con le esperienze legate a questi fenomeni nella loro fase ormai storicizzata. La performance torna oggi ad “oltraggiare” con nuova forza i territori dell’arte, attraverso una contaminazione spregiudicata di diversi linguaggi, che ha permesso inedite forme d’espressione radicate nel presente e svincolate dalla tradizione e dalle convenzioni. Il lavoro di Regina José Galindo, sin dalle origini, si ricollega a queste forme di resistenza attiva, caratterizzate da una nuova centralità del corpo.


>news istituzioni e gallerie< OFFICINE SAFFI PREMIO OPEN TO ART

Prima edizione del Premio Open to Art, concorso internazionale biennale dedicato al mondo della Ceramica d’Arte e della Ceramica di Design, ideato e promosso dal gruppo Officine Saffi Project. L’esposizione si tiene negli spazi della Galleria di Arte Ceramica Officine Saffi, Via Aurelio Saffi 7 e resterà aperta al pubblico da giovedì 3 aprile a lunedì 14 luglio 2014. Open to Art si propone come un osservatorio internazionale sul panorama della ricerca contemporanea nei due ambiti specifici della Ceramica d’Arte e della Ceramica di Design, di cui vuole individuare le punte di eccellenza e le tendenze più innovative per linguaggio e tecnica. Tra le oltre 300 domande di partecipazione alla prima edizione del Premio sono stati selezionati da una prima giuria i 34 finalisti (21 per la Ceramica d’Arte, 13 per la Ceramica di Design), provenienti da 18 paesi e con un’età compresa trai 25 e i 71

Flavio Favelli, Profondo Cina, ceramiche tagliate 2013

Michelangelo Galliani, Sogni d’oro, ceramica e piombo

David Lamelas, “Time as Activity (Milan)”, 2014 - video still

anni. Ad una giuria internazionale, composta da Cinzia Bitossi (Bitossi Ceramiche), Laura Borghi (gallerista, Officine Saffi di Milano, ideatrice e promotrice del premio), Claudia Casali (direttrice del Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza), Jennifer Lee (artista), Jukka Savolainen (direttore del Museo di Design di Helsinki), Tomoko Tanioka (galleria Togakudo), ha avuto il compito di scegliere vincitori e premi di questa prima edizione, tra i finalisti delle due categorie. Per la Sezione Arte: Palma Babos (Ungheria, 1961), Barness Eliasov Einav (Israele,1975), Calcagno Silvia Celeste (Italia,1974), Curneen Claire (Irlanda, 1968), Eandrade Alfredo (Argentina, 1967), Eastman Ken (Inghilterra, 1960), Favelli Flavio (Italia, 1967), Galliani Michelangelo (Italia, 1975), Hartmann Rasmussen Malene (Danimarca, 1973), Kino Satoshi (Giappone, 1989), Manz Bodil (Danimarca, 1943), Perez Rafael (Spagna, 1957), Nomura Ayaka (Giappone, 1987), Perryman Jane (Inghilterra, 1947), Polloniato Paolo
 (Italia, 1979), Salvatori Andrea
 (Italia, 1975), Shaw Mella
 (Inghilterra, 1978), Siyabonga Mbaso Ardmore Ceramics) (Sud Africa, 1985), Tuominen Nittylä Kati (Finlandia, 1947), Zsolt Jozsef Simon (Ungheria, 1973). Sezione Design: Daepp Margareta (Svizzera, 1959), Demo Paolo (Italia, 1974), Desaules JeanMarc (Svizzera, 1968), Hoogeboom Peter (Olanda, 1961), Imre Eszter (Ungheria, 1985), Jung Minji (Corea del Sud, 1983), Kaminker Sara (Inghilterra, 1987), Karakaya Betul (Turchia, 1978), Lacruz Gloria (Spagna, 1964), Lancellotti Luigi Massimo (Italia, 1986), Redondo Angel Vanessa (Venezuela, 1987), Van Hoey Ann (Belgio, 1956), Venables Prue (Australia, 1954).

DAVID LAMELAS

La Galleria Lia Rumma propone a Milano la mostra personale dell’artista argentino David Lamelas, considerato dalla critica uno dei pionieri del Concettuale.
I tre lavori, intorno ai quali Lamelas ha costruito la sua seconda personale da Lia Rumma (la prima si tenne a Napoli nel

1972 quando la giovane gallerista aveva appena cominciato ad intrecciare la sua storia con i protagonisti dell’arte concettuale), ripropongono altrettanti momenti cruciali della sua rigorosa ricerca.
In quanto “timeless works”, parti di un progetto costantemente in corso (C. Martinez 2005), sono lavori presentati in una veste inedita che si relaziona specificamente alla galleria di Via Stilicone, mirando a decostruire l’autorità (innata e mai neutrale) dello spazio espositivo.
In Señalamiento de Tres Objetos (Signaling of Three Objects) venti lastre rettangolari di marmo bianco marcano il grande spazio d’ingresso. Al centro, un proiettore manda sulla parete di fondo l’ultimo dei suoi “reading film” Mon Amour, 2014, con cui Lamelas mette in discussione il nostro ruolo di spettatori/lettori.
Concludono la mostra la proiezione di Time as Activity (Milan), 2014, ultima versione del film sperimentale la cui serie ha avuto inizio nel 1969 a Düsseldorf, e la presentazione di tre fotografie, frames paradigmatici del lavoro filmico. Scardinando l’idea del tempo come successione ordinata di eventi, Lamelas in Time as Activity – spiega Benjamin Buchloh – “isola le dimensioni della temporalità e dell’istante, impegnandosi nel difficile compito di rappresentare il tempo come pura durata, in una sospensione che non conosce né anteriorità né posteriorità”.

GIANFRANCO PARDI

La Fondazione Marconi presenta al pubblico una mostra incentrata su alcune opere degli anni Settanta dell’artista milanese Gianfranco Pardi, a due anni dalla sua scomparsa. L’intera opera di Pardi, di ambito strutturalista e concettuale, si basa sullo studio dello spazio e sul rapporto tra astrazione e costruzione. La costante, che attraversa tutto il suo percorso artistico, è l’integrazione rigorosa di pittura, disegno e scultura. La riflessione dell’artista sull’architettura inizia già a partire dalla fine degli anni Sessanta, con le prime raffigurazioni di interni ed esterni architettonici e successivamente con lavori chiamati, appunto, “architetture”. Testo a cura di Bruno Corà.

Gianfranco Pardi, Fondazione Marconi

Paolo Polionato, Novaforma, assemblaggio a crudo 2013 Ann Van Hoey, The Earthenware Ferrari, 2013

APR/MAG 2014 | 248 segno - 7


3456789012345678901234567890123456789012345678901234 SI STA PREPARANDO LA PUBBLICAZIONE DEL CATALOGO GENERALE DELL’OPERA DI 5678901234567890123456789012345678901234567890123456 7890123456789012345678901234567890123456789012345678 9012345678901234567890123456789012345678901234567890 1234567890123456789012345678901234567890123456789012 3456789012345678901234567890123456789012345678901234 5678901234567890123456789012345678901234567890123456 7890123456789012345678901234567890123456789012345678 9012345678901234567890123456789012345678901234567890 1234567890123456789012345678901234567890123456789012 3456789012345678901234567890123456789012345678901234 5678901234567890123456789012345678901234567890123456 7890123456789012345678901234567890123456789012345678 9012345678901234567890123456789012345678901234567890 1234567890123456789012345678901234567890123456789012 3456789012345678901234567890123456789012345678901234 5678901234567890123456789012345678901234567890123456 7890123456789012345678901234567890123456789012345678 9012345678901234567890123456789012345678901234567890 1234567890123456789012345678901234567890123456789012 3456789012345678901234567890123456789012345678901234 5678901234567890123456789012345678901234567890123456 7890123456789012345678901234567890123456789012345678 9012345678901234567890123456789012345678901234567890 PRESSO L’ARCHIVIO AGNETTI SI È COSTITUITA LA COMMISSIONE SCIENTIFICA FORMATA DA 1234567890123456789012345678901234567890123456789012 3456789012345678901234567890123456789012345678901234 BRUNO CORÀ MARCO MENEGUZZO GIORGIO VERZOTTI 5678901234567890123456789012345678901234567890123456 ASSIEME AI LEGITTIMI EREDI DEL MAESTRO VERRANNO ESAMINATE LE OPERE DELL’ARTISTA 7890123456789012345678901234567890123456789012345678 IN POSSESSO DEI COLLEZIONISTI, PER INSERIRLE IN CATALOGO. 9012345678901234567890123456789012345678901234567890 SI INVITANO PERTANTO I POSSESSORI DI OPERE DELL’ARTISTA A CONSULTARE IL SITO WWW.VINCENZOAGNETTI.COM DOVE TROVERANNO OGNI ISTRUZIONE 1234567890123456789012345678901234567890123456789012 PER LE PROCEDURE DI ARCHIVIAZIONE. 3456789012345678901234567890123456789012345678901234 CHI FOSSE GIÀ IN POSSESSO DI AUTENTICHE DELLE PROPRIE OPERE DA PARTE DELL’ARCHIVIO, 5678901234567890123456789012345678901234567890123456 TROVERÀ NELLO STESSO SITO TUTTE LE INFORMAZIONI RELATIVE 7890123456789012345678901234567890123456789012345678 ALLE PRECEDENTI ARCHIVIAZIONI. 9012345678901234567890123456789012345678901234567890 ARCHIVIO VINCENZO AGNETTI VIA MACHIAVELLI, 30 - 20145 MILANO 1234567890123456789012345678901234567890123456789012 +39 02 4980712 - ARCHIVIOAGNETTI@GMAIL.COM 3456789012345678901234567890123456789012345678901234 SI RICEVE SOLO SU APPUNTAMENTO 5678901234567890123456789012345678901234567890123456

VINCENZO AGNETTI


>news istituzioni e gallerie< Spazio Perduto / Spazio Ricostruito

Dal 28 marzo 2014 riapre lo studio di Vincenzo Agnetti studio è situato all’interno di un a Milano in via Machiavelli Lal 30.oedificio Il portone di accesso all’edificio

principale che fronteggia la strada è quello impresso sulla copertina del libro di poesie Machiavelli 30, a ricordarci l’importanza ricoperta dai luoghi. E’ un piccolo capannone in fondo a un vialetto con un olivo, un alloro e alcune piante d’ombra. Da un lato c’è un muro di cinta dall’altro un muretto con una barriera d’edera che lo separa dal giardino su cui d’estate Agnetti apriva la grande porta centrale dello studio. All’interno lo spazio è unico ma diviso verticalmente da due grandi soppalchi in ferro che lasciano intravvedere l’insieme . Alle pareti alcune opere rammentano il percorso artistico di Vincenzo Agnetti. Al piano terra troviamo Spazio Perduto Spazio Ricostruito, Mass Media, due Paesaggi, alcune foto dello studio e una teca contenente il Libro Dimenticato a Memoria e i suoi Quaderni argentini. Sopra, i manifesti di alcune sue mostre e un grande lavoro dell’Amleto politico ci introducono nel livello sovrastante interamente dedicato alla macchina drogata e alla sua produzione. Spazio Perduto Spazio Ricostruito, l’opera che domina la parete principale, e che ci suggerisce il senso della riapertura dello studio, è anche il titolo di una mostra del 1973 che riflette sul rapporto tra spazio, tempo e cultura. Nella lettera di presentazione Vincenzo scriveva alla gallerista Françoise Lambert: «La mostra che sto preparando vuole dimostrare come il desiderio di sapere e assoggettare ci ha fatto perdere il contatto con lo spazio: ci ha insomma tolto il privilegio di essere abitanti e parte dello spazio». Con la riapertura dello studio quindi l’Archivio Agnetti vuole ritrovare lo spazio primitivo in cui la cultura ha sedimentato “a memoria” il lavoro e l’opera di Vincenzo e vuole continuarne l›operazione culturale. Vincenzo Agnetti è una figura di primo piano nel panorama dell’arte concettuale. La sua intensa attività artistica, concentrata in 15 anni dal 1966 al 1981, trae linfa da uno straordinario lavoro, iniziato ancor giovanissimo, di ricerca e sperimentazione nel campo della poesia, della pittura

e della tecnologia. Ha viaggiato molto accumulando scritti, progetti, schemi, idee, costruendo e sedimentando nei suoi Quaderni argentini quello che esprimerà nel suo lavoro, in modo da “iniziare dalla fine”, come egli stesso scriverà. Il fermento degli anni 70 è il contesto ideale per sviluppare il suo discorso: le sue opere si propongono come strumenti critici che si incuneano nella ricerca dell’intervallo, dell’interspazio, del margine. Si tratta d critica operante che ingloba aspetti della politica, del linguaggio, dell’arte. Basti ricordare “La macchina drogata”, una calcolatrice Divisumma Olivetti in cui i numeri sono sostituiti con lettere, che in breve inizia a produrre opere, alcune di altissimo impatto visivo ed evocativo. Su Ciclostile1 Agnetti scrive al proposito “questa macchina, nata demistificante (abbassamento del proprio impiego) ha ora iniziato una produzione artistica… è insomma tornata utensile addomesticato (rendimento e reversibilità). La ricerca del negativo, propria di quegli anni, trova in Agnetti uno dei suoi massimi esponenti e si svilupperà lungo tutto il suo percorso con modalità espressive e tecniche di volta in volta diverse, all’incrocio tra tecnologia arte e poesia. Procedimenti interrotti ridotti azzerati, traduzioni da un codice all’altro, vuoti e cancellazioni come elementi del dimenticare, come nel Libro Dimenticato a Memoria che non a caso troviamo, per un incastro paradossale, nella stessa teca accanto ai Quaderni argentini. Agnetti è un maestro della poetica dell’azzeramento che invita l’operazione concettuale ad entrare paradossalmente in contatto con un mondo visionario e profondamente ancorato alle emozioni. Il suo autoritratto “Quando mi vidi non c’ero” ne è un esempio lampante. Forse per questo le sue opere oscillano tra il rigore mentale esasperato degli assiomi e le ridondanze letterarie come nei Ritratti e nei Paesaggi , contrapponendo quindi la freddezza della bachelite al calore del feltro. Il medium espressivo per Agnetti è organico al discorso che vuole rappresentare, per questo la sua ricerca sui differenti modi di creare arte, sulle tecniche e sui materiali è così importante: la parola, l’immagine fo-

tografica, la tecnologia manipolata, la carta fotografica esposta e graffiata, la scultura accompagnata alla fotografia e ancora alle registrazioni e ai video, le installazioni, le performance sono sempre utilizzati come supporto del progetto artistico. Agnetti è un artista concettuale che non espone concetti ma li costruisce e li rende visibili e percepibili all’occhio dell’osservatore. E’ l’osservatore che può decodificare il senso concettuale delle sue opere. E’ l’osservatore che entrando nel suo spazio è invitato attraverso un’operazione concettuale rigorosa, a entrare in contatto con un mondo visionario paradossalmente ancorato alle emozioni. L’occasione della riapertura del suo studio è l’appuntamento milanese della Fiera d’arte e l’inaugurazione avverrà proprio all’interno dell’agenda del MIArt, questo a significare la volontà dell’Archivio di mettere a disposizione lo spazio del grande artista milanese. L’intenzione è che lo studio di Vincenzo Agnetti non sia solo un luogo della memoria ma anche uno spazio d’idee, di proposte, d’iniziative e di ricerche che desideriamo si sviluppino sulla sua stessa lunghezza d’onda di pensiero e d’illuminanti intuizioni. Germana Agnetti e Guido Barbato

Agnetti sul portone dello studio. In basso una veduta dell’interno dello studio. Archivio Vincenzo Agnetti Via Machiavelli 30 – 20145 Milano per informazioni: archivioagnetti@gmail.com

APR/MAG 2014 | 248 segno - 9


>news istituzioni e gallerie< VENEZIA

Biennale Architettura Fundamentals

na Biennale di ricerca, come specificato alla stampa da Paolo Baratta alla presenU tazione della quattordicesima Internazionale di

Rem Koolhaas premiato col Leone d’oro alla carriera alla Biennale 2010, in basso Koolhaas durante la conferenza stampa di presentazione della Biennale 2014

Architettura in programma dal 7 giugno al 23 novembre, dal titolo Fundamentals, diretta da Rem Koolhass. La prima delle novità è, dunque, proprio nella durata dell’esposizione di quasi 6 mesi. Altra innovazione fondamentale è il tema comune che i padiglioni nazionali (cresciuti fino a raggiungere le 65 partecipazioni, con l’esordio di Azerbaijan, Costa d’Avorio, Costa Rica, Repubblica Dominicana, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Kenya, Marocco, Mozambico, Nuova Zelanda e Turchia), sono chiamati a elaborare ognuno in maniera originale contribuendo al discorso generale. “Absorbing Modernity 1914-2014 - dice Koolhaas - è un invito rivolto ai padiglioni nazionali che mostreranno, ciascuno a modo proprio, il processo di annullamento delle caratteristiche nazionali, a favore dell’adozione quasi universale

di un singolo linguaggio moderno e di un singolo repertorio di tipologie. Ma la transizione verso ciò che sembra essere un linguaggio architettonico universale è un processo più complesso di quanto solitamente viene riconosciuto, poiché coinvolge incontri significativi tra culture, invenzioni tecniche e modalità impercettibili [...]. Dopo diverse Biennali dedicate alla celebrazione del contemporaneo, Fundamentals si concentrerà sulla storia, con l’intento di indagare lo stato attuale dell’architettura, e di immaginare il suo futuro.”. Tre le manifestazioni complementari che compongono la manifestazione: Absorbing Modernity 1914-2014; Elements of Architecture, al Padiglione Centrale, che si concentra sugli elementi costruttivi fondamentali dei nostri edifici, utilizzati da ogni architetto, in ogni tempo e in ogni luogo; Monditalia, all’Arsenale, tema specifico con esposizioni, rappresentazioni teatrali ed eventi che interessano l’architettura, la politica, l’economia, la religione, la tecnologia e l’industria del nostro paese, con il coinvolgimento di tutti gli altri settori della Biennale di Venezia: Cinema, Danza, Musica e Teatro.

ROMA

NAN GOLDIN

Gagosian Gallery è lieta di annunciare la mostra di Nan Goldin Scopophilia, dal greco “la passione per il guardare”, nella quale viene presentata una selezione di opere commissionate dal Museo del Louvre nel 2010. Il corpus, allestito in galleria, comprende scene autobiografiche dall’intera carriera dell’artista, e fotografie di sculture e dipinti appartenenti alla collezione del grande museo, le cui sale le sono state aperte in condizioni di raro privilegio. L’amore, la passione e il desiderio, punti focali della serie, sono evocati sia negli intensi ed espressivi ritratti personali, sia negli scatti realizzati nelle sale del Louvre, donando una nuova vitalità a sculture e dipinti della tradizione. Riconosciuta a livello internazionale per le sue immagini molto perturbanti, Nan Goldin ha iniziato a fotografare all’età di 15 anni ed ha utilizzato questo mezzo per presentare i dettagli più segreti delle proprie relazioni amorose e della quotidianità, come in un intimo “diario” fotografico. La sua ricerca artistica è stata considerata da subito rivoluzionaria, rendendola fonte d’ispirazione per generazioni di artisti.

Sydney

Biennale

19 edizione della Biennale di Sydney, stavolta sotto la direzione artistica di Juliana Engberg, attuale direttrice dell’ ACCA (Australian Centre for Contemporary Art, Melbourne). You Imagine What You Desire, il concept scelto per accompagnare il fitto programma di eventi fino al 9 Giugno, vuole evocare e celebrare la creazione artistica come l’unica capace di esplorare e descrivere il mondo. Metafora e poesia come microscopi per analizzare l’esperienza estetica in relazione ai suoi precedenti storici e alle opportunità ancora all’orizzonte. Circa cento gli artisti protagonisti dei vari eventi in cartellone, sui quali spicca Douglas Gordon, primo artista a vincere (nel ’96) il Turner Prize con un lavoro video, che a Sydney presenta Phantom (2011), riflessione sulle sue influenze estetiche e concettuali, ma anche la siciliana Rosa Barba, unica portabandiera per il nostro paese. Eventi speciali vedono protagonisti Eglė Budvytytė, Bianca Hester, Tori Wrånes, il progetto Future Poland con opere di Hubert Czere-

Nan Goldin, Odalisque, 2011 © Courtesy dell’artista Nan Goldin, Crazy Scary, 2011/2014. Chromatic print, 109.2x147 cm © Courtesy dell’artista

a

10 - segno 248 | APR/MAG 2014

pok, Agnieszka Kalinowska e Norman Leto, la britannica di stanza a Berlino Tacita Dean con la premiere mondiale di Event for a stage (2014), Henrik Håkansson con la performance The End. Particolarmente interessante il programma di talks, che offre l’opportunità di incontri con personalità del calibro di Eva Koch, Deborah Kelly, dei già menzionati Gordon, Hester e Dean, ma anche con personaggi più giovani come Augustin Rebetez, Noé Cauderay, Christine Streuli, Ignas Krunglevicius, Kate Daw, Meriç Algün Ringbor, Sasha Huber, Victoria

Pihl Lind, Anna Tuori, Henry Coombes, Maxime Rossi o Tamás Kaszás. Animano esposizioni, performance o incontri anche nomi come Yael Bartana, Martin Boyce, Mircea Cantor, Libia Castro, Nathan Coley, Siri Hermansen, Mikhail Karikis, Gabriel Lester, Ann Lislegaard, Laurent Montaron, Ahmet Öğüt, Ólafur Ólaffson, Mathias Poledna, Pipilotti Rist, Ugo Rondinone, Emily Roysdon, Yhonnie Scarce, Wael Shawky, Taca Sui, Corin Sworn, Sara van der Heide, Ulla Von Brandenburg, Emily Wardill e Zhao Zhao.


>news istituzioni e gallerie< BASILEA

Design Miami/2014

In Giugno, tra il 17 e il 22, torna Design Miami, kermesse che negli anni ha saputo andare ben oltre il concetto di mercato del design, creando un punto d’incontro, un global forum forte di programmi culturali, collaborazioni tra designer e istituzioni, occasioni di confronto con luminari dell’architettura, della moda, dell’arte. Questa edizione si articola in quattro grandi sezioni: Galleries, con oltre cinquanta espositori da ogni parte del globo a rappresentare le più svariate tendenze, dal moderno, al recupero storico, agli sguardi sul futuro (per l’Italia Antonella Villanova, Firenze; Galleria O., Roma; Erastudio Apartment-Gallery, Rossella Colombari e Nilufar Gallery, Milano); Design On/Site, in cui 4 gallerie independenti propongono personali fortemente focalizzate sul rapporto design/arte contemporanea: Elisabetta Cipriani (Londra) presenta Rebecca Horn, Galerie MiniMasterpiece (Parigi) il lavoro di Pablo Reinoso, Galerie Gosserez (Parigi) propone Valentin Loellmann e Mitterrand+Cramer (Ginevra) le creazioni dello Studio Job; Design Commission è una piattaforma per sperimentazioni architettoniche su larga scala, il cui contenuto è a tuttora ben segreto (verrà svelato in Aprile, al Salone Internazionale del Mobile di Milano); Design At Large, infine, è al debutto e presenterà a ogni nuova edizione installazioni monumentali nella Hall 1 Sud della Fiera di Basilea. A corollario, un nutrito programma di incontri nella sezione talks e una serie di eventi programmati da istituzioni culturali partner, caratterizzati da forti connotazioni curatoriali ed educative.

BONN

Juan UslĂŠ

Prima esposizione museale in terra tedesca per la serie di black paintings di Juan Uslé dal titolo Soñé que revelabas. Fino al 25 Maggio, al Kunstmuseum Bonn, ampia ricognizione su un corpo di opere che dal 1997 a oggi è arrivato a contare oltre 50 lavori e costituisce un punto nodale per la comprensione dell’intera esperienza pittorica dell’artista spagnolo, dialettica che si dipana tra la riflessione sulle condizioni strutturali e processuali della pratica creativa. Il risultato, se da un lato si incanala nel solco della tradizione astrattista autoriflessiva, dall’altro è così intimo da dare tangibilità corporea alla connessione sensuale dell’artista con le sue stesse opere.

Studio Karin Sander, CĂłdigo XML-SVG,Source code of the exhibition wall, 2014, courtesy LABoral Centro de Arte y CreaciĂłn Industrial, GijĂłn

GijĂłn

Datascape

Fa tappa al LABoral la mostra Datascape. What you see is not what you get, che partita nel 2013 dalla galleria Borusan Contemporary di Instambul, si arricchisce nel passaggio in terra ispanica del sottotitolo Nuevos paisajes en la era tecnológica. Principio ispiratore è la constatazione che la contemporaneità è contraddistinta da un continuo flusso di dati e informazioni che rimodellano la nostra percezione del mondo. I pittori, che da sempre hanno fatto del paesaggio uno dei cardini della ricerca artistica, arricchiscono ora questa tradizione contaminandola con i più svariati supporti tecnologici. Con la curatela di Benjamin Weil, Burak Arikan, Angela Bulloch, Nerea Calvillo, David Claerbout, Harun Farocki, Joan Fontcuberta, Michael Najjar, Thomas Ruff, Enrique Radigales, Karin Sander, Charles Sandison e Pablo Valbuena offrono un’esaustiva panoramica sulle creazioni dell’ultimo decennio nelle quali questo tema si confronta, si fonde, si arricchisce nel rapporto con la nostra realtà iperconnessa e globalizzata.

Haim Steinbach, Shelf with Annie Figurine, 1981 courtesy Serpentine Gallery, Londra

GINEVRA

Nuit des bains

Juan UslÊ, SoùÊ que revelabas, Abierto, 2005-2006, courtesy Galerie Thomas Schulte, Berlino

L’Associazione Quartier des bains, che raccoglie 12 gallerie e 4 istituzioni culturali del distretto artistico di Ginevra, organizza nel decimo anniversario della sua costituzione una Nuit des bains particolarmente ricca. Il 20 Marzo apertura speciale con la possibilità di visitare esposizioni di Thomas Huber, Laurent Kropf, Davina Semo, Paul Limoujoux, Richard Pettibone, Ricardo Brey; Yamandú Canosa; Paula Delgado; Sigismond de Vajay, Cao Guimarães; Ricardo Lanzarini; Marco Maggi; Vik Muniz, Michel Pérez; Pablo Reinoso; Jorge Satorre; Eduardo Stupia; Janaina Tschäpe; Dani Umpi; Pedro Varela; Allan McCollum; Franck Scurti; Marijke van Warmerdam; Christopher Williams; Flatland, Sherrie Levine, Antonio Saura, Sadie Laska, Max Regenberg; Emmanuelle Bayart, Robert Overby; Nicole Miller, Adel Abdessemed, Sarah Burger; Pascal Danz e Franz West.

BELLINZONA

LONDRA

Fotografia, video e arazzi sono protagonisti della prima esposizione del MACT/CACT per il 2014. Accostamenti. Riflessioni sul silenzio si compone di lavori di MargretEicher, Fabrizio Sacchetti e Christian Zucconi, autori che affrontano le tematiche inerenti all’identità di una società in evoluzione discostandosi decisamente dai media utilizzati per sottolineare l’avvenuta perdita di potere del linguaggio artistico autoreferenziale figlio degli anni Settanta. Sacchetti è presente con lavori fotografici e video risalenti ai primi anni Novanta, ricerca di assoluta novità nell’ambito del confronto con la digitalizzazione “ad-effetto-speciale”. Zucconi espone ritratti fotografici di grande formato della serie Cenere, scatti dedicati alla corporeità, a corpi che come Cariatidi sembrano portare su di sé la storia del mondo. Gli arazzi dell’artista tedesca MargretEicher documentano l’evolversi degli avvenimenti sociali e istituzionali della nostra storia recente fondendo il recupero di una antica tradizione produttiva con la drammaticità della cronaca quotidiana. Fino al 6 Aprile.

La Serpentine Gallery propone la mostra Once again the world is flat, ricognizione sugli oltre

Accostamenti

quarant’anni di carriera di Haim Steinbach. La ricerca dell’artista di origini israeliane viene ripercorsa fino al 21 Aprile attraverso numerosi lavori chiave, dall’esperienza della pittura minimalista, agli esperimenti con il linoleum e all’investigazione delle questioni spaziali. Particolare focus sui rituali quotidiani che coinvolgono alcuni oggetti: nell’occasione Steinbach ha invitato il pubblico a presentare i propri portasale e portapepe, ognuno con la sua storia e la sua aura, creando il definitivo corto circuito tra la sfera privata e quella pubblica. Completano l’esposizione lavori selezionati all’interno di collezioni pubbliche e private quali, ad esempio, la Zabludowicz Collection, il Victoria & Albert Museum of Childhood di Londra e la Manchester’s Whitworth Art Gallery. Al contempo, gli spazi della Serpentine Sackler Gallery ospitano un’esposizione di design curata da Martino Gamper, evento che condivide con l’esposizione principale l’aspirazione a mettere in luce gli oggetti che hanno avuto un impatto decisivo sulle nostre vite e ci offrono una prospettiva nuova sulla cultura materiale.

Daniel Knorr,2 dollar pigs, 2012, getto d’inchiostro su carta, origami, cm.45x88x22, courtesy Galerie nächst St. Stephan Rosemarie Schwar-zwälder, Vienna Douglas Gordon, Phantom, 2011, still da video, courtesy Galerie Yvon Lambert, Parigi

Haim Steinbach

VIENNA

Daniel Knorr

Christian Zucconi, Cenere, 2013, courtesy MACT/CACT, Bellinzona Fabrizio Sacchetti, LacrimAZIONE, 2007, video b/n, 4’ 13”, courtesy MACT/CACT, Bellinzona

La Galerie nächst St. Stephan Rosemarie Schwarzwälder presenta fino al 3 Maggio Lunarium, personale dell’artista rumeno Daniel Knorr. In esposizione, oltre all’installazione che da il titolo all’evento e che evoca il pallore e la raffinatezza tipici della cultura viennese (curiosamente visitabile solo nottetempo, tra la mezzanotte e le 5), troviamo il muro di sculture Depression Elevations in plastica e cristalli poliuretanici: rappresentazione metaforica che lega la città di Vienna ai luoghi più bassi della terra, attraverso l’effimera esistenza delle pozzanghere. APR/MAG 2014 | 248 segno - 11


>news istituzioni e gallerie< NEW YORK

Robert Heinecken

Il MoMA dedica alla rivoluzionaria opera di Robert Heinecken la prima restrospettiva dalla sua scomparsa nel 2006. La special exhibition gallery al secondo piano ospita Object Matter, 150 lavori che danno conto di come l’artista abbia costantemente, fin dagli anni Sessanta, celebrato le illimitate possibilità del mezzo fotografico, proponendo idee e mutazioni sempre nuove e diverse, sperimentando e contaminando il medium con la litografia, il collage, la pittura, la scultura e l’installazione. Innumerevoli le immagini reperite dalle fonti più svariate (dai libri alla tv, dai rotocalchi alle riviste porno), sulle quali Heinecken ha costruito la sua esplorazione della vita quotidiana e la riflessione sulla dialettica tra originale e copia, sia in campo artistico che più in generale nell’ambito culturale.

Alice Aycock

Un’idea grandiosa che ha necessitato di ben due anni di gestazione, ma che è infine giunta al momento della realizzazione: una serie di sette sculture di grandi dimensioni di Alice Aycock, dal titolo Park Avenue Paper Chase è stata allestita lungo Park Avenue, tra la 52a e la 57a strada e arricchirà il cuore della grande mela fino al 20 Luglio. L’artista definisce l’enorme installazione come il “residuo metaforico dell’energia di New York”.

WHITNEY BIENNAL

Snob, anacronistica, autoreferenziale, la Whitney Biennal d’altronde definita dai suoi stessi organizzatori come “la Biennale che tutti amano… odiare” torna a riproporre le sue eterne domande: cos’è contemporaneo? Cos’è americano? A rispondere in questa edizione 2014, i curatori Stuart Comer, Anthony Elms e Michelle Grabner hanno chiamato in tre diverse esposizioni, dislocate su tre piani del Whitney Museum, una pattuglia molto eterogenea di artisti. Al secondo piano (Elms) si parte in sordina con lavori di Valerie Snobeck e Catherine Sullivan (Image of Limited Good, 2014), Charline von Heyl (Folk Tales, 2013), Gary Indiana, Rebecca Morris e alcuni lavori video; il terzo piano (Comer) raccoglie i nomi più attesi, da Bjarne Melgaard con la sua stanza ispirata dal Korova Milk Bar di Arancia

meccanica, a Ei Arakawa con i suoi cappelli, da Ken Okiishi a Keith Mayerson, e ancora Matt Wolf, David Wojnarowicz, Martin Wong e sorprendentemente l’89enne poetessa libanese Etel Adnan, qui in veste di pittrice; tutto virato al femminile il quarto piano (Grabner), che offre la maggiore concentrazione di opere con lavori, tra gli altri, di Sterling Ruby, Laura Owens (As-yet-untitled, 2014), Jacqueline Humphries, Louise Fishman, Molly Zuckerman-Hartung, Dona Nelson, Amy Sillman, Gaylen Gerber, Sherrie Levine (Thin Stripe: 10, 1986) e Zoe Leonard con 945 Madison Avenue (2014), enorme camera oscura che nasconde una vera e propria elegia della sede stessa della Biennale.

Frieze New York

All’interno del Randall’s Island Park, una struttura serpentiforme proprio a ridosso dell’East River ospita la terza edizione dell’appuntamento newyorkese di Frieze Art Fair, punto d’incontro irrinunciabile per gli amanti dell’offerta artistica più dinamica e lungimirante. La direzione è affidata a Matthew Slotover e Amanda Sharp i

quali, a proposito delle prospettive dell’evento commentano: “Vogliamo che la Fiera dia un contributo positivo alla città di New York e la risposta delle gallerie locali, dalla più piccola alla più affermata, è stata la positiva al massimo. Frieze New York riunisce le gallerie più energiche del momento e, avendo introdotto la novità di un numero limitato di biglietti ridotti a disposizione degli studenti, speriamo di mettere questa energia a disposizione di tutti.”.

Oltre al Main program, il più vasto ed eterogeneo, alcune gallerie si inquadrano nelle sezioni Focus, dedicata a chi opera da meno di dieci anni e cura per l’occasione progetti particolari o esposizioni personali appositamente concepite; Frame è invece dedicata a personali allestite da gallerie operanti con partcolare vigore, ma da meno di otto anni. Di particolare interesse il programma Frieze Projects, curato da Cecilia Alemani, che include sette progetti commissionati ad altrettanti artisti, ispirati e allestiti nel contesto del Randall’s Island Park. Artefici sono Darren Bader, Eduar-

Alice Aycock, Park Avenue Paper Chase, 2014. courtesy Galerie Thomas Schulte, Berlino Frieze New York 2012,
foto Graham Carlow,
Courtesy Graham Carlow/Frieze

12 - segno 248 | APR/MAG 2014

Robert Heinecken, RectoVerso #2, 1988. courtesy The Robert Heinecken Trust, 2013

Bjarne Melgaard, Think I’m Gonna Have A Baby, 2014, tecnica mista con video e proiezioni olografiche, foto Kevin McGarry, courtesy l’artista

do Basualdo, Eva Kotátková, Marie Lorenz, Koki Tanaka e Naama Tsabar, ma è in programma anche un tributo speciale all’Allen Ruppersberg’s Al’s Grand Hotel, realizzato in origine al 7175 di Sunset Boulevard, Los Angeles, nel 1971. Sempre a cura della Alemani, per Frieze Sounds sono stati commissionati tre progetti audio speciali a opera di Keren Cytter, Cally Spooner e Hannah Weinberger. L’offerta si completa con gli ampi pannelli Talks ed Education. Nel complesso sono 190 gli espositori annunciati, ben 53 dei quali dalla sola città ospitante. Dall’Italia registriamo la partecipazione, nella sezione principale, di: Alfonso Artiaco, Napoli; Galleria Continua, San Gimignano; Massimo De Carlo, Milano; Massimo Minini, Brescia; Galleria Lorcan O’Neill, Roma; T293, Roma. Inserita nel contesto della sezione Focus trovismo, invece, la Galleria Vistamare di Pescara.


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Museo MADRE/Napoli - Teatro Margherita/Bari

Vettor Pisani Eroica/Antieroica Una retrospettiva

“C

i si stupisce di come opere esteticamente corrette, possano contenere in sé i segni conturbanti delle dissonanze e dei paradossi. Accade che in un chip dello sguardo, di un linguaggio perfetto, esplodano: ambiguità, sarcasmo, ironia, profondità critica, riferimenti ai mondi dell’anima, a memorie della storia e dell’arte”. Queste le parole con le quali Mimma Pisani, compagna di vita, alter ego e assistente creativa, introduceva la ricerca di Vettor Pisani, in una mostra datata al 2008. Irridente, autoironico e pungente, malinconico e visionario Vettor Pisani è uno degli artisti più rappresentativi del panorama italiano dal 1970 (anno dell’esordio artistico con la mostra Maschile, femminile e androgino. Incesto e cannibalismo in Marcel Duchamp e dell’attribuzione del Premio Pino Pascali) ad oggi; basta ricordarne la partecipazione a sette edizioni della Biennale di Venezia e alla Documenta 5 di Kassel (1972). Costellata di imprevedibilità e pathos, di richiami mitologici, storiografici e psicanalitici, la poetica di Vettor Pisani, che sia trasposta in istallazione, performance, traccia grafica, testo teatrale, segno/disegno è sempre volontà di agnizione - rivolgimento dall’ignoranza alla conoscenza - e visionarietà critica; una lunga interrogazione, articolata in quarant’anni (terminata nell’estate del 2011, con il suicidio nella sua casa romana), costituita da quesiti silenziosi e ridondanti, in cui con mordace ironia, l’artista ritorna sempre a cimentarsi su ossessioni tematiche mai pienamente risolte ed esaurite tra cui, in primis, il tema della menzogna; “verità fatta di mille menzogne […] la verità non esiste […] l’arte è l’unico sistema non menzognero” (Vettor Pisani). Partendo da un cosmo preesistente e precostituito, Vettor Pisani opera una riformulazione del tempo presente di cui disconosce equilibri, logiche e relazioni convenzionali, generando nuove fenomenologie percettive; un’atemporalità - quella celebrata dall’artista- fatta di passato e prefigurazioni, in cui recuperare memorie simboliche - rosacrociane e massoniche - attraverso una vestige teatrale e tragicomica. Un controtempo - luogo di transito - dove, superata l’apparente dimensione orgiastica, ludica e fantasiosa, l’artista manifesta la propria feroce critica alla società odierna fatta di stereotipi, paradigmi, paradossi e feticci; una società necrotizzata che ha trasformato l’individuo in Pupazzo di Paracelso - automa di se

Camera di Eros (Venere di cioccolato), 1970, calco in gesso rivestito di cioccolato, pesi e targa in metallo, courtesy Cardelli & Fontana artecontemporanea, Sarzana

stesso -, in cui solo il poeta tragico può intervenire nel recupero del “senso” che per l’artista è sinonimo del “non senso”. Con le complesse meccaniche delle sue installazione, Vettor Pisani destruttura e ristruttura l’ordinario - spazio liturgico, obscuro e acronico - in un mondo iconico dove ogni oggetto, figura e/o animale prescelto diviene la rivelazione di uno sguardo contemplativo; una presenza, tramite la quale definire paure, nevrosi e limitazioni. Un capriccio teatrale ed eccelso al contempo, in cui, tra memorie - tracce del sentire - e slittamenti di senso, l’artista crea delle vere e proprie Wunderkammer (camera delle meraviglie) in cui lo spettatore si ritrova ad essere una spaesata Alice che dialoga polemizzando con Joseph Beuys o ironicamente sul pensiero duchampiano; quinta scenica nella quale non possono mancare riti e filosofie esoteriche, il mito di Edipo Re, il mistero della Sfinge, gli echi di collaborazioni passate - quale quella di Michelangelo Pistoletto - o l’identificazione con artisti a lui coetanei quali Alighiero Boetti e Gino De Dominicis. Un confusionario arabeske surrealista dove la realtà, osservata con gli occhi di Morfeo, è articolata in un complesso reliquario di oggetti e

Ger.:.mania, 1991, Collezione Maria Teresa Incisetto, Napoli. Foto dell’installazione al museo MADRE di Napoli. Photo © Amedeo Benestante, courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli

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attivitĂ  espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Camera di Eros, 1989, vetro, abito da sposa, scarpe, guanti e carta da parati Germanella, Show. Strip-tease: La signorina Tre Puntine. Collezione Maria Teresa Incisetto, Napoli

German Love Sinfonietta, 1989, Courtesy PIOMONTI arte contemporanea, Roma. Foto dell’installazione al museo MADRE di Napoli. Photo © Amedeo Benestante, Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli

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Lo Scorrevole, 1972, stampa fotografica, plexiglass, ferro , Courtesy Collezione Maramotti, Reggio Emilia. Foto dell’installazione al museo MADRE di Napoli. Photo © Amedeo Benestante. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli

persone (da triangoli, semicroci, piramidi, clessidre, pianoforti e violini, carrucole, Hitler, Freud, Socrate, la Signorina tre puntini, Germana, Virginia, solo per citarne alcuni) ed animata da un bestiario fatto di tartarughe, conigli, pesci rossi, lumache, gatti, pavoni e tanto altro ancora. Dynamis cosmogonica, che contiene in sé - in coappartenenza e negazione - il riflesso e la partizione, la persistenza e il mutamento, la stabilità e l’instabilità dell’essere oggi viandante del mondo. Fantasmagoria, dove la ricerca della lanterna magica o della pietra filosofale di Dürer, - a lungo cercata, come affermava l’artista stesso, nell’ex cava, ricca di vegetazione, situata alle spalle del suo Museo della Catastrofe - diventa il vaneggiamento di un lungo viaggio in cui l’individuo, mo-

derno Ulisse, decide deliberatamente di non raggiungere la sua Itaca (isola/isolamento) per vivere del viaggio stesso; un peregrinare il cui apice è nel Die Toteninsel - isola dei morti di Böcklin, spazio del sublime e del non finito. Percorsi questi tratteggiati dalla poetica di Vettor Pisani, che è possibile rivivere, o quanto meno saggiare fuggevolmente - fino al 24 marzo 2014 - negli spazi espositivi del Museo Madre di Napoli, nella personale, Eroiaca/Antieroica, a cura di Andrea Viliani ed Eugenio Viola, con la supervisione scientifica di Laura Cherubini. La retrospettiva, ad oggi la più grande dedicata all’artista, raccoglie un nutrito numero di lavori esplicativi dell’intera e complessa ricerca del maestro dagli esordi a pochi mesi prima della morte; dalle installazioni

In alto: Opera di pasticceria cosmica, 1985, tecnica mista su tela, Collezione Federica e Vittoriano Spalletti, Pescara In basso: La tempesta, 1991, stampa cromogenica, Collezione privata, Roma

In alto: La tempesta, 1991, stampa cromogenica, Collezione privata, Roma In basso: Edipo e la sfinge, 1980, alluminio e stampa fotografica, Courtesy Mario Pieroni, Roma; Miaosfinge, 1992, 10 barattoli di latta, base triangolare in legno, Collezione Riposati, Roma

18 - segno 248 | APR/MAG 2014


attivitĂ  espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Foto dell’installazione al museo MADRE di Napoli. Photo © Amedeo Benestante. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli

Barca dei sogni, 2001. Legno, manichino, stoffa, bronzo, livella, polvere di cobalto, stampa fotografica plotter su tela. Courtesy Galleria Umberto Di Marino, Napoli. Collezione Ovidio Jacorossi, Roma

site-specific ai disegni, dai dipinti su tela e su pvc alle documentazioni fotografiche delle azioni performative. Ideale continuazione e prolungamento della restrospettiva napoletana è la sezione d’approfondimento, dedicata alla dimensione teatrale e performativa del lavoro di Pisani, visitabile dal 27 gennaio al Teatro Margherita di Bari. Nella suggestiva location - teatro in stile liberty che si affaccia rispecchiandosi sul Mare - il tributo a Vettor Pisani avviene attraverso una serie di percorsi sinestestici in cui Immagini, suoni e odori concorrono a definire il carattere di totalità ambito nel suo lavoro. L’ossessione di una Gesamtkunstwerk, in cui i differenti saperi dell’uomo - dall’arte alla poesia, dalla musica alla psica-

nalisi, dalla politica alle scienze occulte -, da isolate visioni, diventano arti di un unico corpo: R.C. Theatrum, teatro rosacrociano; grembo mitico, spazio del notturno, in cui l’indicibile o il dicibile altro si trasforma in verbo; spettacolo dove discipline alchimiche e misticismo si completano prolungandosi vicendevolmente l’una nelle altre come nell’antico ordine di cui recupera il nome. Particolare menzione merita il rifacimento dell’istallazione/performance presentata nel 1970 al Castello Svevo in occasione della seconda edizione del Premio Pascali, e l’installazione - ricostruita per la prima volta - della performance Melanconica Pot. La tartaruga più veloce del mondo, presentata sempre a Bari nel 1970. Raffaella Barbato

La tempesta, 1991. Stampa cromogenica. Collezione privata, Roma. Photo Š Luca Borrelli

Pesci rossi, 1997. Stampa digitale su tela. Collezione Maria e Umberto Di Marino, Giugliano in Campania Viaggio nell’eternità, 1996 - 2004. Tecnica mista su tela e neon Collezione Fondazione Morra, Napoli. © Fondazione Morra, Napoli

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CIAC Foligno

LUCIANO FABRO Disegno In-Opera

P

er chi non avesse avuto modo di vedere la mostra Luciano Fabro - Disegno In -Opera, ospitata alla GAMeC di Bergamo sino al gennaio scorso, consigliamo vivamente di non perdere l’occasione offerta dal CIAC di Foligno, che la accoglie nuovamente sino a maggio. In realtà questa rassegna avrebbe dovuto far parte di una esposizione assai particolare che Fabro stava preparando, assieme alla figlia Silvia e a Bruno Corà, già nel 2007, per il Museo di Shanghai. A causa della, improvvisa, prematura, morte dell’artista, il progetto ha però avuto avvio soltanto lo scorso anno e ciò che ne è risultato è stato esposto prima al Museo di Winterthur, per l’interessamento di Dieter Schwarz , poi a Bergamo per opera di Giacinto Di Pietrantonio ed infine nello splendido museo di Foligno grazie al suo curatore Italo Tomassoni. Si tratta di una raccolta di oltre 100 disegni che Fabro ha regalato ad amici e parenti nel corso di più di quarant’anni. Tutte opere di piccola dimensione, ma di inegabile intensità, che presentano, come sempre accade con questo autore, una valenza linguistica autonoma, non predeterminabile in base all’odozione di un codice rigido, ma legata al tipo di indagine epistemica posta di volta in volta in essere. E, non a caso, è proprio la generosità dell’artista a fornire una delle chiavi di lettura dei disegni esposti, che, appartenendo, non a musei o collezioni programmaticamente organizzate, ma ai privati che suo tempo li avevano ricevuti in dono, tesaurizzandoli ciascuno secondo le proprie inclinazioni, tornano oggi a stimolare la nostra attenzione non secondo i modi di una decantazione protrattasi nel tempo bensì in forza di una certa loro intatta flagranza, quasi fossero amici ritrovati insieme ai quali rileggere appunti di viaggio o pagine di diario. Sono disegni che - come scrive, tra l’altro, Dieter Schwarz - “si limitano al minimo indispensabile e sovente si compongono solo di pochi tratti che trovano la loro soluzione nel titolo” (come, ad esempio, “La molla della vita” (1992), “”Fanciulla non accettare i miei fiori” (1992) oppure “Progetto per ottimismo” (1998)). Nella ricerca di Fabro la dimensione ambientale riveste, come è noto, un’importanza fondamentale, lo spazio vi è infatti concepito quale campo d’azione vivo fatto di relazioni tra il fruitore e gli elementi presenti al suo interno o da esso comunque individuati, relazioni tanto più conseguenziali in quanto capaci di imporsi attraverso una processualità conoscitiva ricca di sorprese e sanamente liberatoria nei confronti dei limiti ideologici che si insinuano inevitabilmente anche all’interno di quelle che noi crediamo essere esperienze immediate e dirette. Ed è proprio in considerazione di ciò, che accanto ai disegni di cui sopra viene proposta una selezione di grandi opere, appartenenti ai diversi cicli di lavoro dell’autore che, appunto, hanno dialogato più precipuamente con lo spazio

Quale equilibrio, 2004-2005. Acrilico, grafite, pennarello su carta, cm 69,5 x 49,5 Collezione Luisa Protti, Milano. Foto: Annalisa Guidetti e Giovanni Ricci, Milano Struttura ortogonale assoggettata ai quattro vertici a tensione, 1964 Tubolare in ottone lucidato, cm 227 x 190 x 104; tubolare ø cm 1,5 Collezione privata. Foto: Giovanni Ricci, Milano

La molla della vita, 1992. Acrilico, matita colorata e grafite su carta, cm 49,5 x 69,5. Collezione privata. Foto: Annalisa Guidetti e Giovanni Ricci, Milano

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attivitĂ espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

1962 (Habitat), 1981. Legno dorato e ottone, dimensioni variabili secondo lo spazio. Collezione Mario Pieroni, Roma.

Fanciulla, non accettare i miei fiori, 1992 Acrilico e grafite su carta, cm 40 x 30 Collezione privata. Foto: Annalisa Guidetti e Giovanni Ricci, Milano

No titolo, 1962 Inchiostro di macchina per scrivere e grafite su marca da bollo e scheda in cartoncino, collage, cm 12,4 x 12,4 Collezione privata. Foto: Annalisa Guidetti e Giovanni Ricci, Milano

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attivitĂ  espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Pieroni di Roma che anche nell’ ambiente del museo folignate continua a proporcisi come una elegante dimostrazione del fatto che la trasparenza non è solo una qualità ottica, ma riguarda tutti i sensi.. Le pareti sono, infatti, una griglia di nervature di legno dorato, cui si appigliano peduncoli di ottone attorti, alla sommità seguendo un gioco di raccordi che li rende “percepibili come antenne che captano suoni e movimenti nell’aria, il chiacchiericcio e i gesti dei visitatori, ma anche altro, oltre, come se le pareti non esistessero” (Luisa Protti). Un concetto sul quale torna ad insistere Italo Tomassoni nel suo puntuale testo in catalogo (“Luciano Fabro. Dal disegno alla finzione dello spazio”) laddove afferma che “..... Alleggerita l’idea plastica dal peso della materia e dalla concentrazione delle forze che ne rallentano la circolazione, Luciano Fabro, pensa alla scultura senza ignorare il disegno, facendo i conti con le funzioni portanti della luce e del neutro”. Lucia Spadano

L’alba, 1994. Acrilico e grafite su cartoncino, cm 78 x 54 Nella pagina a fianco: Macchie di Rorschach, 1976 Acrilico su carta a mano, carta e inchiostro, assemblaggio, cm 56 x 76 Macchie di Rorschach, 1976 Acrilico su carta a mano, carta e inchiostro, assemblaggio, cm 56 x 76 Macchie di Rorschach, 1976 Acrilico su carta a mano, carta e inchiostro, assemblaggio, cm 56 x 76 Tutte le foto della doppia pagina sono di collezione privata. Foto: Annalisa Guidetti e Giovanni Ricci, Milano

evidenzando in maniera emblematica i suoi successivi raggiungimenti teorici ed operativi. Accade così che opere come “Struttura ortogonale” (1964), costituita da una griglia tubolare in ottone e acciaio in cui le barre trasversali sono tagliate a metà e come attratte verso polarità opposte , oppure “Passi. I miei passi hanno bucato il cielo. I miei passi hanno bucato la terra. Io sono zoppo” (1994), un striscione di 12 metri che riporta il titolo dell’opera in ideogrammi giapponesi; o ancora “Svizzera Portafogli” (2007) si affianchino ad alcuni lavori della serie “Cumputer”, che, seppur realizzati in materiali pesanti, trasmettono un forte senso di leggerezza con un effetto che le avvicina idealmante alle griglie di “Habitat” (1962) , un’installazione presentata nel 1981 alla Galleria

Computer paesaggio per Cosimo, 1994-2006 Acquerello su serigrafia Computer (1994), cm 42 x 29

Ammutolito, 1999. Pastello a cera su carta da disegno, cm 21 x 29,7. Collezione privata.

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Alfonso Artiaco/Napoli

GIULIO PAOLINI

E

tichettato inevitabilmente innanzi tutto quale esponente dell’Arte Povera, Giulio Paolini (Genova, 1940) è senz’altro uno degli artisti italiani con i quali meglio funziona il confronto con i colleghi anglosassoni dell’arte concettuale, in quanto l’uno e gli altri impegnati in una ricerca che è analisi sull’arte e sui suoi strumenti linguistici. Se però per questi ultimi si tratta di partire da un grado di estrema astrazione concettuale – si rammenti la polemica di Joseph Kosuth sul valore generale della nozione di arte, la sola che è lecito assumere, di contro al valore specifico, e perciò parziale, di declinazioni quali pittura, scultura etc. – e di una parallelo radicale affrancamento dalla tradizione - attitudine notoriamente assai più semplice e naturale sull’altra sponda dell’Atlantico –, relegando in pratica nella preistoria tutto ciò che precede il readymade di Duchamp, per Paolini l’interrogazione sull’arte non può prescindere dalle forme storiche e fisiche, anche quelle proprie di una più o meno antica tradizione. Da qui l’equivoco di cui è oggeto nei primi anni ottanta, in tempi di risorgenze del passato, quando i pittori anacronisti riconoscono in lui un loro precursore, ma egli ricusò tale riconoscimento in maniera cordiale quanto netta. Dalla ampia chiazza rossa come il sangue – che potrebbe ricordare la pittura d’azione americana, ma va intesa soprattutto come una citazione della celebre macchia d’inchiostro di Sainte Vierge II di Francis Picabia , sormontata da un cubo in plexiglass sul quale campeggiano i calchi in gesso di una coppia di piedi,

Ferito a morte, 2009-10 Collage su carta, 51 x 43 cm (cornice), 48 x 37 cm (foglio) Courtesy Galleria Alfonso Artiaco, Napoli. Photo by Luciano Romano

Senza titolo, 2012. Collage su carta, due elementi incorniciati, 43,5 x 55,5 cm (cornice), 35 x 50 cm (foglio), misure complessive 43,5 x 113 Courtesy Galleria Alfonso Artiaco, Napoli. Photo by Luciano Romano Red Carpet, 2013-14. Ingrandimento fotografico lacerato, lastre e teca di plexiglass, calchi in gesso, quattro collages di frammenti lacerati 110 x 110 cm ciascuno, quattro lastre di plexiglass 110 x 110 cm ciascuna, teca 35 x 35 x 35 cm, misure complessive, 52 x 222 x 222 cm Courtesy Galleria Alfonso Artiaco, Napoli. Photo by Luciano Romano

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attivitĂ  espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Veduta parziale della mostra. Courtesy Galleria Alfonso Artiaco, Napoli. Photo by Luciano Romano

di Red Carpet – titolo dall’evidente ironia deturnante – alla sequenza di immagini prodotte a partire dalla scomposizione e ricomposizione degli spazi stessi della mostra che è all’origine di Villa dei Misteri – evidente allusione, nel titolo, alla nota dimora dell’antica Pompei – e a quelle popolate di pianeti, figure mitologiche, soggetti scultorei – ovvero motivi tipici del repertorio di Paolini – che invece costituiscono gli Studi per “Villa dei misteri”; dalla enigmatica composizione della statuetta in bronzo del carabiniere annessa ad una palla di giornali all’allinearsi di dodici momenti di un medesimo soggetto - il profilo di un basamento -, fino al cavalletto che accoglie una teca inglobante una veduta aerea del Vesuvio il cui cratere è circondato da una miriade sparsa di immagini frammentarie –, che porta il minaccioso titolo Terra di nessuno: tutto può infondo ricondursi a quella peculiare attitudine che connota l’artista genovese fin dai primi anni sessanta, suggerire un’opera – come egli stesso eloquentemente dichiara in un’intervista rilasciata nell’ormai lontano 1973 – senza «la mortificazione di vederla compiuta». Paolini prende dunque le mosse da una pletora di stimoli – non disdegna, come si è visto, il riferimento all’arte del passato più e meno recente, né le sollecitazioni del contesto, tanto architettoniche quanto più specificamente storicogeografiche - e sfodera una molteplicità di declinazioni, eppure altrettante appaiono le soluzioni compositive solo suggerite e non finalmente realizzate. La struttura delle sue opere risulta sempre assimilabile più ad un paradigma – o meglio ancora ad una serie di paradigmi – che ad un oggetto conchiuso e concluso in ogni sua parte. Il suo agire ideativo-formativo si connota così costantemente quale azione costituente e presentazioneriflessione analitica dell’atto costitutivo stesso. Stefano Taccone

Villa dei Misteri, 2013. Matita e collage su carta, nove elementi incorniciati, 41,6 x 51,5 cm (ciascuna cornice), 28 x 38 cm (ciascun foglio), misure complessive 129 x 159 cm. Courtesy Galleria Alfonso Artiaco, Napoli. Photo by Luciano Romano

In basso: Dentro e fuori, 1999-2013. Matita su carta, collage su stampa fotografica e su carta nera, 44 x 50 cm (cornice), 35 x 50 cm (foglio) Courtesy Galleria Alfonso Artiaco, Napoli. Photo by Luciano Romano. A destra: Due vedute parziali della mostra. Courtesy Galleria Alfonso Artiaco, Napoli. Photo by Luciano Romano

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Galleria Continua/San Gimignano

Marcelo Cidade Jonathas De Andrade André Komatsu ORNAGHI & PRESTINARI esposizione dedicata agli artisti Marcelo Cidade, Jonathas De Andrade e André Komatsu apre uno spaccato di L’ notevole interesse sulla realtà del loro paese, il Brasile, sulle

evidenti e insanabili contraddizioni fra la realtà urbana e rurale, fra lo sviluppo economico e le forti sperequazioni, fra l’utopia di un cambiamento storico e il suo procedere incerto. I tre artisti, poco più che trentenni, conosciuti già internazionalmente, sono accomunati da una visione etica e morale che informa di sé il linguaggio e lo sottende, nella consapevolezza che l’arte possa incidere, o quantomeno far riflettere. Il lavoro di De Andrade, connotato più di quello degli altri da intenso valore politico e antropologico, emerge nel complesso progetto O levante (La rivolta), da lui attuato nel 2012, sviluppatosi nell’amara presa di coscienza che la modernizzazione forzata e la volontà di annientare una millenaria realtà rurale portino a nient’altro che a dolore e miseria. Di fatto, dopo che in tutto il territorio di Recife sono stati vietati la circolazione di animali per il trasposto di merci e il transito di animali da soma, particolarmente il cavallo, l’artista riesce ad ottenere il permesso per un film su una corsa di carri nel centro della città. L’installazione è il racconto documentario dell’evento mediante fonti illustrative e di stampa nonché testimonianza del coinvolgimento della popolazione che ha ritrovato attraverso l’operazione artististica la sua identità collettiva, quella che il potere vorrebbe negare. Altra proposizione di identità è Marè realizzata da De Andrade nel 2014, un’opera dalla visione d’insieme decadente e quasi ossessiva, costituita da un esorbitante numero di immagini fotografiche che ritraggono in notturna un luogo abbandonato, il quale a seconda delle condizioni lunari e delle maree diventa sede di incontri omosessuali . Con Marcelo Cidade e André Komatsu il discorso si fa più rarefatto benché iI tema dominante della loro opera insista sempre sul rapporto arte e vita, sui conflitti con il potere. L’indagine sociale li accomuna e la concezione che l’attività artistica sia una

AndrĂŠ Komatsu, Troncho, 2014 quadrato in acciaio, chiodo in acciaio, pittura su muro, dimensioni variabili. Photo Ela Bialkowska, OKNO STUDIO Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins

AndrÊ Komatsu, Assombração, 2014. Scatola di cartone, nastro adesivo, cemento, 172 x 50 x 40 cm Photo Ela Bialkowska, OKNO STUDIO. Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins

AndrĂŠ Komatsu, Febre do Ouro, 2014 recinzione in acciaio zincato, tubo di acciaio tondo, viti, cavi elettrici, prese e lampade a incandescenza, 300 x 700 x 1400 cm Photo Ela Bialkowska, OKNO STUDIO Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins

André Komatsu, Ato de ... 5 (triptico), 2014
 legno, foamboard, chiodo in acciaio, vetro e nastro, 194 x 300 x 5 cm Photo Ela Bialkowska, OKNO STUDIO Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins

26 - segno 248 | APR/MAG 2014


attivitĂ  espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Jonathas De Andrade,

sfida, una resistenza agli squilibri prestabiliti. Anche il linguaggio dei due artisti presenta analogie e i singoli lavori si sfumano nelle somiglianze, da sembrare un unica opera, un’unica grande narrazione, così come l’utilizzo di materiali poverissimi , fra gli altri, legno, vetro, cemento: frammenti estrapolati dalla città, dalla strada e reinventati in nuovi spazi e alfabeti. Con la serie dei 24 diari di Marcelo Cidade del 2014, incollati e cementificati nella parte inferiore, un accenno di poesia, di intimità, svanisce subito nell’immagine dell’espressione negata e della ‘condanna’ velata al silenzio. Con l’opera O equilíbrio entre proteção e resistência anch’essa dello stesso anno, l’artista presenta in alternanza un piede di porco con giacca mimetica e un martello con residui di coperta tessile, fissati in lunga sequenza alle pareti, riferendosi con essi implicitamente al mondo di strada e “denunciando” le precarie condizioni di vita di una

gran parte della popolazione. In Cancer del 2014, fatta di cemento e magneti, il rimando all’architettura delle grandi conurbazioni urbane è elemento importante, risolto in un’ operazione estetica di forte nitidezza. André Komatsu propone una grande installazione creata appositamente per la Galleria Continua, collocata nella platea dell’ex cinema, dal titolo Febre do Ouro, costituita da un’ ampia recinzione in acciaio zincato che si restringe via via, con lampade a incandescenza all’interno, dal grado d’intensità luminosa mutante a seconda degli spazi: è una meditazione sul potere, di cui la luce diventa simbolo, un potere tanto più vero quando viene dal basso e di cui l’arte esemplifica la forza. Base Hierárquica (Italia) del 2014 è opera composta dal frammento di un calice delicatissimo e da bicchieri usuali che sorreggono mattoni, simile a lavori presentati in altri contesti espositivi: in essa si sovvertono e si delocalizzano gli oggetti

Jonathas De Andrade

Jonathas De Andrade

Jonathas De Andrade

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Marcelo Cidade, o equilíbrio entre proteção e resistência, general view, 2014
 giacca mimetica, residui coperta tessile, piede di porco e un martello, 290 x 100 x 50 cm. Photo Ela Bialkowska, OKNO STUDIO. Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins

Marcelo Cidade, Expansao por subtracao, 2014

 specchio, 400 x 360 x 5 cm Photo Ela Bialkowska, OKNO STUDIO Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins

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Marcelo Cidade, Pessoal e intrasferivel
da serie noias, 2014
 diversi tipi di notebook per il disegno, cemento e colla bianca Photo Ela Bialkowska, OKNO STUDIO Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins

consueti, in una prospettiva individuale e collettiva che dalla vita quotidiana arriva ai grandi spazi urbani. L’opera degli artisti Ornaghi & Prestinari installata all’arco de’Becci dal titolo Familiare è un progetto espositivo con opere inedite, appositamente realizzate per la mostra. L’ambito da cui muove il lavoro di Valentina Ornaghi e di Claudio Prestinari, in collaborazione già dal 2009, riguarda pensiero e manualità, progetto e sua realizzazione effettiva. Splendidi esemplari sono sia Abito, una tuta da lavoro intessuta finemente, sia Armarsi , ceppi d’albero interamente ricoperti di viti a stella, luccicanti come paillettes. La trasformazione ottenuta nelle cose con interventi millesimali e preziosi è una costante del lavoro degli artisti, in cui gli oggetti banali del quotidiano e i temi della vita si contaminano e acquistano forme ed esistenze nuove. Rita Olivieri 28 - segno 248 | APR/MAG 2014


attivitĂ  espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Ornaghi & Prestinari, Appunti, 2012-2014
 Legno, gesso, pigmento, bolo armeno, foglia d’argento e punzonature realizzate con un cacciavite a stella, 5 tavole: 90 x 180 cm ciascuna. Photo Ela Bialkowska, OKNO STUDIO. Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins

Ornaghi & Prestinari, Armarsi, 2014
 ceppi di legno scortecciato ricoperti di viti a stella, dimensioni variabili Photo Ela Bialkowska, OKNO STUDIO Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins Ornaghi & Prestinari, Abito, 2014
 Tuta da lavoro. Maglieria di lana blu con ricami colorati, dimensioni variabili Photo Ela Bialkowska, OKNO STUDIO Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins In basso: Ornaghi & Prestinari, A fior di conio, 2011-2014
 incisioni, resina e pigmento su monete da 1 cent con una faccia lucidata a specchio, dimensioni variabili (1 cent: diametro 16,25 mm, spessore 1,67 mm) Photo Ela Bialkowska, OKNO STUDIO Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins

Ornaghi & Prestinari, Familiare. Vista della mostra in Galleria Continua, San Gimignano Photo Ela Bialkowska, OKNO STUDIO. Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins

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Galleria Vistamare/Pescara

Bethan Huws

Bethan Huws, Raymond Roussel, 2008. Matita su carta Arches, 52 x 72 cm

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arcel Duchamp, personalità chiave del Novecento, attraverso il ready-made, apre la strada a nuove concezioni, individuando nel concetto di già fatto un nuovo e rivoluzionario sistema di interpretare ciò che è arte, spostando così l’attenzione dall’oggetto finito all’idea che sottende l’operazione artistica. E intorno all’opera di Marcel Duchamp, intorno a ciò che la sua arte ha significato, si muove, sin dagli esordi, la ricerca dell’artista gallese Bethan Huws. Da sempre attratta e affascinata dalla relazione fra un oggetto e la sua rappresentazione, così ai diversi livelli di riflessione e interpretazione possibili sottesi a un manufatto o a un’operazione artistica, la Huws crea opere che potrebbero essere definite senza timore ready-made di ready-made. Si veda ad esempio Tour, lavoro realizzato nel 2007 con il neon. La forma cita esplicitamente il famoso Scolabottiglie duchampiano, tuttavia un secondo livello interpretativo e di significato si rintraccia nel titolo. Tour (rook in inglese) indica la torre degli scacchi, rimandando quindi all’i-

Bethan Huws, Construction, 2000 stampe litografiche su carta da 300gms, 76x56 cm ognuna

Bethan Huws, Le Porte-Bouteilles, 2008. Conchiglia e metallo, 23x10x10 cm

Bethan Huws, Tour, 2007 Tubo di vetro bianco con gas argon-neon montato su Perspex, cm45x45x75

Bethan Huws, Artists interpret the world and then we interpret the artists, 2012. Tubo in vetro con gas montato su perspex, 13x600x5 cm

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attivitĂ  espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Bethan Huws, Untitled, 1983-2014 vetrina contenente 10 barchette, giunco, legno e vetro, 54x68x137 cm

Bethan Huws, Sablier, 2008 legno in ciliegio, vetro e sabbia, 68x28x28 cm

dea di gioco (ma non casuale) e allo stesso tempo suggerisce l’espressione francese faire un tour, restituendo in tal senso l’ipotesi di movimento dell’oggetto. Ecco che l’opera assume un’accezione differente rispetto a quella ispirata dalle identiche fattezze del noto oggetto duchampiano, la cui immagine è oltretutto e innegabilmente patrimonio di una memoria collettiva che spesso ne ignora la storia e le ragioni. Allo stesso modo l’artista gioca a livello metalinguistico con un’altra famosissima opera di Duchamp: Fontana. Bethan Huws realizza nel 2009 Fountain, pellicola dove l’allegoria dell’esperienza, in primo luogo visiva, destruttura completamente ogni aspetto narrativo. È un lavoro attraverso il quale l’artista mira a cogliere l’essenza dell’arte, svolgendo in tal senso un’operazione puramente concettuale, in perfetta sintonia con la lezione duchampiana. Così, Etant Donnés, ultimo importante lavoro del grande maestro, diventa il soggetto di questa sequenza di immagini in cui sono riprese 49 fontane romane e dove lo scorrere dell’acqua si sovrappone alla

voce dell’artista che si fa portavoce del significato simbolico sotteso all’oggetto soggetto. Sono opere soprattutto intellettuali le cui radici si rintracciano già nell’infanzia e nelle origini geografiche dell’artista. Nata e vissuta in una fattoria gallese; l’appartenenza a una minoranza linguistica la conduce sin da bambina a una riflessione circa il senso dell’idioma. Ciò l’accosta a un modus operandi di matrice concettuale, soprattutto interessata allo studio di giochi di parole quali tecniche di non-sense utilizzati nell’arte al fine di sviscerare l’essenza stessa dell’oggetto arte. Così molti dei lavori in mostra, tutti gli Untitled, giocano su questi aspetti, anche in modo ironico, come ad esempio in Artis interpret the world and then we interpret the artists del 2012; dove la Huws mette deliberatamente lo spettatore nella condizione di interrogarsi, non solo sul significato dell’oggetto d’arte, ma ancora una volta sul ruolo dell’artista. Maria Letizia Paiato

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GAM/Torino - MAXXI/Roma - MADRE/Napoli

ETTORE SPALLETTI

S

e c’è un artista sul cui lavoro sarebbe vano provarsi ad applicare delle etichette stllistico-ideologiche precostituite questi è Ettore Spalletti Chi, ad esempio, fosse tentato di definirlo minimalista per via della sua tendenza a servirsi di forme geometriche elementari sarebbe subito contraddetto dal fatto che tali forme non vogliono in nessun modo presentarcisi come equivalenti neutri di una costruzione mentale sintatticamente orientata verso l’elementare ed il prevedibile, ma sono piuttosto dotate ciascuna di una sua sicura personalità individuata dal rapporto forma-colore-materia. Chi invece, volesse considerarlo un pittore di stretta osservanza analitica, pensando alle grandi superfici monocrome che egli spesso e volentieri appende alle pareti dei luoghi dove espone, dovrebbe immediatamente rimangiarsi la proposta a causa dell’evidente ruolo che in queste opere assumono fattori di tutt’altra ascendenza come il rapporto tra il tipo di luce selezionato e il dato naturalistlco-ambientale o l’emergere quasi impalpabile, ma comunque ricercatamente concreto, di raffinate valenze tattili e gestuali. Al limite nel caso di Spalletti è persino difficile stabilire se siamo di fronte ad un pittore o ad uno scultore. Le sue forme tridimensionali, infatti, non sono colorate, ma sostanziate di colore, mentre i suoi dipinti hanno innegabili valenze plastiche come l’orientamento rispetto al piano della parete, la varia sagomatura dei bordi e il rilievo coloristico dato allo spessore del supporto. Né le cose cambiano introducendo categorie di riferimento come quelle di installazione o di environement, poiché sempre irrinunciabile rimane, per una corretta lettura del lavoro, il soffermarsi da parte del fruitore sulla plasticità delle forme e l’intensità della coloritura. Una modalità di ascolto partecipativo del manufatto che ci ricollega alla grande tradizione rinascimentale italiana ripensata alla luce dei suoi esordi fondativi tardo quattrocenteschi con la loro illuminazione ferma e la loro solida costruzione ancora non tocca dalle estenuate meditazioni simbolico letterarie della generazione successiva esoterica e neoplatonica. La cosa più sorprendente, però, è il fatto che questa sorta di imprendibilità, di difficoltà a circoscrivere e classiffcare la ricerca del nostro artista non si basa affatto sulla discontinuità e il mutamento, ma, al contrario, ha come suo punto fermo, come sua base d’appoggio, teorica ed esistenziale ad un tempo, una costanza di poetica tra le più tenaci e convincenti dell’intera scena artistica nazionale ed ➥ segue a pag. 29

Ettore Spalletti, Veduta dello studio, 2013 Foto Werner J. Hannappel

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Ritratto di Ettore Spalletti, foto Azzurra Ricci


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

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Ettore Spalletti, Movimento trattenuto, 2001. Impasto di colore su marmo bianco Sivec, sedici elementi 110 x 15,5 x 17,5 cm ciascuno. Fotografia: Mario Di Paolo Ettore Spalletti, Contatto, 1976. Pigmento di colore e cristallo, 300 x 200 cm. Fotografia: Werner J. Hannappel

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attivitĂ espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Ettore Spalletti, Presenza stanza, 1978. Impasto di colore su tavola, 270 x 180 x 3 cm. Fotografia: Paolo Pellion Ettore Spalletti, Quartetto indivisibile, 1992. Impasto di colore su tavola, foglia oro, quattro elementi 240 x 120 x 4 cm ciascuno. Fotografia: Werner J. Hannappel. Nella doppia pagina successiva: Ettore Spalletti, Sala delle feste 1998. MusĂŠe de Strasbourg, Strasburgo, 1998. Foto: Attilio Maranzano

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

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Ettore Spalletti, Stanza, orizzonte 2010. Foto: Mario Di Paolo.

Ettore Spalletti, Dentro l’acqua. Napoli 2011 impasto di colore su tavola, pasta oro argento, due elementi 280 x 140 x 4 cm ciascuno, staffe 15-25/25-15 cm. fotografia: Mario Di Paolo

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attivitĂ  espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Ettore Spalletti, Stanza bianca 1993. Impasto di colore su tavola, foglia oro, tre elementi 150 x 150 x 3 cm ciascuno, staffe 25/15 cm. Fotografia: Mario Di Paolo

➦ prosegue da pag. 22 internazionale dei nostri giorni. Anche qui, tuttavia, sbaglierebbe chi pensasse ad un comportamento autocostrittivo, ad una serie di vincoli formali ed operativi stabiliti in partenza e testardamente mantenuti in omaggio ad una formula astrattamente ideologica. Niente di tutto questo, Spalletti riesce a fare cose di volta in volta diverse pur proseguendo sempre nella stessa direzione semplicemente perché non tende ad una situazione di equilibrio ideale ma parte da una situazione di equilibrio reale posta in essere e verificata passo dopo passo con estrema attenzione. La cosa diviene particolarmente evidente nella ampia personale allestita nei locali del MAXXI a Roma, quale contributo di questa istituzione alla grande rassegna che ben tre primari musei italiani hanno voluto dedicare all’artista abruzzese – gli altri due sono il MADRE di Napoli e la GAM di Torino – una mostra sapientemente calibrata in cui tutti gli elementi caratterizzanti e qualificanti del suo modo di operare, la morbida delicatezza delle tinte rosa, celeste, grigio (e loro combinazioni e declinazioni), la preziosa semplicità dei materiali (legno sagomato, alabastro, foglia d’oro, impasto a valenza pulviscolare dei pigmenti), nonché la sottile fermezza del dato progettuale (che non è mai più mentale di quanto non sia concreto), sembrano agitate da un soffio costante e leggero che non scompagina nulla e non crea imbarazzi, ma genera piuttosto dialogo alzando il tono del discorso e aumentandone la verità di articolazione con un moto ad un tempo cosi spontaneo e così sicuro da far sì che lo stesso spettatore provveda da sé a regolare in crescendo anche la definitezza delle proprie domande e l’ascolto di ogni possibile risposta.

O forse sarebbe meglio dire di una serie concatenata di risposte che in occasione dell’esposizione romana Spalletti ha voluto spingere oltre i confini fin qui praticati dalla sua ricerca, annettendosi anche il territorio dell’architettura grazie all’installazione centrale che da il nome all’intera mostra, una camera quadrangolare non banalmente approntata per accogliere un insieme di pannelli dipinti di bianco, ma da quegli stessi pannelli costruita con l’apporto di tutti i fattori costitutivi dell’opera Spallettiana convogliati verso uno spazio praticabile unitario sull’onda di un innalzamento finora mai prima tentato del grado di luminosità delle superfici. Naturalmente ciò che forse un po’ maldestramente abbiamo chiamato “annessione” dell’Architetura, era una sorta di mossa, in qualche modo, annunciata ed attesa un po’ da tutti. Forse, a pensarci bene, annunciata sin da quando Spalletti realizzò l’azione immortalata dalla fotografia di Giorgio Colombo che da il via al percorso dell’attuale esposizione. Vi si vede Spalletti che spolvera accuratamente i calchi in gesso colorato con cui ha sostituito due lastre del marciapiede dinnanzi all’entrata della galleria Pieroni di Pescara che nel 1976 ospitava una sua storica mostra. Con le mani e con la carta vetrata l’artista ogni giorno toglieva via un primo strato esterno di colore, rosa o celeste, sporcato dagli agenti esterni restituendo alle lastre la loro omogeneità e purezza. La pittura, in altre parole, sembrava voler dire Spalletti sin da allora, non scende a compromessi con il mondo ma più semplicemente comincia a sostituirsi ad esso, a costruirlo a propria immagine e somiglianza, a partire dalla materia stessa di cui è costituita. Paolo Balmas

Ettore Spalletti, Stanza, rosso porpora 2010. Foto: Mario Di Paolo

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(da sinistra a destra) Rodolfo Aricò, Fuori posto, 1990. Acrilico su tela 200x300 cm. Bruno Querci, Acrilico su tela, 190x450 cm.

(da sinistra a destra) GĂźnter Umberg, Territorium 25, 2014, 2014; Ohne Titel, 1998 pigmento e resina su legno 56,5x31,5 cm; Ohne Titel, 2006/2007 Pigmento e resina su legno 48x45,5 cm; Ohne Titel, 2007/2008 Pigmento e resina su legno 39x 36,5 cm; Ohne Titel, 2009 Pigmento e resina su legno 30,5x 27,5 cm; Ohne Titel, 2010 Pigmento e resina su legno 31x18 cm; Ohne Titel, 2010 Pigmento e resina su legno 31x18 cm; Ohne Titel, 2007/2008 Pigmento e resina su legno 44,5x20,5 cm; Ohne Titel, 2008 Pigmento e resina su legno 47,5x37 cm; Ohne Titel, 2004 Pigmento e resina su legno 43x39,5 cm Carlo Ciussi, XXXVII 1987 Olio e tecnica mista su tela 250x300 cm. Courtesy A arte Invernizzi, Milano Foto Bruno Bani, Milano

A arte Invernizzi/Milano

L’occhio musicale

D

ue temi e undici artisti si alternano nello spazio della galleria A arte Invernizzi, a Milano, per una mostra che indaga legami, suggestioni, influenze, affinità e dialoghi tra arte visiva e musica. Ne L’occhio musicale, a cura del pianista e musicologo Alfonso Alberti, l’attenzione si sofferma su tempo e armonia. Tempo da ritrarre, che è parametro della musica e armonia da cercare, che è regola, assonanza e dissonanza di elementi. Nella sala al piano superiore della galleria si trovano le opere che esplorano il tema del tempo. Tempo inteso come ritmo, impronta e istante, monocromi e singolarità, tempo come gesto e segno. Un tempo che si manifesta attraverso elementi singoli che vengono ripetuti per creare scritture e partiture ritmiche. Nella seconda sala, al piano inferiore, si approfondisce invece il tema dell’armonia. Armonia che ha leggi e regole severe, matematiche per la musica, e che, invece, nella pittura sono quasi assenti, di conseguenza che cosa possa essere definito cromaticamente bello, che cosa invece ardore estatico e luminosità dei colori e che cosa sia infine armonico, resta appannaggio della sensazione soggettiva. Il percorso espositivo comincia con tempo e ritmo. Nella sua opera, Niele Toroni, (Impronte di pennello n. 50 a intervallo di 30 cm, 2008) lascia sulla tela impronte seguendo un ritmo regolare, costante, 4:3:4:3, battito del cuore, respiro. Lascia segni precisi apparentemente identici ma ognuno in realtà con caratteristiche differenti che scandiscono contemporaneamente il tempo del creare e quello dell’esserci. Una progressione geometrica, a intervalli regolari, una successione ritmica del tempo che scorre. Ritmo semplice e regolare. L’opera di Riccardo De Marchi (Senza titolo, 2012) è invece una scrittura, una traccia, diventa una partitura musicale fatta con segni - punti, buchi, pause, elementi crittografici - che si ripetono a intervalli e sequenze diverse, ma privo di un codice di decrittazione e perciò diventa 40 - segno 248 | APR/MAG 2014

pura presenza di segni nel tempo. Un tempo nudo. Lo sguardo è poi rapito dalla lunga tela di Dadamaino (Sein und Zeit, 2000) qui l’artista ripete un unico gesto, un breve tratto, piccoli segni che creano una danza tra pieni e vuoti tra differenti spessori e distanze, tratti leggeri e rapidi, che si aggregano e si disperdono a creare un continuum, sviluppandosi in modo sinuoso e spesso vorticoso. Un lungo rotolo appoggiato a terra a raccontare istanti che sono porzioni di un’unica grande mappa. Una sinfonia che non ha ne inizio ne fine. Nell’opera di Gianni Colombo (Spazio curvo, 1992), il tempo diventa la condizione stessa dell’esistere: la sua struttura ovale in PVC, in continuo movimento in una stanza buia e appena illuminata con una luce ultravioletta, analizza il farsi e disfarsi delle forme, il loro modificarsi, la loro inafferrabilità. L’opera di François Morellet (4 à 4 n. 7, 2007), è l’altra opera, insieme a quella di Colombo, che si allontana dalla bidimensionalità della pittura per suggerire un’altro modo di raccontare e indagare il tempo e il ritmo. Utilizza forme semplici, neon bianco su tela, composizioni elementari - giustapposizioni, sovrapposizioni, interferenze casuali, frammentazioni - coinvolte però da rapporti matematici senza i quali non si ha né oscillazione né evento sonoro. Il lavoro di Mario Nigro (L’incontro 3, 1972) che è anche l’opera che accompagna alla seconda sezione della mostra, è un succedersi di gesti e di istanti, sequenze che seguono la linea diagonale della tela, che richiamano la struttura musicale, una frequenza ritmica e uso del colore alternato che ricorda un’armonia. Si prosegue quindi con armonia e colore. L’opera di Carlo Ciussi (XXXVII, 1987) è pittura geometrica, forme pure e rigorose, modularità, ma c’è un elemento discordante, luminose bande trasversali, verticali e curvilinee dipinte a olio che poggiano sulla tempera del fondo. Fluidità e energia. Un discorso fatto di segni e colore, che nel suo continuo mutare determina significati differenti. Quelli di Günter Umberg (Territorium 25, 2014, 2014) sono spazi, corpi e entità di varie misure, piccoli e grandi, monocromi materici che spaziano dal verde al nero, al rosso e ai blu, ottenuti con pigmenti e resine. Colori associati tra loro in


attivitĂ  espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

monocroma. Nel lavoro di Bruno Querci (Formaspazio, 1998), infine, la ricerca armonica si riduce alla presenza di due soli colori: il bianco e il nero, dalle cui assonanze e dissonanze nascono spazi da percorrere con occhio musicale. Luce e materia. E questa può essere anche l’opera che chiude il percorso, che riporta l’armonia, il tempo e il ritmo in un unico elemento che è quello musicale. Dove musica non è solo quella dell’ascolto ma anche quella dello sguardo. Simona Olivieri

(da sinistra a destra) François Morellet, 4à4n°7, 2007 Acrilico su tela su tavola e neon bianco 145x180 cm; Niele Toroni, Impronte di pennello n. 50 a intervalli di 30 cm, 2008 Tela cerata 220x110 cm Courtesy A arte Invernizzi, Milano Foto Bruno Bani, Milano

(da sinistra a destra) David Tremlett, Per l’occhio, per l’orecchio, 2014 Pastello 395x345x150 cm; Bruno Querci, Formaspazio, 1998 Acrilico su tela 190x450 cm Courtesy A arte Invernizzi, Milano Foto Bruno Bani, Milano

composizioni dove il contrasto cromatico si crea tra una superficie e l’altra, dove la dialettica armonica agisce tra un brano e l’altro, tra un colore e l’altro. Nell’opera di David Tremlett (Per l’occhio, per l’orecchio, 2014) la creatività armonica si connota invece attraverso il rapporto tra le mani dell’artista, il pigmento colorato e la superficie, la parete sulla quale è direttamente dipinta l’opera. Il wall drawing è diventato lo strumento caratteristico dell’azione creativa di Tremlett, pastelli colorati strofinati a mano direttamente sul muro, con la volontà di lasciare un segno, un contatto, una traccia del suo pensiero, un rapporto specifico e diretto con il luogo. Fusione tra spazio interno e spazio esterno. In Rodolfo Aricò (Fuori posto, 1990) l’elemento di dissonanza è la stratificazione del colore e delle superfici, un solco riempito di colore che contrasta con quello della superficie quasi Gianni Colombo, Spazio curvo, 1992 PVC e lampada ultravioletta dimensione variabile. Courtesy A arte Invernizzi, Milano Foto Bruno Bani, Milano

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A.A.M. Architettura Arte Moderna Extramoenia/www.ffmaam.it

Carlo Aymonino un percorso di ricerca attraverso gli Archivi e le Collezioni Nel Segno di Carlo Arte, Architettura e Città di Vincenzo D’Alba e Francesco Maggiore

A.

A.M. Architettura Arte Moderna avvia un nuovo progetto di ricerca rivolto a indagare l’opera di artisti e architetti attraverso lo studio sistematico degli Archivi e delle Collezioni pubbliche e private internazionali. Questa iniziativa “Archivi del Moderno e del Contemporaneo” s’inserisce all’interno del Progetto T.E.S.I. Tesi Europee Sperimentali Interuniversitarie, programma culturale ideato da Francesco Moschini, con l’obiettivo di riformulare, in ambito accademico, un dialogo critico tra differenti ambiti disciplinari attraverso argomenti di ricerca pluriennali, condivisi e contraddistinti da un valore progettuale, umanistico e scientifico. In continuità con questa vocazione culturale tesa all’esaltazione del processo e all’autorialità dell’opera, si definiscono i “Progetti interminabili”, iniziative pluriennali dove si riconosce il desiderio di costituire un corpus organico di lavori eseguiti in tempi e in luoghi differenti ma legati da un medesimo tema. Questo permette una storicizzazione essenziale per guardare criticamente opere e autori. In questo filone di ricerca s’inseriscono numerose attività in fieri: “Progetti d’Opera”, “Duetti”, “Laboratori di Progettazione”, “Duetti/Duelli. Partite a scacchi sul disegno”, “Codice Atlantico

di Leonardo da Vinci”. “Archivi del Moderno e del Contemporaneo” prende il via con un Progetto di Ricerca, che A.A.M. Architettura Arte Moderna promuove in collaborazione con il Politecnico di Bari e l’Università degli Studi della Basilicata, dedicato all’architetto Carlo Aymonino (Roma 1926-2010). La ricerca è condotta attraverso lo studio e l’analisi dei documenti presenti nei principali Fondi archivistici dedicati a Carlo Aymonino. La ricerca ha già interessato il Fondo Carlo Aymonino di A.A.M Architettura Arte Moderna, del Centre Pompidou e dell’Accademia Nazionale di San Luca, e intende coinvolgere il CSAC Centro Studi e Archivio della Comunicazione di Parma, lo IUAV, Istituto Universitario di Architettura di Venezia, il MAXXI Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo di Roma e l’Università di Tor Vergata di Roma dove è conservata la Biblioteca personale di Aymonino. Un lavoro archivistico inedito che permette di ricostruire analiticamente le tappe culturali e professionali di Carlo Aymonino, caso emblematico di architetto che ha indagato il rapporto tra città, architettura e rappresentazione. Ripercorrere le tappe e le vicende che hanno segnato la storia personale e professionale di Carlo Aymonino rende possibile un “memoriale” nel panorama architettonico e culturale italiano: l’apprendistato artistico romano; il periodo neorealista con la ideologia della periferia e dei grandi intensivi; la scuola di Venezia con il rigore muratoriano e il binomio morfologia / tipologia; l’insegnamento, la didattica e la riflessione teorica sull’architettura; l’origine e fine della città moderna; il ruolo di Carlo Aymonino nel dibattitto sulla città; l’architettura per “frammenti”; le corrispondenze tra Carlo Aymonino e Aldo Rossi; il disegno dell’architettura; la dimensione scultorea dell’architettura; l’esperienza dell’Assessorato al Centro Storico di Roma; la stratificazione del moderno; la stagione delle grandi utopie urbane, dal progetto per il bacino marciano di Venezia a Berlino; l’azzardo dell’eresia nei luoghi simbolici della città, da Matera ad Avellino; la cultura inter-

Carlo Aymonino (con Costantino Dardi), Ospedale psichiatrico a Mirano (Venezia), 1967, matita su carta da lucido piĂš retino, 66,5x122,5 cm. Courtesy: Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva A.A.M. Architettura Arte Moderna

Carlo Aymonino, Ingresso nell’edificio A nel quartiere Gallaratese, Milano, firma in basso a dx “Carlo X/72”, matita, inchiostro a spirito su carta lucida, 70x50 cm. Courtesy: Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva A.A.M. Architettura Arte Moderna

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Carlo Aymonino, GallarateseA2 (Lenin, Fornarina, un compagno), firma in basso a sx “Carlo 72/80”, matita, inchiostro, inchiostro a spirito su carta lucida, 70x50 cm. Courtesy: Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva A.A.M. Architettura Arte Moderna


progetti espositivi ARCHIVI E DOCUMENTAZIONE

nazionale con le costanti frequentazioni elettive con Ungers, Eisenman e Stirling. Aymonino “pensa in disegni” e la sua azione grafica è rivolta a far affiorare non solo l’architettura ma anche i gesti quotidiani. Dai taccuini, dai fogli e dalle tavole di progetto si intuisce come l’interesse per l’arte, l’architettura, la città e la storia costituisca non solo un presupposto autobiografico ma anche una condizione criticamente legata ad una privilegiata finalità progettuale. Carlo Aymonino fa parte di quella ristretta cerchia di architetti che, attraverso il disegno, hanno contribuito a restituire dimensione poetica al progetto di architettura. Non a caso egli rientra a pieno titolo tra i protagonisti della cosiddetta “architettura disegnata”. In quegli anni, mentre Manfredo Tafuri in “Progetto e Utopia” invita gli architetti a riporre i propri progetti nel cassetto, Francesco Moschini con A.A.M. Architettura Arte Moderna tenta antagonisticamente di restituire dignità al disegno e alla teoria architettonica fondando un vero e proprio corpus disciplinare che raccoglie le esperienze grafiche più visionarie degli architetti come momenti inediti della processualità progettuale.

In Aymonino la vocazione al disegno è presente già dagli anni della sua formazione, avviata in campo artistico attraverso le frequentazioni di Mario Mafai, Toti Scialoja, Roberto Melli e, soprattutto, di Renato Guttuso di cui segue gli insegnamenti assieme ad Achille Perilli e Piero Dorazio. Per Aymonino sono, inoltre, determinanti le esperienze formative che seguono il precoce apprendistato guttusiano e l’educazione all’architettura ricevuta dallo zio Marcello Piacentini; al di là di queste salde premesse, il suo percorso professionale trova una chiara conferma nei fortunati esordi neorealisti, tra il ’49 e il ’54, con Ludovico Quaroni e Mario Ridolfi, nell’intervento per il quartiere Tiburtino a Roma. Alla fine degli anni Quaranta e all’inizio degli anni Cinquanta, nel periodo di formazione di Aymonino, l’uso della storia diventa il presupposto per una ricerca d’identità, ma è anche, e soprattutto, il risultato di una necessaria ideologia per la “ricostruzione” post-bellica. In questo momento, infatti, si sovrappongono questioni divergenti ma che, spesso, nascondono origini comuni. Le tesi di Zdanov su arte e letteratura e, sul fronte opposto, la rivista “Il Politecnico”, la polemica di Togliatti con Vittorini, le pubblicazioni di Gramsci e di Lukàcs, il dibattito sul neorealismo, la teoria della “nuova oggettività” e il manifesto dell’architettura organica di Bruno Zevi sono tra le più importanti espressioni di una complessa vivacità culturale. Il rapporto tra politica e cultura, quindi l’interesse verso un apparato teorico e ideologico è sicuramente la traccia più evidente di questo arco temporale: ne consegue la formazione di un architetto che Gregotti definisce “con la penna in mano”. Carlo Aymonino risponde ai quesiti storicistici e postmodernisti adottando una memoria che non vuole essere solo contemplazione, ma anche valore pratico. Per questo, le sue forme geometriche non simboleggiano più gli etimi di una sacralità interrotta, come nell’opera dell’architetto e amico Aldo Rossi, ma attingono al passato, divenendo “archeologia del presente”. La sintesi di tutti questi insegnamenti e ideologie, di dibattiti e ribaltamenti teorici, la si può ritrovare in un progetto a scala urbana che diventa un manifesto, una visione: il complesso “Monte Amiata” al Gallaratese a Milano progettato tra il 1967 e il 1970. In questo progetto Aymonino con Aldo Rossi realizza un esemplare “pezzo di città” che risponde all’esigenza dell’abitare di 2400 persone. Questa opera, ampiamente indagata e documentata dalla storia dell’architettura, rappresenta una sintesi formale e operativa delle teorie avanzate sulla formazione della città per parti compiute. All’esperienza del Gallaratese segue la realizzazione a Pesaro, tra il 1970 e il 1984, del Campus scolastico (completato per aggregazioni successive assieme al Liceo Scientifico Marconi, all’Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri e al Centro Civico). In questo caso, l’idea di unità urbana si estende a quella di “progetto architettonico unitario”. In seguito, Aymonino interviene a Ferrara, tra il 1977 e il 1984, con un’opera inserita in pieno centro storico a completamento di un luogo urbano e di un edificio che, nel tempo, aveva subito diverse mutazioni d’uso, da convento a prigione, da scuola a caserma.

Carlo Aymonino, Pagine estratte dal Quaderno di appunti 1975-1978, 225 fogli, 31x23 cm. Courtesy: Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva A.A.M. Architettura Arte Moderna

Carlo Aymonino, Pagine estratte dal Quaderno di disegni 1968-1972, Quaderno autografo rilegato da Piazzesi Venezia. 122 pagine, 25,7x18 cm. Courtesy: Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva A.A.M. Architettura Arte Moderna

Carlo Aymonino, Senza titolo, dedica “A Francesco Moschini da Carlo con affetto 2002”. Courtesy: Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva A.A.M. Architettura Arte Moderna

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Carlo Aymonino, Senza titolo, 1944, Inchiostro su carta, 26,5x18,5 cm. Courtesy: Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva A.A.M. Architettura Arte Moderna In basso: Senza titolo, 07-1944, Tecnica mista su carta, 33x22 cm. Courtesy: Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva A.A.M. Architettura Arte Moderna

La prima metà degli anni Ottanta è segnata in gran parte dal duplice coinvolgimento: l’impegno politico per il Comune di Roma da un lato, l’attività progettuale dall’altro. In particolare, sulla capitale Carlo Aymonino investe grandi sforzi per l’elaborazione di progetti tesi alla rivitalizzazione dell’intera città; tra questi prioritario diviene l’avvio di una vasta operazione sull’area dei Fori Imperiali. Questo atteggiamento di ascolto nei confronti della storia viene tradotto con una lingua “personale” in grado di introdurre anche la più importante dimensione simbolica. Infatti, dalla prima narrazione pittorico-neo-realista del quartiere Tiburtino (1949-1954), che la critica e autocritica quaroniana definisce ironicamente “il paese dei barocchi”, ma anche punto di riflessione sulla tradizione e sull’urbanistica in Italia, Aymonino giunge, dopo altri e diversi lavori, al progetto per il Colosso. Non è più la capacità di narrazione o l’intrattenimento nel lessico popolare ad occupare un posto significativo ma è, al contrario, l’idea della centralità, quindi, del monumento a identificarsi, anche paradossalmente, come momento utile nella costruzione della città. Un progetto ai confini dell’architettura che, nato da una precisa intenzione filologica, si richiama al significato e al potere della rappresentanza, traducendosi in una romanità non retorica a dimostrazione di una possibile lettura del passato. Questo progetto indica, senza mezzi termini, la possibilità d’intervento nei centri storici. La sua presenza mira ad una “risacralizzazione” dello spazio, riconducendo le fila di un discorso preesistente che vedeva l’intrecciarsi di tre emergenze monumentali: il Colosseo, l’Arco di Costantino, il Tempio di Venere, con una quarta, la statua di Nerone, andata distrutta. 44 - segno 248 | APR/MAG 2014


progetti espositivi ARCHIVI E DOCUMENTAZIONE

Carlo Aymonino, Autoritratto provato dalla vita, 1983-84, olio su tela, 50,5x40,5 cm. Courtesy: Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva A.A.M. Architettura Arte Moderna In basso: Senza titolo, 10-1944, Inchiostro su carta, 33x23 cm. Courtesy: Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva A.A.M. Architettura Arte Moderna

Proprio al posto di quest’ultima, Aymonino prevede la sistemazione del Colosso che, ridefinito nelle medesime dimensioni della statua originaria, ha la funzione di ricucire nuovamente questa porzione di spazio dei Fori Imperiali. Questo suo rapporto con la scultura Carlo Aymonino lo ha più volte affrontato non solo ricorrendo all’inserimento di gruppi statuari all’interno delle proprie opere, ma anche ascrivendo all’architettura stessa una dimensione scultorea. L’analogia con la scultura è evidente anche nei progetti per il teatro di Avellino nel 1987 e per la sistemazione dell’area dell’ex Mulino Andrisani a Matera nel 1988; infatti, nell’idea dello scavo, che di quest’ultimo ne caratterizza il progetto, l’architetto romano non ha semplicemente inseguito una scelta formale ma, consacrando proprio questa vocazione dell’architettura a farsi scultura, è ricorso all’idea michelangiolesca della sottrazione. Nell’interazione tra nuovo e antico, tra storia e progetto, tra “arte, architettura e città” si definisce infine il più recente intervento di Aymonino per la nuova ala museale del “Giardino Romano” nel Palazzo dei Conservatori, destinato tra l’altro a preservare i resti del muro di fondazione del Tempio di Giove Capitolino e alla sistemazione definitiva della statua equestre di Marco Aurelio. La nuova sala espositiva, necessaria al riordino delle collezioni dei Musei Capitolini, si caratterizza nella soluzione di copertura, pensata completamente vetrata “in modo da preservare la natura di esterno di questo spazio”; quindi, il progetto si delinea come una vera e propria piazza segnata nella sottile complicazione di irregolarità e coerenze, di volumetrie e spazialità. APR/MAG 2014 | 248 segno - 45


Carlo Aymonino, Disegni per il Gallaratese...settembre 1968, firma in centro a dx “Carlo Edificio A1 sett ‘68”, tecnica mista: matita, pennarelli colorati su carta lucida, 56x71 cm. Courtesy: Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva A.A.M. Architettura Arte Moderna

Nelle intenzioni progettuali, ancor più che nella definitiva realizzazione, i riferimenti alla “piazza madre” del Campidoglio sono espliciti. L’interesse di Carlo Aymonino verso i temi della città, interpretati sono evidenti nelle sue pubblicazioni come “La città di Padova” del 1970, “Origine e sviluppo della città moderna” del 1971, “Il significato delle città” del 1975 e “Lo studio dei fenomeni urbani” del 1977. La lettura delle problematiche contemporanee della città viene effettuata tenendo presente l’eredità storica, soprattutto di stampo romano e barocco. La presa di coscienza di Aymonino nei confronti del rapporto tra morfologia e tipologia è direttamente collegata ad un importante saggio,

pubblicato da Alberto Samonà nel 1959, dal titolo “L’urbanistica e l’avvenire delle città”. Dal bisogno di un riferimento morfologico deriva la definizione di parte di città; definizione non rigorosa né generalizzabile. Solo con questa premessa avviene il contatto tra analisi urbana e la progettazione architettonica. Queste sono anche le intenzioni comuni per la comprensione di due opere divergenti come il complesso residenziale al Gallaratese e il Campus di Pesaro. L’inestricabile compattezza delle linee compositive, dei percorsi che diventano strutture, delle volumetrie incernierate proprie del Gallaratese si trasformano, nell’opera di Pesaro peraltro definita da una lunga gestazione, in geometrie rigorose, in rego-

Carlo Aymonino, Musei Capitolini. La Sala del Marco Aurelio in Campidoglio. Copertura e sistemazione del Giardino Romano dei Musei Capitolini, Roma 1999, firma e dedica in basso a dx “ x Francesco da Carlo 9.VII.1999”, inchiostro su carta da lucido, 72x102 cm. Courtesy: Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva A.A.M. Architettura Arte Moderna

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progetti espositivi ARCHIVI E DOCUMENTAZIONE

Carlo Aymonino, Il centro civico nella tempesta 1, Studi per il Campus di Pesaro. firma a lato dx “Carlo IX/1978“, inchiostro, tempera e pennarelli su carta, 70x50 cm. Courtesy: Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva A.A.M. Architettura Arte Moderna

Carlo Aymonino e Aldo Rossi, A Francesco, Carlo e Aldo nella stessa Roma, 4 luglio 1986, penna, inchiostro a spirito su carta, 29,7x21 cm. Courtesy: Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva A.A.M. Architettura Arte Moderna

lari prospetti e in metafisici percorsi. Nelle numerose tavole di progetto si possono osservare disegni dove è subito evidente un rapporto implicito e dichiarato tra l’architettura ed il suggestivo contesto figurativo che la abita. La presenza umana si trasforma, mantegnescamente, in statuaria ricreando sia quel romano populus fictus, di cui parlava il Gaurico, sia quel paradosso tra le vorticose e scenografiche figure e la loro stessa fisicità. Ecco, quindi, che l’attenzione nei confronti della scultura contraddistingue gran parte della sua produzione grafica, diviene anche occasione per introdurre il mondo dell’architettura attraverso un’iconografia ad essa strettamente legata e, per questo, indispensabile per una visione, contemporaneamente, tradizionale ed inedita. Nello spazio architettonico una eclettica depurazione delle forme sembra astrarre ogni risultato dalla propria origine; per questo, la genealogia progettuale è al centro tra l’iconografia del Movimento Moderno e la muratoriana “invenzione della tradizione”. “Architetture che come frammenti puntellano altre rovine” (T.S. Eliot): qui sta ideologicamente l’incipit di Carlo Aymonino, qui si trova il nesso tra l’architettura e la storia. Spesso, il ritratto della statuaria si trasforma, infatti, edonisticamente nel ritratto di muse private, riferendo, mediante tale distorsione, dei propri viaggi, incontri e studi. Nulla può apparire antitetico, questi disegni, che incrociano trasversalmente la disciplina architettonica, conferiscono una tanto innegabile quanto velata unità della ricerca progettuale. Disegni, schizzi, appunti, generati da una specie di bisogno primario, da un’esigenza infantile di gioco, diventano momenti significanti e preziosi che raccontano della necessità dell’architetto d’immedesimarsi con la realtà per trascendere nei luoghi della conoscenza, del desiderio e della figurazione. Questa iniziativa riafferma il sodalizio espositivo e editoriale avviato, tra A.A.M. Architettura Arte Moderna e l’architetto, già nel 1980 con la personale “Carlo Aymonino. Alcuni disegni per l’America” e proseguito con successive collettive tra cui si ricordano: “Un’idea di teatro” nello stesso anno, “Architetture incisive. Incisioni d’Architettura” nel 1982, “Lo sguardo indiscreto” nel 1983, “Architettura versus arte” nel ’93 e “Frammenti berlinesi” nel 2004. A queste mostre si sono spesso affiancate conferenze e dibattiti che hanno contribuito, come nel caso delle “Lezioni di architettura”, a cui Aymonino partecipa tra il 1985 e il 1988, a creare un momento di riflessione parallelo a quello progettuale. Questo sodalizio ha sorretto inoltre diverse collaborazioni e consulenze, fra le altre: l’iniziativa del “Laboratorio di progettazione” iniziato nel 1983 congiuntamente all’esperienza di Aymonino in qualità di assessore per gli Interventi sul Centro Storico del Comune di Roma. Con questa operazione A.A.M. Architettura Arte Moderna, intende riunificate nel “Nel Segno di Carlo” le numerose iniziative svolte attorno alla figura di questo importante architetto di cui proprio A.A.M. Architettura Arte Moderna custodisce una tra le

collezioni più importanti e prestigiose: un corpus di disegni e di progetti di medio e grande formato unitamente a olii, lettere e numerosi taccuini e quaderni di appunti. Un quadro complessivo del lavoro di Carlo Aymonino sarà offerto nel volume, che A.A.M. Architettura Arte Moderna, in collaborazione con Enti pubblici e Istituzioni private sta realizzando sotto la direzione scientifica e culturale di Francesco Moschini: un catalogo complessivo dell’Opera di Aymonino che raccoglie numerosi saggi e testimonianze oltre all’intero corpus di disegni e di progetti; un volume che intende rileggere l’intera vicenda aymoniniana, documentandola all’interno di una evoluzione storica, culturale e metodologica secondo il privilegiato percorso del disegno. n Carlo Aymonino, Pagine estratte dal Quaderno di disegni 1968-1972, Quaderno autografo rilegato da Piazzesi Venezia 122 pagine, 25,7x18 cm. Courtesy: Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva A.A.M. Architettura Arte Moderna

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Blue and Joy

Cosmologie, Atterraggi & Extramosaici di Chiara Guidi

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gni intervento, ogni allestimento, ogni installazione dei Blue and Joy è sempre l’affermazione di un mondo, a cui corrisponde la loro non onirica, ma visionaria cosmologia attrezzata di materiali metallici, di caleidoscopici pantoni, di tecniche extrabizantine per i mosaici, che viene forgiata nella loro Pizzeria berlinese. Qui, in questo loro spazio, un

Blue and Joy, Dear Future, lamiera verniciata, 2012

grande studio, che è un continuo laboratorio, una factory dove ogni idea viene progettata, sperimentata, assemblata, prodotta. L’attività quotidiana di confrontarsi, di prendere nota, di decretare, di connettersi, di riflettere sul sistema dell’arte, di inviare post-it, è lo stesso svolgersi fra pennarelli, penne, e caratteri tipografici delle Carte- Allumini, dove con il sorriso del vivere, stendono “pensieri in libertà” e piccole filosofie quotidiane. I fogli sono talvolta accartocciati, ed hanno ancora le pieghe su pagine bianche, a righe, a quadretti dei quaderni e dei taccuini usati e, sono appesi come sei fossero salvati dal cestino o dalle tasche dei jeans, dopo essere stati nuovamente aperti e leggermente stirati. Nello stesso materiale sono i Paper Planes, in alluminio bianco o in un rainbow multicolors e che riproducono, in un gesto sem-

Blue and Joy, The Superficial Essence of a Deep Appearance. Installazione galleria Artra Milano. Olio su tela + alluminio verniciato, 2012

Blue and Joy, The Superficial Essence of a Deep Appearance. Installazione galleria Artra Milano. genn. febb. 2013

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attivitĂ  espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

plice e infantile, ma che ricorda tutta la noia scolastica, ovvero quella di piegare il foglio di carta, nelle interminabili ore di lezione. Realizzati come omaggio agli aereoplanini di Boetti, sono un origami con cui i Blue and Joy lanciano le loro avventure, sempre allegoriche, e che fanno atterrare negli spazi espositivi: proprio in quelli che vogliono evidenziare, cosi le pareti divengono un bersaglio e come stormi planano fra la loro sospensione e il loro essere impernati nella traiettoria prestabilita. I lavori dei Blue and Joy, sono sempre spalmati di quell’ironia diretta e fluida, si immergono nel codice della comunicazione per risultare sempre immediati e diretti, ammiccando istantaneamente come degli emoticons. Dalle monetine di rame, agli specchi, alle caramelle, o come le linguistiche capsule farmaceutiche, sono invece i materiali con cui realizzano i loro mosai-

ci extrabizantini. Le cromatiche capsule svuotate, sono divenute materiale d’elezione sia per le grandi installazioni, sia per i grandi pannelli musivi, per sottolineare il valore linguistico della “pillola”: nelle declinazione artistiche che ha avuto (da Hirst a General Idea) e per il suo significato allusivo che ha nel linguaggio contemporaneo, ma anche per i suoi significati e le sue modalità: infatti è di uso comune usarla per le piccole definizioni di grandi concetti e nozioni; oltre alla esponenziale divulgazione sociale dell’uso di pillole. Blue and Joy ci somministrano le loro simboliche pillole sia come grandi carpet non calpestabili, o come grandi arazzi tessuti di una punteggiatura che ha con se, altre domande, ma che non possiede nessun effetto collaterale e nessuna forma di controindicazione. n

Blue and Joy, Dear Design + Even the wind gets lost. Installazione Triennale di Milano dic.2013 /gen.2014. Alluminio e vernice, 2013 Blue and Joy, The Angle of God

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Andrew Gilbert, Andrew’s Glorious Army Crosses the Alps, 2013. Acrilico, acquerello e penna su carta, 100 x 70 cm.jpg

Studio d’Arte Raffaelli - Trento

ANDREW GILBERT

so modo in cui un bambino farebbe con i suoi soldatini-giocattolo. Pochi e precisi tratti di penna sono sufficienti a definire le sorti di un intero esercito, l’impatto visivo è assicurato dall’uso di acrilici molto brillanti, e da dettagli di oro volutamente retrò. Le sfumature, invece, sono rese ad acquerello, con effetti di trasparenza che lasciano indovinare la grana della carta, o, più raramente, della tela. Un’altra peculiarità del lavoro di Andrew Gilbert sta nel modo in cui le sue opere si possono accostare e allestire negli spazi espositivi. Diventa facile immaginare narrazioni ambientate in Sudan, in India o nell’Inghilterra di fine Ottocento, perché tra i luoghi della fantasia dell’artista si aggira sempre qualcosa di familiare, sia che rimandi a un momento storico “rivisitato”, sia che citi un mito cinematografico del passato, sia che ricrei la costa di una spiaggia inesplorata con una manciata di segatura. Andrew Gilbert in Italia? La prima mostra dei suoi lavori si tiene a Trento, presso lo Studio d’Arte Raffaelli: impressionato dal

Castello del Buonconsiglio, e soprattutto dagli affreschi che ne decorano le sale, ha realizzato per l’occasione un colossale disegno in cinque parti, riuscendo ad evocare con il suo stile, a tratti fumettistico, un’immaginaria conquista della città tridentina. Immancabili sono gli elefanti che attraversano le Alpi, come ai tempi di Annibale, immancabili sono le schiere di combattenti, visti nella loro esilarante stupidità come tanti piccoli uccelli gialli in uniforme rossa, e immancabili sono le tazzine fumanti di caffè, vero e proprio elisir dell’artista. Non è tutto. Andrew ha popolato gli ambienti di Palazzo Wolkenstein di sculture e installazioni realizzate con diversi materiali, caricature di ufficiali e di vodoo africani, mettendo in scena un teatro di personaggi de-mistificati che non manca della parola: i titoli, lunghissimi, delle opere, scritti direttamente a penna sulla carta, sono parte integrante del disegno, lo raccontano, e intavolano un dialogo creativo tra soggetto, artista e spettatore. Camilla Nacci

Andrew Gilbert, Josephine Baker please come back to life and kill all my Enemies - thank you, 2013. Acrilico, acquerello e penna su carta, 62 x 48 cm.jpg

Andrew Gilbert, Smash the Foreign Invaders - then and now, 2013. Acrilico- acquerello e penna su carta, 62 x 48 cm.jpg

osephine Baker accenna un passo di danza, una guardia militare si aggira J in un mercato parigino, la regina Vitto-

ria, trasformata in un grande broccolo, cavalca un elefante, mentre Napoleone, a dorso di cammello, sorvola la città di Omdurman: ciò che li accomuna è la devozione per Andrew, loro ideatore e immaginario imperatore di un mondo fatto di maschere africane, battaglie coloniali, esotici paesaggi. Appassionato fin dall’infanzia di storia militare, uniformi britanniche e truculente teste mozzate, con l’ironia dei film splatter, o con l’ingenuità dei colossal d’antan, Andrew Gilbert, giovane artista scozzese trapiantato a Berlino, è in grado di rievocare i più suggestivi episodi di guerra, schierando le proprie armate nello stesTerritorio Indeterminanto, Napoli, Caserta, Benevento, Roma

GIANNI DE TORA uesto disegno avrà un’importanza enorme per la pittura. “Q Rappresenta un quadrato nero, l’embrio-

ne di tutte le possibilità che nel loro sviluppo acquistano una forza sorprendente. É il progenitore del cubo e della sfera, e la sua dissociazione apporterà un contributo culturale fondamentale alla pittura [...]” - da una lettera di K. S. Malevic a Matyushin. Queste le profetiche parole di Malevic, le cui intuizioni e conclusioni costituiranno gli assiomi basici di successivi percorsi di conoscenza dal M.A.C. (Movimento Arte Concreta) del secondo dopoguerra al gruppo di Geometria e Ricerca della metà degli anni ‘70, di cui Gianni De Tora (Napoli 1941 -2007) fu cofondatore Gianni De Tora, Tra opera e ambiente, 1980 foto di fabio donato, copertina del libro di B.D’Amore 1981

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Gianni De Tora, Elementi all’origine, acqua aria terra fuoco, 1985 cm 100x300 acrilici su carta intelata-esposta Arezzo 1985, Castel dell’ovo Napoli 2009

ed animatore. Quello di Gianni De Tora (quarant’anni di ricerca omaggiati della retrospettiva, Territorio Indeterminato; antologica itinerante che attraversa tutta l’evoluzione introspettiva/estetica del maestro dagli anni ‘70 alle ultime produzioni - voluta da Stefania e Tiziazia De Tora, moglie e figlia dell’artista -, che inaugurata a Napoli il 3 ottobre 2013 negli spazi espositivi dell’Università Suor Orsola Benincasa, dopo gli intermezzi casertani e beneventani troverà conclusione a Roma il 19 marzo, nella galleria della biblioteca Angelica) è un percorso che ha inizio nella giovanile sperimentazione artistica di derivazione pop, alle cui icone di massa l’artista sostituisce, con sempre maggiore incisione scansioni

geometriche, che gradualmente stavano catalizzando la sua attenzione. Il matrimonio intellettivo e sensibile tra l’artista e l’astrattismo geometrico, strumento con il quale creare una geografia immaginaria del mondo - non pedestre sistema di decodificazione e destrutturazione della realtà -, si celebra intorno agli anni ‘70, quando De Tora, poco più che trentenne, riconosce nelle potenzialità dell’arte concreta, sorretta dalla geometria e dall’astrattismo, le capacità immaginifiche di uno strumento di interrogazione analitica del reale; il tutto in un momento storico - d’urgenza evolutiva - in cui non era possibile esimersi dal manifestare la propria adesione ideologica alle istanze di libertà e di pace che


attivitĂ  espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Raimondo Galeano, Finestra, cm90x115x16

Palazzo Reale/Castel dell’Ovo, Napoli

RAIMONDO GALEANO

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Napoli come l’ìinstallazione a Castel dell’Ovo, ispirata alla leggenda di Virgilio, secondo la quale il poeta latino nascose nelle segrete dell’edificio un “uovo” dalle proprietà magiche, capace di reggere l’intera Fortezza, ma che, se fosse stato rotto, avrebbe provocato non solo il crollo del castello, ma anche grandi catastrofi alla Città. Ad una delle domande fattegli dalla curatrice della rassegna, Manuela Valentini, durante la puntuale, esaustiva intervista pubblicata sul bel catalogo (edito per l’occasione), Galeano risponde: “fin dagli inizi della mia carriera il mio tentativo è stato quello di plasmare la luce per poter dipingere senza usare il colore. Col senno di poi posso dire che,

a partire dal 2000, sono arrivato ad ottenere degli ottimi risultati in questo senso, anche grazie al supporto della tecnologia che ultimamente ha ampliato parecchio la gamma di luce delle polveri fotoluminescenti”. Ed è proprio dovuto alle straordinarie capacità di questo “artista illuminato” di sfruttare la magia dei suoi esperimenti, per coinvolgere il pubblico, che, ad ogni sua installazione, interagisce disegnando (con l’ausilio di una pila) sulle superfici luminescenti, o lasciando l’impronta del proprio corpo su paesaggi o vedute, partecipando anche emotivamente per sentirsi parte di un dialogo cosmico. Lucia Spadano

Raimondo Galeano, Vicoli 172x215

aimondo Galeano è un artista che, da sempre, si definisce “pittore”, ma non usa i colori! Sembra una boutade, ma non è così, perchè per dipingere si serve della luce. La recente retrospettiva, allestita nella Sala Dorica di Palazzo Reale e nelle Prigioni di Castel dell’Ovo a Napoli, dà conto di un percorso iniziato a Roma negli anni Settanta (con Schifano, Festa, Angeli) e giunto ai giorni nostri con le “pitture di luce”: una selezione di opere rappresentative del suo percorso artistico, della sua passione civile (ritratti di alcuni Premi Nobel per la Pace come quelli di Madre Teresa di Calcutta o Nelson Mandela), del suo amore per Raimondo Galeano, Enigma di Virgilio, 70X100

animavano le manifestazioni di protesta di quegli anni. La ricerca di De Tora è stata sempre improntata ad un’impegno etico, verso e dell’arte stessa, in primis, di cui professa il diritto di intelligenza - intellígens -, quale capacità di leggere tra le cose; tra le manifestazioni del comprensibile - o del conoscibile - al fine di dimostrare la possibilità di “essere astrattisti e impegnati civilmente”, attraverso un linguaggio che problematizzava - come ebbe a dire Crispolti - la “questione dialettica di dibattito intimo, fra volontà di analogia lirica e volontà di geometria costruttiva”. Negli anni ‘80, prese definitivamente le distanze dalle ricerche del decennio precedente - concettuale e minimalismo -, Gianni De Tora intensifica il flusso vitale ed emozionale della sua pittura, attraverso un corredo segnico ricco, in cui ha luogo la ierofania visionaria di una geometria popolata da segni in libertà, da cancellazioni, annotazioni, scritte e stratificazioni; un viaggio districato attraverso una esigenza astrattiva che è sempre più confessione silenziosa ed emozionale spazio esperienziale - dove dar luogo a quella che Pierre Restany definiva “natura scenografica dell’universo”. Una cosmogonia fenomenologica dell’immagine in cui la pittura si frammenta in simboli esoterici di protezione e simboli alchemici (Ziggurat ‘88, Elementi all’origine acqua aria terra fuoco, ‘86, Triangulum ‘84) quali triangoli - modulo spesso re-

plicato -, cerchi, elementi spiraliformi e cruciformi. Grammatica generativa fatta di continue mutazioni, la poetica di De Tora è quindi esigenza che muove dall’interno il sostrato figurale dell’immagine, operando una progressiva depurazione del dato iconico, al fine di sviscerare la natura dalla sua criticità ermetica e generare cartografie in germinazione, di quel “Territorio - qui preso in considerazione - Indeterminato”, che fuggendo ogni determinazione - o assumendone di diverse - non diviene corpus di/del sistema, ma resta mente in evoluzione; status accrescitivo di esperienze collettive. Esigenza aggregativa, sinonimo di una processualità aperta ed in divenire dell’opera d’arte, che trova riscontro nella retrospettiva dedicatagli, attraverso il porre a confronto il lavoro del maestro - diviso per decenni - con quello di quattro artisti campani di più giovane generazione: Vincenzo Frattini (Salerno, 1978), che parla alle rigorose e razionali composizioni degli anni ‘70 attraverso i suoi policromi lavori plastico pittorici; Salvatore Manzi (Napoli, 1975), che si mette in comunione, con il lavoro fluido e vibrante degli anni ‘80 attraverso le sue tavole a fondo oro ricche di segniche dal gusto neocionoscalsta; Nunzio Figliolini (Napoli 1965), che, assorbito un vis à vis con gli imprevedibili rimescolamenti e riletture del De Tora degli anni ‘90, risponde con una istallazione che approda al segno

digitale; ed infine Neal Peruffo (ProcidaNa, 1980), che dialoga con le complesse intersezioni geometriche degli ultimi anni dell’artista, attraverso un’insallazione - a soffitto - di pannelli costellati di elementi grafici che echeggiano tavole pitagoriche e matematiche. Sono coinvolti inoltre con i loro contributi critici - in catalogo, ed. Paparo –, nonché come curatori Mariantonietta Picone Petrusa – per la sezione inaugurale della mostra, quella in esposizione nei locali dell’Uni.S.O.B. -, Enzo Baratta e Gaia Salvatori, per la sezione in mostra a Caserta -, Elio Galasso - per la sezione beneventana -, Enrico Crispolti - per la sezione romana - e Stefano Taccone, cui si deve la scelta dei quattro artisti messi in relazione con il maestro napoletano. Raffaella Barbato Gianni De Tora, Cerchio riflesso, 2003 acrilici su legno+specchio diam. cm 120

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museo-galleria “La Vite” di Mauro Lombardo, Catania

Rosario Genovese A guardar le stelle

C

i emozioniamo di fronte alle stelle, all’unità dei pianeti e all’umanità in essi ospitata. Queste trasposizioni spaziali del semper idem, rotonde, compatte ma gassose, sospese negli spazi siderali, sono il soggetto delle opere di Rosario Genovese. A guardarle avvertiamo una sensazione di stupore e tenerezza e anche un senso di radicale contraddizione. Vi leggiamo, infatti, un equilibrio di arcaico e contemporaneo sorprendente, già a partire dai supporti lignei utilizzati dall’artista. Una scelta non casuale, quella di una consistenza materica che fa parte del voler conciliare moderno e classico, con grandi superfici di legno (materiale tipico dell’età greca) e la più moderna tela collocata sopra. Tele ancora più ‘moderne’ in quanto sono in parte supporto di repliche fotografiche d’un dipinto in cui si rispecchiano. Ma c’è anche un uso preciso dei colori, in una dialettica di perfezione e imperfezione, dentro cui ritroviamo sfumature e filamenti, espressività e decorazione. Inoltre c’è una tendenziale monocromia, non neutra (come quella tipica di molta arte del secondo ‘900), ma che esalta il colore, squillante e vibrante, in una suggestione da immaginario fantascientifico con un look alla Kubrick. L’artista ci guida quasi come un auriga verso la sua moderna odissea nello spazio mettendoci davanti forme e immagini da war room di Ken Adam. Si tratta di profondità stellari piatte, coppie A+B che cercano nel ‘tu’ il proprio ‘io’ e quindi stelle imperfette, ma perenni, che come le storie della mitologia ellenica «non avvennero mai, ma sono sempre». In questo rivivere il miticoclassico in vesti postmoderne c’è chiaro un richiamo alla psiche del cosmo, di cui Genovese si fa portavoce a mo’ di uomo dentro il cerchio del pentagramma e dello zodiaco di Agrippa. Un Cadmo contemporaneo, insomma, salvatore dell’armonia dell’universo e fondatore della città di Tebe sulla geometria dei cieli, colui che, come narra la leggenda, ricevette in dono da Zeus “tutto il perfetto”. Ma che cos’è il perfetto se non appunto la bellezza delle cose mescolate, la simmetria composta da parti in contesa fra loro, la contesa dei contrari, delle parti del discorso che di questo ordine deve parlare? Laddove perciò avevamo pensato che Genovese potesse ridare un Kósmos al Chaos, si trattava di un ordine non simmetrico, cui rinvia altresì la circolarità delle opere. Il cerchio si chiude, quasi però, perché è figura geometrica che lascia sempre uno spiraglio aperto, un punto di fuga verso l’infinito. In questa soglia, che è forse il mistero dell’aura, s’inserisce l’artista stesso, il quale dovendosi trovare un posto, fra certezza e incertezza, affida il suo destino a un cielo fattosi opera d’arte. Proprio come noi, sempre e da sempre confusi, de-siderosi fra il nostro bisogno di stabilità e quello di evoluzione, cerchiamo nelle orbite astrali e nelle loro danze astratte di investigare il futuro, poiché esse sono l’ultimo approdo di fronte allo smarrimento: punti fissi ma mobili. Ecco, queste stelle dipinte, fra movimento e stasi, sono forme mitiche, costellazioni capaci di farci orientare persino in senso cabalistico, ricordandoci di accogliere il momento presente (Jetztzeit) non come passaggio, ma in bilico nel tempo e immobile. Apparizioni oggettuali e materiche che, per quanto possano muovere esegesi ed esercizi di maggior o minor forza esplicativa, rimangono lì, astri appunto, sfingi mute, che né assentono,

Domenico Carella PAESAGGI VERBALI

a cura di Antonio Scotellaro e Gaetano Cristino

Rosario Genovese, Installazione Virtuale “Sheliak - Beta Lyrae”

Rosario Genovese, Almaaz (epsilon aurigae) A + B, 2014 A - Supporto ligneo, acrilico e matita su tela; B - Supporto ligneo, acrilico e matita su stampa diretta inkjet UV su tela, cm 180 x 90

Rosario Genovese, Ae Aquarii A + B, 2014 Tecnica: A - Supporto ligneo, acrilico e matita su tela; B - Supporto ligneo, acrilico e matita su stampa diretta inkjet UV su tela, cm 170 x 85

né dissentono rispetto al nostro incontenibile delirio verbale. Presenze immote (?) che ci costringono piuttosto a lasciarle essere, a interrompere la nostra naturale tensione conoscitiva, o, extrema ratio, a ignorarle passando-oltre. Pure presenze. In realtà non ci indirizzano per nulla. Questo è il punto. Perché in esse esperiamo piuttosto la possibilità di sospendere lo Streben che ci fa quotidianamente volti a qualcosa di non ancora perseguito. Infine, l’universo pittorico del nostro artista ha sicuramente un sole, il suo sole è nell’arte, intorno alla quale girano gli istanti vissuti, le cose raccolte, l’esperienza individuale, la volontà di assegnare nomi propri che ci permettano di abitare il mondo rovesciando la prospettiva: il nuovo, il fascino del futuro e l’ignoto sono ora nello sguardo, nelle “folgorazioni figurative” di Rosario Genovese, fugaci bagliori e immagini che balenano oltrepassando l’immobilità degli orizzonti, fulmini sferici, corpi luminosi di passaggio nella notte che vanno a perdersi altrove, lasciando noi – diadi umane – a stento a guardare, le stelle. Rosalba Di Perna Marca/Catanzaro

Agostino Bonalumi

O

pera come “accumulazione di dubbio”; opera come “Pittura-Oggetto”; opera come materia, forma, colore, luce; opera come «pensiero che mantiene l’avvenimento del suo stesso emergere dall’intuizione. Costruzione e sentire». Fin dai suoi primi lavori extrapittorici, Agostino Bonalumi costruisce un’intensa relazione con la dimensione spaziale. Tutta la sua ricerca si pone quale attualizzazione e visione di uno spazio vissuto ed esperito nella sua fisicità, che è costruito strutturalmente a partire dal valore plastico e che al contempo attende di prender forma nell’opera stessa. Lungi dall’esser mero vuoto, lo spazio diventa artefice di una duplicità tensiva che chiama in causa il movimento, cosicché sia generato un moto dall’interno verso l’esterno - dal cuore dell’opera verso lo spazio estroflesso - e ritorno, in un’articolazione emotiva non tortuosa, ma lineare e costante. E se «lo spazio è fisicità dell’arte che è costruzione che può restare indifferente all’ideologico esterno, anche quando ne sopporta la rappresentazione», la costruzione è intesa quale «concezione spaziale che si impone dogmaticamente su altre spazialità che tentano di confutarla facendosi intuire». Proprio “spazio” e “costruzione di spazio” rivivono nel percorso espositivo proposto dal MARCA di Catanzaro, nelle cui stanze Agostino Bonalumi, allestimento al MARCA

Paesaggio verbale ‘Il Tavoliere-campo di grano con tratturo’ 100x187 cm, Collage - Foglia simil oro e stampe laser su legno, 2014

10-30 Aprile 2014

Palazzetto dell’Arte - via Galliani, 7 71100 Foggia - 0881/726008 museofg.cultura@tiscali.it 52 - segno 248 | APR/MAG 2014


attivitĂ  espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

circa quaranta lavori di Bonalumi, selezionati dai curatori Alberto Fiz e Federico Bonalumi, scandiscono i momenti salienti della poetica dell’artista, dalla fine degli anni Cinquanta agli anni Duemila. Rosso, Blu, Giallo, Bianco, Nero sono le variazioni cromatiche dei suoi lavori, che diventano determinanti nell’economia della percezione dell’opera. La chiarezza della luce si interfaccia all’eleganza della forma: alle linee, ne è esempio Rapporti, Agostino Bonalumi, Bianco 2009 e alle estroflessioni, quasi a lasciar intuire, con una geometria puntuale, attraverso punti di fuga simulati, le possibilità della realtà spaziale, inglobata nell’opera, prosecuzione del reale medesimo. Bonalumi realizza così opere-oggetti la cui funzione non è quella di orientarsi nel mondo, ma che “si limitano” a farne parte; oggetti cui non è possibile dar nome e che impediscono di sedimentare le conoscenze teoriche e pratiche collettive, giacché non è concepibile attribuire a queste “cose” un significato univoco e un valore simbolico unico, quegli stessi che la familiarità al nominalismo ci rende abituali. E tuttavia sono opere-oggetti dotate di vita propria, che riflettono la loro radice latina di objectum: l’esser-gettati-contro, il porsi-davanti-a un soggetto verso il quale si apre un confronto immediato e diretto. Se i movimenti autonomi dei lavori di Bonalumi sono destinati ad esser manipolati dal soggetto e dalla sua percezione ultima - di primaria importanza per l’artista, come già ricordato -, essi hanno il merito di avviare un nodo di Relazioni in cui fruitore ed artista sono implicati; proprio l’opera-oggetto ricorda che i due poli sono intimamente legati, giacché “il soggettivo” - con cui l’artista rivela la sua visione del mondo e per cui il pubblico apprende ed interpreta - si afferma in virtù di oggetti non-oggettivanti, ma oggettivi. Simona Caramia Fondazione Giuliani per l’arte contemporanea/Roma

Gianni Piacentino 1965-2000

Gianni Piacentino, Nickel plated frame vehicle with black tank ii

D

a Ginevra a Roma le distanze si accorciano. Difatti la Fondazione Giuliani accoglie nei suoi ampi spazi romani la mostra Gianni Piacentino 1965 – 2000, che l’estate scorsa era stata presentata al Centre d’Art Contemporain di Ginevra dal suo direttore Andrea Bellini, già condirettore del Castello di Rivoli e curatore di entrambe le mostre. La retrospettiva di Gianni Pacentino al museo svizzero, più ampia, è stata la prima organizzata in un paese straniero e quella alla Fondazione Giuliani la prima tenuta nella capitale. Una chiara inquadratura su 35 anni di attività dell’artista piemontese, stabilita su delicati, semplici criteri di elementi linguistici visivi, di una storia che menziona la tecnica scultorea e il rigore di essenza modernista Il percorso artistico di Piacentino si risolve in armonia con le linee esili e affusolate di un’estetica minimal, posteriore alla sostanza di ripresa degli elementi dell’arte Povera, che Piacentino ha seguito in maniera del tutto autonoma agli esordi della sua carriera; partecipando in parte ad alcune mostre del movimento italiano. Dalle opere a parete alle sculture - i veicoli aerodinamici - l’immagine viene scarnificata, portata al punto zero della scala del valore decorativo con la co-partecipazione del dinamismo che, da sempre, si affaccia candido, pulito in tutte le opere. Il geometrismo filiforme, morbido, dei prototipi ingegnosi è l’alter ego della cromia sobria e totalmente netta dei veicoli solitari. Inoltre l’aspetto umano è citato, anche se per via indiretta, nelle forme che sottintendono l’ideazione e la coerenza storica. L’uomo non viene declamato nella logica utilitaristica e sembra

che l’elemento della solitudine sia contemplato nell’opera stessa, che riporta una condizione meccanica difficilmente praticabile. E il colore, con le linee, crea con queste delle alleanze, nella rappresentazione dell’essenza figurativa, celata nel dinamismo e nella modernità dell’oggetto scultoreo. La sigla GP è il marchio di fabbrica (le iniziali dell’artista) che ogni volta cambia, si mimetizza o troneggia in bella vista sulle testate dei prototipi auto, sui serbatoi delle moto o sugli aeroplani. In un ambiente d’ingresso della Fondazione una raccolta di manifesti di mostre svolte tra il 1967 e il 2014 è l’incipit e la nota conclusiva di un percorso intrapreso alla metà degli anni sessanta, presentato nelle gallerie italiane, europee ed americane. Le complessità del contemporaneo, nelle relazioni tra cultura e società industriale, sono seguite e tradotte da Piacentino in un linguaggio che declama una composita ricostruzione di significato. Ilaria Piccioni

Galleria-vetrina di Franz Paludetto/Roma

Andrea SchĂśn

I

l ritorno alla pittura che ha caratterizzato tanta arte degli ultimi decenni del XX° secolo ci si presenta oggi, alla distanza, come estremamente variegato sicché tentarne una rilettura unitaria non è affatto facile anche se resta un compito che la storiografia critica prima o poi dovrà affrontare in una logica diversa da quella della pura e semplice contrapposizione tra correnti e schieramenti. Uno dei punti chiave per tentare questo lavoro di riordinamento e valutazione sarà sicuramente quello di andare a verificare in cosasi sia consistita la modalità che ciascun artista ha adottato per rendere palese la propria ascrivibilità ad un’area di riflessione post-concettuale, ovvero in cosa consista sul piano linguistico formale l’insieme dei marcatori che ci consentono di non confondere la sua particolare modalità di ritorno alla pittura con una semplice marcia indietro nostalgico - conservatrice. Premesso che naturalmente non è il marcatore in sé, ma il tipo di poetica da cui discende, ciò che ci interessa, ci sembra di poter affermare con certezza che il caso di Andrea Schön, l’artista tedesco ospitato attualmente nella galleria-vetrina di Franz Paludetto a Roma, sia uno dei più emblematici ed originali quanto a radicalità e diretta semplicità delle scelte. Schön infatti non adotta nessuna delle strategie, a conti fatti, più diffuse che abbiamo imparato a conoscere come l’evidenza storica della citazione, il riferimento smaccato ai mass-media o un divertito allegerimento ludico dell’immagine, ma si limita a dipingere frammenti di realtà assolutamente nitidi anche se del tutto lontani dall’effetto allucinatorio dell’iperrealismo. La sua è piena pittura, perfettamente consapevole di tutte le conquiste che questa disciplina ha maturato attraverso i secoli, in altre parole una sorta di pratica fredda messa a disposizione di un significato che il fruitore non potrà fare a meno di cercare. Tutto naturalmente sta nel corto circuito tra il soggetto prescelto e la sapiente resa d’immagine per esso adottata. Sarà per i colori molto selettivi e tendenzialmente virati verso i fondamentali, sarà per l’inquadratura sempre ben risolta ma mai banale, sarà per tutta una serie di omologie collaterali o ben dissimulate, ma l’effetto non manca mai: chi guarda è gratificato dalla perfetta esecuzione, ma non è mai tentato di risolvere il problema postogli sotto le insegne del puro esercizio analitico. Schön gli sta comunicando qualcosa attraverso un messaggio inusuale ma non privo di aspirazioni valoriali, la mente e il cuore si mettono in moto e via via che procedono il percorso si fa meno incerto e vago anche se le risposte si trasformano in quesiti e la nitidezza del significante in arguta polisemia. È appunto il caso degli agnelli di pelouche ritratti ad olio ripropostici da Paludetto a Roma, sulle orme di una lungimirante mostra torinese del 1995. I simpatici giocattoli da amichevoli compagni di gioco si trasformano in eroi di un’epopea rivoluzionaria che sta a fondamento della modernità, ma sfuggono ben presto a questo ruolo per ribaltarsi in qualcosa di assai meno didascalico, forse in agnelli sacrificali che accettano l’espiazione delle nostre colpe ma nel farlo ci accusano e forse ci minacciano o comunque dubitano di noi. Paolo Balmas APR/MAG 2014 | 248 segno - 53


Valmore Studio d’Arte, Vicenza

Francesco Guerrieri Direzione Infinito di Gabriele Simongini

F

rancesco Guerrieri ha sempre cercato un’apertura verso il mondo, anzi in qualche modo la sua ricerca costantemente e sensibilmente sperimentale ha proposto un’idea concreta di arte capace di “diventare mondo”, di respirare all’unisono con i ritmi e i battiti quotidiani ed universali della vita pur rispettando un preciso ed autonomo codice linguistico continuamente rimesso in discussione. La sua ricerca conferma, mutatis mutandis, quel che ha mirabilmente intuito Werner K. Heisenberg: “le stesse forze che determinano l’ordine visibile del mondo, l’esistenza e le proprietà degli elementi, la formazione dei cristalli, la nascita della vita, può darsi siano all’opera anche nel processo creativo della mente umana”. Così i suoi oltre cinquant’anni di sperimentazione hanno custodito e tuttora custodiscono il flusso e l’espansione di una realtà in divenire che è innervata dalle ragioni formative dell’esistente, sia nella vita che nell’arte, come per altra via aveva inimitabilmente compreso Paul Klee. Ecco il “segreto” di Guerrieri, un artista che non soggiace alle mode e alla stanca ripetizione, sorprendendoci ogni volta con una meditata innovazione nella continuità: “Continuità” si intitola non a caso un suo fondamentale ciclo di opere del 1962 in cui il nocciolo essenziale della sua ricerca è già chiaramente identificato nel razionale nitore cartesiano unito ad una modulazione musicale in espansione illimitata. Il continuum, del resto, è una delle cifre più potenti di tutto il suo percorso, come è ben evidente anche nella mostra presentata a Vicenza dallo Studio d’arte Valmore e fondata su molteplici exempla della sua inesausta ricerca. E’ un obiettivo individuato da Guerrieri fin dal 1962, nelle opere ormai storiche con le fasce parallele alternate, bianche, rosse, nere, di diversa larghezza, modulate da un capo all’altro della tela. Lo ha scritto lui stesso con la consueta lucidità: “Il bianco fa da sfondo e le fasce rosse e nere creano alternative di simmetria e asimmetria. Mi appassionava la “scoperta” della “continuità”: ogni quadro non aveva inizio né fine, ma era parte, frammento di una potenziale illimitata “continuità”. Ad accentuarla, e nello stesso tempo a contraddirla, interveniva la scansione regolare di fili di nylon, una “griglia” di linee verticali ora evanescenti, ora più corposamente bianche, secondo il variare della luce. L’insieme era frammento di un ritmo anch’esso potenzialmente infinito. La serialità, la ripetibilità, la frequenza percettiva, traducevano, nel ritmo di questi quadri, il ritmo del nostro tempo”. Il continuum in Guerrieri è la concretizzazione di un “infinito finito” in cui il ritmo trasfigura la struttura in forma, rovesciando le certezze razionali della geometria per dare voce all’ineffabile e all’assoluto, a quella rete di fili sottili che lega fra loro tutte le cose del mondo e il respiro del tempo. Per Guerrieri, sull’onda dell’eredità delle sperimentazioni ge-

Francesco Guerrieri, Orientamenti, 2, 1969, acrilico su tela, cm. 80 x 120

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Francesco Guerrieri, Direzione Infinito,2011,acrilico su tela, cm. 80 x 100

staltiche, ogni opera deve manifestarsi interamente nella percezione visiva e deve mettere in uno stato di allerta i nostri sensi e la nostra consapevolezza critica attraverso quell’ “ambiguità” che ha trovato il suo culmine negli strepitosi quadriluce degli anni settanta secondo una strategia creativa che lo stesso Guerrieri ha spiegato come meglio non si potrebbe, nel 1973: “L’opera si apre all’ambiguità, sia attraverso l’ambiguità percettiva, sia attraverso figurazioni complesse plurisignificanti, fino all’emergere del “negativo”, al “vuoto” che si fa “positivo”. Il processo di contraddizione non conduce ad un impoverimento o rifiuto totale del codice originario, ma, in definitiva, ad un suo arricchimento, ampliamento, approfondimento”. Il concetto di ambiguità in Guerrieri trova un terreno fecondo di sperimentazione dialettica nello sviluppo del rapporto fra sfondo e figura affrontato dalla teoria della Gestalt: secondo la psicologia della percezione il primo è un campo generatore di forze visive che non resta inerte rispetto alla figura ma che interagisce costantemente con essa contribuendo a determinarla. Specialmente nelle opere più recenti e spesso sorprendenti per la loro concisa essenzialità ogni gerarchia fra fondo e figura è completamente capovolta anche se per cogliere fino in fondo questa opzione è necessario rinunciare a qualsiasi pigrizia percettiva e mentale. Nella ricerca di Guerrieri c’è infatti un invito costante e poetico a non fidarsi delle apparenze, ad andare oltre, ad essere vigili e critici e ciò vale tanto più nella società di oggi, di fronte a fuorvianti tranelli mediatici, politici e tecnologici. Al di là dell’ambiguità, dai quadri di Guerrieri, con una sensibilità che non ha pari, promanano echi e risonanze di scale cromaticomusicali, quasi sempre fondate su non più di tre note-colori, che trasformano la quantità in qualità e che comunicano una sorta di euritmia dinamica in cui vengono colte, passo passo, le progressioni dello spirito nel mondo. Il dna storico che scorre come sangue nelle vene di Guerrieri è esemplificato dalla sua capacità di ricondurre all’interno del


attivitĂ  espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Francesco Guerrieri, Ritmostruttura con variazioni ondulari, 1966, acrilico su tela, cm. 80 x 100

proprio linguaggio aniconico, analitico e dinamico imprevisti dialoghi con la grande pittura antica di cui viene così riaffermata l’assoluta contemporaneità al di là di qualsiasi banalizzazione da manuale di storia dell’arte: basta pensare ai collages con carte plastificate intitolati “Dalla Battaglia di San Romano di Paolo Uccello” (1968) e “Da ‘La Caccia di Paolo Uccello” (1969), alla Metapittura dei primi anni ottanta, al ciclo “Interno d’Artista” (1979-80 e anni duemila) fino ai felici e recentissimi lavori che prendono spunto da un celebre autoritratto di Mattia Preti, conterraneo dello stesso Guerrieri. Ecco, il sogno di libertà promanato dalla pittura di Francesco Guerrieri si basa su un codice linguistico fondato più sull’inclusione che sull’esclusione e sulla proposta critica di un mondo a più dimensioni, di un “multiverso” come si direbbe oggi in termini scientifici. Anche la natura “classica” legata ad una parte della ricerca di Guerrieri reca però dentro di sé una tensione tutta contemporanea, fatta di frammentazioni, zoom, spazialità virtuali, che tendono positivamente e con fiducia verso l’avvenire, lungo quella che potremmo chiamare la “Direzione Infinito”. n

Francesco Guerrieri, Prospettiva Infinito, 1967, acrilico su tela, cm. 80 x 80 Francesco Guerrieri, Navigando verso la luce, 2014

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Ex-chiesa di San Pietro in Atrio, Como

Vincenzo Marsiglia Riflessione visuale come modalitĂ  interattiva di Chiara Canali

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ecentemente, a seguito della scomparsa di Paolo Rosa, artista di Studio Azzurro ma anche brillante studioso e teorico, ho riletto il saggio “L’Arte fuori di sè”, scritto a quattro mani da Rosa e Balzola, e sono rimasta affascinata dalle pagine dedicate al ruolo dello spettatore, che è stato radicalmente ripensato rispetto al passato. Secondo gli autori, la sua partecipazione all’opera d’arte è una condizione necessaria per dare senso e compimento al progetto artistico nel suo insieme. Essi si riferiscono, in particolare, a un filone di ricerca in cui l’uso sofisticato del dispositivo tecnologico non si limita a coinvolgere lo spettatore nell’opera, ma gli offre la possibilità di sperimentare nuove esperienze percettive”. In questa prospettiva, l‘artista viene presentato come colui che produce le condizioni in cui il partecipante non è più soltanto spettatore, ma diventa spett-attore, parte attiva e integrante dell’opera. L’arte interattiva innesca dunque un dialogo proficuo con lo spettatore e lo rende a sua volta produttore di esperienza. Questa modalità interattiva avviene, a mio parere, non soltanto attraverso la tattilità dell’opera, ma anche attraverso meccanismi differenti, come la riflessione e il rispecchiamento visivo, come si riscontra appieno nel caso del lavoro dell’artista Vincenzo Marsiglia. Nella ricerca di Marsiglia si riuniscono infatti due categorie che la tradizione occidentale ha spesso contrapposto l’una all’altra: ars e techné, che comprende sia l’aspetto creativo che funzionale della tecnica. Nella sua opera si riconosce il legame inscindibile tra arte e tecnica che implica la necessità da un lato di una materia sempre presente per costituire la forma artistica, dall’altro di una tecnologia che fornisce una nuova piattaforma estetica ed espressiva. Nella mostra “Riflessione interattiva” concepita dall’autore per lo spazio di San Pietro in Atrio a Como, attraverso le opere e le installazioni dispiegate, ripercorriamo un ideale viaggio dall’età della pietra a quello del digitale, in un dialogo serrato tra corporeità segnica e incorporeità virtuale e tecnologica. Se da un lato Marsiglia presenta vere e proprie sculture in mar-

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Nelle immagini le opere e le installazioni di Vincenzo Marsiglia all’Ex Chiesa S.Pietro in Atrio a Como


attivitĂ  espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

mo bianco di Carrara e in ardesia nera su cui sono state realizzate incisioni a punta secca – omaggio alle arcaiche incisioni rupestri – a creare un’ideale mappa stellare contrassegnata dalla Stella a quattro punte, suo logo e unità di misura; dall’altro lato non mancano le opere più recenti costituite da quadri elettronici interattivi, dotati di webcam a loro volta collegate a un programma di rielaborazione delle immagini e a un’applicazione appositamente studiata per iPad, attraverso le quali il pubblico entra a far parte della texture digitale dell’opera come elemento attivo e performante. Da “Interactive star app” a “Vanity Star” gli iPad mini o gli specchi polarizzati intercettano l’immagine del fruitore e la rielaborano in una tessitura di stelle digitali, pixel colorati e rumori animati. Lo spettatore entra così a far parte delle opere di Marsiglia riflettendosi realmente e digitalmente nella superficie specchiante e variandone la versione cromatica, fino a operare un’interferenza visiva che gli permette di diventarne co-autore per il tempo che si pone di fronte ad essa. La partecipazione diventa dunque modalità esperita di fruizione estetica e la bellezza di queste opere non risiede più e soltanto nelle opere stesse, ma nei suoi effetti, nei fenomeni e nelle esperienze di riflessione e interattività che essa genera e produce. n

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Le lettere dell’alfabeto si susseguono senza formare parole, dattiloscritte facendo uso della Lettera 24, con accurata attenzione all’intensità di ogni battitura, che deve lasciare la sua impronta in modo regolare, uguale, senza sussulti. Pare quasi un gioco, questo, che il fanciullino che inabita nel cuore di Marcello, straordinario “sognatore”, si sia preso il gusto di concedersi, evidenziando, con garbo artistico, l’eterno oggetto del desiderio: il corpo femminile, nella sua massima bellezza e, in queste immagini, in una classica compostezza, un omaggio alla grande madre. Le colorate lettere delle mitiche parole lanciate nel vento sui famosi aquiloni creati da Marcello Diotallevi si sono ora posate su di lei, la generatrice della vita, come un casto velo, con la lievità di una carezza, con devozione e silente rispetto. Il bianco e nero, cioè la scelta dell’assenza del colore, accentuano, nella loro severità, il senso di rigore e di ammirazione del poetico messaggio di questo artista, famoso anche per la sua importante, fattiva e annosa partecipazione alla poesia visiva. n

Marcello Diotallevi, Lettera da Citera 1 dattilografia su xerografia, cm. 21x30, 1996

Marcello Diotallevi Lettere da Citera di Daniele Decia

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itera è un’isola dedicata a Venere: proprio a Venere è dedicata questa mostra di opere realizzate su carta (cm 21x30) con tecnica di dattilografia su foto xerografia. Nella storia di Citera si legge che spesso i pirati l’hanno saccheggiata: anche in questa mostra c’è stato, da parte di Diotallevi, un gesto di ardita appropriazione con risultati davvero coinvolgenti. Lettere nel senso di lettere d’alfabeto, ma anche nel senso di un arcano, ineffabile gesto d’amore. Non sono state la contaminazione o la moda del tatuaggio a ispirare a Marcello Diotallevi il desiderio di coprire di lettere dell’alfabeto nudi femminili che già sono stati soggetto di fotografie sia dell’autore sia di famosi fotografi. E allora ci si interroga, incuriositi, intimamente ‘toccati’ per comprendere appieno quale è stata l’origine di questa affascinante, inconsueta vestizione.

Marcello Diotallevi, Lettera da Citera 2 dattilografia su xerografia, cm. 21x30, 1996

Marcello Diotallevi, Lettera da Citera 4 dattilografia su xerografia, cm. 21x30, 1994

Marcello Diotallevi, Lettera da Citera 3 dattilografia su xerografia, cm. 21x30, 1994

58 - segno 248 | APR/MAG 2014


attivitĂ  espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

GAM/Torino

OMAR GALLIANI

L’Opera al Nero

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Omar Galliani, dalle serie Denti, 2009, matita nera su tavola, cm.200x185

Omar Galliani, Orchidea (parte destra del trittico Breve storia del tempo), 2008 matita su tavola, cm.200x300

Omar Galliani, Respiro, 2008, matita e acrilico su tavola di pioppo, cm.400x400

irca trenta imponenti opere costituiscono il corpus del progetto realizzato da Omar Galliani per il secondo capitolo di “Dialoghi”, un ciclo di mostre di artisti contemporanei, le cui opere possano relazionarsi con alcuni capolavori del patrimonio della Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino. Il lavoro di Galliani per questa importante occasione fa riferimento al patrimonio grafico del Museo, che comprende circa 30.000 opere e che è da poco confluito nel nuovo Gabinetto Disegni e Stampe. Il disegno è un aspetto fondamentale del suo lavoro, e testimonia una passione nata a partire dagli anni Settanta e proprio dalle prime opere di quel periodo si dispiega il percorso, che, pur non seguendo un ordine cronologico, giunge sino ad oggi, ripercorrendo l’intera vicenda artistica e mettendo in luce, attraverso una attenta selezione, l’aspetto più simbolico e mistico del suo lavoro sviluppato con il rigore formale, insieme alla straordinaria tecnica che da sempre lo contraddistingue. Attraverso l’uso quasi ossessivo della matita e delle punte di grafite, Galliani crea i suoi paesaggi dell’anima attraverso una iconografia simbolica che va dai dettagli anatomici ingigantiti fino all’eccesso, ai Fiori fino all’omaggio al La Principessa liu Ji nel suo quindicesimo anno di età, vera summa della sua poetica e testimonianza della sua grande passione per la Cina. Delle quattro opere inedite, realizzate appositamente per la GAM, fa parte Paesaggio dei miei veleni (D’après Fontanesi), realizzata ispirandosi a Paesaggio con alberi e ruscello di Antonio Fontanesi del 1895 ( che è fra le collezioni del museo) e donata dall’artista, per cui entra a far parte del “Gabinetto Disegni e Stampe” della GAM. Accompagna la mostra un volume di 300 pagine, edito da Mazzotta, che da conto del percorso più intimamente legato alla tecnica del disegno. Testi di Danilo Eccher e Gregorio Mazzonis ed alcuni scritti scelti dall’ampia antologia sull’artista. Lucia Spadano

Omar Galliani, Paesaggio dei miei veleni (D’après Fontanesi), 2013 matita e acrilico su tavola di pioppo, cm.400x400

APR/MAG 2014 | 248 segno - 59


Galleria Bianconi/Milano

H.H. Lim

Politicamente parlando

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ai come oggi il termine “politica” è sulla bocca di tutti, spesso con interpretazioni lontane dal significato originario. Un breve excursus a ritroso nel tempo sulla voce “politica” può aiutarci a sollevare i vari strati che si sono sovrapposti su tale termine nei vari momenti storici. Nel XX secolo è stata confusa con i vari nazionalismi e poi si è legata al concetto giuridico dei diritti universali, mentre nell’Ottocento si è posta innanzitutto come problematica di sovrastruttura economica, secondo le riflessioni di Marx e Engels. Tra l’età medievale e quella moderna la politica si è configurata in generale come un corpo che si è lentamente staccato dalla religione e dall’etica per fondersi con il concetto di auctoritas. Per scoprire il significato del termine originario, bisogna far riferimento al mondo greco per il quale politica era, etimologicamente, πολιτικός, pertinente a πόλις, città (Treccani, 2009). Più genericamente si può definire come quella cosa che appartiene alla dimensione della vita comune, dunque allo Stato (πόλις) e al cittadino (πολίτης), e che pone al centro di tutto la vita del cittadino nella città. Il “Politicamente parlando” di H.H. Lim- titolo della mostra presso la Galleria Bianconi di Milano, curata da Giacomo Zaza- incarna un significato di “politica” analogo a quello originario, spesso coincidente con la parola “vita”. Da sempre l’artista sino-malese conduce un’indagine sulla realtà che, senza avere la pretesa di essere universale, si apre all’universalità. I linguaggi utilizzati dall’artista sono i più disparati, dalla pittura al video, dalla performance all’installazione, così come sono variegate le tematiche sulle quali di volta in volta si sofferma a riflettere, tutte però aventi come comun denominatore “the life show”, il grande spettacolo della vita. Nella mostra all’UCCA di Pechino “Gone with the wind” (2010) Lim aveva affrontato la tematica del consumismo, riferendosi alla vita degli oggetti destinati apocalitticamente ad avere vita breve in un sistema tanto spietato, quanto necessario; nella recente mostra a Kuala Lumpur “The beginning of something” (2014) la riflessione sul consumismo è passata al mondo immateriale delle idee con opere che hanno messo sul patibolo l’essenza stessa dell’arte; nell’esposizione alla galleria milanese, Lim ha costruito un progetto, potremmo dire, di particolare intimità, mostrandoci attraverso le opere la compagine stravagante di una “politica domestica” frutto di riflessioni individuali e, allo stesso tempo, aperta a plurime interpretazioni. Infatti, Lim sembra aver traslocato temporaneamente la propria quotidianità romana (Lim vive a Roma da oltre quarant’anni) in via Lecco 20 a Milano, mostrandoci delle opere che raccontano dei fatti attraverso un punto di vista individuale che si apre al mondo. La politica e la parola, come ben si deduce dal titolo, sono i fari che segnalano approdi e partenze delle riflessioni di Lim. Ma partiamo da due video in mostra: Vittorio Square Story e Daily music, rispettivamente la ripresa di un incidente avvenuto in piazza Vittorio a Roma eseguita dall’artista da una finestra del proprio appartamento e l’immagine video dello schermo di un televisore che manda in onda la notizia shock della

situazione coreana e di una possibile guerra nucleare. I vetri delle finestre di casa o lo schermo della televisione appaiono, quasi indistintamente, come due media che testimoniano le dinamiche della realtà e che misurano il rapporto uomo-mondo. Il brusio del traffico romano e il sottofondo del notiziario che costituiscono la “musica” quotidiana dell’artista diventano la colonna sonora di tutta la mostra, suscitando un’atmosfera tipica di un luogo. Dal rumore però si passa all’interrogativo del silenzio: con il tappeto in pvc che immortala in sequenza le immagini di una conduttrice di un telegiornale per non udenti e con l’opera su tavola Words in nero, un doppio ritratto dell’artista che interpreta il linguaggio dei segni. Le parole si trasformano in gesti e la comunicazione si impone come problematica universale. E’ il linguaggio a costituire un elemento di differenziazione? Se sì, quello dei segni diventa nelle opere di Lim un possibile approdo verso una dimensione di comunicazione universale. Sottilmente già l’arte di per sé svolge questo compito, facendoci di contro respirare la flebile angoscia delle più inconsce domande: è vero tutto quello che sentiamo? Le smorfie dei giornalisti immortalati da Lim nell’atto del parlare evocano una miriade di parole sovrapposte che lasciano scivolare nel dubbio la veridicità della comunicazione, fino a sentire la necessità ancestrale di silenzio, attraverso l’immagine della celebre performance Red Room (2004), sempre riprodotta in pvc a mo’ di tappeto, nella quale la lingua dell’artista è inchiodata ad un tavolo quasi come monito ultimo ed estremo sul valore della parola. Eppure le parole sono da sempre ricorrenti nei lavori di Lim, spesso incise sulle tavole come se fossero grandi lapidi murarie. La serie “Iene” accosta alle frasi estrapolate dai mass media o dai quotidiani (“io posso essere preoccupato, deluso, amareggiato / ma l’ira proprio non mi ha mai posseduto”; “la politica è un piacere ma poi / diventa una droga fine a se stessa”; “when did art stop believing in / the power of people?”) le figure degli animali la cui proverbiale bruttezza si trasforma in ambiguo fascino, dove la percezione dell’opera rimbalza tra l’immagine e le parole, tra l’identificazione della bestia come vittima e carnefice, come preda e predatore. Altri indizi sono nelle frasi incise nelle tavole più piccole, fra le quali suona come significativa, al fine di dare una possibile chiave di lettura della mostra, quella che recita: “Sei immerso in un mondo inventato da te”, dove il dubbio sulle certezze riduce all’osso anche la “politica domestica”, quasi come se fosse passata di lì una iena… A chiudere il cerchio, il video Hula Hoop, proiettato a misura d’uomo nello spazio ipogeo della galleria, nel quale l’artista è ripreso mentre fa girare attorno al torace nudo il cerchio secondo il gioco hula-hoop: ironia e verità subiscono l’incontro-scontro nel tentativo di rintracciare una soluzione partendo dall’individuo. Giuliana Benassi

H.H. Lim, Iena in rosso ossido, tecnica mista su tavola, 2013

H.H. Lim, Politicamente parlando, veduta della mostra, galleria Bianconi, Milano, 2014

H.H. Lim, l’artista e Iena in grigio, tecnica mista su tavola, 2013 H.H. Lim, Politicamente parlando, veduta della mostra, galleria Bianconi, Milano, 2014

60 - segno 248 | APR/MAG 2014


attivitĂ  espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Galleria Bonioni Arte, Reggio Emilia

L’eterno ritorno

I

n un sistema finito, con un tempo infinito, ogni combinazione può ripetersi infinite volte. L’eterno ritorno, caposaldo della filosofia di Nietzsche, è dunque il concetto chiave, intorno al quale gli artisti: Mirko Baricchi, Rudy Cremonini, Marco Ferri, Federico Gori, Luca Moscariello, Simone Pellegrini sono invitati a interrogarsi. Questione che sottende e che si offre come possibile suggerimento di risposta a una domanda che da sempre accompagna e tormenta la storia dell’arte e della produzione artistica in generale: qual è il ruolo dell’artista oggi? Come si mostra tale figura nella realtà contemporanea? L’artista è per sua natura una figura super partes, è per eccellenza colui in grado di condurre verso nuove prospettive di vita. Egli inventa mondi nuovi senza avere bisogno di dimostrare la legittimità di quel che propone; supera l’ipocrisia della società rendendo l’arte, il solo luogo di una possibile coesistenza fra forze anche contrastanti. L’accostamento alla filosofia nietzschiana, pare dunque motivatamente giustificata: le opere degli artisti non descrivono il corso del tempo, ma offrono e si offrono come un possibile criterio di valutazione, un principio di selezione degli istanti delle nostre vite che valgono la pena essere vissuti. In tal senso le farfalle di Cremonini immobilizzate nel volo, una dipinta e l’altra conservata sotto teca, diventano allegoria della contiguità fra mondo visibile e invisibile; mentre la foglia, il filo d’erba e il ramo, sono reinterpretati da Gori, tramite la tecnica dell’ossidazione su lastre di rame, quali testimonianze dell’ impermanenza della natura. E ancora, Pellegrini, che realizza caotiche composizioni, dove elementi orientaleggianti si mischiano a misteriose figure, da vita a immagini che sottendono una continua ricerca di equilibrio fra il riconoscibile e l’ignoto. In Baricchi, invece, prende forma un’immaginaria conversazione fra il mondo onirico e la ragione; dove la libera espressione del disegno, traccia di un subconscio infantile, contrasta con il rigore imposto dalla disciplina pittorica, metafora per l’artista delle regole sociali cui l’individuo è coinvolto. Elementi della quotidianità, ammassati uno sull’altro secondo un apparente ordine piramidale,

Rudy Cremonini, You are my sister 2, 2014, olio su tela, cm. 50x60 A centro pagina Luca Moscariello, Deriva, 2014, tecnica mista su tavola, cm. 150x100

sono il soggetto dell’opera proposta da Moscariello. Qui il chaos si manifesta esplicitamente, è una confusione che suggerisce all’uomo di non fermarsi alla superficie, ma andare oltre con l’obiettivo di liberarsi dalle costrizioni di una morale preordinata. Infine l’opera di Ferri, da sempre in costante confronto con l’essenza della materia, propone un’indagine proprio intorno ai suoi possibili mutamenti. Sulla superfice è visibile una piccola crepa, lì posta a ricordarci il peso del passato e allo stesso tempo segno propulsivo per una possibile ripartenza. Il mondo è dunque un caos, una pluralità irriducibile di forze, d’istinti e di pulsioni che si affrontano incessantemente. Con L’eterno ritorno, inedito progetto curatoriale da un’idea di Niccolò Bonechi, si mettono in scena possibili varianti di linguaggi, all’interno di un processo sociologico e culturale in continua evoluzione. Maria Letizia Paiato

Mirko Baricchi, Leveret, 2013, tecnica mista su tela, cm. 100X150

Simone Pellegrini, Concavi i fissi, 2006, tecnica mista su carta, cm. 200x313

Federico Gori, Di fragilitĂ  e potenza, 2013 incisioni e ossidazioni naturali su rame, cm. 32,5x32,5

Marco Ferri, Avevamo gli occhi belli, 2012 tecnica mista su cartone, poliuretano e legno, cm. 65x65

APR/MAG 2014 | 248 segno - 61


Palazzo de’ Mayo, Chieti

Sironi e La Grande Guerra

L’arte e la Prima guerra mondiale dai futuristi a Grosz e Dix

1914 a Sarajevo veniva assassinato l’arciduca FranceFerdinando, casus belli della dichiarazione di guerra dell’AuIstrialsco28allagiugno Serbia, germe e pretesto dello scoppio del primo conflitto

mondiale. E a “La Grande Guerra”, quasi in concomitanza con la ricorrenza del suo centenario, è dedicata la mostra allestita fra le stanze di Palazzo de’ Mayo a Chieti e promossa dalla Fondazione Carichieti sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica: Sironi e La Grande Guerra. L’arte e la Prima guerra mondiale dai futuristi a Grosz e Dix. Un itinerario cronologico tra disegni e illustrazioni, dove il segno intenso e a tratti lancinante di Mario Sironi esprime con vigore tutta la tragicità della realtà contingente. La sua è una voce che si leva impetuosa dal quel tessuto orchestrale di opere di amici e colleghi come Leger, Dix, Grosz, Carrà, Cangiullo, Balla, Depero, Funi, Carpi, Campigli, Cascella, Bonzagni, Viani, Marussig, Previati, Bucci, Nomellini e Dottori, che gli si affiancano, non solo a contestualizzarne la situazione, ma anche e soprattutto a testimoniarne la condivisione di un dramma. Una tragedia, tuttavia, non percepita tale nel suo germe, quando ancora nel 1915, sulle pagine di «Noi e il Mondo» l’allora ventinovenne Sironi, propone disegni come La Marcia. Un inchiostro misto a matita, dove il tema della guerra non ancora pienamente vissuta, lascia il passo a raffinati esercizi di stile più attenti alla sintesi formale futurista. Addentrandoci così nel cuore della mostra, dove spiccano perlopiù i lavori del 1915-1918; un primo cambiamento espressivo si registra in Sironi nell’autonoma tavola disegnata per I nuovi volumi della Kultur tedesca, apparsa su «Gli Avvenimenti» l’11 aprile 1915. Qui l’artista mette in scena, con truce sarcasmo, un sentimento antiaustriaco, pur non rinunciando a una geometrizzazione rigorosa ed essenziale delle forme, impostata sull’utilizzo della linea pura priva di qualsivoglia effetto chiaroscurale. Così anche Il Bersagliere, una tempera e china su carta apparsa anch’essa sulle pagine de «Gli Avvenimenti», sempre stilisticamente ancorata a una forte volumetria delle forme. Bisognerà attendere studi come Chiaro di luna, tavola ancora una volta apparsa su «Gli Avvenimenti» del 19 settembre 1915, dove il tratto dell’artista si fa più nervoso ed espressivo, funzionale alla drammaticità del soggetto. Come due innamorati, Francesco Giuseppe in vesti femminili e Guglielmo II di Prussia contemplano la luna, ignorando che in realtà si tratta della lama di una falce. La scena, proposta in chiave satirica, in realtà di umoristico ha ben poco. Dietro il falso tono canzonatorio si cela la presenza quotidiana della morte, che a questa data è per Sironi una realtà concreta, non più solo un’immaginazione. Da qui in poi le cose cambiano. I compagni d’armi ritratti da Sironi si fanno grevi e cupi, sono presenze più evanescenti, quasi dei fantasmi. Il nero predominante e l’inspessimento delle linee, intensificati dal rapido uso del carboncino, con cui Sironi tratteggia nervosamen-

Mario Sironi, I nuovi volumi della Kultur tedesca, 1915 china e tempera su carta. Gli Avvenimenti, 11 aprile 1015. Milano, collez. privata

Mario Sironi, Studio per Chiaro di Luna, tavola per Gli Avvenimenti, 19 settembre 1915, tempera su carta. Milano, collez. privata

Mario Sironi, La Vittoria Alata, 1935. Tecnica mista su carta da spolvero riportata su tela, Milano. Collez. privata

62 - segno 248 | APR/MAG 2014


attivitĂ  espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Mario Sironi, Il capitano Fantoni, 1918, matita su carta, collez. privata

Mario Sironi, Soldati, 1916 tempera e carboncino su carta. Milano, collez. privata Mario Sironi, La scimmietta del Montello, 1918 tempera su carta. tavola per il Montello, 15 ottobre 1918. Milano Collez. privata

te e sfuma, fanno di lavori come Malavita, Soldati, Stupidaggine nazionale Tedesca, datati 1916, prove di un ritorno al naturalismo sostenuto forse da un’esigenza più descrittiva e di registrazione immediata del vissuto. Su un simile piano si colloca la serie di ritratti di soldati realizzati nel biennio 1917-1918. Qui la tecnica del tratteggio è pienamente recuperata e funzionale a creare delle figure dai labili contorni, talvolta completamente annullati come in Soldato con chitarra del 1918. Sono figure isolate e desolanti, colte in un momento di riposo rubato, simbolo eloquente dell’orrore della guerra, che non conosce ozio e allegria ma solo profonda e deprimente solitudine. Una vena sarcastica, ma non per questo meno drammatica, ritorna nelle vignette realizzare nel 1918 per il «Montello», quindicinale di propaganda destinato ai soldati del Medio Piave, cui Sironi partecipa entrato a far parte del Servizio P. In mostra il progetto scartato del frontespizio: il profilo collinare del Montello con tre soldati di vedetta sotto le lettere cubitali del titolo e la copertina del primo numero che porta la data della presa di Porta Pia. Attraverso l’illustrazione, Sironi ritorna e recupera una certa sintesi della forma, ricorrendo all’uso di linee di contorno molto più definite. E i soggetti sono ovviamente i nemici, gli austriaci, cui la sua matita pungente non perde occasione di farsi scherno. Gli anni a venire, terminato il conflitto, sono invece e soprattutto segnati dalla memoria e dal ricordo di quell’esperienza, che sovente ritornano in molte sue opere. Ritroviamo figure di soldati e commilitoni in molta della pittura murale, cui l’artista si dedica, in particolare negli anni trenta. Sono soggetti spesso e sbrigativamente interpretati dalla critica, come generiche allegorie dell’eroismo e simboli della dottrina fascista. Nel catalogo che accompagna l’esposizione, invece, Elena Pontiggia, autrice del testo e curatrice della mostra, chiarisce molto bene e finalmente quale lettura dare dell’iconografia della Vittoria. Quella di Sironi non è una vittoria profetizzante un successo ma è una vittoria tradita. L’idea, germogliata nel 1915 in conseguenza alla disattesa espansione territoriale promessa all’Italia con il patto di Londra, è progressivamente maturata, dapprima tra i fasci di combattimento e poi nel fascismo, dando vita a una concezione di una vittoria mutilata. In tal senso il regime si fa bandiera di una vittoria da riscattare. E con questa visione va osservato La Vittoria col suo salvatore del 1924, meraviglioso disegno dal grande pathos, dove il salvatore, che indossa la camicia nera con lo stemma del fascio, salva per l’appunto la vittoria tradita con la quale condivide la spada. Allo stesso modo va interpretato la Vittoria Alata del 1935, studio preparatorio per la Vittoria che nell’Aula Magna de La Sapienza di Roma si prepara a difendere L’Italia fra le Arti e la Scienza; un’opera, fra l’altro, unica testimonianza dell’originale del fresco pesantemente rididipinto negli anni cinquanta. La Vittoria Alata, spiega Elena Pontiggia: «[…] è una figura dinamica ma ferma. È agitata nelle linee ma boccata nei perimetri, carica di slancio volitivo ma trattenuta negli atti, marziale nella fisionomia ma intrisa di grazia femminea. È un’opera insieme classica e romantica, che coniuga gli echi del Medioevo con quelli della Grecia prefidiaca, l’arte romana con l’arte romanica. […]» Mario Sironi, forse troppo e ingiustamente ricordato più per la sua adesione al fascismo, tanto da averne condizionato in modo negativo buona parte del giudizio sulla sua pittura; trova qui, in questa mostra a lui dedicata, il giusto riscatto nell’ottica di una rimeditazione intorno alla complessità della sua opera. Maria Letizia Paiato Mario Sironi, La Vittoria col suo salvatore, 1924 tecnica mista su carta, Milano, collez. privata

APR/MAG 2014 | 248 segno - 63


Il Piedistallo Vuoto Intervista a Marco Scotini a cura di Luciano Marucci

Tra le iniziative collaterali di ArteFiera 2014 sicuramente si è fatta notare la mostra “Il Piedistallo Vuoto. Fantasmi dall’Est Europa” presso il Museo Archeologico, che presentava opere provenienti da prestigiose collezioni italiane. Una campionatura di video, fotografie, disegni e installazioni, rappresentativa della transizione dalla Russia comunista a quella postsovietica. L’evento, curato con rigore critico da Marco Scotini, ha avuto il merito di dare migliore visibilità alla produzione artistica dell’Est Europa e di rianimare il dibattito su quel contesto, fino ad ora promosso da pochi specialisti come Loránd Hegyi, Victor Misiano e lo stesso Scotini, anche attraverso le conversazioni di approfondimento spesso puntualmente condotte da Giorgio Verzotti, direttore artistico della Fiera. L’esposizione, nella sua essenzialità, era allestita con originalità e chiarezza, favorendo la percezione dei lavori proposti e l’interpretazione del progetto piuttosto articolato e motivato. Quindi, nell’insieme la collettiva si differenziava da quelle disorganiche che privilegiano aspetti estetizzanti. Ma ecco alcune ‘spiegazioni’ di Scotini, regista della composita operazione: Con la mostra “Il Piedistallo Vuoto”, da te curata, cosa hai voluto focalizzare? Il Piedistallo Vuoto sta ad indicare molte cose. Il titolo è sembrato felice non soltanto a me, forse perché ha la capacità di parlare di presenza/assenza, apparizione/ sparizione, cioè della figura del fantasma. Questo vale per l’attualità, ma anche per la condizione dell’Est Europa prima del crollo del Muro di Berlino in cui gli artisti usavano veramente format poco visibili. Due esempi: Ion Grigorescu fa i video di body art nella sua stanza isolato e senza esporli; Vyacheslav Akhunov si esprime su un taccuino. Fondamentalmente c’è dietro un’immagine di grande speranza, nel senso che il piedistallo rimane vuoto proprio per accogliere quello che ancora non c’è. Si pensa al piedistallo vuoto quando è caduto qualcosa che c’era prima. Questa è l’immagine che ci viene pensando alla leninoclastia; oppure il piedistallo è vuoto perché una scultura deve ancora completare il monumento. La terza ipotesi è che esso sia stato lasciato vuoto per una riserva di virtualità potenziale. Quest’ultimo è l’aspetto che maggiormente mi interessava e che mi pare possa rappresentare, più di tutti gli altri, il denominatore comune della generazione prima della riunificazione tedesca e anche di quella successiva. Da sx: Teresa Iarocci Mavica (direttrice della V-A-C Foundation di Mosca), la moderatrice Silvia Franceschini, Heike MaierRieper (curatrice della collezione austriaca EVN Group) e il critico d’arte e curatore Marco Scotini (ph. Luciano Marucci)

64 - segno 248 | APR/MAG 2014

Igor Grubic,’ Angel with Dirty Faces (1), 2006, stampa a getto d’inchiostro su carta archivistica, 80 x 120 cm (Collezione Together, Torino; courtesy “Il Piedistallo Vuoto”) Elena Kovylina, Égalité, 2008, video-colore-suono 9 min. (Collezione Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino; courtesy “Il Piedistallo Vuoto”; ph Luciano Nadalini)

Quindi non è un “Piedistallo” vuoto di contenuti… Ne ha una molteplicità, ma soprattutto vuol essere vuoto perché aperto a un divenire, grazie alle potenzialità. Sai che il manifesto di Karl Marx comincia con uno spettro che si aggira per l’Europa citando direttamente Amleto, filtrato da Armando Lulaj in mostra con l’opera Enter The Ghost che raccoglie questa nuova immagine adatta ai tempi nuovi, piuttosto cupi. Mi pare che le nuove opere esposte esprimano ancora significati ideologici… Per la prima volta ho messo a confronto un’ampia gamma di materiali degli anni Settanta, della Repubblica Ceca, Slovacca, della Russia, del Centro Asia, con la produzione delle nuove generazioni con le quali lavoro da molto tempo. Quindi, era necessario trovare il denominatore comune a cui ancora non avevo pensato. Nel caso specifico ho visto che, con il crollo del muro di Berlino, per questa cultura che possiamo chiamare ancora dell’Est,

non c’era stato il trauma, ma una grande continuità, la capacità di fare da ponte tra quello che ci fu allora e quello che c’è al momento, come se la dittatura non fosse ancora finita. L’evento perciò ha precisi riferimenti teorici. Sì, ed è reso molto visibile. Dopo tanti anni, per suggestione di questi artisti, ho ripreso in mano un libro del ’93, “Gli spettri di Marx” di Jacques Derrida, un autore che non è nelle mie corde ma in questo caso funzionava. Questa è stata senz’altro la prima mossa verso la ricerca del presupposto di cui ho detto. A seguire il film “Solaris” di Tarkovsky. Con la transizione dalla Russia comunista a quella neoliberista alcuni critici, in altre occasioni, a proposito degli artisti di quell’area, avevano parlato di “nostalgia”. Il fatto che alla conversazione di ArteFiera fosse presente Francesco Bonami, che siano venuti galleristi d’Europa perché i loro


attivitĂ  espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

artisti sono in questa mostra, mi sembra un segno, una risposta non solo a una mia esigenza, ma ampiamente condivisa. In questo momento ritroviamo qualcosa che pensavamo di avere perduto, non è un momento di “nostalgia” come finora era stato chiamato da Viktor Misiano o di “ostàlgia” da Massimiliano Gioni. Io dico sempre che si ha nostalgia (anche in senso progressivo) quando qualcosa è stato abbandonato, quando qualcosa si è perduto. Nel caso della mostra da me curata non c’è alcuna nostalgia. Il fantasma viene e non si stanca di ritornare. L’idea del “rivenire” non muore mai. Mi pare un aspetto importante. La caduta del “Muro” ha certamente determinato il crollo dell’ideologia sovietica, pure se le questioni sorte dopo la transizione Est-Ovest hanno creato delle nostalgie. Secondo te, le degenerazioni non soltanto democratiche, provocate in Occidente dal neocapitalismo selvaggio, possono indurre a riattualizzare il termine “ideologia”? Non alludo a quella che vagheggia il ritorno agli esasperati nazionalismi, ma all’altra che esprime certi valori ideali, intesa come aspirazione a un futuro miglioVedute della mostra

re, anche se di là da venire. Insomma, pensi che nella nostra geografia possa esserci “ostalgia” per questo tipo di “ideologia” concepita come variante concreta della storica utopia senza corpo? Sicuramente sono cadute anche le illusioni della transizione democratica. Piuttosto che avere nostalgia per il passato sovietico si scopre ancora intatto quel portato sociale che, proprio sotto il regime sovietico, non si è realizzato. In questo senso dico che nella mostra non ci sono rovine del passato, ma spettri. Quegli stessi fantasmi che c’erano allora, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta. “Solaris” è una conferma e in mostra c’è il video di Narkevicius che non fa che ripetere Tarkovsky.

È stato un grande momento che ha esibito soprattutto la transizione venuta dopo la perestroika. Adesso molti teorici, fra cui Boris Buden del quale è stato riproposto un testo in catalogo, affermano che è giunta la fine della fase post-sovietica in cui c’è un’altra presa di coscienza, molto più politica… n

Per concludere, sei soddisfatto del successo ottenuto dall’esposizione? Nonostante la mostra sia molto concettuale dal punto di vista del percorso narrativo e dei rimandi continui tra un artista e l’altro, ha avuto immediatamente un grande riscontro di pubblico. Indubbiamente è stato anche un importante momento di esportazioneimportazione di quella cultura!?

Said Atabekov, Korpeshe Flags # 5, 2009-2011, installazione con 2 fotografie 50 x 65 cm e coperte (courtesy Collezione privata e Galleria Laura Bulian, Milano; ph L. Marucci). Marina Abramovic’, Lips of Thomas, 1975-1997, stampa su carta, 129 x 129 cm (Collezione Gemma Testa, Milano; courtesy “Il Piedistallo Vuoto”; ph Luciano Nadalini)

In occasione della mostra Il Piedistallo Vuoto. Fantasmi dall’Est Europa, è stato presentato il libro Politiche della Memoria. Documentario e archivio a cura di Elisabetta Galasso e Marco Scotini. L’antologia di testi Politiche della memoria indaga il rapporto tra arte e pratiche del documentario, a partire dalla riflessione e sperimentazione di alcuni tra i maggiori artisti e filmmakers contemporanei. Al centro della riflessione c’è il tema dell’uso dell’immagine come documento e delle sue possibilità di manipolazione. In opposizione al monopolio mediatico delle immagini, gli autori propongono una riscrittura visiva di questioni controverse come il postcomunismo, postcolonialismo, il conflitto mediorientale e i processi migratori su scala globale. La pubblicazione raccoglie un ciclo di conferenze tenute in NABA tra il 2009 e il 2013 da filmmakers quali John Akomfrah, Eric Baudelaire, Ursula Biemann, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Khaled Jarrar, Lamia Joreige, Gintaras Makarevicius, Angela Melitopoulos, Deimantas Narkevicius, Lisl Ponger, Florian Schneider, Eyal Sivan, Hito Steyerl, Jean-Marie Teno, Trinh T. Minh-ha, Wendelien van Oldenborgh, Clemens von Wedemeyer, Mohanad Yaqub. APR/MAG 2014 | 248 segno - 65


Bolognafiere

Joan Jonas, Galleria Alessandra Bonomo, Roma

Arte Fiera

Bologna, 24-27 gennaio 2014 Dodici nuove opere acquistate con il fondo acquisizioni di Bolognafiere nche per questa edizione di Arte Fiera 2014, BolognaFiere ha investito 100.000 euro per l’acquisto di 12 opere dalle gallerie espositrici per il proprio patrimonio. La scelta delle acquisizioni è stata affidata ai direttori artistici Claudio Spadoni e Giorgio Verzotti. Gli artisti e le opere selezionati sono i seguenti: Francesco Candeloro, “Memorie e Luci 2014, taglio laser su plexiglas (cm 162x120), Galleria: A Arte Invernizzi; Igor Grubic, “Missing Architecture” 2012, inkjet su carta d’archivio serie di 5 foto (cm 50x75), Galleria: Laveronica arte contemporanea; Jaan Toomik, “Untitled Action” 2013, video 1:52 min., Galleria Teminkova & Kasela; Giovanni Ozzola, “Routes Colombo” 2013, Galleria Continua; Elisabetta Di Maggio, “Butterfly flight trajectory #05” 2011, Entomological pins and acetate paper on plastazote (cm 100x200), Galleria Laura Bulian; Irma Blank, “Trascrizioni, Hommage à F. Schiller” 1975, indian ink su carta pergamena piegata in 36 part (cm.91x57), Galleria P420; Corinna Gosmaro, “Senza Titolo” 2014, olio su filtro (cm 150x200), Galleria Thomas Brambilla; Szucs Attila, Galleria: ERIKA DEAK; Mario Giacomelli, “Poesie in cerca d’autore” anni ’90, gelatin silver print (cm 30x40), Galleria Artistocratic; Mario Dondero, “Pierpaolo Pasolini e sua madre Susanna fotografati nella loro casa all’EUR” 1962, Galleria Valeria Bella Stampe; Robert Capa, “II Guerre Mondiale, Campagne d’Italie” 1944, Stampa alla gelatina sali d’argento (cm 18.8x24.3), Galleria Photographica Fine Art Gallery; Laure Catugier, “Silence 34” 2013, digital print on plexi-mat/ aludibond (cm 50x70), Galleria Paolo Erbetta.

A

Ttozoi, Muffe su tela ZAK Project Space, Monteriggioni (Si) Pascale Marthin Tayou, Galleria Continua San Gimignano, Pechino, Le Moulin

Aldo Mondino, Galleria Giuseppe Pero, Milano

Carla Bedini, Ca’ di Fra’, Milano Giulia Manfredi, Le Mandragole Galleria Bianconi, Milano

Laura Bisotti, ZAK Project Space, Monteriggioni (Si) Joseph Kosuth, Vistamare, Pescara Emilio Isgrò, Boxart, Verona

Galleria Alessandro Bagnai, Firenze A Arte Invernizzi, Milano

Tom Wesselmann, Glider, 2002 Flora Bigari Arte Contemporanea, Pietrasanta (Lu) Poleschi Arte, Lucca

66 - segno 248 | APR/MAG 2014


attività espositive FIERE D’ARTE

ARTEfierA

Acquisizioni Bolognafiere

Igor Grubic, Missing Architecture, 2012 (dettaglio), serie di 5 foto, inkjet on archival paper, cm 50x75 - Courtesy l’artista e Laveronica arte contemporanea Laure Catugier, 2013, Silence 34, digital print on plexi-mat-aludibond 50 x 70 cm. Ed. 1/1 Courtesy Paolo Erbetta Gallery, Berlin

Irma Blank, Trascrizioni, Hommage Ă  F.Schiller, 1975, indian ink on parchment like paper folded in 36 pages / indian ink su carta pergamena piegata in 36 parti, cm.91x57

PIERS 92-94

The Armory Show

New York, 6-10 marzo 2014

i è conclusa a New York la sedicesima edizione di The Armory Show, fiera leS ader per l’arte moderna e contemporanea

nello scenario internazionale. Nell’arco di cinque giorni la fiera, sotto la direzione di Noah Horowitz, ha accolto più di 65.000 visitatori e oltre 200 gallerie accuratamente selezionate provenienti da 29 paesi. Gli espositori hanno registrato forti vendite e la partecipazione di collezionisti ed istituzioni provenienti da Stati Uniti, Europa, Cina. Tra le gallerie internazionali che hanno riconfermato la propria partecipazione e le nuove partecipanti David Zwirner, Lisson Gallery, Victoria Miro, Lehmann Maupin e Sikkema Jenkins & Co presso il Pier 94 – Arte contemporanea e presso il Pier 92 – Arte moderna, Marlborough Gallery, Moeller Fine art, Galleria d’arte Maggiore G.A.M., Arne Ehmann, direttore della Galleria Thaddeus Ropac, ha dichiarato vendite eccellenti tra le quali l’opera Distant Cousin, 2008, di Tony Cragg per un milione di dollari, oltre a lavori di Baselitz e Tom Sachs grazie alla grande presenza di collezionisti americani. La Alison Jacques Gallery di Londra ha dedicato i propri spazi alla personale dell’artista brasiliana Fernanda Gomes, mentre James Cohan, della James Cohan Gallery, New York, dichiara soddisfazione per la presenza di collezionisti americani, europei e cinesi che gli hanno permesso di registrare la vendita di 10 opere di Michelle Grabner, curatrice della Whitney Biennial di quest’anno. Alexia Dehaene della MadeIn Gallery di Shanghai, ha sottolineato la propria soddisfazione per la partecipazione della propria galleria nella sezione China Focus “Abbiamo venduto tutti i lavori di Xu Zhen, artista selezionato a rappresentare The Armory Show di quest’anno, e di Lu Pingyuan nell’arco del primo giorno di preview.” Per l’edizione 2014, The Armory Show ha dedicato la sezione Armory Focus al dinamico paesaggio dell’arte contemporanea in Cina: curata da Philip Tinari, Direttore dell’Ullens Center for Contemporary Art, Pechino, ha presentato una interessante selezione di 17 gallerie affermate ed emergenti dal continente ed Hong Kong, molte delle quali non avevano

mai esposto fuori dalla Cina. Inoltre The China Symposium, supportato da Adrian Cheng e la K11 Art Foundation, ha riunito partecipanti da tutto il mondo tra i quali artisti affermati, giornalisti, curatori, collezionisti ed accademici, asiatici ed internazionali, fornendo nell’arco del programma di due giorni un’ampia panoramica della scena artistica contemporanea in Cina. La fiera ha anche lanciato l’edizione inaugurale dell’Armory Presents, dedicato alle presentazioni di lavori di singoli artisti o di coppie di artisti esposte da gallerie con meno di dieci anni di attività. In contemporanea The Armory Show-Modern ha presentato il suo primo progetto curatoriale: Venus Drawn Out: 20th Century Works by Great Women Artists, una selezione di disegni su carta di artiste del XX secolo a cura di Susan Harris, che ha sottolineato il crescente interesse da parte di vecchi e nuovi collezionisti e musei verso le opere americane, tedesche ed italiane degli anni Sessanta, Settanta e persino Ottanta Per la prima volta, l’edizione di quest’anno ha coinciso con l’apertura della Whitney Biennial, che ha costituito un ulteriore momento chiave nel calendario annuale per l’arte contemporanea a New York. Ancora una volta la fiera ha accolto oltre 100 direttori di musei internazionali ed americani tra cui il Museo di arte moderna (MoMA), The Metropolitan Museum of Art, il Solomon R. Guggenheim Museum, il Whitney Museum of American Art, il New Museum, il Centre Pompidou, l’Asia Art Archiv e la Tate.

Francesco Candeloro, Memorie e Luci (Bologna), 2013, Taglio laser su plexiglas, 162x120 cm Courtesy A arte Invernizzi, Milano - Photocredit Bruno Bani, Milano

Yutaka Sone, Little Manhattan (particolare), 2007-2009 David Zwirner, New York/Londra

Karin Sander, 1:5, 2011, Galerie Nächt St.Stefan Rosemarie Schwarzwälder Flying Arts Center Currency Sverre Bjertnes, Galleri Brandstruo, Oslo

Nick Cave, Soundsuit, 2014 Jack Shainman Gallery, New York

APR/MAG 2014 | 248 segno - 67


Olympia Grand Hall

ART14 LONDON

28 febbraio 2 marzo 2014

a seconda edizione di Art L London ha visto la

partecipazione di 182 gallerie da 42 paesi. I curatori Tim Etchells e Sean Angus sono coloro che hanno promosso il successo di Art HK Kehinde Wiley Passin/Posing, 2004 (Hong Kong) rendenJerome Zodo Milano do la fiera britannica la principale vetrina dell’arte contemporanea del medio ed estremo oriente in Europa. Tra le oltre 40 presenze asiatiche segnaliamo la Galerie du Monde (Hong Kong, con lavori ad inchiostro dei cinesi Li Gang, Li Hao, Qin Ching e Quin Feng); la Lin & Lin Gallery (Taiwan, che ha presentato Liu Wei); la Pearl Lam (Hong Kong,

con l’installazione “Cannonball Heaven 2011” di Yonka Shinibare Mbe); dall’India la Gallery Sumukha e la Delhi Art; dall’Indonesia la CIArt e dal medio oriente Janine Rubeiz (Libano), Athr Gallery (Arabia Saudita) e Jamm (Dubai). Interessanti le presenze dell’africana Arthouse The Space (Nigeria) e dell’australiana Sullivan + Strumpf. Scarsa le gallerie americane, vista la quasi concomitanza dell’Armory Show: Taymour Grahne Gallery (con Mohammed Kazem rappresentante gli Emirati Arabi all’ultima Biennale di Venezia). Ben nutrita invece la pattuglia locale con le circa 80 tra gallerie ed istitutzioni del Regno Unito, su tutte Paragon (con lavori di Marc Quinn) e Sims Reed (David Hockney). La vecchia Europa continentale si è presentata con la solita Germania a farla da padrona, Alexander Ochs ha esposto la monumentale “Waterfall” di Zhao Zhao, poi Francia (Galerie RX), Turchia (The Empire Projects con il solo show di Mehmet Guleryuz), Russia

(Triumph Gallery con il duo “recycle”), Svizzera (Ivo Kamm con opere di Gordon Cheung). Per l’Italia hanno partecipato Jerome Zodo (lavori di Basquiat), Louise Alexander, Primo Marella, Paci, Mimmo Scognamiglio, Ermanno Tedeschi, e mc2 Gallery. Nella sezione gallerie emergenti riservata ai giovani galleristi segnaliamo The Gallery Apart (Italia), El Museo (Colombia), Edel Assanti (Londra); per la sezione London First spiccano la 401 Contemporary (Berlino), Black Ship (New York) e Chaveri (India); nella sezione non-profit Kon (Birmingham) e Delfina Foundation (Londra). Direttore Stephanie Dieckvoss, website www.artfairslondon.com

Khaili Chishtee (Pakistan), Brain drain, 2009 2014 Art 14 London Projects

Thierry Fontaine Galerie, Les filles du calvaire, Paris

Primo Marella Gallery Milano Yinka Shonibare, Cannonball heaven, 2011 Pearl Lam Galleries Shanghai Galerie Mark Hachem Sokari Douglas, Camp all that glitters, 2013 Arthouse Gallery Lagos Nigeria

Triumph Gallery, London Serkan Özkaya, Louise Alexander Gallery, Porto Cervo

68 - segno 248 | APR/MAG 2014

Santiago Villanueva, Untitled #40 Diana Lowenstein Gallery Miami Usa


attività espositive FIERE D’ARTE

FERIA DE MADRID

ARCO

19-23 febbraio 2014 entre il mercato internazionale dell’arte contemporanea continua M la sua ascesa inarrestabile (cosí come

corroborano i risultati delle ultime aste), il mercato spagnolo resta agonizzante. L’ultimo report di Artprice informa che le vendite in Spagna hanno subito un calo di oltre il 60%. Prima che si celebrasse la 33ª edizione di Arco, il Governo ha deciso di anticipare una riduzione dell’IVA culturale al 10% per insufflare alla fiera aria nuova ed evitarne l’asfissia . Ma il pasticcio che ne è derivato ha fatto sì che si tacciasse quest’edizione di Arco come quella dell”embrollo fiscal”, generando la profusione di fiumi d’inchiostro sulla stampa nazionale nei giorni della fiera. Durante l’inaugurazione ufficiale non si parlava d’altro, tra lo scontento e lo sconcerto dei galleristi,che hanno risposto con varie forme di protesta e con reazioni distinte nella pratica dei fatti, cioe’ all’atto della vendita, su consiglio dei propri assessori fiscali. Di fatto,la nuova misura riduce al 10% solo l’IVA degli artisti; quello delle gallerie si mantiene al 21%. Come competere con le altre gallerie europee, dove, tanto per citare la Francia e la Germania, si tributa rispettivamente, circa un 6% e un 7 %(a ragion del vero, in Germania,per la pressione del Consiglio Europeo e’ recente la nuova misura che applica il 19% alle gallerie, lasciando in vigore il favorevolissimo 7% se si compra direttamente agli artisti)? I galleristi della Finlandia, paese invitato quest’anno ad Arco, dichiaravano che loro pagano un 7% se l’opera d’arte e’ nazionale e un 17% se e’ straniera, mentre secondo un mercante belga, da loro si tributa da un bel po’ il 21%. Carlos Urroz, direttore della fiera al suo quarto mandato, recideva la questione, con la decisione di applicare il 15,5%circa, risultato della somma e della successiva divisione per due del 21%(tasso generale) che incide sulla relazione tra il mercante e il collezionista e che grava la commissione di intermediazione del primo e il 10% che vige tra artista e compratore, sia che si tratti di gallerista o no. Secondo la veterana Juana de Aizpuru non ci sono in ballo solo gli affari, ma il (mancato) riconoscimento del lavoro di promozione culturale delle gallerie, sostenendo che l’arte non e’ un bene di lusso, e che i collezionisti esercitano un’opera di mantenimento del patrimonio culturale. Applicare un 4% come per i libri contribuirebbe a migliorare le aspettative, o quanto meno a chiarire l’imbroglio fiscale. Per il resto l’apertura della fiera è stata dominata da un’aria di ottimismo generale con la speranza di tradurla in risultati redditizi. Vero e’ che in fiera vale il refran che recita “ciascuno la racconta come gli e’ andata”, ma la veterana Helga de Alvear , gallerista e collezionista tedesca naturalizzata in Spagna, prima dell’apertura della fiera aveva già venduto molte opere e ne aveva acquistate cinque per la sua collezione personale. Eppure, come forma di protesta contro la farsa della riduzione fiscale, quest’anno non ha applicato alle pareti i cartellini dei prezzi e stava per sostituirli con altri che dicessero: “Se desidera comprare arte si diriga allo studio dell’artista: risparmierà”. Ma poi ha rinunciato a farlo, con l’amarezza di lottare invano per l’arte e la cultura. Nella speranza di un’armonizzazione dell’IVA culturale a livello europeo con una ragionevole pressione fiscale, Urroz ha reiterato la sua visione della fiera come occa-

sione di contatti. Di qui il completissimo programma di attività per “coccolare” il notevole numero di collezionisti invitati e il “recinto feriale” si e’ riempito subito di uno sciame di professionisti e di curiosi. L’arte spagnola è sempre ben rappresentata, sia per quanto riguarda le figure consacrate che per le emergenti. Lo sforzo delle gallerie e’ stato encomiabile e spronate dalle ormai consolidate, come Leandro Navarro, Elvira González, Elba Benítez, Helga de Alvear, Heirich Ehrardt, Oliva Arauna, Espacio Minimo, Fernández-Braso, Fúcares, Marborough, Álvaro Alcázar, a quelle di più recente conio come, in particolare, Ivorypress o Travesía Cuatro, tanto per citarne alcune. Pur conservando alcune presenze internazionali di indubbio peso come Chantal Crousel e Krinzinger, (per l’Italia, Cardi di Milano e presenza storica dello Studio Trisorio di Napoli), la partecipazione straniera è stata decisamente carente, a prescindere dall’offerta molto varia e curiosa delle gallerie finlandesi invitate. A conti fatti, si è percepito un clima di speranza da tradurrre in ricerca di un nuovo orizzonte per un Arco, meno istituzionale e più competitivo sul fronte internazionale, per farne una piattaforma singolare e autosufficiente, soprattutto perchè lo spirito dei tempi indica che le fiere acquistano sempre maggior protagonismo e competitività. L’idea di Carlos Urroz rimane quella di “resettare” Arco come fiera agile e “alla mano”, funzionale alla scoperta di nuovi talenti e non per perseguire le grandi milionate per opera. Una nuova intelligente forma di adattarsi ai tempi e a un nuovo circuito globale, saturato di appuntamenti, come si suol dire, ineludibili. Dalia Della Morgia

JosĂŠ Maria Sicilia, The Instant 2013 coloured indian ink on Japanese paper mounted on aluminium. Galerie Chantal Crousel, Paris Bene Bergado, Lucemario (serie Habitats) 2014 Oleo sobre bronce, acero inoxidable, poliuretano, cristal y luz 50x50x50 cm. Espacio Minimo, Madrid

Art Fair Basel June 17–22, 2014 APR/MAG 2014 | 248 segno - 69


Memoria | Progetto di Memoria

Seminario a cura di Francesco Moschini per la didattica dell’Accademia Nazionale di San Luca di Ilaria Giannetti Francesco Moschini e Paolo Rosa, fotografia di Pietro Carlino All’Accademia Nazionale di San Luca si è recentemente conclusa la prima sezione del seminario “Memoria - Progetto di Memoria. Musei, città, paesaggio Segno antico - segno contemporaneo”. Il ciclo di lezioni, a cura di Francesco Moschini, si inserisce nell’ambito di un più ampio impegno didattico avviato, nel 2011, dall’Accademia Nazionale di San Luca con l’intento di dare inizio a una originale rifondazione dell’antica tradizione degli insegnamenti Accademici, cessata in seguito all’unità nazionale con il trasferimento dei ruoli alle Accademie di Belle Arti. La nuova didattica, inaugurata con quattro corsi (“Primo Segnare” a cura di G. Strazza, “Segnare Disegnare Interpretare” a cura di M. Dalai Emiliani, “Segnare il Paesaggio” a cura di P. Portoghesi, “Memoria-Progetto di memoria” a cura di F. Moschini), segna il principio di una riflessione di ricerca e di studio sul tema del “segnare” – il segnare specifico dell’arte e dell’architettura, delle altre espressioni artistiche e della scienza – interrogandosi sul farsi e sul significare dei segni in un universo dell’espressione e della comunicazione di sempre più complessa e ambigua decifrazione. Il seminario “Memoria – Progetto di Memoria” intende mettere in luce le relazioni tra le memorie e le forme di comunicazione e di conservazione nella contemporaneità: all’insegna di uno shakespeariano “Time is out of joint [Il tempo è scardinato]” (Amleto, Atto 1, scena 5, verso 188), la sequenza delle lezioni restituisce una mappa concettuale ed epistemologica dell’universo dei segni in un tempo infranto alle soglie della modernità, sul confine instabile di un mondo fisico in espansione, e moltiplicato, nella contemporaneità, in una rete infinita di relazioni soggettive. Gli interventi previsti dal seminario, volti a evidenziare temi e problemi relativi al progetto e alla costruzione artistica dei luoghi in cui la memoria della contemporaneità si custodisce, avviano l’indagine nel confronto tra arti visive, filosofia, scienza e geografia.

Studio Azzurro, Il giardino delle cose, video ambiente, XVIII Triennale di Milano, 1992, Accademia Nazionale di San Luca

70 - segno 248 | APR/MAG 2014

Enrico Menduni, fotografia di Pietro Carlino

Manlio Brusatin, fotografia di Pietro Carlino

Studio Azzurro, Il Mnemonista, still da video, regia di P .Rosa, tratto dal testo di A.Lurija, 2000, Accademia Nazionale di San Luca


osservatorio critico MEMORIE D’ARTE

Alexander Rodcenko, fotografia di una scalinata in salita, documenti visivi dalla presentazione di Enrico Menduni

6b) Robert Hooke, disegno da immagine micrografica delle cellule del sughero, documenti visivi dalla presentazione di Lucio Russo

Piero della Francesca, tavole dal “De Prospectiva Pingendi”, documenti visivi dalla presentazione di Lucio Russo La composizione delle lezioni del corso (F. Moschini, Custodire le memorie; P. Rosa, Studio Azzurro, Memoria e musei di narrazione; M. Brusatin, La citta’ dei colori; E. Menduni, Fotografia e città; L.Russo, Scienza e disegno; F.Farinelli, La tavola, il mondo, la sfera) argomenta una riflessione transdisciplinare sulla contemporaneità nella quale, se sono le cose a emergere e galleggiare nello spazio, la memoria è l’atto di raccoglierne, riconoscerne, rammentarne e custodirne i segni. Se la dimensione privilegiata della ricostruzione della memoria è la narrazione, la forma scelta dai relatori delle lezioni è il racconto verbale o per immagini della fenomenologia della propria esperienza disciplinare e artistica. Prima declinazione del racconto l’esperienza di Paolo Rosa con Studio Azzurro sulla costruzione artistica di una WunderKammer della memoria esperienziale della contemporaneità apre le lezioni del seminario, anticipata dalla ouverture “Custodire le memorie” di Francesco Moschini. Interrogandosi sulle forme della memoria e dell’esperienza sensibile nella contemporaneità, Studio Azzurro introduce un filone d’indagine ricavato dalla contaminazione tra lo studio della percezione e la creazione di nuovi linguaggi artistici disvelati e prodotti dalle nuove tecnologie. Se, attualmente, l’esperienza tecnologica è incipit di uno sconfinato ampiamento della memoria, in una continua sovrapposizione dell’esperienza con i dati che arrivano dalla diffusione capillare dei media, il sistema sensibile dell’uomo registra senza sosta l’infrangersi di un’onda di memorie virtuali, provenienti dalla rete e dalle estensioni tecnologiche, sui confini del proprio corpo fisico. Quale “patrimonio esperienziale”, quali autentiche memorie sono, allora, il nutrimento dell’esperienza artistica ancora oggi in grado di “disincagliarne il sensibile”? Studio Azzurro si interroga, negli anni, sulla possibilità di considerare e costruire, attraverso la contaminazione tra la memorie sensibili e la virtualità dell’esperienza, nuovi scenari emozionali, rintracciati oltre quelli già in gioco. Mentre un impressionante flusso d’immagini portate dai media entra a far parte della memoria di ognuno di noi, come si modifica il nostro bagaglio esperienziale nel rapporto con la fisicità degli oggetti? Nel 1992, mentre un uomo in media aveva accesso, ogni giorno, a oltre 300.000 immagini riproducenti la realtà, Studio Azzurro presenta all’Esposizione Internazionale della XVIII Triennale di Milano “Il giardino delle cose”, un video ambiente sensibile, volto a instaurare, virtualmente, una nuova corporeità del rapporto dell’uomo con l’immagine della realtà. Nel blu delle immagini a infrarossi, il video-ambiente permette allo spettatore di vedere attraverso la simulazione del tatto. Toccare per vedere: il calore imposto dalle mani dell’uomo a contatto con gli oggetti,

li illumina, attraverso una telecamera termica, rendendone visibile la forma. Il tempo rende instabile l’immagine dell’oggetto, costruito dal sovrapporsi delle memorie tattili, in un passaggio continuo di nuove intensità. Se la contaminazione delle esperienze sensibili, attraverso i segni delle memorie esperienziali, permette, nei lavori di Studio Azzurro, di ricostruire l’immagine delle cose dagli oggetti della quotidiana, essa rivoluziona, allo stesso tempo, i modelli e le immagini del mondo. “La tavola, il mondo, la sfera” sono le proiezioni del mondo, presentate “in crisi di ragione” da Franco Farinelli, nella lezione conclusiva del seminario, difronte al capovolgersi della costruzione moderna dell’immagine del mondo portata dalla globalizzazione. Se lo spazio e il tempo della modernità sono il prodotto della sottrazione di una dimensione al mondo, descritto dalla scrittura geografica sul piano, sulla sfera terrestre della cultura globale si dissolvono i limiti dello spazio e del tempo. Il tempo e lo spazio, controllato dalla bidimensionalità della scrittura cartografica, si infrange in favore dell’emersione della frammentazione e della disgregazione del binomio conoscitivo di scienza e segno. In una consonanza di intenti, le riflessioni di Farinelli sono anticipate dalla narrazione di Lucio Russo, sull’evoluzione del rapporto tra disegno e teoria scientifica. La riflessione sia avvia sull’illustrazione dei teoremi e dei problemi Euclidei, sul ruolo, opposto a quello della scienza e della matematica moderna, del disegno nella conoscenza e nella dimostrazione del problema analitico. La geometria è la base essenziale della riflessione scientifica: permette di tradurre l’osservazione della realtà, attraverso la rappresentazione, in un modello astratto che comprende anche l’invisibile, come elemento fondamentale della teoria scientifica. L’astrazione della forma permette di costruire un modello della realtà, in un rapporto di contaminazione costitutiva tra disegno e scienza, in cui la dimostrazione geometrica serve per la progettazione della teoria scientifica. Alle soglie della contemporaneità, la dissoluzione del ruolo della geometria – compresa la geometria matematica – come base teorica delle dimostrazioni scientifiche, determina l’oblio della memoria costruttiva dell’immagine, la sostituzione del suo valore analitico e conoscitivo con l’affermazione esclusiva dell’icona. Mentre le immagini micrografiche seicentesce di Robert Hooke, ci riportano all’origine scientifica di una seconda scienza della rappresentazione – la fotografia – che affermandosi alla metà del XIX secolo, rivoluzionerà la percezione della realtà, la disciplina scientifica va smarrendo sempre più profondamente la propria cultura visuale. La fotografia è quindi protagonista, nel racconto di Enrico Menduni, della “raccolta dei segni” per la costruzione dell’immagine della città contemporanea: dai Daguerrotipi dei boulevard parigini del 1839 alla composizione della “sinfonia della grande città” , la fotografia si dimostra la tecnica più misurata al concetto di contemporaneità riguardo al tema della soggettività della narrazione, dei frammenti di visione su cui fondare il proprio progetto di memoria. APR/MAG 2014 | 248 segno - 71


Watershed Intramoenia Etra Art

atershed è “la metafora fluida”, è “il W tempo lento”, «è il crossover il diktat attuale dell’arte. (…) una sorta di espres-

sioni, di messaggi leggeri e forti insieme», secondo quanto scrive Giusy Caroppo, curatore generale del progetto, che ha coinvolto un carnet di artisti di chiara fama (Jan Fabre, NIO architecten, Birgert&Bergström, Guillermina De Gennaro, Luigi Presicce, Sarah Ciracì, Compagnia delle Formiche/Teatro dei Borgia) in una serie di interventi ospitati da alcuni Paesi europei (Italia, Paesi Bassi, Belgio, Svezia) tra il 2012 e il 2013. Tema centrale è l’acqua, intesa quale fonte di vita, ma soprattutto di scambio e d’interconnessione tra i molteplici linguaggi dell’estetica: teatrodanza, architettura, arti visive, video art, integrati da dibattiti reali e virtuali, residenze d’artista. A documentare l’intero progetto è un interessante cofanetto-oggetto che ha già destato molta attenzione critica, articolato in una sezione di raccolta di immagini rappresentative dei lavori istallati e dei momenti performativi, sette cataloghi relativi ai singoli interventi ed in un’opera-video originale allegata. Dalla presentazione dell’evento e delle sue sedi espositive, si passa ad una conversazione con Maurice Nio sull’architettura, legata all’urbanistica, al sociale, all’intervento nel contesto ambientale e paesaggistico, sino al dialogo tra Pietro Marino e Guillermina De Gennaro, la cui istallazione “Volver sin volver” riflette sull’effimero, sulla fugacità del viaggio, sulla fragilità della memoria nel processo cognitivo di acquisizioni identitarie. Se Anna Maria Giannone conversa con Giampiero Borgia - Compagnia delle Formiche -, Birgert&Bergström raccontano di come parlare di acqua implichi l’idea del continuo mutamento, carattere che deve esser rispettato dall’opera d’arte che vuole relazionarsi a tale elemento; mentre Francesca De Filippi si interfaccia con Luigi Presicce e Lorenzo Madaro con Sarah Ciracì. L’uno rivisita la storia sacra per realizzare una performance che concilia mito, religione, folklore, iconografia classica, rilette alla luce della sua visione contemporanea, sempre rapportata ad un luogo ed un tempo ben definiti, sebbene l’intervento porti con sé un’aura di atemporalità. L’altra si sofferma sull’idea di mediterraneità in “Watershed / dove c’è vita, c’è acqua”, opera-video che lascia spazio agli interventi di libera recitazione di Maurice Nio, Filippo Timi, Nichi Vendola, tutti dedicati alla potenza creatrice dell’acqua. Quella stessa potenza e libertà creativa che Jan Fabre esalta con “Art is a Medusa”, che mira ad ispirare immaginazione e fantasia, a «curare le ferite della mente» e che permettere all’arte di esprimere il suo potenziale salvifico. (Simona Caramia) Salvatore Manzi EXZAK phoebusedizioni.com

uesto libro», scrive Stefano Tacco«Q ne, «attende di vedere la luce almeno da cinque anni – o forse quasi sei…, dato 72 - segno 248 | APR/MAG 2014

che la prima volta ricordo se ne parlò con Salvatore mentre lo aiutavo ad erigere le pareti in mattoni rossi di Nascondiglio e dovevano essere i primi di ottobre del 2007…». Attraverso due testi, scritti a distanza di qualche anno, il critico ripercorre così gran parte del primo ventennio di attività dell’artista. Si parte dalle primissime opere, già testimonianza di una chiara pulsione a negare la presenza dell’autore, seguite dall’assunzione del nome “Zak” e più tardi dalla rinuncia a produrre autonomamente, limitandosi a firmare opere di altri, in particolare dell’amico Angelo Rossi, ed a diffondere comunicati stampa di mostre non realmente esistenti, onde arrecare disturbo ai poteri forti del sistema dell’arte. Poi l’approfondimento del mezzo video ed il contestuale allargamento dell’ambito di analisi e denuncia sociali; quindi la conversione al cristianesimo evangelico, con il ritorno al nome anagrafico, ed i conseguenti tentativi di coniugare “spirituale” e “sociale” ed infine l’approdo ad una peculiare pittura ove l’analisi segnica diviene lo strumento attraverso il quale esplorare il rapporto tra finito ed infinito, tempo ed eternità, immanente e trascendente. Il volume è ulteriormente arricchito dai testi critici della curatrice Raffaella Barbato e dell’artista Franco Cipriano sul lavoro più recente; dalle testimonianze degli artisticompagni di strada Michelangelo Consani, Angelo Rossi, Ur5o e del suo ex gallerista Umberto Di Marino; dalla conversazione con la curatrice Sara Errico e da una raccolta di alcuni interessanti documenti inediti.

sottese all’opera d’arte si valutano le possibilità interpretative e di cambiamento, per raggiungere una relazione con il tempo attuale tramite un mutamento e una rottura. Il complesso sistema, alla base di tale processo, è fondamentalmente interdisciplnare e allo stesso tempo privo di disciplina. Così Teresa Iaria, da artista e insegnante, individua un metodo di lavoro possibile anche per rivedere le regole, reinterpretarle nell’esperienza creativa dell’arte. Alla base di tutto c’è la libertà dell’artista di intendere, sentire ed arricchire il metodo e il sistema. Il testo considera, attraverso l’esempio di alcuni artisti contemporanei, connessioni, contesto, relazioni con la storia e il mondo; valuta la tecnica, strettamente legata all’idea, come strategia d’azione e riporta la complessità dell’arte contemporanea a partire dalla intelligibilità dell’opera. (Ilaria Piccioni) Inés Fontenla Oltre le mappe Postmedia books

Teresa Iaria Regole e fughe Analogie, metafore e modelli nei processi creativi Postmedia books ltre le mappe è il libro che racconta gli O ultimi quindici anni di lavoro di InÊs Fontenla. La pubblicazione, edita da Postmedia

rtista e docente di Tecniche e TecnoloA gie della Pittura all’Accademia di Belle Arti Brera a Milano, Teresa Iaria appronta un testo guida all’arte contemporanea, per verificare strumenti e metodologie del processo creativo. Dall’analisi delle regole

books, è a cura di Angela Madesani che nel testo introduttivo dialoga con l’artista argentina, naturalizzata italiana, in un percorso di ricostruzione e racconto. Il libro ha una impostazione tematica e non cronologica e definisce le linee contenutistiche principali della ricerca di Ines Fontenla. I temi dell’utopia e dei territori immaginari sono evidenti nei lavori che riportano il soggetto di Atlantide e che si legano all’interesse per l’architettura e la “caduta”, nella fragilità della sostanza sabbiosa, fino alla tangibilità storica della caduta del muro di Berlino. Il tema delle migrazioni richiama una componente autobiografica, considerato il nomadismo di Ines tra il suo paese d’origine, l’Argentina e l’Italia, il luogo d’adozione. E oltre il racconto c’è il ricco apparato iconografico che riporta la validità conoscitiva della ricerca, incentrata sull’analisi multidisciplinare, il concetto di passato e di futuro, ovvero mito e utopia, la riflessione sulla natura, sull’ambiente. Il mezzo di analisi, dal valore inesauribile, è l’immagine. (Ilaria Piccioni)

ADDII Oltre che un raffinato collezionista ed un bravo gallerista Pino Casagrande era l’amico che tutti amavamo per la gentilezza dei suoi modi, la cordialità con cui accoglieva e la passione con cui si dedicava al suo lavoro. Se n’è andato nel dicembre dell’anno appena trascorso, celando a tutti il male che lo stava portando via. Anche l’inizio del 2014 è stato nefasto per il mondo dell’Arte: il 23 febbraio ci ha lasciato Carla Accardi, la più grande artista italiana. La ricordiamo, ringraziandola per la finezza e l’intensità della sua espressione artistica, con le parole di Denys Zacharopoulos scritte sulla nostra rivista in occasione della sua ultima mostra al Macedonian Museum of Contemporary Art di Salonicco: “Sapiente e razionale, il suo lavoro è gioioso, luminoso e brillante, pieno di temperamento, luce e speranza. È il più gradito tra tutti i messaggi che possiamo ricevere, da una persona che ha già percorso la via che ci farà uscire dalle tenebre, dalla guerra, dalla miseria dal fascismo, dalla crisi individuale e sociale del secolo scorso.” Il 26 febbraio sul registro delle assenze era segnato il nome di Jan Hoet, curatore di origine belga, direttore e fondatore del museo di arte contemporanea SMAK di Gand. Era un personaggio carismatico, molto amato e stimato, curatore di una della più belle edizioni di Documenta Kassel nel 1992. Aveva molti amici in Italia, tra i quali abbiamo avuto il piacere di essere annoverati con collaborazioni e segni di stima e di affetto per la nostra rivista. Jan era noto per la sua schiettezza ed il suo stile ha fatto di lui un’icona culturale del mondo dell’arte contemporanea. “L’arte mi ha dato una comprensione di ciò che la politica dovrebbe essere” disse dopo aver tentato senza successo la carriera politica nel parlamento europeo!”


HIDETOSHI NAGASAWA Caos vacilla 09. 05. 2014 - 28. 09. 2014

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Albero di farfalle, 2008

a cura di Bruno CorÃ


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Segno /colore arte, architettura, scienza, musica, moda

31 marzo - 9 aprile 2014 corso a cura di Guido strazza lunedĂŹ 31 marzo

Prolusione > Guido Strazza Visione e percezione dei colori > Lamberto maffei martedĂŹ 1 aprile

Disegno / Colore > CriStina aCidini mercoledĂŹ 2 aprile

Segno / Colore / Paesaggio: tra pittura e fotografia mariSa daLai emiLiani | roberta VaLtorta giovedĂŹ 3 aprile

Architettura / Colore > PaoLo PortoGheSi Immagine del colore > manLio bruSatin lunedĂŹ 7 aprile

Suono / Colore Guido barbieri | CLaudio Strinati martedĂŹ 8 aprile

Forma / Moda / Colore roberto CaPuCCi | roberta orSi Landini | CarLo berteLLi mercoledĂŹ 9 aprile

Linea / Tratteggio / Trama / Colore Guido Strazza | marzia faietti | franCo Purini lezioni a ingresso libero orario 17.30 - 20.00

d i dat t i c a ac c a d e m i a na z i o na l e d i s a n lu c a piazza dell’Accademia di San Luca 77, Roma 06.6798848 | 06.6798850 | didattica@accademiasanluca.it | www.accademiasanluca.eu


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