Segno 273

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segno Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910 00 in libreria

€ 5.

ARTVERONA

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770391

391001

Anno XLIV GIU/LUG 2019

Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

segno Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

11—13.10.2019

15

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00273

# 273 - Giugno/Luglio 2019

#BACKTOITALY

All’interno ANTEPRIMA/NEWS - SPECIALE 58a BIENNALE DI VENEZIA DOCUMENTAZIONE GRANDI MOSTRE ARTISTI IN MOSTRA – RECENSIONI, IMMAGINI – LIBRI E CATALOGHI

OLEG KULIK


Nedda Guidi, Ritmo esagonale Galleria Artivisive 1971

Eugenia Beck Lefebvre Autoritratto riflesso - 1942

Wendy Stone, Alfabeto - 1975

MULIERES IN ECCLESIIS TACEANT Testo di Domenico Amoroso con un’intervista a Sylvia Franchi (Prima edizione: Maggio 2018)

Il libro nasce dalla consapevolezza che la storia dell’arte oggi raccoglie e mette a disposizione prospettive così esasperatamente multiple, chiavi di lettura oppositivamente diversificate, metodi di lavoro alternativi, la cui narrazione risulta infine tanto ricca da diventare opinabile. Sceglie dunque di presentare di questa realtà, un piccolo frammento, ricco però di implicazioni, testimonianze e stimoli. Il frammento su cui attirare la prospettiva del lettore è il binomio Artivisive/ Donne, con riferimento all’omonima galleria di Roma - oggi Associazione culturale internazionale, con la direzione di Sylvia Franchi - che dalla fine degli anni Sessanta ad oggi, ha lavorato in una scelta di apertura internazionale, con un metodo di lavoro interdisciplinare, o “indisciplinato”. All’interno di ciò distinguendosi per una sensibilità verso le artiste, non per forme di protezione o rivendicazioni femministe ma in riconoscimento del prezzo che queste hanno dovuto pagare per conciliare identità di genere con vocazione artistica. Emerge così uno spaccato vivo e palpitante della ricerca artistica in Italia e fuori, in grado di offrire stimoli e riflessioni utili a comprendere il mondo dell’arte odierno, a volte scoprendone le radici, a volte le mistificazioni e i camuffamenti. Marika Af Trolle - Annalisa Alloatti - Eugenia Beck Lefebvre - Mirella Bentivoglio - Federica Bertino - Tomaso Binga (Bianca Menna) - Irma Blank - Anna Bonoli - Zaza Calzia - Lucilla Caporilli Ferro Bona Cardinali - Rosanna Castaldo - Lucilla Catania - Yvonne Cattier - Paula Claire - Carla Crosio - Laura D’Andrea Petrantoni - Immacolata Datti - Lucia Di Luciano - Lia Drei - Anna Esposito Amelia Etlinger - Candida Ferrari - Giosetta Fioroni - Gisela Frankenberg - Ilse Garnier - Gerda Gluck - Marie Zoe Greene Mercier - Santina Grimaldi - Boumila Grogerova - Silvia Guberti Patrizia Guerresi - Nedda Guidi - Angela Hart O’Brien - Ana Hatherly - Lore Heuermann - Annalies Klophaus - Ketty La Rocca - Maria Lai - Liliana Landi - Sveva Lanza - Bice Lazzari - Paola Levi Montalcini - Bertina Lopez - Eliana Lumetti - Dacia Maraini - Lucia Marcucci - Annalisa Marini Jessica Martensson - Elisa Montessori - Giulia Niccolai - Vanna Nicolotti - Anna Oberto - Anezia Pacheco e Chaves - Gloria Persiani - Jasmine Pignatelli - Marguerite Pinney - Monica Pioggia Renata Prunas - Betty Radin - Valeria Randazzo - Annie Ratti - Fiorella Rizzo - Maria Roccasalva - Lucia Romualdi - Luisa Ronchi Imbesi - Rosy Rosenholz - Cinzia Ruggeri - Giovanna Sandri - Lucia Sapienza - Mira Schendel - Dianne Schroeder - Pina Scognamiglio - Giovanna Secchi Mary Ellen Solt - Claudia Steiner - Wendy Stone - Lina Strano - Chima Sunada - Salette Tavares - Gwenn Thomas - Biljana Tomic - Anna Torelli - Franca Tosi - Silvia Trevale - Aviva Uri - Inge Vavra - Giancarla Verga Il libro è stato presentao a Palermo, Catania e Caltagirone nel mese di maggio 2019 ed è in programmazione a Padova, Biblioteca Civica (all’interno della Rassegna “Saggia_ Mente”) Centro culturale Altinate San Gaetano, Via Altinate, 71, mercoledì 18 settembre, ore 17.30 a cura di Vincenza Cinzia Donvito

Lia Drei, Collage 13 - 1969

Carla Crosio, Galleria Artivisive Roma 1993

Lucilla Caporilli Ferro, Gioco prospettico - 2010

Art director: Sylvia Franchi - artivisivesylvia@libero.it - www.associazioneartivisive.com


#273

giugno/luglio 2019 sommario

52/55

Tomás Saraceno [16]

Artista in copertina

Oleg Kulik

Eclipse 2, 1999, silkscreen on paper framed, 96x70cm courtesy Galleria PACK, Milano Enrico David [22]

4/15 Anteprima Mostre & Musei News Italia Istituzioni, Musei e Gallerie d’arte a cura di Umberto Sala e Paolo Spadano

Liliana Moro [22]

16/41 Speciale Biennale di Venezia/1

Chiara Fumai [22]

58° mostra internazionale d’arte ai Giardini e Arsenale, i Padiglioni nazionali, i Premi, aspetti critici, riflessioni e incertezze, interviste nelle prime letture e nelle osservazioni specifiche di Paolo Balmas, Maria Letizia Paiato, Antonella Marino, Marilena di Tursi, Maria Vinella, Cecilia Paccagnella, Ilaria Piccioni, Serena Ribaudo, Rita Olivieri, Maila Buglioni, Elda Oreto per breve intervista a Caterina Avataneo assistente curatrice Padiglione della Lituana, Leon d’oro. * Alcune mostre collaterali Beverly Pepper, Arshile Gorky, Chiara Dynys, George Baselitz, Tech exhibition, Future generation, Pino Pascali, Jannis Kounellis, Hillary Clinton emails. J.Lee Byars, Joana Vasconcelos, Altre mostre a Venezia: Luoghi e segni, Luc Tuymans, Recursion and Mutations, Hiroyuki Masuyama Young Artist in the Hotel

segno

periodico internazionale di arte contemporanea Direzione e redazione Corso Manthonè, 57 65127 Pescara

Telefono 085/8634048

redazione@rivistasegno.eu www.rivistasegno.eu

Direttore responsabile LUCIA SPADANO (Pescara) Condirettore e consulente scientifico PAOLO BALMAS (Roma) Direzione editoriale UMBERTO SALA Caporedattore: Maria Letizia Paiato. Redazione web: Roberto Sala

Tony Cragg [44] Tian Li [59]

Emilio Tadini, Fondazione Marconi, Milano Lyçia Pape, Fondazione Carriero, Milano Hao Wang, Studio Cannaviello, Milano Paola Pivi, MAXXI Roma Tony Cragg, Giardini di Boboli, Firenze Pistoletto, Tayou, Bruyckere & Peng Yu, Gall. Continua San Gimignano Vittorio Corsini, Arte in fabbrica, Firenze Riccardo De Marchi, AArte Invernizzi, Milano Sheel Gowda, Hangar Bicocca, Milano Oleg Kulik, Galleria Pack, Milano Biennolo 2019, Ex Laboratorio-Cova Milano Zhang Enli, Galleria Borghese, Roma Raphael Danke, Galleria Norma Mangione, Torino Cremonini, Manfredi, Coletti, Galleria l’Ariete, Bologna Arianna De Nicola, Civico 16, Pescara Tian Li, Accademia Belle Arti, Roma Sulle vie della Seta, Galleria Spazia, Bologna Sabrina Casadei, Galleria Nicola Pedana, Caserta Impronte dell’Arte, Galleria Nazionale, Roma C. Lorh, L. Dujourie, Galleria Tucci Russo, Torre Pellice Salvatore Astore, Galleria Davide Paludetto, Torino Filippo Armellini, Mattia Bosco, Galleria Fumagalli, Milano Il Soggetto Imprevisto. Arte e femminismo in Italia, F.M. Centro Arte Contemporanea, Milano Mostre in mostra, Palazzo Esposizioni, Roma Reprint: Paolo Scirpa – Libro Artivisive, Roma

Il soggetto imprevisto [66]

news e calendario eventi su www.segnonline.it

o documentazioni 42/75 Attività espositive/ Recensioni

ABBONAMENTI ORDINARI € 30 (Italia) € 60 (in Europa CEE) € 100 (USA & Others) ABBONAMENTO SPECIALE

PER SOSTENITORI E SOCI Collaboratori e Corrispondenti dell’associazione culturale Segno: Raffaella Barbato, da € 300 a € 500 Milena Becci, Maila Buglioni, Francesca Cammarata, Simona Caramia, Tristana Chinni, Viana Conti, Marilena Di Tursi, Angela Faravelli, Antonella Marino, Duccio Nobili, Rita Olivieri, L’importo può essere versato sul Dario Orfée La Mendola, Cecilia Paccagnella, Ilaria Piccioni, Gabriele Perretta, Serena Ribaudo, c/c postale n. 1021793144 Rivista Segno - Pescara Carla Rossetti, Gabriella Serusi, Luca Sposato, Stefano Taccone, Maria Vinella.

Distribuzione e diffusione Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Pescara - ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 Edito dalla Associazione Culturale Segno e da Sala editori s.a.s. associati per gli esecutivi e layout di stampa Registrazione Tribunale di Pescara nº 5 Registro Stampa 1977-1996. Traduzioni Lisa D’Emidio e Paolo Spadano. Art director Roberto Sala - Tel. 085.61438 - grafica@rivistasegno.eu. Redazione web news@rivistasegno.eu Impianti grafici e legatura: Publish e Nuova Legatoria (Cepagatti - Pe). Ai sensi della legge N.675 del 31/12/1996 informiamo che i dati del nostro indirizzario vengono utilizzati per l’invio del periodico come iniziativa culturale di promozione no profit.


>anteprima< MILANO

GALLERIE D’ITALIA

Dall’argilla all’algoritmo li spazi delle Gallerie d’Italia - Piazza Scala ospitano una mostra curata da Carolyn Christov-Bakargiev e Marcella G Beccaria dal titolo Dall’argilla all’algoritmo. Arte e tecnologia. Le

opere esposte provengono dalle collezioni di Intesa Sanpaolo e del Castello di Rivoli - Museo d’Arte Contemporanea e, come il titolo suggerisce, indagano la relazione tra tecnologia, soggettività umana e arte. Un’opera come la video installazione Hisser (2015) di Ed Atkins pone gli spettatori di fronte a un malinconico soggetto, inquietante esempio della solitudine esistenziale che l’interconnessione digitale può causare. In What the Heart Wants (2016) Cécile B. Evans si chiede cosa potrebbe significare essere umani in un mondo futuro, completamente digitalizzato e nel quale reale e virtuale coincidono. Opere di altri artisti quali Grazia Toderi, Hito Steyerl, Roberto Cuoghi, Cally Spooner, articolano ulteriormente il discorso, mostrando i molteplici punti di vista degli artisti contemporanei rispetto alle nuove tecnologie e ai loro impatti sull’essere umano. Fino all’8 settembre.

Cécile B. Evans, What the Heart Wants, 2016, video HD, 22’30” Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino in comodato da Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT Paul Pfeiffer, Corner Piece, 2002-2003 installazione video, DVD, colore, sonoro, monitor, struttura in metallo, 2’10” Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino

PISTOIA

FONDAZIONE PISTOIA MUSEI

Italia moderna 1945-1975 a mostra ITALIA MODERNA 1945-1975. Dalla Ricostruzione alla Contestazione, a cura di Marco Meneguzzo, è allestita L negli spazi di Palazzo Buontalenti e pensata in due tappe che

condividono lo stesso intento storico-critico, illustrato attraverso opere selezionate dalle collezioni di Intesa Sanpaolo. La prima, dal titolo Le macerie e la speranza, è visitabile fino al 25 agosto e si dipana tra il confronto con l’eredità storico-artistica (con opere ad esempio di Greco, Guttuso, Marini, Recalcati) e le tendenze astratto-geometriche (Ballocco, Bozzola, Dorfles, Prampolini, Reggiani), ma anche tra le esperienze più radicali (Baj, Colombo, Crippa, Dangelo) e i contatti con le tendenze artistiche d’oltralpe e oltreoceano (Calderara, Lazzari, Nigro, Turcato). Significativa l’esperienza dell’Informale, specie riflettendo sulle differenze tra la sua matrice naturalistica, e quella di derivazione linguistico-espressionista (Afro, Birolli, Corpora, Fabbri, Somaini, Cavaliere, Rama, Peverelli, Scanavino, Accardi, Basaldella, Sanfilippo, Scordia, Nivola, Perilli, Scialoja). Una riflessione è dedicata a chi all’epoca veniva percepito come Maestro, ma che in larga parte non corrisponde a chi percepiamo noi oggi come tale (con attenzione a figure esemplari come Burri, Dorazio, Fontana, Capogrossi, Manzoni, Munari, Vedova, Giò e Arnoldo Pomodoro, Melotti). La seconda tappa, in programma dal 13 settembre al 17 novembre ha come titolo Il benessere e la crisi. Vanno a comporla oltre centocinquanta opere.

Ed Atkins, Hisser, 2015, video HD, colore, sonoro, 21’51” Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino Donazione Marco Rossi, Torino

ROMA MAXXI

Maria Lai n occasione del centenario della nascita, grande mostra dedicaMaria Lai (1919-2013), tra le voci più singolari dell’arte itaIlianata acontemporanea, i cui lavori sono stati recentemente esposti a Documenta 14 e alla Biennale di Venezia 2017. L’esposizione Tenendo per mano il sole è un tributo a chi ha saputo creare, in anticipo sulle ricerche di arte relazionale, un linguaggio capace di coniugare sensibilità, tradizioni locali e codici globali. Il titolo della mostra cita e omaggia la prima fiaba cucita realizzata dall’artista nel 1983. In esposizione circa 200 lavori, dai primi anni Sessanta alle ultime ricerche, tra cui libri cuciti, sculture, opere pubbliche e i suoi celebri telai, che restituiscono una biografia complessa e affascinante, e un approccio alla creatività libero e privo di pregiudizi. Fino al 12 gennaio 2020.

ITALIA MODERNA 1945-1975, Le macerie e la speranza vedute dell’allestimento, Fondazione Pistoia Musei

4 - segno 273 | GIUGNO/LUGLIO 2019

Maria Lai, Senza titolo, 1991, filo, stoffa, tempera, cm.17x19x2,5 courtesy M77 Gallery, Milano, e Archivio Maria Lai by SIAE 2019 foto Lorenzo Palmieri


>news istituzioni e gallerie< TORINO

REGGIA DI VENARIA

David LaChapelle llestita negli spazi della Citroniera delle Scuderie Juvarriane, la mostra Atti Divini invita i visitatori ad immergersi in A una visione dei lavori del fotografo americano. Con la curatela

di Denis Curti e Reiner Opoku, e il progetto allestitivo di Giovanni Tironi, la rassegna propone 70 opere di grande e grandissimo formato, tra le più significative dei vari periodi della carriera dell’artista, raccogliendo i lavori più iconici che hanno contribuito a rendere la sua figura tanto influente. Protagonista di una vera rivoluzione figurativa, LaChapelle conduce nella consapevolezza dell’artificio creativo un percorso all’interno (e contro) la natura, fino a far emergere una nuova espressione artistica ambientata in un paradiso colorato. La sua fotografia si relaziona con le manifestazioni più significative della civiltà occidentale, dal Rinascimento al contemporaneo. Tra le opere in mostra Rape of Africa (2009), con Naomi Campbell come una Venere di Botticelli, ambientata nelle miniere d’oro dell’Africa; Showtime at the Apocalypse (2013), ritratto della famiglia Kardashian che rappresenta paure, ossessioni e desideri che si riflettono nell’ambiente familiare; le serie Land SCAPE (2013) e Gas (2013), vivaci ed elettrizzanti progetti di nature morte; Deluge (2007), resa contemporanea dell’affresco di Michelangelo nella Cappella Sistina; ma anche lavori come Awakened (2007) e Seismic Shift (2012), legati alla divinità nel mondo moderno. In mostra, infine, alcune opere inedite della nuova serie di New World (2017-2019) che rappresenta lo stupore dell’artista per il sublime e la ricerca della spiritualità in scene di utopia tropicale. Fino al 6 gennaio 2020.

David LaChapelle, Rebirth of Venus, 2009, courtesy l’artista Alphonse Mucha, Sarah Bernhardt, 1897 litografia a colori, cm.58x40,7 Gretha Arwas Collection, Londra (UK), courtesy Arwas Archives

David LaChapelle, Loaves and Fishes, 2003, courtesy l’artista

TORINO

REGGIA DI VENARIA

Art Nouveau a cornice delle Sale dei Paggi della Reggia ospita Art Nouveau. Il trionfo della bellezza, racconto della straordinaria fioriL tura artistica che ha travolto e cambiato il gusto tra la fine dell’Ot-

tocento e i primi anni del Novecento. A cura di Katy Spurrell, in mostra manifesti, dipinti, sculture, mobili e ceramiche “invasi” da rimandi alla natura, al mondo vegetale e a un’immagine nuova della figura femminile. Concepita come arte totale, l’Art Nouveau diventa Tiffany negli Stati Uniti, Jugendstil in Germania, Sezession in Austria, Nieuwe Kunst nei Paesi Bassi, Modernismo in Spagna e s’impone rapidamente in Inghilterra, patria dei maggiori teorici del movimento. A Torino giunge nel 1902 con l’Esposizione internazionale di Arte Decorativa Moderna, dando il via alla stagione del Liberty in Italia. Oltre 200 le opere in mostra, provenienti dagli Arwas Archives, dalla Fondazione Arte Nova, dalla Collezione Rodolfo Caglia e da altri prestiti di privati, di artisti come Emile Gallé, Daum Frères, Alphonse Mucha, Louis Majorelle, René Lalique, Eugène Grasset, Henri de Toulouse-Lautrec, Eugène Gaillard. Fino al 26 gennaio 2020. Mario Merz Prize 3°Edizione, locandina

TORINO

FONDAZIONE MERZ

Mario Merz Prize a mostra collettiva dei 5 finalisti della sezione Arte della terza edizione del Mario Merz Prize, a cura di Claudia Gioia, Samuel L Gross e Beatrice Merz, ha come protagonisti gli artisti Bertille

Bak (Francia, 1983), Mircea Cantor (Romania, 1977), David Maljkovic (Croazia, 1973), Maria Papadimitriou (Greta, 1957) e Unknown Friend (duo composto da Stephen G. Rhodes e Barry Johnston). Il percorso espositivo include linguaggi e soluzioni formali molto eterogenei, ma accomunati da una potente tensione interrogatoria nei confronti del presente. Molteplici traiettorie individuali si mescolano alla collettività e vicende generazionali distinte convergono nel tentativo di costruire un nuovo linguaggio per catturare il tempo contingente. Fino al 6 ottobre. GIUGNO/LUGLIO 2019 | 273 segno - 5


>anteprima< BOLOGNA

LIGNANO

La Fondazione Mast presenta, in anteprima europea, una mostra multidisciplinare che indaga l’impatto dell’uomo sul pianeta attraverso immagini del fotografo Edward Burtynsky, i filmati dei registi Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier, installazioni di realtà aumentata e il film sul progetto. La mostra, curata da Urs Stahel (MAST), insieme a Sophie Hackett (Art Gallery of Ontario, Toronto) e Andrea Kunard (Canadian Photography Institute), è un’esplorazione multimediale che documenta l’indelebile impronta umana sulla terra. 35 gli scatti di Burtynsky che illustrano temi quali l’estrazione delle risorse naturali, le deforestazioni, le grandi infrastrutture di trasporto, il cambiamento climatico, le discariche e l’inquinamento. Troviamo, poi, quattro enormi murales ad alta risoluzione arricchiti da filmati di Baichwal e de Pencier, autori anche di videoinstallazioni che favoriscono la comprensione della portata e dell’impatto del fenomeno; tre installazioni di realtà aumentata e il film Anthropocene: The Human Epoch, codiretto dai tre artisti, completano l’esperienza. Fino al 22 settembre.

Nell’ambito delle celebrazioni per il 60° anniversario dell’istituzione del Comune, Lignano Sabbiadoro propone alla Terrazza sul mare l’inedita e divertente mostra Cinema in bikini. Italiani al mare: manifesti 1949-1999, a cura di Andrea Tomasetig ed Enrico Minisini. In esposizione un centinaio tra manifesti, locandine e fotobuste provenienti dalla Collezione Minisini, a firma di grandi “pittori del cinema” come Enrico De Seta, Sandro Symeoni, Nano (Silvano Campeggi), Anselmo Ballester, Angelo Cesselon, Alfredo Capitani, Giorgio Olivetti, Renato Casaro per citare solo alcuni dei nomi presenti. Il linguaggio pittorico, da un lato semplice e immediato, raggiunge punte di alta raffinatezza sia nelle allusioni che nella mano felice dell’autore, venendo a costituire una parte importantissima dell’immaginario italiano: “uno specchio dell’Italia che cambia visto dalla spiaggia”, come sostiene Enrico Minisini. Fino al 17 luglio.

Anthropocene

Cinema in bikini

Edward Burtynsky Clearcut #1, Palm Oil Plantation, Borneo, Malaysia, 2016 courtesy l’artista e Admira Photography, Milano Nicholas Metivier Gallery, Toronto Edward Burtynsky Dandora Landfill #3, Plastics Recycling, Nairobi, Kenya, 2016 courtesy l’artista e Admira Photography, Milano Nicholas Metivier Gallery, Toronto

FIRENZE

Claudio Parmiggiani

La Galleria Poggiali propone A cuore aperto, personale di Parmiggiani a cura di Sergio Risaliti. Undici le opere installate nei due spazi della galleria, la maggior parte delle quali realizzate per l’occasione, accanto a lavori meno recenti: un cuore fuso in ghisa serrato da due tubi in acciaio poggiati sulla Commedia di Dante, un calco in cera di una statua antica, uno strumento musicale come l’arpa con le farfalle, una campana di bronzo appesa come un impiccato, una biblioteca di cenere o la gigantesca ancora aggrappata con tutta la sua forza dopo aver infranto una parete di cristalli, reduce dalla Biennale di Venezia del 2015. L’allestimento ci restituisce una mostra di impianto museale che si snoda come un discorso ora drammatico, ora elegiaco e lirico. Fino al 29 ottobre.

Claudio Parmiggiani, Senza titolo, 2014 campana di bronzo e corda, cm.80 (h), Ø cm.80 courtesy Galleria Poggiali, Firenze Claudio Parmiggiani, Senza titolo, 1997-2015 ferro e vetro, cm.430x430x120 courtesy Galleria Poggiali, Firenze Canzoni… in bikini, 1963, regia Giuseppe Vari manifesto cm.140x100 Collezione Minisini Sandro Symeoni, Costa Azzurra, 1959 regia di Vittorio Sala, manifesto cm.140x100 Collezione Minisini

ISCHIA

Bianco valente

Al Pio Monte della Misericordia di Casamicciola, nuova installazione del duo composto da Giovanna Bianco e Pino Valente. Misuro il tempo è costata mesi di ricognizione, studio e ricerche, 10 giorni di lavoro sul campo e quattrocentotrenta metri quadrati di carta velina nera, per rivitalizzare una struttura, le Terme di Casamicciola, che dal 1973 versava in stato di abbandono. Fino al 28 luglio. Bianco Valente, MISURO IL TEMPO, 2019, courtesy l’artista

Tre notti d’amore, 1964, regia di Renato Castellani fotobusta Collezione Minisini

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>news istituzioni e gallerie< Lucia Gangheri

Stefano Arienti, Paolo Canevari, Peter Wuthrich Galleria Christian Stein, Milano /Pero

MILANO

Arienti / Canevari Wüthrich

La galleria Christian Stein dedica una personale a Stefano Arienti (1961). L’artista che utilizza materiali poveri come carta, stoffa, polistirolo, realizza per l’occasione una serie di opere inedite: fotografie stampate su ciniglia o su carta di grande formato, con un risultato vibrante grazie alla stropicciatura del supporto. In contemporanea, gli spazi di Pero della galleria ospitano le personali di Paolo Canevari (1963) e di Peter Wüthrich (1962). Fino al 12 ottobre 2019.

Martha Rosler

La Galleria Raffaella Cortese presenta una personale dell’artista newyorkese dal titolo An American in the 21st Century. La mostra, terza occasione di collaborazione, è dislocata nei tre spazi della galleria e raccoglie tre lavori chiave dell’artista, tra video, fotomontaggio e scultura, in un dialogo che riflette il suo persistente impegno con la teoria (critica, politica), il criticismo, la parola scritta. In via Stradella 7, l’installazione Reading Hannah Arendt (Politically, for an American in the 21st Century), concepita nel 2006, sottolinea la rilevanza degli scritti della filosofa politica sul totalitarismo, la censura e sulla cultura della paura; in via Stradella 4, il lungometraggio A Simple Case for Torture, or How to Sleep at Night (1983) è un’accusa al supporto del governo nord-americano a regimi che praticano la tortura; mentre La serie di fotomontaggi Off the Shelf (2008/2018) riporta via Stradella 1 alle sue origini di libreria milanese. Fino al 27 luglio.

Martha Rosler, A Simple Case for Torture, or How to Sleep at Night, 1983, still da video, 62’ courtesy l’artista, Electronic Arts Intermix, New York Galleria Raffaella Cortese, Milano Martha Rosler, Off the Shelf: War and Empire, 2008 C-print, cm.71×56, Ed. 10 + 2 AP courtesy l’artista, Galleria Raffaella Cortese, Milano Mitchell-Innes & Nash, New York

Linda Fregni Nagler, How to Look at a Camera Johan Österholm, Night Lights Galleria Monica De Cardenas, Milano

Linda Fregni Nagler Johan Österholm

Terza personale nella Galleria Monica De Cardenas per la Fregni Nagler che presenta How to Look at a Camera, mostra la cui origine proviene da una serie di immagini che ritraggono persone cieche e figure che posano di spalle, risultando spesso enigmatiche, come oggetti misteriosi. Ne è conseguito un lavoro sulle diverse modalità di offerta o negazione dello sguardo, la ritualità della posa nello studio fotografico e la consapevolezza di essere fotografati, il guardare da un occhio solo e così via. La Project Room della galleria ospita Night Lights di Österholm, esposizione che utilizza la fotografia come mezzo per riflettere attorno alla definizione di un paesaggio notturno e all’idea di oscurità. In mostra opere chiamate Lantern Smashers, che ritraggono passeri in cerca di riparo e di oscurità, edificando nidi all’interno di vecchi lampioni a gas ancora funzionanti. Fino al 26 luglio.

Al Palazzo delle Arti, Syn-Essenza, personale dell’artista napoletana che espone 18 lavori sperimentali accompagnati da 10 disegni tratti dal suo libro d’artista “Di-segnare”, edito da EffEErrE. Una molteplicità linguistica testimonianza della sua continua ricerca sperimentale. “La continua ricerca dell’artista” scrive in catalogo la curatrice Simona Zamparelli, “la si ritrova oggi nei passaggi tecnici delle sue opere in mostra: dal disegno che viene digitalizzato e stampato su PVC interviene pittoricamente realizzando figure di animali, talvolta poco riconoscibili, che racchiudono il senso simbolico di un bestiario contemporaneo. I nuovi supporti sono il segno della trasformazione socio-comunicativa, ma anche il percorso di crescita della vita umana. Si nasce incontaminati come il disegno, si cresce influenzati dal consumo/ merce, in questo caso plastiche come il PVC, ma senza mai tralasciare l’essenza del nostro essere, come il gesto pittorico che co-esiste con l’artificiale stampa”.

NAPOLI

Ernesto Tatafiore

Nelle sale di Palazzo Partanna, a distanza di mezzo secolo dalla mostra che inaugurava nelle stesse stanze la Modern Art Agency di Lucio Amelio, Tatafiore conferma che il suo tratto saliente, il suo tocco di uomo consapevole del proprio tempo, è la leggerezza. In una lunga carriera, l’artista ha levigato asperità e smussato spigoli, fino quasi ad abolire lo spessore del segno. Tutto per lui è in superficie. Trame sottili concatenano allusioni, metafore e motti di spirito. La profondità non è che trasparenza della superficie, fenditura della carta, grana del colore. Nel lavoro dell’artista napoletano ogni significato scivola da una parte all’altra dell’immagine proposta, come sospeso e rimbalza tra una introspezione attenta a varcare le parti più intime e misteriose dell’io e una lucida concettualizzazione del reale. Le figure sono costruite con segni tenui, ma senza chiaroscuri, con un approccio quasi fumettistico, privo di enfasi, semplificato, scarno, all’apparenza giocoso, per impedire letture dogmatiche suggerendo il senso di una realtà fragile. Modo lieve e sfuggente di fare arte, che cattura il senso impreciso della contemporaneità. Fino al 2 agosto. Ernesto Tatafiore Casamadre, Palazzo Partanna, Napoli

Lucia Gangheri, Syn-Essenze, courtesy l’artista Valentýna Janu Is your blue the same as mine?, 2018, still da video courtesy l’artista e Galleria Doris Ghetta, Ortisei (bz)

ORTISEI

Run the World (Girls)

La Galleria Doris Ghetta presenta una mostra collettiva declinata al femminile dal titolo Run the World (Girls), a cura di Adam Budak e Sabine Gamper. Tra citazioni del linguaggio delle icone pop, che disegnano un discorso convenzionale assai potente, la mostra propone un modo alternativo di esplorare e rappresentare l’identità femminile, preconizzando l’avvento di una “nuova ragazza”, più forte e indipendente che mai. Il titolo lascia intendere un atteggiamento ironico e giocoso nei confronti di soggetti contemporanei colonizzati dalla coscienza collettiva di onnipresenti immagini pop; in questo gioco le opere presentate mettono in questione la cultura normativa e quotidiana attraverso immagini e fantasie comuni. Opere di Alketa Ramaj, Barbara Gamper, Barbara Tavella, Pakui Hardware, Sári Ember, Ursula Mayer, Valentýna Janu. Fino al 20 luglio. GIUGNO/LUGLIO 2019 | 273 segno - 7



>news istituzioni e gallerie< ROMA

TORINO/RIVARA

Fino al 6 gennaio 2020, grazie agli interventi multimediali di Studio Azzurro, le visite guidate notturne dell’anfiteatro Flavio si arricchiscono di nuove suggestioni. La luna sul Colosseo - Il sogno del gladiatore è costituito da una suggestiva illuminazione che crea un’atmosfera magica su tutta la cavea del Colosseo.

Il Castello di Rivara - Museo d’Arte Contemporanea ospita la mostra Antologica che omaggia e rilegge criticamente l’intera opera dell’artista biellese, protagonista della scena italiana da oltre quarant’anni. Troviamo ad esempio le serie Fili a piombo, La fabulazione del silenzio, Le Murrate e i muri, Dio dell’Acqua. Fino al 3 novembre.

La luna sul Colosseo

Studio Azzurro La luna sul Colosseo - Il sogno del gladiatore

Delfina Camurati

Delfina Camurati, Antologica Castello di Rivara-Museo d’Arte Contemporanea THE BEST. Da Picasso, Braque, Duchamp a Burri, Warhol e i contemporanei, MAON, Rende (cs)

COSENZA/RENDE

The Best

PALERMO

Filippo di Sambuy

Nuovo appuntamento con Palermo per l’artista, che già nel 2016, in occasione della mostra L’Origine, Stupor Mundi, aveva creato per la città tre installazioni (pavi-

menti in marmo) nelle sedi di Palazzo dei Normanni, Cappella dell’Incoronazione e Museo Riso. Da oggi all’interno dei ruderi dell’Ex Chiesa di Santa Maria del Soccorso, nel quartiere di Ballarò, campeggia un’opera in mosaico dedicata a Santa Rosalia, Protettrice del capoluogo siciliano.

Filippo di Sambuy, installazione permanente, 2019, Chiesa di Santa Maria del Soccorso, Ballarò, Palermo

Il MAON di Rende ospita la mostra THE BEST. Da Picasso, Braque, Duchamp a Burri, Warhol e i contemporanei, a cura di Tonino Sicoli, con 60 opere delle collezioni del Museo. Artisti: Alberti, Arman, Balla, Braque, Burri, Campigli, Capogrossi, Ceroli, César, Christo, Cocteau, Conti, Corneille, Crippa, Dalì, Delauney, Del Pezzo, Diulgheroff, Dix, Dova, Duchamp, Ernst, Fabre, Fontana, Greco, Grosz, Guttuso, Kounellis, Kosuth, Isgrò, Levi, Montanarini, Mastroianni, Matta, Henry, Nitsch, Novelli, Paik, Paladino, Pascali, Perilli, Picasso, Ray, Richter, Rotella, Schifano, Spoerri, Sutherland, Tàpies, Tinguely, Tozzi, Turcato, Warhol. Fino al 29 giugno.

VICENZA

Bardula

Valmore studio d’arte propone La Geometria della Luce, personale dell’artista che approfondisce, all’interno di una struttura matematico-geometrica, la relazione tra il volume e la prospettiva, il colore, la forma e la riflessione della luce. L’uso del LED con colore variabile, esaltato dalla sua riverberazione nella materia, altera la percezione del tutto e crea una sinergia tra forma e luce. Fino al 2 agosto.

Bardula Interférence Bleue Hommage à Julio Le Parc, 2017 pigmenti su plexiglas, LED, alluminio, cm.90x90x6 courtesy l’artista e Valmore studio d’arte, Vicenza Bardula, Swirl, 2019 inchiostro su alluminio, cm.120x120x7 courtesy l’artista e Valmore studio d’arte, Vicenza

GIUGNO/LUGLIO 2019 | 273 segno - 9


1 GIUGNO 2019 ORE 18.30 VIA CARAVAGGIO 125 PESCARA YAG/GARAGE NUOVE ACQUISIZIONI CUBO D’ARTISTA I GIARDINI D’ARTE DI VIA CARAVAGGIO 2019 (III° ED.) YOUNG ARTIST IN THE HOTEL Info YAG/garage + 39 085 38880 yag@carlomaresca.it www.yag-garage.com

Via Pasquale Scura 8 - 80134 Napoli tel. 081.18126773 www.shazargallery.com info@shazargallery.com

SHAZAR GALLERY

23 maggio/5 luglio 2019 da lunedì a venerdì 14.30-19.30 sabato su appuntamento


Moderne Galerie

Saarlandmuseum Moderne Galerie Saarbruchen, Germany

Giuseppe Penone 13.4 - 18.82019


Photograph taken at Vitra Design Museum, Weil am Rhein

Participating Galleries # 303 Gallery 47 Canal A A Gentil Carioca Miguel Abreu Acquavella Air de Paris Juana de Aizpuru Helga de Alvear Andréhn-Schiptjenko Applicat-Prazan The Approach Art : Concept Alfonso Artiaco B von Bartha Guido W. Baudach elba benítez Bergamin & Gomide Berinson Bernier/Eliades Fondation Beyeler Daniel Blau Blum & Poe Marianne Boesky Tanya Bonakdar Bortolami Isabella Bortolozzi BQ Gavin Brown Buchholz Buchmann C Cabinet Campoli Presti Canada Gisela Capitain carlier gebauer Carzaniga Casas Riegner Pedro Cera Cheim & Read Chemould Prescott Road Mehdi Chouakri Sadie Coles HQ Contemporary Fine Arts Continua Paula Cooper Pilar Corrias Chantal Crousel

D Thomas Dane Massimo De Carlo dépendance Di Donna E Ecart Eigen + Art F Konrad Fischer Foksal Fortes D‘Aloia & Gabriel Fraenkel Peter Freeman Stephen Friedman Frith Street G Gagosian Galerie 1900-2000 Galleria dello Scudo gb agency Annet Gelink Gladstone Gmurzynska Elvira González Goodman Gallery Marian Goodman Bärbel Grässlin Alexander Gray Richard Gray Howard Greenberg Greene Naftali greengrassi Karsten Greve Cristina Guerra H Michael Haas Hauser & Wirth Hazlitt HollandHibbert Herald St Max Hetzler Hollybush Gardens Hopkins Edwynn Houk Xavier Hufkens I Invernizzi Taka Ishii J Bernard Jacobson Alison Jacques Martin Janda

Catriona Jeffries Annely Juda K Kadel Willborn Casey Kaplan Karma International kaufmann repetto Sean Kelly Kerlin Anton Kern Kewenig Kicken Peter Kilchmann König Galerie David Kordansky KOW Kraupa-Tuskany Zeidler Andrew Kreps Krinzinger Nicolas Krupp Kukje / Tina Kim kurimanzutto L Lahumière Landau Simon Lee Lehmann Maupin Tanya Leighton Lelong Lévy Gorvy Gisèle Linder Lisson Long March Luhring Augustine Luxembourg & Dayan M Jörg Maass Kate MacGarry Magazzino Mai 36 Gió Marconi Matthew Marks Marlborough Mayor Fergus McCaffrey Greta Meert Anthony Meier Urs Meile Mendes Wood DM kamel mennour Metro Pictures Meyer Riegger Massimo Minini Victoria Miro Mitchell-Innes & Nash

Mnuchin Modern Art The Modern Institute Jan Mot mother‘s tankstation Vera Munro N nächst St. Stephan Rosemarie Schwarzwälder Nagel Draxler Richard Nagy Edward Tyler Nahem Helly Nahmad Neu neugerriemschneider Franco Noero David Nolan Nordenhake Georg Nothelfer Nathalie Obadia O OMR P P.P.O.W Pace Pace/MacGill Maureen Paley Alice Pauli Peres Projects Perrotin Petzel Francesca Pia Plan B Gregor Podnar Eva Presenhuber ProjecteSD R Almine Rech Reena Spaulings Regen Projects Rodeo Thaddaeus Ropac S Salon 94 Esther Schipper Rüdiger Schöttle Thomas Schulte Natalie Seroussi Sfeir-Semler Jack Shainman ShanghART Sies + Höke

June 13 – 16, 2019

Sikkema Jenkins Skarstedt SKE Skopia / P.-H. Jaccaud Société Pietro Spartà Sperone Westwater Sprovieri Sprüth Magers St. Etienne Nils Stærk Stampa Standard (Oslo) Starmach Christian Stein Stevenson Luisa Strina T Take Ninagawa Tega Templon Thomas Tokyo Gallery + BTAP Tornabuoni Travesía Cuatro Tschudi Tucci Russo V Georges-Philippe & Nathalie Vallois Van de Weghe Annemarie Verna Susanne Vielmetter Vitamin W Waddington Custot Nicolai Wallner Barbara Weiss Wentrup Michael Werner White Cube Barbara Wien Jocelyn Wolff Z Thomas Zander Zeno X ZERO... David Zwirner Feature The Breeder Bureau Corbett vs. Dempsey Raffaella Cortese Croy Nielsen frank elbaz

Essex Street Christophe Gaillard Hales Jahn und Jahn Klemm’s Knoell Kohn David Lewis Philip Martin Jaqueline Martins Daniel Marzona Parra & Romero Project Native Informant Tommy Simoens Sommer Stereo Vadehra Isabelle van den Eynde Vedovi Kate Werble Statements Balice Hertling Barro Carlos/Ishikawa Chapter NY ChertLüdde Commonwealth and Council Crèvecoeur Experimenter Freedman Fitzpatrick JTT Jan Kaps Marfa’ Max Mayer Neue Alte Brücke Dawid Radziszewski SpazioA Temnikova & Kasela The Third Line Edition Niels Borch Jensen Alan Cristea mfc-michèle didier Durham Press Fanal Gemini G.E.L. Sabine Knust Lelong Editions Carolina Nitsch Paragon Polígrafa Susan Sheehan STPI Two Palms


Courtesy by Pandora Old Masters, New York

The Inter national Art Fair devoted to works on paper

Dal 19 al 22 settembre Lugano, Swiss 4th Edition/4a Edizione www.wopart.ch


>news istituzioni e gallerie< Liste

BASILEA

Art Basel

In attesa di celebrare, nel 2020, il mezzo secolo di storia, l’edizione 2019 della kermesse elvetica riunisce al Messe Basel circa 290 espositori, in rappresentanza di 4000 artisti. La sezione principale, Galleries, vede una ricca partecipazione anche italiana: Artiaco (Napoli), Continua (San Gimignano, Beijing, Les Moulins, Habana), De Carlo (Milano, Londra, Hong Kong), Dello Scudo (Verona), Invernizzi (Milano), kaufmann repetto (Milano), Magazzino (Roma), Giò Marconi (Milano), Massimo Minini (Brescia), Franco Noero (Torino), Christian Stein (Milano), Tega (Milano), Tucci Russo (Torre Pellice, TO), ZERO... (Milano). Confermatissime le sezioni Feature, con progetti speciali tra cui troviamo la Galleria Raffaella Cortese (Milano) con opere di Helen Mirra e Allyson Strafella; Statements, con presentazioni personali di artisti emergenti, in cui SpazioA (Pistoia) presenta il lavoro di Giulia Cenci; Editions e Parcours, con opere 20 site-specific presentate nell’area della grande Münsterplatz. Ricchissima la sezione Unlimited, curata per l’ottava (e ultima) volta da Gianni Jetzer e che propone 75 allestimenti di grandi dimensioni: Andreas Angelidakis, The Breeder; Larry Bell, Hauser & Wirth; Guy Ben Ner, Sommer Contemporary Art; Sadie Benning, Susanne Vielmetter Los Angeles Projects; Huma Bhabha, Salon 94; Camille Blatrix, Balice Hertling, Andrew Kreps Gallery; Anna and Bernhard Blume, Buchmann Galerie, Peter Freeman, Inc.; Monica Bonvicini, Galleria Raffaella Cortese, Galerie Peter Kilchmann, Mitchell-Innes & Nash; Andrea Bowers, kaufmann repetto, Andrew Kreps Gallery, Susanne Vielmetter Los Angeles Projects; Marc Brandenburg, Galerie Thaddaeus Ropac; Mircea Cantor, Magazzino; Valentin Carron, kamel mennour, Galerie Eva Presenhuber; Vajiko Chachkhiani, Daniel Marzona; Chen Chieh-jen, Long March Space; Edgar Cleijne and Ellen Gallagher, Gagosian; Bruce Conner, Paula Cooper Gallery, Kohn Gallery; Jonathas de Andrade, Galleria Continua; Lucy Dodd, David Lewis Gallery, Sprüth Magers; François Dufrêne, Galerie Georges-Philippe & Nathalie Vallois; VALIE EXPORT, Galerie Thaddaeus Ropac; Belu-Simion Fainaru, Galeria Plan B; Sam Falls, 303 Gallery, Galleria Franco Noero, Galerie Eva Presenhuber; Lucio Fontana, Magazzino, Galleria Tega; Alicia Framis, Galería Juana de Aizpuru; Coco Fusco, Alexander Gray Associates; Abdulnasser Gharem, Galerie Nagel Draxler; Felix Gonzalez-Torres, David Zwirner; Antony Gormley, Galleria Continua; Laurent Grasso, Sean Kelly, Perrotin; Duane Hanson, Gagosian; Kiluanji Kia Henda, Goodman Gallery; Carsten Höller, Galleria Continua; Suki Seokyeong Kang, Kukje Gallery / Tina Kim Gallery; Kapwani Kiwanga, Goodman Gallery; Daniel Knorr, Meyer Riegger, Galerie nächst St. Stephan Rosemarie Schwarzwälder; Jannis Kounellis, Galerie Karsten Greve; Kaarel Kurismaa, Temnikova & Kasela; John Latham, Lisson Gallery; Lawrence Lek, Sadie Coles HQ; Jochen Lempert, ProjecteSD; Zoe Leonard, Galerie Gisela Capitain, Galleria Raffaella Cortese, Hauser & Wirth; Liliane Lijn, Rodeo; Renata Lucas, A Gentil Carioca, neugerriemschneider, Galeria Luisa Strina; Sarah Lucas, Sadie Coles HQ; Ari Marcopoulos,Galerie frank elbaz, Fergus McCaffrey; Kerry James Marshall, Jack Shainman Gallery, David Zwirner; Anthony McCall, Sean Kelly, Sprüth Magers, 14 - segno 273 | GIUGNO/LUGLIO 2019

Rodolfo Aricò, Oltre il limite D, 1984, acrilico su tela cm.181x300x5, courtesy A arte Invernizzi, Milano Art Basel, Galleries Allyson Strafella, sloping, 2016, segni dattiloscritti su carta di abaca pigmentata, cm.36,2×25,1, courtesy l’artista e Galleria Raffaella Cortese, Milano - Art Basel, Feature

Galerie Thomas Zander; Paul McCarthy, Hauser & Wirth, Xavier Hufkens; Fausto Melotti, Hauser & Wirth; Senga Nengudi, Lévy Gorvy, Sprüth Magers; Rivane Neuenschwander, Stephen Friedman Gallery; Olaf Nicolai, Galerie Eigen + Art; Hélio Oiticica, Galerie Lelong & Co.; Jorge Pardo, neugerriemschneider; Steven Parrino, Gagosian; Giuseppe Penone, Gagosian; Vaclav Pozarek, Galerie Francesca Pia, Barbara Wien; Bunny Rogers, Société; Ugo Rondinone, Gladstone Gallery, Galerie Eva Presenhuber; Mika Rottenberg, Hauser & Wirth; Jacolby Satterwhite, Mitchell-Innes & Nash; Joan Semmel, Alexander Gray Associates; Do Ho Suh, Lehmann Maupin, Victoria Miro; Fiona Tan, Peter Freeman, Inc., Frith Street Gallery; Blair Thurman, Peres Projects; Thu Van Tran, Galerie Rüdiger Schöttle; Francisco Tropa, Gregor Podnar, Galerie Jocelyn Wolff; Brent Wadden, Peres Projects; Tom Wesselmann, Gagosian; Franz West, Hauser & Wirth, David Zwirner; Pae White, neugerriemschneider; Martha Wilson, mfc - michèle didier, P.P.O.W; Sislej Xhafa, Galleria Continua; XU ZHEN, Perrotin; Akram Zaatari, Thomas Dane Gallery, Sfeir-Semler Gallery. Come sempre, il programma è completato dalla ricca offerta delle sezioni Film, Magazines e Conversations. Jonathas De Andrade, Eu, mestiço / Me, mestizo Project, 2017, stampa UV su cartone Falconboard 16 mm, dimensioni variabili, courtesy Galleria Continua (San Gimignano) - Art Basel, Unlimited

La settimana dell’arte di Basilea non può fare a meno, anche quest’anno di Liste, fiera incentrata sulle nuove scoperte nel mondo dell’arte. Sono 77 le gallerie partecipanti, provenienti da 33 paesi, a incontrarsi al Werkraum Warteck, ex birrificio con spazi espositivi distribuiti su 5 piani. Le gallerie: 80M2 Livia Benavides, Lima; A Thousand Plateaus Art Space, Chengdu; Adams and Ollman, Portland; Galerie Allen, Parigi; Antenna Space, Shanghai; Aoyama Meguro, Tokyo; Arcadia Missa, Londra; Galerie Bernhard, Zurigo; Galerie Maria Bernheim, Zurigo; blank, Città del Capo; Bodega, New York; Sandy Brown, Berlino; Clearing, New York/Bruxelles; Company, New York; Bianca D’Alessandro, Copenhagen; Dastan’s Basement, Teheran; Bridget Donahue, New York; Dürst Britt & Mayhew, The Hague; El Apartamento, Havana; Emalin, Londra; Ermes - Ermes, Vienna; Lars Friedrich, Berlino; Frutta, Roma/ Glasgow; Gianni Manhattan, Vienna; Ginerva Gambino, Colonia; Good Weather, North Little Rock; Green Art Gallery, Dubai; Gypsum, Il Cairo; High Art, Parigi; Lucas Hirsch, Dusseldorf; hunt kastner, Praga; Instituto de Visión, Bogotá; Ivan, Bucarest; Jenny’s, Los Angeles; Galerie Noah Klink, Berlino; Koppe Astner, Glasgow; LambdaLambdaLambda, Pristina; Laveronica arte contemporanea, Modica; LC Queisser, Tbilisi; Antoine Levi, Parigi; Lodos, Città del Messico; Lomex, New York; MadeIn Gallery, Shanghai; Madragoa, Lisbona; Maisterravalbuena, Madrid; Marcelle Alix, Parigi; Édouard Montassut, Parigi; mor charpentier, Parigi; Mujin-to Production, Tokyo; Öktem Aykut, Istanbul; Park View/ Paul Soto, Los Angeles/Bruxelles; Piedras, Buenos Aires; Piktogram, Varsavia; PM8, Vigo; Polansky, Praga/Brno; Bonny Poon, Parigi; Proyectos Ultravioleta, Guatemala City; ROH Projects, Jakarta; Sabot, Cluj-Napoca; Sandwich, Bucarest; Sariev Contemporary, Plovdiv/Sofia; Deborah Schamoni, Monaco; Galeria Sé, San Paolo; Seventeen, Londra; Southard Reid, Londra; Gregor Staiger, Zurigo; Simone Subal Gallery, New York; Sultana, Parigi; Super Dakota, Bruxelles; Sweetwater, Berlino; Galerie Joseph Tang, Parigi; The Sunday Painter, Londra; Truth and Consequences, Ginevra; Union Pacific, Londra; Federico Vavassori, Milano; Veda, Firenze; Weiss Falk, Basilea. L’Helvetia Art Prize, supporto a un giovane artista svizzero, annualmente attribuito dal 2004, è stato assegnato per il 2019 a Kaspar Ludwig. Nel lavoro premiato, Why should I buy pillows when All I want Is sleep, presenta una installazione a pavimento e sonora con cuscini fatti di lastre di metallo e gonfiati con aria compressa. Liste 2019, il Werkraum Warteck


>news istituzioni e gallerie< Volta

15ma edizione per la fiera dedicata alle novità nel mondo dell’arte. In Elsässerstrasse 215 si riuniscono circa 80 gallerie da tutto il mondo. Dall’Italia Alessandro Casciaro (Bolzano), The Flat - Massimo Carasi (Milano), Galleria Anna Marra e Montoro12 Gallery (Roma), yvonneartecontemporanea (Vicenza).

Rudolf Stingel

La Fondation Beyeler dedica l’esposizione estiva al pittore di Merano (operante tra casa e New York). In mostra le serie più significative di Stingel a ripercorrere tutte le fasi creative degli ultimi tre decenni, offrendo una visione poliedrica delle sue pratiche artistiche. Il percorso si snoda su nove sale e coinvolge anche due ambienti del ristorante nel parco Berower. Fino al 6 ottobre.

Rudolf Stingel, Untitled, 2018 olio su tela, cm.241,3x589,3 courtesy l’artista e Fondation Beyeler, Basilea Rebecca Horn, Weisser Körperfächer, 1972 still da video, courtesy l’artista e ProLitteris, Zurigo

LONDRA

Tate Modern

Mentre resta visitabile fino al 31 luglio nella Artist Room, l’opera di Jenny Holzer con la sua attenzione alle parole e i messaggi provocatori declinati attraverso innumerevoli media, la Tate Modern propone un nutrito programma estivo. Nelle Eyal Ofer Galleries, a Natalia Goncharova, protagonista delle avanguardie russe, è dedicata la prima retrospettiva nel Regno Unito, in collaborazione con Palazzo Strozzi (Firenze) e l’Ateneum Art Museum (Helsinki). Fino all’8 settembre. Ampia ricognizione sulla ricerca dell’artista greco Takis (Panayiotis Vassilakis), con oltre 70 opere rappresentative tra cui spiccano i Signals, lavori con antenne e magneti che grazie alla partecipazione degli spettatori generano suoni casuali. Dal 3 luglio al 27 ottobre. In collaborazione con il Guggenheim Museum Bilbao, Olafur Eliasson torna alla Tate con una mostra che introduce fenomeni naturali come gli arcobaleni, geometrie complesse e l’interesse per la teoria dei colori. Dall’11 luglio. La Tate Britain propone una mostra che omaggia i 60 anni di carriera di Frank Bowling riunendo opere di grande formato, tra cui i giovanili map paintings e i poured paintings, ma anche le “sculture pittoriche” degli anni ‘80 e le opere più recenti, sempre sensuali nell’uso del colore. Fino al 26 agosto.

Olafur Eliasson, Your uncertain shadow (colour), 2010 courtesy l’artista e Thyssen-Bornemisza Art Contemporary Collection, Vienna

Horn / Weinberger

Al Museum Tinguely esposizione poeticoarcheologica di Lois Weinberger dal titolo Debris Field. In mostra ritrovamenti comuni e significativi provenienti dalla fattoria dei suoi genitori. Fino all’1 settembre. In contemporanea con una mostra al Centre Pompidou-Metz, Körperphantasien (Fantasie corporee) di Rebecca Horn, esposizione in cui si evidenzia lo sviluppo della ricerca dell’artista tedesca, dai lavori performativi giovanili alle successive sculture cinetiche, con focus sui processi di transformazione del corpo e della macchina. Fino al 22 settembre.

A Tribute to Mono-Ha

Cardi Gallery propone un interessante tributo a una “rete” di artisti configuratasi in Giappone tra gli anni ‘60 e ‘70 e denominata Mono-ha (Scuola delle cose), caratterizzata dalla rilevanza contemporanea di linguaggi e temi, ma anche per le connessioni stilitiche con l’Arte Povera. In mostra 24 sculture monumentali e dipinti, ma anche foto dei 10 artisti protagonisti: Koji Enokura, Noriyuki Haraguchi, Susumu Koshimizu, Lee Ufan, Katsuhiko Narita, Nobuo Sekine, Kishio Suga, Jiro Takamatsu, Noboru Takayama, Katsuro Yoshida. Fino al 26 luglio.

LUGANO

Martin Disler

Lo spazio espositivo Buchmann Lugano presenta una mostra con opere su carta, ceramiche e sculture in terracotta dell’artista svizzero Martin Disler (1949-1996), di cui dal 2013 la galleria cura il lascito. Fino al 29 giugno. Martin Disler, veduta dell’allestimento, courtesy Buchmann Galerie, Berlino/Lugano

Ami Drach, Dov Ganchrow BC-AD; contemporary flint tool design courtesy gli artisti e Centre Pompidou, Mnam/Cci foto Audrey Laurans / Dist. Rmn-Gp Takesada Matsutani, Circle Yellow 19, 2019 courtesy l’artista e Centre Pompidou, Parigi

Nancy Spero, The Goddess Nut II, 1990 collage e disegno su carta, 5 pannelli, cm.213,4x279,4 courtesy The Nancy Spero and Leon Golub Foundation for the Arts/Licensed by VAGA at ARS, NY courtesy Galerie Lelong & Co, foto Michael Bodycomb

NEW YORK

MoMA

Molte le proposte espositive newyorkesi, tutte già in corso. La mostra Joan Miró: Birth of the World esplora attraverso 60 opere lo sviluppo dell’universo pittorico di Joan Miró, con enfasi sulle sperimentazioni materiche, sullo stretto rapporto con la poesia e con il mondo più oscuro. Terzo piano, The Edward Steichen Galleries. The Value of Good Design esplora l’enorme potenziale artistico degli oggetti di uso quotidiano e casalingo. Terzo piano, The Philip Johnson Galleries. Lincoln Kirstein’s Modern sottolinea il contributo di Kirstein alla scena culturale americana tra gli anni ‘30 e ‘40. Terzo piano, The Robert B. Menschel Galleries. Prendendo ispirazione dalla pellicola di George Cukor What Price Hollywood (1932), l’esposizione esplora le questioni di ruolo e genere come mostrate dalle locandine della grande era degli Studios. 138 i poster e le lobby card provenienti dalle collezioni di Ira Resnick e del Museo. Fino al 15 giugno. Lo spazio MoMA PS1 ospita Paper Mirror di Nancy Spero. La mostra, la prima retrospettiva negli USA dalla morte dell’artista nel 2009, traccia l’intero arco di 60 anni di evoluzione artistica, grazie a oltre 100 opere. Fino al 23 giugno.

PARIGI

Pompidou

Particolarmente articolata la stagione estiva al Centre Pompidou. La mostra Préhistoire, Une Énigme Moderne ci accompagna in un viaggio tra visioni e fascinazioni dell’arte contemporanea per l’espressione preistorica. Opere di artisti come Louise Bourgeois, Paul Cézanne, Marguerite Duras, Dove Allouche, Pierre Huyghe, Giuseppe Penone. Galerie 1, fino al 16 settembre. Prima grande retrospettiva sull’opera di Dora Maar (1907-1997), artista della quale il Centro ha un ricco portfolio di immagini. Galerie 2, fino al 29 luglio Sans repentir è una mostra di opere di Bernard Frize, spaziando dai dipinti astratti degli anni ‘70 alla fotografia dei decenni successivi. Galerie 3, fino al 26 agosto. Personale per l’artista cinese Cao Fei, che presenta un progetto dal titolo HX che segna l’avvio del progetto di ricerca Hongxia, con un corpus di lavori inediti, tra cui un film, una collezione di video, fotografie e documenti d’archivio, ma anche installazioni realizzate con oggetti trovati. Galerie 4, fino al 26 agosto. Da segnalare infine, fino al 23 settembre, le mostre degli artisti Takesada Matsutani, omaggio ai suoi 60 anni di carriera; Sonja Ferlov Mancoba (1911-1984), con oltre 50 sculture e 60 dipinti; Ernest Mancoba, artista, scrittore e pensatore impegnato in particolare contro il razzismo. GIUGNO/LUGLIO 2019 | 273 segno - 15


La Biennale di Venezia - 58. Esposizione Internazionale d’Arte

May You Live In Interesting Times di Maria Letizia Paiato - foto Roberto Sala

N

Incertezza, crisi e disordini dei tempi che stiamo vivendo! La crisi dell’arte nell’epoca della sua crisi (A.B.O).

el tentativo, pressoché fallimentare in partenza, di esprimere un commento imparziale a questa Biennale, proverò a esporre alcuni spunti di riflessione critica, cercando di allontanarmi il più possibile dalla tentazione di farmi “giudice che condanna o assolve [o diventare] un esaminatore che boccia o promuove”. Parole, queste, non mie, ma che appartengono a Pietro Marino, fra i più stimati e competenti giornalisti d’arte italiani, da sempre vicino a Segno, e che accolgo come un invito gentile a una riflessione ponderata. Riflessione che sarà certamente incompleta, così, come lo sono lo stesso linguaggio e la critica dell’arte, espressioni verbali di ciò che per natura si manifesta in un altro medium, ma che mi auguro restituisca il massimo grado di autenticità per quanto indotta dalle personali abitudini culturali.

Zanele Muholi, Phaphama at Cassilhaus, North Carolina, 2016

Il Titolo. Ralph Rugoff, stimato curatore americano, critico e saggista, direttore della Hayward Gallery di Londra, propone come titolo May You Live In Interesting Times, un’espressione della lingua inglese a lungo erroneamente attribuita a un’antica maledizione cinese, che evoca periodi di incertezza, crisi e disordini; “tempi interessanti” appunto, come quelli che stiamo vivendo (così si legge dal sito della Biennale). Nel muoversi fra Giardini e Arsenale sono diversi i linguaggi rappresentati, dalla pittura, alla scultura, alla fotografia, all’installazione, al video, alla performance, la varietà visiva che si offre allo spettatore è ricca, così anche i temi sviluppati dai 79 artisti invitati, e per la prima volta presenti in entrambi gli spazi – novità assoluta di questa Biennale – a testimoniarne la medesima eterogeneità espressiva, che variano dalla politica, all’etica, all’ecologia, alla tecnologia. Stando così le cose, è innegabile che l’intenzione curatoriale, rispondente al personale punto di vista di Rugoff, sia più che ampiamente rispettata. Ma, può bastare questo a elogiare positivamente questa Biennale? Personalmente ritengo di no, ma è proprio questa insufficienza – forse – a testimoniare più di qualsiasi altro aspetto, la complessità dei “tempi interessanti” leitmotiv della mostra internazionale. Un’esposizione all’insegna della dichiarata spettacolarizzazione (è lo stesso Rugoff ad affermarlo in un’intervista ai colleghi di Artribune qualche giorno antecedente l’inaugurazione), a mio parere, tuttavia eccessiva e a tratti stuc16 - segno 273 | GIUGNO/LUGLIO 2019

chevole, egregiamente architettata per spettatori a caccia di forti emozioni. Non posso negare, pertanto, il mio personale disagio in questo discorso. Un disagio che nasce dal riconoscere eccellenze e opere di grande forza e intensità cui fanno da contraltare molte altre troppo banali a esprimere la complessità dei tempi, e più in generale anche formalmente discutibili, tanto da avermi lasciato una generale sensazione di disimpegno complessivo. Provo a spiegarmi meglio. Per quale ragione la Biennale di due anni fa avrebbe raccontato in modo meno convincente la complessità dei tempi? E perché un artista come Damien Hirst, con la mostra Treasures from the wreck of the unbelievable di Palazzo Grassi, sarebbe stato uno scandalo – per alcuni addirittura uno scempio – con la sua dichiarata e palese spettacolarizzazione dell’arte? Un fatto, a quanto pare, che in questa Biennale si accetta come prassi (o deriva di un sistema?). Non sarà forse stata l’onestà intellettuale di Hirst ad avere dato fastidio? Dichiarando esplicitamente che la contemporaneità si nutre di fiction e niente più, mentre per i benpensanti dell’arte e non solo, pare essere più comodo credere in un atteggiamento intellettuale anche laddove in verità non c’è? per l’appunto perché siamo in Biennale? Personalmente mi porrei qualche dubbio a cominciare dall’impostazione stessa della mostra. Sebbene Rugoff abbia consigliato di vedere prima l’Arsenale e poi i Giardini per capirci meglio qualcosa (e di fatti così è), fare il percorso al contrario, come lo abbiamo fatto segue a pagina 18 ➠


speciale

BIENNALE DI VENEZIA 2019

Nuove trasgressioni e nuove catene interpretative

Apertura e partecipazione contro i guasti della Globalizzazione. di Paolo Balmas

M

ay You Live in Interesting Times, a prima vista potrebbe sembrare, ancora una volta, il prodotto di una strategia oramai consolidata: l’ennesimo studioso e/o curatore di rilievo internazionale (rigorosamente non italiano) trova il modo di proporci una selezione di artisti con tutte le carte in regola per essere immessi nel trend culturale (e di mercato) cui egli afferisce, e lo fa sia evitando l’anacronistico obbligo di dare, in qualche modo, un indirizzo tematico ai vari padiglioni nazionali, sia schivando, senza frustrarle del tutto, le ancor più anacronistiche attese di chi dalla Biennale continua ad attendersi lumi sul futuro della ricerca artistica. Il tutto coronato da un titolo elegantemente elusivo che lascia intravedere un retroterra teorico che nessuno andrà mai a sondare più di tanto. Debbo essere sincero: visitando la mostra non mi ci è voluto molto per ricredermi. Già alla fine della mia passeggiata alle Corderie, comprensiva di una attenta lettura sia delle didascalie che dei pannelli esplicativi, mi sono accorto che avevo progressivamente messo a fuoco, dentro di me, una qualche forma di inattesa soddisfazione psicologica per la autonoma riquadratura su se stessi degli spazi dedicati ad ogni singolo autore, una riquadratura da intendersi non come qualità dell’allestimento, ma come coerente autosufficienza sia motivazionale che comunicativa del lavoro esposto. Fòrnice dopo fòrnice, capriata dopo capriata, i 79 espositori, in altre parole, avevano infilato l’uno dopo l’altro i grani di una immaginaria collana non solo priva di enfatiche forzature e di ripetizioni inerziali, ma anche aperta al confronto rispettoso sia delle somiglianze che delle incompatibilità. Il tutto scandito dall’apparire regolare di una sentinella discreta ed assorta, dolce ed inquisitiva ad un tempo, come poteva essere solo l’immagine fotografica ingrandita di Zanele Muholi a suo modo “incoronata” dai diversi bizzarri copricapi via via nobilitati dalla sua ineffabile dignità. Un compiacimento il mio che ha sùbito trovato riscontro nella esposizione messa su presso il Padiglione Centrale, per il quale le metafore più pregnanti potrebbero essere quella del puzzle con diverse soluzioni tutte egualmente plausibili o quella del Luna Park in cui le attrazioni non sono più quelle degli stand oramai usurati e privi di sorprese che lungi dal divertirti non fanno altro che confermare i tuoi limiti performativi. Capire cosa c’è dietro non è stato difficile in quanto il saggio in catalogo dello stesso Rugoff, sia pure attenendosi alla pratica di fornire chiarimenti nell’atto stesso di presentare gli artisti prescelti, le dovute indicazioni teoriche e di metodo le da. E sono indicazioni di tutto rispetto che si rifanno con chiarezza sia alla storia dell’estetica che a quella della critica d’arte incentrandosi su un filone di osservazioni e asserzioni che, attraverso passaggi a dir poco prestigiosi sono confluite, a tempo debito, nell’inquadramento semiologico non solo del problema del succedersi dei linguaggi artistici, ma anche di quello di una possibile definizione dell’arte stessa incentrata non più su una qualche forma di ineffabilità, ma sulla partecipazione del fruitore alle trasgressioni via via proposte dagli autori più propensi all’innovazione.

In quest’ottica Rugoff riparte dagli anni ’60 del secolo scorso allorché diversi studiosi, tra cui primeggia il nostro Umberto Eco, si chiesero se, partendo dal presupposto che ogni opera d’arte sia comunque un testo, non fosse possibile individuare il meccanismo base che ci consente di riconoscere la qualità estetica di un messaggio. La risposta è oggi oramai acquisita e chiunque sia un minimo addentro nelle cose dell’arte, bene o male la conosce. Si tratta di una proposta di mutamento dei codici linguistici in uso che l’artista ti fa intravedere generando in te una eccitante oscillazione tra diverse catene interpretative possibili, una sola delle quali conduce a quelle aperture conoscitive e comportamentali che il mutare dei tempi sembra richiedere imperiosamente. Ma dove sta la novità proposta dal nostro curatore? E in che cosa si differenzia da tanta critica che, dai tempi dell’informale in poi, si è provata, spesso maldestramente, a maneggiare simili strumenti? Sta in un azzardo teorico sul quale si potrebbe discutere a lungo ma che nell’immediato sembra reimpostare in modo diretto ed originale molti problemi e molte tensioni proprie della cosiddetta era della globalizzazione. Un azzardo che, ripartendo dalla constatazione che fin qui si è sempre pensato ottusamente a due culture opposte che restano comunque riferite ad una medesima società, identificata con l’intera umanità, e a due catene interpretative che comunque ad essa e ai presunti valori universali di cui sarebbe portatrice, si rifanno, propone, invece, di prendere in esame anche tutte le altre forme di fibrillazione interpretativa che qualcun altro, ovunque egli si trovi e a qualunque tipo di compagine sociale appartenga, sta provando o può provare, al presente, ad istituire, ottenendo adesioni da parte di un qualche tipo di fruitore non necessariamente marginale, costruendo messaggi ed adesioni tutte ancora da valutare, ma non per questo da non far ricadere sotto il concetto di arte. Le obiezioni naturalmente possono essere moltissime, ma se ci si riflette molte di esse non fanno che ricondurci al paradigma di una umanità stabilizzata e capace di autocorreggersi, in quanto detentrice dei mezzi che gli possono sempre consentire di risolvere i propri problemi in funzione della razionalità tecnico scientifica della propria cultura. Tutte cose che la Storia si sta incaricando puntualmente e puntigliosamente di smentire in ogni settore di attività, da quello economico a quello politico, da quello delle infrastrutture a quello della produzione di beni, da quello del costume a quello della ricerca scientifica e non da ultimo a quello della comunicazione in cui tutto può essere non solo travisato, falsificato o distorto, ma, quel che è peggio, simulato, ricostruito e rivenduto come realtà tangibile. Ciò detto come d’abitudine dovrei parlare dell’autore che più mi è piaciuto, che altri non è che l’unica artista fin qui nominata. Aggiungo per completare il discorso il nome dell’artista che più mi ha inquietato Jon Rafman, creatore di opere video in cui nessun mostro è più mostro dell’altro e nessuna crudeltà non può essere superata da un’altra subito pronta a succedergli, il tutto costruito con mezzi tecnologici di cui in fin dei conti chiunque potrebbe dotarsi. n

L’opera di Sun Yuan e Peng Yu, Can’t Help Myself, 2016 vista attraverso il muro di Teresa Margolles.

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Tavares Strachan, Robert Henry Lawrence Jr., 2018

noi di Segno, non aiuta a cogliere la proposta curatoriale, lasciando a mio parere, troppo spazio all’empatia e lo spettatore in balia di se stesso. Ai Giardini, pertanto, lascio subito intendere come la confusione sia maggiore, diversamente dall’Arsenale dove, una migliore attenzione al ritmo delle opere e degli spazi accompagna il visitatore in un percorso che all’inizio appare più che promettente per poi, tuttavia, perdersi strada facendo. Alcune opere. È George Condo ad aprire le danze con Double Elvis, una grande tela che rappresenta due bizzarri personaggi scansafatiche ovvero la personificazione, o glorificazione, dell’umanità più turpe, mentre ai Giardini nella proposta di Facebook racconta la superfice, proprio quella che quotidianamente esperiamo nei social e ai quali deleghiamo verità assolute e la coGeorge Condo, Double Elvis, 2019

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struzione di relazioni e pensieri, di cui l’artista svela inganni e menzogne. Una pittura che lascia subito il passo alle gigantesche fotografie in bianco e nero dell’artista e attivista Zanele Muholi. Impegnata nella difesa dei diritti LGBTI in Sudafrica, con un percorso che, come per molti artisti, puntella in seguito l’intero itinerario espositivo, Zanele Muholi, ci offre scatti e autoritratti, che invitano, attraverso il gioco ossessivo del guardare, e un’innegabile estetica, all’assunzione di responsabilità verso la diversità fisica e identitaria, scatti che sembrano chiedere immediatamente al visitatore di abbandonare leggerezza. Così anche per il giovane Tavares Strachan, classe 1979, che propone il tema del viaggio spaziale (da sempre cinematograficamente mitizzato) attraverso un’opera multimediale (ai Giardini porta, invece, un


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Christian Marclay, 48 War Movies, 2019

lavoro sull’Encyclopædia Britannica come simbolo della dominazione culturale di matrice coloniale), maturato in seguito alla propria occupazione con SpaceX, una società privata che si occupa di tecnologia aerospaziale, grazie alla quale ha approfondito la figura di Robert Henry Lawrence Jr., primo astronauta afroamericano morto per un incidente avvenuto durante un’esercitazione nel 1967. Fatto, ovviamente trascurato dalle ufficiali narrazioni americane sui viaggi aerospaziali. Come dire, insomma…non c’è mito che regga, gli ultimi restano ultimi, nella storia così nell’universo. C’è poi l’opera video di Christian Marclay (già vincitore nell’edizione 2011) e composta di 48 film di guerra proiettati in sovrapposizione all’infinito, realizzata secondo le stesse tecniche di campionatura dei film hollywoodiani. Un lavoro, a mio parere, che si potrebbe indicare come il manifesto di questa Biennale, certamente la più rappresentativa dell’intera mostra, quella forse che meglio riesce a interpretare May You Live In Interesting Times. Noto è il lavoro dell’indiana Shilpa Gupta che in Arsenale porta cento leggii disposti nel buio con spartiti di poesie lette da microfoni, di autori incarcerati in tutto il mondo per le loro idee. È un inno, elegante e coinvolgente, alla libertà di espressione che tuttavia, ai Giardini con l’opera del cancello che sbatte rompendo il muro perde d’intensità, forse anche per l’attrattiva, da pseudo luna park, e troppo ravvicinata della mucca-treno dell’artista Nabuqi. Un’opera quest’ultima che, secondo gli stessi intenti dell’artista risponderebbe alle domande: “Una simile riproduzione della realtà può essere percepita come parte della realtà stessa? Il pubblico prova gli echi emotivi che avrebbe esperito di fronte alla realtà?”…io potrei anche rispondere sì se considero come realtà quella della pubblicità della Milka. Innegabilmente convincente è, invece, l’installazione Old Food (2017-2019) proposta di Ed Atkins, artista capace di coniugare con grande maestria situazioni ironiche e alienate, malinconiche e dinamiche per raccontare il presente. Artista che ritroviamo ai Giardini con disegni disseminati ovunque appartenenti al ciclo Bloom, tarantole che si affiancano alla sua stessa testa rimpicciolita, avvolta da peli di ragno, il cui messaggio, inequivocabile, finisce, tuttavia, con il perdersi nel marasma del percorso. Si che i ragni non sempre si vedono ma la cosa appare complessivamente dispersiva. Rimanendo sull’argomento ragni, l’opera di Tomás Saraceno ai Giardini colpisce immediatamente. Nel riprodurre l’habitat degli aracnidi, specie capace di vivere ovunque sulla terra, si comprende subito come quest’ultima sia diventato un ambiente a rischio e inospitale anche per loro. Sicché la poetica intorno ai temi della sostenibilità, e sciolti attraverso straordinarie installazioni interattive, difficilmente può essere equivocata. Sarà forse un mio personale limite, ma se la poetica di un artista, aldilà delle specifiche esperienze culturali, arriva quasi nell’immediato, allora l’opera si fa potente e consolatoria al contempo, riuscendo in un certo modo a edificare il tempo. Lo stesso discorso, valga per

Shilpa Gupta, For, in your tongue, I cannot fit, 2017-18 Nabuqi, Do real things happen in moments of rationality?, 2018

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l’intervento all’Arsenale dove, i giochi hi-tech con le nuvole mi sembrano avvalorare queste argomentazioni. Fra le più discusse e osservate ci sono poi le opere del duo cinese Sun Yuan e Peng Yu, Can’t Hel Myself ai Giardini è inquietante. Si tratta di un braccio robotico chiuso dentro una gabbia di vetro che tenta disperatamente di raccogliere e spazzare via il sangue (inchiostro rosso) che tracima sul pavimento. In molti vi hanno letto nel movimento tecno del pennello, un inconsolabile e angosciante lirismo, simile alla danza di una baccante di Dioniso. Io devo, purtroppo, confessare la scarsa empatia con quest’opera che ammalia, a mio parere, più per le proporzioni esagerate che per la sostanza. Fra l’altro, sono gli stessi artisti a dichiarare che lo scopo del proprio lavoro è quello di suscitare meraviglia e tensione nel pubblico, perciò mi domando perché mai si senta tanto l’esigenza di rintracciare a tutti i costi qualcosa di “poetico” giacché, probabilmente, esso non appartiene alle intenzioni stesse degli artisti. Tutto sommato mi pare si possa affermare che la nostra epoca di poetico ha ben poco, perciò considero più autentico l’esercizio della spettacolarizzazione palese, anziché il travestimento dell’impegno. Tornando a Sun Yuan e Peng Yu, anche in questo, ho gradito di più l’opera all’Arsenale dove, forse complici le luci, quell’aura di meraviglia mi è arrivata maggiormente. Non sono certa che il fatto della gabbia da solo bastasse a conquistarsi uno spazio indispensabile all’opera stessa, tanto che, sempre secondo la mia personale visione, proprio Bloody clean machine distoglieva lo sguardo dal muro di cemento e filo spinato crivellato di colpi con cui Teresa Margolles solleva simultaneamente e molto chiaramente gli aspetti legati, tanto alla criminalità del suo Messico quanto ai muri anti-immigrati eretti dal Presidente americano Donald Trump. E, come dire, sempre all’Arsenale l’arTomás Saraceno, dettaglio dell’installazione Spider/Web Pavillion 7, 2019

Teresa Margolles, Muro Ciudad Juarez, 2010 Sun Yuan e Peng Yu, Can’t Help Myself, 2016

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tista, con i suoi manifesti-volantini di donne scomparse riesce a conquistarsi quel poco di spazio che tanto basta a raccontare lo spaventoso dato sul femminicidio del narcotraffico del suo Paese. Non lasciano indifferenti neanche le opere fotografiche di Mari Katayama dove l’artista, con protesi alle gambe poiché affetta alla nascita da una rara malattia genetica delle tibie, usa se stessa come altri materiali ribaltando, se vogliamo, la percezione che si ha verso il corpo e l’oggetto, palesemente trasformato in orpello della contemporaneità. Non potendo citare gli artisti invitati uno per uno, valgano quelli fin qui argomentati come possibili esempi per un discorso che meriterebbe certamente di essere approfondito. Opere che, in un certo modo, mi hanno parlato, seppure mescolate al pot-pourri generico di una Biennale che il più delle volte mi è sembrata proporre lavori troppo palesemente disimpegnati e banali (forse non sono solo tempi conflittuali ma, per l’appunto, anche mediocri? Mediocri per l’arte?) rispetto a un tema così – forse un po’ troppo pretestuosamente – complesso. In tal senso, non riesco a sganciarmi dalla visione della Biennale di Venezia del 2013, quella di Massimiliano Gioni che, con Il Palazzo Enciclopedico e tutti i se e i ma del caso, risulta ancora ad oggi, e curatorialmente parlando, impeccabile. Vero è che, se la crisi dell’arte contemporanea trova la propria genesi nella fine del concetto di evoluzione dei linguaggi artistici, proprio con Gioni esso tocca il suo massimo grado, per poi figurarsi come un tutto in discesa come dimostrano le ultime tre Biennali (anche se personalmente quella della Macel del 2017 mi è parsa paradossalmente più impegnata). È con Gioni, così come bene ci racconta il compianto Mario Perniola in Arte Espansa, che “avviene un vero cambiamento del paradigma di che cosa intendiamo per «arte» e per «artista» sicché, anche i successivi tentativi di contenere il fenomeno “populista secondo cui l’arte può essere fatta da tutti”, per certi aspetti sembra avere fallito. May You Live In Interesting Times dunque e purtroppo, mi sembra avere reso realtà le parole, quasi profetiche, di Perniola, quando affermava in merito alla Biennale di Gioni che: “si corre il pericolo di affogare in un abisso di insulsaggini e di futilità, in cui scompare non solo la vecchia idea dell’arte, ma anche ogni possibilità di fornire un orientamento in un melting pot in cui tutto si confonde con tutto, con l’emergere di valutazioni arbitrarie, malevole, mistificatrici e manipolate”. Potrebbe essere questo il motivo del mio personale fastidio verso la citatissima nebbia di Lara Favaretto, artista straordinaria che ho sempre apprezzato per la sua capacità di mostrare come, come nel concetto di smaterializzazione e sparizione dell’opera, sia effettivamente avvenuta l’estetizzazione di tutto il reale (Baudrillard). Ai Giardini, a mio parere non funziona. L’opera, non inedita fra le altre cose (si veda Thinking Head, Nottingham Contemporary, 2017) perde di valore e d’intensità a causa del contesto, finendo nella confusione gene-

Mari Katayama, On the way home #001 e On the way home #005, 2016

Yin Xiuzhen, Trojan, 2016-17

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Martine Guitierrez, Body En Thrall, p113 e Body En Thrall, p112, dalla serie Indigenous Woman, 2018

rale che non fa ammirare la poetica dell’artista. I sussurri e le voci non si apprezzano e il senso dello spazio suggerito dall’incorporeità della nebbia stessa finisce per sembrare un mero e banale gioco, situazione, per me aggravata, dalla nebbia allo stesso modo usata da Laure Prouvost rappresentante del Padiglione francese. E anche la Favaretto, per me è la Favaretto nella proposta all’Arsenale dove, con Snatching, mette in atto l’umana e vitale resistenza simbolica alle rigide architetture delle città moderne.

Sull’altra presenza italiana in mostra, ossia Ludovica Carbotta, aimè devo dire che, seppure con un lavoro più che meritevole ma formalmente non d’impatto, finisce nel confondersi con tutto. Infine, molto si è detto circa la scarsa presenza italiana in Biennale. Il dato va rilevato e credo esso possa riferirsi più a un problema di non politica culturale che altro, fatto che, tuttavia, non implica che necessariamente nella mostra internazionale l’Italia debba essere per forza rappresentata.

Liliana Moro, né in cielo né in terra, 2018

Il caso del Padiglione Italia

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ono spiacente, ma in questo caso mi è proprio impossibile non farmi giudice. Per correttezza, ad avere commentato questo padiglione positivamente sono stati in tanti. Io, purtroppo, non lo farò, a cominciare dal titolo Né altra né questa: la sfida al labirinto e dal troppo e in malo modo spesso sfruttato Italo Calvino. Il saggio La sfida del Labirinto, tanto per essere precisi, appare per la prima volta nel Menabò 5, Torino, Einaudi 1962 (ripubblicato in Italo Calvino, Una pietra sopra: discorsi di letteratura e società, Einaudi, Torino 1980) e invita il lettoChiara Fumai, The Return of the Invisible Woman, 2015

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re al necessario confronto con la complessità della realtà affrancandosi da visioni semplicistiche del mondo. Un’idea, fra l’altro abbastanza leopardiana che non vede nel limite estremo dell’uomo un freno alla sua immaginazione. Fin qui potrebbe andare tutto bene ma è nelle dichiarazioni stesse del curatore, Milovan Farronato rilasciate a più network e riviste a lasciarmi in prima battuta perplessa: “Mi piacerebbe che il visitatore perdesse il senso del tempo e il tempo diventasse dilatato, che ci possano essere più punti di vista e più prospettive, per vedere magari anche le stesse opere”. Non sono un’esperta di letteratura ma per quel poco che ci capisco non credo proprio che Calvino intendesse suggerire di vivere un’esperienza fisica di dilatazione del tempo, tantomeno esperire concretamente il concetto di labirinto. Sicché nel fastidio provato nel perdersi nella proposta di Farronato sono finita con lo smarrire l’attenzione per le opere di tre bravi artisti: Enrico David, Liliana Moro e Chiara Fumai (scomparsa nell’agosto 2017) uscendo con una visione molto semplicistica del loro lavoro, dunque il contrario di quanto espresso da Calvino. La situazione, a mio parere, peggiora ancora quando, nel testo che accompagna la mostra si legge: “Non esiste il perdersi…ma solo il tornare sui propri passi: ed è legittimo: regredire non significa peggiorare”. Probabilmente ricorderò male – mi riprometto di fare un ripassino – eppure la mia memoria mi dice che ne Le città invisibili e non solo, Calvino inviti spesso il lettore al perdersi (perdersi per riflettere) usando un linguaggio che, seppure attraversato da inganno, non si fa mai illudere dalle apparenze. Gli artisti sono molto diversi fra loro, mi chiedo dove, fosse la necessità di un progetto curatoriale volto a una visione omogenea quando era sufficiente l’ispirazione calviniana che vede il labirinto come


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BIENNALE DI VENEZIA 2019 Conclusioni. Correva l’anno 1993 quando, la Biennale di allora affidata ad Achille Bonito Oliva si apriva a coesistenza delle differenze e dei linguaggi (si veda Segno – critica e documentazione – Speciale Biennale di Venezia, supplemento al n. 125 – giugno 1993; con uno spaccato a cura di Lucia Spadano e il dialogo con Bonito Oliva a cura di Paolo Balmas, Dal Territorio Magico allo Sguardo del Maiale). Proprio in quella lunga intervista, A.B.O. concludeva affermando: [oggi] “ la posizione del critico vive tra i resti dell’arte e tra questi resti può commuoversi e sopravvivere trovando dignità, auto nomia e nutrimento, quel nutrimento che gli permette, appunto di fondare la sua propaganda dell’arte.” Perché cito questo momento e questo scritto? Perché penso, purtroppo, all’incertezza, alla crisi e ai disordini dei tempi che stiamo vivendo! “i tempi interessanti”, così la banalità dilagante intuita da Perniola, riguarda anche la critica d’arte. Non resta dunque che commuoverci (a questo punto direi sorridere) e sopravvivere. E mi fa sogghignare anche rileggere oggi un piccolissimo testo sempre di A.B.O. Arte e sistema dell’arte, edito nel 1975 dalla Galleria Lucrezia De Domizio di Pescara dove, non solo spiegava la crisi dell’arte nell’epoca della sua crisi, ma anche come “il critico [dovesse] usa[re] le arti discriminanti della selezione e della qualità: svolge[ndo] un ruolo sadico e repressivo procede[ndo] per esclusioni e per tagli”. Ma, ancora, sempre A.B.O. scrive: “[…] l’unico ruolo della critica è l’autocritica, nel senso di una velenosa autocoscienza del proprio ruolo verso il pubblico e verso il mercato. […] Verso il pubblico la critica svolge un ruolo socratico; essa aiuta lo spettatore a trovare un contatto con l’opera non solo emotivo ma più vitalmente conoscitivo”. È proprio tale aspetto conoscitivo che sento essere venuto meno, talvolta da parte degli artisti, altre, per l’appunto, dalla giovane critica che, ho paura, sia molto sopita (salvo eccezioni s’intende) o preoccupata a non disturbare nessuno, finendo nell’impossibile ruolo di svolgere la propria finzione socratica con il pubblico. Così i curatori, se vogliamo, più che interrogarsi su questioni letterarie e filosofiche legate all’arte e che ritengo importanti, sembrano gradire maggiormente paillette e lustrini. n

Lara Favaretto, Thinking Head, 2017-19

uno spazio metaforico, psichico e intimo. Spazi che i tre artisti singolarmente sono perfettamente in grado di raccontare, ma che in questo eccesso di narcisismo hanno finito con il perdere quell’aura magica che li accompagna. E, a subire maggiormente questo svuotamento d’intensità, purtroppo è proprio Chiara Fumai, la cui potenza del lavoro pare allinearsi a un tutto indefinito. Infine, questo spazio non è sia fisico sia semantico - come si attendeva Farronato -, ma è solo - e purtroppo - prettamente e

superficialmente fisico. Sicché, il padiglione del 2017 proposto da Cecelia Alemanni (con i lavori di Adelita Husni-Bey, Giorgio Andreotta Calò e Roberto Cuoghi) paradossalmente mi pare che racconti molto meglio l’idea calviniana di labirinto. (PS: Se all’epoca di A.B.O. “erano i critici a sovrastare gli artisti”, ora lo sono, definitivamente, i curatori. Tuttavia c’è ancora spazio per prendersi veramente cura dell’arte e non solo di se stessi). n

Enrico David, Chéri (Mincer/Aratro), 2019

Liliana Moro, La Passeggiata, 1998

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I Premi

Il Leone d’Oro alla carriera è stato assegnato a Jimmie Durham. Meritatissimo. Se la mostra internazionale all’Arsenale si apre con un’interessante spinta per poi, tuttavia, spegnersi progressivamente, è con le sculture di Durham, oggetti quotidiani e materiali naturali, assemblati in forme animali, che le Corderie riacquistano coinvolgimento. Questi grandi mammiferi scomparsi, composti di parti di mobilio, materiali industriali lucidi e vestiti usati, opere curate e formalmente elegantissime, narrano poeticamente quell’antico rapporto interno che intercorre fra le arti e la scienza, o meglio la natura. Due le Menzioni speciali: a Teresa Margolles , di cui abbiamo già parlato. L’altra va a Otobong Nkanga con una splendida installazione all’Arsenale: un lavoro - incentrato sugli aspetti di violenza riferiti allo scambio di minerali, energia, merci e persone - che merita questa menzione. Il Premio giovane promessa è assegnato a Haris Epaminonda, proveniente dalla Repubblica di Cipro, classe 1980, che convince la giuria con le proprie installazioni caratterizzate da significati storici e personali, sconosciuti al pubblico, e, probabilmente, anche all’artista stessa. Forse, per le mie corde, un lavoro un po’ troppo ermetico. Arthur Jafa si aggiudica il Leone d’oro per il miglior artista. Una scelta coerente e di sostanza. Il suo lavoro, che da oltre trent’anni si avvale di media differenti, sviluppa modalità espressive specificamente “nere”, raccogliendo immagini dal web, fotografie, video musicali e filmati, allo scopo di sottolineare come, nel non etico uso delle immagini, si celi il concetto di razza. Infatti, il video il The White Album si concentra sulla dinamica tra razza Padiglione Belgio, Mondo Cane. Photo: Francesco Galli Courtesy: La Biennale di Venezia

Arthur Jafa, Big Wheel I, 2018

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Otobong Nkanga, Veins Aligned, 2018

e potere, tentando una sorta di pacificazione con i cosiddetti Whiteness studies. Il padiglione del Belgio si aggiudica una menzione speciale, il cui commento rimando, alla lettura data da Antonella Marino nelle pagine a seguire. Infine, Leone d’Oro al Padiglione della Lituania. La motivazione della giuria recita: “Per l’approccio sperimentale del Padiglione e il suo modo inatteso di affrontare la rappresentazione nazionale. La giuria è rimasta colpita dall’originalità nell’uso dello spazio espositivo, che inscena un’opera brechtiana, e per l’impegno attivo del Padiglione nei confronti della città di Venezia e dei suoi abitanti. Sun & Sea (Marina) è una critica del tempo libero e della contemporaneità, cantata dalle voci di un gruppo di performer e volontari che impersonano la gente comune”. Riconosco l’originalità sebbene fino a un certo punto. Tanto per dire, anche la Germania nel 2017 si aggiudicava il Leone d’Oro con il “Faust” di Anne Imhof. Evidentemente il linguaggio della performance nel nuovo millennio è quella forma d’arte che meglio empatizza con esperti e pubblico. L’unico, forse, che riesce a far sentire il senso del partecipare. Tuttavia se la Germania due anni fa chiedeva attenzione e impegno (mentre quest’anno praticamente è inesistente), l’operazione di Lina Lapelyte, Vaiva Grainyte e Rugile Barzdziukaite, guidata dall’italiana Lucia Pietroiusti, sembra avere amplificato ai massimi livelli il concetto di disimpegno. Francamente mi pare


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BIENNALE DI VENEZIA 2019

l’esposIzIone InTernAzIonAle d’ArTe dI venezIA e le complessITÀ FluIde

di Ilaria Piccioni

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er la 58. edizione della Biennale Arte di Venezia il curatore sceglie un titolo che potrebbe suonare come un buon augurio per la collettività o per il singolo, anche se è una forma di maledizione di un proverbio immaginario: May You Live in Interesting Times. Ralph Rugoff ritiene che ci siano i presupposti perché l’arte faccia vedere le cose in modo critico e inneschi riflessioni e aperture d’occhi. Nella sua proposta espositiva, che sembra essere innovativa, compone la struttura curatoriale con una dialettica “fisica”, perché divide la mostra internazionale nelle due sedi (Arsenale e Giardini), con Proposta A e Proposta B. Le opere degli artisti azionano una sottile correlazione - non sempre facile da rilevare - trovandosi in entrambi i luoghi, prive però di rimandi tematici e temporali, senza indicare similarità di percorsi e analisi dello stesso artista. Rugoff si ispira anche a un saggio di Umberto Eco dove l’autore sottolinea la capacità preziosa dell’arte di innescare possibili visioni, diverse anche per comportamento, disponendo ad aperture, come suggerisce appunto lo stesso titolo del testo pubblicato nel 1962, “Opera aperta”. Un’apertura la si intravede nella modalità di gestire gli spazi e le opere nel suo complesso, lasciando delle perplessità per alcune particolari e delicate associazioni. Dei lavori possono soffrire nell’aspetto semantico, a causa della scelta allestitiva che toglie l’insita drammaticità e forza di alcune opere come Muro Ciudad Juárez, (2010) di Teresa Margolles, nello stesso spazio con il mostro metallico di Sun Yuan e Peng Yu o Untitled, (2009) di Shilpa Gupta che perde la sua forza nello stesso piccolo ambiente con la struttura meccanica con mucca in vetroresina di Nabuqi, al Padiglione centrale ai Giardini; così come per altre opere troppo costrette in alcune parti delle Corderie dell’Arsenale. Forse questa scelta può essere interpretata come una dimostrazione pratica di ciò che Rugoff scrive nel suo testo in catalogo: “Una mostra è innanzitutto un esperimento: al pari delle opere che riunisce, non è possibile ridurla al fatto che ‘tratta’ un tema o un altro. Mette in scena una gamma di possibilità, esaminando come un gruppo di opere può agire all’interno di un determinato ambiente e in condizioni particolari, come esse possono gestire diverse tipologie di tensioni e quali fruizioni producono di conseguenza.” L’attenzione al medium digitale domina in molti lavori, alcuni dei quali site specific, alla stessa stregua della pittura con opere anche di artisti relativamente giovani, come Njideka Akunyli Crosby. I temi prevalenti riguardano questioni razziali, LGBT, violenza di genere e aspetti ambientali, con forte tendenza alla catastrofe. I 90 Padiglioni nazionali quest’anno includono new entries come

Ghana, Madagascar, Malesia e Pakistan. Il Padiglione Italia, Né altra Né questa: La sfida al Labirinto, è ispirato da un saggio di Calvino che il curatore Milovan Farronato ha preso come guida per dipanare connessioni e percorsi. Una valida Liliana Moro è di difficile lettura nella dispersione del labirinto, con Chiara Fumai e Enrico David; tendaggi e pannelli di legno dell’allestimento, a creare percorsi e “quinte teatrali”, dominano lo spazio e le opere inserendosi nella fruizione come un quarto elemento di creazione. Dei padiglioni che meritano una notazione troviamo sicuramente la Lituania, vincitore del Leone d’oro; la Francia con il lavoro di Laure Prouvost, che nei giorni della preview ha avuto gli abituali tempi di coda per l’ingresso; il Padiglione australiano con Assembly, video installazione a tre canali di Angelica Mesiti; il Padiglione Israele con Field Hospital, progetto ben curato e articolato di Aya Ben Ron. Non meno interessante anche Family Album il lavoro di Alban Muja per il Kosovo, altamente politico, con un intenso racconto privato sulla guerra a distanza di vent’anni. Come per ogni edizione la Biennale Arte di Venezia richiede cimento, ma ci sono alcune proposte preziose che chiariscono la necessità del contemporaneo di riferirsi all’arte, per sciogliere alcune “complessità fluide”. n

Mjideka Akunyili Crosby, I Dey Feel Like…, 2019

più un’intelligente furbata che altro, tuttavia è qui che risiede senz’altro l’immagine più drammaticamente lirica e grottesca di tutta la Biennale. - Per chi lo desidera: Il Padiglione Lituano cerca volontari per la performance. - La richiesta: disponibilità 3 ore al giorno con asciugamano e costume propri. Volendo, le vacanze estive si possono anche risolvere così. n Jimmie Durham, Musk Ox, 2017 courtesy of the artist and kurimanzutto, Mexico City / New York. photo: Nick Ash

Christoph Büchel, Barca Nostra. Foto Italo Rondinella. Courtesy La Biennale di Venezia

Sulla BArcA nosTrA di Christoph Büchel. La scheda su questo lavoro spiega: “Il 18 aprile 2015, nel canale di Sicilia, avvenne il naufragio più tragico nella storia del Mediterraneo, a 96 chilometri dalla costa libica e a 193 chilometri a sud di Lampedusa. Vi furono solo 28 superstiti e vennero date per disperse tra le 700 e le 1100 persone. Barca Nostra, un monumento collettivo e commemorativo alla migrazione contemporanea, non è dedicato solo alle vittime e alle persone coinvolte nel suo recupero, ma rappresenta anche le politiche collettive che causano questo tipo di tragedie”. Rendersi conto di quale sono le tragedie del nostro tempo credo sia importante, ma credo lo sia anche valutare come e quando farlo. In questo zibaldone l’operazione rischia di entrare in un pericolo vortice voyeuristico annullando il senso della stessa. n GIUGNO/LUGLIO 2019 | 273 segno - 25


Lituania

Intervista a Caterina Avataneo

Assistente curatrice del padiglione un & Sea (Marina), l’installazione di Lina Lapelyte, Vaiva Grainyte and Rugile Barzdziukaite al Padiglione della Lituania, ha vinto con clamore la 58th Biennale di Venezia. Il Padiglione commissionato da Rasa Antanavičıūte è curato da Lucia Pietroiusti. A Caterina Avataneo chiediamo un approfondimento sulla mostra. Come è iniziata la tua collaborazione con il Padiglione Lituano? Ho incontrato Lucia per la prima volta lo scorso aprile in occasione di uno screening con Jonas Mekas a Londra. Avevo lavorato con l’Ambasciata Lituana in UK, ed in particolare con Juste Kostikovaite e l’evento era in partnership con Serpentine Galleries. È stato amore a prima vista! La mia collaborazione con il Padiglione della Lituania è iniziata grazie a Lucia nel Settembre 2018. Puoi raccontarci quali sono le radici del progetto? Rugilė Barzdžiukaitė (1983), è filmmaker e regista di cinema e teatro; Vaiva Grainytė (1984), scrittrice, drammaturga e poetessa e Lina Lapelytė (1984), artista e musicista. Tra il 2011 e il 2013 avevano già collaborato per l’opera “Have a good day!”, che ha vinto il Borisas Dauguvietis al Golden Cross Awards in Lituania. Sun & Sea (Marina) è nata come un’opera in lituano. Per Venezia, è diventata durazionale (di 8 ore) e la musica e i testi sono stati adattati e riscritti in inglese. Il Padiglione ha riscosso molta attenzione da parte del

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pubblico sia nella realtà che sui social network. Sicuramente ha giocato molto la componente performativa. Credi che la mondanità sia una componente della vita essenziale o sia passeggera? Il Padiglione più che affrontare la superficialità dello stare al mondo, presenta la fragilità della condizione umana. Le nostre preoccupazioni quotidiane non sono inutili, sono parte di qualcosa di più grande, del disegno delle cose e quindi l’uomo nella sua vulnerabilità è anche custode, con le sue azioni, di vulnerabilità più grandi. Come si alterneranno le performance fino a Novembre? L’installazione del Padiglione, con la musica, sarà accessibile dal martedì alla domenica ma la performance con i canti avverrà solo ogni sabato. Solo i fondi ottenuti dopo la vincita del Leone D’oro e il successo del crowdfunding su ‘indiegogo’ ci stanno avvicinando a garantire la presenza della performance fino alla fine di Ottobre. Stiamo lavorando per trovare ulteriori fondi per professionalizzare molte delle posizioni fino ad ora volontarie, e finanziare la performance anche i mercoledì. Come descriveresti questa esperienza e cosa porti con te verso il futuro? L’esperienza di Sun & Sea (Marina) è stata davvero speciale. Mi sento fortunata ad esser stata parte di un progetto così unico. Stiamo riscontrando un interesse globale sorprendente, che sta portando a porci domande relative a come sostenere progetti performativi, come farli “viaggiare” e come collezionare. Sun & Sea (Marina) porterà con sè ancora molti insegnamenti per me e per il mondo dell’arte. (a cura di Elda Oreto) Lucia Pietroiusti, curatrice del padiglione Lituano, con il Leone d’oro

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speciale

BIENNALE DI VENEZIA 2019

Biennale Venezia, Padiglioni Nazionali chiave splatter, sublimano la sofferenza fisica e la sorveglianza in Israele surreali mitologie visive, auspicando un futuro senza limitazione

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er entrare nel Padiglione di Israele occorre dotarsi del numero di turno, guardare il promo sulla struttura e sui servizi offerti, passare al banco accoglienza per la registrazione e per dotarsi di un braccialetto identificativo. Sono procedure obbligate per accedere al Field Hospital FLX, firmato dall’artista Aya Ben Ron, predisposto come una vera e propria clinica con tanto di personale in camice. I potenziali utenti devono prendersi cura della storia associata al braccialetto, fruibile sullo schermo della ‘Care-Area’, dove, sdraiati su un lettino, ascoltano voci, racconti di abusi, violenze, ingiustizie e violazioni del corpo e dell’anima. Per una sorta di preliminare disintossicazione, si può usufruire del ‘Safe-Unit’, una cabina nella quale si emettono urli (SelfContained Shout) imparando a modulare la propria rabbia repressa. Il progetto è esplicitato nel programma televisivo FHX, opera video dello stesso Aya Ben Ron, che ne delinea la mission: creare un’istituzione internazionale e itinerante per indagare problemi sociali ispirandosi ai centri di cura. FHX inaugura a Venezia il suo percorso che continuerà, espandendosi con il contributo di artisti locali, in più tappe. Marilena Di Tursi

delle libertà individuali.

Marilena Di Tursi

Romania

C

on Unfinished Conversations on the Weight of Absence, il Padiglione della Romania rende omaggio a Belu-Simion Fainaru, Dan Mihaltianu e Miklós Onucsán, artisti della generazione anni Ottanta, in un doppio percorso espositivo curato da Cristian Nae e distribuito in due sedi, il Padiglione della Romania, ai Giardini, e Palazzo Correr. Al centro della ricerca dei tre artisti, il rapporto tra ideologia e società contemporanea con un gruppo di opere storiche, concepite tra anni ‘80 e ’90, riviste e integrate criticamente per i nuovi allestimenti. Lavori che mantengono inalterato lo smalto degli esordi puntando su installazioni di forte potenza iconica. Per esempio, Belu-Simion Fainaru fonde l’aniconismo della religione ebraica in nuovi alfabeti, Dan Mihaltianu si impegna in fluide pratiche di archiviazione e, infine, Miklós Onucsán esplora con esiti parossistici una realtà offuscata da ideologie o formule preconfezionate. Marilena Di Tursi

Belgio

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Padiglione Israele, Field Hospital X. Photo: Francesco Galli Courtesy: La Biennale di Venezia

Taiwan

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i ispira al luogo 3x3x6, il progetto di Shu Lea Cheang per il padiglione di Taiwan, ospitato da anni negli spazi del Palazzo delle Prigioni, sede delle carceri veneziane dal Rinascimento fino al 1922. Nelle sue segrete, ha soggiornato anche Giacomo Casanova, protagonista dell’opera insieme a altri dieci personaggi selezionati dall’artista, tra quanti, nel passato e nel presente, sono stati imprigionati per reati legati alla sfera sessuale o all’identità di genere. Un pretesto per imbastire una riflessione di stupefacente piglio visionario sul rapporto tra tecnologia e corpo, sugli strumenti che il potere esercita per normare sessualità e genere e sulle tecnologie di confinamento e controllo. Supportata dalla curatela del filosofo e scrittore Paul B. Preciado, attraverso un’installazione immersiva (il titolo 3x3x6”, si riferisce al modello architettonico globale delle prigioni: una cella di 9 metri quadrati monitorata da 6 telecamere), Cheang trasforma il palazzo in un’area di sorveglianza ipertecnologica. È popolata, tra gli altri, anche da Michel Foucault e dal Marchese de Sade, che si manifestano virtualmente, intrecciando il rispettivo outing con documenti legali, fake news, resoconti storici e fantasie. Dieci brevi film, in Padiglione Romania, Omaggio a Belu-Simion Fainaru, Dan Mihaltianu e Miklós Onucsán. Photo: Francesco Galli. Courtesy: La Biennale di Venezia

na malata in carrozzella esce di corsa dal padiglione belga, spinta fuori con un’azione performativa tra gli sguardi meravigliati della gente. È uno dei fantocci più o meno realistici che popolano gli ambienti interni, su due livelli. Ai lati, in gabbia, troviamo i “reietti”: un repertorio di pazzi, criminali, disadattati, streghe… Al centro della sala principale gli “integrati”, pupazzi meccanici in abiti da folclore locale, impegnati in azioni quotidiane da villaggio operoso: il cuoBelgio, co stende una pizza, una donna lavora a maglia, Padiglione Mondo Cane. l’arrotino arrota… Sono due realtà stralunate, Photo: Francesco Galli parallele e incomunicanti, quelle messe in scena Courtesy: La Biennale di Venezia da Jos de Gruyter & Harald Thys in Mondo Cane, a cura di Anne Claire Schmitz. Un universo divertente ma al tempo stesso orrifico e inquietante, in linea con l’identità sarcastica e mordace di un Paese che ha fato in natali ad artisti come Bruegel e Ensor. La proposta ha convinto il pubblico e pure alla giuria, che l’ha omaggiata con una menzione d’onore. Questa la motivazione: “con il suo humor spietato, il Padiglione del Belgio offre una visione alternativa degli aspetti, spesso trascurati, dei rapporti sociali in Europa”. Antonella Marino

Svizzera-Brasile

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a danza come spia del disagio sociale e possibile re-azione di denuncia. È il filo involontario che collega le proposte di due Padiglioni nazionali ai Giardini. Il primo, quello della Svizzera, coinvolge il pubblico in una sala stile locale notturno, con tende baluginanti e gradinata semicircolare dove sedersi per guardare un film, Moving Backwards, proiettato su grande schermo. Qui dei danzatori mettono in scena una coreografia indossando le scarpe al contrario. Sono bravi e buffi. Ma nelle intenzioni delle

Padiglione Svizzera, Moving Backwards. Photo Annik Wetter

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Padiglione Brasile-Photo Roberto Sala

autrici Pauline Boudry e Renate Lorenz, i “passi indietro” non costituiscono una virtuosistica trovata. Bensì rappresentano l’allegoria di una condizione di arretramento civile e morale, che sta investendo pericolosamente le nostre società. Il secondo, il Brasile, è modulato su entrambe le pareti della zona centrale da una proiezione a doppio canale del film inedito Swinguerra, di Bárbara Wagner e Benjamin de Burca. Il titolo rimanda alla Swingueira, un ballo da strada diventato di recente un fenomeno culturale e virale nella città di Recife di Bahia. A ritmo martellante, riprende la sequenza delle prove di alcuni ragazzi (di cui sono esposti quattro ritratti fotografici) che partecipano in tre gruppi a gare annuali di questa danza. L’effetto è coinvolgente e ipnotico. Ma in sottofondo solleva una riflessione su questioni serie e urgenti, connesse alle differenze di classe, razza, genere. Antonella Marino

profond te fondre”. L’intervento si articola intorno a due focus: i concetti di identità e di generazione, i confini tra lingua e linguaggi sviluppati in un avventuroso viaggio filmico concepito utopisticamente come una fuga – rocambolesca e surreale – nella realtà che ci circonda. La proiezione si sviluppa in un’ambientazione che fa pensare ai film di Georges Méliès, mentre oggetti di scena e reperti vari sono collocati nella penombra soft delle altre sale del padiglione. Come già Bourriaud insegnava, oggi la condizione dell’artista è quella transitoria del viandante errante, autore di campi di forze corrispondenti alla forma-tragitto, alla forma-radici, alla forma-periferia, alla forma-fuga. È questo lo sguardo estetico privilegiato da Prouvost che tra pratiche dell’erranza e territori della precarietà, scritture visivo-sonore frantumate e flussi ipertecnologici, snocciola codici deboli e sfuggenti per montare una narrazione multisensoriale. Definita “tentacolare” dalla curatrice Martha Kirszenbaum, l’opera definisce un altrove imprecisato ma avvolgente che mescola differenti verità e molteplici personaggi. Racconta una traversata a cavallo della Francia dove ogni tappa accoglie spezzoni di storie diverse. L’allestimento della sala per la proiezione amplifica i temi affrontati, trascinando gli spettatori sin dentro la finzione filmica. Le visioni instabili del film e le momentanee figurazioni senza ormeggi scivolano una nell’altra, ricucite da un montaggio che rincorre eventi appartenenti a storie confuse e a geografie incerte. Tutto è pervaso da un respiro accelerato di espansione e di contrazione, dal quale – dopo lunghissime file per accedere all’ingresso del padiglione – siamo felicemente ingoiati. Maria Vinella

Paesi Nordici, Giappone, Gran Bretagna, Germania

P

er questa 58. Esposizione della Biennale di Venezia, il direttore Ralph Rugoff riesuma il fantasma della funzione sociale dell’arte, tracciando una linea d’indirizzo che intreccia carattere utopico e carattere politico e che celebra le microrivoluzioni permanenti dell’arte. Qui, le sfide minacciose di interesting times sono alonate da social media pervasivi, problematiche migratorie, rivendicazioni identitarie, oppressioni colonialiste, rinnegati diritti transculturali, ferite delle geografie violentate da muri e recinzio-

Padiglione Russia, Lc 15:11-32. Photo Francesco Galli. Courtesy: La Biennale di Venezia

Russia

C

olto, ricco di rimandi, un po’ eccessivo, in parte anche sorprendente. Il Padiglione russo quest’anno è eccezionalmente curato da un’Istituzione. Anzi dalla massima istituzione per l’arte in Russia, ossia l’Ermitage, che fa da promotore, movente e sfondo alla duplice installazione sui due piani. Nella zona superiore il regista cinematografico Alexander Sokurov parte da un capolavoro della collezione del museo, Il ritorno del figliol prodigo di Rembrand (1668), citato nel titolo Lc.15:11-32 che fa riferimento al relativo passo della Bibbia. Nella penombra, tra un frammento di statua gigante, la riproduzione iperbolica del quadro nello studio dell’artista e video immagini con scene di guerra, si dispiega un’ambientazione che s’interroga (e ci interroga) sul ruolo del museo nella società attuale. Ancora più teatrale, al piano inferiore, è l’intrigante “stanza della meraviglie” architettata dallo scenografo Alexander Shishkin-Hokusai. Omaggio dichiarato alla pittura fiamminga, con sagome lignee in movimento crea un’efficace macchina scenica in cui siamo coinvolti tutti in qualità di spettatori-attori. Antonella Marino

Francia

T

ra le novanta partecipazioni nazionali che affiancano la mostra centrale, la Francia è rappresentata da Laure Prouvost con il progetto “Deep see blue surrounding you / Vois ce bleu 28 - segno 273 | GIUGNO/LUGLIO 2019

Padiglione Germania Photo Roberto Sala Padiglione Francia, Deep see blue surrounding you / Vois ce bleu profond te fondre Photo Francesco Galli. Courtesy: La Biennale di Venezia


speciale

BIENNALE DI VENEZIA 2019 ni. Lo spirito del tempo inquinato da futilità e imperfezioni (da perversioni, a volte) – sostiene Rugoff – ha bisogno dell’impegno responsabile di artists human rights defenders, che affrontino tematiche preoccupanti come i cambiamenti climatici e le crescenti diseguaglianze umane. Tra i diritti umani in maggior pericolo oggi: il diritto all’integrità dell’ambiente naturalistico. E con sguardo particolare a questa tematica si muovono le proposte curatoriali espresse nel padiglione dei Paesi Nordici. Fondendo generi stilistici, convenzioni linguistiche, immaginari naturalistici, materiali sostenibili e materie riciclate, gli artisti del Nordic Pavillion – Svezia, Finlandia e Norvegia – presentano il progetto condiviso intitolato “Weather Report: Forecasting Future”, curato da Leevi Haapala e Piia Oksanen. Sui cambiamenti climatici e le difficili relazioni uomo-donna-natura-tecnologia lavora il duo nabbteeri (Janne Nabb e Maria Teeri della Finlandia), la norvegese Ane Graff, la svedese Ingela Ihrman. Se Ane Graff nelle proprie installazioni scultoree green fonde microbiologia, chimica, teorie femministe, Ingela Ihrman inventa stupefacenti sculture che crescono, sbocciano, appassiscono come fossero piante. Invece gli interventi di nabbteeri definiscono omaggi a forme di vita altre, affidandosi a scritture etnografiche, figurazioni scultoree, esperimenti di scienze naturali. Anche il padiglione del Giappone avanza suggestive proposte per ricercare o ricreare nuove visioni del reale, in bilico tra mitologie folkloriche e proposte ecologiche. Ancora una volta, la natura è al centro di un progetto multidisciplinare audiovisivo generato dalla collaborazione tra Motoyuki Shitamichi (artista), Taro Yasuno (compositore), Toshiaki Ishikura (antropologo), Fuminori Nousaku (architetto). Curatore: Hiroyuki Hattori. Intitolata “Cosmo-egg”, l’operazione rilegge l’ambiente naturalistico alla luce di una piattaforma sperimentale necessaria per immaginare e visualizzare una possibile co-esistenza tra umani e non umani. Avvio spettacolare è la serie Tsunami Boulder (massi del maremoto) di Shitamichi, una sequenza di fotografie di magnetica forza percettiva documenta il posizionamento di imponenti volumi rocciosi che dal fondo dell’oceano vengono trascinati sulla terra dalla forza del mare. Ishikura crea narrazioni che intrecciano leggende riferite al fenomeno minaccioso degli tsunami. Yasuno progetta un congegno sospeso che permette al visitatore di attivare una performance automatica che aziona (mediante l’atto del sedersi) il suono di flauti in sospensione. Tutto è collegato dalla raffinata struttura d’architettura d’interni che disegna nello spazio del padiglione una profetica spirale. Nel padiglione della Gran Bretagna, curato da Zoé Whitley, l’irlandese Cathy Wilkes propone alcune delle sue intense installazioni scultoree disseminate in ambientazioni intime e autobiografiche. Nella prima sala, lo scheletro ligneo di un grande parallelepipedo nudo e vuoto celebra l’assenza, la mancanza, l’interiorità. Tutt’intorno, sparsi a pavimento, discreti pezzettini di memorie e delicati frammenti di ricordi. Inizia così un itinerario fragile eppure densamente coinvolgente tra dipinti, stampe, vetri, ceramiche, stoviglie, manichini femminili ... Tutto evoca un tempo silenzioso, colmo di tristezza, malinconia, torpore, dove la natura stessa perde forza vitale, riducendosi a esili e inanimate forme: fiori secchi, foglie morte, forme marine rinsecchite, piccoli insetti schiacciati, sassolini, sabbia, terra, polvere... Padiglione Gran Bretagna Photo Roberto Sala

Padiglione Paesi Nordici, Photo Roberto Sala

Natascha Süder Happelmann (ma il nome è la copertura di una identità misteriosa) nel padiglione della Germania curato da Franciska Zòlyom, attraverso i linguaggi visivi e sonori sviluppa (anche grazie ad un team di musicisti) argomenti come l’immigrazione, l’integrazione, l’alterità nella società contemporanea. Nell’opera d’arte multimediale che fonde in maniera macchinosa suono, testi, scultura, architettura, l’artista indaga – con sguardo acuto e glaciale, poco rassicurante – sul conflitto che è presente tra individui, società, ambiente. Allo stesso tempo, gioca con la nozione di identità, invitando l’osservatore ad attraversare gli spazi sconcertanti delle sale e ad assumere un ruolo partecipe, critico e politico nel contesto sociale e nel contesto dell’arte. Maria Vinella

India

O

ur time for a future caring è interamente dedicato a Gandhi con una premessa: la presenza di Gandhi non è affatto immobile nel tempo, ed è quasi impossibile ignorare i suoi ideali in un mondo sempre più violento e intollerante. L’opera di Jitish Kallat, Covering letter del 2012 è un pugno nello stomaco di rara intensità: una lettera di Gandhi a Hitler, proiettata su una cortina di fumo, dissipata dal passaggio degli spettatori, che esordisce con un utopico “Dear Friend...”, un appello a non intraprendere il massacro della Seconda guerra mondiale. Roberto Sala

Spagna, Paesi Bassi, Grecia

G

razie a (o forse a causa dei) mutamenti avvenuti nel corso della storia dell’arte che hanno avuto luogo nel XX secolo, il modo tradizionale di considerare l’opera artistica è cambiato radicalmente. Gli artisti si sono cimentati in sperimentazioni che hanno prodotto nuovi linguaggi e modi di espressione, sfondando il supporto bidimensionale della tela per approdare a lavori di natura diversa e innovativa. La tecnologia che si è sviluppata negli anni ha contribuito alla realizzazione di tali lavori, divenendo strumento e materiale d’indagine. All’interno dell’ambito della 58°

Padiglione India Photo Roberto Sala

Padiglione Giappone Photo Roberto Sala

GIUGNO/LUGLIO 2019 | 273 segno - 29


Biennale d’Arte di Venezia, questo nuovo modo creativo si è fatto sentire molto bene, avendo la meglio sulle canoniche tecniche pittoriche e scultoree. Nel padiglione della Spagna, ad esempio, Itziar Okariz e Sergio Prego dialogano nel progetto “Perforado por”. Il primo sfrutta lo spazio interno dell’edificio per esporre dei lavori audio-visivi che riprendono diverse attività performative, accompagnate da performance dal vivo che hanno avuto luogo durante il periodo d’inaugurazione. Ciò che lo spettatore si trova davanti è dunque una serie di schermate proiettate sulle pareti e assiste a ciò che gli interpreti stanno facendo: in un caso, ad esempio, due performer interagiscono con un microfono, mentre in un altro si vede l’artista intento in una conversazione immaginaria con oggetti d’arte. Il secondo, invece, lavora all’esterno con delle sculture eteree site-specific, spiegate attraverso disegni esplicativi del processo creativo. I materiali utilizzati sono leggeri all’interno dei quali agiscono sostanze fluide, volte a plasmare, ad esempio, una borsa di plastica. Per quanto riguarda i Paesi Bassi, gli artisti coinvolti si sono cimentati innanzitutto nell’interpretazione dello spazio architettonico costruito precedentemente da Gerrit Rietveld, cercando di trovare una consonanza adeguata ad ottenere un continuum tra passato e presente. Le opere presenti nel padiglione, infatti, suggeriscono dei richiami all’estetica modernista, attraverso uno studio delle figure geometriche elementari. Le strutture “fluttuanti” di Remy Jungerman – che a primo impatto sembrano costituite da righelli di varie dimensioni – sono disposte all’interno degli ambienti sia verticalmente

sia orizzontalmente. L’installazione a tutto tondo è composta da questi “listelli” verticali all’interno di una specie di un cubo di Rubik svuotato (oppure, rimanendo nell’ambito artistico, ricorda molto il “Modular Cube” di Sol LeWitt), mentre quelli orizzontali sono appesi al soffitto in corrispondenza di un tavolo rettangolare, anch’esso geometrizzato sul piano d’appoggio. Parallelamente, troviamo il lavoro di Iris Kensmil, incentrato su una serie di ritratti di donne di colore definite utopiste black, poste come visione alternativa dell’utopismo modernista. Queste due scuole di pensiero sono messe in rapporto in modo artificiale dall’artista olandese, il quale pone questi ritratti su pareti dipinte con i classici moduli di quelle forme geometriche e colorate che hanno caratterizzato le tele di Piet Mondrian e Kazimir Malevič. Il padiglione della Grecia, invece, sembra essere uno dei padiglioni dei Giardini che più funziona. Non ci si deve però aspettare un’opera magistrale, ipnotica e che lascia senza parole, bensì un semplice pavimento ricoperto da vasetti di vetro a testa in giù, sui quali lo spettatore è invitato a salire e passeggiare. Tutto qua? Ebbene, quante volte vi è capitato di poter (inter)agire con un’opera d’arte? Si, proprio quell’elemento che siamo soliti ammirare – o forse sarebbe meglio dire adorare – da una certa distanza, altrimenti gli allarmi dei musei iniziano ad urlare e gli omini di guardia a ruota dietro ti puntano il dito contro come se avessi commesso un omicidio. Quante volte avreste voluto toccare una superficie esposta in un museo? Perché è così allettante, sembra quasi dire “toccami!”. Ma non si può… “guardare, ma non toccare”. A mio parere quel modello artistico è ormai surclassato, o meglio, è stato vinto da chi è venuto dopo e ha spodestato l’arte da quel famoso cavalletto. Panos Charalambous ha deciso di arrivare a Venezia con dei vasetti di vetro che perdono di senso se ci si limita a guardarli. Forse ha fatto impazzire lo staff di sicurezza della Biennale e continuerà fino al 24 novembre, ma credo che sarà un’installazione che il visitatore ricorderà una volta tornato a casa. E purtroppo metterà in secondo piano i lavori dei suoi connazionali, che comunque si sono impegnati a cercare di rendere il passato accessibile al presente, ma non in modo attivo come questo tappeto trasparente. Prima di concludere, però, vorrei tornare un attimo alla riflessione iniziale, per sottolineare ancora una volta che l’arte – come termine ampio – ha accolto nella sua grande famiglia un numero indefinito di novità, dimostrando di sapersi e volersi continuamente rinnovare, per non decadere nell’ideale della “vecchia corrucciata conservatrice” che si rifiuta di guardare avanti. Ed è una cosa ammirevole. Il punto è: quanti altri membri sarà disposta ad ospitare? Ma, forse ancora più importante, sapremo noi accettarli? Cecilia Paccagnella

Padiglione Grecia Photo Roberto Sala

Sergio Prego, Padiglione Spagna, Photo Claudio Franzini

Padiglione Paesi Bassi-Photo Roberto Sala

30 - segno 273 | GIUGNO/LUGLIO 2019


speciale eventi collaterali BIENNALE DI VENEZIA 2019

Padiglione Malesia, H.H. Lim

Padiglione Malesia

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a Malesia fa il suo esordio alla 58. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, con il suo primo Padiglione nazionale a cura di Lim Wei-Ling. Gli spazi di Palazzo Malipiero, poco lontano da Palazzo Grassi, ospitano i lavori di quattro artisti malesi che nel linguaggio visivo rimandano una stretta relazione con temi politico-sociali, di rilevanza internazionale. La sala centrale, cuore della mostra, accoglie le opere di H.H.Lim, rimandando immediatamente a una condizione di dialogo e relazione fra lo spettatore e la dimensione visiva, di ricerche artistiche e medium diversi. Dall’ambiente centrale si aprono tre stanze con rispettivamente l’opera ambientale di Anurendra Jegadevan Yesterday In A Padded Room ricoperta dei ritratti dei “miti” dei nostri tempi, Kebun Pak Awang lavoro minuzioso di Zulkifili Yusoff fatto di una struttura lignea dominante e l’intervento installativo di Ivan Lam, One Inch, con 15 monitor che rimandano il sonoro di film le cui immagini sono completamente celate sulla parete: degli schermi è visibile il retro e la luce azzurrina delle immagini schiacciate sui muri. A partire dal titolo scelto dalla curatrice, Holding Up a Mirror, la dimensione identitaria è trasferita tra la condizione nazionale, personale e la questione sociale e globale. Fermarsi così sull’installazione Timeframes di H.H. Lim, sedendosi sulle sedieopere, consente di indugiare sui particolari del lavoro nella parete di fondo, che racchiude tanti piccoli elementi di un quotidiano “mitologico”, violento, o ludico, con liaison simboliche, a partire dai nomi malesi dei 4 punti cardinali. Lim sostiene la dimensione della comunicazione e del messaggio celato nelle immagini, del quotidiano filtrato dalla condizione mediatica e strettamente oggettiva, con il tratto distintivo delle parole, del doppio senso, ironico e cinico. La visione a 360° dei video appartenenti a periodi distinti, dove ogni stato o frammento rimanda all’individuale e al collettivo, al vissuto d’artista e di uomo, le dimensioni orientali ed occidentali divengono universali. H.H.Lim manipola trasversal-

mente le dimensioni culturali, tra il presente contemporaneo e la realtà mediatica storicizzata, miscelando un melting pot internazionale da corto circuito. Le performance, le frasi esclamative e sibilline incise sulle superfici delle sedute, o il recente video in cui l’artista interpreta in aperta campagna una cantilena in dialetto, dispongono a una complessa comprensione del senso e liberano la ricezione da qualsiasi connotazione visiva e di contenuto. Il significato, generalmente correlato alla solita logica della parola, non è il dato essenziale a cui riferirsi, è slegato e assegnato alla memoria personale. Insomma la Malesia ben sostiene la sfida della Biennale d’Arte di Venezia affermando, attraverso il lavoro dei quattro artisti internazionali, una valida identità artistica contemporanea. Ilaria Piccioni Padiglione Malesia, Ivan Lam

La polemica sul Padiglione Venezuela

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on volendo deliberatamente entrare nel merito della politica venezuelana – fatto spinosissimo – alcuni dati rispondono a verità, altri entrano nell’esercizio della pura opinione. Che ci piaccia o no, il Padiglione Venezuela durante l’inaugurazione della Biennale era chiuso a causa dall’embargo USA, fra l’altro chiusura dai più tristemente ignorata, o volutamente trascurata, poiché espressione dell’attuale governo Maduro. Trovo fastidioso e non mi piace declassare a priori l’intervento dei quattro artisti rappresentanti il Padiglione che, superate le difficoltà, ha aperto il giorno 19 maggio. Gabriel López, Ricardo García, Nelson Rangel e Natalie Rocha (quest’ultima residente in Spagna) sotto la guida del curatore Oscar Sotillo Meneses, artista egli stesso fra l’altro, hanno proposto opere di grande significato e valore. Il Venezuela ha voluto portare artisti che si sono cimentati su temi fondamentali come le migrazioni, le culture ancestrali, la trasfigurazione dell’uomo, l’ingiustizia. Questo vale e mi piacerebbe pen-

Gabriel López , Ricardo Garcia, Nelson Rangel e Natalie Rocha Padiglione Venezuela

sare che in una Biennale orchestrata sotto il tema del conflitto, si possa valutare l’opera, l’arte e la cultura prima di tutto come un valore superiore alla contingenza. n GIUGNO/LUGLIO 2019 | 273 segno - 31


Spazio Thetis

Beverly PEPPER

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a Fondazione Beverly Pepper con il supporto del Comune di Todi e la Regione Umbria partecipa alla Biennale di Venezia 2019 con la mostra collaterale di Beverly Pepper - Art in the Open, a cura di Massimo Mattioli in collaborazione con Joseph Antenucci Becherer direttore dello Snite Museum of Art dell’Università di Notre Dame. L’esposizione rientra nel più ampio progetto Beverly Pepp er fra Todi e il mondo con cui la città di Todi omaggia l’instancabile attività della grande scultrice americana con mostre, eventi e un parco di sculture. Nata a New York nel 1922, Beverly Pepper vive e lavora tra Todi e New York. Dopo aver studiato design pubblicitario, fotografia e design industriale presso l’Art Students’ League a Brooklyn e, a partire dagli anni Quaranta, a l’Académie de la Grande Chaumière di Parigi, durante il soggiorno europeo visita l’Italia e Roma dove incontra lo scrittore giornalista Curtis Bill Pepper, che diventa suo marito. La sua prima personale, presentata da Carlo Levi, nel 1952, è alla Galleria dello Zodiaco a Roma. Frequenta in questi anni gli artisti Achille Perilli, Pietro Consagra, Piero Dorazio, Giulio Turcato del Gruppo Forma1 e intesse numerosi rapporti con l’ambiente culturale romano. Nel 1960, dopo un viaggio in Cambogia ad Angkor Wat, cambia radicalmente il suo linguaggio artistico, avvicinandosi alla scultura e realizzando piccole forme in legno e argilla. È l’inizio di un rinnovamento formale e del maturarsi di una grammatica artistica di assoluta autonomia che la portano a divenire la sublime rabdomante della scultura. La mostra è ospitata presso le sale dello Spazio Thetis, che già espone in modo permanente quei totem che sono le “Todi Columns” donate dalla stessa artista negli anni ’90 ai Musei Civici di Venezia: forme stalagmitiche tese nello spazio a trapassarlo, a fenderlo, a sfidarlo, a rimodellarlo. Altresì slancio di potente libertà creativa, di temperamento e di mestiere, peculiarità che sempre caratterizzano l’opera della Pepper e che la pongono di diritto al fianco dei massimi interpreti della scultura internazionale. L’alta fantasia di Beverly si concreta in un’opera che sapientemente si muove tra art e technique, s’invola nella spinta bruciante del traslitterare l’Idea in Forma. Ben s’attagliano le parole di Mattioli nel comprendere le tematiche fondanti dell’opera della Pepper, ,il carattere quasi “biologico” e metamorfizzante di questa, l’affascinante avvicinamento alla cultura italiana, la strepitosa sintesi semiotica e semantica tra possanza e levitas: “Molta parte dell’opera degli ultimi decenni di Beverly Pepper è segnata dalla ruggine, quella che inesorabilmente avvolge l’acciaio cor-ten con cui la scultrice plasma tante delle sue potenti creature, ora pos-

Beverly Pepper, Curvae in Curvae, 2012

senti come monoliti, ora lievi come sguardi puntati verso il cielo. Un elemento, la ruggine, testimone del degrado del materiale: ma che qui viene cercato, quasi guidato fino a farne medium con funzioni espressive tanto formali quanto cromatiche, depositario del DNA dell’opera, custode della sua memoria, di stratificazioni che ne segnano il tempo” . La mostra espone anche alcune grandi sculture di Beverly Pepper in acciaio Cor-Ten. Il percorso espositivo è arricchito da una serie di fotografie inedite con le quali il grande artista Gianfranco Gorgoni – anch’egli già presente alla Biennale di Venezia, nelle edizioni del 1979 e del 1993 – ha documentato la carriera di Beverly fin dagli anni ’70 e dalla proiezione del documentario “L’Umbria di Beverly Pepper” realizzato in collaborazione con la Regione Umbria, a cura di Luca Cococcetta e Marco Zaccarelli. Beverly Pepper - Art in the Open è stata anche il movente primo di ELEMENTUM AETHER, performance omaggio a Beverly Pepper di Giovanni Gaggia con Leonardo Carletti. ELEMENTUM AETHER è un vero e proprio costrutto sull’opera della Pepper e aspira a studiare l’affascinante rispondenza tra la Scultura e l’Uomo nel loro interagire con lo Spazio. Gaggia sceglie di chiamare in causa il quinto elemento, l’etere per l’appunto. Associa alle quattro titaniche colonne della Pepper i quattro elementi acqua-aria-terrafuoco e affida il compito di rappresentare l’etere alla danza, da lui considerata l’arte più completa. La performance ELEMENTUM AETHER di Giovanni Gaggia discioglie mirabilmente i vertiginosi universi di Beverly Pepper rintracciandone l’energia e insufflandone la sua più intima eco per generare una sublime palingenesi di cui gli spettatori sono stati felici depositari. Serena Ribaudo

Un momento della performance Elementum Aether, omaggio a Beverly Pepper di Giovanni Gaggia con Leonardo Carletti. Foto di Adrian Julinschi

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speciale eventi collaterali BIENNALE DI VENEZIA 2019

Installation views, Arshile Gorky: 1904 – 1948 Ca’ Pesaro Galleria Internazionale d’Arte Moderna © 2019 The Arshile Gorky Foundation - Artists Rights Society (ARS), New York - Photo: Lorenzo Palmieri

Ca’ Pesaro

Arshile GORKY

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ato il 15 aprile 1904 a Khorkom in Armenia, Arshile Gorky si rifugia negli Stati Uniti insieme alla sorella a 15 anni, per sfuggire al genocidio armeno. Si iscrive alla New School of Design di Boston, dove studia sino al 1924. In quello stesso anno si sposta a New York per insegnare a tempo pieno alla School of Painting and Drawing presso la Grand Central School of Art. Inizia così la vicenda umana ed artistica di Arshile Gorky: parabola breve, brevissima. Infatti nel 1948, a seguito di un periodo di turbamento personale e problemi di salute, Gorky si tolse la vita. Una parabola di luminosa pregevolezza che viene omaggiata in uno degli appuntamenti lagunari di certo più meritevoli di nota, con la prima ampia retrospettiva mai realizzata in Italia sull’artista americano. Arshile Gorky: 1904 – 1948 è allestita a Ca’ Pesaro a cura di Gabriella Belli, storica dell’arte e direttore della Fondazione Musei Civici di Venezia e da Edith Devaney, curatrice alla Royal Academy of Arts di Londra. La mostra riunisce oltre 80 opere e consente al fruitore ammaliato di auscultare tutta la sublime poiesis dell’opera di Gorky, di riconoscerne finalmente tutta la portata innovatrice. La grande retrospettiva veneziana è realizzata in stretta collaborazione con The Arshile Gorky Foundation e con i membri della famiglia, pertanto consente di ammirare anche opere che sono state raramente esposte in pubblico. Il percorso di mostra conta inoltre su prestigiosi prestiti museali: National Gallery of Art di Washington; Tate Modern di Londra; Centre Pompidou di Parigi; Whitney Museum of American Art, New York; Hirshhorn Museum and Sculpture Garden, Washington, Albright-Knox Art Gallery di Buffalo; Calouste Gulbenkian Foundation, di Lisbona; Diocesi della Chiesa Armena Americana a New York. La mostra inquadra storicamente, dispiega e accompagna l’iter artistico e

produttivo di Gorky disvelandone la visionaria poetica ove l’alta ispirazione a Cézanne, Picasso, Kandinskij, Masson si commette sempre con la lezione di Ingres e Paolo Uccello. Scrive Argan: “Gorky è stato un traduttore, ha reso intellegibile in America la migliore letteratura pittorica europea. Ma le sue opere non sono trasposizioni da una lingua a un’altra (del resto un linguaggio visivo americano cominciava appena, e proprio con Gorky, a formarsi), né applicazione di mezzi espressivi europei alla realtà americana. Avviene con Gorky quello che accade, negli stessi anni nella narrativa: uno Scott Fitzgerald, un Faulkner, un Hemingway scrivono in lingua inglese ma fanno una letteratura americana, che nessuno potrebbe più considerare come deformazione vernacola o coloniale dell’inglese”. A lungo misconosciuta o considerata scarsamente originale da certa critica europea, l’opera di Gorky viene dunque successivamente rivalutata, scardinando un bastione ottuso e miope; Arshile Gorky 1904-1948 è da considerarsi pertanto uno strumento d’inestimabile valore per coloro i quali hanno desiderio di avvicinarsi al grande artista americano e per confermare –qualora ce ne fosse necessità- l’opera di assoluto genio. (a cura di Serena Ribaudo)

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Museo Correr, Venezia

Chiara DYNYS

“Q

uando ho visitato i campi di Sabra e Shatila ho percepito una grande energia vitale, una voglia di vivere che si trasforma in gioia di vivere”. Sono queste le parole di Chiara Dynys, in riferimento all’esposizione inedita “Sabra Beauty Everywhere”, allestita nella Sala delle Quattro Porte al Museo Correr a Venezia, a cura di Gabriella Belli. Il ricordo va inevitabilmente al massacro di Sabra e Shatila del 1982 e ai tanti luoghi nel mondo dove uomini, donne e bambini vivono in situazioni di costante violenza, di fame e miseria, di assenza di diritti umani. Ma in questa mostra lo sguardo di Chiara Dynys va ben oltre, se pur talora la sua opera sia centrata sulla riflessione di tematiche di carattere antropologico e sociale, non soffermandosi sulla realtà dei profughi nel contesto duro del campo libanese di Sabra a Beirut, dove vivono palestinesi, siriani e altri popoli provenienti dai paesi asiatici, bensì approfondendo la condizione umana. Il lavoro realizzato fra il 2010 e il 2013, teso alla ricerca di un senso

profondo del vivere, tocca temi universali. Proprio in questa realtà terribile l’occhio dell’artista coglie i volti di bambini, che negli occhi hanno la speranza, l’integrità del cuore, il sorriso. I 27 trittici in legno e foglia d’oro contengono le fotografie che l’artista ha scattato loro nelle strade del campo di Sabra, ritraendo attimi di gioco e di normalità. Simili a scrigni preziosi, vicino alla “Madonna col bambino” di Jacopo Sansovino, questi lavori diffondono un senso di grande vitalità, di bellezza dell’esistenza umana e particolarmente dell’infanzia. L’installazione al centro della sala con la frase in oro “Non c’è nulla al di fuori” tratta da Sant’Agostino porta a riflettere su quella spontaneità che nasce dall’interno e che non si cura delle circostanze, spontaneità nella quale i bambini ritratti sono l’espressione più evidente. Artista conosciuta internazionalmente, Chiara Dynys con la sua opera, che abbraccia pittura, scultura e performance, tocca sentimenti e valori che riguardano tutti e manifesta quella qualità essenziale dell’arte come trasmissione di idee, di coscienza e di consapevolezza, attraverso uno sguardo sensibile e delicato e un linguaggio altamente comunicativo. Rita Olivieri

Chiara Dynys, Sabra Beauty Everywhere, 2012 - Foto del ciclo Sabra. Legno dorato, fotografie su plexiglass - cm 50 x 100 x 10 Collezione Volker W. Feierabend, Milano. Photo credits: Paolo Vandrasch

Gallerie dell’Accademia, Venezia

George BASELITZ

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ai come quest’anno la parte del leone nell’offerta espositiva delle Istituzioni veneziane la fanno le mostre dedicate a grandi nomi dell’arte contemporanea. Kounellis da Prada, Alberto Burri alla Fondazione Cini, i quadri di Emilio Vedova scelti da Georg Baselitz alla Fondazione Vedova. E lo stesso Baselitz, con i suoi combattivi 81 anni protagonista di Baselitz Academy, evento collaterale nelle Gallerie dell’Accademia che accolgono per la prima volta un autore vivente, in collaborazione con Gagosian Gallery. Confronto peraltro impegnativo, se si pensa alla strepitosa collezione storica del museo, che offre in parallelo focus su grandi geni come Leonardo (al piano superiore è temporaneamente esposto, con altri disegni, il foglio originale dell’Uomo vitruviano). Baselitz non si lascia però intimidire. Con la curatela di Kosme de Baranano, schiera in quattro sale al pianterreno un repertorio in parte anche inedito di opere che percorrono i sessant’ anni della sua fervida produzione. La traccia critica rimarca il legame dell’autore tedesco con la tradizione artistica italiana, il Manierismo in particolare. Anticonformista e ribelle l’artista sassone, fuggito a Berlino Ovest dalla DDR, in pieno clima di Espressionismo astratto e Pop Art nel ’65 intraprende un percorso formativo in Italia, grazie ad una borsa di studio di sei mesi a Firenze. Le suggestioni di autori come Pontormo, Giovanni di Paolo, Rosso Fiorentino, sono dichiarate qui in una serie raffinata di disegni, finora poco conosciuti. Controcorrente rispetto agli stili dominanti è poi il linguaggio che matura presto: una pittura espressiva dove l’impronta figurale 34 - segno 273 | GIUGNO/LUGLIO 2019


speciale eventi collaterali BIENNALE DI VENEZIA 2019

s’impone anche nella dialettica costante con un impulso astratto. L’impatto visivo delle opere alle pareti è notevole. Introdotti dalle prime incisioni su legno, si parano esemplari della serie Eroi del’65-66, soldati in ritirata mutili, feriti, disarticolati, con parti intime a vista, un’“oscenità” che si fa debàcle storica ed esistenziale. Dal ’69 Baselitz introduce con effetti stranianti la sua fondamentale intuizione: il capovolgimento della tela. A testa in giù sono volti e corpi di amici e famigliari dagli impasti materici e i colori vivaci e contrastanti, di cui la mostra offre ampia campionatura. Rappresentazioni “rovesciate” che con un semplice gesto concettuale ci obbligano a guardare la realtà con occhi diversi, capovolgendo il punto di vista su una tecnica come la pittura che secoli di storia hanno usurato e messo a dura prova. Il metodo, pur reiterato negli anni, continua a funzionare. Reggono per potenza espressiva i Nudi, di diversi periodi. Così come le grandi figure in bianco-nero recenti (Das Negativ), riunite in un’ampia sala: corpi maschili e femminili (tra cui la moglie Elke) che si stagliano energetici da un fondo scuro come pittorici negativi. Imponenti, antiretorici, vitalistici (come le rozze sculture in legno, di cui sono presentati pochi esemplari), i lavori di Baselitz interrogano l’arte oltre le mode del momento. Innestando un portato storico pesante come quello tedesco e il dramma precario della condizione umana su un’inaspettata, paradossale, aura di classicità. Antonella Marino

Ca’ Foscari Zattere Cultural Flow Zone

Id. Art: Tech Exhibition

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el panorama delle collaterali che arricchiscono la 58° Biennale di Venezia, spicca la proposta di CYLAND, organizzazione no profit fondata nel 2007 a San Pietroburgo da artisti e curatori indipendenti e che, da oltre un decennio, si occupa di supportare la produzione della New Media Art a livello internazionale. Mentre si attende il 12-esimo CYFEST:ID, che si terrà a novembre 2019 in Russia, lo spaccato veneziano propone i lavori di artisti provenienti da Russia, Italia, Gran Bretagna, USA, Belgio, Francia, Norvegia così come anche la visione di alcune opere del XX secolo provenienti dalla prestigiosa Frants Family Collection. Nell’indagine intorno alle nuove forme d’arte e alle interazioni tecnologiche spiccano alcuni lavori che si segnalano qui come esemplari a penetrare l’argomento. Il duo Canada–USA Katherine Liberovskaya & Phill Niblock, quest’ultimo fra l’altro guru underground della sound art e rinomato compositore minimalista, propongono l’opera Riflessioni Veneziane. Si tratta di un’installazione interattiva dove, proiezioni e specchi, nel gioco di rimbalzi della propria immagine da un dispositivo all’altro, dal più antico qual è lo specchio per l’appunto, al più moderno dove fluttua virtualmente dell’acqua (evidenti richiami alla storia culturale della città lagunare) lo spettatore si trova immerso in un mondo altro, circondato dal riflesso ripetuto di se stesso, obbligandosi in tal modo a una riflessione sulla propria identità. Esemplare anche il lavoro della belga Alexandra Dementieva, installazione composta di più video e anch’essa incentrata sul tema dell’acqua che, com’è noto costituisce il 60% del corpo umano e l’80% del cervello. Con Twin Depths, l’artista ci invita a ricercare, attraverso l’aiuto del video e di una telecamera installata in mare, e nei continui tentativi di tornare sott’acqua, lo stato di origine del nostro corpo, dunque l’origine della nostra natura. Infine, si segnala Psychedelic Lock dell’italiano Daniele Puppi dove, un’immagine è ripetutamente passata da un monitor all’altro accompagnata dal ritmo di un suono potente e ipnotico che, com’è prassi nella sua poetica, tende a stabilire attraverso la virtualità, una connessione con l’ambiente fisico e architettonico dove l’opera s’inserisce, annullando così le ordinarie percezioni di spazio e tempo. In ordine alfabetico sono protagonisti di Id. Art:Tech Exhibition: Marina Alekseeva & Vladimir Rannev, Karin Andersen, Andrey Bartenev, Ludmila Belova Peter Belyi, Alexandra Dementieva, Jake Elwes, Elena Gubanova & Ivan Govorkov, Farniyaz Zaker, Daniele Puppi, Sergey Komarov & Alexey Grachev, Katherine Liberovskaya & Phil Niblock, Nataliya Lyakh, Alexander Terebenin, Ayatgali Tuleubek e Anna Frants. Artisti, tutti brillantemente impegnati in una ricerca di alto profilo tecnologico ed estetico dell’ID, capace di mostrare come la creatività dell’uomo nel giusto incontro con il TECH possa dare origini a poetiche contemporanee e innovative. Maria Letizia Paiato

Palazzo Ca’ Tron, Venezia

Future Generation Art Prize

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ome sarà percepito il presente tra cento o mille anni? Come potrebbe essere l’umanità? Come sarà possibile vivere il mondo nell’epoca post antropocene? A queste interrogazioni rispondono le opere selezionate per la 5a edizione del Future Generation Art Prize @ Venice 2019, promosso dal Pinchuk Art Centre e della Victor Pinchuk Foundation. Tra gli eventi collaterali della Biennale veneziana, la manifestazione, collocata a Palazzo Ca’ Tron, offre un generoso panorama internazionale con ventuno giovani artisti provenienti da latitudini differenti. Sono concentrati nella definizione di un tecno-umanesimo in grado di governare i linguaggi digitali per riflettere sulle condizioni politiche ed esistenziali di un domani prossimo. Come fa la lituana Emilija Škarnulytė, vincitrice del Future Generation Art Prize 2019, con la sua sirena che percorre aree militari dismesse fino a raggiungere la sublime estensione di uno specchio di mare ristoratore. Molti contributi alternano esplorazioni sul passato e sul presente, partendo da uno sguardo già proiettato verso un futuro letteralmente governato dai media o scrutando su più intime relazioni sociali e familiari. Spesso rendendole plurali come nel caso del Premio Speciale, Gabrielle Goliath (Sudafrica), che mette in scena il rituale del lutto affidandolo a voci femminili in varie località del mondo, in una pratica di disseminazione del dolore oltre i confini domestici. È un’emergenza globale anche la questione alimentare sulla quale Cooking Sections, il collettivo londinese composto da Daniel Fernández Pascual e Alon Schwabe ( Premio Speciale ex-aequo), articola progetti multitasking ricorrendo a più supporti disciplinari, dalla architettura alla geopolitica. Sul minacciato ecosistema, scenario per intrecci autobiografici, interviene il tailandese Arunanondchai Korakrit che crea video eclettici pescando tra cultura pop e immaginario orientale. Materiali che rilegge secondo una chiave occidentale, incrociando le polarità culturali con sofisticate ibridazioni tra realtà e fantasia, spiritualità e scienza, globalizzazione e tradizione, e abbandonandosi a derive oniriche di grande impatto. La mostra, curata da Björn Geldhof, direttore artistico del PinchukArtCentre, e da Tatiana Kochubinska, responsabile della piattaforma di ricerca presso PinchukArtCentre, si conferma una prestigiosa vetrina per i talenti emergenti, come dimostrano i molteplici riconoscimenti internazionali capitalizzati dagli artisti partecipanti alle precedenti edizioni. Marilena Di Tursi

Katherine Liberovskaya (Canada–USA) Venetian Reflections Alexandra Dementieva (Belgium) Twin Depths

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PALAZZO CAVANIS - Fondamenta delle Zattere, Venezia

PINO PASCALI

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el contesto degli Eventi Collaterali della 58. Biennale di Venezia, la mostra “Pino Pascali – Dall’Immagine alla Forma”, a cinquant’anni dalla scomparsa dell’artista presenta un’inedita rilettura del suo percorso di ricerca affiancando produzione scultorea, produzione filmica e produzione fotografica. Tra i protagonisti dell’arte povera italiana, Pascali (1935-1968) fu postmoderno in senso endogeno ovvero lo fu nei suoi stessi confronti – come scrive nel testo in catalogo Marco Tonelli – applicando “la mutevolezza e l’indifferenza stilistica alla propria opera e soprattutto con ciclicità ad alta frequenza e bassa lunghezza d’onda”. Nei fatti, sosteneva Pascali: “è pericoloso identificarsi con una tecnica manuale. Altrimenti diventa un fatto mitico, invece tutto deve essere aperto, non compromesso.” Lo sguardo lungo che mette distanza, la fuga da una qualsivoglia identificazione al fatto tecnico-formale, il pensiero limpido e

Pino Pascali, Taccuini, 1967. Collezione privata, Roma

Pino Pascali, Botole ovvero Lavori in corso, 1967 mattonelle di eternit su telaio ligneo, acqua, terra 8x382x382 cm Photo Marino Colucci / Sfera. La Galleria Nazionale, Roma

non-compromesso sono caratteristiche del lavoro di Pascali che la mostra mette in evidenza. Perché i circa 160 scatti – realizzati e stampati tra il 1964 e 1965 – svelano (pur parzialmente) la metodologia progettuale dell’artista che mediante il disegno e gli appunti fotografici non solo documenta la realtà ma la osserva e la analizza, la interpreta, la reinventa. È la presa diretta della realtà a dare forma e corpo all’opera, a nutrirne il racconto immaginifico. Lo scopriamo nelle foto dinamiche dei paesaggi marini, dei pontili e delle passerelle sull’acqua, nelle inquadrature con le barche, nei ritratti dei pescatori, nei primi piani con le pozzanghere, nei dettagli delle navi e dei traghetti (le eliche, le ciminiere, le ancore, le corde); e poi negli scatti di scene agricole, pecore, campi; e ancora, nelle sorprendenti immagini dal sapore neorealista dei bambini che giocano, delle marionette, dei teatrini di strada. La mostra presentata dalla Fondazione Pino Pascali di Polignano a Mare e curata da Antonio Frugis e Roberto Lacarbonara attraverso il confronto puntuale tra gli appunti grafici sul taccuino personale dell’artista, le fotografie e alcune opere scultoree e ambientali propone circoscritte sezioni tematiche – “Cose d’acqua”, “Il porto, le barche, il mare”, “Geometrie e moduli”, “Finte sculture”, “Ritorno alla terra, “Giochi d’infanzia”, “Il teatro e la maschera” – che accolgono opere come Gruppo di Attrezzi agricoli (1968), Contropelo (1968), Ricostruzione della Balena (1966), 9 mq di pozzanghere (1967) e Botole/Lavori in corso (1968), testimonianze significative dell’incessante capacità di rinnovamento e della varietà estetica della ricerca dell’artista pugliese. Maria Vinella

Pino Pascali, Giochi d’infanzia [veduta dell’allestimento]. Photo Marino Colucci / Sfera.

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speciale eventi collaterali BIENNALE DI VENEZIA 2019

Jannis Kounellis, Senza titolo, 2013. Ferro, caffè. Courtesy Fondazione Prada, foto Agostino Osio - Alto Piano

Jannis Kounellis, Senza titolo, 2006. Lamiera di ferro, fogli di piombo. Courtesy Fondazione Prada, foto Agostino Osio - Alto Piano

Jannis Kounellis, da sinistra a destra: Senza titolo, 1962-63. Acrilico e smalto su tela; Senza titolo, 1968. Legno, ferro, pietre; Senza titolo, 1966. Smalto su tela. Courtesy Fondazione Prada, foto Agostino Osio - Alto Piano

Jannis Kounellis, da sinistra a destra: Senza titolo, 1959. Bottiglie, compensato; Senza titolo, 1960. Acrilico e smalto su tela; Senza titolo, 1969. Juta, granaglie, legumi, caffè; Senza titolo, 1960. Olio e matita su lino. Courtesy Fondazione Prada, foto Agostino Osio - Alto Piano

Fondazione Prada – Venezia

lana, carbone, cotone e fuoco: entità rivelatrici della sua adesione all’Arte Povera. Dal 1967 nelle sue opere appare il fenomeno della combustione che in seguito assume, prima, l’aspetto di una torcia a gas (sinonimo del porre attenzione verso il sentire interiore), di una candela e, infine, di una cannula leggera e quasi invisibile. Ritratti d’artista documentano crisi storiche e personali, come la parete spoglia ed interamente dipinta a foglie d’oro in netto contrasto con indumenti neri appesi sull’attaccapanni (1975). Mentre, la successiva comparsa del fumo e della fuliggine (simbolo del termine degli interventi rivoluzionari a favore di un’azione politica e sociale tramite l’arte) su pietre, tele e muri indicano un personale “ritorno alla pittura”, in netta opposizione all’approccio a-ideologico ed edonistico della produzione pittorica degli anni ’80. L’esposizione prosegue con lavori che rivelano il passaggio all’arte concettuale dando luogo ad uno stile asciutto e unico imperniato su materiali elementari e vitali, nonché sulla relazione terrestre con l’arte, la musica e la danza. Entità organiche e inorganiche danno così origine a un percorso contraddistinto da esperienze corporali, dove i cinque sensi del pubblico sono attivati grazie all’impiego di sostanze, quali caffè e grappa, o all’accompagnamento musicale dei violinisti, le cui note risuonano nelle prime sale per essere rievocate nell’installazione con strumenti musicali e bombole a gas. Altro emblema della insofferenza dell’artista verso dinamiche a lui coeve è la porta: varchi chiusi con pietre, tondelli di ferro e lastre di piombo mostrano la storia dell’edificio rendendone inaccessibili alcuni ambienti col fine di esaltarne l’ignota e surreale dimensione. La potenza dell’ultimo Kounellis è palesata con installazioni di grandi dimensioni che invadono lo spazio circostante come l’intervento del 19932008 costituito da armadi di diversi colori e forme sospesi a soffitto che, sfidando le leggi della gravità, dischiudono a nuove prospettive. Maila Buglioni

Jannis KOUNELLIS

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pere sensoriali, evocazioni sonore e materie prime caratterizzano “Jannis Kounellis”, vasta retrospettiva dedicata all’artista scomparso nel 2017 in occasione della 58esima Biennale Arte di Venezia. A cura di Germano Celant, la mostra sarà visibile fino al 24 novembre presso il palazzo di Ca’ Corner della Regina, sede veneziana della Fondazione Prada. Più di 60 lavori prodotti durante la lunga carriera artistica ed espositiva di Kounellis (dal 1959 al 2015), provenienti da istituzioni e musei italiani e internazionali – come Tate Museum (Londra), Centre Pompidou Musée national d’art moderne (Parigi) – e da importanti collezioni private italiane ed estere, sono qui riuniti in vasto progetto realizzato grazie alla collaborazione con l’Archivio Kounellis. L’evocativa poetica di Jannis Kounellis (Pireo, 1936 – Roma, 2017) si respira contrapponendosi ai decori delle stanze settecentesche dell’immobile in cui sono osservabili i primi lavori esposti (1960-1966) che, in linea con la tendenza pop degli anni Sessanta, usano il linguaggio urbano presente nelle strade romane scomponendone sia l’idioma sia i soggetti reali. Dal ‘64 tale frammentazione è ricomposta tramite soggetti ripresi dalla natura ma oltrepassando la convenzionale tradizione pittorica con l’immissione di elementi concreti e naturali come terra, cactus,

Jannis Kounellis, Senza titolo (Tragedia Civile), 1975. Muro ricoperto in foglia d’oro, attaccapanni, cappotto, cappello, lampada a petrolio. Courtesy Fondazione Prada, foto Agostino Osio - Alto Piano

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Punta della Dogana, Venezia

Luogo e Segni

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unta della Dogana presenta il progetto espositivo “Luogo e Segni” – a cura di Martin Bethenod e della curatrice indipendente Mouna Mekouar – concepito come un imprevedibile paesaggio interiore che trae ispirazione dal linguaggio poetico femminile. Precisamente dai versi della nota poeta e artista visiva libanese-americana Etel Adnan. Gli artisti selezionati hanno messo in dialogo le proprie opere con frammenti dei testi della Adnan, fondendo le suggestioni derivate da esperienze, intenzioni, tradizioni, memorie differenti. La mostra, che prende il titolo dalla piccola e preziosa opera di Carol Rama, riunisce autori i cui lavori stimolano corrispondenze sulle relazioni emotive tra linguaggio poetico e linguaggio visivo, intrattenendo contraddittori rapporti con il contesto politico, storico, estetico della società. Dunque, nessun tema specifico guida gli artisti, orientati unicamente dalle interazioni tra percezioni sensoriali e sentimento dei luoghi. Il respiro di “Luogo e Segni” è difficoltoso e vischioso, con alcuni omaggi all’inafferrabilità della luce, al suono del vento, al movimento dell’acqua e altri tributi alla misteriosa oscurità che muove il desiderio umano. Per scoprire il percorso di corrispondenze dirette o indirette tra i lavori è necessario entrare nell’atmosfera a intarsi della mostra e superare la suggestiva parete con le tende a perline di Félix González-Torres. Proprio da quest’installazione permanente prende avvio la sequenza serrata di opere che comprende l’elegante installazione in alluminio con l’incisione di versi di Emily Dickinson di Roni Horn, e le altre altrettanto suggestive di Louise Bourgeois, Agnes Martin, Constantin Brâncuși, Vija Celmins. Il percorso espositivo continua con il profumato giardino artificiale di gelsomino notturno di Hicham Berrada, e con il “Garden of Memory” (conversazione tra artisti che comprende l’audio di una poesia di Etel Adnan letta da Robert Wilson e le grezze ceramiche angelicate di Simone Fattal). Attorno alla sala centrale dove sono esposti i dieci blocchi cilindrici di vetro di varie sfumature di acquoso azzurro di Roni Horn troviamo le opere di Trisha Donnelly, Lee Lozano, Giovanni Anselmo, nuovamente Adnan, e poi la selezione per “Monotype Melody” di Tacita Dean e Julie Mehretu. Sul fondo le sale con la proiezione video e l’installazione nate dalla collaborazione tra Anri Sala e Ari Benjamin Meyers. Chiude Sturtevantla che con un’operazione di appropriazionismo cita alla lettera, ripetendola 15 anni dopo, l’opera luminosa fatta da un centinaio di lampadine di González-Torres, intitolata “America America”. Al piano superiore, accanto alla piccola tecnica mista con il rebus immaginario di Rama, incontriamo le testimonianze di Rudolf Stingel, di Lucas Arruda, lo spettacolare “lampadario” di Cerith

Luc Tuymans, Schwarzheide, 2019, Fantini Mosaici, Milano,

Wyn Evans, la polvere di paillettes cosparsa a pavimento da Ann Veronica Janssens. E infine: le stampe alla gelatina d’argento di Berenice Abbott e i fotogrammi di Liz Deschenes, i “Guardiani” di Tatiana Trouvé, evocazioni inaspettate e bizzarre della presenza umana. Seguono: il video di Philippe Parreno e i dipinti semi-visibili di Adnan; le malinconiche installazioni di Charbel-Joseph H. Boutros con i dipinti monocromi in tessuto e resina di Edith Dekyndt; le sculture modellate dal vento e i grandi pannelli con cera di candele di Alessandro Piangiamore; le sculture in legno di Stéphanie Saadé, i disegni sulla natura di Lala Rukh, il video di Dominique Gonzalez-Foerster. E, ancora, la riflessione post-pittorica di R.H. Quaytman con le variazioni su astrazione e figurazione, manuale e digitale, artigianato e design. Mentre le opere disposte a pavimento, fatte di frammenti di materiali naturali e acqua, di Nina Canelle ci inducono a ripensare la lieve bellezza connessa ai temi della trasformazione. Sul belvedere la tenda in tessuto iridescente di Wu Tsang suggella in maniera dissacratoria la mostra. Maria Vinella Hicham Berrada, Punta della Dogana, Venezia

Palazzo Grassi, Venezia

Luc TUYMANS

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on oltre ottanta opere, realizzate dal 1986 a oggi, Palazzo Grassi accoglie l’esperienza artistica di Luc Tuymans, fondata sulla pittura nel suo frustante rapporto con la rappresentazione. La Pelle è il titolo scelto dall’artista, citando l’omonimo romanzo di Curzio Malaparte, pubblicato nel 1949. Non certo per una condivisione ideologica con le posizioni di Malaparte, implicato con il fascismo, ma in nome dell’ambivalenza che l’artista belga assegna alla natura del suo dipingere. Vocazione fatale per un mezzo, la pittura, che fa i conti oggi più che mai con la finzione e la manipolazione. Questione che Tuymans

Veduta dell’installazione a Palazzo Grassi, 2019 © Palazzo Grassi, Photo Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti.

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speciale eventi collaterali BIENNALE DI VENEZIA 2019

Palazzo Kempinski, Venezia

Joana VASCONCELOS

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rima personale a Venezia per la portoghese Joana Vasconcelos.Il titolo della mostra What are you hiding? May you find what are looking for (Cosa nascondi? Che tu possa trovare ciò che cerchi) è la risposta al titolo della mostra di Ralph Rugoff. Il lavoro della Vasconcelos contiene riferimenti sia alla cultura popolare del suo paese e sia al dibattito teorico dell’arte contemporanea. Oltre a Madragoa (2015-19) nella chiesa di San Clemente, e I’ll be your mirror #1 (2019) installata nel giardino di Palazzo Kempinski, in mostra anche il lavoro più iconico e parte della famosa serie Shoes, Betty Boop (PA), 2019. La scarpa a tacco alto è composta da pentole in acciaio a sottolineare i due tropi paradigmatici della vita pubblica e privata della donna.

Joana Vasconcelolos, Betty Boop (PA), 2019. Padelle e coperchi in acciaio inossidabile e cemento. Berardo Collection. James Lee Byars, The Death of James Lee Byars, 1994 Foglia d’oro, plexiglas e cristalli Swarovski, cm. 602x560x485

Chiesa di Santa Maria della Visitazione, Venezia

The Death of James Lee BYARS

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’opera The Death of James Lee Byars, un grande parallelepipedo coperto di foglia d’oro, è un lavoro creato dall’artista per una galleria di Brussel nel 1994, una sorta di grande sepolcro o mausoleo che indica concettualmente il luogo in cui giaceva il corpo dell’artista, ora assente, che indica l’idea della sua stessa scomparsa terrena. Ciò a seguito della scoperta di un cancro incurabile che lo avrebbe stroncato tre anni più tardi. Cinque cristalli indicano i punti dove, il corpo dell’artista giaceva, richiamando nei dettagli aspetti filosofali legati al mistero della vita, facendola diventare tra le opere più iconiche e emotive della sua produzione. A Venezia, nell’allestimento pensato dalla Vanhaerents Art Collection, che ha scelto di farla dialogare con Vocal Shadows, un lavoro audio/ sonoro commissionato appositamente al compositore e artista visivo libanese Zad Moultaka, l’opera acquista una nuova intensità, amplificando nuovamente e nella relazione con il luogo i concetti di effimero e transitorio, richiamando infine alla memoria il simbolismo di molte antiche culture.

affronta da subito prelevando i soggetti da fotografie, analogiche o digitali, da giornali, da schermi di computer, di televisori, di smartphone o da specchi. L’immagine subisce ulteriori alterazioni, viene rifotografata oppure dipinta e quindi nuovamente fotografata, perdendo progressivamente definizione e leggibilità. La pittura interviene solo in ultima battuta quando il tipico effetto appannato è già in atto, quando cioè la materializzazione dell’ineluttabile distanza con il reale ha già irreparabilmente indebolito l’immagine. Ormai opaca, fuori fuoco ma in grado di centrare l’obiettivo primario della poetica di Tuymans, ossia dare forma a una “falsificazione autentica” della realtà. Le opere in mostra non seguono un ordine cronologico, piuttosto confermano la deviazione concettuale della pittura contemporanea anche nell’unica opera realizzata in occasione della mostra, il mosaico di marmo che riveste come una nuova pelle l’atrio di Palazzo Grassi. Riproduce “Schwarzheide”, un suo dipinto del 1986 ispirato a sua volta a un disegno di Alfred Kantor, prigioniero del campo di concentramento tedesco che riprendeva la foresta intorno al lager,un sipario vegetale progettato per sottrarlo allo sguardo dei civili. Sulla violenza e sull’orrore Tuymans torna spesso, scavando nel passato e nella cronaca recente. Basti pensare al ciclo dedicato al cannibale giapponese Issei Sagawa, al nazista Himmler, fissati in

una fisicità disperatamente annebbiata, in un’algida lontananza imposta dalla drammaticità della storia. La stessa nebulosità che riserva ai frammenti urbani del sontuoso Murky Water I, II, III, alle nature morte dipinte rieditando il copyright di Cézanne, o quello di Turner, quando si attarda nelle esplosioni di cupi tramonti. La mostra, curata da Caroline Bourgeois e dallo stesso Tuymans, assai attivo anche in questa veste (di recente ha firmato Sanguine, alla Fondazione Prada a Milano, sul barocco storico e contemporaneo), individua due fasi della sua produzione, quella fino agli anni Novanta che appare gessosa e disturbante nei soggetti: gli occhi chiusi di Albert Speers in Secrets, il corpo fantoccio di Body (entrambi del 1990), l’insetto kafkiano di Superstition (1994) e altre tele di piccolo formato ad alta densità psicanalitica; e quella dal 2000 in poi in cui intervengono slavature e stesure ampie, come nel trittico Murky Water (2015), dove si fa più stridente lo scollamento tra immagine e reale. Pertanto, il visitatore è costretto a sanare la distanza tra ciò che vede e ciò cui l’opera rimanda, integrando l’esperienza visiva con i lunghi testi esplicativi. Narrazioni aggiuntive per una pittura intorbidata in cui la realtà tende a sottrarsi o a riemergere appesantita da aggiuntive problematicità e interrogazioni. Marilena Di Tursi GIUGNO/LUGLIO 2019 | 273 segno - 39


Isola di San Servolo, Venezia

Young Artist in the Hotel

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’è spazio anche per i più giovani a Venezia, grazie allo spaccato proposto dalla galleria d’arte YAG/garage che da Pescara approda in Biennale, con un progetto che coinvolge sei fra i numerosi ragazzi che in questi anni, merito del supporto di Silvio Maresca, amministratore unico della Carlo Maresca SpA, hanno avuto l’occasione di avvicinarsi professionalmente al mondo dell’arte. Dunque a Venezia l’occasione di dialogare con l’arte internazionale in un luogo che, in occasione dell’ultima Biennale di Architettura (anno 2018) ha visto la San Servolo Servizi oggetto di un make-up di sei camere della struttura, affidato ad importanti aziende, che si occupano di arredamento e design. L’operazione, denominata Venice Innovation Design, ha visto il coinvolgimento di noti marchi che hanno ridato un nuovo look a questi spazi, ma anche alla reception e ad altri luoghi della struttura. Spazi che oggi sono arricchiti e impreziositi dei lavori degli artisti Dario Agati, Martina Cioffi, Daniele Di Girolamo, Matteo Messori, Marco Smacchia e Manuel Tatasciore (MAD), chiamati ad esporre una propria

opera all’interno delle sei camere, oltre che nella caffetteria della San Servolo. Qui, gli ospiti della struttura, hanno trovato, dunque, non solo l’opportunità di conoscere un luogo incantevole ma anche l’occasione di apprezzare privatamente la bellezza e il valore delle opere esposte. Infine, anche la ricerca originale di sei giovani impegnati nella definizione della propria poetica che normalmente passa attraverso l’esplorazione di medium diversi. Qui, tuttavia, proprio per rispettare l’intimità della sistemazione, sono state privilegiate piccole pitture e disegni, opere dalle dimensioni ridotte ma non banalmente decorative, ciascuna appositamente pensata per la specifica stanza che le accoglie. Il progetto, è curato di Ivan D’Alberto, direttore della YAG/garage.

Da sinistra a destra le opere di: Manuel Tatasciore (MAD), Marco Smacchia, Matteo Messori, Martina Cioffi, Dario Agati, in alto Daniele Di Girolamo

Despar Teatro Italia, Venezia

Hillary. The Hillary Clinton Emails

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na chicca pensosa nell’affollatissimo panorama di mostre collaterali, afferenti, parallele o imboscate di questa Biennale. È Hillary. The Hillary Clinton Emails, progetto dell’artista e poeta americano Kenneth Goldsmith curato dal duo Francesco Urbano Ragazzi. La prima sorpresa è la location: Despar Teatro Italia. Ovvero un delizioso ex teatro primo ‘900 con facciata stile gotico veneziano in zona Cà d’Oro, dalle eclettiche vicissitudini. In passato ha funzionato come cinema, poi fu acquisito dall’Università e per diverso tempo rimase inutilizzato. Nel 2016, con un esperimento inconsueto, è stato rilevato dalla catena Despar che ha provveduto ai restauri e ha allestito al suo interno un piccolo e ordinato supermarket rispettoso dell’ambiente storico, con scaffali da biblioteca distanziati dagli affreschi alle pareti e un grande schermo per proiezioni cinematografiche sul fondo. Qui, nel mezzanino al secondo piano, Goldsmith ha ricostruito il simulacro minimale dello Studio Ovale alla Casa Bianca. Su una scrivania una plastica pila di fogli esibisce stampate le mail che da Segretario di Stato la Clinton inviò da un server privato: “scandalo” che nel 2009 le costò l’elezione presiden-

ziale, favorendo Trump. Sono 60.000, finora sempre evocate e strumentalizzate senza conoscerne effettivamente il contenuto. Ora vengono messe a tangibile disposizione, riunite in candide pubblicazioni poste su tavoli in un apposito spazio di consultazione. Ma al di là dei messaggi celati, pare in realtà ordinari e di servizio, alcuni aspetti hanno colpito Goldsmith. Il tema dei rapporti tra pubblico e privato nell’era digitale, suggerito anche dalla scelta dello spazio espositivo. Quello, pur ovvio, della perversa pervasività dei processi di falsificazione mediatica. La possibilità di demistificare l’inesistente potenziale eversivo delle lettere mostrandole. E soprattutto, rivelata la loro insignificanza, l’opportunità di trasformare la banalità del documento in costruzione epica, trasfigurazione poetica di un momento storico. “Le e-mail di Clinton sono omeriche in scala, Shakespeariane nell’intrigo e Toynbeeane per il loro dilagare nella cultura popolare. Sono opere testuali epiche, più emozionanti e intellettualmente coinvolgenti di qualsiasi cosa un singolo autore possa mai sognare di scrivere”, ha dichiarato Goldsmith in un’intervista (a Federica Tattoli su i-D-Magazine). Con una dose intelligente di provocazione, il suo approccio concettuale traduce dunque la riflessione “politica” in elemento visionario e viceversa. Si fa operazione di detournement letterario, in linea con un metodo di ricerca basato sul prelievo, che all’originalità e all’autorialità sostituisce la suggestione di una creatività corale. Ne è conferma l’annoso impegno alla creazione di un portale, UbuWeb, che raccoglie materiali creativi in formato audiovisivo gratuitamente messi a disposizione da importanti artisti internazionali. In mostra sono trasmessi in loop su due monitor. Oppure proiettati a rotazione un’ora al giorno sul grande schermo, visibile da una balconata con affaccio dall’alto sul supermercato. Antonella Marino Kenneth Goldsmith, Hillary. The Hillary Clinton Emails © Giorgio De Vecchi GERDASTUDIO 19

40 - segno 273 | GIUGNO/LUGLIO 2019


speciale eventi collaterali BIENNALE DI VENEZIA 2019

Isola della Giudecca, Venezia

Recursions and Mutations Hiroyuki MASUYAMA

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a galleria Studio la Città di Verona, nel proseguire l’attività di ricerca che ha intrapreso nell’ultimo decennio nella città di Venezia, in concomitanza con la 58a edizione della Biennale, ha proposto due progetti espositivi sull’Isola della Giudecca. Il percorso è sviluppato su due piani, con due allestimenti distinti: Recursions and Mutations presenta le opere di Vincenzo Castella, Lynn Davis, Jacob Hashimoto e Roberto Pugliese mentre After J.M.W. Turner 1834 - 2019 è una mostra personale del giapponese Hiroyuki Masuyama. Lo spazio espositivo si trova all’interno di GAD - Giudecca Art District, un network nel settore dell’arte contemporanea che, partendo dallo scenario in cui si inscrive, mira a coinvolgere, intercettare e far convergere sull’Isola della Giudecca, progetti di qualità pensati per partner nazionali e internazionali, comprendendo alcuni progetti curati direttamente e altri che, come avviene per Studio la Città, hanno scelto di dialogare all’interno di questo contesto, in totale autonomia artistica. Recursions and Mutations nasce dall’intuizione di Jacob Hashimoto di realizzare una mostra che prenda in esame alcuni processi di reiterazione e cambiamento nella pratica artistica, attraverso interazioni tra artisti che hanno scelto di lavorare insieme a questo progetto condiviso. La mostra analizza come il processo - che comprende la ripetizione, il suo riscontro e il successivo atto di deviazione/mutazione - possa essere impiegato come dispositivo analitico per leggere la realtà che ci circonda. In particolare il fenomeno della ricorsività – recursion – si riferisce all’impiego di un criterio che garantisca risultati contenenti se stessi in forma riconoscibile, una sorta di filiazione diretta, nella quale gli elementi costitutivi sono visivamente reiterati, seppure trasformati. La mutazione - mutation - risponde invece alla tendenza al cambiamento, a una variazione significativa ma non totale, in cui la forma precedente sia ancora percepibile. Vincenzo Castella racconta come nella sua ricerca la mutazione sia una condizione presente nella osservazione e nella registrazione del momento, attraverso lo scatto. In questa occasione, presenta due serie di fotografie in cui la Natura gioca un ruolo di centrale importanza: a volte effimera e costretta all’interno di una serra, altre selvaggia e incontaminata come nei paesaggi della Finlandia, ma sempre elegante e catturata nell’originalità di significativi dettagli. Lynn Davis, partendo da un approfondito studio degli iceberg e dei ghiacciai della Groenlandia iniziato negli anni Ottanta, ci restituisce uno sguardo insolito: le sue fotografie sono scattate come se l’obiettivo della macchina fotografica dovesse immortalare la maestosità di un monumento, un’imponente architettura antica.

Lynn Davis, Iceberg XXXVI, Disko Bay, Greenland, 2016

Jacob Hashimoto mette in relazione nuove opere a parete con una grande installazione site-specific costituita da centinaia di aquiloni in resina. La sua proposta espositiva esplora le intersezioni tra pittura e scultura, astrazione e figura: si crea un immaginario composto di strati che evocano allo stesso tempo ambientazioni virtuali e tradizioni storiche. A partire da questa riflessione, ha voluto coinvolgere i colleghi all’interno di un pensiero perpetuo. Roberto Pugliese parte da una riflessione sullo scioglimento dei ghiacci e dell’innalzamento del livello del mare, causati dal riscaldamento globale e torna a noi con un’opera che, dal punto di vista formale, è costituita da ampolle sospese di vetro soffiato e acqua cristallina, con la presenza immateriale ma costante del suono come fonte di avvertimento. Al piano inferiore dello spazio troviamo la mostra After J.M.W. Turner 1834 – 2019, un ciclo di opere di Hiroyuki Masuyama. I lavori selezionati prendono ispirazione dalla pittura di viaggio di Joseph Mallord William Turner, lo straordinario pittore inglese vissuto tra Settecento e Ottocento. L’artista giapponese è riuscito a cogliere con grande acume il senso della ricerca di Turner, attratto dal suo modo di lavorare, dalla sua ossessione per la mutevolezza della luce, dalla somiglianza di molti dei suoi schizzi con le opere finite e dalla sua maniacalità. Oggetto del suo interesse sono gli acquerelli e i dipinti realizzati da Turner durante i suoi viaggi in Italia, in particolare quelli a Venezia. I lavori di Masuyama, delle sorprendenti light-box di diverse dimensioni, rappresentano immagini molto complesse, costituite da centinaia di scatti fotografici sovrapposti, quasi delle stratificazioni iconografiche: una commistione culturale e linguistica dove l’arte dell’ottocento, la fotografia digitale e la cultura giapponese si uniscono in un insieme perfettamente equilibrato. (red.dal cs.)

Recursions and Mutations, veduta dell’installazione foto Michele Alberto Sereni, courtesy Studio la Città – Verona

GIUGNO/LUGLIO 2019 | 273 segno - 41


Fondazione Marconi, Milano

Emilio TADINI

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e opere di Emilio Tadini non possono non destare un sentimento straniante e di sgomento in chi le osserva: personaggi le cui teste sono sostituite da pennelli, cravatte o lampadari, oggetti decontestualizzati e ricollocati sulla superficie dell’opera in totale libertà evidenziando l’assenza di gravità e un annullamento delle leggi spazio-temporali. Per la terza mostra che la Fondazione Marconi dedica all’artista e intellettuale milanese – in seguito a quelle del 2007 e 2012 – si è deciso di presentare un percorso di approfondimento sugli esordi della produzione artistica di Tadini, partendo dal 1967 con il primo ciclo Vita di Voltaire fino ad arrivare al 1972 con la serie Archeologia. La poetica dell’artista è caratterizzata da una rappresentazione possibile del reale in chiave “pop” alla quale sono aggiunti degli elementi di disturbo in un clima emotivo e surreale in cui la tela diventa un diario a episodi dove far confluire un “flusso di coscienza” in cui convivono e si contaminano componenti letterarie, oniriche, metafisiche e psicoanalitiche. Emilio Tadini insiste sul senso della vista e le implicazioni concettuali che esso comporta: a partire dalla alterazione di una immagine con elementi imprevisti l’artista, dopo aver catturato l’attenzione proponendo all’interno dell’opera relazioni improbabili tra i soggetti rappresentati, lascia all’occhio di chi osserva il compito di elaborare il linguaggio visivo in linguaggio letterario. È proprio in quest’atmosfera allucinata che si genera un terreno fertile per far sì che avvenga un cortocircuito mentale, un momento di pausa in cui si arresta lo sguardo e, finalmente, si comincia a guardare ciò che si vede. Angela Faravelli

Emilio Tadini Color & Co. n. 5, 1969 (acrilici su tela 100 x 81 cm.) Courtesy Fondazione Marconi, Milano

Fondazione Carriero, Milano

Lygia PAPE

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HAO, Wang

l progetto di allestimento delle opere di Lygia Pape (Nova Friburgo, 1927 – Rio de Janeiro, 2004) presso la Fondazione Carriero evidenzia la molteplicità di linguaggi utilizzati dall’artista oltre alla specificità della sua personalissima modalità espressiva, organica e armoniosa, ottenuta tramite la fusione delle istanze del costruttivismo russo riformulato sotto l’influenza della cultura del suo paese di origine, il Brasile. Se nei lavori appartenenti al ciclo “Libro del tempo” (anni ’60) – esposti al piano terra – emerge l’indagine sulle forme geometriche in cui una serie di sculture presentano varianti potenzialmente infinite ricavate attraverso interventi di “ritaglio”, di pieni e vuoti applicati alla forma del quadrato intenso come oggetto con cui entrare in relazione, i “Disegni cinematografici” (anni ’80) pongono l’attenzione sul processo del divenire e mirano alla creazione di uno spazio dinamico attraverso la costruzione di sequenze dalla serialità immediata e colorata finalizzate ad includere il flusso temporale. Viene così introdotta la componente fondamentale della poetica di Lygia Pape, firmataria del Manifesto del Neoconcretismo, la quale prende le mosse dalla geometria ma necessariamente la trascende per arrivare al completamento delle sue opere solo attraverso l’interazione dello spettatore. Nel suo lavoro la figura umana acquisisce centralità e il linguaggio si apre alla sensorialità, ne è dimostrazione concreta l’installazione Tela. Area aperta (2000), un reticolo composto da sottili fili dorati sospesi dal pavimento al soffitto i quali si incrociano geometricamente l’un l’altro e, attraverso un gioco di luci, definiscono dei corpi volumetrici che intervengono sulla composizione dello spazio. L’opera giunge al suo completamento solo grazie al coinvolgimento e all’interazione dello spettatore: egli attraverso il movimento scopre il reticolato con cui l’artista tesse lo spazio e porta così a compimento l’indagine sulla percezione. Angela Faravelli

opo l’esordio con la personale di due anni fa, Hao Wang (ShanDong 1989) presenta allo Studio d’arte Cannaviello un nuovo ciclo di lavori. Se nella produzione precedente l’artista si era concentrato sul tema delle favole, legato alla natura dei parchi che egli stesso ama esplorare, ora sposta la sua attenzione sulle condizioni sociali del nostro tempo. Hao Wang vive il proprio ruolo di pittore con un forte senso di responsabilità, sente di dover cercare di dare risposte al destino dell’uomo. Come lui stesso afferma: “Vorrei che i miei dipinti toccassero dentro, portando l’attenzione del pubblico sui problemi sociali e spingessero a riflettere sulle questioni sostanziali che stanno alla base della realtà”. Sono esposte, dunque, più di 20 tele caratterizzate dagli stessi colori accesi con i quali aveva debuttato nella mostra precedente. I suoi lavori sono caratterizzati da “silhouettes” immerse in forme irregolari usate per far emergere un senso di contraddizione umana segnato da quelli che l’artista definisce “simboli suggestivi” ossia metafore adoperate per ricordare al pubblico le difficoltà portate dal lavoro, dalle guerre, dall’inquinamento, dai confini (da qui il titolo con il quale l’artista si interroga su cosa voglia dire essere straniero). Un linguaggio drammatico ma anche “rilassato”, sognante e umoristico usato per raccontare le favole umane moderne. (dal cs.)

Hao Wang, Alba in mare, 2019 (olio su tela, cm. 40 x 40) Courtesy Studio d’arte Cannaviello, Milano

Lygia Pape, Livro do Tempo, 1965 - Livro Noite e Dia, 1963-76 Ph. Christian Kain. Courtesy Fondazione Carriero, Milano

Studio d’arte Cannaviello, Milano

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42 - segno 273 | GIUGNO/LUGLIO 2019


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

PaolaPivi, Exhibition View - photo Attilio Maranzano Courtesy l’artista

MAXXI, Roma

Paola PIVI

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ue file infinite, capovolte tra loro, di soffici materassi creano un sottile antro ovattato in cui abbandonarsi a una piacevole pausa di gioco o di meditazione. E’ l’invito lanciato al pubblico da Paola Pivi con l’installazione site specific ideata per la galleria 5 del MAXXI di Roma, dove, fino al 3 settembre, è ospitata la sua personale “PAOLA PIVI: World record”, a cura di Hou Hanru e Anne Palopoli. Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 1999, Paola Pivi (Milano, 1971) modifica lo spazio museale attraverso una poetica imperniata su oggetti d’uso quotidiano reinterpretati col fine di dar luogo a una realtà nuova, ironica ed esagerata, fatta di contrasti stravolgenti che rivelano altre possibili interpretazioni di un letto, di un tessuto o di una semplice piuma. Entrando nella sala una fitta trama di cuscini gialli e rossi, annodati su se stessi, accolgono lo spettatore suggerendogli di liberare la mente da costrizioni e vincoli imposti dalle convenzioni sociali per far affiorare ricordi ancestrali, infantili passatempi e quel puerile fascino verso la novità qui restituita con l’abito indossato dai monaci tibetani utilizzato per creare “Share, but it’s not fair” (2012).

La mostra prosegue con opere della fine degli anni Novanta, dove ritorna l’opposizione tra grande e piccolo: divani riprodotti in miniatura e stracolmi di profumo, essenza che, cadendo sul pavimento, si diffonde in tutto l’ambiente attivando la sfera olfattiva dell’utente. Questi oggetti d’arredo, sinonimo della sfera familiare ma anche di design, comfort e routine, perdono la loro connotazione funzionale per acquisire quella di manufatti da collezionare. Poco più in là Scatola umana (1994) – uno dei primi lavori dell’artista milanese formatasi tra l’Accademia di Brera e il centro ViaFarini DOCVA – ovvero una scultura in plexiglass di 10 cm ideata come uno scrigno prezioso, un’unità di misura sul mondo contenente in potenza i principi fondanti la sua ricerca (impiego di oggetti elementari, l’astrazione, il minimalismo) che svilupperà in seguito grazie alla sua sconfinata creatività e attitudine ad avvalersi di molteplici linguaggi, espressioni e medium. Distesa a terra “Did you know I am single?” (2010), una pelliccia sintetica d’orso, ci ricorda sia il predominio dell’uomo sugli animali e sulla natura – argomento molto sentito dalla Pivi in quanto dal 2006 ha scelto di vivere in Alaska – sia l’attaccamento al nostro peluche preferito col fine di rendere l’oggetto al contempo giocoso, melanconico e drammatico. Alzando gli occhi lo sguardo è catturato da “Very fuzzy” (2019), parte di una serie realizzata dal 2016, in cui l’aspetto ludico ed ironico prende il sopravvento creando una coreografia carnevalesca per via dell’impiego di piume colorate che girando su loro stesse a velocità costante producendo un effetto ipnotico. Interessanti lavori che racchiudono in sé molteplici richiami: dai ready made di Duchamp ai mobiles di Calder, dalle macchine inutili di Munari alle opere dell’arte optical. L’ideale tragitto artistico di Paola Pivi, dal minuscolo all’architettura nell’architettura, termina nel piazzale esterno con la monumentale installazione “Senza titolo (aereo)” (1999), che le valse il premio sopra menzionato: un aeroplano Fiat G-91 sospeso nel tempo e magicamente posato sottosopra che, col suo perfetto equilibrio instabile, gioca a sfidare le leggi della fisica. Maila Buglioni

Paola Pivi, World Record 2018 ph Attilio Maranzano. Courtesy l’artista

Paola Pivi, Share, but it’s not fair, 2012, Ex. unico (tessuto, cotone). Foto: Thomas Fuesser. Courtesy: Massimo De Carlo, Milan/London/Hong Kong and the artist Nella foto: 2012 - Share, But It’s Not Fair, curated by Larys Frogier, Rockbund Art Museum, Shanghai, PRC

GIUGNO/LUGLIO 2019 | 273 segno - 43


Giardino di Boboli, Palazzo Pitti, Firenze

Tony CRAGG

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criveva Anthony Cragg intorno al 1996 in occasione dell’ennesima e applauditissima installazione pubblica in terra tedesca: «Quello che mi interessa personalmente nella scultura è come una forma organica e irrazionale, sposata con un elemento rigido e geometrico, possa creare forme che trovo piene di riferimenti e sensazioni eccitanti … è la struttura sottostante che dà alla pelle tutta la tensione della membrana, sperimentando la pressione dall’interno formando cerchi lungo il suo asse e riflettendo la struttura base di ogni organismo, organo, piante e animali, allo stesso tempo evocando una corposa ed erotica qualità». Esiste una precisa e mirata connessione con la scultura così avulsa di Cragg e le dolci colline del giardino di Boboli: l’erotismo. L’epoca d’oro granducale si manifestò in un periodo, tra la metà del XVI secolo e la metà del XVII secolo, di assoluto fermento artistico, cuspide del Rinascimento maturo; la rilettura classica, soprattutto le Metamorfosi di Ovidio, e le grandi e continue novità che giungevano fresche dalla scoperta del Nuovo Mondo crearono un febbricitante eccitamento collettivo, fotografato a livello artistico da un notevole sodalizio creativo tra pittura, scultura, architettura e natura. Acqua, conchiglie, caverne umide, rotondità e carne, tutto a Boboli invita alla letizia e al sentimento panico sia una statua di Vincenzo De’ Rossi che il pungente odor di agrumi. Lo scultore originario di Liverpool ripristina questo spirito tradizionale e germina il verde del giardino con sedici delle sue migliori sculture realizzate negli ultimi vent’anni di carriera, scelta che verte sulla produzione più iconica dell’artista, ormai universalmente e affettuosamente ribattezzato “Tony” Cragg, come si usa con i grandi, quali Andy o Modì. L’evento, curato da Eike Schmidt, Jon Wood e Chiara Toti e visitabile fino al 27 Ottobre 2019, diverte e inquieta, riesce a incuriosire il fiume di visitatori che stanziano nel giardino di Palazzo Pitti (oltre 800.000 ogni anno) senza però negare lo straniamento formale e monumentale di opere di questo calibro. Non è più vergine Firenze di queste relazioni tra contemporaneo e Storia e l’attenzione dei curatori ha permesso un connubio più maturo e ricercato rispetto a certi sperimentalismi del passato recente, cogliendo la particolare delicatezza della location e offrendo una reciprocità di sguardi tra l’ambiente e l’”ospite” Cragg particolarmente suggestiva: una versione del Taurus (1999) collocata nel bacino del Nettuno, gioca inevitabilmente

Tony Cragg, Elliptical Column and Point of View, 2012-2018 stainless steel. Photograph by Michael Richter © the artist

con la statua del Lorenzi (1571) in una sorta di lotta plastica per la conquista delle verdi e fluttuanti curve dell’acqua della vasca, sotto gli occhi lucidi e bramosi dell’Abbondanza del Tacca (1636). Simili narrazioni e infusi cronologici si ritrovano sparpagliati ovunque nell’ambiente, permettendo la libera fruizione e “cattura” di irrepetibili punti di vista arricchiti vicendevolmente da una riflessione intima (quasi atomica) della materia e la memoria circostante, un ars naturans che sboccia, erutta, zampilla dal profondo di quella coscienza artistica e nobile posseduta da Firenze, città impavesata di reminiscenza e bellezza. Forse il confronto meno riuscito è la metallica colata di Elliptical Column (2012) e Point of View (2018) stagliate sulla skyline del cuore di cotto mattone fiorentino della Cupola brunelleschiana e il candido floreale campanile giottesco, pur essendo il più manifesto, ma è con l’arboreo e vivo rigoglio che Tony Cragg si esalta, perché le sue forme hanno ormai smarrito la dimensione di Oggetto, le tensioni continue e immanenti delle sue opere hanno scopi più significativi di un’azione voyeuristica in quanto toccano l’aria, i suoni, le voci e i pensieri del mondo lussureggiante e grottesco del giardino mediceo di Boboli, nel profumo che dilaga quando il giorno più languisce. Luca Sposato

Tony Cragg, Industrial Nature 2015 aluminium. Photograph by Michael Richter © the artist

44 - segno 273 | GIUGNO/LUGLIO 2019


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Tony Cragg, Senders 2018 (fibra di vetro) ph Michael Richter © l’artista

Tony Cragg, Mean Average 2018 (fibra di vetro) ph Michael Richter © l’artista

Tony Cragg, Willow 2014 (bronzo) Fotografia di Michael Richter © l’artista

Tony Cragg, Caught Dreaming 2006 (bronzo) Fotografia di Michael Richter © l’artista

GIUGNO/LUGLIO 2019 | 273 segno - 45


Galleria Continua, San Gimignano

Michelangelo PISTOLETTO & Pascale Marthine TAYOU Berlinde de BRUYCKERE & Peng YU

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na cosa non esclude l’altra” è il titolo del progetto espositivo presentato alla Galleria Continua a San Gimignano, che comprende le opere di Michelangelo Pistoletto e di Pascale Marthine Tayou, in interazione e dialogo. Particolarmente interessante è l’incontro fra i due artisti, diversi nel linguaggio ma vicini nell’intento di un’arte che sia portatrice di umanità, valore etico che li accomuna. “Le grand sorcier de l’utopie” è il titolo di una monografia dedicata a Pascale Marthine Tayou, edita nel 2009, a cura di Galleria Continua, con testi di Nicolas Bourriad e Pier Luigi Tazzi, dalle cui pagine si evince la costante tensione verso l’umano dell’artista nel suo lavoro, anche quando può sembrare una mera utopia. Allo stesso modo Pistoletto con il Terzo Paradiso evoca il “giardino protetto” che rappresenta il grembo generativo della nuova umanità”, secondo quanto scritto da lui stesso nel manifesto del 2003, nella convinzione che l’arte possa essere il motore propulsivo del cambiamento e del miglioramento sociale. Il percorso espositivo, che presenta opere storiche, rivisitate per l’occasione e altre appositamente concepite, si muove su due polarità, quella del dialogo intessuto dagli artisti nello spazio attraverso la loro opera, fino a generare una terza e nuova espressione caratterizzata dall’apporto di entrambi, e quella della relazione con il mondo

esterno. Questa relazione è elemento fondante della poetica di Pistoletto e di Tayou, per cui la conoscenza del mondo avviene attraverso l’arte e contemporaneamente l’arte rimanda al mondo. Diversi sono i mondi evocati dalla forza creatrice dei due artisti, ma unendosi questa, si originano installazioni dense di senso e di contenuto. Tayou recupera materiali poveri e riflette sulla sua terra d’origine, il Camerun, nonché sull’Africa in generale, nel difficile e lungo processo di emancipazione postcoloniale; Pistoletto, oltre all’ utilizzo di materie essenziali, rende il presente protagonista della sua ricerca e coinvolge lo spettatore nel suo percorso teorico ed espressivo, facendo diventare il suo lavoro un territorio di confronto, di apertura e di scambio. All’ingresso della mostra è collocata la “Grande sfera di giornali – Progetto per un museo”, 1966-2019 di Pistoletto, posta al centro della sala, dal diametro di oltre tre metri, ripensata per Galleria Continua, dopo la prima azione per le vie di Torino del 1967 e per la Biennale veneziana del 1976. È realizzata con carta di giornali del nostro tempo, quasi per testimoniarlo; ad essa risponde l’installazione “Daily life” del 2019 di Tayou, che con scritte luminose ricopre tutte le pareti, delle scritte simili a insegne pubblicitarie, in molteplici lingue, che evocano un mondo sempre più globalizzato e consumista.

Nelle immagini, Michelangelo Pistoletto & Pascale Marthine Tayou, Una cosa non esclude l’altra Vedute della mostra, 2019. Courtesy the artist and Galleria Continua, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

46 - segno 273 | GIUGNO/LUGLIO 2019


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Nelle immagini, Michelangelo Pistoletto & Pascale Marthine Tayou, Una cosa non esclude l’altra Vedute della mostra, 2019. Courtesy the artist and Galleria Continua, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

La stessa modalità di utilizzo dello spazio, centrale e parietale, si ripete nell’incontro fra “Rotazione di corpi” di Pistoletto del 1989 e “Fetish Wall” di Tayou del 2019, due opere che sono in interazione serrata. La prima è costituita da due lastre trasparenti ruotanti, a riprodurre una porzione di universo, alla quale

rispondono nella seconda migliaia di chiodi arrugginiti, dalle capocchie colorate, conficcati nelle pareti fino a rivestirle interamente. Il senso di questo lavoro, secondo l’ottica di entrambi gli artisti, è che ogni luogo e ogni individuo sono un centro e devono diventarlo. Procedendo ancora nei vari spazi si arriva alla

Nelle immagini, Michelangelo Pistoletto & Pascale Marthine Tayou, Una cosa non esclude l’altra Vedute della mostra, 2019. Courtesy the artist and Galleria Continua, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

GIUGNO/LUGLIO 2019 | 273 segno - 47


Berlinde De Bruyckere, A single bed, a single room tessuto, cera, legno, ferro, resina epossidica, poliuretano 103 x 401 x 130 cm Courtesy the artist and Galleria Continua, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana photo Mirjam Devriendt

Berlinde De Bruyckere, Deux Corps, 2019 legno, bronzo, cera, carta da parati, iuta, corda, ferro, resina epossidica 265 x 203 x 53 cm

platea dell’ex cinema dove è collocata una grande installazione che, se pure realizzata a quattro mani e presentando specificità tipiche dei due linguaggi, sembra realizzata da un unico autore, in un incontro creativo e armonico di progettazione e di materiali. Berlinde de Bruyckere nella sua personale titolata “A single bed, a single room”, espone una serie di opere appositamente pensate per la mostra allestita nell’appartamento al Leon Bianco, in una dimensione che suggerisce il vivere quotidiano e lo spazio privato delle relazioni. L’artista belga che da sempre indaga la condizione dell’uomo e il senso di precarietà insito nella vita stessa, approfondisce nella sua ideazione sentimenti opposti e dicotomici e pur affrontando tematiche di dolore arriva sempre a suggerire una via d’uscita, se pure flebile. Aspro è il linguaggio delle varie installazioni, nelle quali l’albero, elemento ricorrente del percorso espositivo, un albero talora scarnificato, privo di corteccia, da calchi in cera e dalla struttura mutante, è protagonista di storie di fragilità e di forza, di umanità e di natura. Nella installazione 16 november ’18 del 2019 l’albero simula un corpo umano, abbandonato su un letto come se dormisse, tra cuscini e coltri consunte dal tempo, dove il riposo mal si coniuga con le asperità del tronco che lo fanno apparire come un corpo ferito. I cinesi Sun Yuan & Peng Yu presentano all’Arco dei Becci “I didn’t notice what I am doing”, installazione nella quale vengono esplorati i vari processi cognitivi che si attivano di fronte all’immagine. Provocazione, paradosso, materiali inusuali e visionarietà caratterizzano il loro lavoro e ne fanno due fra gli artisti emergenti del loro paese e universalmente noti, che espongono, tra l’altro, anche all’attuale Biennale di Venezia. Rita Olivieri Sun YUAN & Peng YU, I Didn’t Notice What I am Doing, 2012 - sculture in fibra di vetro: scultura di triceratopo, scultura di rinoceronte. Triceratops sculpture dimension: 400 x 190 x 120 cm | Rhinoceros sculpture dimension: 300 x 160 x 120 cm | pictures: 160 x 130 x 17 cm each - Courtesy the artist and Galleria Continua, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana - Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

48 - segno 273 | GIUGNO/LUGLIO 2019


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Arte in Fabbrica, Calenzano (Firenze)

Vittorio CORSINI

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el vaso ne ammiriamo e preserviamo la forma, ma è il suo vuoto che ci interessa. Vittorio Corsini è un’artista del vuoto, prima che ambientale o spaziale, perchè la sua ricerca non va a toccare il contesto circostante, ma vicerversa la sua arte accoglie i piani volumetrici e l’immateriale dello scenario di volta in volta scelto. Quest’occasione è toccata alla sincronica doppia mostra Unstable/Environments, rispettivamente allocate alla Galleria d’Arte Frediano Farsetti di Milano e presso la Fabbrica Gori Tessuti in Calenzano (FI). Quest’ultima, visitabile fino al 30 settembre 2019, per quanto intimamente legata con la corrispondente milanese (terminata l’11 maggio 2019) sia per ragione artistica sia per la comune origine pratese dei promotori (tanto i Gori quanto i Farsetti da tempi immemori hanno posto le loro facoltà industriali al servizio dell’ arte), merita un’attenzione specifica, data la particolarità del progetto. Arte in Fabbrica, infatti, è un’iniziativa piuttosto recente a cui i fratelli Fabio e Paolo Gori si sono dedicati per codificare la percezione dell’ambiente di lavoro in un contesto vissuto anche in un’accezione più intima, domestica se si vuole. Nessun salotto o tinello, ovviamente, ma costruire uno spazio espositivo inglobato nei vasti reparti di magazzino, quale presentazione sofisticata della sinergia lavorativa del luogo. Quale miglior artista poteva sposare questa idea se non Vittorio Corsini? La mostra in corso, a cura di Marco Scotini, propone pochi e precisi apparati disseminati dalla scala al salone adibito e testato per accogliere eventi di questa portata; come detto, il concetto del vuoto è predominante già nelle scelte installative con opere scarsamente plastiche, eccezion fatta per il massiccio e rotante Sotto Luce (2019), l’elemento più (o)scenico, e quasi unicamente parietali. Persiste una vaga rimembranza Minimal, argomento proprio del lavoro di Corsini (su tutti ricordiamo il riuscito Walkabout, 2008), ma oltre la forma il riguardo lambisce una filosofia decisamente ricercata, volta a straniare il fruitore per concentrare il suo pensiero sul dove, in un piano esistenzialista. Così il paesaggio dipinto In nome del Signore (2019) è decostruito dalla sfacciata e ocularmente disturbante fascia bianca nel mezzo, e pure le bellissime fotografie sulla parete cementizia del pianerottolo delle scale creano un piacevole corto circuito. Sfasatura delicata non pervenuta con l’opera mobile, che, aumentando l’oscillazione delle forze in campo, vanifica l’effetto ipnotico a favore di uno squilibrio altalenante. L’instabilità introspettiva dello spettatore diventa allora incertezza cognitiva, comuque portatitrice sana del medesimo effetto, ma di matrice diversa. Luca Sposato

Vittorio Corsini Unstable 2019 Courtesy Galleria Farsetti, Milano. Ph Fabrizio Stipari

Vittorio Corsini, In nome del signore 2019 (olio su alluminio 220 x 330) © Arte in Fabbrica, Calenzano Ph Serge Domingie Vittorio Corsini Environments © Arte in Fabbrica, Calenzano Ph Serge Domingie

GIUGNO/LUGLIO 2019 | 273 segno - 49


A arte Invernizzi, Milano

Riccardo DE MARCHI

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uesta occasione espositiva diventa per Riccardo De Marchi (Mereto di Tomba, 1964) motivo di approfondimento concettuale sul suo modus operandi: l’artista infatti parte da una superficie liscia e uniforme in metallo, alluminio, plexiglass o polietilene e ne scandisce lo spazio con partizioni ritmiche, una sorta di pentagramma musicale composto da un “alfabeto di buchi” proteso alla ricerca di un “grado zero” della pittura, scegliendo di agire sulla materia tramite la sottrazione. A partire dall’unità del buco – termine che deriva dal greco opè la cui traduzione corrisponde appunto a “buco” o “foro”, con però anche riferimenti alla vista e all’orbita oculare – De Marchi opera una riflessione sulle modalità di percezione dello spazio espandendo fisicamente e concettualmente il volume dell’opera, la quale dilatandosi ingloba la realtà circostante. Infatti nell’installazione delle opere realizzate su supporti composti da pannelli in alluminio l’artista sceglie di mantenere una certa distanza dal muro in modo che la luce, dopo aver attraversato i solchi dai diversi diametri, possa proiettare la costellazione di segni sulla parete generando letture disattese e sempre differenti in relazione al movimento dell’osservatore; allo stesso modo la scultura in plexiglass e alluminio diventa protagonista di una serie di contraddizioni e binomi che si risolvono poi nell’opera stessa: il buco è visto come traccia e vuoto, come mancanza e fisicità, come espansione e limite. L’opera non è mai “finita” e disgiunta dal contesto, bensì diventa completa quando il reale la attraversa e ne diviene parte integrante espandendola così potenzialmente all’infinito. Attraverso un delicato e sapiente uso della luce Riccardo De Marchi attiva diverse possibilità di visione servendosi della semplice contrapposizione tra superficie e volume, presenza e assenza, creando mondi accessibili e da esplorare all’interno dei quali la comunicazione avviene in maniera empatica e primaria. Angela Faravelli

Riccardo De Marchi, Veduta parziale della mostra. Àllai opaì (altri buchi), 2019. A arte Invernizzi, Milano - Foto Bruno Bani, Milano

50 - segno 273 | GIUGNO/LUGLIO 2019


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Hanga Bicocca, Milano

Sheel GOWDA

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a personale “Remains” di Sheela Gowda (Bhadravati, 1957) propone una serie di opere e grandi installazioni che, attraverso il valore simbolico e comunicativo degli oggetti e dei materiali di scarto impiegati, vuole rendere visibile allo spettatore lo sguardo approfondito e ricettivo dell’artista nei confronti del mondo nel costante processo di ridefinizione della forma inteso come modalità di trasformazione dei significati. La poetica di Sheela Gowda è caratterizzata dalla sperimentazione di materiali nuovi i cui esiti risultano imprevedibili; essi coniugano da un lato la realtà quotidiana riflessa nei media prescelti e dall’altro la loro nuova connotazione acquisita nel confronto fra i materiali-opera, senza tralasciare le loro implicazioni storiche e culturali. Così se l’installazione con cui si accede alla mostra – unione di due lavori del 2015 And That Is No Lie e It Stands Fallen – costituisce una sorta di rifugio, una shamiana (tenda tradizionale indiana) utilizzata per celebrazioni laiche, eventi religiosi o raduni politici, pone l’accento sul rapporto tra gli elementi e la loro configurazione nello spazio e le dinamiche che si instaurano con l’ambiente circostante connotandola come una ’“architettura estroversa”, al contrario in Darkroom (2006) – costruzione scatolare realizzata con bidoni per catrame

Sheela Gowda, Collateral, 2007 veduta dell’installazione, Iniva, Londra, 2011 Courtesy dell’artista e Iniva, Londra). Foto: Sheela Gowda

Sheela Gowda, What Yet Remains, 2017 Veduta dell’installazione, Ikon Gallery, Birmingham, 2017 Courtesy dell’artista e Ikon Gallery, Birmingham Foto: Stuart Whipps

riciclati – prevale una dimensione “introversa”. Infatti i barili in metallo compongono una struttura dentro la quale è possibile accedere attraverso una bassa apertura sulla facciata, ritrovandosi risucchiati in una sorta di buio microcosmo la cui sommità simula un cielo stellato. È affascinante la capacità dell’artista di riutilizzare i materiali residuali connotandoli con un nuovo valore emotivo e formale attraverso un’indagine che ha a che fare con l’affettività, la relazione tra gli oggetti, la loro funzione e la loro stessa natura, un momento di incontro inteso come forza capace di unire un insieme di circostanze che per l’osservatore è l’occasione di un’immersione in un’esperienza contemplativa Angela Faravelli

Sheela Gowda, Margins, 2011, GallerySKE, Bangalore, 2011 Collezione Kiran Nadar Museum of Art Courtesy dell’artista Foto: Sheela Gowda

Sheela Gowda, And that is no lie, 2015 (dettaglio) Veduta dell’installazione: Pérez Art Museum Miami, 2015-16. Courtesy dell’artista e Pérez Art Museum Miami. Foto: Oriol Tarridas

GIUGNO/LUGLIO 2019 | 273 segno - 51


Galleria PACK, Milano

Oleg KULIK

Oleg Kulik, Eclipse 1, 1999, silkscreen on paper framed, 96x70cm, edition 6of25

S

e dovessimo sintetizzare l’arte prodotta negli anni Novanta con un libro, si potrebbe citare l’Estetica relazionale di Nicolas Bourriaud pubblicato nel 1998 dove, nel definire le esperienze artistiche del tempo, afferma come “il lavoro di ogni

Oleg Kulik, Red square, 1999, silkscreen on paper framed, 70x96cm, edition 6of25

52 - segno 273 | GIUGNO/LUGLIO 2019

singolo artista [sia diventato] un insieme di relazioni con il mondo, che danno vita ad altre relazioni e così via, all’infinito”. Esemplare è la posizione estrema che, in questo decennio, assume l’artista russo Oleg Kulik con l’indimenticabile azione performativa I Bite


artisti in copertina

Oleg Kulik, Troika, 1999, silkscreen on paper framed, 70x96cm, edition 6of25

America and America Bites me realizzata alla Deitch Projects di New York nel 1997. Con un chiaro riferimento a I Llike America and America Likes me di Joseph Beuys, l’artista arriva in galleria dalla Russia trasportato in una cassa per animali, rimanendo per due settimane nudo, in silenzio e a quattro zampe. È al guinzaglio, mangia in una ciotola, rilascia i propri escrementi nello spazio, si muove limitatamente come un cane. Sicché l’atto riconciliatorio di Beuys tra natura e cultura è riletto da Kulik all’insegna della totale sottomissione al potere consumistico, una performance che, per certi aspetti, anticipa tematiche legate alla globalizzazione. Nel gioco delle relazioni infinite, con il mondo e con lo spettatore, generate da Kulik dove, categorie opposte sono sempre centrali (Russia e America; dominazione e sottomissione) si collocano pressoché tutte le sue opere. Nella mostra Sunlight alla Galleria Pack, importante ritorno, fra l’altro, per Kulik in questi spazi, compaiono nella prima sala, tre importanti installazioni scultorie dal titolo Grid. Formalmente, seppure a un primo sguardo ricordi-

no delle finestre, si tratta delle peculiari sbarre poste agli infissi in uso durante l’era sovietica e caratterizzate dal motivo del semicerchio simile a un sole. Un’immagine spesso raffigurata nei tatuaggi criminali simboleggianti il “Nord” dove era scontata la condanna. Da una di queste barre fuoriescono mani chiuse in pugni; mani che ricordano il gesto disperato di chi vuole forzare le stanghe, da un’altra, invece, il braccio teso di un uomo che stringe nel palmo una colomba, nella cristianità simbolo di pace e di salvezza. Alla stregua di un martire, di cui restano solo brandelli, Kulik espone metaforicamente al morboso esercizio voyeuristico – il medesimo di I Bite America and America Bites me – pezzi del proprio corpo, suggerendo allo spettatore come, la totale perdita del sentimento della pietà, corrisponda a un vile atto di sottomissione a comportamenti omologanti. Nella seconda stanza è, invece, locata l’installazione Parachutists, una monumentale composizione di elmetti sospesi a soffitto la cui composizione ricalca quella tipica di una formazione militare. Le file, tuttavia, ossia l’apparente or

Oleg Kulik, At home, 1999, silkscreen on paper framed, 70x96cm, edition 6of25

GIUGNO/LUGLIO 2019 | 273 segno - 53


Oleg Kulik, Parachutists, 2019 (dettaglio) Courtesy the artist and Galleria PACK Photo-credits: Antonio Maniscalco

dine, è rotto da minuscole figure umane pendenti sormontate da cupole-aureole, che ricorda per l’appunto l’immagine di paracadutisti. Sono sculture antropomorfe realizzate da artisti non professionisti, ma da persone che nel tempo hanno partecipato alle stesse azioni artistiche di Oleg Kulik, contribuendo in tal senso in modo vitale e partecipativo alla definizione dell’opera. Il gesto

Oleg Kulik, Eclipse, 2017 Argilla polimerica, base in ferro, griglia metallica 228 (H) x 97 (L) x 61,5 (W) cm Courtesy the artist and Galleria PACK Photo-credits: Antonio Maniscalco

della modellazione dell’argilla, secondo la visione dell’artista, doveva rappresentare l’atto liberatorio da un dolore o un sentimento negativo per qualcosa provato dal partecipante nel corso della propria vita. L’oggetto modellato il residuo energetico dell’azione, infine, la performance collettiva il paracadute salvavita. L’impatto visivo con Parachutists apre inevitabilmente molte domande. Do-

Oleg Kulik, Sunlight, 2019 - installation view at Galleria PACK Courtesy the artist and Galleria PACK - Photo-credits: Antonio Maniscalco

54 - segno 273 | GIUGNO/LUGLIO 2019


artisti in copertina

Oleg Kulik, Alice VS Lolita, 2001, diasec on aludibond, 120cm diam. ph Sasa Fuis

mande, coerentemente alla poetica dell’artista, caratterizzate da continui dubbi e dualismi come: La patria salva i propri cittadini con gli elmetti-paracadute o, al contrario, trasforma gli uomini in “corpi nudi” o “carne da cannone”, conducendoli verso morte certa? Queste persone sono ancora vive, o sono piuttosto cadaveri che discendono su di noi? È emblematica, provocatoria e radicale l’opera Eclipse che precede entrambi i progetti. Nel mostrare palesemente il lato più grottesco dell’esistenza, Kulik con i bulldog, personificazione animale del suo Io sempre al suo fianco, si fa scherno tanto della propria cultura d’origine, quanto di una visione antropocentrica dell’uomo dove, esso, infine, resta drammaticamente impigliato fra ideologia e fisiologia. Con una partecipazione alla Biennale di Venezia nel 2001, una mostra al Guggenheim di Bilbao nel 2006 e al PostSoviet Actionism alla Saatchi Gallery London nel 2017, Oleg Kulik è riconosciuto come uno degli artisti più profondamente radicali del panorama artistico russo e internazionale. Per omaggiare ulteriormente la presenza dell’artista a Milano e il suo pubblico, la Galleria Pack ha, infine, recentemente selezionato una serie di rare e inedite serigrafie del 1999 che, oltre a completare la mostra, ne svelano altri inediti aspetti della sua dissacrante poetica. M.L. Paiato

Oleg Kulik, Grids, 2019. Argilla polimerica, griglia in ferro 130,5 (H) x 72,5 (L) x 80 (W) cm Courtesy the artist and Galleria PACK Photo-credits: Antonio Maniscalco

GIUGNO/LUGLIO 2019 | 273 segno - 55


Ex Laboratorio Panettoni Giovanni Cova, Milano

BienNolo 2019

I

nnovazione e sperimentazione artistica a Milano, con la prima edizione di BienNolo. Da qualche anno è in atto un progetto di rinnovamento del quartiere a nord di Loreto, talmente strutturato da entrare ufficialmente a far parte dei nuclei d’identità locale della città. La zona - ribattezzata “NoLo” - dal 19 febbraio, è comparsa nelle cartine ufficiali e, anche se la riqualificazione è ancora in corso, i cittadini sentono propria l’identità di “nolers”. Difatti, questo processo di rigenerazione urbana, parte dal-l’interno, da chi lo vive, per muoversi verso l’esterno, ovvero verso le strade e le piazze che accolgono le novità e le diversità dei residenti. Direbbe l’etnologo e filosofo Marc Augé: «La personificazione della città è possibile solo perché essa a sua volta simboleggia la molteplicità degli esseri che vi vivono e che la fanno vivere». Puntare sulla varietà culturale, la stessa che un tempo contribuiva all’instabilità del quartiere, valorizzandola attraverso la creazione di eventi orientati all’aggregazione sociale, diviene una scelta vincente per NoLo, che ii 17 maggio ha inaugurato la sua prima biennale d’arte contemporanea. Ed è proprio il folclore popolare ad essere stato selezionato come tema dell’evento, che è dedicato all’epta-caidecafobia, ovvero la paura del numero diciassette. L’ambizioso e coraggioso progetto, nato da un’idea di Carlo Vanoni, ha visto il coinvolgimento di Matteo Bergamini e della Onlus ArtCityLab con la presenza di Gianni Romano e Rossana Ciocca. “BienNolo” è un luogo temporaneo di sperimentazioni artistiche, in cui ogni artista può esprimersi liberamente interpretando lo spazio secondo la sua poetica, in cui ad ogni voce viene dato ascolto, ad ogni opera viene trovato posto. Si trova all’interno dell’ex Laboratorio Panettoni Giovanni Cova, un complesso noto ai residenti e da tempo abbandonato al suo degrado, luogo perfetto per rappresentare la rinascita culturale del quartiere. Gli artisti (in ordine alfabetico: 2501, Mario Airò, Stefano Arienti, Elizabeth Aro, Francesco Bertelé, Stefano Boccalini, Marco Ceroni, T-yong Chung, Laura Cionci, Vittorio Corsini, Carlo Dell’Acqua, Premiata Ditta, Serena Fineschi, Giovanni Gaggia, Giuseppina Giordano, Riccardo Gusmaroli, Massimo Kaufmann, Sergio Limonta, Loredana Longo, Iva Lulashi, Francesca Marconi, Margherita Morgantin, Alessandro Nassiri Tabibzadeh, Adrian Paci, Federica Perazzoli, Matteo Pizzolante, Alfredo Rapetti Mogol, Sara Rossi, Alessandro Simonini, Ivana Spinelli, The Cool Couple, Eugenio Tibaldi, Luisa Turuani, Massimo Uberti, Vedovamazzei, Bea Viinamaki e Italo Zuffi) danno nuova vita allo stabile dismesso. Installazioni, sculture, performance, allestimenti in corso, una polifonia corale armonizzata nell’interpretazione del tema, esorcizzato sotto la declinazione di varie e diffuse fobie o timori. All’ingresso del primo edificio, quello in cui un tempo si trovavano gli uffici, ci accoglie About Decadence di Serena Fineschi, un’opera che non appare nell’immediato come tale, in quanto composta da gomme masticate messe in fila sul davanzale di una finestra. Alla BienNolo le opere si integrano perfettamente con gli spazi, instaurano un dialogo con essi ed il visitatore, dunque vanno cercate, inseguite, attraverso i vari sensi. Il Memento Mori di Luisa Turuani rappresentato dal suono di un timer, il filo spinato di Giuseppina Giordano crea l’illusione di pericolo, gli Odori raccolti nell’ex laboratorio dalla Premiata Ditta raccontano la vita del quartiere. Il capannone industriale, divenuto ormai rovina, ospita installazioni progettate per il sito, in cui la natura ha preso il sopravvento, si è ripresa il suo spazio, contribuendo a dare identità al luogo.

Vedovamazzei, BienNoLo 2019 - Ph. F.Stipari

56 - segno 273 | GIUGNO/LUGLIO 2019

Massimo Uberti, BienNoLo 2019 - Ph. F.Stipari

Richiamando nuovamente l’antropologo francese: «Le rovine aggiungono alla natura qualcosa che non appartiene più alla storia ma che resta atemporale», il concetto qui va inteso al contrario; la vegetazione si fa largo tra gli elementi costruttivi e diviene ispirazione per artisti come Adrian Paci con il silenzio delle piante, oppure per Vedovamazzei che blocca un uccellino impagliato nel momento precedente lo schianto contro al muro. Ogni operatore si inserisce nel contesto interpretando gli spazi, conferendo valore alla prima edizione della manifestazione che, ad oggi, ha già un suo evento collaterale: il fuoribiennolo. L’esperienza, sin da subito, ha registrato una risposta positiva tra il pubblico, stimato in circa mille visitatori al giorno, che raddoppiano per l’evento di pianocity e per il performing day. L’augurio è che diventi un appuntamento fisso, per nolers in primis, ma anche per gli interessati forestieri. Alice Ioffrida Galleria Borghese. Roma

ZHANG, Enli

R

acchiusa all’interno di una delle ville più belle di Roma, la Galleria Borghese propone “Bird Cage, a temporary shelter. Zhang Enli”, progetto monumentale site specific a cura di Geraldine Leardi e Davide Quadrio. Ospitate presso gli spazi esterni del museo, le installazioni sono state realizzate da Zhang Enli (Jilin, 1965 – vive e lavora a Shangai) per Committenze Contemporanee, programma ideato nel 2007 dalla direttrice Anna Coliva con l’obiettivo di riflettere sulla possibile connessione tra l’arte antica, rinascimentale, barocca e neoclassica – conservata nella collezione voluta dal Cardinal Scipione Borghese – e quella contemporanea, riattivando la prima attraverso la seconda. Un’ardua sfida con cui si sono già misurati molteplici creativi di livello internazionale come: Giulio Paolini, Georg Baselitz, Hans Op de Beck, Candida Höfer, Matt Collishaw, Vedovamazzei. L’artista, nato in Manciuria ma formatosi artisticamente grazie ad un curriculum occidentalizzante (principalmente di scuola russa), si è laureato alla Wuxi Technical University, Arts and Design Istitute e ha esposto in numerose mostre e sedi istituzionali di tutto il mondo: dalla Royal Academy of Art (Londra) alla Hauser & Wirth (New York), dal MOCA (Tapei) alla Fondazione Prada (Italia). Egli concepisce la pittura come un’attività vitale attraverso cui raccontare la vita quotidiana ponendo attenzione e passione verso qualsiasi soggetto raffigurato. Nel suo stile espressionista è possibile percepire l’influsso delle tecniche pittoriche tradizionali cinesi sin nelle singole pennellate, caratterizzate da delicate dissolvenze e trasparenze. Visitando il palazzo seicentesco il pubblico è invitato, all’altezza della sala egizia, a uscire nel giardino all’italiana e abbandonare i tradizionali canoni artist 2. Temporary shelter, Zhang Enli, 2018-2019, 162 scatole in polipropilene dipinte con acrilici, 213.5x249cm h214cm, Galleria Borghese.jpg 2. Temporary shelter, Zhang Enli, 2018-2019, 162 scatole in polipropilene dipinte con acrilici, 213.5x249cm h214cm, Galleria Borghese.jpgici per compiere, idealmente, un viaggio verso le lontane terre dell’Est asiatico attraverso le quattro strutture simboliche concepite da Zhang Enli, emanatrici di una inconsueta fusione tra idiomi antichi e linguaggi odierni. Nel primo intervento domina il concetto di “terzo paesaggio”: una natura dipinta a ridosso di quella reale, che adorna l’ambiente esterno, per mezzo della quale l’artista si riappropria di uno spazio non abitato che diventa al contempo modulo architettonico basilare (cubo) e performativo (in quanto il pubblico può interagire con esso entrandovi).


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Nell’Uccelliera, invece, due imponenti costruzioni si appropriano della verticalità dello spazio rammendandoci elementi di edifici religiosi tipici della Via della Seta come colone greche, torri comunali, palazzi persiani o minareti. Su di essi Enli ha eseguito un leggero intervento pittorico generando suggestioni astratte grazie all’uso della luce, dei colori e delle superfici, mero rinvio all’architettura e ai capolavori conservati nella Galleria. Infine, tre Camouflage balls, collocate nel portico, raccordano le due possenti strutture indirizzando l’indagine dell’artista verso la pratica scultorea. Bird Cage, a temporary shelter è un complesso intervento in cui emerge la straordinaria inclinazione di Zhang Enli ad appropriarsi e misurarsi con molteplici tecniche artistiche schiudendo, così, a nuove possibilità di esperire la relazione tra spazio e pittura. Inoltre, l’impiego di materiali poveri – come cartone, legno e nastro adesivo – è un omaggio all’Arte Povera nonché base creativa su cui dipingere ispirandosi alle superfici decorate del luogo ospitante. Fino al 7 luglio. Maila Buglioni

leggere un articolo che non prosegue nella pagina successiva e, di conseguenza, le immagini a corredo cambiano. Nel lavoro di Raphael Danke, presso la personale allestita negli spazi della galleria Norma Mangione (To), è possibile vedere, stampate su carta da fotografia, queste doppie immagini. Il visitatore, se impreparato, si trova ad osservare dei rettangoli appesi alle pareti ricchi di interrogativi e, a primo impatto, potrebbe pensare a dei risultati derivanti dalla sovrapposizione di due immagini tramite programmi di editing fotografico. Ma non è così. Le opere, che di primo acchito appaiono confuse e incomprensibili, acquistano un significato se ammirate con un occhio consapevole del meccanismo di realizzazione. A questo punto, l’osservatore può confrontarsi con queste piccole realtà e può “divertirsi” a distinguere le due immagini che formano quella stampata. Con qualche reminiscenza di matrice surrealista, la sovrapposizione di due o più figure porta ad un’entità terza, data appunto dalla “somma” delle singole. I risultati sono i più svariati, ma soprattutto è importante considerare la componente casuale, che gioca un ruolo primario, in quanto l’artista – tralasciando l’inconscia modalità di selezione, perché sicuramente avrà scelto di fotografare alcuni casi piuttosto che altri – si è trovato di fronte combinazioni non ricercate, ma volute involontariamente dalla impaginazione delle riviste. Le fotografie esposte in galleria, secondo un criterio ragionato dallo stesso Danke, sommergono il pubblico di colori e grovigli di soggetti intrecciati ad altri, ma racchiusi in nuclei il cui centro va ritrovato in quelle incorniciate, diverse solo perché ritraggono un’opera d’arte che fa da sfondo all’altra faccia del foglio: troviamo sculture di Jeff Koons, i tagli di Fontana, i décollage di Mimmo Rotella, le geometrie di Gabriel Orozco …Quindi è ufficialmente aperta la caccia! Ma lasciatevi anche guidare dalla vostra immaginazione, perché potrebbe farvi vedere oltre. Cecilia Paccagnella

Zhang Enli, Tower 1, 2018 (328 scatole di cartone dipinte con colori acrilici, 185 x 185 cm | h 525 cm) Galleria Borghese. Roma

Norma Mangione Gallery, Torino

Raphael, DANKE

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uante volte ad ognuno di noi è capitato di sfogliare un libro o semplicemente prendere in mano un foglio di qualsiasi tipo e intravedere il prosieguo dello stesso sull’altro lato? Oppure vi ricordate come da piccoli ci hanno insegnato a ricalcare un’immagine ponendo un foglio bianco e dietro il foglio disegnato su una finestra? Se nel primo caso, una volta stupiti dalla trasparenza del supporto cartaceo, abbiamo continuato quello che già stavamo facendo, nel secondo il meccanismo è stato appositamente cercato al fine di copiare qualcosa. Raphael Danke, come ognuno di noi, ha notato questo effetto sfogliando delle riviste, ma, invece di proseguire la lettura, è rimasto colpito in particolar modo da ciò che i suoi occhi avevano di fronte e ci si è soffermato più a lungo. Come sappiamo, la caratteristica peculiare di un artista sta nel riconoscere possibili potenzialità artistiche di un oggetto talvolta di uso comune – basti pensare all’orinatoio di Duchamp che nel suo immaginario è diventato una fontana. L’artista tedesco, in queste circostanze, ha dunque deciso di prendere in mano il proprio telefono cellulare e di immortalare queste pagine, ottenendo delle fotografie inusuali, ma molto accattivanti. Può capitare, infatti, di

Raphael Danke, Untitled, 2014 (c-print, unique, 34x25 cm.)

Galleria L’ARIETE, Bologna

Rudy CREMONINI Giulia MANFREDI Maria COLETTI

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are collegarsi ai dibattiti che recentemente hanno animato i media e il mondo politico la mostra AWAKENING, alla galleria L’ARIETE artecontemporanea. Discussioni che hanno avuto luogo sulla scia di una rinnovata sensibilità per le faccende legate all’ambiente e alla sua salvaguardia. La collettiva a cura di Eli Sassoli de’ Bianchi, tuttavia, va oltre la semplice riflessione sul tema dell’ecologia. AWAKENING analizza il tema del rapporto tra l’uomo e la natura attraverso una lettura complessa che tiene conto di principi importanti e fondamentali dell’estetica moderna. GIUGNO/LUGLIO 2019 | 273 segno - 57


Rudy Cremonini ‘Kenzia notturna’ 2019 (cm. 160 x 200 - oil on juta) Courtesy Galleria l’Ariete, Bologna

Civico 16, Pescara

Arianna, DE NICOLA

I Giulia Manfredi, 2018 resina - Galleria l’Ariete, Bologna

In AWAKENING innanzi tutto la natura è presentata come realtà esistente in sé, della quale l’uomo è parte integrante e con cui può stabilire corrispondenza attraverso la percezione sensoriale. La poetica espressa dai tre artisti, tuttavia, fa anche riferimento a una dimensione intima e soggettiva dell’individuo, che vede il mutare della propria coscienza a contatto con il mondo naturale. Il racconto del contatto tra l’uomo e l’ambiente presentato in mostra, inoltre, evoca l’idea di paesaggio, uno dei temi più ricorrenti nell’arte e nell’estetica europei dell’età moderna oltre che nella cultura civile contemporanea. AWAKENING vede protagonisti per la seconda volta nello spazio della galleri gli artisti Rudy Cremonini, Giulia Manfredi e Marta Coletti. I tre giovani autori, emiliani di origine ma già attivi in campo internazionale grazie a esperienze di studio e di lavoro all’estero, meditano appunto sul tema del rapporto tra l’uomo e l’habitat naturale. Soffermandosi sul mondo della natura, il confronto tra quest’ultima e l’individuo viene descritto dai tre autori come occasione per l’avvio di un processo di maturazione e ascolto di sé. La collettiva, infatti, il cui titolo evoca appunto l’idea di “risveglio”, pone l’accento su una visione panteistica del mondo naturale la cui sintonia permette all’uomo di raggiungere i più alti gradi di consapevolezza. I tre artisti vogliono indicare come solo a partire da una relazione simbiotica tra natura e uomo quest’ultimo può incontrare il sé e il senso dell’agire più autentici. Rudy Cremonini, Giulia Manfredi e Marta Coletti fanno uso di mezzi espressivi diversi fra loro, il primo utilizza la pittura a olio, Giulia Manfredi si esprime attraverso il video e scultura. Del primo ricordiamo opere dalla profonda intensità lirica come Where is my sun oppure Kenzia notturna, dove il racconto intimista si sviluppa attraverso l’evocazione di notturni e atmosfere crepuscolari. Tronchi d’albero ed elementi della natura si lasciano abbracciare da oro, resine e marmo nelle sculture di Giulia Manfredi. I processi del divenire all’interno del mondo naturale sono invece raccontati, dall’artista emiliana, attraverso opere video ricche di suggestioni, che riportano i mutamenti di forme e colori e la trasformazione di elementi. Marta Coletti esplora il linguaggio musicale e realizza, in occasione di AWAKENING, l’installazione sonora Il ventoso dove suoni legati all’esperienza con l’ambiente esterno incontrano la musica di Wagner. Francesca Cammarata 58 - segno 273 | GIUGNO/LUGLIO 2019

l suono del limite è una piccola ma preziosa mostra sostenuta da un’interrogativa: che suono potrebbe avere il limite? Che forma potrebbe avere il labile rapporto d’incontro-scontro tra due entità? La risposta è nel lavoro dell’artista romana Arianna De Nicola, incentrato sulla ricerca della percezione emotiva e sul tema del limite dove, così come recita la sua biografia, la connotazione negativa di frontiera assume un valore positivo diventando stimolo verso nuovi orizzonti, facendo riferimento al desiderio e all’impulso dell’essere umano. Nello spazio indipendente di Christian Ciampoli e con la curatela di Maila Buglioni, Arianna De Nicola impagina l’equivalente di una vera e propria poesia visiva accompagnata dall’elegante suono che le sue stesse installazioni producono. Nella prima sala incontriamo un’opera in sospensione, composta di barre in ceramica, materiale solido e fragile al contempo, che a livello concettuale ricorda tantissimo antichi scacciapensieri. L’opera si attiva al tocco della mano producendo un naturale suono che è quello squillante della ceramica stessa, ammaliante e controverso allo stesso tempo, poiché possibile e anticipatorio di una rottura. Qualcosa potrebbe, infatti, inaspettatamente frantumarsi qualora il tocco fosse troppo energico. Ecco, pertanto, che in questa prima sala siamo orientati a valutare quel limite fra incontro e scontro che nell’oggetto si fa simbolo di una condizione umana e interiore. Nella seconda e ultima sala troviamo, infine, una serie di piccole lastre, non troppo spesse e mono cromaticamente bianche, formalmente lavorate a suggerire i profili di foglie. La composizione a parete è l’artista stessa a crearla, documentando l’azione in un video residuo del gesto che, chiodo dopo chiodo, spinge al muro i frammenti di ceramica. Alcuni si rompono, non sopportando il toccoscontro del martello, quelli che restano invece appaiono fragili e volutamente in bilico, evocando nel complesso uno stato di equilibrio instabile ma anche, come scrive Maila Buglioni nel testo che accompagna la mostra, “l’insieme come metafora del coraggio dell’unione con possibili conseguenze”. Arianna De Nicola, Il suono del limite, Courtesy Civico 16, Pescara


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Tian Li 221604386

Galleria dell’Accademia di Belle Arti, Roma

TIAN, Li

F

iglia di una generazione che ha saputo coniugare il proprio modello estetico ad alcune linee dell’arte occidentale fino a creare un perfetto equilibrio e una sottile coesistenza delle differente, Tian Li (Beijing, 1967) è artista che plasma da tempo un percorso visivo fatto di cose semplici e preziose, dove è possibile percepire l’idea di raggiungere lo yūgen, ovvero il fascino legato all’eleganza, il wabi, la povertà inseguita, la bellezza del disadorno, la rinuncia ad ogni boria, e infine il sabi, la patina che avvolge gli oggetti conferendo loro un alone di naturale seduzione. Con una visione del mondo che mira a fermare lo sguardo sul contingente, sul transitorio, sul fuggitivo, sull’inarrestabile, Tian Li crea smottamenti temporali, slittamenti poetici che vanno oltre le cose sensibili e mostrano una realtà poetica, resa lirica da pennellate lente e cremose, da scelte cromatiche che sembrano essere piccole vie di fuga dalla distrazione che

governa il presente e le sue presenze. Le trenta opere selezionate e proposte da Yin Fu e Wang Shengwen per la sua prima personale italiana organizzata negli spazi della Galleria Colleoni dell’Accademia di Belle Arti di Roma (Yin Fu e Wang Shengwen sono due giovani curatori che da qualche anno cercano di far conoscere l’arte cinese in Italia), offrirono un percorso antologico in cui è possibile esplorare i tratti di una ricerca che parte dalla figura umana per volgerle le spalle e entrare via via in un territorio morfografico che evidenzia il potere magnetico dell’ornamento e si concentra sul paesaggio, sulla natura morta, sulla storia quotidiana. Come lingue di pittura che si elevano da un luogo che non appartiene a nessun luogo se non alla vita reale, le sue opere sono infatti racconti nostalgici del presente, atmosfere evanescenti in cui la pittura a tempera sembra accarezzare e screpolare le cose, composizioni in cui la figura umana tace per lasciare il posto a oggetti e soggetti semplici del vissuto. Se da una parte in mostra è possibile leggere in alcuni lavori come On the Way Home del 2003 e Three Tajik Women del 2004 linee riflessive che richiamano alla memoria la forza astraente di un Piero Della Francesca o le erotiche e spericolate tensioni cromatiche di un Balthus, Balthus in My Eye del 2014 è un chiaro rimando e omaggio all’artista che ha lavorato sulla superficie della notte), nel corpus più recente tutto si fa più morbido, disteso, legato a una temperatura che sembra creare veli, sovrimpressioni, offuscamenti, lievi e felici patine che riscaldano la tela con piccole screpolature, fino a creare un’atmosfera impalpabile, lattea, argentina. Bathing Necessities (2013), One Day in Seville (2014), In Chicago (2014) June in Paris (2014), Countryside (2015), Ageing Erguotou (2015) e Japanese Fan (2017) sono soltanto alcuni dei lavori in cui fiori, frutta, ventagli, letti screpolati dal sole, piante ornamentali o bottiglie si presentano come enigmi del tempo (a tratti surreali), come ombre e sembianze, come oggetti dai tratti sovrastorici e mentali in cui sembra risuonare la lezione metafisica di Giorgio Morandi o la potenza evocativa di de Chirico: ma tutto ben amalgamato, tutto ben combinato a motivi e gusti orientali, a memorie ataviche, a ricordi la cui sagoma si allunga sul presente per mostrare un fine e elegante scorrere del pennello. Recuperando la vasta gamma dei generi artistici, attraversati con un gusto nostalgico che indica lontananza e sospensione, Tian Li produce piacevoli disincanti, ferite della mente, riquadri su cui fermarsi per percepire la morbidezza di una pittura (eterna e dolce come una ferita) che vuole rivelare la leggerezza della vita, la sottile linea di confine che divide – e che forse unisce – la pittura dalla poesia, la poesia dalla musica, la musica dalla voce, la voce dal suo silenzio. Antonello Tolve

Tian Li, Ageing Erguotou, 2015, (30x40cm, tempera su legno) Courtesy l’artista

Tian Li, 23, 2004 40×40cm Tian Li, 27, 2017 40×30cm

GIUGNO/LUGLIO 2019 | 273 segno - 59


Galleria Nicola Pedana, Caserta

Sabrina, CASADEI

C

on un testo critico di Chiara Pirozzi la mostra di Sabrina Casadei propone un ciclo di lavori inediti che descrivono un percorso di ricerca avviato durante la residenza nel centro artistico NES di Skagaströnd in Islanda. L’artista muove le fila dall’immaginario sublime che nella storia dell’arte avvolge il tema del paesaggio nordico per tradurlo in visioni pittoriche astratte e minuziose, in cui la natura biomorfa del segno migra costantemente verso la descrizione di realtà trasognate e fantastiche.. Montefantasma raccoglie dipinti e installazioni di medio e grande formato che invitano lo spettatore a muoversi nello spazio, ciascuno con il suo tempo e ritmo, alla ricerca di una personale esperienza all’interno dell’immaginario proposto dall’artista; un paradigma visivo in grado di estraniare il familiare, raggiungendo così il perturbante. La tavolozza cromatica scelta da Sabrina Casadei fonde sulla stessa tela note fredde e temi caldi come fossero correnti d’aria che si compenetrano alla ricerca dell’equilibrio termico; la medesima condizione di stato fisico è cercata e raggiunta dall’artista nella relazione con i luoghi ospitanti, che la conduce verso la realizzazione di opere che sono il frutto della descrizione psichica del paesaggio. L’attrazione per l’ignoto unito a uno sguardo meravigliato sono i comuni denominatori dell’esperienza visuale proposta da Sabrina Casadei, che giunge alla creazione di immagini in cui il dato figurativo si perde al fine di sedimentarsi in forme lunari e marine, crateri e concrezioni, in continua compenetrazione. La pittura di Sabrina Casadei si muove, dunque, con gesti lenti e meditati in grado di creare texture fitte e materiche, generando un tratto filamentoso che descrive micro e macro-universi, ricami artigianali o frattali naturali. (dal cs)

Sabrina Casadei, veduta parziale delle installazioni alla Galleria Nicola Pedana, Caserta 2019 © Danilo Donzelli Photography Sabrina Casadei (tecnica mista su tela, cm. 148 x 112) Courtesy Galleria Nicola Pedana, Caserta. 2019

60 - segno 273 | GIUGNO/LUGLIO 2019

Tessuto a strisce in doppio cotone, ricami in lana, colori vegetali, 19esimo secolo, cm 180x150, Uzbekistan. Courtesy Galleria Spazia, Bologna Chapan in tessuto di seta cruda, nappe in lana, Kurdistan siriano o Iracheno (Galleria Spazia, Bo)

Alighiero Boetti - Mappa Courtesy Galleria Spazia, Bologna

Galleria Spazia, Bologna

“Sulle vie della seta”

U

n altro riferimento alle discussioni avvenute negli ultimi tempi in ambito politico ed economico lo osserviamo nella mostra allestita alla galleria Spazia Sulla via della seta, a cura di Enrico Mascelloni con la collaborazione di Martina Corgnati. Anche in questo caso il riferimento agli avvenimenti della nostra attualità diventa occasione per approfondire un tema importante e delicato. L’argomento qui analizzato è quello dell’identità dei popoli e, al contempo, della corrispondenza tra culture alla luce della continuità storica nei rapporti tra civiltà. Nella mostra, una delle famose mappe di Boetti si accompagna a tessuti e tappeti della tradizione afgana e del vicino oriente. I manufatti esposti sembrano quasi volere ricordare il lavoro che svolsero le ricamatrici di quella terra per la realizzazione del ciclo “Mappa” da parte dell’artista torinese. Significativa è l’esposizione di quest’opera in relazione al tema trattato, per il chiaro riferimento al concetto di frazionamento territoriale e al rapporto tra quest’ultimo e il patrimonio culturale di ciascun popolo. La “mappa” di Boetti evoca inoltre l’importanza del susseguirsi storico come elemento di relazione tra culture, il ciclo realizzato dall’artista torinese, infatti, è nei fatti anche documento dei cambiamenti avvenuti riguardo alla divisione territoriale delle aree dell’ex blocco sovietico. La “mappa” esposta alla galleria bolognese condivide lo spazio con opere di numerosi autori appartenenti al panorama artistico contemporaneo del mondo orientale. Tra questi ricordiamo Alimjan Jorobaev e Ulan Djaparov del Kyrgyzstan, il kazako Smail Bayalev, membro del gruppo d’avanguardia Kyzyl Traktor, e la connazionale Almagul Menlibayeva oggi attiva a Berlino. Importante è anche la presenza di opere della fotografa mongola Dugarsham Tserennadmid, autrice negli anni ‘70 di numerosi reportage sulla vita in Mongolia. La fotografa è tornata all’esistenza di nomade della steppa da metà anni ‘90. Il titolo della mostra è evocativo del tema proposto e ricorda, richiamando le tappe di antichi e nuovi percorsi commerciali, il debito da parte di ogni civiltà nei confronti della cultura e delle conoscenze di comunità geograficamente lontane. Il tema del dialogo fra culture emerge in mostra dal confronto e incontro fra la concezione artistica occidentale e la tradizione dei manufatti d’oriente e, al contempo, dalla presenza di artisti appartenenti ad aree geografiche diverse. In linea con un dibattito di grande attualità, Sulla via della seta ci fa ricordare come più che mai oggi, al tempo della globalizzazione dei mercati, è proprio la conoscenza profonda delle tradizioni e delle radici culturali dei popoli a tutelare la possibilità di ogni reale dialogo tra questi ultimi. Francesca Cammarata


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Impronte dell’Arte, installation view, Roma Galleria Nazionale 2019

Galleria Nazionale, Roma

Impronte dell’Arte

A

lla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma è stata proposta la mostra Impronte dell’Arte. 2RC 1963-2018, a cura di Achille Bonito Oliva, che ripercorre l’esperienza della storica stamperia romana 2RC di Valter ed Eleonora Rossi, fondamentale per la storia della grafica e dell’incisione, non solo a livello italiano. Una selezione di 90 lastre matrici e di 45 opere grafiche, prodotte nell’arco di 60 anni, costituiscono una testimonianza preziosa ed intensa di collaborazione di 2RC con importanti artisti di provenienza italiana ed internazionale. Con “Impronte dell’Arte“ la Galleria Nazionale – spiega la direttrice Collu - rivolge un’attenzione rinnovata alla singolarità dell’opera grafica, attraverso un progetto espositivo inedito nel suo obiettivo di illustrare ciò che rimane non visibile del procedimento dell’incisione, forma d’arte che si sviluppa con tempi e movimenti che le sono propri. Viene messo a nudo il processo creativo dell’artista, colto nel passaggio dal lavoro sulla lastra fino all’esito finale della stampa, risultante di un universo di scelte che si traducono nel segno”. Le lastre matrici presenti in mostra narrano un percorso unico per il livello tecnico e qualitativo raggiunto,
che ha reso la 2RC fra le più note stamperie d’arte nel panorama internazionale, all’avanguardia anche 
per l’impegno nella continua ricerca sperimentale. In questa occasione, viene rivelata una parte del suo sapere, acquisito nel tempo e prima d’ora nascosto. La vicenda di una stamperia d’arte diviene quindi la traccia di una ulteriore narrazione, più estesa, sull’opera degli artisti e sulla loro presenza nei laboratori dove l’artigianalità è al servizio dell’arte, che per il nostro paese sono stati sempre punti di riferimento di alto livello in ogni epoca e per numerose tecniche artistiche. Il curatore Achille Bonito Oliva, tra l’altro osserva come “l’esposizione delle lastre, delle matrici, che è anche il segno di realtà creativa, è la traccia del bisogno dell’artista di passare quasi attraverso il graffito per arrivare alla produzione della forma finale, e questo mi ricorda, se si può dire così, l’arcaicità della creazione dell’arte, proprio il segno che si ritrova nelle grotte,
il bisogno che l’artista aveva allora di rappresentare la caccia, per arrivare alla preda e mi sembra una conclusione circolare nell’esperienza della 2RC come partire dal primitivo per arrivare al contemporaneo”. In mostra: Valerio Adami, Afro Basaldella, Pierre Alechinsky, Francis Bacon, Danilo Bucchi, Alberto Burri, Alexander Calder, Giuseppe Capogrossi, Sandro Chia, Francesco Clemente, Pietro Consagra, Enzo Cucchi, Piero Dorazio, Lucio Fontana, Sam Francis, Helen Frankenthaler, Nancy Graves, Carlo Guarienti, Renato Guttuso, Jannis Kounellis, Liu Ye, Henry Moore, Louise Nevelson, Victor Pasmore, A.R. Penck, Arnaldo Pomodoro, George Segal, Pierre Soulages, Graham Sutherland, Shu Takhashi, Walasse Ting, Victor Vasarely, Zhang Xiaogang.

Afro Basaldella, Controcanto 1974 / Acquaforte e acquatinta su lastra di rame cm 80x200 . bon à tirer 1973, stampa a 10 colori - carta Fabriano Rosaspina cm. 114x220 - tiratura di 60 esemplari e XII prove d’artista - codice opera grafica: 740004.00

Jannis Kounellis, Senza Titolo 2004 maniera E 2RC ©, acquaforte e acquatinta su lastre di rame 81x150, bon à tirer 1998 - stampa a 2 colori carta Fabriano cm. 79x150 - tiratura di 30 esemplari - codice opera grafica: 040600.00 Sandro Chia, Il Viandante 2017 / maniera E 2RC ©, acquaforte, acquatinta e puntasecca su lastre di rame cm. 27 x 20 - bon à tirer 2015 stampa a 13 colori - carta Magnani cm. 44x34 - tiratura di 50 esemplari e X prove d’artista - codice opera grafica: 170766.00

GIUGNO/LUGLIO 2019 | 273 segno - 61


Tucci Russo, Studio per l’Arte Contemporanea, Torre Pellice

Christiane LÖHR Lili DUJOURIE

D

ue sensibilità differenti, due realtà antitetiche e in conseguenza due allestimenti complementari accompagnano lo spettatore nelle mostre personali di Christiane Löhr e Lili Dujourie, da Tucci Russo – Studio per l’Arte Contemporanea. Una sorprendente ridefinizione dei rapporti tra organico/inorganico, un periodare ricorsivo tra grandezza e miniatura, il senso della bellezza come sfida alla transitorietà e dunque una profonda relazione, di fatto, con la classicità e le battaglie campali dell’arte occidentale. Se il rapporto con la caducità, inteso come necessaria rimozione quotidiana nei confronti dello sparire, è da sempre il motore dei più bizzarri (o crudeli) mascheramenti etici ed estetici, qui il problema viene affrontato in tappe diverse ma egualmente leggibili. Una sorta di “tracciabilità” degli apparati visuali che sono curati tra di loro in modo netto ma per questo non meno misterioso. Spezzoni di senso tangibile da cui partire alla ricerca (letterale) delle radici del non visto e del non udito, del non visibile e del non udibile Christiane Löhr (1954) raccoglie (toglie) dalla natura elementi fragilissimi e costruisce cattedrali minime (quasi tutti i titoli sono introdotti dalla parola kleine) con i toni ed i segni di una potenza radicale. E così dei rametti di microgreen possono essere invece pilastri di inusitata stabilità. Oppure prende (acciuffa) un elemento costituivo così simbolico come il seme del cardo e lo moltiplica fino a formare una grande nuvola pesante e iconica, trattenuta con fatica da una retina che pende dal soffitto. L’analogia del seme come momento topico in cui la natura vegetale incontra quella animale nell’immagine della sacca, dello scroto. In realtà, nella delicatissima risultante, un nuovo possente UNO è la somma non algebrica di tanti ineffabili uno. Queste installazioni sono poi corredate da una serie di espressioni pittoriche a muro realizzate con la grafite, i pastelli e inchiostri (su carta). Lili Dujourie (1941), artista che ha fatto cominciare a parlare di sé negli anni sessanta e ha visto il proprio segno evolversi in maniera decisamente eterogenea attraverso gli ultimi decenni, propone in mostra un percorso antologico importante, fatto di opere che spaziano dal monumentale al minimo. Dalla imponente serie dal gusto neoclassico Ibant obscuri sola sub nocte per

Christiane Löhr, Kleine Bogenform (2019 gambi di piante, cm. 4,5x9x9)

Christiane Löhr, in Folge (vista d’insieme della Sala 5) Courtesy l’artista e Tucci Russo Studio per l’Arte Contemporanea, Torre Pellice / Torino Foto: Archivio fotografico Tucci Russo

umbra(m ) degli anni ’80, a quella un po’ sottotono dei collage (Stillhaven, 1990); e poi opere con un forte impianto sensuale e marmoreo (Jeux de Dames, 1987) che si alternano ad opere di cartapesta come la serie Maelstrom (2009) e Meander (2010). Tutte trattano in modo melanconico e segreto, come da un buco di una serratura, i temi “della vanità, della transitorietà, della presenza e dell’assenza”. È dunque sicuramente interessante e positivo il bilancio di questa doppia mostra dal respiro “singolare femminile”, mossa con coraggio su un campo di battaglia profondamente segnato dal “maschile plurale”. Fabio Vito Lacertosa

Christiane Löhr, in Folge (vista d’insieme della Sala 5) Courtesy l’artista e Tucci Russo Studio per l’Arte Contemporanea, Torre Pellice / Torino Foto: Archivio fotografico Tucci Russo

62 - segno 273 | GIUGNO/LUGLIO 2019


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Lili Dujourie, createImage.php

Lili Dujourie, L’Aurore, 1987 (courtesy Tucci Russo) Lili Dujourie, Untitled (red nude) fotografia a colori su tela courtesy Tucci Russo Studio per l’Arte Contemporanea, Torre Pellice

Lili Dujourie, Meander, 2009-2010 (courtesy Tucci Russo)

GIUGNO/LUGLIO 2019 | 273 segno - 63


Salvatore Astore, Container (ferro saldato e vernice-cm. 200x200x40) e Cranio (1985-tecnica mista su tela-cm. 190x230) ©JessicaQuadrelli

Davide Paludetto artecontemporanea, Torino

Salvatore ASTORE

M

ostra personale incentrata su un gruppo significativo di opere realizzate dall’artista nel decennio fra l’inizio degli anni Ottanta e i primi anni Novanta. Anni ’80 è il secondo appuntamento espositivo dopo la mostra Virus di Sergio Ragalzi, dedicato alla scena artistica di una città, Torino, che attraverso la ricerca creativa condotta in un periodo storico ricco di fermento e di contraddizioni da alcune importanti personalità ha saputo esprimere caratteri di forte peculiarità e originalità al pari di Roma e Milano e sulle quali da qualche tempo si è cominciato a fare piena luce. In galleria sono state proposte le celebri Calotte e i Crani-Uomo, sculture di grandi dimensioni a parete leggermente convesse, dalla forte valenza organica realizzate in quegli anni; le Anatomie Vascolari (Cervelli) pitture e opere su carta da lucido afferenti al discorso iniziato precedentemente da Astore sulle anatomie umane; un esempio di Container, scultura autoportante in ferro saldato e verniciato attraversata da una profonda saldatura simile a una frattura o a una sutura ossea; infine un piccolo nucleo di disegni con lo stesso titolo inerenti al tema delle sculture, dai quali emerge non solo l’eleganza formale

del segno ma anche il carattere autonomo che questa forma espressiva ha ricoperto nell’intera produzione dell’artista. Le opere in mostra, provenienti dalla collezione privata di Franz Paludetto (esposte in permanenza al Castello di Rivara - Museo d’Arte Contemporanea) con cui l’artista ha intrattenuto un lungo rapporto professionale e da collezioni private, esemplificano perfettamente la vocazione monumentale della scultura di Astore e la determinazione a creare un vocabolario di forme forti, pure, imprescindibili e altamente riconoscibili. Né astratte né figurative, le prime sculture in ferro saldato riproducenti porzioni craniche ingigantite e ripetibili infinite volte compaiono intorno alla metà degli anni Ottanta , anticipate da una serie di pitture sulle anatomie umane e animali (Calotte, Colonna vertebrale, Cavalli, Scimmie), mettendo in evidenza nella propria scarna e fredda essenzialità la volontà dell’artista di far emergere un linguaggio inedito, scaturito da una precisa e profonda necessità plastica, articolato in forme che sono da leggersi come pura presenza. Il passaggio dall’utilizzo di un materiale povero e primario come il ferro a quello più tecnologico dell’acciaio inox accuratamente levigato e lucidato avviene sul finire degli anni Ottanta quando l’urgenza di rafforzare la relazione fra l’opera d’arte e il reale si fa più pressante e l’impulso creativo deve fare i conti con la forte accelerazione industriale e tecnologica che caratteriz-

Salvatore Astore, Calotta 4006, (1987, ferro saldato e vernice, cm. 200x193) ©JessicaQuadrelli

64 - segno 273 | GIUGNO/LUGLIO 2019


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Salvatore Astore, Anatomia Vascolare-1986-87 (vernice industriale su carta lucida- cm. 313x155) © Jessica Quadrelli

Salvatore Astore, Allestimento / Installation view © Jessica Quadrelli

za quegli anni. C’è nei lavori di quel periodo una forte tensione strutturale interna alle opere unita però a un’organicità calda, evidente delle forme che subito smarcano la concezione plastica della scultura di Salvatore Astore da quella dei colleghi del Minimalismo d’oltreoceano a cui l’artista guarda con interesse. Pur condividendo con questi ultimi l’uso di materiali industriali e l’attitudine a creare opere a forte impatto spaziale, la produzione scultorea di Astore è costantemente animata da una tensione organica strutturale, da un vitalismo eclettico delle forme anti-mimetiche, da un calore che non prescinde da una certa artigianalità manuale. Queste sculture scrive in un catalogo di quegli anni (1989) lo storico dell’arte Francesco Poli “sono forme che risultano costruite secondo una coerenza anatomica neces-

saria, anche se svuotate da ogni evidente finalità funzionale: sculture in cui risuona intensa la memoria di matrici organiche e archetipiche”. Le puntuali osservazioni di Francesco Poli inducono un’ulteriore riflessione sulla natura concettuale della ricerca artistica di questo autore. Le sculture di quegli anni, ma anche quelle tutt’ora in produzione, si sottraggono all’interpretazione di puri oggetti estetici destinati alla contemplazione e alla fruizione disimpegnata. Esse scavano un solco profondo nella memoria umana collettiva e individuale; interrogano lo spettatore sul suo passato e sul presente e finalmente si pongono come alterità enigmatica. Sono Forma e Figura e al tempo stesso nulla di tutto ciò. In fondo, solo Presenza, Forma pura, Silenzio. Gabriella Serusi

Galleria Fumagalli, Milano

in maniera naturale della superficie rocciosa e il successivo inserimento di corpi esterni come ad esempio inserti d’acciaio e foglia d’oro applicata. Il concetto di “origine” viene ricercato da entrambi gli artisti nelle profondità degli elementi naturali, al fine di raggiungere l’essenza – il “grado zero” – della visione; ciò che restituiscono allo sguardo dell’osservatore è un azzeramento universale, un non-luogo senza-tempo in cui nasce l’archetipo dell’immaginario umano. Il binomio uomo-natura è presente tanto nelle sculture di Mattia Bosco, le quali occupano gli spazi della sala espositiva come preziosissimi resti archeologici, icone simbolo del gesto sapiente dell’artista-creatore che plasma la materia, quanto negli scatti di Filippo Armellin in cui l’apparente assenza di vita è invece sottintesa nel principio generativo di questi paesaggi della mente. Così il percorso in cui il visitatore è guidato attraversa l’inesorabile stratificazione dello spazio causata dallo scorrere del tempo e viene congelata ed eternata nell’opera d’arte. Angela Faravelli

Filippo ARMELLINI Mattia BOSCO

P

aesaggi lunari e agglomerati rocciosi delineano i profili del principio originario. Si tratta della visione svelata attraverso la doppia personale allestita negli spazi della Galleria Fumagalli a Milano in cui le immagini fotografiche realizzate da Filippo Armellin (Montebelluna, 1982) dialogano in un confronto attivo con i lavori scultorei di Mattia Bosco (Milano, 1976). Se da un lato il primo pone l’accento sull’annullamento della dimensione spazio-temporale, sottoponendo allo sguardo immagini di luoghi desertici disindividualizzati – ricreati in studio attraverso modelli plastici e fondali dipinti –, il secondo rimarca l’aspetto concreto della materia attraverso prelievi di campioni geologici provenienti dalla Val d’Ossola sui quali interviene evidenziando alcune direttrici attraverso la levigazione

Armellin e Bosco, In origine, Installation view Galleria Fumagalli, Milano

GIUGNO/LUGLIO 2019 | 273 segno - 65


The Unexpected Subject, vista dell’installazione © ALTO PIANO STUDIO

FM Centro per l’Arte Contemporanea, Milano

Il Soggetto Imprevisto. 1978 Arte e Femminismo in Italia

C

os’è il soggetto imprevisto? È il soggetto che sconvolge la Storia non perché viene a reclamare il proprio posto, ma perché crea fratture insanabili da cui può scaturire non tanto un adattamento, quanto una radicale riscrittura. “Riconosciamo a noi stesse la capacità di fare di questo attimo una modificazione totale della vita. Chi non è nella dialettica servo-padrone diventa cosciente e introduce nel mondo il Soggetto Imprevisto” scrive Carla Lonzi in Sputiamo su Hegel. Le sue parole diventano titolo e chiave di lettura per la mostra in oggetto curata da Marco Scotini e Raffaella Perna. Mostra che ha il merito pioneristico di porsi come enciclopedia, o meglio, come atlante delle esperienze che intorno al 1978 innervano e attraversano il territorio italiano, ponendo attività artistica e attivismo femminista in un rapporto mutuo e inscindibile. La data si pone come riferimento simbolico, ma anche come detonatore reale: è nel 1978 che Mirella Bentivoglio organizza MaterializThe Unexpected Subject, vista dell’installazione © ALTO PIANO STUDIO

66 - segno 273 | GIUGNO/LUGLIO 2019

zazione del Linguaggio nell’ambito della XXXVIII Biennale di Venezia, permettendo l’ingresso massiccio delle colleghe artiste in un ambiente istituzionale prima quasi impenetrabile per le voci femminili. La stessa Biennale ospita un’antologica dedicata alla prematuramente scomparsa Ketty La Rocca, mentre il Gruppo Femminista Immagine di Varese e il gruppo Donne/ Immagine/Creatività di Napoli sono rappresentati al Magazzino del Sale. Il 1978 è l’anno in cui viene pubblicato Taci, anzi parla. Diario di una femminista di Carla Lonzi e il l’autoritratto collettivo Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo. Intanto l’esperienza della Cooperativa Beato Angelico giunge alla fine e Francesca Woodman espone a Roma. Già nella scelta di questo perno simbolico, quindi, è evidente la volontà di raccontare l’intrecciarsi di esperienze, dialoghi e conflitti fra soggettività e collettività femminista non come casi isolati, ma come un intreccio fitto, un mosaico complesso in cui una contronarrazione – poco conosciuta proprio perché imprevista – già esiste, cresce e prolifera. Una contronarrazione, questa, fatta di proteste e necessarie provocazioni, ma anche di relazioni silenziose, capaci di tracciare reti internazionali. Sintomatica in questo senso la raccolta di cartoline di Betty Danon, che invia un pentagramma vuoto disegnato da Chima Sunada insieme alle istruzioni che


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

richiedono di intervenirvi liberamente e rispedirlo al mittente. Le oltre duecento risposte ottenute, fra cui quelle di Maria Lai e Carolee Schneemann, raccontano di una Mail Art che è insieme arte e tessitura di legami, capacità di concepirsi come comunità, come insieme. Per non essere concessa ma autonoma, però, questa narrazione non può costruirsi con la stessa lingua che la vuole assoggettata a una dialettica servo-padrone, a una logica che la prevede – al massimo – come subordinazione. È così che una parte consistente delle opere esposte si interroga sul linguaggio, lo decostruisce, lo riassembla, lo rende irriconoscibile, lo fa corpo e incarnandolo lo risignifica, lo rende proprio. Intorno a questi due poli – del linguaggio e del corpo – si articolano quattro sezioni (il linguaggio e la scrittura, l’oggetto e il mondo domestico, l’immagine e l’autorappresentazione, il corpo e la

performatività) che si intrecciano e si accavallano, dialogano e creano una coralità organica di soggettività consapevolmente impegnate nella ricerca della propria voce nel mondo. Così, fra gli altri, gli antitrofei della sottomissione addomesticata costruiti da Clemen Parrocchetti nella forma di occhi, bocche e vagine di stoffa dialogano con la Scrittura Desemantizzata di Tomaso Binga, un segno snervante, deforme e illeggibile che mette in scena la scrittura per raccontare – invece – la materialità della parola taciuta. Il dialogo si estende poi alle lenzuola teatrali di Diane Bond, che mettono in scena una sessualità tanto esasperata da venire stravolta, ai provocatori collage di Ketty La Rocca, ai segni femministi incisi sulla polvere di casa da Milli Gandini, fra le fondatrici del Gruppo Femminista Immagine di Varese. All’enorme quantità di opere in mostra si aggiunge il materiale

Lucia Marcucci, Perfection, 1971. Collage su tavola. 49 x 68 cm. Private collection. Courtesy the artist and Frittelli Arte Contemporanea, Firenze.

Libera Mazzoleni, Il bacio, 1977. Stampa gelatina ai bromuri d’argento. 42 x 42 cm. Courtesy the artist and Frittelli arte contemporanea, Firenze. © Libera Mazzoleni.

Francesca Woodman, Fish Calendar - 6 days, 1977. Stampe vintage alla gelatina d’argento. 18 x 24 ciascuna. Collezione La Gaia, Busca (CN).

Nicole Gravier, Moro. Mythes et Clichés (Fotoromanzi, serie Attesa), 1976-80. Collage su fotografia. 30 x 40 cm. Ph. Claudia Cataldi. Courtesy the artist and Frittelli arte contemporanea, Firenze. © Nicole Gravier.

The Unexpected Subject, vista dell’installazione © ALTO PIANO STUDIO

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documentario legato sia all’attività editoriale di Carla Lonzi e del collettivo Rivolta Femminile sia alla produzione di manifesti, fanzine, fotografie e libri fotografici indissolubilmente legata alle lotte femministe per il divorzio, l’aborto, la legge contro la violenza, il diritto all’educazione e alle 140 ore. Così, il Soggetto Imprevisto, con la sua dimensione enciclopedica e lo sforzo di concentrazione e decifrazione che richiede al visitatore, si presenta quasi come un libro, un libro scritto in una lingua frutto di dolorosa riappropriazione e capace di raccogliere le maglie di una storia che reclama a gran voce la propria messa in forma. La densità e l’importanza di questa mostra ne fanno in primo luogo un fondamentale strumento di comprensione, per cui gli spazi vastissimi e gratuiti dei Frigoriferi Milanesi si offrono come ca-

pacissimo contenitore. Il carattere archiviale, che per la prima volta in Italia si prende la responsabilità di dipanare materiale per lo più disperso e quasi invisibile, estraendolo da archivi e collezioni, mettendolo in connessione, rendendone evidenti i forti e non sempre semplici legami, è sintomatico di un’esigenza globale ormai evidente (basti pensare a WACK! al MOCA di Los Angeles, a Global Feminism al Brooklyn Museum o a Radical Women all’Hammer Musem di Los Angeles). In questo modo, la mostra non si chiude in se stessa, ma si pone immediatamente come innesco di nuove e ulteriore ricerche, si fa punto di partenza, o meglio mezzo, per tracciare una Storia altra, cosciente, molteplice e, soprattutto, imprevista. Valentina Avanzini

Carolee Schneemann, Interior Scroll, Sequenza fotografica di azione performativa, 1975. Stampe alla gelatina d’argento. Ed. 2/2. 13 Elementi, 35.5 x 28 cm (7), 28 x 35.5 cm (6). Ph. Anthony McCall. Courtesy Collezione La Gaia, Busca (CN).

Gina Pane, Io mescolo tutto: Cocaina, Frà Angelico (Azione 30 ottobre 1976, Galleria d’Arte Moderna, Bologna), 1976. Fotografie a colori su cartoncino. 14 Elementi, 60 x 80 cm. Courtesy Osart Gallery, Milano. © Gina Pane.

ARTISTS LIST Marina Abramović, Carla Accardi, Paola Agosti, Annalisa Alloatti, Liliana Barchiesi, Mirella Bentivoglio, Valentina Berardinone, Cathy Berberian, Renate Bertlmann, Tomaso Binga, Irma Blank, Diane Bond, Marcella Campagnano, Françoise Canal, Lisetta Carmi, Paula Claire, Dadamaino, Betty Danon, Hanne Darboven, Agnese De Donato, Jole De Freitas, Agnes Denes, Chiara Diamantini, Neide Dias de Sá, Lia Drei, Anna Esposito, Amelia Etlinger, Maria Ferrero Gussago, Giosetta Fioroni, Simone Forti, Rimma Gerlovina, Natal’ja Sergeevna Gončarova, Nicole Gravier, Alberto Grifi, Pat Grimshaw, Bohumila Grögerová, Gruppo del Mercoledì (Bundi Alberti, Diane Bond, Mercedes Cuman, Paola Mattioli, Adriana Monti, Esperanza Núñez, Silvia Truppi), Gruppo Femminista Immagine (Silvia Cibaldi, Milli Gandini, Clemen Parrocchetti, Mariuccia Secol, Mariagrazia Sironi), Gruppo Donne/Immagine/Creatività (Mathelda Balatresi, Ela Caroli, Rosa Panaro, Bruna Sarno, Anna Trapani), Gruppo XX (Mathelda Balatresi, Antonietta Casiello, Rosa Panaro, Mimma Sardella), Elisabetta Gut, Micheline Hachette, Ana Hatherly, Rebecca Horn, Sanja Iveković, Joan Jonas, Annalies Klophaus, Janina Kraupe, Ketty La Rocca, Katalin Ladik, Maria Lai, Liliana Landi, Sveva Lanza, Paola Levi Montalcini, Natalia LL, Lucia Marcucci, Paola Mattioli, Libera Mazzoleni, Gisella Meo, Marisa Merz, Annabella Miscuglio, Verita Monselles, Aurelia Munõz, Giulia Niccolai, Anna Oberto, Stephanie Oursler, Anésia Pacheco e Chaves, Anna Paci, Gina Pane, Giulio Paolini, Clemen Parrocchetti, Jennifer Pike Cobbing, Marguerite Pinney, Bogdanka Poznanović, Betty Radin, Carol Rama, Regina, Cloti Ricciardi, Giovanna Sandri, Suzanne Santoro, Mira Schendel, Carolee Schneemann, Greta Schödl, Eleanor Schott, Berty Skuber, Mary Ellen Solt, Wendy Stone, Chima Sunada, Salette Tavares, Biljana Tomić, VALIE EXPORT, Patrizia Vicinelli, Jacqueline Vodoz, Gisela von Frankenberg, Simona Weller, Francine Widmer, Francesca Woodman. 68 - segno 273 | GIUGNO/LUGLIO 2019


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Lai e la scrittura come esercizio mimetico nelle opere tratte dalla serie delle Trascrizioni di Irma Blank risultano invece modi per denaturalizzare la lingua nel campo verbo-visivo generando un segno che rimanda solo a sé stesso, raggiungendo l’apice della critica al linguaggio verbale nell’opera Alfabetiere Murale (1976) di Tomaso Binga – pseudonimo scelto dal 1971 da Bianca Pucciarelli – in cui il corpo nudo dell’artista assume la forma delle lettere dell’alfabeto al fine di riscattare l’occultamento della fisicità e l’apparente neutralità del linguaggio. L’intero percorso espositivo nell’evidenziare i legami intercorsi tra arte e femminismo pone in luce un aspetto universalmente condivisibile da ogni artista qui presentata: l’urgenza e la necessità di comunicare, dando così finalmente voce ad un “soggetto imprevisto”. Angela Faravelli

Paola Mattioli, Sara è incinta/7, 1977. Stampa baritata su cartoncino.16 Elementi, 17,6 x 11,8 cm ciascuno. Courtesy the artist and Frittelli arte contemporanea, Firenze. © Paola Mattioli.

S

ono molteplici i fatti che hanno condotto i curatori – Marco Scotini e Raffaella Perna – ad identificare nel 1978 l’anno cruciale e rappresentativo attorno a cui imperniare l’indagine del rapporto tra arte e femminismo in Italia: se sul piano artistico coincide con il momento in cui vi è stato un ingresso massivo di artiste donne negli spazi istituzionali dell’arte promosso dalla mostra organizzata da Mirella Bentivoglio Materializzazione del linguaggio nell’ambito della XXXVIII Biennale di Venezia, dall’antologica per rendere omaggio alla ricerca di Ketty La Rocca prematuramente scomparsa e dall’attività espositiva di gruppi quali il Gruppo Femminista Immagine di Varese e il gruppo Donne/Immagine/Creatività di Napoli, dal punto di vista sociopolitico è l’anno dell’affermazione dei diritti civili delle donne che vede l’approvazione della legge sull’aborto. L’esposizione prende il titolo da un saggio della critica d’arte e femminista Carla Lonzi – tratto dal volume Sputiamo su Hegel (1970) – che ha definito un “Soggetto Imprevisto” come un soggetto che emerge nella scena artistica e sociale e rifiuta la prescrizione del visibile e del dicibile imposta dal linguaggio e dalla cultura maschili, grazie a questa nuova presa di coscienza e consapevolezza critica è possibile individuare i punti nevralgici attorno ai quali indagare il rapporto di interdipendenza tra pratiche artistiche e movimento sociale che si viene a delineare durante il decennio degli anni Settanta. Lo sviluppo della mostra è incentrato sulla tensione generata dall’interazione tra due poli estremi, la parola e il corpo, e si articola secondo quattro aree tematiche fluide e interdipendenti presentando il lavoro di oltre cento artiste: il linguaggio e la scrittura, l’oggetto e il mondo domestico, l’immagine e l’autorappresentazione, il corpo e la sua performatività. Se da un lato la scrittura astratta e segnica di Carla Accardi, sperimentata su materiali nuovi quali il sicofoil, assieme alle opere di comunicazione primigenia attraverso l’utilizzo di parti del corpo realizzate da Ketty La Rocca identificano nella gestualità un linguaggio più autentico di quello verbale, i libri cuciti di Maria

Clemen Parrocchetti, Lamento del sesso, 1974. Gommapiuma rivestita in stoffa e applicazioni polimateriche. 40 x 50,5 x 50,5 cm. Ph. Antonio Maniscalco. Courtesy Archivio Clemen Parrocchetti, Cantalupo Ligure (AL). Maria Lai, Libro cucito E, 1979. Libro di carta con fili, piume e inserti di tessuto. 30 pagine. 16 x 12 x 1 cm. Private collection, Milan.

Nota a margine Nel ringraziare Gea Politi per la donazione del prezioso catalogo edito da Flash Art, ci sembra utile ricordare su questo argomento di arte e femminismo in Italia, le tre mostre su “Dossier donna” progettate a cura di Lucia Spadano e organizzate a Pescara, Salerno e Torino, tra novembre 1977 e marzo 1978 in collaborazione con Alberta De Flora e Mirella Bandini. Una mostra itinerante (recensita interessante da Filiberto Menna sul Corriere della Sera) in cui sono state invitate undici artiste che da tempo hanno rivolto il loro interesse al mondo della donna, alla condizione femminile legata ad antiche tradizioni, ai nuovi rapporti con la politica, con il lavoro, la propria sessualità e la propria famiglia Nella mostra a Torino, Mirella Bandini ha inteso precisare ‘’come il riunirsi della donna in collettivi è un grande merito per indagare, analizzare la propria condizione dentro la società. Allo stesso modo le mostre di artiste donne, riflettono la necessità di dilatare il concetto di mostra a quello di luogo di crescita, di dibattito, di nucleo aggregazionale, con opere che costituiscono un momemto di riflessione su alcuni punti nodali della secolare proletarizzazione femminile nella società matriarcale quali ad esempio la mancanza di identità propria della donna, costretta ad imitare e a confrontarsi con il modello maschile, in ruoli separati tra la sfera domestica, pubblica e politica. Una liberazione dunque, che deve necessariamente passare sulla via delle stesse strutture simboliche della cultura, per modificarle e rendere adeguata una più diffusa creatività femminile, così complessa e densa di significati antropologici, nuova e rivoluzionaria”. Per la cronaca, le artiste invitate ad esporre sono state Mirella Bentivoglio, Tomaso Binga, Chiara Diamantini, Franca Maranò, Libera Mazzoleni, Verita Monselles, Anna Paci, Firoella Rizzo, Maria Roccasalva, Sandra Sandri, Pina Scognamiglio. GIUGNO/LUGLIO 2019 | 273 segno - 69


mostre inmostra ROMA CONTEMPORANEA

DAGLI ANNI CINQUANTA AI DUEMILA / 1

Titina Maselli Giulio Paolini Luciano Fabro Carlo Maria Mariani Jan Vercruysse Myriam Laplante

I

l Palazzo delle Esposizioni propone Mostre in mostra un progetto espositivo a cura di Daniela Lancioni, promosso da Roma Capitale.
 Intento di questa prima rassegna è quella di dare voce alla pluralità delle figure e dei luoghi che a Roma, dalla metà del secolo scorso in poi, hanno saputo rinnovare, ogni volta in maniera diversa, la vocazione contemporanea della Città. L’iniziativa verrà ripetuta ogni anno al Palazzo delle Esposizioni con approfondimenti su protagonisti e spazi espositivi diversi. In questa prima edizione vengono riproposte, nelle sale che ruotano intorno alla rotonda, sei mostre di rilievo che si sono tenute a Roma nei singoli decenni tra gli anni Cinquanta e gli anni Duemila: Titina Maselli, alla Galleria La Tartaruga nel 1955; Giulio Paolini, alla Galleria La Salita nel 1964; Luciano Fabro per Concetto spaziale d’après Watteau,

1967-71 / Corona di piombo, 1968-71 / L’Italia d’oro / Alluminio e seta naturale, 1971, da rassegna “Informazioni sulla presenza Italiana” a cura di Achille Bonito Oliva per Incontri Internazionali d’Arte nel 1971; Carlo Maria Mariani. La costellazione del Leone, alla Galleria Gian Enzo Sperone nel1981; Jan Vercruysse. Tombeaux (Stanza), alla Galleria Pieroni nel 1990; Myriam Laplante. Elisir, a cura di Lorenzo Benedetti e di Teresa Macrì, alla Fondazione Volume! e The Gallery Apart nel 2004. Oltre sessanta opere in esposizione, tra dipinti, sculture e installazioni, offrono una sorta di passeggiata nel tempo, nella quale l’arte contemporanea a Roma, incide da molti decenni in maniera significativa. Una selezione di fotografie di Sergio Pucci, fotografo che dalla metà degli anni Cinquanta ha documentato le opere d’arte

Titina Maselli, Palazzone 1952 (olio su tavola, cm 71,5 x 99,5). Collezione Brai Maselli © Antonio Idini, Roma

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Luciano Fabro, Concetto spaziale d’apräs Watteau vista d’insieme della mostra agli Incontri Internazionali d’Arte, Roma 1971. © Massimo Piersanti, Roma

presso gli studi degli artisti o in mostra, lavorando per gli amici (Ettore Colla, Pericle Fazzini, Leoncillo, Bice Lazzari, tra gli altri) o per le gallerie (tra le altre La Salita, Giuliana De Crescenzo, Dell’Oca, Mario Diacono, Primo Piano), arricchisce le narrazioni della rassegna quale importante contributo alla rievocazione storica del periodo in esame. Il percorso inizia con le poderose immagini di città dipinte da Titina Maselli a New York e mostrate da Plinio De Martiis e Ninnì Pirandello a La Tartaruga nel 1955.
 Grazie alla collaborazione della Fondazione Giulio e Anna Paolini e ai prestiti provenienti da importanti collezioni, viene riproposta la prima mostra personale di Giulio Paolini, che ebbe luogo nel 1964 in una delle gallerie celebri di Roma, La Salita, riallestita in questa occasione dallo stesso artista. Di Luciano Fabro, grazie

al supporto dell’Archivio Luciano e Carla Fabro, viene proposto l’impressionante insieme di opere con il quale l’artista rispose nel 1971 all’invito di Achille Bonito Oliva a esporre prima alla 7a Biennale di Parigi e poi nella appena nata associazione Incontri Internazionali d’Arte. Con il grande quadro di Carlo Maria Mariani, oggi conservato a La Galleria Nazionale di Roma e in origine esposto da Gian Enzo Sperone nel 1981, alla presenza di un nuovo modo di intendere la pittura e la storia, siamo invitati a condividere l’elogio degli artisti, dei critici e dei galleristi, allora protagonisti della scena romana, ritratti nel dipinto. Una sensibilità del tutto diversa è quella che domina lo spazio dedicato a Jan Vercruysse e ai suoi Tombeaux, severi simulacri di memorie segrete, esposti nella Galleria Pieroni nel 1990 e oggi ripresentati con la collaborazione della Fondazione intito-

Jan Vercruysse, Tombeaux (veduta) alla Galleria Pieroni, Roma 1990. © Attilio Maranzano

Giulio Paolini, Senza titolo, 1964, tavole di compensato, due elementi, cm 200 x 150, cm 102 x 102. Collezione privata, Milano © Roberto Marossi

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lata all’artista scomparso.
 La mostra di Myriam Laplante, “Elisir” del 2004, curata da Lorenzo Benedetti e da Teresa Macrì, promossa dalla The Gallery Apart e dalla Fondazione Volume! e da quest’ultima ospitata, conclude il percorso con un’immersione nella immaginazione paradossale e avvincente dell’artista, fiabesca e mordente al tempo stesso. Questo progetto di Mostre in mostra, - spiega Daniela Lancioni si inserisce nel dibattito corrente sulla possibilità di storicizzare l’arte contemporanea scegliendo di assumere come principale punto di osservazione il momento espositivo e così dare valore

alle circostanze nelle quali l’opera diventa cosa pubblica e condivisa. La ricostruzione delle mostre, sebbene condotta con gli strumenti della filologia (attraverso i documenti dell’epoca, le testimonianze, il repertorio fotografico, timbri e altri segni che le opere stesse recano), non in tutti i casi è strettamente fedele. Più dello studio archeologico, interessa riconoscere l’importanza delle singole opere oggi e il significato che esse acquistano nella visione corale di una mostra: una deroga alla filologia fatta anche in nome delle metamorfosi che alcune opere hanno subito nel tempo per via della loro “musealizzazione”, ma spesso anche per volere dei loro autori. (red. dal c.s.)

Miriam Laplante, Elisir Laboratorio, 2004. Collezione privata © Rodolfo Fiorenza Roma in mostra - Miriam Laplante, Elisir Laboratorio, 2004 installazione, misure ambiente. Collezione privata. © Rodolfo Fiorenza

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Sergio Pucci e Ana Mendieta, alla Galleria Primo Piano, Roma 1984 © Sergio Pucci, Roma


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Carlo Maria Mariani, La costellazione del Leone, 1981, olio su tela, cm 340 x 450) Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea. Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali

Reprint da Segno 22/1981 > Roma / Galleria Sperone

Carlo Maria MARIANI

I

l solo mezzo per diventare grandi e, se possibile inimitabili, è l’imitazione degli antichi” (Winckelmann). Paradossalmente, poiché tutto è stato detto, non resta che affidarsi al metodo eterno della ripetizione. Così l’unica possibile originalità diviene l’imitazione. Un artista che ha fatto dell’imitazione il punto centrale di tutta la sua poetica è Carlo Maria Mariani. Per lui Italo Mussa ha parlato di “eterno ritorno detto stile”. L’imitazione di Mariani si esercita infatti principalmente sul piano dello stile e non si ferma alla citazione iconografica, non è mai una copia, l’opera non è mai fredda, casomai raffreddata, dietro la pittura levigata si affacciano grandi passioni. D’altra parte, come ha scritto Salvator Dalì, “da chi non vuole imitare nessuno non viene fuori niente”. È necessaria una forte tensione verso qualcuno, una sotterranea passione, per decidersi ad imitarlo, la forza che spinge alla ripetizione del destino, al continuo doppiarsi di vite parallele, non può essere che quella delle affinità elettive. Le naturali inclinazioni di Mariani sono verso la cultura e il gusto neoclassico, verso una razionalità trasparente, una profondità di ideazione, una esecuzione rigorosa fino alla politezza formale. l personaggi che elegge a suoi contemporanei sono Goethe, David, Angelica Kauffmann. Quest’ultima è una sorta di musa ispiratrice nell’olimpo di Mariani che le ha scritto una struggente lettera: “Purtroppo, a me nato troppo tardi, è rimasta l’amarezza di non averti potuto conoscere personalmente”. L’ultima fatica di Mariani (non dobbiamo dimenticare che una parte molto importante nel suo lavoro hanno il recupero della manualità e la laboriosa esecuzione) è un grande quadro esposto nella galleria di Gianenzo Sperone a Roma. L’opera è insieme autobiografica (porta il nome del segno zodiacale dell’artista) e allusiva a una situazione attuale (ma trasporta in una dimensione eterna e congelata nella perfezione della forma): “Grande intrapresa per la gloria e la felicità della patria. Tragedia moderna ovvero aneddoti raccolti da ciò che vedesi in Roma nel 1980 dopo il ritorno alla pittura e all’antico”. Il dipinto presenta ritratti, figure mitoEogiche, citazioni montati in una grande macchina allegorica. La pittura è limpida e cristallina, le immagini si stagliano nitide sulla scena predisposta come fossero statue o solidi geometrici (il disegno è il principio intellettuale che

unifica le arti, pittura, scultura e architettura). Il luogo è al tempo stesso ideale e reale ed è indicato dalla piramide che appare sulla destra e che si trova a Roma nel cimitero degli artisti e dei poeti. Sulla sinistra le fa riscontro un albero frondoso che rimanda al mondo della natura che permane sempre uguale a se stesso. La scena sembra collocarsi in una dimensione atemporale. Tra i due poli della natura e della cultura si dispongono i personaggi, tratti dal mondo dell’arte contemporanea. Uno scritto in stile aulico e arcaizzante accompagna la mostra e fornisce le soiuzioni del dipinto a chiave, o forse complica ancora il gioco. Chi recita la parte del l’Imperatore, evidentemente affetto da impenitente narcisismo, visto che contempia un proprio ritratto e posa la mano destra sul capo di un busto che lo raffigura? Chi è l’uomo dallo sguardo malinconico che vuoi “far risorgere la Germania dandole artisti nuovi che le convengano”? Chi è l’erudito che in tempi di restaurazione “erasi conservato puro”? E chi rialza i templi dell’arte dopo averli abbattuti? Alcuni artisti sono presenti con la propria opera. Di uno vediamo un’opera che mostra i temi della maschera e della citazione (presenta una scultura classica letteralmente fatta a brani). Di un altro, un’opera sul motivo del doppio: due busti si rispecchiano l’uno nell’altro. Quali artisti hanno lasciato come traccia di sé la piccola, lenta, saggia tartaruga e il mazzo di fascino? Chi è il personaggio di cui si pongono in risalto, insieme alle battaglie per l’arte italiana, la grazia e la bontà? Chi vediamo nel ruolo di Ganimede, insieme ritratto dell’artista e opera che egli stesso avrebbe potuto realizzare? E chi è il lucido personaggio che cinicamente afferma: “lo ho scelto me stesso, niuno m’ha obbligato: e poi non v’è subietto sì cattivo da cui un grande ingegno quale io sono non sappia trarre qualche partito”. Chi sono l’Artefice ispirato che l’Imperatore porta ad esempio, il signore feudale che benefica le Arti Belle, il giovane uomo con lo stendardo? E il piccolo, prezioso ritratto in basso? A chi allude la purissima scultura fatta di semplici volumi geometrici, quasi una matrice formale dell’opera? A un personaggio mai conosciuto eppure sempre presente? Al centro si è ritratto l’artista. Questo è dunque il suo mondo reale. A renderlo ideaie è quell’atmosfera di sodalizio di vita e di cultura, di solidarietà intellettuale, di fervore artistico, che si sprigiona dal dipinto, che fu tipica dei buoni tempi antichi e che ci auguriamo sia viva ancora. Laura Cherubini Reprint articolo pubblicato su Segno nr. 22 luglio-settembre 1981

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PAOLO SCIRPA

Espansione di sfere metallizzate autoriflesse, HH, 2019

MEMORIE OGGETTUALI di Ornella Fazzina A distanza di decenni, Paolo Scirpa riprende un modus operandi che nel 1973 lo ha visto autore di un’opera “Ludoscopio F-6. Espansione e traslazione bifrontale”, riaffacciandosi alla memoria una partitura oggettuale che ripropone una sorta di sforamento, un genere che l’artista ripropone e rivisita secondo un’esigenza del tempo presente. Basandosi sempre su quella che è la sua cifra stilistica, riducendo tutto a forme geometriche, in questa ultima opera protagoniste sono le sfere autoriflesse che si ripetono su una superficie specchiante ricreando uno spazio virtuale, unendo così l’oggetto e la sua immagine, la realtà e l’illusione. La forma sferica si moltiplica e traslazioni, incroci, espansioni rimandano a spazialità profonde, infinite che oltrepassano la mera dimensione fisica… L’opera di Scirpa scandaglia una profondità concettuale prima ancora che percettiva, essendo tutta la sua ricerca basata su un livello dichiaratamente intellettuale. Pur mantenendo una sua autonomia, l’opera non si offre alla semplice fruizione ottica, ma approda ad un’intuizione che rompe l’ordine costituito dello spazio andando al di là della forma, del dato oggettivo, sconfinando in ambiti poetici, mistici e dell’esistenza umana che inducono a considerare l’ordine virtuale una dimensione dell’anima e quindi dell’eterno… Anche in questo lavoro che ci presenta oggi, all’interno di una cornice con luce a led che delimita l’espansione, vi è un convergere al centro di oggetti sferici che creano linee e masse di forza, accentuando la percezione di un dinamismo che segna sprofondamenti e prospettive illusorie. Entra sempre in gioco una organizzazione equilibrata di elementi disposti su una superficie riflettente, sì da ottenere una moltiplicazione che verte verso il centro, come punto focale di tutta la composizione, così come dal centro si dirama verso i lati. Dopo un ampio arco di tempo, la ricerca sui ludoscopi con la loro profondità fittizia, allora come ora, si sposta su un piano di specchi limitato, sul quale sono disposte sfere di diverse dimensioni che non creano il vuoto ma un pieno che si inabissa nelle profondità fisiche ed esistenziali, innescando un corto circuito tra luce e buio … Sia nelle grandi che piccole opere, egli crea sempre il gioco del depistamento, della modificazione degli statuti percettivi, dell’osservazione e dell’interpretazione che, in questo suo recente lavoro, assume tutto il rigore geometrico per mezzo delle suddette sfere autoriflesse che a loro volta si riflettono in un infinito virtuale e mentale con rimandi luministici sia verso l’esterno che l’interno della superficie specchiante, dando vita a due movimenti opposti di convergenze e divergenze, di dentro-fuori, nel tentativo di catturare la realtà circostante in una esplosione-espansione e, nel contempo, immergersi in un vortice d’inquietudine e di tensione spirituale attraverso una sorta di implosione che sembra fagocitare la realtà circostante, mettendo in moto un affascinante processo di opposte sensazioni. Sono molteplici i meccanismi messi in atto nell’opera di Paolo Scirpa, essendo un abile costruttore e manipolatore dei procedimenti tecnici che non escludono quelli ludici e immaginari, come anche questo lavoro dimostra di possedere, giocando su fenomeni ottici che a seconda del diverso punto di vista, laterale o frontale, modificano la conoscenza che abbiamo di esso, da statico a dinamico e viceversa, in un continuum di inganni percettivi… Ornella Fazzina, dicembre 2018

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