Segno 272

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segno Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910 00 in libreria

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Anno XLIV APR/MAG 2019

Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

ADRIANO ALTAMIRA

All’interno ANTEPRIMA/NEWS DOCUMENTAZIONE GRANDI MOSTRE ARTISTI IN MOSTRA – RECENSIONI, IMMAGINI – LIBRI E CATALOGHI


Ravi Agarwal Ecologies of Loss 09.03.2019 09.06.2019

parcoartevivente.it

a cura di Marco Scotini

con il sostegno di


segnoaprile/maggio 2019

#272

Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910 00 in libreria

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Anno XLIV APR/MAG 2019

Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

segno Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

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sommario

# 272 - Aprile/Maggio 2019

Ravi Argawal [24]

Artista in copertina

Adriano Altamira All’interno ANTEPRIMA/NEWS DOCUMENTAZIONE GRANDI MOSTRE ARTISTI IN MOSTRA – RECENSIONI, IMMAGINI – LIBRI E CATALOGHI

Via Jacopo Barozzi, 3 BOLOGNA | ITALY info@galleriaastuni.net www.galleriaastuni.net

Terrecotte, anni ‘80 disposte in una collocazione arbitraria (particolare) courtesy l’artista Anri Sala [32]

ADRIANO ALTAMIRA

GALLERIA ENRICO ASTUNI

4/23 Anteprima Mostre & Musei News Italia Istituzioni, Musei e Gallerie d’arte a cura di Umberto Sala e Paolo Spadano

Simone Bergantini [56]

Nari Ward [46]

Jan Vercruysse [37]

Conversazione con Ravi Agarwal, PAV Torino Può l’arte prevenire gli errori?, 11 artisti alle OGR Torino Jamie Diamond e Elena Dorfman, Osservatorio Prada Milano Dan Flavin, Galleria Cardi Milano Vincenzo Castella, Building Milano Anri Sala, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea Robert Mapplethorpe, Museo MADRE Napoli, Galleria Noero Torino Julian Rosefeldt, Palazzo delle Esposizioni Roma Marco Gastini, Galleria Giorgio Persano Torino Thomas Struth, Fondazione MAST Bologna Thomas Kovacevich, Galleria Poggiali Milano Antony Gormley, Galleria degli Uffizi Firenze Jan Vercruysse, Galleria Vistamare Pescara Anatomia del linguaggio, Galleria Accademia B.Arti Macerata Aqua Aura, Palazzina d’Este e Sinagioga Ferrara Alvin Curran, RAM RadioArteMobile, Terme di Caracalla Roma Astrazione Povera, Archivio Menna/Binga Roma Andrey Esionov, Accademia del disegno Firenze Luigi Ontani, Galleria Massimo De Carlo Milano Sandy Skoglund, CAMERA Centro Italiano Fotografia Torino Adriano Altamira, Palazzo Ducale Mantova G.Ozzola, N.Chopra, Neri Ward, Ilya & E.Kabakov, Galleria Continua, San Gimignano Phillip Allen. Galleria Luca Tommasi Milano Niele Toroni, Arte Invernizzi Milano Dan Graham, Galleria Francesca Minini Pietro Paolini, Galleria Nicola Pedana Caserta Hidetoshi Nagasawa, Galleria Il Ponte Firenze Simone Mussat Sartor, Alberto Peola Contemporanea Torino Diego Ibarra Sànchez, Raffaella De Chirico Contemporanea Torino Percezioni complesse, Fondazione Volume Roma Marco Strappato, The Gallery Apart Roma Marina Paris, Spazio Nuovo Roma Sergio Breviario, Ex Elettrofonica Roma Anni Novanta, Studio Vigato Alessandria Omar Galliani, Oratorio S.Caterina Bagno a Ripoli Simone Bergantini, MAC Lissone Hermann Nitsch, Studio d’arte Cannaviello Milano Eduard Habicher, Studio G7 Bologna Delia Gianti, Galleria Millenium Bologna Progetto Oreste, MAMbo Bologna Rosario Genovese, Studio d’Arte Cocco Messina Eugenio Tibaldi, MUMI Francavilla al Mare Hera Buyuktasciyan, Acquedotto del Serino Napoli Matera Alberga, Consorzio Albergatori Materani, Matera Paolo Scirpa, Documentazione storica

Hermann Nitsch [58]

news e calendario eventi su www.rivistasegno.eu

o documentazioni 24/65 Attività espositive/ Recensioni

66/74 Arte & Letteratura/ Libri e cataloghi Intervista a Michael Petry, Intervista a Sylvia Franchi

segno

periodico internazionale di arte contemporanea Direzione e redazione Corso Manthonè, 57 65127 Pescara

Telefono 085/8634048

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Direttore responsabile LUCIA SPADANO (Pescara) Condirettore e consulente scientifico PAOLO BALMAS (Roma) Direzione editoriale UMBERTO SALA Caporedattore: Maria Letizia Paiato. Redazione web: Roberto Sala

ABBONAMENTI ORDINARI E 30 (Italia) E 60 (in Europa CEE) E 100 (USA & Others) ABBONAMENTO SPECIALE

PER SOSTENITORI E SOCI Collaboratori e Corrispondenti dell’associazione culturale Segno: Raffaella Barbato, da E 300 a E 500 Milena Becci, Maila Buglioni, Francesca Cammarata, Simona Caramia, Tristana Chinni, Viana Conti, Marilena Di Tursi, Angela Faravelli, Antonella Marino, Duccio Nobili, Rita Olivieri, L’importo può essere versato sul Dario Orfée La Mendola, Cecilia Paccagnella, Ilaria Piccioni, Gabriele Perretta, Serena Ribaudo, c/c postale n. 1021793144 Rivista Segno - Pescara Carla Rossetti, Gabriella Serusi, Luca Sposato, Stefano Taccone, Maria Vinella.

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>anteprima< VENEZIA

SEDI VARIE

58. Esposizione Internazionale d’Arte ome già noto, la 58. Esposizione Internazionale d’Arte, intitolata May You Live In Interesting Times, si terrà dall’11 C maggio al 24 novembre 2019 (pre-apertura 8, 9, 10 maggio). Il

titolo è una espressione della lingua inglese a lungo erroneamente attribuita a un’antica maledizione cinese, che evoca periodi di incertezza, crisi e disordini; “tempi interessanti” appunto, come quelli che stiamo vivendo. La 58. Esposizione è curata da Ralph Rugoff, attuale direttore della Hayward Gallery di Londra. Queste alcune sue dichiarazioni: “May You Live In Interesting Times includerà senza dubbio opere d’arte che riflettono sugli aspetti precari della nostra esistenza attuale, fra i quali le molte minacce alle tradizioni fondanti, alle istituzioni e alle relazioni dell’”ordine postbellico”. Riconosciamo però fin da subito che l’arte non esercita le sue forze nell’ambito della politica. Per esempio, l’arte non può fermare l’avanzata dei movimenti nazionalisti e dei governi autoritari, né può alleviare il tragico destino dei profughi in tutto il pianeta. In modo indiretto, tuttavia, forse l’arte può offrire una guida che ci aiuti a vivere e pensare in questi ‘tempi interessanti’. La 58. Esposizione Internazionale d’Arte metterà in evidenza un approccio generale al fare arte e una visione della funzione sociale dell’arte che includa sia il piacere che il pensiero critico. La Mostra si concentrerà sul lavoro di artisti che mettono in discussione le categorie di pensiero esistenti e ci aprono a una nuova lettura di oggetti e immagini, gesti e situazioni. Un’arte simile nasce dalla propensione a osservare la realtà da più punti di vista, ovvero dal tenere in considerazione nozioni apparentemente contraddittorie e incompatibili, e di destreggiarsi fra modi diversi di interpretare il mondo che ci circonda. Gli artisti il cui pensiero parte da questi presupposti, sanno dare significati alternativi a ciò che prendiamo come dati di fatto, proponendo modi diversi di metterli in relazione tra loro e di contestualizzarli. Il loro lavoro, animato da curiosità sconfinata e intelligenza di spirito, ci spinge a guardare con sospetto a tutte le categorie, i concetti e le soggettività che sono dati per indiscutibili. Ci invita a considerare alternative e punti di vista sconosciuti, e a capire che “l’ordine” è ormai diventato presenza simultanea di diversi ordini. May You Live In Interesting Times cercherà di offrire al suo pubblico un’esperienza a tutto tondo, che è propria del profondo coinvolgimento, trasporto e apprendimento creativo resi possibile dall’arte. La Mostra si proporrà di sottolineare l’idea che il significato delle opere d’arte non risiede tanto negli oggetti quanto nelle conversazioni – prima fra l’artista e l’opera d’arte, poi fra l’opera d’arte e il pubblico, e poi fra pubblici diversi. In fin dei conti, la Biennale Arte 2019 aspira a questo ideale: ciò che più conta in una mostra non è quello che viene esposto, ma come il pubblico possa poi servirsi dell’esperienza della mostra per guardare alla realtà quotidiana da punti di vista più ampi e con nuove energie. Una mostra dovrebbe aprire gli occhi delle persone a modi inesplorati di essere al mondo, cambiando così la loro visione di quel mondo.

79 artisti in mostra

tra il Padiglione Centrale ai Giardini e l’Arsenale

Lawrence Abu Hamdan, Njideka Akunyili Crosby, Halil Altındere, Michael Armitage, Korakrit Arunanondchai, Alex Gvojic, Ed Atkins, Tarek Atoui, Darren Bader, Nairy Baghramian, Neïl Beloufa, Alexandra Bircken, Carol Bove, Christoph Büchel, Ludovica Carbotta, Antoine Catala, Ian Cheng, George Condo, Alex Da Corte, Jesse Darling, Stan Douglas, Jimmie Durham, Nicole Eisenman, Haris Hepaminonda, Cyprien Gaillard, Gauri Gill, Dominique Gonzalez-Foerster, Shilpa Gupta, Soham Gupta, Martine Gutierrez, Rula Halawani, Anthea Hamilton, Jeppe Hein, Anthony Hernandez, Ryoji Ikeda, Arthur Jafa, Cameron Jamie, Kahlil Joseph, Zhanna Kadyrova, Suki Seokyeong Kang, Mari Katayama, Bul Lee, Weu Liu, Maria Loboda, Andreas Lolis, Christian Marclay, Teresa Margolles, Julie Mehretu, Ad Minoliti, Jean-Luc Moulène, Zanele Muholi, Jill Mulleady, Ulrike Müller, Nabuqi, Otobong Nkanga, Khyentse Norbu, Frida Orupabo, Jon Rafman, Gabriel Rico, Handiwirman Saputra, Tomás Saraceno, Augustas Serapinas, Avery Singer, Slavs and Tatars, Michael E. Smith, Hito Steyerl, Tavares Strachan, Sun Tuan e Peng Yu, Henry Taylor, Rosemarie Trockel, Kaari Upson, Andra Ursuta, Danh Vo, Kemang Wa Lehulere, Apichatpong Weerasethakul, Tsuyoshi Hisakado, Margaret Wertheim e Christine Wertheim, Anicka Yi, Xiuzhen Yin e Ji Yu. 4 - segno 272 | APRILE/MAGGIO 2019

Chiara Fumai, The Return of the Invisible Woman, 2014. Ricamo e collage su ‘La Venere in pelliccia’ di Sacher Masoch, walldrawing.

Gli Artisti

dei Padiglioni Nazionali

0 Partecipazioni nazionali, 4 nuove partecipazioni: Algeria, Ghana, Madagascar e Pakistan. La Repubblica Dominicana 9 partecipa per la prima volta con un suo padiglione alla Biennale

Arte; aveva già partecipato in passato con IILA. La Repubblica del Kazakistan partecipa per la prima volta con un suo padiglione; aveva già partecipato in passato con il Central Asia Pavilion. ALBANIA Maybe the cosmos is not so extraordinary. ALGERIA Time to shine bright, Rachida Azdaou, Hamza Bounoua, Amina Zoubir, Mourad Krinah, Oussama Tabti. ANDORRA The Future is Now / El futur és ara, Philippe Shangti. ANTIGUA e BARBUDA Find Yourself: Carnival as Resistance, Timothy Payne, Sir Gerald Price, Joseph Seton and Frank Walter, Intangible Cultural, Heritage Artisans and Mas Troup. ARABIA SAUDITA After Illusion, Zahrah Al Ghamdi. ARGENTINA El nombre de un país/The name of a country/Il nome di un paese, Mariana Telleria. ARMENIA Revolutionary Sensorium, ArtlabYerevan e Narine Arakelian. AUSTRALIA Assembly, Angelica Mesiti. AUSTRIA discordo ergo sum, Renate Bertlmann. AZERBAIGIAN, Virtual Reality, Zeigam Azizov, Orkhan Mammadov, Zarnishan Yusifova, Kanan Aliyev, Ulviyya Aliyeva. BANGLADESH, Thirst, Bishwajit Goswami, Dilara Begum Jolly, Heidi Fosli, Nafis Ahmed Gazi, Franco Marrocco, Domenico Pellegrino, Preema Nazia Andaleeb, Ra Kajol, Uttam Kumar karmaker. BELARUS Exit/Uscita, Konstantin Selikhanov. BELGIO, Mondo Cane, Jos de Gruyter & Harald Thys. BOSNIA-ERZEGOVINA, Zenica-Trilogy, Danica Dakic. BRASILE, Swinguerra, Bárbara Wagner & Benjamin de Burca. BULGARIA, How We Live, Rada Boukova, Lazar Lyutakov. CANADA Isuma, Zacharias Kunuk, Norman Cohn, Paul Apak, Pauloosie Qulitalik. REP. CECA, Former Uncertain Indicated, Stanislav Kolibal. CILE, Altered Views, Voluspa Jarpa. REPUBBLICA POPOLARE CINESE Re, Chen Qi, Feijun, He Xiangyu, Geng Xue. CIPRO, Untimely, Again, Christoforos Savva. Repubblica di COREA, History Has Failed Us, but No Matter, Hwayeon Nam, siren eun young jung, Jane Jin Kaisen. COSTA D’AVORIO, Les ombres ouvertes de la mémoire, Ernest Dükü, Ananias Leki Dago, Valérie Oka, Tong Yanrunan. CROAZIA, Traces of Disappearing: In Three Acts, Igor Grubic. CUBA, Entorno aleccionador (A Cautionary Environment), Alejandro Campins, Alex Hérnandez, Ariamna Contino e Eugenio Tibaldi. DANIMARCA, Heirloom, Larissa Sansour. Repubblica DOMINICANA, Naturaleza y biodiversidad, Dario Oleaga, Ezequiel Taveras, Hulda Guzmán, Julio Valdez, Miguel Ramirez, Rita Bertrecchi, Nicola Pica, Marraffa & Casciotti. EGITTO, khnum across times witness, Islam Abdullah, Ahmed Chiha, Ahmed Abdel Karim. EMIRATI ARABI UNITI, Nujoom Alghanem: Passage, Nujoom Alghanem. ESTONIA, Birth V, Kris Lemsalu. FILIPPINE, Island Weather, Mark O. Justiniani. FINLANDIA, A Greater Miracle of Perception, Miracle Workers Collective. FRANCIA, Deep see blue surrounding you / Vois ce bleu profond te fondre, Laure Prouvost. GEORGIA REARMIRRORVIEW, Simulation is Simulation, is Simulation, is Simulation, Anna K.E. GERMANIA, Natascha Süder Happelmann. GHANA Ghana Freedom, Felicia Abban, John Akomfrah, El Anatsui, Lynette Yiadom Boakye Ibrahim Mahama, Selasi Awusi Sosu. GIAPPONE, Cosmo-Eggs, Motoyuki Shitamichi, Taro Yasuno, Toshiaki Ishikura, Fuminori Nousaku. LUSSEMBURGO, Written by Water, Marco Godinho. GRENADA, Epic Memory, Amy Cannestra, Billy Gerard Frank, Dave Lewis, Shervone Neckles, Franco Rota Candiani, Roberto Miniati, CRS avant- garde. GRECIA, Mr Stigl, Panos Charalambous, Eva Stefani, Zafos Xagoraris. GUATEMALA, Interesting state, Elsie Wunderlich, Marco Manzo. HAITI, The Spectacle of Tragedy, Jean Ulrick Désert. INDIA, Our time for a future caring (Under the theme of 150 years of Mahatma Gandhi).


>news istituzioni e gallerie< INDONESIA, Lost Verses, Handiwirman Saputra and Syagini Ratna Wulan. IRAN, of being and singing, Reza Lavassani, Samira Alikhanzadeh, Ali Meer Azimi. IRAQ, Fatherland, Serwan Baran. IRLANDA, The Shrinking Universe, Eva Rothschild. ISLANDA, Chromo Sapiens – Hrafnhildur Arnardóttir / Shoplifter. ISRAELE, Field Hospital X, Aya Ben Ron. KIRIBATI, Pacific Time - Time Flies, Kaeka Michael Betero, Daniela Danica Tepes, Kairaken Betio Group; Teroloang Borouea, Neneia Takoikoi, Tineta Timirau, Teeti Aaloa, Kenneth Ioane, Kaumai Kaoma, Runita Rabwaa, Obeta Taia, Tiribo Kobaua, Tamuera Tebebe, Rairauea Rue, Teuea Kabunare, Tokintekai Ekentetake, Katanuti Francis, Mikaere Tebwebwe, Terita Itinikarawa, Kaeua Kobaua, Raatu Tiuteke, Kaeriti Baanga, Ioanna Francis, Temarewe Banaan, Aanamaria Toom, Einako Temewi, Nimei Itinikarawa, Teniteiti Mikaere, Aanibo Bwatanita, Arin Tikiraua. KOSOVO, Family Album, Alban Muja. LETTONIA, Saules Suns, Daiga Grantina. LITUANIA, Sun & Sea (Marina); Lina Lapelyte, Vaiva Grainyte and Rugile Barzdziukaite. MACEDONIA DEL NORD, Subversion to Red, Nada Prlja. MADAGASCAR, I have forgotten the night, Joël Andrianomearisoa. MALTA, Maleth / Haven / Port - Heterotopias of Evocation; Vince Briffa, Klitsa Antoniou, Trevor Borg. MESSICO, Actos de Dios / Acts of God; Pablo Vargas Lugo. MONGOLIA, A Temporality; Jantsankhorol Erdenebayar with the participation of traditional Mongolian throat singers and Carsten Nicolai (Alva Noto). MONTENEGRO, Odiseja/An Odyssey/Un`Odissea; Vesko Gagovic. MOZAMBICO, The Past, the Present and All in Between; Gonçalo Mabunda, Mauro Pinto, Filipe Branquinho. NUOVA ZELANDA, Post hoc; Dane Mitchell. PAESI BASSI, The Measurement of Presence; Iris Kensmil, Remy Jungerman. PAESI NORDICI (FINLANDIANORVEGIA-SVEZIA), Weather Report - Forecasting Future; Ane Graff, Ingela Ihrman, nabbteeri. PAKISTAN, Manora Field Notes; Naiza Khan. PERÙ, “Indios Antropófagos”. A butterfly Garden in the (Urban) Jungle; Christian Bendayán, Otto Michael (1859-1934), Manuel Rodríguez Lira (1874.1933), Segundo Candiño Rodríguez, Anonymous popular artificer. POLONIA Flight; Roman Stanczak. PORTOGALLO, a seam,

VENEZIA in Anteprima umerose le mostre proposte in coincidenza con la Biennale. Tra gli artiisti da vedere, Chiara Dynys al Museo Correr con N un suo ciclo di lavori sui bambini dei campi profughi di Sabra e

Chatila in Libano. Ca’ Rezzonico ospita un intervento site specific di Flavio Favelli. A Ca’ Pesaro sculture classicheggianti di Barry X Ball e l’antologica di Arshile Gorky precursore dell’Espressionismo Astratto. Opere di fotografia quelle di Brigitte Niedermaier a Palazzo Mocenigo. La galleria Studio la Città di Verona nel proseguire l’attività di ricerca che ha intrapreso nell’ultimo decennio nella città di Venezia propone due progetti espositivi

Jannis Kounellis, Un segno per Segno, 1988

a surface, a hinge or a knot; Leonor Antunes REGNO UNITO Cathy Wilkes. ROMANIA, Unfinished Conversations on the Weight of Absence; Belu-Simion Fainaru, Dan Mihaltianu, Miklós Onucsán. RUSSIA Luca 15:11-32; Alexander Sokurov, Alexander Shishkin-Hokusai. Repubblica di SAN MARINO, Friendship Project International; Gisella Battistini, Martina Conti, Gabriele Gambuti, Giovanna Fra, Andrea Pescio, Thea Tini, Chen Chengwei, Li Geng, Dario Ortiz Tang Shuangning, Jens W. Beyrich, Xing Junqin, Xu de Qi. SERBIA, Regaining Memory Loss; Djordje Ozbolt. SEYCHELLES, Drift; George Camille and Daniel Dodin. SINGAPORE, Music For Everyone: Variations on a Theme; Song-Ming Ang. SIRIA Syrian Civilization is still alive, Abdalah Abouassali, Giacomo Braglia, Ibrahim Al Hamid, Chen Huasha, Saed Salloum, Xie Tian, Saad Yagan, Giuseppe Biasio, Primo Vanadia. SLOVENIA, Here we go again... A situation of the resolution series; Marko Peljhan. SPAGNA, Perforated; Itziar Okariz, Sergio Prego. STATI UNITI D’AMERICA, Liberty / Libertà; Martin Puryear. Repubblica SUDAFRICANA, The stronger we become; Dineo Seshee Bopape, Tracey Rose, Mawande Ka Zenzile. SVIZZERA, Moving Backwards; Pauline Boudry/ Renate Lorenz. THAILANDIA, The Revolving World; Somsak Chowtadapong, Panya Vijinthanasarn, Krit Ngamsom. TURCHIA, We, Elsewhere; Inci Eviner. UCRAINA, The Shadow of Dream cast upon Giardini della Biennale; all artists of Ukraine. UNGHERIA, Fotocamere immaginarie; Tamás Waliczky. URUGUAY, La casa empática; Yamandú Canosa. VENEZUELA, Metáfora de las tres ventanas. Venezuela: identidad en tiempo y espacio; Natalie Rocha Capiello , Ricardo García, Gabriel López, Nelson Rangelosky. ZIMBABWE, Soko Risina Musoro (The Tale without a Head); Georgina Maxim, Neville Starling, Cosmos Shiridzinomwa, Kudzanai Violet Hwami. L’Italia è rappresentata dagli artisti Enrico David, Liliana Loro e Chiara Fumai. L’allestimento della Fumai sarà incentrato su una grande installazione inedita sulla quale l’artista barese aveva lavorato nella residenza newyorchese, per il premio New York, nei primi mesi del 2017. Ad allesitre l’opera interverrà Micki Pellerano, artista e critico cubano. Probabilmente sarà esposta anche The Return of the Invisible Woman, 10 tavole del 2014 omaggio a Vito Acconci. sull’Isola della Giudecca: il percorso si sviluppa su due piani, con due allestimenti distinti: con il titolo Recursions and Mutations sono presentate le opere di Vincenzo Castella, Lynn Davis, Jacob Hashimoto e Roberto Pugliese mentre After J.M.W. Turner 1834 - 2019 è il tema della mostra personale del giapponese Hiroyuki Masuyama.Torna a Venezia Gely Korzhev (19252012), una delle figure eminenti del panorama pittorico, prima sovietico e poi russo, della seconda metà del Novecento. Esattamente 57 anni dopo la sua partecipazione alla XXXI Biennale del 1962 nel padiglione dell’URSS. Il Castello di Rivoli e la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo propongono The Piedmont Pavilion, una variegata mostra di espressioni artistiche e forme creative della contemporaneità in Piemonte, sviluppata negli spazi di Combo Venezia dal 7 maggio al 20 luglio. ”Un padiglione regionale che è anche transnazionale, - afferma la curatrice Marianna Vecellio - una stratificazione temporale […] e un territorio che non esiste più come rappresentazione di un’area confinata, ma come un misuratore di esperienza”.
Per l’occasione saranno realizzate tre opere inedite da Ludovica Carbotta, Irene Dionisio e Renato Leotta. Palazzo Grassi presenta la prima mostra personale in Italia di Luc Tuymans. Curata da Caroline Bourgeois in collaborazione con lo stesso Tuymans, in mostra oltre 80 opere provenienti dalla Collezione Pinault e da musei internazionali e collezioni private. Luogo e Segni, ideata da Mouna Mekouar e Martin Bethenod, è la settima esposizione presentata a Punta della Dogana e riunisce un centinaio di opere di 36 artisti di cui 17 presenti per la prima volta nell’ambito delle esposizioni della Pinault Collection a Venezia. Di eccezionale interesse la retrospettiva di Jannis Kounellis a Palazzo di Ca’ Corner della Regina, a cura di Germano Celant. La mostra, sviluppata in collaborazione con l’Archivio Kounellis, riunisce 70 lavori dal 1958 al 2016, provenienti da istituzioni, musei italiani e internazionali, ricostruisce la storia artistica ed espositiva di Kounellis evidenziando gli sviluppi fondamentali della sua poetica e cercando di stabilire un dialogo tra le opere e gli spazi settecenteschi di Ca’ Corner della Regina. Si va dai primi lavori, esposti tra il 1960 e il 1966, al periodo successivo, quando la matrice concettuale si intreccia con le operazioni poveriste, fino alle imponenti installazioni degli ultimi anni, passando attraverso le declinazioni olfattive, quegli inconfondibili sentori di caffè e grappa, le sperimentazioni con i metalli e con i processi di trasformazione della materia, come nelle combustioni. La retrospettiva è completata dalla presentazione di documenti, film, cataloghi, inviti, manifesti e fotografie d’archivio, che testimoniano la storia espositiva di Kounellis, oltre che da un focus dedicato ai suoi progetti in campo teatrale. La mostra è accompagnata da un volume che, con un saggio di Germano Celant e un’ampia cronologia illustrata, documenta e approfondisce il percorso biografico e professionale dell’artista. APRILE/MAGGIO 2019 | 272 segno - 5


>anteprima< ROMA

MAXXI

Programmazione olte le nuove mostre, focus e progetti speciali che animano le gallerie del MAXXI. L’ottava edizione del Progetto AlcanM tara MAXXI ha come protagonisti i designer dello studio For-

mafantasma che, con NERVI in the Making, creano uno spazio fruibile ispirato a Pier Luigi Nervi. A cura di Domitilla Dardi. Paola Pivi, Leone d’oro alla Biennale di Venezia nel 1999, è protagonista della prima monografica della nuova stagione, Paola Pivi. World Record: progetto site specific immersivo e coinvolgente, dove si alternano opere storiche e lavori più recenti. A cura di Hou Hanru e Anne Palopoli. Fino all’8 settembre. Focus speciale dedicato a Elisabetta Catalano, Tra immagine e performance, che indaga il rapporto tra la sua fotografia e la performance proponendo ritratti di artisti (Beuys, Mauri, Pisani, Tacchi). In collaborazione con Archivio Catalano, a cura di Aldo Enrico Ponis. Fino a dicembre. In collaborazione con Gucci, Paolo Di Paolo. Mondo Perduto è la grande monografica dedicata a uno straordinario cantore dell’Italia tra gli anni Cinquanta e Sessanta, che ha ritratto protagonisti del mondo dell’arte, della cultura, della moda, del cinema, accanto a gente comune: da Pasolini a Tennesse Williams, dalla Magnani a Kim Novak, da Sofia Loren a Mastroianni. A cura di Giovanna Calvenzi. Fino a giugno. At Home / A Casa indaga l’eterno tema dell’abitare attraverso le opere della collezione. A cura di Margherita Guccione e Pippo Ciorra. Fino a marzo 2020. Mostra accompagnata dal focus Terre In Movimento, che racconta attraverso gli occhi di Olivo Barbieri, Paola De Pietri e Petra Noordkamp il paesaggio marchigiano dopo il terremoto. Fino ad agosto.

PERUGIA

FONDAZIONE PALAZZO ALBIZZINI

Obiettivi su Burri partire dal 2015, anno delle celebrazioni del centenario della nascita, la Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri A propone uno speciale ricordo del Maestro. Quest’anno la mostra

Obiettivi su Burri - Fotografie e fotoritratti di Alberto Burri dal 1954 al 1993, ideata e curata da Bruno Corà, compie una ricognizione esauriente sui maggiori e più assidui professionisti della fotografia che lo hanno ritratto in differenti momenti e circostanze della sua vita. Gli spazi degli ex seccatoi del tabacco ospitano scatti di Aurelio Amendola, Gabriele Basilico, Giorgio Colombo, Vittor Ugo Contino, Plinio De Martiis, Gianfranco Gorgoni, Giuseppe Loy, Ugo Mulas, Josephine Powell, Sanford H. Roth, Michael A. Vaccaro, André Villers, Sandro Visca, Arturo Zavattini e altri.

Paola Pivi, Untitled (donkey), 2003 courtesy Massimo De Carlo, Milan/London/Hong Kong, foto Hugo Glendinning

MILANO

ICA - ISTITUTO CONTEMPORANEO PER LE ARTI

Hans Josephsohn l nuovo spazio espositivo no profit della Fondazione ICA Milano, da Alberto Salvadori, propone la sua seconda esposizioIne:diretta la prima monografica mai dedicata in Italia allo scultore tedesco naturalizzato svizzero Hans Josephsohn (Königsberg, 1920 - Zurigo, 2012), realizzata in collaborazione con il Kesselhaus Josephsohn di San Gallo (CH). Il percorso espositivo comprende un considerevole numero di opere e abbraccia le diverse fasi attraversate dalla produzione dell’artista a partire dagli anni ’50 fino ai primi anni 2000. La preziosa selezione include opere in ottone, in creta e in cemento. Fino al 2 giugno. In concomitanza, all’interno della project room, ICA presenta la prima edizione di Gallery Focus, esplorazione in capitoli della storia delle gallerie italiane dagli anni Cinquanta. Inaugura il ciclo la Galleria dell’Ariete di Beatrice Monti della Corte, in una esposizione curata da Caterina Toschi. Tra le immagini fotografiche incluse nel percorso espositivo, scatti di Ugo Mulas e François Halard, quest’ultime in particolare ritraggono i corridoi di The Santa Maddalena Foundation in cui campeggiano i disegni utilizzati come manifesti e realizzati dagli artisti stessi per le proprie esposizioni presso la Galleria dell’Ariete.

Hans Josephsohn, courtesy Kesselhaus Josephsohn di San Gallo (CH) Alberto Burri, presso il Grande cretto di Gibellina, 1987, foto di Vittor Ugo Contino

BOLOGNA

MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO

Exrande Africa mostra, la più ampia mai dedicata all’arte africana in Italia, Ex Africa: un’arte universale è prodotta e organizzata G da CMS.Cultura in occasione dell’anno dei rapporti culturali Italia

Africa indetto dal Ministero degli Affari Esteri. Oltre 270 capolavori dai grandi musei e collezioni internazionali: opere raffinate, testimonianze di grandi culture, in un viaggio nel tempo e nei luoghi attraverso storie di incontri tra africani ed europei, tra l’XI e il XXI secolo. Ex Africa presenta il valore dell’arte africana, ricostruendone il contesto storico e culturale da cui essa trae origine, giungendo alla eredità e influenza nella pittura europea d’inizio Novecento con il primitivismo e la cosiddetta Art Nègre, fino a toccare gli ambiti dell’arte contemporanea africana. La curatela è di Ezio Bassani e Gigi Pezzoli. Fino all’8 settembre 2019.

6 - segno 272 | APRILE/MAGGIO 2019

Man Ray, Noire at Blanche, 1926, fotografia new print del 1980 collezione privata, courtesy Fondazione Marconi, Milano, The Museum of Modern Art, New York Scala, Florence, Man Ray Trust by SIAE 2018


>news istituzioni e gallerie< MILANO

PIRELLI HANGARBICOCCA

Sheela Gowda rima grande personale di Gowda in Italia, dal titolo Remains, a cura di Nuria Enguita e Lucia Aspesi. Il progetto espositivo P rappresenta l’opportunità per scoprire nei monumentali spazi del-

le Navate vent’anni di ricerca di quest’artista di origine indiana che ha saputo fondere tecniche, forme, cromie e materiali sconfinando in un’espressività sia astratta che figurativa in linea con gli esiti e le ricerche internazionali, con cui le sue opere sono entrate a far parte delle collezioni delle più importanti istituzioni internazionali, fra cui Tate Modern, Londra; MoMA - The Museum of Modern Art, Solomon R. Guggenheim Museum, New York; Walker Art Center, Minneapolis; Van Abbemuseum, Eindhoven e Kiran Nadar Museum, Nuova Delhi. Ampia la selezione di opere realizzate dal 1996 a oggi, tra cui installazioni e sculture site specific oltre a stampe e acquerelli. Accanto a queste, la nuova produzione realizzata appositamente per la mostra. Fino al 15 settembre.

VARESE

Sheela Gowda, And that is no lie, 2015 veduta dell’installazione da Pérez Art Museum Miami, 2015/’16 courtesy dell’artista e Pérez Art Museum Miami, foto Oriol Tarridas Sean Scully, Landline, 1999, collezione privata, courtesy l’artista

VILLA PANZA

Sean Scully n dialogo con la multiforme Collezione di Villa Panza, la mostra Light riunisce 60 opere di Scully, dai primi anni Settanta Ia Long oggi, ripercorrendo per la gran parte la produzione dell’artista

statunitense di origine irlandese, e offrendo una profonda visione della sua ricerca che lo riconferma tra i protagonisti della scena pittorica contemporanea per poetica, espressiva e minimalista, ricerca sul colore, gesto, equilibri tra geometrie e luce. Il percorso di visita si snoda tra le sale della villa al primo piano fino alla grande Scuderia del piano terra. L’itinerario di visita si conclude poi nel parco con un inedito site specific che entrerà a far parte della collezione permanente: giocando con preziosissimi Landline di vetri, appositamente realizzati per l’occasione, Scully trasforma la serra del giardino, di epoca Portaluppi, in un raffinato e riflettente ambiente di luce e colore. Le opere in mostra, carte, fotografie, installazioni e dipinti dalla superficie vibrante vanno dai primi acrilici su tela come Backcloth o East Coast Light 2 (le “supergriglie”), ai neri monocromi come Upright Horizontals Red Black, fino ai Doric, composizioni architettoniche distribuite per piani verticali e orizzontali rese evanescenti da un ardito tonalismo. Troviamo poi le storiche serie Passenger, Landline ed Eleuthera. A cura di Anna Bernardini. Fino al 6 gennaio 2020.

BOLZANO MUSEION

Cytter/Hirschfeld-Mack lla mostra Mature Content di Keren Cytter l’onore di aprire la stagione espositiva del Museion. Si tratta della più ampia A rassegna mai dedicata in un museo italiano all’artista israeliana

e operante negli States. Da acuta osservatrice del presente, l’artista registra e rielabora la nostra realtà in video, film, disegni, installazioni e romanzi, narrandoci come i cliché dei social media permeino il mondo contemporaneo. Il titolo, Mature content, fa ironicamente riferimento agli avvisi dei film “per soli adulti”, anche se in realtà la mostra si concentra sulle diverse fasi della vita, dall’infanzia all’adolescenza fino all’età adulta. Il progetto pensato per l’occasione riflette l’interesse ossessivo dell’artista sullo scorrere del tempo; opere esistenti sono esposte accanto a diversi nuovi lavori e interventi site-specific. Anche i nuovi disegni, realizzati a colori con pennarello direttamente sulla superficie di vetro della facciata di Museion, intervento ispirato al paesaggio circostante e al suo riflesso sulle facciate, mirano a creare un senso di spiazzamento in chi guarda. A cento anni dalla fondazione di Bauhaus, scuola di architettura, arti e design della Germania (1919-2019), Museion ripropone il Lichtspiel-Apparat di Ludwig Hirschfeld-Mack (1893-1965). L’opera, realizzata dall’artista nel 1923/’24, è tra le prime in assoluto a combinare luce elettrica e movimento con giochi luminosi al confine tra pittura, cinema, teatro e sculture di luce.

Sean Scully, Land Sea Sky, 1999, collezione privata, courtesy l’artista Keren Cytter, Pentagram, 2009, courtesy l’artista

Ludwig Hirschfeld-Mack, Farbenlichtspiele, ricostruzione del 2000 still dal video di Corinne Schweizer, Peter Böhm, courtesy gli artisti

APRILE/MAGGIO 2019 | 272 segno - 7


miart

5 – 7 aprile 2019 preview 4 aprile

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FIERAMILANOCITY

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Abbi cara ogni cosa

rendendo spunto dal poema Hold Everything Dear di Gareth Evans, torna miart, fiera internazionale d’arte moderna e conP temporanea organizzata da Fiera Milano e diretta da Alessandro

Rabottini. L’invito, implicito nei versi Abbi cara ogni cosa, è quello di “fare proprio il gesto di attenzione“, proprio dello sguardo artistico, che esplora gli aspetti estremi del vivere ma anche quelli all’apparenza meno rilevanti. Nelle parole del direttore è meglio esplicitato questo concetto: “L’arte ha bisogno di attenzione, e per ottenerla bisogna creare un contesto in cui i rumori di fondo siano ridotti al minimo. Credo che una fiera debba intrattenere un rapporto progettuale con la città che la ospita. Questo vuol dire lavorare insieme ai molti attori che fanno la vita culturale di una città affinché la settimana della fiera sia viva sia dentro che fuori i padiglioni fieristici [...] mettendo in rete le istituzioni pubbliche, le fondazioni private, gli spazi non profit e i progetti concepiti per quella particolare occasione.”. La fiera, che giunge quindi a coronamento della Milano Art Week (1 - 7 aprile), è stata preceduta dalla campagna visiva Horizon, del fotografo Jonathan Frantini, racconto per immagini dal sapore cinematografico con protagonista un gruppo di adolescenti im-

Ugo La Pietra, Bosco in città, 2014, ceramica colorata a mano e smaltata courtesy Enrico Astuni, Bologna

mersi in uno scenario naturale e ritratti nell’arco di una giornata estiva, che celebra l’arte come luogo di esplorazione, scoperta e mutamento. A dare vita all’evento fieristico, nel padiglione 3 di Fieramilanocity, ben 186 gallerie provenienti da 19 paesi, con il consueto ricchissimo mix di opere di maestri moderni, artisti contemporanei e designer, sempre a cavallo tra storicizzazione e sperimentazione. Sette le sezioni in cui si articola l’esposizione, a partire da quella principale, Established, nella quale troviamo 129 gallerie di arte moderna e contemporanea, ulteriormente suddivise in Contemporary e Masters. Generations, mette in scena 8 dialoghi tra artisti di generazioni diverse: Matt Connors (Herald St, Londra) e Piero Dorazio (Tega, Milano); Walead Beshty (Thomas Dane Gallery, Londra/Napoli) e Morgan Fisher (Bortolami, New York); Richard Rezac (Isabella Bortolozzi, Berlino) e Giacomo Balla (Maggiore G.A.M., Bologna/Parigi/Milano); Kate Newby (The Sunday Painter, Londra) e Michael Berryhill (Lulu, Città del Messico); Birgit Jürgenssen (Hubert Winter, Vienna) e Tina Lechner (Hubert Winter, Vienna); Patrizio Di Massimo (T293, Roma) e Horst P. Horst (Paci Contemporary, Brescia); Polys Peslikas (Vistamare - Vistamarestudio, Pescara/Milano) e César Domela (Martini & Ronchetti, Genova); Katsumi Nakai (Ronchini, Londra) e Alice

Jonathan Frantini , Horizon, 2019, courtesy l’artista

Cattaneo (MLF | Marie-Laure Fleisch, Bruxelles). In Decades, 9 gallerie danno vita a un percorso che attraversa l’intero XX secolo: 1910/1920 - Avanguardie e bon ton (Società di Belle Arti, Viareggio); 1920/1930 - Duilio Cambellotti (Russo, Roma); 1940 - Antonietta Raphael (Copetti Antiquari, Udine); 1950 - Jaroslav Serpan (Dellupi Arte, Milano); 1960 - Maria Lai (M77, Milano); 1970 - Carlo Scarpa (Galleria Gomiero, Milano); 1970 - Katalin Ladik e la Neo-avanguardia ungherese (acb, Budapest); 1980 - Sandro Chia (Alessandro Bagnai, Foiano della Chiana); 1990 - Jon Thompson (Anthony Reynolds, Londra). Emergent è animata da 21 gallerie emergenti e impegnate nella promozione delle giovani generazioni artistiche. In Object troviamo 12 gallerie attive nel campo del design da collezione e in edizione limitata: Elisabetta Cipriani Wearable Art, Londra; Luciano Colantonio, Brescia; Galleria Luisa Delle Piane, Milano; Dimoregallery, Milano; Erastudio ApartmentGallery, Milano; Eredi Marelli, Cantù; Galleri Feldt, Copenhagen; Galerie Marc Heiremans, Anversa; Frank Landau/Thomas Ekström, Francoforte; Officine Saffi, Milano; Taste Contemporary, Ginevra; Galleria Antonio Verolino, Modena. On Demand è una sezione dedicata a opere che vivono della relazione con il contesto, con il pubblico e con l’acquirente. Il team curatoriale incaricato di gestire questa complessità è composto da Alberto Salvadori, direttore, OAC Fondazione CR di Firenze (Established Masters e Decades); Anthony Reynolds, Anthony Reynolds Gallery, Londra e Chris Sharp, Scrittore, curatore indipendente e co-direttore di Lulu, Città del Messico (Generations); Attilia Fattori Franchini, curatrice indipendente a Londra (Emergent); Oda Albera, Exhibitors Liaison e progetti speciali, miart 2019, Milano (On Demand); Hugo Macdonald, critico del design e giornalista, Londra (Object). Nessuna fiera è completa senza il consueto panel di incontri e dibattiti. Il programma 2019 di miartalks segna la rinnovata

Gilberto Zorio, Stella, 1980, cuoio su pelle nera, cm.90x125 courtesy Poggiali, Firenze/Milano/Pietrasanta

APRILE/MAGGIO 2019 | 272 segno - 9


GALLERIA RAFFAELLA CORTESE

miart

5 – 7 ap preview

Pad.3 Stand B12

Anna Maria Maiolino, Na Horizontal [On the Horizontal], 2014 Base in metallo con ceramiche raku e filo di rame ricoperto, 240 × 120 × 20 cm Courtesy dell’ Artista e Galleria Raffaella Cortese, Milano. Foto Lorenzo Palmieri

20129, Milano - Italy t +39 02 2043555 f +39 02 29533590 galleria@raffaellacortese.com

Galleria Paola Verrengia

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5 – 7 aprile 2019 preview 4 aprile

Pad.3 Stand A51

Bring me Back Mrdjan Bajic

a cura di Antonello Tolve fiera internazionale d’arte moderna e contemporanea

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Galleria Paola Verrengia | Museo Archeologico Provinciale di Salerno

dal 14 aprile al 3 giugno 2019

Galleria Paola Verrengia Via Fieravecchia, 34 - 84122 Salerno tel e fax: 089 241925 www.galleriaverrengia.it | galleriaverrengia@gmail.com

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Espositori 10 A.M. Art, Milano; A Arte Invernizzi, Milano; Acappella,

Horst P. Horst, Muriel Maxwell, Ensemble by Sally Victor, Bag by Paul Flato, Sunglases by Lugene, 1939, stampa a pigmenti d’archivio su carta Hahnemnuehle courtesy Paci Contemporary, Brescia

collaborazione con la casa di produzione cinematografica In Between Art Film, nata nel 2012 con lo scopo di incoraggiare lo scambio tra i diversi linguaggi artistici del nostro tempo. Nelle 3 giornate di apertura, oltre 40 tra artisti, curatori, collezionisti, designer, direttori di musei e pensatori internazionali si confrontano attorno a un tema unificante che è Il bene comune, concetto esplorato nelle sue molteplici declinazioni. Decisamente variegato il capitolo dedicato a premi e acquisizioni, a cominciare dal Fondo di Acquisizione di Fondazione Fiera Milano che va a implementare la collezione della Fondazione per un valore di 100.000 euro. Giunto alla sua quinta edizione, il Premio Herno conferma il riconoscimento assegnato allo stand con il miglior progetto espositivo. Nato dalla collaborazione tra miart e Fidenza Village, l’omonimo premio celebra la sua terza edizione e assegna un riconoscimento al miglior dialogo all’interno della sezione Generations, affidando la decisione a Magnus af Petersens, Bonniers Konsthall, Stoccolma, Cristiano Raimondi, Nouveau Musée National de Monaco e Reinhard Spieler, Sprengel Museum, Hannover. Per la terza edizione, miart e l’associazione di produzioni sperimentali Snaporazverein assicurano alla migliore presentazione all’interno della sezione On Demand il sostegno economico a un progetto futuro dell’artista premiato; in giuria Leevi Haapala, KIASMA - Museum of Contemporary Art, Helsinki, Vincent Honoré, MoCo, Montpellier Contemporain e Alice Motard, CAPC - musée d’art contemporain de Bordeaux. Il premio LCA Prize for Emergent, destinato alla galleria con la migliore presentazione all’interno della sezione Emergent, è assegnato da Sarah McCrory, Goldsmiths CCA, Londra, François Quintin, Lafayette Anticipations, Parigi e Kathleen Reinhardt, Albertinum Dresden. Giunge, infine, alla sua XI edizione il Rotary Club Milano Brera Prize for Contemporary Art and Young Artists, primo riconoscimento nel contesto di miart, da sempre consistente nell’acquisizione di un’opera di un artista emergente o mid-career, da donarsi a un’istituzione museale milanese. In giuria Laura Cherubini, curatrice e titolare della cattedra di Storia dell’Arte Contemporanea, Accademia di Belle Arti di Brera, Milano; Christian Marinotti, editore e docente di Storia dell’Arte nel corso di Laurea in Progettazione dell’architettura, Politecnico di Milano (ideatore del premio); Bartolomeo Pietromarchi, Direttore di MAXXI Arte, MAXXI Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo, Roma. Cesare Leonardi, Skyline Cesenatico, 1975 (dettaglio) 24 stampe alla gelatina bromuro d’argento su compensato courtesy Galleria Verolino, Modena

Napoli; acb, Budapest; ADA, Roma; Apalazzogallery, Brescia; Alfonso Artiaco, Napoli; Enrico Astuni, Bologna; Alessandro Bagnai, Foiano della Chiana; Balcony, Lisbona; Maria Bernheim, Zurigo; Giovanni Bonelli, Milano; Alessandra Bonomo, Roma; Bortolami, New York; Isabella Bortolozzi, Berlino; Thomas Brambilla, Bergamo; C+N Canepaneri, Milano-Genova; Ca’ di Fra’, Milano; Cabinet, Londra; Campoli Presti, Londra-Parigi; Car Drde, Bologna; Cardelli & Fontana, Sarzana; Cardi, Milano-Londra; Casoli De Luca, Roma; ChertLüdde, Berlino; Elisabetta Cipriani Wearable Art, Londra; Clearing, Bruxelles-New York-Brooklyn; Clima, Milano; Luciano Colantonio, Brescia; Conceptual, Milano; Contini Galleria d’Arte, Venezia - Cortina d’Ampezzo - Mestre; Galleria Continua, San Gimignano - Pechino - Les Moulins - L’Avana; Copetti Antiquari, Udine; Raffaella Cortese, Milano; Cortesi, Lugano - Londra - Milano; Corvi-Mora, Londra; Damien & The Love Guru, Bruxelles; Thomas Dane Gallery, Londra; Monica De Cardenas, Milano-Zuoz-Lugano; Massimo De Carlo, Milano - Londra - Hong Kong; de’ Foscherari, Bologna; Galleria Luisa Delle Piane, Milano; Dellupi Arte, Milano; Dep Art, Milano; Deweer, Otegem; Tiziana Di Caro, Napoli; Diehl, Berlino; Dimoregallery, Milano; Dvir Gallery, Bruxelles - Tel Aviv; Eastwards Prospectus, Bucarest; Edel Assanti, Londra; Eidos Immagini Contemporanee, Asti; Erastudio ApartmentGallery, Milano; Eredi Marelli, Cantù; Ex Elettrofonica, Roma; Renata Fabbri, Milano; Frediano Farsetti, Milano; Galleri Feldt, Copenhagen; Francisco Fino, Lisbona; MLF|MarieLaure Fleisch, Bruxelles; Frittelli, Firenze; Fumagalli, Milano; FuoriCampo, Siena; Galerie21, Livorno; Galeriepcp, Parigi; Galleria dello Scudo, Verona; Gallleriapiù, Bologna; Gariboldi, Milano; Felix Gaudlitz, Vienna; Gladstone Gallery, New York - Bruxelles; Galleria Gomiero, Milano; Marian Goodman Gallery, New York - Parigi - Londra; Hauser & Wirth, Hong Kong - Londra - Los Angeles-New York-SomersetSt. Moritz-Gstaad-Zurigo; Häusler Contemporary, Monaco Zurigo - Lustenau; Galerie Marc Heiremans, Anversa; Herald St, Londra; Lucas Hirsch, Düsseldor; Horizont, Budapest; Éric Hussenot, Parigi; Rodolphe Janssen, Bruxelles; Kalfayan Galleries, Atene - Salonicco; Kaufmann Repetto, Milano - New York; Peter Kilchmann, Zurigo; Andrew Kreps Gallery, New York; Matteo Lampertico, Milano; Frank Landau / Thomas Ekström, Francoforte; Gilda Lavia, Roma; Lelong & Co., Parigi - New York; Antoine Levi, Parigi; Levy.Delval, Bruxelles; Loom, Milano; Lorenzelli Arte, Milano; Federico Luger, Milano; Lulu, Città del Messico; M77, Milano; Maab, Milano - Padova; Madragoa, Lisbona; Magazzino, Roma; Maggiore G.A.M., Bologna - Parigi - Milano; Mai 36, Zurigo; Norma Mangione, Torino; Gió Marconi, Milano; Primo Marella Gallery, Milano; Martini & Ronchetti, Genova; Mazzoleni, Londra - Torino; Francesca Minini, Milano; Massimo Minini, Brescia; Monitor, Roma - Lisbona; Montrasio Arte, Monza Milano; Nome, Berlino; Office Baroque, Bruxelles; Officine dell’Immagine, Milano; Officine Saffi, Milano; Öktem Aykut, Istanbul; Open Art, Prato; Osart, Milano; Otto Gallery, Bologna; Otto Zoo, Milano; P420, Bologna; Paci Contemporary, Brescia; Galleria Pack, Milano; Francesco Pantaleone, Palermo Milano; Nicola Pedana, Caserta; Gregor Podnar, Berlino; Poggiali, Firenze - Milano - Pietrasanta; Polansky, Praga - Brno; Il Ponte, Firenze; Progettoarte-Elm, Milano; Prometeogallery, Milano - Lucca; Erica Ravenna, Roma; Allegra Ravizza, Lugano - Honolulu; RCM Galerie, Parigi; Repetto Gallery, Londra; Revolver, Lima - Buenos Aires; Anthony Reynolds, Londra; Ribot, Milano; Michela Rizzo, Venezia; Rizzutogallery, Palermo; Robilant+Voena, Londra - Milano - St. Moritz; Ronchini, Londra; Galerie Thaddaeus Ropac, Parigi - Londra - Salisburgo; Lia Rumma, Milano - Napoli; Russo, Roma; Tucci Russo, Torre Pellice; Richard Saltoun, Londra; Federica Schiavo, Milano - Roma; Mimmo Scognamiglio, Milano; Eduardo Secci, Firenze; (S)itor / Sitor Senghor, Parigi; Smac, Città del Capo - Johannesburg - Stellenbosch; Società di Belle Arti, Viareggio; Soda, Bratislava; Galleria Spazia, Bologna; SpazioA, Pistoia; Gian Enzo Sperone, Sent - New York; Sprovieri, Londra; Stems, Bruxelles - Lussemburgo; Studio d’Arte Campaiola, Roma; Studio Dabbeni, Lugano; Studio G7, Bologna; Studio Guastalla, Milano; Studio Guenzani, Milano; Studio Marconi ‘65, Milano; Studio SALES di Norberto Ruggeri, Roma; Studio Trisorio, Napoli; T293, Roma; Sophie Tappeiner, Vienna; Taste Contemporary, Ginevra; Tega, Milano; The Sunday Painter, Londra; Galleria Tonelli, Milano - Porto Cervo; Tornabuoni Arte, Firenze - Milano - Parigi - Londra; Una, Piacenza; Veda, Firenze; Galleria Antonio Verolino, Modena; Paola Verrengia, Salerno; Vin Vin, Vienna; Vistamare - Vistamarestudio, Pescara - Milano; Wilde, Ginevra - Carouge/Acacias; Hubert Winter, Vienna; Z2o Sara Zanin, Roma; Zero..., Milano. APRILE/MAGGIO 2019 | 272 segno - 11


>news istituzioni e gallerie< PALAZZO LOMBARDIA

MILANO POP Lo spazio espositivo della sede della Regione, ospita l’importan-

l Comune di Milano|Cultura e miart accompagnano la fiera con una settimana di inaugurazioni, mostre e performance estese Iall’intera città, coinvolgendo istituzioni, fondazioni, soggetti pubblici e privati. Il calendario di iniziative dedicate all’arte moderna e contemporanea è attraversato quest’anno dalle tematiche più attuali e urgenti a livello globale: dalla creatività femminile alle emergenze climatiche, dalla riscoperta di posizioni artistiche fino ai nuovi scenari della tecnologia.

PALAZZO REALE

te collettiva MILANO POP. Pop Art e dintorni nella Milano degli anni ’60/’70, che va ad approfondire un segmento di storia recente del nostro Paese, gli anni Sessanta e Settanta, attraverso una cinquantina di lavori, molti dei quali inediti, dei principali protagonisti milanesi della Pop Art, da Mario Schifano a Tano Festa, da Mimmo Rotella a Giosetta Fioroni, per concentrarsi sull’ambiente meneghino con Valerio Adami, Enrico Baj, Paolo Baratella, Gianni Bertini, Fernando De Filippi, Lucio Del Pezzo, Umberto Mariani, Silvio Pasotti, Sergio Sarri, Giangiacomo Spadari, Tino Stefanoni, Emilio Tadini. L’evento, a cura di Elena Pontiggia, si completa con un video-documentario e la mostra tematica CINEMA POP, che attraverso una trentina di lavori di Sergio Sarri e Giangiacomo Spadari, approfondisce un aspetto comune a questi due protagonisti della Pop Art milanese: l’attenzione alle modalità espressive del cinema come spunto pittorico. Fino al 29 maggio.

De/coding La mostra De/coding, Alcantara nelle sale degli arazzi, a cura

di Domitilla Dardi e Angela Rui, esplora le qualità di Alcantara come materiale per l’arte e il design. Gli arazzi esposti raccontano episodi delle Metamorfosi di Ovidio, momenti in cui appare in evidenza l’eterno divenire e trasmutarsi di dei, uomini e cose, illustrando il processo di decodifica inteso come trasformazione di un determinato sistema di segni in base al mutare del supporto. Opere site specific di Constance Guisset, Qu Lei Lei, Sabine Marcelis, Space Popular. Fino al 12 maggio.

FONDAZIONE STELLINE

L’ultima cena dopo Leonardo In occasione dei 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci, la

Fondazione ha ideato e realizzato una esposizione che prevede la presenza di sei figure chiave della scena artistica contemporanea: Anish Kapoor, Robert Longo, Masbedo, Nicola Samorì, Wang Guangyi, Yue Minjun. La mostra, a cura di Demetrio Paparoni, offre una rilettura del tema dell’Ultima Cena, a partire dal dipinto di Leonardo, in un originale dialogo tra oriente e occidente. Come spiega il curatore: Kapoor incarna lo spirito leonardesco, incentrando la propria ricerca sul rapporto tra arte e scienza; Longo ha ridefinito in chiave attuale una rilettura dei capolavori del passato, facendone espressione del presente; Samorì affronta la narrazione di opere classiche, caricandole di nuovi significati; i Masbedo focalizzano l’attenzione sulle mani della restauratrice che ha salvato l’opera leonardesca; Yue Minjun indaga il tema della confusione della mente attraverso l’impenetrabilità dell’immagine sacra; Wang Guangyi, sovrappone l’iconografia leonardesca al paesaggio e alla tecnica pittorica tradizionale cinese del Wu Lou Hen. Fino al 30 giugno.

Giangiacomo Spadari, Metropolitana, 1973 acrilico su tela, cm.100x100, foto Bruno Bani Ibrahim Mahama, Silence between the lines, Ahenema Kokoben, Kumasi, 2015 Kumasi, Ghana, veduta dell’installazione, courtesy l’artista

FONDAZIONE NICOLA TRUSSARDI

Ibrahim Mahama Appositamente concepita per i due caselli daziari di Porta Venezia Nicola Samorì, L’Ultima Cena (Interno assoluto), 2019, olio e zolfo su rame courtesy l’artista e Fondazione Stelline, Milano Yue Minjun, Digitalized survival, 2019, acrilico su tela, cm.190x346 courtesy l’artista e Fondazione Stelline, Milano

dall’artista ghanese, l’imponente installazione dal titolo A Friend è una commissione speciale della Fondazione Trussardi a cura di Massimiliano Gioni. Sacchi di juta avvolgono i caselli neoclassici, creando una seconda pelle che conferisce ai due edifici una nuova identità, portandoci a guardarli non più come monumenti, ma alla luce della loro origine storica e della loro funzione simbolica ed economica come luogo di scambio commerciale.

FONDAZIONE ADOLFO PINI

Carlos Amorales Con la curatela di Gabi Scardi, la Fondazione Pini presenta L’ora

dannata, esposizione in cui l’artista messicano centra l’attenzione sul proprio paese, ma nello stesso tempo ci parla di discrepanze e tensioni estremamente attuali in tutto il mondo. La mostra è incentrata sull’installazione di dimensioni ambientali Black Cloud e su diversi elementi del progetto Life in the folds, ma comprende anche silhouettes e altre opere dell’artista, in un continuo slittamento tra immagini e segni. Fino all’8 luglio. 12 - segno 272 | APRILE/MAGGIO 2019


>news istituzioni e gallerie<

Altre mostre a Milano Renata Boero FONDAZIONE ARNALDO POMODORO Kromo-Kronos è il titolo della mostra che, con la curatela di Anna Daneri e Iolanda Ratti, propone una rilettura critica del lavoro Sophia Al-Maria dell’artista mettendo in relazione la sua produzione storica con La Fondazione apre il nuovo ciclo di Project Room affidato alla MUSEO DEL NOVECENTO

quella più recente. L’artista genovese con base a Milano propone una selezione pressoché inedita di Cromogrammi, opere su tela realizzate sperimentando l’interazione di pigmenti naturali ed elementi organici, prodotti a cavallo tra anni ’60 e ’70. In questi lavori, che trovano nella monumentalità e nella processualità su grande scala la propria compiutezza, è possibile osservare la congiunzione tra due aspetti fondamentali della ricerca di Renata Boero: la manualità e la materia. Fino al 23 giugno.

guest curator Cloé Perrone, con Project Room #10. Sophia AlMaria. Mirror Cookie, primo dei tre appuntamenti previsti per il 2019 (a seguire Caroline Mesquita e Rebecca Ackroyd). L’artista qataro-americana propone un’installazione composta da un video (co-prodotto da Project Native Informant, London e Anna Lena Films), proiettato su uno schermo appoggiato su un boudoir, immerso in una stanza circondata da specchi, la cui ispirazione di partenza è il blog dell’attrice Bai Ling. Fino al 31 maggio.

Renata Boero, Museo del Novecento

GALLERIE D’ITALIA - PIAZZA DELLA SCALA

Prospettiva Arte Contemporanea Prospettiva Arte Contemporanea. La Collezione di Fondazione Fie-

ra Milano è una mostra organizzata congiuntamente e Fondazione Fiera Milano e Intesa Sanpaolo (main partner di miart). 43 i lavori in esposizione, dislocate secondo un percorso allestito dall’architetto Andrea Anastasio, che si snoda come all’interno di una domus immaginaria, un susseguirsi di stanze e rientranze che rivelano e, al tempo stesso, proteggono le opere. Gli artisti in mostra: Arancio, Anelli, Blank, Bonvicini, Büttner, Camoni, Carmi, Crespo, Dadamaino, Dalfino/Kanah, Divola, gabellone, Gagliardi, Icaro, Kasten, Kelm, Kogelnik, Krebber, Lassry, Lempert, Macuga, Marcon, Mauss, Merz, Monterastelli, Mulican, Papp, Party, Perrone, Pessoli, Rødlan, Schabus, Schinwald, Schneider, Stezaker, Thorel, von Brandenburg. La collezione nella sua interezza si trova nella storica Palazzina degli Orafi. Fino al 7 maggio. Giuseppe Gabellone, Senza titolo (Fiori), 2002, stampa fotografica a colori, ed.5/5, cm.210x150, collezione Fondazione Fiera Milano, courtesy Rino Carraro

Sophia Al-Maria, Mirror Cookie, 2018, dettaglio dell’allestimento ad Art Basel, Hong Kong, courtesy l’artista, Anna Lena Films, Project Native Informant, Londra Tony Oursler, Le volcan, 2015-2016, still da video, courtesy Dep Art Gallery, Milano

DEP ART GALLERY

Tony Oursler Figura pionieristica nell’ambito dei nuovi mezzi di comunicazione

a partire dagli anni Settanta, Oursler modi diversi per incorporare la tecnica del video nella propria pratica artistica, portando il video fuori dalla bidimensionalità dello schermo. La mostra da Dep Art Gallery, dal titolo The Volcano and Poetics Tattoo, curata da Demetrio Paparoni, propone lavori recenti dell’artista statunitense che, mai soddisfatto delle tradizionali modalità di produzione e presentazione dell’immagine in movimento, adotta, tre differenti approcci: il video in 3D Le Volcan (2015-2016), l’installazione in realtà virtuale Spacemen R My Friended (2016), la video installazione Lapsed C con lo schermo foto-luminescente di Poetics Tattoo (1977-2017). “Nei lavori esposti - scrive Paparoni in catalogo - Oursler prosegue la sua ricerca sul rapporto tra psiche e tecnologia, indagando la necessità dell’essere umano di dare risposte a eventi percepiti come misteriosi. Evidenzia così come gli uomini non si accontentino mai delle sole spiegazioni scientifiche, manifestando una forte attrazione per tutto quello che non riescono a spiegarsi.”. Fino al 1 giugno.

GALLERIA MONOPOLI

bn+ (Brinanovara) Il duo bn+, formato nel 2017 da Giorgio Brina e Simone Novara

presenta la mostra Animal Farm, a cura di Valentina Muzi. Lo sviluppo creativo, al tempo stesso narrativo e compositivo, gioca su un principio binario: il focus è posto sui “trofei”, da un lato coperti dalla foglia di fico della conoscenza e dello studio accademico, dall’altro frutto puro e semplice di gesto puramente umano portatore di morte e violenza. APRILE/MAGGIO 2019 | 272 segno - 13


Tutto quello che ho fatto, pensato e ascoltato l’ho dimenticato a memoria ... V.A.

VINCENZO AGNETTI “MEMORIA E DIMENTICANZA”

@ ARCHIVIO VINCENZO AGNETTI - VIA MACHIAVELLI 30 MILANO

5 APRILE h. 18.00-21.00 VERNISSAGE E PRESENTAZIONE DEL VOLUME ARCHIVIO 04 Dal 1 al 4 Aprile & dal 6 al 7 aprile h.10.30-19.00 , Visite su appuntamento dal 8 Aprile

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>news istituzioni e gallerie< GALLERIA FUMAGALLI - PALAZZO BORROMEO

Armellin / Bosco La doppia personale, dal titolo IN | ORIGINE, offre un’esperienza

Antonio Paradiso, L’Ultima Cena Contemporanea, 2011 veduta delle installazioni al Parco Sculture La Palomba, Matera, courtesy l’artista

visiva sul tema del principio, sia come formazione e sedimentazione della materia naturale sia come archetipo o forma del pensiero e dell’immaginario umano. Filippo Armellin realizza immagini di luoghi desertici, spazi atemporali resi al tempo stesso fittizi e reali grazie alla loro natura fotografica. Mattia Bosco ricerca l’origine esplorando i confini del tangibile e gli spazi che superano i limiti del reale, trovando nella pietra il segno di questo principio. Fino al 20 luglio. Bosco è anche protagonista, fino al 26 luglio, della mostra Il tempo è un bambino che gioca, nelle sale di Palazzo Borromeo. L’artista interviene sugli spazi a partire dalla suggestione del luogo, in particolare nella stanza dei Giochi, che conserva gli affreschi eseguiti verso la metà del 1400 dal Maestro dei Giochi Borromeo, nella stanza gemella de La raccolta della Frutta, quasi del tutto distrutta con i bombardamenti del ’43, e nel cortile del palazzo.

UNIVERSITÀ CATTOLICA

Antonio Paradiso La mostra dedicata allo scultore celebra la relazione attiva con

Matera e, diversamente, con Milano e l’Università Cattolica. Il tema del volo, centrale nelle opere esposte, richiama universalmente i significati di pace e libertà e prende le mosse da quell’originale racconto dell’Arca di Noè nella Sacra Scrittura, quando finito il diluvio, il patriarca liberò prima una corvo, poi una colomba che tornò a lui con il rametto d’olivo nel becco. Tutte le sculture esposte, ad eccezione di Ascension for Our Time, appartengono al ciclo del “Volo” e interpretano potenza e armonia dell’animale, ma soprattutto il segreto bisogno di libertà che esso esprime. Ascension for Our Time, già acquisita dalla università (2016), appartiene al ciclo eseguito da Paradiso tra il 2010 e il 2011 ed è realizzata unendo all’acciaio corten alcune putrelle contorte provenienti dalle Torri Gemelle di New York. Ripiegate su se stesse, fuse e arrugginite, le putrelle, segno tangibile e muto di morte, grazie all’intervento artistico, sono tornate ad avere un ruolo fondante. (a cura di Cecilia De Carli, Elena Di Raddo).

Filippo Armellin, Mattia Bosco, Metamorfosi, 2019, courtesy Fumagalli, Milano Alberto Di Fabio, Corpo Astrale Corpo Fisico, 2015 acrilico su tela, cm.200x130 courtesy l’artista e Gaggenau, Milano

MONICA DE CARDENAS

Ivan Seal La ricerca di Seal, un insieme di forme e visioni al limite tra il reale e l’onirico, atmosfere che appaiono come sogni interrotti, dipinti che sembrano pervasi da luce aliena, protagonista fino all’11 maggio di una mostra che raccoglie opere realizzate tra il 2012 e il 2018. La selezione ha in seguito ispirato la creazione di nuovi dipinti che l’artista chiama “reaction paintings”, che dialogano con i primi in una dinamica della creazione che è frutto di un’evoluzione ludica, in cui uno controlla la partenza mentre l’altro dichiara la fine. Alcuni soggetti degli anni passati fanno riferimento a personaggi della Commedia dell’Arte, altri a vasi di fiori stilizzati o rocce. I dipinti recenti in alcuni casi citano queste immagini, trasformandole in forme più astratte e dinamiche, con connotazioni diverse, talvolta comiche.

GAGGENAU

Alberto Di Fabio Nell’ambito di In-Material, progetto ideato dal direttore artisti-

co di CRAMUM, Sabino Maria Frassà, per indagare l’incessante sforzo degli artisti nel rappresentare la parte immateriale dell’esistenza, la mostra Trascendenza, personale di Di Fabio. Il percorso si sviluppa tra opere provenienti dalla sua collezione personale che riflettono e indagano il legame tra materia e immaterialità.

Ivan Seal, von, 2018, olio su tela, cm.60×48, courtesy Monica De cardenas, Milano

Andrea Mastrovito, BABEL (Work in progress), 2019 courtesy l’artista e Assab One, Milano

ASSAB ONE

Branzi/Maki/Mastrovito Terza edizione di 1+1+1, format espositivo ideato da Elena Quarestani e Marco Sammicheli che indaga le relazioni tra arte, architettura e design nella pratica di tre autori. L’architetto Andrea Branzi, la textile designer Chiaki Maki e l’artista Andrea Mastrovito sono stati invitati a realizzare installazioni e lavori site specific negli spazi di Assab One. Fino al 5 maggio. APRILE/MAGGIO 2019 | 272 segno - 15


>news istituzioni e gallerie<

Mostre in Italia Vittorio Corsini Inedita collaborazione, a cura di Marco Scotini, tra una galleria ANCONA GALLERIA FREDIANO FARSETTI - ARTE IN FABBRICA

storicamente votata all’arte dei maestri del XX secolo e un nuovo spazio culturale, Arte in Fabbrica (di Gori Tessuti), che nasce all’interno di un contesto industriale di altrettanto lungo corso. Protagonista Corsini che propone Unstable alla Galleria Farsetti (fino all’11 maggio), dove interviene sull’ingresso “cancellandolo” e apponendo un cartello che prelude in qualche modo a un cambiamento; mentre con Environments nello spazio Arte in Fabbrica (Calenzano, Firenze, fino al 30 settembre), le opere diventano metafora di un rapporto tra l’individuo e il mondo, tra lo spazio privato e quello condiviso, tra quello domestico e quello sociale: dalle mappe sospese in acciaio ai grandi quadri a olio.

Patrick Tuttofuoco

In occasione dell’inaugurazione del Museo Premio Ermanno Casoli 1998-2007, il Complesso monumentale di Santa Lucia a
Serra San Quirico presenta The Relay, grande installazione luminosa creata da Patrick Tuttofuoco per il Premio Ermanno Casoli Edizione Speciale 20 anni. Marcello Smarrelli, direttore artistico della Fondazione ha invitato l’artista a realizzare un’installazione sitespecific per celebrare il ventennale del Premio. L’opera, installata nel corridoio di ingresso del nuovo Museo, funge da trait d’union tra la prima fase del premio e la seconda, nata nel 2007 con l’istituzione della Fondazione Ermanno Casoli.

Vittorio Corsini, Twin House, 2015, marmo, vetro, carta, grafite, cm.33x22x29 courtesy Galleria Frediano Farsetti, Milano

M77 GALLERY

Velasco Vitali Curata da Danilo Eccher, la mostra Veduta è concepita come un

unico grande progetto espositivo ed è un omaggio alla città di Milano e alla storia che intreccia tra loro i luoghi cari all’artista. Tra una grande tela, raffigurante un paesaggio alpino con Grigna e Resegone, ispirata al celebre disegno che Leonardo da Vinci esegue dal Duomo. Per l’intimo legame che passa attraverso l’acqua, il grande dipinto si rispecchia, sdoppiandosi come in una visione, in un lago artificiale realizzato appositamente negli spazi della galleria, dove il lago rappresenta il luogo in cui le riflessioni dell’artista si riflettono e amplificano la loro profondità.Il Duomo ritorna nelle tele che lo ritraggono in quattro diversi momenti della giornata: mattino, mezzogiorno, pomeriggio e notte, con una forte ispirazione da Claude Monet e la sua Cattedrale di Rouen. Fino al 25 maggio. Velasco Vitali, Veduta, 2019, dettaglio dell’allestimento, courtesy l’artista e M77 Gallery, Milano, foto Lorenzo Palmieri

Patrick Tuttofuoco, Tuttoinfinito, 2017, veduta dell’esposizione courtesy OGR Torino e Federica Schiavo Gallery

Biennale Arteinsieme

Al Museo Tattile Statale Omero, approda alla usuale mostra primaverile l’VIII edizione della Biennale Arteinsieme con circa 200 scuole iscritte al concorso Arti visive. Testimonial Rabarama, alla cui poetica si sono ispirati i giovani artisti i cui lavori sono stati selezionati.

BOLOGNA

Giulio Turcato

Alla Galleria Spazia personale di Turcato con poche ma significative opere dell’artista. C’è una particolare attenzione a sue cinque gommepiume, che offrono un punto di lettura alla questione di un problema pittorico: le superfici. Nel caso delle Superfici lunari, infatti, la struttura non viene riprodotta dalla vernice sul mezzo, ma fornita direttamente dalla gommapiuma (i cui famosi crateri venivano creati spegnendoci sopra delle sigarette). Rivelando così la materia, si trasmette una certa profondità, diversa da quella della prospettiva dipinta. Gli artisti nel corso dei secoli hanno lavorato duramente per eliminare i segni delle pennellate e coprirne il supporto: paradossalmente, enfatizzando la superficie, si porta anche la massa “in superficie”. Altre opere esposte rispecchiano il clima della pittura informale degli anni Cinquanta e Sessanta. Finissage 4 maggio. Giulio Turcato, Superficie lunare, 1968, cm.105x117 (diam. 90) assemblage, olio e tecnica mista su gommapiuma, courtesy Spazia, Bologna

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>news istituzioni e gallerie< BOLZANO

FOLIGNO

Si intitola Performing nature la mostra concepita dall’artista come unica installazione che coinvolge e trasforma gli spazi della Galleria Antonella Cattani. I lavori in esposizione, al limite fra scultura e installazione sfruttano materiali organici e seguono un processo di trasformazione che prevede l’impiego di resine e smalti. Con Esercizi di botanica l’artista propone microtavole in gesso che, ordinate in sequenza alle pareti, sembrano custodire non solo l’immagine ma soprattutto le sensazioni scaturite dall’osservazione della natura nei suoi particolari. Fino al 30 aprile.

Il CIAC Centro Italiano Arte Contemporanea presenta, fino al 13 ottobre, Il corpo del disegno, mostra antologica dedicata al maestro del disegno italiano. L’esposizione, a cura di Italo Tomassoni, ripercorre la produzione dell’artista, dagli anni Settanta ad oggi, attraverso il dipanarsi del disegno, linguaggio d’elezione ed elemento fondante della sua poetica, utilizzato anche per opere a carattere monumentale. Il progetto è arricchito da un intervento site-specific di Galliani che, nel corso della mostra, traccia sulla parete principale del museo una figura femminile, ideale collegamento tra le grandi tavole al cuore dell’esposizione.

Paolo Buzzi

Omar Galliani

LECCO

Kolář / Casiraghy

La Galleria Melesi ospita la mostra Assonanze allo specchio, a cura di Giovanna Canzi, dedicata a due artisti Jirí Kolár e Alberto Casiraghy che, se pur distanti temporalmente e geograficamente, hanno dato vita a un repertorio poetico e artistico ricco di assonanze e rime interne, accomunati oltretutto dallo spirito giocoso, dall’ironia lieve. La mostra, curata da Giovanna Canzi, presenta 20 opere di Kolár e 30 disegni inediti di Alberto Casiraghy, poeta, ex liutaio, violinista, editore. Fino al 30 aprile.

NAPOLI

Jan Fabre Paolo Buzzi, Performing nature, veduta della mostra courtesy Antonella Cattani contemporary art, Bolzano

FAENZA

Miquel Barceló

Fino al 6 ottobre, il Museo Internazionale delle Ceramiche dedica una grande personale a Barceló. Il tempo è un fiume che mi trascina, e io sono il fiume è la prima antologica assoluta in Italia per l’artista spagnolo, dedicata alla sua produzione ceramica. A cura di Irene Biolchini e Cécile Pocheau Lesteve, il progetto espositivo si completa con un progetto speciale realizzato dall’artista appositamente per il MIC, in dialogo con le opere della storia della ceramica esposte nel più grande museo al mondo dedicato a questo linguaggio. Fino al 6 ottobre.

Allo Studio Trisorio, Omaggio a Hieronymus Bosch in Congo, esposizione a cura di Melania Rossi e Laura Trisorio che è parte del progetto Jan Fabre. Oro Rosso con cui l’artista belga torna a Napoli coinvolgendo, oltre la galleria, istituzioni come il Museo di Capodimonte, la Cappella del Pio Monte della Misericordia, il Museo Madre. In esposizione una selezione di opere realizzate con corazze di scarabei iridescenti, tre nuove sculture e due grandi trittici di cinque metri ispirati alla triste e violenta storia della colonizzazione del Congo belga. Fino al 30 settembre.

Giuseppe Pirozzi

Primo progetto espositivo allestito a cura di Franco Riccardo nei nuovi spazi Fideuram della Riviera di Chiaia, Scultura minima presenta una selezione di lavori di Pirozzi: circa quaranta opere in bronzo e in terracotta, realizzate a partire dagli anni Ottanta, che delineano alcuni momenti sa-lienti del segmento più recente del lungo percorso artistico dello scultore. Fino al 10 settembre.

Miquel Barceló, Retrat de familia, 2014, terracotta e smalti, cm.71x122,5x45 courtesy Archivio Miquel Barceló, foto Augustì Torres

FIRENZE

Collezione Casamonti

Completamente rinnovata e allestita al Piano Nobile di Palazzo Bartolini Salimbeni, si offre al pubblico la collezione raccolta nell’arco di 40 anni dal noto gallerista fiorentino. Dall’Arte Povera con Penone, Ceroli, Zorio, Merz, Pistoletto, Kounellis, Gilardi, Boetti, Calzolari, Pascali, all’Arte Cinetica o Programmata di Biasi, Colombo e Bury; Agnetti e Paolini per l’Arte Concettuale. Per il Nouveau Réalisme Cesar, Arman, Spoerri, Klein, Hains, mentre Nam June Paik e Chiari testimoniano il movimento Fluxus. La Scuola di Piazza del Popolo con Schifano, Angeli, Festa, Tacchi, Mambor e Lombardo; la Land Art con Long e Christo; il New Dada con Rauschenberg e Dine. Gilbert&George, Ontani, Abramovic, Beecroft interpretano la Body Art, opere affiancate dal video di Viola; mentre per la Pop e Graffiti Art ci sono Warhol, Haring e Basquiat. La Transavanguardia è documentato da Paladino, Clemente, De Maria e Chia. E poi tanti altri, da Melotti, Pomodoro, De Dominicis, Parmiggiani, Adami, Marca-relli, Uncini, Cattelan, Isgrò, ai grandi dell’arte internazionale come Mirò, Tàpies, Uecker, Kiefer, Kapoor, Cragg.

Giuseppe Pirozzi, Instabile, 2018, terracotta ingobbiata e ferro courtesy l’artista e Franco Riccardo artivisive, Napoli

NUORO

Maliheh Afnan

Importante retrospettiva al Museo MAN sull’artista franco-palestinese il cui lavoro riflette la storia e le turbolenze del Medio Oriente. Sue opere sono state esposte in gallerie di tutto il mondo, e rientrano in collezioni come il British Museum, Institut du Monde Arabe a Parigi e Metropolitan Museum di New York. La mostra Personnages è curata da Luigi Fassi. Fino al 9 giugno. APRILE/MAGGIO 2019 | 272 segno - 17


PITTURA ITALIANA

dall’Informale alla Pittura Analitica 3 Aprile – 7 Giugno 2019 Four Partners Advisory Milano, Via Senato 12 Four Partners Advisory ospita presso la propria sede una collezione di opere di arte italiana della seconda metà del ‘900 curata dalla prestigiosa galleria Valmore studio d’arte. L’esposizione prevede un itinerario attraverso alcune delle più importanti tendenze dell’arte italiana della seconda metà del ‘900, a partire dal dopoguerra fino alla fine del secolo. Il percorso parte dalla Pittura Informale (anni ‘40) e dal suo sbocco nel Movimento Spaziale, per arrivare alla Pittura Analitica (anni ‘70) nata proprio in contrapposizione all’Informale. Nel 1946 Vedova è tra i fondatori della Nuova Secessione Italiana, poi Fronte Nuovo delle Arti, dando vita a una pittura informale e gestuale. Contemporaneamente, a Buenos Aires, Lucio Fontana scrive il Manifiesto Blanco al quale, nel 1947, segue il Primo Manifesto Italiano che promuove la corrente dello Spazialismo. A seguito della rivoluzione culturale del ‘68, critici e artisti negano la validità della pittura intesa come espressione del sentimento e auspicano un nuovo fare artistico che esprime la sua tensione al rinnovamento attraverso un atto di autoriflessione. Filiberto Menna definisce questo fenomeno “Nuova Pittura” in quanto presuppone da parte dell’artista una progettualità in opposizione alla precedente totale libertà dell’Informale. Nel 1975 Menna ufficializza il suo pensiero pubblicando “La linea analitica dell’arte moderna”, testo di riferimento per questa linea di ricerca che, recepita a livello transnazionale, viene denominata Pittura Analitica.

ARTISTI PRESENTATI Fronte Nuovo delle Arti: Emilio Vedova Spazialismo: Edmondo Bacci, Bruno De Toffoli, Ennio Finzi, Lucio Fontana, Luciano Gaspari, Bruna Gasparini, Riccardo Licata, Gino Morandis, Saverio Rampin Pittura Analitica: Eros Bonamini, Enzo Cacciola, Paolo Cotani, Antonio D’Agostino, Giorgio Griffa, Riccardo Guarneri, Elio Marchegiani, Carmengloria Morales, Claudio Verna, Gianfranco Zappettini

per informazioni Valmore studio d’arte, tel. +39 0444 322557 | 0444 881638 info@valmore.it - www.valmore.it Four Partners, tel: 02 36594500


>news istituzioni e gallerie< TARANTO

Carlo Lorenzetti

Il CRAC Puglia-Centro di Ricerca Arte Contemporanea, in collaborazione con Mysterium Festival, propone la personale di Lorenzetti dal titolo Piegare la luce, a cura di Roberto Lacarbonara. A pochi mesi dall’antologica nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, i circa trent’anni di produzione dell’artista sono qui ripercorsi attraverso una selezione di disegni, collage, rilievi metallici, graffiti e sculture, insieme fragili e spirituali, simili a icone dotate di sacralità e mistero, dalle forme dinamiche e le superfici riflettenti. Fino al 12 maggio.

Christoph Weber, Not yet titled, 2014, cemento, acciaio, cm.33x64x60 courtesy Galleria Anna Marra, Roma

ROMA

Novello / Weber

Galleria Anna Marra presenta la doppia personale di Maria Elisabetta Novello e Christoph Weber. La mostra Fragile. Earth And Sky, Handle With Care, a cura di Giorgia Gastaldon, mette così in dialogo due artisti non soliti lavorare materiali scultorei tradizionali. Le fratture nel cemento di Weber si accostano alla cenere di Novello. Fino al 4 maggio.

Helen Frankenthaler

La sede capitolina di Gagosian propone Sea Change: A decade of paintings, 1974-1983, esposizione di dipinti dell’artista americana a cura di John Elderfield. In mostra dodici tele dipinte tra il 1974 e il 1983 fortemente influenzate dagli ampi panorami e dal movimento delle maree di questi nuovi paesaggi. Fino al 19 luglio.

Lili Dujourie, Christiane Löhr, courtesy Tucci Russo, Torre Pellice (to)

Carlo Lorenzetti, Rilievo-Collage, 1999, courtesy l’artista

TORINO

Stefano Cagol, Evoke Provoke (the border), 2011, video HD, 20’, courtesy l’artista

Dujourie / Löhr

Tucci Russo-Studio per l’Arte contemporanea ospita a Torre Pellice una doppia personale. Da una parte protagonista l’artista fiamminga Lili Dujourie, dall’altra la tedesca Christiane Löhr, con una mostra dal titolo In Folge. Fino al 28 luglio.

Informale

Il Castello di Miradolo, a San Secondo di Pinerolo (to), ospita una mostra dedicata al tema dell’informale nell’arte internazionale. L’esposizione dal titolo Informale. Da Burri a Dubuffet, da Jorn a Fontana è curata da Francesco Poli e conta oltre 60 opere. Fino al 14 luglio. Karel Appel, 1962, courtesy Karel Appel Foundation

VARESE - GALLARATE

Cagol / Planète / Bravi

Il MA*GA presenta tre mostre che esplorano vari aspetti dell’orizzonte creativo contemporaneo. La prima è Iperoggetto, curata da Alessandro Castiglioni, che presenta grandi videoinstallazioni, opere fotografiche e scultoree di Stefano Cagol. Il titolo fa riferimento alla teoria del filosofo inglese Timothy Morton, secondo cui “gli Iperoggetti sono entità diffusamente distribuite nello spazio e nel tempo che ci obbligano a riconsiderare le idee fondamentali che ci siamo fatti su ciò che significa esistere, su cos’è la Terra, su cos’è la società.”. Fino al 15 settembre. La mostra Planète, curata da Vittoria Broggini, approfondisce il percorso sperimentale e critico sul medium cinematografico sviluppato negli anni Sessanta in Italia da Gianfranco Brebbia, Marinella Pirelli, Bruno Munari e Marcello Piccardo, mettendo in luce le connessioni tra la produzione dei quattro protagonisti che si trovano negli anni Sessanta a operare in un territorio attiguo, inseriti nel tessuto culturale attivo tra Varese, Milano e Como. Fino al 5 maggio. Si ricorda, infine, la figura di Giannetto Bravi (1938-2013) con una mostra che ricostruisce le tappe più significative della sua complessa attività artistica, dalle iniziali opere astratto-geometriche alla ricerca metodica e concettuale della maturità, il tutto attraverso trenta opere giunte nelle collezioni del MA*GA grazie alla recente donazione di Laura Bonato, moglie dell’artista. APRILE/MAGGIO 2019 | 272 segno - 19


ANTONIO PATRINO

13-28 aprile 2019

Polo Museale Santo Spirito Via Santo Spirito 77 - Lanciano (Ch) Comune di Lanciano

rischio magico


Anni ’90 rapporto tra l’arte e il mondo

Angelo Barone Fausto Bertasa Luigi Carboni Daniela De Lorenzo Gabriele Di Matteo Carlo Guaita Marco Mazzucconi

Dal 9 Marzo 2019 al 20 Aprile 2019

Galleria Vigato Via Ghilini 30 – 15121 Alessandria www.studiovigato.com info@studiovigato.com tel: 0131 444190 | 392 9022843


June 13 – 16, 2019 Photograph taken at Museum Tinguely, Basel


6 1 – 0 1 E N JU 9 1 0 2 NING C OPE I L B U P AY, MOND10, 6–9 PM JUNE

AY TO M TUESDDAY, 1–9 P R U M SAT AY, 1–6 P SUND

5 WEG 1 BURG ASEL 4058 B ERLAND SWITZ. LISTE.CH WWW

ER PARTN MAIN 1997 SINCE ZWILLER S E. GUTBANQUIER & CIE, BASEL


Conversazione con Ravi Agarwal In occasione della mostra Ecologies of loss curata da Marco Scotini presso il PAV di Torino, Martina Matteucci incontra Ravi Agarwal. L’artista, attraverso una pratica interdisciplinare, riflette sulla relazione tra ecologia e capitale e dichiara la necessità di ridefinire il rapporto uomo-natura

E

cologies of loss è la tua prima personale in Italia. È centrale il tema della perdita in relazione ai cambiamenti dell’ambiente. Che tipo di perdita stiamo vivendo oggi? - Oggi tutto sta diventando globale e la dimensione locale si sta perdendo completamente. L’ecologia per me è prodotta nel locale, è una catena che si rompe con la scomparsa di comunità, cultura e cibo legati al territorio. Per questo penso che far rivivere il locale sia un buon modo per contrastare il globale.

- Il fiume nei tuoi lavori è legato a questa perdita ed è spesso protagonista - Il fiume è un flusso d’acqua, è uno dei pochi posti in cui è possibile ottenere acqua dolce sul pianeta ed è abitato da molte forme di vita. Ma è anche legato a una idea culturale, in India per esempio rimanda a Dio. Oggi pensiamo al fiume solo in termini scientifici e così perdiamo tutti gli altri livelli di complessità nella sua lettura. È quasi come se riducessimo la vita a una semplice risorsa materiale, ma in realtà la vita è qualcosa di molto più complesso e intenso. - In Alien Waters immortali il fiume Yamuna, importantissimo ma allo stesso tempo sempre più inquinato. Come vedi il rapporto tra uomo e modernità? Il progresso è in grado di rispondere alla domanda ecologica?

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- - Questo problema ha alla base la gerarchizzazione sociale. Il fiume è inquinato anche perchè in India si classificano come pure o inquinate persino le diverse classi sociali: se sei in basso sei sporco. Dunque il problema non è solo fisico, è anche sociale ed è legato a un potere. Tutti dovrebbero essere uguali e ugualmente rispettati. Non dovremmo permettere interventi che abbattano il locale, ma promuovere politiche sostenibili. Parlando di gerarchia sociale, penso anche al tuo lavoro Else all will be still - - Si, qui parlo della gerarchia in relazione all’attività della pesca. Parlo di quei pescatori che non hanno motori sulle proprie barche e quindi riescono a percorrere meno chilometri nell’arco della giornata. Per loro però la pesca è una fonte di sostentamento. Quindi mi chiedo: la tecnologia crea più disparità perché non è accessibile a tutti? Qual è la relazione tra democrazia, capitalismo e modernità? Il capitalismo come sappiamo ha creato molta discriminazione: in India l’1% della popolazione possiede il 58% della ricchezza e questo è vero anche a livello globale. Non stiamo creando un mondo migliore, stiamo diventando un mondo più iniquo. - Hai parlato di “personal ecology”, cosa intendi? - Penso che dovremmo riflettere su chi siamo in relazione al mondo. Noi pensiamo che la natura sia là fuori, altro da noi,


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Nelle immagini, Ecologies of Loss, esposizione personale di Ravi Agarwal con alcune installazioni della mostra al PAV Parco Arte Vivente, Torino, 2019. Courtesy PAV.

ma in realtà siamo due realtà interdipendenti. Dunque qual è lo spazio personale e quale quello ecologico? È importante essere più consapevoli delle nostre azioni, del sé, mentre invece ci concentriamo solo sulle politiche legate al mondo. - L’acqua dovrebbe essere un bene comune, un diritto umano. Oggi è diventata una merce privatizzata e la natura stessa è stata colonizzata e istituzionalizzata dall’uomo. È possibile il superamento di una visione dualistica e antropocentrica? - Sì, spero sia possibile perché se non fosse possibile, non si prospetterebbe per noi un grande futuro. Penso che la proprietà privata distrugga i beni comuni e questo è il problema fondamentale del modo in cui abbiamo sviluppato le istituzioni e la modernità. Dobbiamo attuare un cambiamento politico, dobbiamo combattere questa battaglia. In generale penso che l’uomo si attivi davvero solo quando percepisce aria di crisi, ma in que-

sto caso sembra non abbia sentito niente, perché evidentemente non ne abbiamo parlato abbastanza. La crisi è alle porte ma non l’abbiamo riconosciuta. - Nei tuoi progetti utilizzi diversi supporti che spesso sono accompagnati dalla pubblicazione di scritti e diari, parte dei quali hai deciso di riportare anche all’interno di questa mostra. Come avvengono queste scelte e come si rapportano alla tua ricerca artistica? - Scrivo perché voglio dire certe cose in modo diverso. L’arte mi permette di esprimermi liberamente, in modo spontaneo e per questo per me è molto preziosa. Ci sono alcune questioni che mi stanno a cuore come quella del paesaggio. Cerco di contribuire alla causa ecologica con il mio lavoro, essendo un attivista. L’utilizzo di diversi linguaggi invita lo spettatore a crearsi un pensiero riguardo al mio lavoro e a interpretarlo secondo il proprio sentire. n

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OGR Oficine Grandi Riparazioni, Torino

Può l’arte prevenire gli errori? 11 opere in collettiva

O

gni epoca ha i suoi punti di forza e i suoi talloni d’Achille, ma la presa di coscienza di tali caratteristiche non è sempre immediata. Negli ambienti a luce soffusa delle OGR sembra venir meno la dimensione temporale per far incontrare situazioni, avvenimenti e culture diversi e lontani. “Cuore di Tenebra / Heart of Darkness. Può l’arte prevenire gli errori?” presenta undici opere di altrettanti artisti di proprietà di Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, tutte volte a denunciare condizioni sociali, culturali ed ambientali che hanno segnato il nostro pianeta nel passato e che continuano e continueranno ad essere argomento di dibattiti e discussione. Gli ar-

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Installation view Cuore di tenebra OGR Torino Ph. Credits Andrea Rossetti

tisti proposti, attraverso materiali e tecniche diverse, indagano tali questioni e problematiche e le propongono allo spettatore in modo da renderlo edotto di ciò che spesso non ha l’importanza che gli sarebbe dovuta. “Cabaret Crusades: The Secrets of Karbala” (2015) di Wael Shawly è un video in cui viene affrontata la tematica delle Crociate dal punto di vista degli Arabi attingendo a fonti originali per mettere in luce le dinamiche di potere e negoziazione. Anche Maria Thereza Alves rivolge lo sguardo al passato e nel mosaico “Una proposta di sincretismo (questa volta senza genocidio)” (2018) dipinge alimenti coltivati in Sicilia, ma in realtà provenienti dalle Americhe e arrivati in Europa con


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Cristoforo Colombo. Maurizio Cattelan, invece, con la sua solita vena umoristica, nella stampa “Senza titolo” (1999), in realtà ci vuole mettere di fronte ad una triste verità, ovvero la nostra assuefazione alle immagini violente, che, come sosteneva anni prima Andy Warhol, non sono nemmeno più in grado di suscitare le dovute reazioni in chi le guarda. Per quanto riguarda la dimensione futura, Pedro Neves Marques, con il film “YWY, a androide” (2017), declama e ci mette in guardia su come sarà la vita se l’utilizzo della tecnologia si intensificherà in modo crescente, fino ad arrivare ad una situazione in cui il confine tra natura ed artificio risulterà talmente labile che faremo fatica a distinguere l’una dall’altro. Il mondo rappresentato da queste opere sembra rivelare e sottolineare una chiave di lettura distopica, per convenzione lasciata nell’angolo a dichiarare la

propria presenza a chi è disposto a concederle solo le spalle. Per fortuna, al di fuori delle pareti delle OGR, non è tutto nero e c’è chi, come questo gruppo di artisti che si sono interrogati sulla capacità di prevenire gli errori da parte dell’arte. È possibile? Forse sì, forse no… Sicuramente, almeno, può aiutare a

prendere le precauzioni adatte e necessarie al fine di non commettere gli stessi del passato, esternandoli, con la speranza che raggiungano una grande fetta di pubblico, dando una mano a chi già prova a risvegliare le coscienze in altri modi. Cecilia Paccagnella.

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Jamie Diamond, 7.11.11, 2012
 da/from “I Promise to be a Good Mother” photo Mattia Balsamini, courtesy Fondazione Prada

Osservatorio Fondazione Prada, Milano

Jamie DIAMOND e Elena DORFMAN

R

itratti di famiglia in un interno, scatti rubati alla quotidianità, momenti di condivisione tra coppie o genitori e figli. Osservando attentamente ogni scatto non potrà passare inosservato un elemento perturbante della cornice famigliare immortalata: in ognuno di essi compaiono o i reborn – bambolotti dalle fattezze umane in silicone – o sex dolls a grandezza naturale, realizzate con la precisione fisionomica e anatomica. Le fotografie di Jamie Diamond (Brooklyn, 1983) ed Elena Dorfman (Boston,1965) nella mostra “Surragati.Un amore ideale”, presentano un’indagine sulle interazioni tra gli esseri umani e i loro compagni, realistici ma inanimati, guidando l’osservatore – attraverso processi di immedesimazione e pathos – in un percorso che invita ad interrogarsi sull’accezione

di amore, intimità e vita. Così se da una parte gli scatti appartenenti al progetto “Forever Mothers” (2012-2018) di Diamond eternano il desiderio di maternità di donne che “adottano” bambole realizzate a loro immagine e somiglianza, dall’altro la serie “Still Lovers” (2001-2004) di Dorfman illustra come gli uomini proiettano il loro desiderio sessuale e affettivo su bambole a grandezza naturale. In entrambi i progetti i surrogati iperrealistici abitano l’immagine in forma di esseri desiderati e idealizzati, l’amore “sintetico” diventa la massima espressione dell’appagamento individuale: desiderio sessuale, amore romantico e maternità sono realizzabili in qualsiasi momento e in maniera indipendente, senza fine. Sorge spontanea una riflessione su come la percezione dei rapporti umani, ormai catalogati come insoddisfacenti, impegnativi e troppo complicati abbiano condotto l’individuo – a cui oggi tutto pare possibile – a costruire (perché no) la propria personale “famiglia del mulino bianco” su cui riversare il proprio affetto e le proprie aspettative che non potranno mai essere deluse. Angela Faravelli

Elena Dorfman, Girlfriend 1, 2004, Girlfriend 2, 2004 da/from “Still Lovers” photo Mattia Balsamini, courtesy Fondazione Prada

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Dan Flavin, Installation view, Galleria Cardi, Milano

Cardi Gallery, Milano

Dan FLAVIN

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ntervenire attraverso la luce sullo spazio circostante per dare semplicemente la prova della sua esistenza: “It is what it is”. L’inconfondibile cifra stilistica del minimalista americano Dan Flavin (1933-1996) è presentata presso la galleria Cardi nella mostra personale – realizzata in collaborazione con l’Estate dell’artista – attraverso quattordici opere, datate tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Novanta, le quali mostrano l’evoluzione artistica delle composizioni sistematiche di lampade fluorescenti. Al piano terra accolgono il visitatore una serie di sculture composte da assemblaggi di neon bianco o dai colori estremamente tenui; la distribuzione delle opere segue linee orizzontali e verticali di un immaginario sistema di coordinate cartesiane che mappa l’intero spazio espositivo, così se su una parete prevale l’orizzontalità del “gesto luminoso” nello spazio, dall’altro si pone l’accento sullo sviluppo in altezza delle strut-

ture, fino a giungere ad una combinazione delle due componenti nell’opera Untitled (to Helen Winkler) del 1972, la quale delinea il perimetro di un quadrato. È al primo piano della galleria che però la percezione dello spazio viene ridefinita con maggiore forza ed energia; infatti le due piccole sale accolgono una serie di installazioni luminose che conferiscono colorazioni complementari all’ambiente, il quale risulta da un lato sulle tonalità del verde e dall’altro rosso e rosato. Dunque sono qui evidenti gli studi condotti dell’artista sulle interazioni dei diversi colori dello spettro luminoso e i conseguenti effetti: associando due neon verdi, posti alle estremità, con uno rosso al centro l’effetto sullo spazio darà una risultante verde che annulla ogni riverbero di luce del colore complementare. Le opere di Dan Flavin, servendosi soltanto della luce emanata dai neon di cui si compongono, generano stupore e nuove modalità di percezione dello spazio nello spettatore, guidandolo nel processo di coscienza e conoscenza del sé nello spazio, arrivando dunque alle radici e al senso più profondo dell’esistenza. Angela Faravelli

Building, Milano

Vincenzo CASTELLA

L

a mostra di Vincenzo Castella (Napoli, 1952) è un omaggio a Milano, alla città intensa nel senso proprio del termine, alla sua caratteristica intrinseca nonché unità di misura e strutturale: i palazzi. Il Contesto Urbano, cui è dedicata la maggior parte degli scatti in mostra, è accompagnato da altre due sezioni tematiche quali la Natura e il Rinascimento, cui appartengono le opere più recenti. Quella di Castella è una ricerca sulla città meneghina che prende avvio già a partire dalla fine degli anni Ottanta, quando l’artista dedica un approfondimento ai lavori in corso effettuati alla struttura dello stadio di San Siro sviluppando scatti documentali che costituiscono un’ipotesi di narrazione visiva sulla complessità del tessuto e dell’intreccio della città. Lo sguardo del fotografo è uno sguardo che osserva il cambiamento, la fotografia che ne trae è un’indagine sulla realtà, un tentativo per cercare di cogliere e comprendere ciò che sta accadendo; le vedute di Milano scattate dai grattacieli che caratterizzano lo skyline della metropoli sono immagini “sbiancate”: l’atmosfera all’orizzonte è rarefatta, le costruzioni in primo piano ben definite e dietro ad esse altri infiniti piani di rappresentazione addossati l’uno all’altro contenenti altri palazzi. La riflessione è volta al percorso di sviluppo autonomo

Vincenzo Castella, #05 Milano, 2013, C-Print, 55 x 70 cm

della città, la quale cresce e cambia il suo assetto. Diversamente le vedute di interni nel caso degli scatti dedicati agli edifici rinascimentali milanesi – quali il Cenacolo vinciano e la Chiesa di Santa Maria delle Grazie – risultano estremamente nitide e cariche di intensità, mentre per la parte relativa alla “natura da appartamento” – mediterranea e tropicale – realizzata con uno scatto a lunga esposizione restituisce un’immagine dall’atmosfera ovattata. Angela Faravelli APRILE/MAGGIO 2019 | 272 segno - 29


Castello di Rivoli, Torino

Anri SALA

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nstallazioni filmiche, cinematografiche e musicali, sculture, fotografie e disegni rappresentano la varietà di mezzi espressivi con i quali l’artista di origini albanesi e naturalizzato francese Anri Sala (Tirana, 1974), sin dagli esordi sulla scena artistica dalla metà degli anni Novanta, racconta spaccati di vita umili, disagiati, depressivi, spesso anche ordinari e banali. Premendo costantemente sulla memoria storica del passato politico del proprio paese, l’artista nel registrare fatti o attività individuali, sebbene contestualizzati a drammi più grandi e collettivi, indaga quelle fratture di realtà che, poste in relazione a contesti sociali perlopiù occidentali, si snodano in un tempo indefinito generando simultaneamente un potenziale significato che, tuttavia, resta sempre misterioso, contradditorio e insoluto. As You Go, è la mostra curata da Carolyn Christov-Bakargiev e Marcella Beccaria che vede la presenza di Anri Sala per la prima volta a Rivoli con un progetto appositamente ideato per gli spazi del terzo piano del Castello, organizzato secondo un inedito percorso con alcune tra le più significative opere filmiche dell’artista realizzate dal 2013 ad oggi. Parliamo di Ravel, Ravel del 2013, Take Over del 2017 e il recentissimo If and only if (Se e solo se) del 2018, per la prima volta e qui visibili insieme, la cui osservazione sincronica è ritmata da un inatteso, molteplice e coinvolgente flusso d’immagini in movimento, tale per cui si ha la sensazione di assistere a un vero e proprio concerto orchestrale. L’effetto sinestetico, inoltre, è amplificato dalla rimodulazione delle tre opere attraverso la realtà aumentata che, nell’ottica complessiva della mostra, enfatizza ancora di più la sensazione di esperienza immersiva cui attende As You Go. Una esperienza che sovverte il tradizionale rapporto frontale con l’immagine video o cinematografica che sia, traghettando lo spettatore all’interno dello spazio che, sebbene equivalente e simmetrico, risulta vibrante e dinamico, trasformandosi a sua volta in qualcosa di organico e vitale, complice anche l’andamento circolare fra l’entrata e l’uscita delle due sale. Sebbene nel tempo il linguaggio di Anri Sala si sia indirizzato verso una ricerca formale sempre più minimalista, la rivelazione del dettaglio è costantemente rimasta il perno della sua poetica dove, determinate porzioni di realtà nascosta, rappresentano quel “particolare” entro cui organizzare il senso e il significato di una situazione più generale. Questo discorso vale per Ravel Ravel opera presentata in rappresentanza della Francia alla Biennale di Venezia del 2013 (ma ospitata al padiglione tedesco), il cui titolo è basato su un sottile gioco di parole intorno al senso di “sfalsamento” sotteso all’etimologia del verbo Ravel,

Anri Sala, Take Over, 2017, still da video. Courtesy Marian Goodman Gallery; Galerie Chantal Crousel Paris

oltre che essere diretto riferimento al compositore francese Maurice Ravel. Qui si sperimenta la potenzialità di una sola mano, quella sinistra del pianista viennese Paul Wittgenstein (fratello del noto filosofo) che aveva perso il braccio destro durante la Prima Guerra Mondiale e committente, per l’appunto, del Concerto per pianoforte per la mano sinistra di Ravel. Ecco dunque i movimenti della mano sinistra di due pianisti e di un dj mentre suonano il medesimo pezzo i cui tempi però sono leggermente sfalsati, asincronici e così drammaticamente ingarbugliati da richiamare alla memoria il dramma della menomazione fisica. Sicché, vediamo come il particolare diventa esemplificativo dell’universale originando, nella metafora dell’amputazione che nella storia corrisponde all’evento bellico, qualcosa di trasversale che dall’individuale si fa collettivo. È un discorso che rimbalza in Take Over per chiudersi con il recente If and only if dove, l’attenzione dell’artista si concentra sulla relazione tra il movimento di una lumaca (il suo cammino sull’archetto) e quello del musicista Gérard Caussé mentre suona una viola ed esegue Elegia per viola sola di Igor Stravinsky. In questa straordinaria mostra, caratterizzata nella sua complessità da un’atmosfera crepuscolare e surrealista, cifra stilistica inconfondibile di Anri Sala, paritetica a quella che attraversa ciascuna singola opera, assistiamo al poetico ed estetico dialogo fra struttura architettonica, musica e valore contenutistico dell’opera, il tutto organizzato con la magistrale maestria di un artista la cui sensibilità ritorna al nostro sguardo aprendo inaspettate prospettive emozionali, quelle che fanno si che le immagini si uniscano a una riflessione che dall’io conduce sempre al noi, ricollocando l’essere umano nella sua giusta posizione nei rapporti e nel circostante. Maria Letizia Paiato

Anri Sala, Ravel, Ravel, 2013, still da video. Courtesy Marian Goodman Gallery; Galerie Chantal Crousel Paris

30 - segno 272 | APRILE/MAGGIO 2019


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

MADRE, Fondazione Donnaregina, Napoli & Galleria Franco Noero, Torino

Robert MAPPLETHORPE

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lcuni artisti non hanno bisogno di presentazioni, ruota attorno alla loro figura un’aura leggendaria che, se possibile, viene alimentata aggiungendo nuovi segni. È il caso di Robert Mapplethorpe protagonista della mostra monografica al Madre di Napoli, realizzata in collaborazione con la Foundation. Un’altra, poiché nel frattempo sono dedicate al fotografo esposizioni di grande rilevanza, tra le quali quella al Guggenheim di New York, oltre che quella alla Galleria Corsini a Roma, aperta il 15 marzo, a cura di Flaminia Gennari Santoro. Affascinante enfant terrible dallo sguardo magnetico, Mapplethorpe è noto ai più per la ricerca scandalosa e per la storia esemplare, conclusasi con una tragica morte, dopo aver vissuto con intensità la scena underground newyorkese. Lungo questo solco si insinua la retrospettiva Robert Mapplethorpe. Coreografia per una mostra, animata, da attività, interventi performativi e laboratori. A cura di Laura Valente e Andrea Viliani, la mostra guida il visitatore in un fraseggio tra le fotografie e le opere classiche provenienti dal Museo di Capodimonte, dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli e dalla Reggia di Caserta, in un gioco di corrispondenze di cui i musei napoletani hanno fornito eccellenti esempi negli ultimi trent’anni. Ma stavolta lo sguardo di Mapplethorpe induce a guardare la classicità sotto una nuova luce, riproducendo, con le fredde lampade del suo studio fotografico, l’illuminazione artificiale dei neon dei locali BDSM del Meatpacking District di New York. Un discorso parallelamente opposto a quello del pur ammirato fotografo tedesco Wilhelm von Gloeden, che aveva trovato nel placido erotismo la propria chiave d’accesso all’estetica del passato, infondendo l’ultimo soffio vitale a una visione della classicità ripiegata sugli stereotipi tardoromantici. L’obiettivo impassibile e cristallino di Mapplethorpe, invece, si apre e si chiude indugiando sui volumi dei petali di un fiore, percorrendo il polpaccio dei danzatori dell’ NYC Ballet, sui dettagli in pelle degli abiti e degli oggetti sadomaso. Il percorso asseconda una divisione schematica per temi. Attraversando il palcoscenico, i cui soggetti sono ballerini e performer, fino all’area dei ritratti di illustri amici, collezionisti, galleristi, artisti, da Andy Warhol a Lucio Amelio, da Louise Bourgeoise all’immancabile Patti Smith, si giunge alla grande sala degli autoritratti, immersa nel cuore della mostra, con funzione di teatro per la presentazione delle performance in programma, coreografate da Vadim Stein e Olivier Dubois. E ancora, il retroscena suddiviso in un camerino, mise-en-scène dall’effetto straniante, e la X(Dark) Room, schermata da una tenda, interamente dedicata alle fotografie del Portfolio X ma dominata dall’opera di Lionello Spada, Caino e Abele. Prose-

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uasi in contemporanea, La Galleria Franco Noero a Torino, ha proposto per la terza volta una personale di Robert Mapplethorpe, caratterizzata da fotografie analogiche stampate su grandi formati e prevalentemente in bianco e nero. Le pareti della galleria si sono avvalse di immagini ritraenti persone di varia estrazione sociale e talvolta oggetti e animali. L’erotismo e la nudità sono temi centrali nell’opera di Mapplethorpe, il quale riuscì ad imporre la sua considerazione di tali questioni-taboo, portandoli a galla e rendendo la pornografia arte, valicando le barriere mentali degli anni Settanta e Ottanta. In questa personale, è possibile contemplare fotografie che ritraggono genitali maschili e femminili con una tale eleganza da non risultare inappropriati e sconvolgenti. Parallelamente, si ammirano raffigurazioni di persone famose, senza che queste svettino e si impongano sulle altre opere, ma appaiano come persone al pari delle altre. I dettagli che si soffermano su rane, fiori o su una moneta, ad esempio, sono funzionali a riconoscere nel fotografo un esperto in materia di fotografia, capace di rendere anche i soggetti più banali protagonisti di opere d’arte, e, posizionate tra ritratti di esseri umani, fanno capire la poliedricità di Mapplethorpe. L’esposizione, offre infatti una panoramica a trecentosessanta gradi sul lavoro di un artista che ha rivoluzionato alcuni canoni artistici, cha ha seguito il suo istinto e le sue pulsioni, senza mai vergognarsi e con una sfrontatezza tale da portarlo in alto, e noi, oggi, lo ricordiamo come un artista, che merita di essere definito tale. Cecilia Paccagnella

Robert Mapplethorpe, Thomas and Dovanna, 1986 © Robert Mapplethorpe Foundation. Used by permission

guendo, tra porzioni di corpi, visioni ravvicinate, fotografie di alcuni dei luoghi più affascinanti della Campania, conosciuti durante i soggiorni in occasione delle mostre da Lucio Amelio, si incontra con piacere il Pescatoriello di Vincenzo Gemito. Traboccante di cattolicesimo, coronata dal senso di colpa, calata nella dinamica peccatore-confessore, espiatore-giudice, la potenza delle fotografie sembra sbiadire per un attimo sotto gli effetti delle luci sui vetri non sempre antiriflesso e negli accostamenti a volte troppo espliciti e che non consentono di attraversare vie secondarie per rintracciare propri percorsi nell’immaginario del fotografo. Sotto lo spesso strato di immutabilità che abita ogni opera, nella mostra è costante la ricerca di un cenno di movimento per alimentare la programmazione di performance, parte evidentemente essenziale dell’esposizione. Sintomaticamente sbilanciata verso il dato biografico, la retrospettiva concede perlomeno il lusso a ogni visitatore di gettare il proprio sguardo nelle pupille accese di Robert-Satiro e, infine, in quelle appannate e penetranti del suo ultimo, eccezionale ritratto. Luciana Berti Robert Mapplethorpe, Lisa Lyon, 1982
 © Robert Mapplethorpe foundation
used by permission. Courtesy galleria Franco Noero, Torino

APRILE/MAGGIO 2019 | 272 segno - 31


Palazzo delle Esposizioni - Roma

Julian ROSEFELDT

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iò che rende caratterizzante il Novecento, come epoca delle avanguardie, ma anche la fine dell’Ottocento, è il manifesto in quanto strumento ideologico di divulgazione e provocazione; di rottura con l’ordine costituito. Julian Rosefeldt si avvale di questo prodotto intellettuale e dichiaratorio per costruire, nella sua ossatura, l’installazione Manifesto, elaborata e realizzata con grande perizia nel 2015. Portata al Palazzo delle Esposizioni di Roma, dopo essere stata in molti musei internazionali, è un’opera completa scritta, diretta e prodotta dall’artista tedesco attualmente borsista di Palazzo Massimo. Grazie alla bravura della camaleontica Cate Blanchett, che interpreta 11 distinti personaggi femminili e uno solo maschile, in un spostamento temporale e di contenuto dei manifesti stessi, la videoinstallazione si presenta con un forte impatto visivo e sonoro, dall’insieme distinto e articolato ma allo stesso tempo percepito come un tutt’uno. La sua orchestrazione è costruita in modo da poter lasciare la libertà di soffermarsi su uno schermo e storia-manifesto in base a ciò che colpisce per immagine, suono e timbro vocale. Composta da singolari strutture narrative che incorporano un collage di manifesti del Futurismo, Situazionismo, di Architettura di Antonio Sant’Elia e Bruno Taut, Stridentismo/Creazionismo, Vorticismo/Cavaliere Azzurro/Espressionismo astratto, Suprematismo/Costruttivismo, Dadaismo, Surrealismo/Spazialismo, Pop art, Fluxus/Merz/Happening, Arte Concettuale/Minimalismo, Cinema. Manifesto impegna l’attrice australiana in personaggi che si muovono in ambientazioni spesso distopiche. Il prologo una Miccia che brucia è la base visiva (unico senza la presenza dell’attrice australiana) del Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels, il Manifesto Dada di TZARA e La letteratura e il resto di Soupault. I grandi schermi, nella vasta sala scura rimandano l’immagine della Blanchett come una senzacasa, un broker, un’operaia, un’amministratrice delegata, una punk, una scienziata, un’oratrice a un funerale, una burattinaia, una madre tradizionalista, una coreografa dall’accento slavo, una telecronista e reporter e un’insegnante, dominata da un testo che si può confondere o ignorare nella logica della scena stessa. In alcuni brevi momenti i tredici filmati si allineano coralmente in una declamatoria simultaneità, dove l’attrice in primo piano fissa lo spettatore in una decisa e diretta enunciazione del manifesto di riferimento. Tutto riprende dal principio alla fine in un tempo circolare mai interrotto e dall’apparenza lineare. L’epilogo è nel finale del collage di manifesti sul cinema che vede la Blanchett, insegnante di scuola elementare, impegnata ad impartire consigli/ ordini e trucchi tecnici e narrativi per creare un buon film, sulla base di scritti di Stan Brakhage, Jim Jarmusch, Lars von Trier e Thomas Vinterberg, Werner Herzog. Ilaria Piccioni

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Julian Rosefeldt, Manifesto, 2015 © J. Rosefeldt and VG Bild-Kunst, Bonn 2018


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Galleria Giorgio Persano, Torino

Marco GASTINI

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uesta mostra non è solamente un omaggio in ricordo di Marco Gastini, scomparso lo scorso settembre 2018, ma l’ultima esposizione da lui stesso progettata e che avrebbe dovuto inaugurare personalmente. Oggi, la mostra ha un sapore diverso, non solo quello di un maestro proteso a fare il punto sulla propria carriera ma dell’intero mondo dell’arte che guarda al suo lavoro nella consapevolezza che nulla più potrà essere prodotto. Sicché, in questo spaccato espositivo, che ripercorre la sua storia dagli anni ’70 a oggi, sono integrate una selezione di opere inedite di grandi dimensioni a un’ampia raccolta di maquettes. Marco Gastini, classe 1938, era parte di una generazione di artisti italiani – ricordiamo la sua grande amicizia e sodalizio con Giorgio Griffa – che, a cavallo degli anni sessanta hanno dato un fondamentale contributo nell’ambito dei processi riduttivi delle pulsioni del gesto e della materia generate dal precedente movimento informale. Riduzioni e radicali cambi di orientamento – Torino città natale di Gastini, patria dell’Arte Povera e la Galleria Persano incubatrice di nuovi impulsi – che hanno condotto l’artista a sperimentare una nuova concezione della pittura libera, atmosferica, ma anche precaria, instabile e fortemente in bilico. Una pittura mai totalmente fredda, ma sempre debitrice di tensioni liriche straordinarie. Tensioni, al contempo, sostenute da un costante senso della sospensione e una analitica autoreferenzia-

lità che hanno fatto dell’opera di Gastini un tratto imprescindibile e inconfondibile. La mostra si apre pertanto con l’opera Il sogno respira nell’aìre del 1988, una composizione carica di impasti cromatici, che se da una parte pare accuratamente orchestrata nello spazio, dall’altra sembra pronta ad invaderlo. Mentre ancora la polvere muove del 1987, è invece un’opera composta da quattro lamiere di rame, dove il nerofumo, che pare essersi appena posato opaco sulla superficie luminosa del metallo, viene graffiato con chiaro riferimento all’autenticità espressiva rupestre. Incontriamo poi, una serie d’importanti tele bianche o madreperlacee, attraversate ora da lievi tratti a carboncino, ora da tocchi vigorosi, o solcate da ardesie che tagliano i piani, feriscono e accrescono la materia. Tele dal forte impatto lirico che lievemente lasciano il passo a un gruppo di maquettes che chiude la mostra e che l’artista abitualmente realizzava come progetti o in forma autonoma, selezionate per aiutarci a seguire lo sviluppo del suo lavoro negli anni. Un percorso – spiega Persano – che ci conduce in un viaggio nel tempo e che intende trasmettere, dell’artista e amico, un ricordo vivo e aperto al futuro. Maria Letizia Paiato

Marco Gastini, Dialogo stretto, 2009-2010 (mixed media, slate, glass and aluminum, castings on canvas, 200 x 200 x 16 cm) Marco Gastini, Il sogno respira nellaire, 1988

Marco Gastini, Senza Titolo, 2018 (mixed media, paper and terracotta on canvas 200 x 170 cm.) Marco Gastini, Mentre ancora la polvere muove, 1987 (mixed media, coal and wood on copper)

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Fondazione MAST, Bologna

Thomas STRUTH

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onosciuto soprattutto per le immagini in bianco e nero che ritraggono il paesaggio urbano e per la serie dedicata alle fotografie di musei ed edifici storici, Thomas Struth si dedica a partire dal 2007 ad un ciclo di opere nuove. La nuova raccolta prende il titolo di Nature & Politics e indaga il tema del rapporto tra uomo e tecnologia. Di quest’ultima serie, attraverso la quale Struth riflette sulla connessione non scontata tra progresso e sviluppo tecnologico, Fondazione MAST di Bologna presenta venticinque opere di grande formato, in una mostra, a cura di Urs Stahel. Allievo dei coniugi Becher, Thomas Struth eredita dai maestri lo sguardo distaccato nei confronti del reale che unisce al desiderio di restituire quest’ultimo in modo oggettivo. Tale approccio risulta in special modo evidente nel ciclo degli esordi, quello che comprende foto di piccolo formato dedicate all’architettura urbana. Lo sguardo da ricercatore tuttavia, volto a osservare gli aspetti meno evidenti del mondo che ci circonda, si mantiene inalterato quasi per l’intera produzione. Ritroviamo questo carattere nel secondo ciclo di opere realizzato da Thomas Struth, Family Portraits. La ricerca della verità, in questo caso, resta salda nonostante il “genere” a cui fa capo la raccolta sia lontano dalla fotografia istantanea ma coincida a tutti gli effetti con la fotografia di posa. Si tratta in tutti i casi il primo lavoro di Struth in cui sono presenti esseri umani. Lo sguardo obiettivo di fronte al reale è ugualmente riscontrabile nelle varie raccolte unite sotto il titolo di Museum Photograph. Si tratta del famoso ciclo al quale l’artista si dedica tra la fine degli anni ‘90 e la seconda metà degli anni Duemila per indagare le modalità in cui gli individui si relazionano con le architetture storiche. Un discorso analogo anche se di più immediata percezione si osserva nel ciclo Paradise, dedicato all’ambiente naturale e, in ultima istanza, nel nuovo progetto Nature & Politics. La realtà indagata da Thomas Struth inoltre chiama sempre in causa l’uomo, anche in quelle immagini in cui quest’ultimo non è presente. Gli individui infatti risultano sempre gli artefici dei fenomeni che Struth si appresta a osservare e allo stesso tempo coloro che ne sono influenzati. La ricerca seguita da Struth, assieme alla popolarità raggiunta dall’autore tra gli anni ‘80 e ‘90, accompagna quella tendenza segnalata da Claudio Marra che

Thomas Struth, Cappa chimica, Università di Edimburgo / Chemistry Fume Cabinet, The University of Edinburgh, 2010 C-print, 120,5 x 166,0 cm © Thomas Struth

vede a partire da quegli anni l’assottigliarsi del confine tra la ricerca artistica legata al mezzo fotografico e la fotografia come pratica artigianale. In questa fase si assiste appunto a un maggiore interesse da parte degli artisti per le questioni tecniche che assumono rilevanza nelle ricerche tematiche. La volontà di presentare il reale nella sua effettiva essenza svelandone gli aspetti meno evidenti, come figura nell’intento dell’autore tedesco, richiede la capacità di restituire gli oggetti ritratti nel modo più neutro possibile dal punto di vista cromatico. L’attribuzione di importanza e solidità al reale richede spesso l’interezza e la monumentalità dei soggetti. Nella fotografia di Struth assume quindi rilevanza lo studio della luce, l’assenza di scarti violenti tra ombre e zone illuminate, la ricerca della massima profondità di campo. Negli scatti del fotografo tedesco osserviamo anche accuratezza compositiva e spesso la ricerca di simmetria tra le parti destra e sinistra. Ricorre quindi la focale corta che accompagna un campo visivo capace di ritrarre gli oggetti per intero, frequentemente dal basso. Il lavoro attorno a Nature & Politics copre l’arco cronologico che si estende dal 2007 fino ai nostri giorni. Anche in questo caso Thomas Struth opera con l’obiettivo di svelare la realtà allo sguardo della gente comune. Le immagini a colori e di grande formato presentate dall’artista riportano interni di di fabbriche, laboratori scientifici, sale operatorie nel corso di interventi robotizzati, centrali per la produzione di energia. Osserviamo inoltre strutture di grandi dimensioni riprese in prospettiva, come

Thomas Struth, Golems Playground, Georgia Tech, Atlanta, 2013 (C-print, 235,1 x 328,0 cm) © Thomas Struth

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

accadeva nella serie dedicata ai paesaggi urbani, immagini di strumenti da lavoro riuniti assieme in modo da formare un microcosmo. Grovigli di fili, tubi e dispositivi di vario genere danno luogo a pattern, composizioni a loro modo suggestive. Le forme tuttavia non appaiono trasfigurate, i dettagli sono nitidi, il fuoco impeccabile, Struth non propone universi onirici, non fa ricorso a metafore o allegorie. La realtà è tutta lì nelle forme immediatamente percepibili dall’occhio. La realtà tuttavia è anche nelle condizioni che influenzano la qualità della nostra vita perfettamente segnalate dall’autore. Il curatore Urs Stahel fa notare come queste immagini di filamenti e congegni risultino destabilizzanti per lo spettatore che non è in grado di riconoscerli né di comprenderne la funzione. Di fronte all’uomo che osserva, i meccanismi elettronici nella loro certezza esistenziale e monumentalità restano muti, incapaci di raccontare storie. Anche in questo lavoro, come nel ciclo degli esordi, la presenza umana è del tutto assente nelle immagini. Come nella serie dei paesaggi urbani tuttavia Struth pone al centro il rapporto tra l’uomo e la nuova realtà ponendo in risalto la deferenza dell’uomo al cospetto delle macchine e degli strumenti tecnologici. Come ci fa comprendere Urs Stahel, portando l’obiettivo fotografico all’interno di spazi inaccessibili a buona parte degli individui con l’intento di raccontare il mondo dell’alta tecnologia Struth ci svela la presenza di un sistema di conoscenze sottratte al sapere condiviso. Si tratta di conoscenze che determinano scelte politiche ed economiche in campo internazionale della cui condivisione il comune individuo risulta in larga misura escluso. Francesca Cammarata

Thomas Struth, Bronchial Tree with Support Structure, MAST Bologna Nature & Politics, 2019 © Thomas Struth. Thomas Struth, Follow On Bottom View.. MAST Bologna 2019 © Thomas Struth

Galleria Poggiali, Milano

Thomas KOVACEVICH

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rima mostra personale dell’artista americano Thomas Kovacevich (Detroit, 1942) in Italia, a cura di Chiara Bertola. Portrait of a RoomPortrait of a Room raccoglie un corpus di opere legate alla materia che ha caratterizzato e attraversato tutta la sua carriera: la carta e la sua enorme possibilità di vita e di trasformazione. Una installazione unica, che entra in relazione con lo spazio cubico della project-room e con l’ampia e luminosa vetrina che si apre su Foro Buonaparte creando un’inaspettata profondità spaziale. Kovachevich ha creato tre lavori separati che si percepiscono allo stesso tempo scultorei e pittorici. Ogni tableau a parete è composto da lunghe strisce di nastro di gros-grain fissate in alto e in basso su un pezzo più spesso di nastro. Appese una dopo l’altra, le strisce creano un quadrato di colore vivo che si trasforma con lo spostamento nello spazio e l’umidità nell’aria. La striscia di carta si muove e si arriccia intorno al nastro, respira, vive, si trasforma nell’arco del giorno man mano che cambia il livello di umidità nella stanza. I tre grandi quadri alle pareti della galleria non sono soltanto una registrazione dei cambiamenti nell’ambiente, ma rappresentano anche un modo peculiare di percepire la stanza, rendendo visibile l’invisibile. Quando i nastri di carta incollati al gros-grain si aprono e si chiudono, tutta la parete vibra e si muove come se fosse attraversata dal vento e dall’aria esattamente come la luce vibrava nei campi en plain air di una tela impressionista. Ma la sensazione è quella di ritrovarsi davanti un paesaggio fatto di iceberg, stalattiti e geyser, dove le forme semitrasparenti, acquistano volume e dimensione contenendo la luce al loro interno. Gran parte del lavoro di Kovachevich ha una qualità intima che gioca tra il controllo e incidente e investe la geometria con un contenuto emotivo. Per l’artista americano le forme sono esplorazioni razionali della geometria e il contenuto emotivo insito nel suo lavoro è costituito da una componente irrazionale. “Credo che uno dei motivi per cui ero attratto dal minimalismo – racconta lo stesso Kovachevich – era il suo tentativo di definire la purezza. Tuttavia, nel mio lavoro ho sempre cercato di investire la geometria con un contenuto emotivo.” Thomas Kovacevich fa parte di quella generazione di artisti che, in America, tra la fine degli anni ‘60 e i primi anni ‘70, hanno esplorato l’idea di smaterializzazione dell’arte per rendere il processo creativo accessibile al pubblico; si avvicina alle ricerche della Process Art e utilizza materiali naturali e industriali confrontandoli per esaltarne l’espressività primaria delle loro proprietà fisiche. Harald Szeemann e Jean-Christophe Ammann, che lo invitarono a Documenta 5 nel 1972, lo inclusero in un gruppo di artisti e parlarono per la prima volta di ‘mitologie individuali’. Catalogo con testo critico di Chiara Bertola.(red.dal cs) n

Thomas Kovachevich, installation view vertical white / celestian elements, Gowanus, 2014 Thomas Kovachevich, installation view white cube / iceberg 2013, Show Room Courtesy Galleria Poggiali, Milano

APRILE/MAGGIO 2019 | 272 segno - 35


Antony Gormley, Veduta dell’allestimento nel secondo Corridoio degli Uffizi. Another Time VI, 2007 (ghisa) Per gentile concessione Galleria Continua, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana Fotografia di Ela Bialkowska, Okno Studio © l’artista Antony Gormley, Veduta dell’allestimento nella sala 43 degli Uffizi. Settlement IV, 2018 (blocchi in acciaio inossidabile) Per gentile concessione Galleria Continua, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana Fotografia di Ela Bialkowska, Okno Studio © l’artista

La scultura Event Horizon di Antony Gormley, sulla terrazza degli Uffizi, Loggia dei Lanzi

Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture, Firenze

Antony GORMLEY

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li Uffizi ospitano Essere, la grande mostra personale di Antony Gormley a cura di Eike Schmidt e Max Seidel. L’artista inglese torna dunque a Firenze dopo Clearing VI, installazione site specific presso la Strozzina nel 2010 in cui Gormley indagava una metadimensione di spazio/ tempo continuo tra Rinascimento e Presente e dopo Human al Forte di Belvedere nel 2015, ancora una volta una grande mostra in cui si esprimeva il topos, appartenente al patrimonio genetico del capoluogo toscano, della rappresentazione dell’uomo ideale in rapporto all’architettura. Homo sum, humani nihil a me alienum puto: pare quasi essere questo il principio fecondante dell’alta e pregevolissima opera di sir Gormley. Nella sua -penetrante, labirintica, potente- visione, dell’uomo egli ausculta tutta la peculiare essenza e la restituisce in un edificio poietico la cui sintassi va dalla silente ed inquieta meditatio alle più vertiginose accelerazioni.. Essere si dispiega principalmente nell’aula Magliabechiana degli Uffizi e riunisce alcune opere di Gormley, assai eterogenee per materiali e dimensioni, che esplorano “il corpo nello spazio e il corpo come spazio”. La nuova, ampia sala al piano terreno del museo, dove la luce naturale si diffonde in dodici nitidi spazi con copertura a volta scanditi da sei pilastri in pietra e privi di pareti interne, accoglie altrettante opere dell’artista. Movente della mostra è la parabola tra Passage e Room, sculture realizzate a trentacinque anni di distanza l’una dall’altra. Entrambe affrontano la questione dello spazio del corpo: Passage (2016) è un tunnel in acciaio corten dalle fattezze antropomorfe e dalla lunghezza di 12 metri che può essere percorso dai visitatori; mentre Room (1980) è un recinto quadrato di 6 metri per 6 costituito da una serie di abiti dell’artista tagliati in un nastro continuo largo 8 millimetri e non è accessibile al pubblico, contrariamente all’opera precedente. Dunque una polarizzazione tra movimento e stasi, spazio immaginativo e reale. Una valutazione sulle possibili declinazioni dell’interazione tra fruitore ed opera d’arte, tema sempre caro allo 36 - segno 272 | APRILE/MAGGIO 2019

scultore già Turner Prize. Alcune opere sono state realizzate specificamente per Essere. Citiamo Veer, evocazione tridimensionale in ghisa di un saettante sistema nervoso al centro del corpo a grandezza naturale e Breathe, opera espansiva di grandi dimensioni ricoperta di piombo che applica i principi cosmici del Big Bang alla singolarità di un corpo soggettivo. L’apertura della mostra, tenutasi il 26 Febbraio 2019, è stata annunciata da un paio di anticipazioni della stessa: i visitatori degli Uffizi sono stati sorpresi dalla presenza di paradigmatiche sculture che s’intessono col percorso museale vivificandolo in un continuum fecondo e perturbante al contempo. Another Time alle spalle del Pothos nel corridoio di meridione “si mimetizza” tra i numerosi che godono dello struggente affaccio su Ponte Vecchio in uno straniante cortocircuito ontologico . Settlement invera un affascinante dialogo di forma e di concetto invece con l’Ermafrodito dormiente, copia romana di età imperiale da un originale ellenistico del II secolo a.C. Sopra la Loggia dei Lanzi ecco Event Orizont tesa nella sua iconica ieraticità ed al contempo strepitosamente immersa in un ductus incomparabile fatto dai celebri beccatelli di Palazzo Vecchio, dai profili della Badia, dai declivi collinari fiorentini. Dichiara Eike Schmidt: “Abbiamo messo a punto la mostra in collaborazione con l’artista, modellandola sia sulla sua carriera personale sia sullo spazio del museo, tenendo conto dei capisaldi della storia dell’arte che ha l’onore di ospitare. Il cuore della mostra sarà nell’Aula Magliabechiana degli Uffizi, mentre altre tre opere saranno distribuite in vari punti della Galleria. L’uomo è al centro dell’esperienza, ma Gormley rifiuta ogni mimesi, ogni scontato riferimento casuale alla Natura. Le sue creazioni in ghisa, acciaio, tessuto, cemento e argilla interagiscono in modo coinvolgente con lo spettatore, diventando oggetti-soggetti che attirano la nostra attenzione, offrendo stimoli inaspettati per azione e reazione riflesse e affrontando il digitale con il rendere fisico il pixel”. Serena Ribaudo


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Jan Vercruysse, Places [Lost] — 5, 2010. Opera in 8 parti, bronzo verniciato cm 49 x 214 x 99. Tutte le foto Roberto Sala, courtesy Vistamare/Vistamarestudio, Pescara/Milano e Fondazione Jan Vercruysse, Bruxelles

Vistamare, Pescara

Jan VERCRUYSSE The Presence of Absence

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comparso poco più di un anno fa, l’opera dell’artista belga Jan Vercruysse rivive nel doppio appuntamento che Vistamare gli dedica, fra Pescara e Milano, ripercorrendone le tappe salienti della carriera non in ordine cronologico ma bensì tematico. Come delle vere e proprie stazioni concettuali, ogni gruppo di lavori mette in luce, infatti, l’originale vocazione dell’artista alla natura spirituale dell’arte; una natura capace al contempo di contrastare flussi e movimenti coevi al suo agire, proiettandone l’opera verso il senso del messaggio e del comunicare. Se lo spaccato di Milano si focalizzerà soprattutto sull’opera La Sfera, che in molti ricorderanno alla Biennale del 1993, una grande scultura di bronzo, una tartaruga che cerca di arrampicarsi su una sfera, emblema di equilibrio perfetto tra convinzione concettuale e preoccupazione estetica, quello di Pescara evidenzia in modo pregnante il complesso immaginario di Vercruysse, attraverso un particolare allestimento concepito intorno a un suggestivo e non scontato intreccio di diagonali. Cominciando, infatti, dalla prima sala, quella in cui si incontrano i noti lavori Places (III.7) del 1988 e Places (III.6) del 2006 locati a terra, contrapposti a Places (I.1) del 2012 a parete, opere raffiguranti le carte da gioco, si noterà che gli assi dei due gruppi non sono esattamente in posizione parallela. Un piccolo accorgimento attraverso il quale la serie, iniziata nel 2005, nel suo insieme, è percettivamente visibile solo dall’entrata della galleria. In tale ottica, l’opera appare sensibilmente legata nel ritmo di scorci e immaginarie linee

oblique che idealmente suggeriscono proprio il senso espresso dal titolo che accompagna la mostra. Ossia, quella presenza nell’assenza capace di enfatizzare il senso sotteso ai Places, luoghi prescelti della memoria e dove, si concentra il significato dell’accaduto, imprescindibile nella vita di ciascuno. Vercruysse con quest’opera, inoltre, non si sottrae all’ironico gioco dell’arte, evidente derivazione duchampiana, che sposta, plasma e riorganizza significati fino all’invenzione di un nuovo linguaggio. Così, alle lettere dell’alfabeto romano si sostituiscono i 4 semi delle carte da poker: cuori, fiori, picche e quadri che finiscono per comporre frasi celate nelle leggere installazioni a parete o nascoste nelle ponderose placche commemorative a pavimento. Una presenza nell’assenza che, sempre attraverso un fine gioco di diagonali visive, rimbalza costantemente di sala in sala, come ad esempio nei noti Tombeaux, opere esposte per la prima volta in Italia nel 1992 al Castello di Rivoli. Si tratta di monumentali sculture di legno, bronzo e vetro il cui nome, richiamandosi nell’etimo francese al concetto di tomba e di sepolcro e comprendenti anche una serie di strumenti musicali a fiato, fra i vuoti e pieni dei profili dei parallelepipedi che ne tracciano le forme, suggerisce un “io” spirituale aleatorio ma esistente. Opere che si potrebbero definire veri e propri versi visivi dedicati a qualcuno non più presente e che tradiscono, al contempo, l’esordio artistico di Vercruysse nell’ambito della poesia. Un inizio mai tradito che vede ogni sua immagine come l’elemento di un discorso visivo più ampio, quasi come una frase all’interno di un sonetto capace di materializzarsi nell’ambiente, nello spazio bianco di una parete. Su questa scia l’opera in 11 parti La Certitude (III) del 1982 rappresenta l’esempio più vivido, restituendo in chi guarda la sensazione di trovarsi di fronte ad una sorta di spartito musicale fatto di immagini. Incontriamo poi Les Paroles [Letto] Vll, opera del 1999, ossia tre strutture dalla forma di leggio, in legno dipinto dove, all’interno sono locate serigrafie su vetro raffiguranti passi di affreschi erotici, frammenti di Ercolano e Pompei tratti dal libro ‘Cabinet Secret du Musée Royal de Naples’ che inducono lo spettatore a una riflessione su ciò che c’era e non c’è più recuperandone, tuttavia, la concretezza e la tangibilità nella persistenza di memoria quale residuo della storia. Nella stessa sala, Camera oscura del 2002 si presenta come una progressione fotografica, il mezzo espressivo da sempre prediletto da Vercruysse che, per la sua aderenza alla realtà diventa proprio il vettore per colmare il vuoto insormontabile che separa l’arte e la vita. È, infatti, la spiritualità ciò che sostiene la sua opera, assunto quale valore completamente scollato dal circostante e che trova la ragione del suo essere in una voluta e ricercata “artificialità”. Per questo motivo la fotografia assume un ruolo centrale in Vercruysse immaginato come strumento alchemico capace di intrappolare l’anima. Un’anima che, se vogliamo, si ritrova infine a vagare nei Labyrinth & Pleasure Gardens I, una serie di stampe offset su carta capaci di restituire valore all’assenza e alla totalità dell’arte, intesa, in ultima battuta, come infinita potenzialità dove, togliere anziché aggiungere è per Vercruysse un sinonimo di presenza. Maria Letizia Paiato Nell’immagine a sinistra, sulle pareti: Jan Vercruysse, Places (I.1), 2012 39 figure di carte da gioco in una configurazione fissa: full di nove e di sei multicolore su acciaio verniciato di nero, cm 194 x 336,6: a terra: Jan Vercruysse, Places (III.6), 2006. Opera in due parti, acciaio nero, cm 1,5 x 99,4 x 112. Jan Vercruysse, Places (III.7), 2006. Acciao cor-ten, cm 2 x 100 x 170 A centro stanza: Jan Vercruysse, Les Paroles [Letto] VII, 1999. Opera in tre parti, colore bianco su legno, serigrafia su vetro, vetro acrilico bianco, cm 140 x 54 x 90 (ognuno). Sulle pareti, da sinistra: Jan Vercruysse, Camera Oscura #10 (A man with a white shirt), 2002; Camera Oscura #12 (A man with a costume), 2002; Camera Oscura #14 (A man with a straw hat), 2002. Cibachrome, montati su alluminio e incorniciati, cm 59 x 79 x 3. Grande Camera Oscura (A Man with a Straw Hat III), 2002. cibachrome, montato su alluminio e incorniciato, cm 59,6 x 114,5 x 3

APRILE/MAGGIO 2019 | 272 segno - 37


Galleria Accademia B.Arti, Macerata

Anatomia del linguaggio uno sguardo sulla poesia visiva in Italia

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ata in collaborazione con la Fondazione Filiberto e Bianca Menna, questa esposizione curata da Antonello Tolve, mette insieme, per la prima volta in Italia, oltre centoventi personalità fra artisti, musicisti, intellettuali, letterati, critici d’arte e poeti che hanno partecipato al cosiddetto fenomeno della poesia visiva, proponendo quello che a oggi può considerarsi lo spaccato più ampio e completo finora ordinato nell’ambito di tali ricerche. Parliamo di quel movimento o meglio flusso culturale che, nato sull’onda delle sperimentazioni artistiche e letterarie peculiari della Neoavanguardia, ha agito in Italia nell’ambito di ciò che può definirsi un vero e proprio esercizio di confine. Le radici storiche della poesia visiva, com’è noto, si rintracciano nelle avanguardie storiche, in quelle parolibere futuriste riprese, come posto in evidenza nella mostra, dalla figura di Carlo Belloli rappresentato in un gruppo di fogli, solo in apparenza casualmente posti a terra, sui quali spicca un segno nero che incornicia la nota poesia del 1961 dove, sono le parole: silenzio bianco buono bianco silenzio buono rumore nero verticale nero rumore verticale acquaviva a me a scandire metaforicamente il ritmo dell’intera esposizione. Anche l’allestimento, in tal senso, segue le istanze della poesia visiva che, seppure legata al concretismo (è del 1953 il manifesto della poesia concreta pubblicato a Stoccolma da Öyvind Fahlström) con il quale condivide alcune basi teoriche e quella che Gillo Dorfes ha definito l’urgenza […] di accostarsi a un tipo di comunicazione attraverso la parola che sia quanto possibile diretta e visualmente immediata, se ne discosta ponendo l’accento sul valore linguistico della parola all’interno di una espressione artistica allo scopo di «corrompere la linearità della scrittura per spingerla oltre i bordi della parola, tra gli oceani di un linguaggio babelico, aperto e assorbente». Dunque, anche l’allestimento segue questo principio, trasformando i gruppi di opere in mostra in espansi segni grafici alle pareti (da immaginare come enormi fogli bianchi), tanto da indurre lo spettatore a visualizzare anatomia del linguaggio nel suo insieme, prima, oltre e dopo il particolare. Ecco allora una mostra che si pone nella prospettiva non sola, didattica e di ricostruzione storico-critica, ma anche di esercizio e minuziosa analisi della conformazione e struttura del suo stesso oggetto di studio, la poesia visiva per l’appunto, ripercorrendone in un certo senso il suo stesso moto generatore. Non a caso, Tolve parla di collage largo, di prelievo e montaggio, secondo l’accezione data da Lamberto Pignotti, di una «lingua fluttuante che vuole esprimere l’inespresso, i tic e le micromanie dell’industria culturale, [che] non è soltanto la ricerca di una lingua perduta o perfetta, ma anche e soprattutto il gesto che rispedisce la merce al mittente». Maria Letizia Paiato

Anatomia del Linguaggio, Uno sguardo sulla Poesia Visiva in Italia, GABA Macerata 2019.

38 - segno 272 | APRILE/MAGGIO 2019

Aqua Aura, Shelters, on the very nature of light, 2017 (video sculture, 3 elementi, basi lignee, alabastro, video-proiezione sonora, durata 19 minuti)

Palazzina Marfisa d’Este, Sinagoga, Ferrara

Aqua AURA

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i sono progetti che non si esauriscono mai ma che, al contrario, continuano a svilupparsi nello spazio e nel tempo cercando nell’esperienza visiva, attraverso nuovi media e inediti lavori di amplificare la forza del proprio messaggio. È questo il caso dell’artista Aqua Aura che, dopo le esperienze degli anni precedenti ad Alessandria e Reggio Emilia, approda a Ferrara in una doppia esposizione suddivisa nelle due sedi della rinascimentale Palazzina Marfisa e della Sinagoga Grande della Scola Italiana, quest’ultima riaperta al pubblico per l’occasione con un progetto dedicato all’arte contemporanea dopo i tragici eventi tellurici del 2012. Sullo Spazio e Sul Tempo sono anche i titoli dei saggi che le due curatrici Maria Letizia Paiato e Chiara Serri hanno dedicato all’artista fissando le prime due categorie tematiche ed estetiche entro le quali si dipana poco alla volta tutto il complesso discorso di Aqua Aura. Nel primo risiede il riferimento al paesaggio, alla cultura occidentale e a quella rinascimentale e umanistica in cui la città degli Estensi affonda le proprie radici. Sicché, l’uomo sebbene sia sempre assente nelle opere di Aqua Aura, si scorge nel riferimento implicito alla sua presenza misurabile nello spazio, in modo talmente tangibile da farci immaginare l’artista dedito a narrare l’idea di un possibile, nuovo e contemporaneo umanesimo. Nel secondo vi è il tentativo ultimo di conservare la natura, secondo un improbabile quanto impossibile processo di musealizzazione che, tuttavia, corrisponde anche a una sorta di ricomposizione onirica, talvolta quasi surreale, capace di trasferire in chi guarda la forza di una bellezza rispondente al sublime, all’assoluto, al divino. Allora qui ci accorgiamo che il protagonista assoluto di queste opere è sempre il ghiaccio, l’ultimo ghiaccio che diventa oggetto estetico, un’opera d’arte in cui il tempo è fermo, sospeso, immutato e immutabile. Il ghiaccio, dunque, come capsula del tempo e come metafora della vita per raccontare simultaneamente di arte, storia, filosofia, estetica, scienza, biologia, infine e soprattutto del significato dell’esistenza: corrotta, fuorviata, indifferente e tragicamente in pericolo. Cuore della mostra è, infatti, l’inedito video Where the Lost Things Are, focalizzato per l’appunto sulla perdita dei paesaggi estremi della Terra e, in particolare, sul drammatico scioglimento della calotta artica, cui fa da sponda il riferimento nel titolo dell’esposizione alla teoria di Lisa Randall sull’universo pluridimensionale, aiutando in tal senso lo spettatore ad aprirsi a una rivelazione. Cosa documenta veramente il reale? Esiste un problema ecologico? Quanto tempo rimane al nostro pianeta? Quale spazio e quale tempo per l’uomo contemporaneo? Ecco allora che la connessione con la millenaria cultura ebraica rimbalza con struggente coinvolgimento alla Sinagoga nel video del 2017 Millennial Tears. L’opera, nata a seguito di una visita al Museo Yad Vashem di Gerusalemme, e in particolare al Sacrario dello Yad Vashem (luogo dove viene letta la preghiera ebraica per i defunti) focalizza lo sguardo nel lento sgretolamento delle lastre ghiacciate, custodi millenari della vita e di lacrime di nascita a rinascita racchiuse in un canto, quello ebraico del “Kol Nidrei” che in versione strumentale e cantata accompagna il video proiettandoci al suo interno. Lucia Spadano


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

RAM, RadioArteMobile, Roma

Alvin CURRAN

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l finissage dell’installazione sonora site-specific “OMNIA FLUMINA ROMAM DUCUNT” di Alvin Curran, tenutosi alle Terme di Caracalla, non poteva che essere in linea con l’impostazione di fondo dell’intero evento. Si è trattato, infatti, di un ulteriore appuntamento con il suono non legato ai tradizionali strumenti presenti in una qualsiasi orchestra sinfonica dei nostri giorni, con tanto di partitura e gabbia armonica chiamata a sviluppare una invenzione tematico-espressiva, ma di un concerto dal vivo tenuto dallo stesso Curran insieme ad Angelo Maria Farro, che ha voluto e saputo ricollegarsi in loco all’esperienza che a partire dal 22 ottobre 2018 – giorno dell’inaugurazione - tutti i visitatori delle Terme hanno potuto fare. Curran è intervenuto sulla tessitura sonora della installazione già presente ed in evoluzione continua suonando strumenti insoliti come alcune conchiglie e lo “shofar”, un corno di montone dell’antica cultura giudaica da decenni presente nelle sue performance musicali, mentre Farro ha rielaborato elettronicamente in tempo reale i suoni già utilizzati nell’installazione circostante, creando così tessiture inedite e sviluppando ulteriormente il materiale già presente. Inutile sottolineare come l’adozione della forma-concerto quale strumento per ricompattare l’intera installazione sonora e verificarne ulteriormente la qualità sinfonica sui generis non inficia in nessun modo l’invenzione di fondo di Curran che è quella di fare musica legando i suoni del quotidiano ai resti del passato accettati nella loro forma presente, in quanto ciò non comporta

Partitura grafica di Alvin Curran del Concerto allestito site-specific alle Terme di Caracalla, Roma

affatto la reintroduzione di una direzionalità drammaturgica che produce senso nel suo progressivo svilupparsi verso un fatale momento catartico. L’unico vero tema resta quello del vivere entro la dimensione urbana e dell’ascoltare la storia nel suo farsi, oggi come duemila anni fa, lasciando che musica e architettura uniscano le loro partiture profonde non a priori ma secondo i modi imprevedibili della bellezza insita nel reale. Paolo Balmas

Archivio Menna/Binga, Roma

Astrazione Povera

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el clima culturale degli anni Ottanta, dominato per lo più da correnti artistiche riunite sotto l’etichetta del “Post-Modernismo”, il teorico e storico dell’arte Filiberto Menna radunò sotto il nome di Astrazione Povera otto giovani artisti guidandoli verso un’indagine alternativa al ritorno del figurativo. In occasione del trentennale dalla scomparsa di Filiberto Menna la fondazione, in collaborazione con il Lavatoio Contumaciale e l’Associazione FigurAzioni, ha voluto rendergli omaggio attraverso questa mostra, a cura di Massimo Maiorino e Giulia Perugini. L’esposizione, avvalendosi del comitato scientifico in cui figurano Laura Cherubuni, Lorenzo Mango, Antonello Tolve e Stefania Zuliani, propone, accanto alle opere dei componenti (Gianni Asdrubali, Antonil Capaccio, AnnibelCunoldi, Mimmo Grillo, Bruno Querci, Mariano Rossano, Lucia Romualdi, Rocco Salvia), un corpus di documenti che evocano l’assunto teorico affermato dallo studioso campano. Prendendo le distanze dal postmodernismo postulato da J. F. Lyotard, Menna sviluppa una teoria fondata su un rigoroso spirito geometrico che, allontanandosi dalla figurazione, incoraggia l’economia dei mezzi, la riduzione linguistica, l’impiego di forme semplici e lineari e un rinnovato uso dell’idea di costruzione della composizione. Tra il 1982 e l‘83 Menna raggruppa inizialmente quattro giovani pittori romani (Asdrubali, Capaccio,

Rossano e Salvia) prima nel laboratorio di via Sant’Agata dei Goti e, in seguito, alla galleria ‘La Salita’ di Liverani. Gli esiti di tale ricerca furono immediatamente condivisi dai loro amici critici e scrittori (Lux, Albinati, Cherubini, etc) e resi noti grazie all’attento sguardo delle riviste di settore dell’epoca. Seguirono numerose esibizioni, nazionali e internazionali, e l’adesione degli altri membri del gruppo, fino alla loro consacrazione presso lo Studio Ghiglione di Genova e lo Studio Marconi di Milano. Un riconoscimento che avrebbe dovuto concludersi nella mai avvenuta presentazione del movimento alla Biennale di Venezia a causa dell’improvvisa scomparsa del critico salernitano nel 1989. I lavori esposti, scelti in quanto esempi sintomatici dell’Astrazione Povera, tutti rigorosamente in bianco e nero o con gradazioni tonali di grigio, confermano la loro propensione verso un’arte imperniata sull’espressione il meno è il più di Mies van der Rohe, dove l’azzeramento estetico ed etico coincidono con un’apertura verso un’astrazione “povera”, ma intesa anche come ricerca e costruzione, progetto e trasformazione. Manifesti teorici, cataloghi e scritture critiche fanno da contorno all’esposizione vera e propria, invitando lo spettatore ad assaporare la fervente atmosfera creatasi attorno al gruppo romano di via Sant’Agata dei Goti. Maila Buglioni

Astrazione Povera, Archivio Menna-Binga, 2019. Photo courtesy Fondazione Filiberto e Bianca Menna (Salerno-Roma)

Astrazione Povera, Archivio Menna-Binga, 2019. Photo courtesy Fondazione Filiberto e Bianca Menna (Salerno-Roma)

APRILE/MAGGIO 2019 | 272 segno - 39


Accademia delle Belle Arti e del Disegno, Firenze

Andrey ESIONOV

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’è un aneddoto riferito a Picasso, forse abusato e vagamente apocrifo ma sempre attuale, in risposta al commento un po’ pigro e cordiale di un gerarca nazista che ammirava l’opera Guernica insieme al Maestro, senza conoscerlo minimamente: «è stato lei a fare questo?». Rispose Pablo: «No, siete stati voi!». Ecco, la mostra di Andrey Esionov, nel il rinnovato spazio espositivo dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, nel bene e nel male ricalca l’episodio sopracitato: non sono i quadri a piacere o deludere, è l’umanità stessa. Con occhio molto allenato e tecnica impareggiabile, l’accademico russo, plurititolato e pluripremiato, restituisce un documentario piccato e preciso di una realtà sorda, cinica e compiacente, zuppa di Bauman e di riferimenti biblici. Attraverso i quaranta acquerelli formato manifesto selezionati per la mostra, a cura di Alexander Borowsky, i Neo-Nomadi e Autoctoni paiono in verità contrastare la vocazione del titolo, apparendo come rigidi modelli o manichini di pelle congelati in questa aurora liquida, dinamizzatati ogni tanto da qualche riferimento simbolico, non viaggianti e persino mai nati; anche i migranti sono fermi al palo, le donne fumano distrattamente, i bambini si spengono, i vecchi attendono l’inevitabile... un mosaico drasticamente attuale, consapevolmente registrato dal pittore e sbobinato nella tecnica così difficile e inusuale dell’acquerello. Lo stesso curatore, nel testo del catalogo, cita Zygmunt Bauman ricordando come «nella cultura che nega il luogo, le persone diventano sempre più standardizzate, sostituibili, facilmente trasportabili e trasferibili da un posto a un altro», per questo ritrarle nella maniera più sincera restituisce inevitabilmente i loro spettri colorati. Al di là della godibilità dell’esposizione, merita spendere due parole sulla necessità di proporre rassegne di questo carattere, delicatamente oscillanti tra arcaismo e rigenerazione dei media tradizionali: innegabile, le forme di Esionov sono storicizzate anche nella recente evoluzione artistica del Novecento, prossime alla Pittura Colta identificata da Italo Mussa già negli anni Ottanta, ma è pur vero che si assiste con continua frequenza a prese di posizioni da parte di cospicui gruppi di artisti a ribadire il talento manuale (correnti come il Ritorno all’Ordine, l’Ipermanierismo, l’Iperealismo, il Fotorealismo … ) e stabilire una pittura di “ruolo”. Un’istituzione come l’Accademia, in quest’ottica, diviene lo scenario perfetto in fede alla sua vocazione didattica, pur tingendosi di un certo conservatorismo. L’urgenza è piuttosto di carattere linguistico, dovendo rigorosamente rispondere al pesante (e obsoleto, ormai) termine “contemporaneo”, togliendo, talvolta, quello smalto di freschezza, sincerità e, perché no, di romanticismo alle visioni pittoriche di buon impatto e richiamo collettivo, inteso sia in senso di fruizione che autoriale. Picasso docet. Luca Sposato

Andrey Esionov, Eve, Once Again, 2015 (carta, acquerello, 76×56 cm) Andrey Esionov, Neo Nomadi e Autoctoni, 2017 (carta, acquerello, 76×56 cm)

Andrey Esionov, La definizione dell’obbedienza, 2017 (carta, acquerello, 76×56 cm)

Massimo De Carlo, Milano

Luigi ONTANI

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a sempre ogni opera di Luigi Ontani è un preziosissimo microcosmo al cui interno sono racchiusi e custoditi innumerevoli riferimenti: dalla realtà alla mitologia, dalla religione all’esoterismo, alla magia. Non esiste una soglia o un confine che divida la questione dell’arte dalla vita, per l’artista diventano due entità inseparabili attraverso cui intraprendere il viaggio alla scoperta del sé; infatti punto focale della poetica di Ontani è l’esplorazione della propria identità attraverso l’identificazione fittizia con una moltitudine di persone, restituendo un’immagine di sè a cavallo tra memoria ed eternità. La personale Albericus Belgioiosae Auroborus a Palazzo Belgioioso diventa per l’artista una occasione per rapportarsi con la storia e l’architettura del luogo, mescolando l’indagine dell’identità individuale attraverso simbolismo e araldica, arricchendo ogni singola opera con riferimen-

40 - segno 272 | APRILE/MAGGIO 2019


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

CAMERA Centro Italiano per la Fotografia, Torino

Sandy SKOGLUND

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Sandy Skoglund, Lisa Fonssagrives, dress by Pierre Balmain, background by Marcel Vertès, 1953 (archival pigment print on Hahnemnuehle Baryta paper) Sandy Skoglund, Alix (Black Satin Dress), 1940 (gelatin silver print) courtesy Paci contemporary gallery (Brescia - Porto Cervo)

sistono vari generi fotografici che immortalano scene di strada, ritraggono persone, ma ciò che rimane in evidenza è il fatto che si tratta di una fotografia, ovvero un qualcosa che blocca il tempo e coglie quel preciso istante della realtà. Ma se il dispositivo fotografico spesso è additato come “non-arte”, chi meglio di Sandy Skoglund può affermare il contrario? La Staged Photography è forse il genere meno conosciuto, ma centrale negli scatti in mostra alla CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia. Nelle Visioni Ibride esposte sono presenti degli spunti davvero interessanti, che fanno del lavoro di Sandy Skoglund un progetto invidiabile per la forza innovativa e creativa. Di fronte alle stampe di grande formato, in primo luogo si è attratti dal sapiente uso dei colori, i quali governano le composizioni e caratterizzano le immagini, in quanto tutto è saturo di una scelta cromatica che abbraccia due tonalità per foto, spesso in contrasto perché complementari. Lo scarto che si viene a creare tra i due mette in evidenza e distingue nettamente ciò che costituisce l’ambientazione e, solitamente, le sculture che riproducono animali, bambini, per fare degli esempi. Il destinatario per eccellenza sembra quasi essere l’occhio di chi osserva, perché, nella loro stranezza e “anormalità”, queste immagini sono capaci di appagare la percezione estetica e al contempo stupiscono e portano il pubblico a porsi delle domande: ma sono fotomontaggi? O sono reali? Se sì, come ha fatto l’artista? La mostra si preoccupa di rispondere ponendo al centro delle stanze alcuni campioni di quelle opere scultoree che si vedono nelle cornici alle pareti. Nella loro impossibilità fisica, sembra impensabile che l’artista abbia creato tutto ciò che vediamo, perché siamo consapevoli che per ottenere risultati simili ci vuole una pazienza, una creatività e delle tempistiche molto lunghe. Questo dimostra a maggior ragione il livello artistico di Sandy Skoglund e il fatto che la si debba riconoscere in quanto grande artista, nonostante qua in Italia sia ricondotta più facilmente alla copertina di un libro. Ma ella non è solo “Revenge of the Goldfish” (1981), perché esso è solo uno dei tanti fantastici tableaux vivants che l’artista ha creato. Ciò che stupisce è il fatto che ella sia riuscita a creare tali situazioni senza usare programmi di editing fotografico già a partire dagli anni Ottanta. L’esposizione antologica torinese, permette di assistere allo sviluppo di questa tecnica, diventata ormai tratto distintivo di Skoglund, mostrando lavori a partire dagli anni Settanta, dove, senza ricorrere ad ambientazioni artificiali, si nota già la sua attenzione verso la gamma cromatica satura, la ripetitività dei soggetti e l’ambiguità delle situazioni. Il tratto che lega ogni opera oscilla tra il reale e la fantasia, tra mondo fisico e dimensione onirica, come se ciò che abbiamo di fronte fuoriesca direttamente dalla sfera inconscia dell’artista americana, la quale, attraverso la propria manualità e inventiva, riesce a far portarla alla vita, rendendo possibile l’impossibile. Cecilia Paccagnella

Luigi-Ontani, Courtesy Galleria Massimo De Carlo, Milano

ti mistici orientali, dettagli mitologici e onirici. Così otto grandi maschere in ceramica – dalle quali spiccano elementi antropomorfi come naso, occhi e bocca – si trasformano in un caleidoscopio di immagini e riferimenti complessi: in una pupilla al posto dell’iride vi è un medaglione che contiene l’immagine dell’artista nei panni di San Sebastiano, figure mitologiche si mescolano agli stemmi della famiglia Belgioioso fino a raggiungere la massima contaminazione tra storia, memoria, religione e reale. Emblematica risulta infine la scultura PalmAltrove, la pianta stellata richiama sia il perimetro della città di Palmanova che il motivo a mosaico del pavimento della sala espositiva, Ontani in questo microcosmo unisce elementi propri del simbolismo indiano ad altri appartenenti alla storia dell’occidente generando un macrocosmo dagli infiniti rimandi che guidano la mente verso mondi altri. Angela Faravelli APRILE/MAGGIO 2019 | 272 segno - 41


Incontri d’arte

Adriano ALTAMIRA A colloquio con Flaminio Gualdoni

Mantova, Complesso Museale di Palazzo Ducale Intervento artistico di Adriano Altamira “Sogni di carta nelle stanze dei Nani” Appartamento della Scala Santa 3 maggio – 30 giugno 2019

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rtista, storico e critico dell’arte contemporanea, Adriano Altamira si forma nel fecondo clima milanese degli anni Settanta, segnalandosi fra gli autori di spicco della generazione concettuale, conoscendo Vincenzo Agnetti a frequentando Luciano Fabro. Dagli esordi con la fotografia, alle ricerche iconiche e concettuali, Altamira ha esplorato sia il mondo delle Avanguardie che i meccanismi dell’analogia e dei collegamenti incosci fra percezione e memoria, attraverso dipinti, installazioni e disegni e pubblicazioni, con importanti personali e rassegne internazionali. - A partire dall’anno scorso, dopo un periodo di relativa calma, la tua attività ha conosciuto una notevole accelerazione: tre mostre, il libro Conceptual Rigoletta con le edizioni Corraini, il tuo nuovo sito web. Anche questo anno si annuncia ricco di eventi: il nuovo libro Istampita Ghaetta, sempre con Corraini; e la mostra al Palazzo Ducale di Mantova nell’Appartamento dei Nani. Puoi parlarcene? - Ti dirò innanzitutto brevemente del libro, che da un lato dovrebbe essere una specie di seguito di quello dell’anno scorso, anche se ne modifica alcune coordinate. Io sono sempre stato molto interessato ai romanzi sperimentali surrealisti e futuristi, che sostanzialmente sono rimasti, oggi, senza eredi. Conceptual Rigoletta era chiaramente ispirato alla trilogia di romanzi per immagini di Max Ernst, in particolar modo a Une semaine de Bonté. In questo mio secondo libro ho riconsiderato anche romanzi come Nadja e L’amour fou di André Breton, o Le paysan de Paris di Aragon; ma anche il Codice di Perelà di Palazzeschi, Sam Dunn è morto di Bruno Corra, e Le locomotive con le calze di Arnaldo Ginna.

Adriano Altamira, Terrecotte, anni ‘80 disposte in una collocazione arbitraria (misure variabili)

42 - segno 272 | APRILE/MAGGIO 2019

Adriano Altamira, Ad Ala d’angelo, 2000 (cm 150 x 100, fotografia da collage)


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Adriano Altamira, L’età del desiderio –anni ’90 (tele dipinte ad olio e squarciate - ingombro 60 x 80 x 20 cm)

– A proposito, cosa vuole dire Istampita Ghaetta? - L’Istampita è una danza medioevale, la cui musica ha assunto per me un valore particolare negli ultimi anni. Però si potrebbe qui ricordare quello che diceva Boris Vian del suo romanzo l’Automne a Pekin, che di fatto non trattava né dell’autunno né di Pechino. Adriano Altamira, La scultura anni ’50, 2010 (cm 30 x 35, carta e alluminio)

- Cosa ci dici invece di questa nuova mostra? So che la sua realizzazione non è priva di difficoltà… - Nel bene e nel male questa mostra –ispirata dal luogo stesso in cui viene realizzata- è condizionata dalla struttura del sito, un piccolo labirinto di stanze miniaturizzate note come Appartamento dei Nani –anche se in effetti aveva presumibilmente tutt’altra funzione. Tempo fa chiesi alla vicedirettrice Renata Casarin di poterlo rivedere perché l’ultima mia visita risaliva a quando avevo una ventina d’anni. Rivisitandolo (credo fra l’altro che l’Appartamento fosse stato chiuso al pubblico circa in quell’epoca), ho ritrovato tutte le fantasie che mi erano girate in testa in quell’occasione, e soprattutto nella mia visita precedente, quand’ero bambino. Il ricordo ovviamente è confuso, ma magico. E’ curioso che fra l’altro nel libro (Istampita Ghaetta, n.d.r.) io parli di questo luogo, avendo scritto quello che potrete leggere prima della visita, e soprattutto prima di sapere che avrei potuto realizzare il mio sogno di farci una mostra… - Come pensi di strutturare la mostra viste le particolarità del luogo? - Come ho detto, l’Appartamento è una piccola suite di minuscoli vani organizzati attorno ad una sala ottagonale, che in foto sembra grande, ma in realtà è anch’essa minuscola. L’idea è di ambientare una serie di installazioni, nella sala ottagona e in quella con l’altare, ed altre tre nelle stanze con le finestre sul cortile. - Solo tre stanze hanno le finestre? - Si, in effetti il luogo è sempre immerso in una penombra misteriosa e suggestiva, che in parte voglio conservare. Data la fragilità dell’architettura, tutta in stucco, ho pensato di esporre delle sculture di carta su intelaiatura di metallo, semplicemente poggiate al suolo e anch’esse fragilissime. - Era dal tuo periodo dei Sogni (anni ’80, n.d.r.) che non facevi più sculture… - …in effetti molte delle cose che vengono esposte sono realizzazioni di progetti di quell’epoca, sui disegni eseguiti allora. Ma ci sono anche opere del periodo dei Visti per caso, eseguite nei due decenni successivi. Come tu ben sai, uno dei miei problemi è sempre stato quello di far capire che non c’è una vera differenza fra le mie opere diciamo, storiche, di Area di Coincidenza e quelle successive, cioè i Sogni e i Visti per caso. APRILE/MAGGIO 2019 | 272 segno - 43


In tutti e tre i cicli, i protagonisti sono i meccanismi della memoria, l’inconscio, la scelta automatica (nel senso surrealista del termine) dell’immagine. Certo, a volte le differenze, a livello dell’apparenza esteriore, possono sembrare notevoli, ma da un punto di vista concettuale non vi è una differenza sostanziale. - Come mai questo ritorno così sottolineato ai tuoi esordi? - E’ un ritorno sollecitato dalla memoria di quegli anni, anche perché grazie alla creazione del mio sito web ho dovuto riconsiderare con attenzione, dopo tanto tempo, quei periodi; come del resto mi sembra stiano facendo alcuni collezionisti. Inoltre nella serie delle quattro mostre tenute alla Fondazione Marconi tra il 2008 e l’anno scorso ho privilegiato l’aspetto concettuale della mia ricerca. Ora vorrei approfondire anche altri aspetti del mio lavoro, come ad esempio i Sogni realizzati in tre dimensioni e i Visti per caso, anche se considero questi ultimi come facenti parte del mio lavoro più “mentale”. In Area di Coincidenza mettevo in sequenza opere simili di autori diversi, che associavo automaticamente fra loro. La cosa ebbe molto successo anche perché sembrava un’operazione sociologica, fatta con un taglio scientifico, Nei Sogni invece realizzavo in 3D una immagine che esisteva solo nella mia testa, che non aveva mai fatto parte della realtà. Nei Visti per caso riconoscevo il potenziale estetico di oggetti o immagini accostate per puro caso, che sottraevo al flusso degli eventi esponendole come opere. In tutti e tre i casi il legame non è con quello che ho fatto, ma con quello che ho visto. - Fra le tue opere quali sono quelle più considerate? - In assoluto rimangono quelle di Area di Coincidenza. Negli ultimi anni, grazie anche ad alcune retrospettive, ho esposto non solo le opere vintage, ma anche alcuni vecchi progetti lasciati

Adriano Altamira, Mimus albus, progetto 1981 (carta alluminio e acciaio), 2019 Adriano Altamira, Da Area di coincidenza 
16/16 (17), fotografia, 1972

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Adriano Altamira, Non ha l’ottimo artista, 1971-2014 (marmo, cm 50 x 35 x 35), Courtesy Studio Marconi

a metà, completati per l’occasione. Però recentemente ho visto che sta crescendo l’interesse per i Visti per caso, per cui, in qualche modo, posso dire che il cerchio si sta chiudendo. n

Adriano Altamira, Piero della Francesca: riassunto, 1972-2014 (cm 150 x 100) (tela ovale, acrilico con un elemento di alluminio verniciato)


attivitĂ espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Adriano Altamira, Annunciazione in eptagono, 1979-2014 (cm 100 ca. foto dietro plexiglas sagomato)

Adriano Altamira, Mostra di Area di coincidenza - Ferrara Padiglione di Arte Contemporanea, 1977

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Galleria Continua, San Gimignano

Giovanni OZZOLA Nikhil CHOPRA Nari WARD Ilya & Emilia KABAKOV

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e personali allestite da Galleria Continua nella sede di San Gimignano, propongono l’opera di artisti noti a livello internazionale e già presentati in altre occasioni negli storici spazi della galleria. Giovanni Ozzola propone Octillion, un progetto espositivo che comprende lavori scultorei, fotografie e un’opera video realizzata per la mostra. Il titolo della personale fa riferimento al rapporto di interdipendenza che ogni essere umano ha nell’universo, essendo di questo “infinita parte” e, secondo quanto afferma l’artista, si riferisce all’ottilione che è “una cifra numerica seguita da quarantotto zeri, il numero di atomi che compongono il corpo umano ed è idealmente l’immagine da cui ha preso avvio questo progetto espositivo”. I temi filosofici e scientifici dunque, e come di consueto, sono basilari per la ricerca di Ozzola e costituiscono aspetti fondamentali della sua progettazione. L’uomo nella visione dell’artista è collegato alle più recenti scoperte astrofisiche ed è costituito, come l’universo, da agglomerati di atomi, risultato di processi fisici millenari, essendo contemporaneamente al centro di “geografie cosmiche”. A queste geografie e alle mappature dello spazio, che presuppongono a priori lo sguardo umano, è dedicata buona parte dei lavori in mostra, quali la serie delle incisioni in alluminio, caratterizzate da molteplici geometrie e astrazioni, che emergono nette dalle superfici e sono realizzate mediante dei sofisticati sistemi di resa grafica. Contemporaneamente vi sono altre immagini legate al patrimonio di segni che l’uomo tramanda come sua cifra e testimonianza del suo essere sul pianeta. Queste fanno riferimento ai graffiti lasciati nei bunker delle Isole Canarie in Spagna, dove Ozzola attualmente risiede; sono dei bunker costruiti durante la dominazione di Francisco Franco ed ora abbandonati, laddove anonimi autori hanno lasciato pitture e alfabeti. L’artista ha recuperato queste tracce mediante la tecnica dello strappo, come nell’affresco, ed esse ora compaiono sui “muri” presentati in mostra, come in una sorta di negativo, in cui l’utilizzo della pittura è determinante. L’artista mette in risalto in queste opere la ‘pelle’ della superficie pittorica, le sue asperità, le parti concave e convesse e

Giovanni Ozzola, Sin tiempo 2017 - 7’54’’ 4k, suono, dimensioni variabili / 7’54’’ 4k, sound variable dimensions Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

le cicatrici, analoghe a quelle della vita umana. Rilevante è anche il ciclo di Fallem Blossom, nel quale sono protagonisti fiori e foglie, caduti a terra dopo aver raggiunto il loro apice vitale. È una consistente serie di opere con elementi naturali e artificiali, in rapporto dicotomico, che inducono la riflessione sulla caducità della bellezza, effimera in natura e nell’esistenza dell’uomo. Drawing a Line through Landscape è il titolo della personale dell’artista indiano Nikhil Chopra, opera tra l’altro presentata nel 2017 a Kassel, in occasione di documenta 14. Centrata sulla tematica del viaggio, sui 3688 chilometri percorsi da Chopra da Atene a Kassel, propone paesaggi differenti, disegnati dall’artista, in un percorso punteggiato da stazioni di sosta, da oggetti, da azioni performative, tipiche dell’esperienza della vita reale e legate al processo creativo dell’opera d’arte. Il disegno, e talora le foto, documentano il cammino affrontato, i cambiamenti spazio-temporali fra l’inizio del viaggio e la sua conclusione. L’avanzare, chilometro dopo chilometro, rimanda “agli spostamenti nomadi dei secoli scorsi nonché alle rotte migratorie che ancora oggi vengono disegnate” (Natalia Ginwala). Così la lunga performance di Chopra rivive nello spazio della Galleria Continua, particolarmente nella platea dell’ex cinema, dove è parcheggiato il carrello del mezzo usato per gli spostamenti e dove è collocata la grande tenda per le soste e il riposo. In omaggio alla personale di Nikhil Chopra a San Gimignano nel 2012, sono presentate fotografie di Inside out a testimoniare la performance di novantanove ore dell’artista, il suo vivere alla ribalta, in un rapporto costante tra l’io soggettivo e il luogo, perno di memorie collettive.

Giovanni Ozzola, Stars - Chart, veduta della mostra 2018 incisione in alluminio, filo in bronzo (180 x 120 x 1 cm) Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Giovanni Ozzola, Azul 2018 - stampa giclée su carta cotone, Dibond, cornice (150 x 223 cm) - giclée print on cotton paper, Dibond, framed (150 x 223 cm) Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

Down Doors è la personale di Nari Ward, artista giamaicano residente a New York, costituita da una serie di grandi installazioni, di sculture, in cui l’elemento costantemente riconoscibile è la porta: “un oggetto - afferma l’artista – che, quando è in uso, suggerisce uno spazio di transizione da un luogo all’altro”. Ed è proprio sul concetto di transizione da un luogo all’altro, da un ‘idea al suo opposto che si inserisce il lavoro dell’artista, oltrepassando la mera funzionalità dell’oggetto e delle altre cose proposte con esso, a costituire un ‘assemblage’ estetico ed etico. È noto come l’artista porti avanti da sempre una poetica basata sugli oggetti di scarto e sulla loro trasformazione, il tutto sotteso da tematiche di natura socio-politica che ispirano il fare. Nella proposta infine degli artisti ucraini, conosciuti internazionalmente, Ilya & Emilia Kabakov, titolata The Eminent Direction og Thoughts, le cose della vita quotidiana acquistano una loro intrinseca poesia. L’installazione, omonima al titolo della

Nikhil Chopra, Drawing a Line through Landscape 2017. Performance, installazione, costumi, scenografia, stoffa, disegni, video Progetto commissionato da documenta 14 e supportato da Piramal Art Foundation, Payal e Anurag Khanna, GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana e Chatterjee & Lal. Collaborazioni, interventi con performance: Sofia di Ivo Ivan, Gorna Lipnitsa di Madhavi Gore e Jana Prepeluh, Budapest di Ivan Angelus e Budapest Contemporary Dance Academy. Costumi: Loise Braganza. Set Design: Aradhana Seth. Film: Sophie Winqvist. Autore della canzone: Gautam Sharma. Musica: Ranjit Arapurkal Autista: Stephen Frick. Documentazione: Madhavi Gore. Assistente di progetto: Shaira Sequeira. Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Nikhil Chopra, veduta della mostra “Drawing a Line through Landscape “ GALLERIA CONTINUA, San Gimignano 2019 Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

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mostra, presenta una sedia vuota al centro della torre in semi oscurità, con delle corde colorate che da questa arrivano al soffitto, dove è localizzata una lampada a illuminare l’intorno. L’opera conduce ad una dimensione intima e privata e fa percepire una fitta rete di relazioni che si diffondono nell’ambiente. L’attenzione alle piccole cose del quotidiano, ai dettagli, è costante nel lavoro dei due artisti, al contempo l’ottica particolare ed ironica con cui la materia è trattata coniuga fantasia e realtà, attributi questi tipici anche dell’esistenza umana. Rita Olivieri

Ilya & Emilia Kabakov, The Eminent Direction of Thoughts 2017 (sedia di legno, stringhe / wooden chairs, strings) Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Ilya & Emilia Kabakov, The Rope of Life 1985-2018 (installazione, materiali vari / installation, mixed media) Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

Nari Ward, Down Doors 2019 vedute della mostra | GALLERIA CONTINUA, San Gimignano. Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

Luca Tommasi, Milano

Philip ALLEN

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na sola parola, Deepdrippings, da pronunciare tutta d’un fiato. È questo il titolo della prima personale in Italia di Phillip Allen alla galleria Luca Tommasi. L’artista inglese, classe 1967, dissolve se stesso nella pittura a olio esasperandola fino a indagare i limiti della bidimensionalità. Sembra mischiarne le carte: tela e cornice, figura e sfondo, margini e centro si dissolvono in un all over parossistico di grumi ed escrescenze, artifici ed “espressionismi”. L’opera si stratifica nella sua materialità solidificandosi e sprigionando odore di colore appena steso, rappreso e saturo. Il gioco intellettuale e visuale è sofisticato: le opere di Allen evocano l’azione del pittore mentre l’impasto cromatico sembra autogenerare veri e propri screen saver. Una lezione fondamentale per l’artista è, non a caso, quella del concetto di “spazio acustico” definito da Marshall McLuhan, teorico della comunicazione contemporanea. La pittura di Philipp Allen agisce su tutti i nostri sensi attraverso il “rumore ambientale” di segni che deflagrano al limite dell’oggettualità. (red.dal cs)

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Phillip Allen, Deepdrippings, 2018. Courtesy-Luca-Tommasi, Milano


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

A arte Invernizzi, Milano

Niele TORONI

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arcando la soglia d’ingresso della galleria A arte Invernizzi le impronte di pennello n. 50 a intervalli regolari di 30 centimetri dipinte da Niele Toroni (Muralto-Locarno, 1937) guidano il visitatore nell’esplorazione dello spazio espositivo attraverso una scansione dal ritmo a volte serrato, altre volte inatteso dei segni pittorici distribuiti dal pittore sulle superfici più disparate. Segno distintivo e di riconoscimento che l’artista ripete dal 1967, l’impronta di pennello diventa materializzazione di una irripetibile e sempre mutevole individualità in quanto dietro all’iterazione e ad un metodo di lavoro sistematico si cela l’energia vitale che rende ogni impronta di pennello differente dalla precedente. Per questa occasione Niele Toroni ha incentrato il progetto espositivo attorno al numero 25, un omaggio per l’anniversario del venticinquesimo anno di attività della storica galleria milanese. Se da un lato l’intervento realizzato ad hoc costituito da 25 impronte di pennello dorate – a distanza di 30 centimetri – distribuite su due file dipinte direttamente sul muro conferisce un forte senso di simmetria, proporzione, rigore e ordine, dall’altro l’installazione nella piccola sala successiva composta da 25 fogli di carta – ciascuno contenente un’impronta di pennello arancione – disseminati sulle pareti come una costellazione, secondo multipli di 30 centimetri di distanza, lascia che i tocchi pittorici possano diventare generatori di energia nella percezione dello spazio come campo attivo. Al piano inferiore l’opera Impronte di pennello n. 50 a intervalli di 30 cm (1987) – composta da 25 tele di 100x100 cm ciascuna – di grande im-

Francesca Minini, Milano

Dan GRAHAM

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a una fascinazione per la moda e l’architettura, di cui Milano è capitale riconosciuta a livello internazionale, nasce il progetto espositivo di Dan Graham Fashion and Architecture
, che per la seconda mostra da Francesca Minini mette in dialogo opere video, testi e disegni affiancati dai suoi over-sized model pavilion. Pioniere dell’arte concettuale, la sua ricerca da sempre è affiancata da un’intensa pratica di scrittura, iniziata con le prime opere concettuali pubblicate su numerose riviste, fino ad arrivare ai testi di analisi sociale e culturale caratterizzati da un particolare interesse per la musica e la cultura pop. Negli anni Settanta il lavoro dell’artista evolve verso un’indagine delle interazioni sociali e dei confini tra lo spazio pubblico e quello privato, attraverso padiglioni e progetti architettonici.

Niele Toroni, Impronte di pennello n. 50 a intervalli di 30 cm, 1997 (acrilico su tavola, 3 elementi, ø 53 cm ciascuno) Courtesy A arte Invernizzi, Milano. Foto Bruno Bani, Milano

patto visivo, è un invito allo sguardo dello spettatore affinché nella serialità apparente sappia invece cogliere l’individualità racchiusa ed espressa nella ripetizione. La semplicità e la radicalità della poetica di Niele Toroni pongono l’accento sull’importanza di ciò che è dato a vedere, di come eternità e istante si fanno un tutt’uno nella sua opera, in un gesto quasi tantrico che attraversa il tempo dell’esistere. Angela Faravelli Partendo dal concetto di intersoggettività, i padiglioni di Dan Graham creano degli spazi dialettici in cui il fruitore è contemporaneamente attore e spettatore, in un continuo gioco di riflessi e trasparenze. Concepiti come opere scultoree, gli over-sized model pavilion dialogano con i disegni, i collage e gli scritti pensati per il progetto della boutique londinese di Liza Bruce. 
Ulteriore importante legame con il mondo della moda è il padiglione realizzato per la sfilata di Céline a Parigi durante la settimana della moda del 2017. In mostra, il video del défilé evidenzia come il corpo in movimento delle modelle segua la sinuosità dei suoi vetri semi-specchianti e delle pareti traforate. Nell’ultima sala della galleria, il video Don’t Trust Anyone Over 30 è un lavoro, originariamente presentato come un vero concerto rock’n’roll di marionette, ambientato negli anni Settanta, quando il movimento hippie si spostò dalle campagne per andare a popolare le città. Per Dan Graham quest’opera rappresenta lo strumento di condivisione per tutti i nonni e i padri dell’epoca hippie che desiderano trasmettere ai loro nipoti e figli i ricordi del fermento culturale di quegli anni.(red,dal cs) n

Dan Graham, Don’t Trust Anyone Over 30’ (still video, courtesy Francesca Minini, Milano)

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Galleria Nicola Pedana, Caserta

Pietro PAOLINI

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envenuti in Sud America. La mostra di Pietro Paolini alla galleria Nicola Pedana di Caserta è un diario di viaggio, ogni scatto è un evento, un’emozione, un incidente di percorso. Il titolo della mostra è Along the route, la cura di Silvia Salvati. Si entra in galleria e si respira un’aria rarefatta, ricca di luci, di cieli, di figure strappate alla vita reale, quotidiana, e portate lì, a vivere in un unico respiro nella dilatata e luminosa sala di Nicola Pedana. Le foto, stampate in grande formato, reggono il rapporto con lo spazio, danno ritmo alla grande parete, vivono giuste pause nell’alternarsi delle finestre. Insomma, un allestimento che, grazie anche ai testi riportati su parete, ha carattere, un carattere museale, sobrio, ma al tempo steso di alto impatto visivo, canonico. Pietro Paolini è un fotografo in viaggio, un narratore on the road. Racconta i suoi incontri di strada, le sue meraviglie, i suoi stupori. Il paesaggio è quello sudamericano, con gli accadimenti, le architetture, le impressioni. Sono immagini che parlano di contraddizioni, di eccessi. Il Sud America come un grand tour, tra Bolivia, Ecuador e Venezuela. E Pietro Paolini come un viaggiatore d’altri tempi, alla ricerca delle radici di una cultura, ma anche sulle tracce della vita reale, dei conflitti, delle ansie, del lavoro, degli incubi come dei sogni. Si osserva il Sud America, immortalando il cambiamento sociale e politico, la svolta epocale e le resistenze al mutamento, e soprattutto le contaminazioni, gli spaesamenti, le migrazioni del pensiero, le influenze della globalizzazione. Il sud è il sud. Non è solo una condizione geografica, ma è un’attitudine mentale, un approccio alla sopravvivenza. E al viaggiatore virtuoso non sfuggono similitudini e parallelismi tra i sud del mondo. Si è tra il cemento di Caracas ma è lo stesso grigio delle Vele napoletane di Scampia. Si è vicini all’implosione, eppure basta spostarsi di un passo e si vive una condizione naturale, una dimensione sontuosamente elegiaca. Essere sud significa vivere la bellezza, esserne immersi esaltandola, ma anche soffrire l’abitudine al bello, fino a generare degrado, disordine, marginalizzazione. Ritrovare la bellezza nel degrado è proprio il compito del viaggiatore del grand tour. C’è sempre un altrove dietro ogni immagine e la medaglia mostra il suo rovescio.

Pietro Paolini, alcune immagini da Along the route courtesy Galleria Nicola Pedana, Caserta

Lungo il percorso, Along the route, avvengono vere e proprie apparizioni. C’è un clima caldo, fatto di attese e di improvvise sommosse. La vita scorre fatalmente, tra un meccanico intento a riparare l’auto e un votante al seggio elettorale, tra il tempio del gioco e i colossi residenziali. Ogni scatto è una stazione di viaggio. Enzo Battarra

Galleria Il Ponte, Firenze

Hidetoshi NAGASAWA

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econda retrospettiva stagionale presso la galleria Il Ponte di Firenze, dopo la riuscita proposta di Carol Rama, stavolta dedica nei propri spazi una più specifica attenzione alla scultura, presentando uno tra i massimi esponenti del settore; Hidetoshi Nagasawa – la scultura degli anni Settanta si ritaglia, nella frenesia fiorentina tutta concentrata all’anniversario di Leonardo Da Vinci, una radura non inquinata da urgenze celebrative e decisamente ricercata. Concentrando filologicamente un percorso dell’artista dal 1969 al 1979, la forza di questa mostra risiede proprio nella sua discrezione, prediligendo narrare l’evoluzione metodologica di Nagasawa piuttosto che puntare sull’effetto spettacolare (spesso raggiunto) della sua produzione: partendo dal puro concettualismo Kosuthiano, evidente in Pulverize – Cloth Bucket del 1969, si percepisce una raffinata indagine di pensiero, farcita di filosofia Zen, che penetra la materia con incedere elegante, mai violento, per trasformarla senza rivoluzionarla, ma applicando una pura e minimale azione gestuale-ambientale mantenendo integra la sua natura. Ne L’Oro di Ofir del 1971 e Gomito del 1972, per esempio, l’estremizzare l’intervento anatomico ad un unico tocco propende sia a quella “fedeltà del materiale”, già divulgata da Henry Moore, sia, con i suoi richiami biblici, ad una meditazione extracorporea. La profonda cultura di Nagasawa ritorna con Presentazione al Tempio del 1974, dove il sofisticato richiamo tecnico al plausibile cartone delle opere speculari omonime di Giovanni Bellini e Andrea Mantegna (1455 circa) evoca una lieve flessione romantica soprattutto mirante le nozioni di Spazio e Tempo; queste riflessioni, unite alla necessità di intraprendere un percorso maggiormente plastico, portano l’artista ad allontanarsi dalle seducenti tautologie dell’Arte Concettuale e concentrarsi sulla cultura del MA (“vuoto pieno

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Hidetoshi Nagasawa, Viti di Bagdad,1975 - Colonna, 1972 Courtesy Galleria Il Ponte Firenze

di senso”) ponderando il viaggio come forma esistenziale ed estetica, passaggio già manifesto in Un’altra metà e nel capolavoro Colonna (entrambi del 1972), testimonianza continua e perpetua della ricerca di Nagasawa, massiccia e imbevuta del profumo di invisibile. Luca Sposato


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Alberto Peola Artecontemporanea, Torino

Simone MUSSAT SARTOR

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no dei momenti famigliari più ricordati nostalgicamente è il ritrovarsi tutti insieme in soggiorno a sfogliare gli album fotografici, in cui sono collezionati gli istanti più significativi dei vari componenti della famiglia. Con l’avvento del digitale, queste memorie rimangono nelle cartelle del computer sotto forma di file e spesso vengono dimenticate, oppure occasionalmente ripescate, ma la grande quantità di scatti difficilmente trova concretezza nella stampa e quindi quel luogo d’incontro intimo descritto poco sopra tende a venir meno. Un’invenzione di vecchia data negli ultimi anni è tornata in voga grazie a Fujifilm e Polaroid, le quali hanno ricominciato a produrre macchine fotografiche istantanee, attirando l’attenzione soprattutto dei giovani, fino a diventare quasi una moda. La Galleria Alberto Peola inaugurando la mostra di Simone Mussat Sartor, dimostra come un medium così accessibile e “commerciale” possa essere utilizzato per creare qualcosa di artistico (basti pensare che in passato molti artisti hanno creato opere e improntato lavori con lo stesso principio). Come sempre, diventa arte ciò che viene definito tale, alla base del quale è necessaria un’idea forte e capace di trasmettere ciò che l’autore vuole comunicare. Nelle Memorie private che abitano le pareti della galleria per tutto il periodo della mostra, Simone decide di rendere la propria sfera personale soggetto attraverso le sue tre figlie. Invece di sfogliare l’album nella propria casa, egli le ha volute esporre e farne il fulcro del proprio pensiero artistico. Con alla mano tre macchine istantanee (Kodak Instamatic, Polaroid 600, Polaroid Spectra), caratterizzate da altrettanti formati diversi, il padre immortala alcuni momenti delle vite delle proprie figlie, togliendo di conseguenza la naturalezza e la casualità dell’atto in sé, preoccupandosi piuttosto di ottenere dei risultati studiati a livello compositivo. Nelle immagini che abbiamo di fronte, infatti, è possibile cogliere un rigore geometrico che definisce gli spazi e la ripetitività dello stesso con l’unica differenza nel soggetto: i quadretti appesi ospitano tre scatti ognuno (ottenuti dalla medesima macchina), al cui interno la protagonista cambia, ritraendo le tre figlie nelle stesse circostanze. Questa esattezza viene messa in discussione dalla materialità del supporto, perché – chi usa questi tipi di dispositivi

Simone Mussat Sartor, Private Memories, 2018 (polaroid, dimensioni variabili) courtesy Alberto Peola Arte Contemporanea. Ph Beppe Giardino

lo sa – si può immortalare la stessa scena, ma la pellicola non sarà mai uguale alla precedente a causa di eventuali macchie, o un diverso modo di imprimersi sulla carta da parte della luce, creando gamme cromatiche sempre differenti. Inoltre, il ricorso a tre formati è di per sé un elemento che scardina la linearità delle composizioni, accentuato dalla scelta di utilizzare pellicole a colori, in bianco e nero o seppia. La cosa che salta all’occhio alla fine del percorso è la visione di una cornice in cui sono presenti quattro scatti, dove l’ultimo sembra quasi dichiarare indirettamente la presenza del fotografo-autore, fino a quel momento non considerato, ma che è in realtà l’ingranaggio indispensabile. L’intimità famigliare, solitamente considerata invalicabile, è il punto di forza del lavoro di Simone Mussat Sartor, il quale riesce a porre la propria quotidianità su di un piedistallo, coinvolgendo il pubblico che, nonostante possa risultare quasi voyeur, è invece invitato ad osservare. Tutto può essere arte e Simone ce lo dimostra in modo efficace, anche perché la patina acquosa che sembra rivestire queste fotografie, può essere assunta come “tecnica pittorica” in grado di formare scene suggestive quasi come delle piccole tele. Cecilia Paccagnella

Raffaella De Chirico Arte Contemporanea, Torino

Diego IBARRA SÁNCHEZ

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a situazione critica che stanno vivendo i paesi del mediooriente è, a malincuore, sotto gli occhi di tutti. Si parla di guerre tra nazioni o tra faide di scuole di pensiero diverse, si vedono immagini di luoghi distrutti e uomini armati, ma altre sfere spesso e volentieri sono tenute in secondo piano o date per scontate. Nel mirino delle notizie, infatti, è difficile trovare focus sulla condizione dei cittadini di queste regioni, tanto meno dei bambini, se non alcune riprese di questi ultimi che spezzano il cuore. Diego Ibarra Sánchez, fotoreporter di professione, fa ruotare i propri lavori attorno a queste realtà, al fine di fare aprire gli occhi agli osservatori. Con la mostra “Alive and Well”, egli espone alcune fotografie, divise tematicamente: da un lato troviamo il progetto “Hijacked education”, mentre dall’altro immagini che ritraggono ulteriori scene di vita in questi paesi. Il progetto principale riguarda un’educazione depredata (traduzione letterale del titolo) attraverso il quale l’artista vuole dimostrare come la violenza e la distruzione della guerra affliggono il territorio fisicamente, provocando delle conseguenze sui futuri cittadini dello stesso. In una fotografia in particolare, si vede una classe di una scuola con i banchi vuoti tramite un buco nel muro. Al primo impatto, lo spettatore ha l’impressione di sbirciare questo luogo e il foro sembra essere un escamotage artistico, ma se si osserva con un occhio diverso, è chiaro che si tratta di una effettiva condizione dell’edificio colpito dalla guerra, intuitivamente abbattuto. In un’altra stampa è posta in primo piano una bambina che sta indossando una maschera antigas: in questo caso la denuncia del fotografo riguarda l’educazione distorta che viene imposta, dove i bambini vengono cresciuti istruiti alla guerra, facendogli indossare oggetti

Diego Ibarra Sánchez, Alive and Well, Galleria Raffaella De Chirico Torino, 2019

simili e insegnandogli ad utilizzare le armi, apparentemente giochi. L’altra parte della mostra propone fotografie che immortalano la quotidianità di questi luoghi, dove la povertà e la tradizione contrastano con i grattacieli, ad esempio. Il tono della ricerca di Diego Ibarra Sánchez, dunque, è aspro nei confronti di società in cui non viene preservata la crescita delle nuove generazioni, a scapito del loro stesso futuro, preferendo sviluppare delle menti ancora non plagiate in vista di un “conflitto senza fine”. Egli, a tal proposito, sostiene che “l’intolleranza e la paura stanno spazzando via il futuro” di tali cittadini in erba. Il suo ruolo, quindi, è volto alla denuncia di tali avversità, facendosi carico di documentare il tutto con lo scopo di indurre le persone a prendere coscienza di cosa comporta un conflitto armato, attraverso la sua macchina fotografica. Ponendole come opere d’arte, però, si rischia di fraintendere il punto focale della questione, ma sta nell’empatia del pubblico riuscire a scindere le due cose e capire che, per quanto gli scatti siano esteticamente belli, vogliono anche dar voce a ciò che ha visto e vissuto l’autore in quei precisi momenti. Cecilia Paccagnella APRILE/MAGGIO 2019 | 272 segno - 51


Fondazione VOLUME!, Roma

Percezioni complesse

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perimentazioni dal sapore scientifico nate con l’obiettivo di investigare e analizzare il rapporto tra arte contemporanea e neuroscienza è il nuovo concept su cui ruota PERCEZIONI, ultimissimo progetto ideato dalla Fondazione VOLUME! di Roma. Dopo venti anni di attività, durante i quali la flessibile location si è trasformata in un luogo sempre inedito e diverso grazie all’intervento di numerosi artisti invitati a realizzare un’opera d’arte percorribile ed esplorabile, la Fondazione ha sentito l’esigenza di analizzare le esperienze del fruitore mutuando VOLUME! in un laboratorio per indagare le capacità della produzione artistica di attivare “percezioni complesse”. Una modalità elaborata da Francesco Nucci – presidente e fondatore della fondazione nonché neurochirurgo, docente universitario e promotore culturale – che afferma di aver sentito la necessità di collezionare non più la parte materiale dell’opera bensì il suo processo creativo. A tal proposito il pubblico è invitato a entrare nello spazio senza condizionamenti (in solitario, senza orologio, né cellulare, né testo critico) e con un questionario da compilare davanti al lavoro ideato dall’artista. All’uscita stimerà personalmente il tempo di visita e metterà su carta, in forma anonima, le proprie impressioni riguardo l’esperienza appena conclusa. A questa fase si affianca un secondo esperimento, coadiuvato da istituzioni neuro-scientifiche italiane e straniere, rivolto ad adolescenti sotto i 15 anni e ai malati di Alzheimer nelle fasi iniziali in quanto rappresentanti di due aspetti di un unico studio sulla memoria (in formazione nei primi e in un tentativo di recupero nei secondi). Strade diverse ma indispensabili per avere indicazioni sull’utilità dell’arte nei meccanismi percettivi e della loro elaborazione cerebrale. In seguito, i risultati della ricerca saranno presentati in un convegno e raccontati in un libro. Arrivato al suo secondo appuntamento, PERCEZIONI proseguirà fino a inizio 2020 e vedrà alternarsi artisti sia alla prima esperienza con VOLUME! sia già ospitati nel passato, la cui identità è rivelata solo dopo il disallestimento di ciascuna mostra. La nuova serie di esposizioni, inaugurata in febbraio con il lavoro di Mariella Bettineschi, ha visto protagonista a marzo Valentina Palazzari (Terni, 1975 - vive e lavora a Roma) con un intervento site specific per un nuovo test sulle percezioni dell’osservatore che, percorrendo un lungo e curvilineo corridoio, arriva con ansia e curiosità in un ambiente ovale dal sapore materno. Il bianco accecante domina il piccolo vano in cui è custodita l’opera installativa costituita da pietre, vasi di argilla

Percezioni #2, Valentina Palazzari foto di Roberto Felicori, courtesy Fondazione VOLUME!

e foglie secche posizionati in modo vario. L’accogliente forma dello spazio contrasta fortemente con il senso di pesantezza e di malinconia sprigionata dall’installazione, dove l’incombere grave di massi, vasi e foglie adagiati su tre sacchi di plastica sospesi sopra la testa dello spettatore è ribadita nella parete frontale, sulla quale piccoli tondini di metallo sostengono i citati recipienti contenenti grosse rocce. Tutto sembra instabile. Sul pavimento alcuni vasi caduti alludono alla catastrofe che a breve potrebbe sopraggiungere. Conservando la storica formula – libertà assoluta all’artista nella creazione e nella scelta del tema – ma imponendo uno spazio ad hoc per la ricerca descritta, il sito di Via San Francesco di Sales si rinnova immettendo linfa vitale nella vita culturale capitolina. Maila Buglioni

The Gallery Apart, Roma

Marco STRAPPATO

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elicata, candida, essenziale e spirituale sono gli aggettivi per definire la nuova personale di Marco Strappato. Nato sulle rive del mare (Porto San Giorgio, 1982 – vive e lavora a Milano) l’artista presenta una summa della sua indagine imperniata sull’immagine del paesaggio attraverso l’impiego di molteplici approcci, mezzi e modalità espressive. Una eterogeneità che palesa i suoi studi in scultura (MA Royal College of Art di Londra), in film e video (Accademia di Belle Arti di Brera) e in pittura (Accademia di Belle Arti di Firenze) rivelando sia la sua inesauribile fame di apprendimento sia la sua tendenza al nomadismo, condizione che lo ha condotto attualmente ad un progressivo ritorno verso la sua terra natale. Una inclinazione esplicitata già nel titolo della mostra: Au-delà è, infatti, una dichiarazione della sua intenzione ad andare oltre le esperienze vissute per una riaffermazione dell’Io e delle proprie origini. Il carattere autobiografico ritorna costantemente nei lavori proposti in cui l’Io e il ricordo del territorio marchigiano s’intersecano con l’evocazione di alcune figure emblematiche del recente passato della storia dell’arte nostrana. Inizialmente investigato attraverso la fotografia a colori I’ve just seen two suns on the horizon, I’m feeling comfortable anyway, il tema del paesaggio ritorna nelle immagini monocromatiche raffiguranti le convenzionali schermate dei desktop, abilmente resi irriconoscibili, in cui il chiaro richiamo a Bonalumi, Fontana e Manzoni, vuole essere solo un campionamento colto volto a fornire una inedita interpretazione dei possibili intrecci tra ricerche artistiche e rappresentazione di panorami. La costa adriatica è invece protagonista del video Flying over the white threshold, 52 - segno 272 | APRILE/MAGGIO 2019

Marco Strappato, Au-delà © The Gallery Apart Roma

per poi ricomparire nelle grandi tavole scultoree ghirriane elaborate attraverso il processo del togliere elementi sentiti ridondanti. Il dominio del bianco, allegoria di una pagina aperta per contenere significati stabiliti dall’artista, è in esse preponderante come anche nelle piccole figure Untitled (bodies, bomber, bones) adagiate su tondeggianti supporti in legno recuperati sulla spiaggia. In ultimo, ma non ultimo, un piccolo autoritratto ad olio in cui la sagoma nera dell’autore e della cornice fanno da contraltare alla luce accecante che entra dalla finestra: mera metafora della ricerca del sé e sintesi del cammino finora percorso, in cui tecnologia e tecniche tradizionali s’incontrano e si fondono per dar vita ad un’esposizione essenziale tramite procedimenti di selezione, livellamento e occultamento. Maila Buglioni


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Ex Elettrofonica, Roma

Sergio BREVIARIO

I Spazio Nuovo, Roma

Marina PARIS

I

l frammento, come elemento paradigmatico della ricerca artistica, di base strutturale e visiva di una condizione metaforica che è nell’immagine e nella struttura architettonica, è proposto anche come sintassi e morfologia. Perfino nell’osservazione dei luoghi e dei suoi tratti visivi riconoscibili e stereotipati, si ritrovano tracce di un vissuto attraverso cartoline di un’epoca passata, che rimanda a una stringente attualità cristallizzata in attimi trattenuti. Nel più recente percorso artistico di Marina Paris il frammento è la chiave di violino, ed è il tratto riconoscibile della mostra Urban Fragment, alla galleria Spazio Nuovo di Roma. L’analisi è affrontata nella valutazione dell’elemento architettonico come principio di apertura del punto di visione creativa, valorizzandone la dimensione del frammento, nell’approccio teorico di Aldo Rossi. Si osservano e sviluppano le strutture visive che su più livelli affrontano una temporalità, la morfologia e l’ordine di questa visione. Il lavoro che rappresenta il fulcro della mostra stessa si intitola “Un ricordo e un saluto democratico”: la stampa ingrandita di una cartolina del 1954, di uno stabilimento di Marina di Ravenna, ha al centro una targa marmorea con impressa la stessa frase scritta a penna sul retro della cartolina originale, titolo del lavoro. Un’affermazione che racconta con chiara sintesi, la condizione borghese che ostenta, anche in questi sprazzi di vita quotidiana, una reazione di autodeterminazione a un vissuto di costrizione identitaria, retaggio del regime fascista. Così Marina Paris allarga la sua ricerca iniziando da un particolare elemento di una cartolina anni 50 (parte della sua collezione privata) fluendo verso l’analisi del frammento di Aldo Rossi, come principio positivo, di elaborazione di uno studio e di una condizione operante nella dimensione visuale e temporale. Spazio e memoria, esistenza ed oblio. Dal luogo caratterizzato e fermo in immagini commercializzate e turistiche, alla struttura geografica - paesi e continenti, di città, fiumi e profili orografici - Paris distingue con il collage fotografico una dimensione metaforica. Gli strappi della carta portano a segni e texture che amplificano la percezione simbolica di un frammento, di paesaggio o monumento, con una nuova morfologia di immagine (dalle Dolomiti al Mar Mediterraneo, dal profilo dell’America sovrapposto al Pantheon a quello del Mar Rosso sul Colosseo, dell’Adriatico sull’Arc de Triomphe). Dei recenti lavori fotografici anche quelli degli interni di appartamenti abbandonati – le visioni caratterizzanti delle opere fotografiche di Paris di alcuni anni fa - entrano nel gioco della attuale tricotomia spazio-tempo e luogo, dove l’antica dimensione domestica vive nella nuova condizione temporale; con la somma del luogo geografico nei collage fotografici intitolati ai continenti, ai mari, ai confini. In questo modo i lavori di una decina di anni fa si agganciano pienamente a quelli del 2019. E il frammento, quindi, non rappresenta una frattura ma un elemento di continuità. Ilaria Piccioni

ncentrata su elementi apparentemente incongruenti tra loro, la mostra di Sergio Breviario è un invito a indagare l’idioma dell’arte da un insolito punto di vista. L’esposizione, a cura di Gianluca Brogna, presenta al pubblico la ricerca di quest’artista (Bergamo, 1974) che, oscillando tra l’utopia modernista e la coscienza post-moderna, mette in scena meccanismi espositivi privi di certezze assolute sperimentando un approccio partecipativo grazie all’ideazione di un mondo alternativo e personale in cui l’opera prende vita. Esemplari di ciò sono i manufatti artistici definiti “Nimbi” realizzati per sovvertire regole e oltrepassare i limiti invalicabili di dogmi assoluti ed universalmente riconosciuti come tali. Contemplabili e, oltretutto, indossabili da chiunque, i Nimbi sono una riproduzione concreta dell’aureola quadrata che nella pittura Paleocristiana e Alto Medievale era apposta sul capo dei religiosi ancora in vita ma non ancora santificati. Lavori compositi perché costituiti da un disegno a grafite, ideato con l’obiettivo di far oltrepassare i confini imposti dalla tecnica bidimensionale, e dal suo supporto spaziale in fogli di poliuretano espanso, elemento che impone e ribadisce la tridimensionalità dell’opera non solo in quanto occupazione di uno spazio fisico ma rendendola trasportabile, fruibile e, perfino, superamento di quella passività dello sguardo dello spettatore nei confronti di una rappresentazione grafica convenzionale. Le oniriche sculture – appese alle pareti, collocate su piedistalli o sulla testa dei performer che le hanno indossate durante il vernissage – ben si amalgamano negli spazi della white-cube trasteverina dando luogo ad una ambientazione dal sapore kubrickiano. Perno centrale dell’esibizione è la figura di ‘Gilles’, dipinto dal pittore francese Antonie Watteau intorno al 1718 per l’amico ed attore Teatrale Belloni ove quest’ultimo è ritratto nei panni di Pierrot, personaggio della ‘Comedie Italienne’, il cui capo sembra circonfuso da un’aureola. Intorno a questa figura, malinconica ed inquietante al tempo stesso, ruota il surreale e poetico video prodotto dall’artista con l’intento di rivelare la via della santità o della santificazione senza dimenticare di svelare le debolezze e le fragilità umane del protagonista. Investigando l’arte attraverso inconsuete modalità Sergio Breviario offre all’osservatore uno stimolo verso un cambiamento di prospettiva, mutamento che potrà essere possibile solo a patto che abbia voglia di partecipare al suo gioco. Maila Buglioni

Sergio Breviario, allestimento e composizione dei “Nimbi” con materiali di grafite su foglio PVC, vetro, cornice (legno d’ulivo), polistirene estruso, poliuretano espanso, resina, vernice spray, passamaneria e fibbia Spazio Ex Elettrofonica, Roma

Mostra Urban Fragments Marina Paris, Spazio Nuovo, Roma Marina Paris, Asia Minore, 2019 collage, cm 42 x 32. ph.Giorgio Benni

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Studio Vigato, Alessandria

ANNI ‘90

Barone, Bertasa, Carboni, De Lorenzo, Di Matteo, Guaita, Mazzucconi Angelo Barone, Casamatta 1991 (tecnica mista su legno 40 x 27 x 18 (h) cm)

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opo gli anni della immediatezza espressiva determinata dal movimento storico della Transavanguardia, del neo-espressionismo e dei suoi epigoni, nel corso degli anni Novanta in Italia l’opera d’arte torna a darsi come progetto di forma e significato. La ricerca si articola da un lato come elaborazione di forme più o meno inedite e dall’altro come riflessione sul possibile rapporto fra l’arte e il mondo, anche in relazione agli incipienti linguaggi multimediali. Ma come ebbe a scrivere Perniola “ si annuncia un tempo che contiene tutte le arti e un arte padrona di tutti i tempi, una contrazione di tutti i tempi in un unico tempo che possiede tutte le forme e una mescolanza di tutte le forme, nessuna delle quali ha più l’intenzione di imporre la propria unicità in nome della necessità storica o della logica delle alternanze stagionali”. Tale circostanza ben caratterizza una molteplicità di proposte, non riconducibili ad un unico movimento come nel passato, ma si realizza grazie ad una cifra stilistica all’insegna della sobrietà e del distacco mentale. Gli artisti proposti dallo Studio Vigato in questa mostra indagano attraverso le rispettive sensibilità come l’opera, dallo spazio della tela possa avanzare verso lo spettatore utilizzando dei percorsi sempre sospesi tra pittura e scultura e si preoccupano di rendere visibili i processi di formazione che, a partire dall’opera, arrivano ad implicare lo spazio in un percorso di ordine concettuale, ma che aspira al bisogno di conquistare “un punto di vista personale”, sulla scia di ricerche di diverse idee in atto tra vari artisti. Per Angelo Barone, il gusto della purezza geometrica, elemento caratteristico del suo lavoro, continua ad affinarsi lungo le superfici di questi bunker, scevre da ogni

orpello pittorico o materico, il cui profilo sottilmente vellutato si ammanta di sfumature grigie simili a quelle del cemento. Fausto Bertasa adotta i segni di un linguaggio molto formalizzato, di origine mediatica, insieme a quello del computer. Si compie qui una trasmigrazione di icone “sociali” all’interno dei codici artistici che ha lo scopo di parificarli e ridurli ad una ironica funzione decorativa. Luigi Carboni ci ha abituati ad una visione dell’opera pittorica come campo energetico dove convivono tensioni diverse, sotto forma di sovrapposizioni di segni astratti o lacerti di immagini che saturano la superficie. Il colore spesso diventa l’elemento unificante. Daniela De Lorenzo nega la sintesi e analizza i rapporti strutturali intorno ai quali la composizione si organizza. I “vuoti” di un simile assetto indicano il suo compimento nella virtualità e diventano valore significante al pari dei “pieni”. Gabriele Di Matteo riflette sullo statuto ontologico delle immagini pertinenti alla pittura e al suo sistema. La pittura in sè viene usata come dispositivo di disvelamento del funzionamento e del potere di fascinazione delle immagini che l’artista trova nei più diversi campi della comunicazione sociale. Carlo Guaita lavora ad una scultura costruita sull’addizione di corpi solidi, pienamente percepibili. Le sue strutture sono semplici, ma non primarie, non regolari, non monumentali. Il materiale più adottato è il ferro, il cui peso è spesso alleggerito, nella figura, di sbarre o di grate. Marco Mazzucconi si dedica a una ricerca di immagini agita senza surriscaldamenti emotivi, in cui azzera l’espressività per trattarle in guisa di moduli - resi astratti per ripetizione e isolamento – oppure, all’opposto, di textures astratte che presenta in veste di icone. (red.LS)

Daniela De Lorenzo, In un unico istante 1990 (tela grezza e ricami 250 x 90 x 60 cm) Carlo Guaita, Paesaggi 199 (ferro, gomma, fotografia su lastra di vetro 80 x 80 cm) - Luigi Carboni, Bianco Ombrato 1990 (olio su tela 200 x 200 cm )

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Oratorio di Santa Caterina delle Ruote, Bagno a Ripoli

Omar GALLIANI

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Marco Mazzucconi, Senza titolo 1987 (legno, ferro e vetro 144 x 94 x 27 cm )

ostra di una concentrazione e spiritualità degna del luogo» così chiosa Eike Schmidt nel presentare la mostra Teofanie, con le opere di Omar Galliani incorniciate dal fascinoso apparato pittorico trecentesco dell’Oratorio di Santa Caterina delle Ruote. La presenza, non casuale, del direttore degli Uffizi oltre l’ufficialità dovuta alla presenza dell’imponente Autoritratto dell’artista emiliano, già della prestigiosa collezione del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe della Galleria, precisa la benvenuta apertura a dialoghi ed incursioni tra l’antico patrimonio artistico nostrano (cui Toscana primeggia ad abundatiam) e le forme più prossime dell’arte contemporanea. La scelta di Galliani spetta, ad ogni modo, a Roberto Casamonti, nome simbolo del collezionismo e divulgazione dell’arte contemporanea, fondatore della storica galleria Tornabuoni Arte, promotrice del progetto espositivo: scelta “cromatica” in quanto il bianco e nero delle opere allestite «si equilibra con le forti e varie tinte degli affreschi della volta – spiega Casamonti – valorizzando la qualità del bravissimo Galliani, già presente a tre Biennali di Venezia (1984, 1986 e 2009 n.d.R.) e due Quadriennali di Roma (1986 e 1996 n.d.R.), rispettando questo affascinante scrigno del Trecento». Senza negare una evidente distanza estetica tra questi due mondi cronologicamente così agli antipodi, permane una piacevole suggestione, affatto inadeguata, stimando l’operato del Galliani prossimo all’Homo faber medievale dato l’evidente virtuosismo tecnico nella pratica del disegno e la scelta di soggetti oscillanti tra un mondo astrologico e un mondo alchemico, anche se di matrice più romantica, o neogotica, che precisamente medievale. Maggior inclinazione primitiva la si osserva nelle scelte formali (il tondo in particolare) e nella rappresentazione della Donna, mai ambigua o patetica ma sempre monumentale e sobria, con ammiccanti richiami all’iconografia mariana; sincronia con il passato equilibrata e dichiarata, con giusto disincanto storico, magari eccessivamente ambiziosa nel titolo ma ben accolto come licenza poetica. Luca Sposato

Fausto Bertasa, Lettere d’amore smarrite 1994 (olio su tela 200 x 150 cm ) Gabriele Di Matteo, Raffaello Sanzio 1990 olio su tela 150 x 197 cm

Omar Galliani, A oriente, 2016 Anni Novanta, veduta generale degli allestimenti Courtesy Studio Vigato, Alessandria 2019

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MAC, Lissone

Simone BERGANTINI

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i contro all’imperante edonismo della nostra società, che celebra il culto della bellezza e ci condanna inesorabilmente all’atrofia mentale, The golden path, la mostra allestita da Simone Bergantini al Museo di Lissone, è un ideale percorso di fitness disseminato di sequenze fotografiche e di sculture, che sottopongono il fruitore a uno sforzo d’attenzione e concentrazione. Inizialmente sviluppato sotto forma di manuale d’istruzioni, con disegni tecnici che illustrano le fasi d’assemblaggio di giunti ed elementi modulari,

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

The golden path può essere concepito alla stregua di un progetto Open source. A beneficiare di questi esercizi non sono però i nostri corpi, bensì le nostre facoltà cerebrali; le strutture ginniche ideate da Bergantini in collaborazione con lo studio di architettura Kurmak risultano infatti troppo esili e preziose per soddisfare un utilizzo pratico, discrepanza che si riscontra anche negli ambienti ad esse riservate, ossia le sale museali, avulse all’espletamento di qualsivoglia attività fisica. Allo sfavillio dell’oro 24k, che imperla le strutture metalliche, si contrappone invece la grisaglia della sequenza fotografica che immortala una serie di trofei, decostruiti e ricomposti dall’artista in totale libertà, assecondando un’estetica minimalista che ammicca sia all’eros sia al thanatos. Ridotti alla bidimensionalità, i trofei risultano inconsistenti e svuotati del loro prestigio, ma abilmente convertiti da simboli in stereotipi, intenzionalmente schierati su una unica linea d’orizzonte che ne mette in evidenza la forma asettica e anonima. Giocando sulla dicotomia tra spazio reale e virtuale, Bergantini ci rende partecipi di un allenamento culturale per riscoprire le virtù della mente, e non più solo quelle del corpo. n

Simone Bergantini, nelle immagini, gli allestimenti al MAC di Lissone, febbraio-aprile 2019. Sculture in ottone e oro e sequenze fotografiche di trofei a stampa getto carbone su carta cotone (courtesy The Artist e Galleria Pack, Milano).

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Studio d’arte Cannaviello, Milano

Hermann NITSCH

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meno di un anno di distanza dall’antologica con la quale il gallerista Enzo Cannaviello ha celebrato il cinquantennale della sua attività, ecco un’altra mostra-anniversario: quella per gli ottant’anni di Hermann Nitsch, icona dell’ azionismo viennese insieme ai mediamente meno noti ma non meno interessanti Günter Brus, Otto Mühl e Rudolf Schwarzkogler. Per quanto Nitsch sia ormai una vecchia conoscenza per Cannaviello – la sua prima personale presso la galleria milanese risale al 1991 -, il suo esordio italiano avviene sotto l’egida di un altro storico gallerista, il napoletano Giuseppe Morra, che nel 1974 lo invita a tenere il suo tipico rituale misterico-orgiastico suscitando notevoli traumi e clamori, come ricorda lo stesso artista austriaco «L’azione comportò non poche difficoltà. La polizia cercò di interromperla. Il giorno dopo ci arrestarono tutti e ci diedero il foglio di via. Ne nacque uno scandalo enorme, del quale parlarono tutti gli organi di informazione». Ad un’accoglienza quanto meno scomposta delle sue azioni egli è del resto abituato da circa una decina d’anni, dai tempi della sua prima sperimentazione in tal senso a Vienna nel dicembre 1962, allorché per trenta minuti un uomo è incatenato come se fosse crocifisso e coperto con un lenzuolo bianco, mentre l’artista versa sulla sua faccia del sangue che impregna il lenzuolo. Si tratta di una naturale teatralizzazione delle variazioni sul tachisme e sull’action painting che Nitsch pratica a partire dal 1960: l’atto del versare la pittura sulla tela - per lo più rosso sangue - non è riconducibile, come osserva Benjamin Buchloh, che all’intento di simulare il sacrificio utilizzando la monocromia modernista. Se la mostra in esame ripercorre, attraverso brevi frammenti, l’attività di Nitsch dagli anni settanta ad oggi attraverso dipinti, disegni e fotografie documentarie, il principio del suo «tentativo di ricercare un’esperienza di intensità pari a quella un tempo offerta dalle catarsi delle tragedie classiche, dai riti della redenzione nel mondo cristiano, dall’opera e dal teatro barocco», di inscenare «moderni spettacoli misterici» ove «percezioni acustiche e ottiche, olfattive e aptiche sono fuse con una serie di attività sul palco che vanno dal rituale alla provocazione, dalla pura esecuzione dell’oggetto alla celebrazione ieratica» - così sempre Buchloch legge la peculiare incessante pratica performativa dell’artista austriaco -, risale già al decennio precedente e possiede dunque ormai quasi sessant’anni di storia. D’obbligo pertanto domandarsi cosa è cambiato lungo tutti questi decenni. Per quanto non sia assolutamente lecito pensare ad una continua ripetizione senza evoluzione - benché la sensazione, persino dello spettatore più avve-

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duto, quello che in vari luoghi e in vari tempi ha visitato mostre di Nitsch ed assistito a sue azioni, tenda ormai ad essere tale; ma non è naturalmente questo il luogo per entrare nel merito della cronologia delle progressive trasformazioni della sua poetica –, bisogna riconoscere che prima ancora del suo lavoro ad evolversi è stato il contesto storico e quindi la stessa accoglienza e la stessa percezione delle sue azioni. Se infatti la libertà di espressione dell’artista austriaco è stata messa in discussione per lungo tempo, altrettanto lungo è il tempo che è trascorso da quando le persecuzioni sono andate scemando. Il motivo più profondo dello scandalo del primo Nitsch non mi pare risiedere tanto nella generica scabrosità dello spettacolo, quanto nella circostanza per cui egli mira a ricostruire una nuova esperienza del sacro attingendo tanto all’immaginario pagano quanto a quello cattolico, un attitudine che – pienamente riconducibile alle radici culturali di un paese non latino eppure cattolico come l’Austria - permette di scoprire un certo quid di continuità tra i due e pertanto fornire un’immagine quanto meno dissacrante del secondo attraverso la commistione con il primo. Quantomeno dissacrante, ma nei fatti a tutti gli effetti blasfema agli occhi di un cristiano, e tanto più per l’Italia democristiana del tempo. In un tempo in cui però ogni tabù religioso e sessuale pare ampiamente caduto, almeno nel mondo dell’arte e della cultura occidentale in generale - e ciò malgrado la pur preoccupante crescita esponenziale dei cosiddetti populismi di destra, spesso contigui a gruppi e gruppuscoli dichiaratamente neofascisti -, quale significato attribuire ancora al discorso nitschiano? Può darsi che la sua inattualità – o diversa attualità – possa essere trasformata in un’occasione: in un momento in cui appunto lo strepito, tanto quello di segno positivo – del giovane Morra, ad esempio -, tanto quello di segno negativo – di tutti gli scandalizzati dell’Europa del tempo – lasci spazio ad una interrogazione più lucida su quello che è stato il senso delle azioni dell’artista austriaco non solo attraverso gli strumenti della storia delle arti visive e neanche solo della storia del teatro e della musica, ma anche dell’antropologia, della filosofia, della storia delle religioni, oltre che della storia tout court. Questo è insomma il tempo in cui il fenomeno Nitsch dei primi decenni può essere indagato al di là dei “tifi contrapposti” che furono da una critica che sappia muoversi agilmente tra i diversi campi disciplinari. Verrà forse in futuro un altro tempo ancora in cui sarà più semplice interrogarsi con pari rigore sulla canonizzazione di Nitsch, ma la stessa cosa varrà per Buren, per Kosuth e per tanti altri esponenti delle neoavanguardie che hanno nel corso della loro vita assistito a straordinari passaggi epocali come tutti i loro coetanei del mondo. Ammesso e non concesso naturalmente che una critica autentica e nel contempo non marginale esista ancora e continui ad esistere. Stefano Taccone


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Hermann Nitsch, st (100. Aktion/ Das 6-Tage-Spiel)1998 Hermann Nitsch, KK_13_14, 2014 (cm 80x60, tecnica mista su tela) (fotografia cm 50x40). Courtesy Syudio Cannaviello, Milano

Studio G7, Bologna

Eduard HABICHER

C

on Eppur si muove, personale di Eduard Habicher curata da Gabriele Salvaterra, si rinnova il lungo e felice sodalizio artistico tra lo scultore altoatesino e la galleria Studio G7 di Bologna che lo vede ancora una volta protagonista in un raffinato allestimento. La mostra presenta un corpus di sculture realizzate tra il 2016 ed il 2019, ad eccezione di un grande lavoro in acciaio e porfido appartenente agli anni ’90 da cui si sprigiona una innegabile forza. Le opere esposte sono costituite da materiali apparentemente antitetici: l’acciaio inox più specificamente industriale, ed il vetro di Murano recuperato e poi riassemblato dagli scarti delle vetrerie veneziane con assonanze più naturalistiche. Le sculture sfidano barriere gravitazionali in un binomio continuo ed osmotico di forza e fragilità, freddezza e calore, austerità e preziosità, levigatezza e ruvidità. L’acciaio cinge il vetro in un abbraccio ambiguo forse per preservarlo in modo protettivo da una ipotetica e rovinosa caduta o che si dà all’opposto come stretta annientatrice in una lotta di sopraffazione. Le opere ora evadono lo spazio, lo scalano con spinte ascensionali, disperdono frammenti che si disseminano come orme sulla parete con echi musivi, sospese o protese verso lo spettatore, lo invitano ad una interazione partecipata. Il visitatore con queste ultime infatti, tralasciando la consueta reverenza nei

Eduard Habicher, Blu Universo piccolo ironico, 2018, acciaio inox e vetro di Murano, cm 30x30x20.

Eduard Habicher, Eppur Si muove (exhibition view Studio G7 Bologna)

confronti dell’opera d’arte, può interagire mettendole in movimento in un gesto giocoso, ipnotico e, se si pensa alle ultime sculture-pendolo in cui è sotteso un richiamo alla vanitas ed allo scorrere del tempo, lievemente spiazzante. I manufatti artistici, preziosi e fortemente estetizzanti, entrano in risonanza con l’interiorità dello spettatore ed installati armoniosamente nello spazio espositivo, instaurano rapporti tra finito ed infinito, tra cielo e terra, inabissandosi nei territori della poesia. Le sculture giocano tra peso ed equilibrio, si relazionano col vuoto che le attraversa, creano malie, cortocircuiti costituiti da vibrazioni, lampeggiamenti provocati dal vetro stesso: un materiale questa volta che non si presenta come in passato in una neutra trasparenza ma nei colori evocativi del verde, azzurro, rosso e con l’impiego più recente del blu (un blu di Prussia profondo e spirituale). La compresenza di spazio, tempo, movimento e suono -l’impercettibile dondolio dei pendoli richiama la musica del silenzio di Cage- celebra le teorie spazialiste di Fontana. Il vuoto, le pause ed i silenzi avvolgono i volumi e la materia delle opere ed interagendo con esse le completano di senso: una componente non si può dare senza l’altra, ed il significato si rivela solo nella compresenza di ogni singolo elemento. Perché ci sia vita e non stasi è necessario uno squilibrio che si trasformi dinamicamente ed è proprio da questa apparente instabilità ossimorica che scaturisce l’armonia dell’universo. L’esposizione prosegue anche nel cortile d’onore di Palazzo d’Accursio dove è ospitata l’opera in putrelle d’acciaio, Uni-Verso (tra i Main Project di Art City 2019), una struttura rosso acceso in dialogo con lo spazio circostante che disegna con armonia e vitalismo grafico una ideale caverna in cui il visitatore è chiamato ad entrare in una esperienza immersiva ludico-fantastica. Tristana Chinni APRILE/MAGGIO 2019 | 272 segno - 59


Galleria Millenium, Bologna

Delia GIANTI

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a cifra stilistica di Delia Gianti, si pone con prevalenza nel sito dell’astrazione, più in generale nel territorio dell’aniconicità, ma uno studio attento delle complesse rivoluzioni di linguaggio che mutano il corpo dell’arte lungo il tracciato della contemporaneità, da fine Ottocento fino alla metà degli anni ’70 del secolo scorso, dimostrano che l’astrazione non persegue un percorso univoco ma è caratterizzata da un numero estremamente ampio di varianti. Il termine “astrazione” etimologicamente deriva dal latino con il significato di “trarre via da” o “allontanare” e storicamente è il dato stilistico che caratterizza in maniera predominante il Novecento a proposito della negazione di ogni rapporto con gli elementi naturalistici e del confronto con forme ricavate della realtà. Le premesse dell’astrattismo si rinvengono nel Simbolismo che proponeva di guardare alla dimensione interiore piuttosto che al mondo esterno e nelle proposte dell’Espressionismo intento a corrompere e deformare la realtà naturale. Il progetto estetico di Delia Gianti si pone sostanzialmente al crocevia di queste due varianti, collocandosi all’interno della linea predominante dell’Astrazione italiana, dedita, più che ad un rigorismo geometrico, a penetrare con lo sguardo la realtà naturale per donarcela nell’essenzialità delle sue linee forza, da lei declinata con una modalità di installazione concettuale, nell’accezione del lato “esplosivo” e mondano di questa opzione stilistica, fondamentale per l’evoluzione della contemporaneità. Quello di Delia Gianti è un progetto che nasce quando l’autrice ha già compiuto un percorso esistenziale e professionale che, ad un certo punto, ha destato in lei l’impellente necessità di donarsi alla creatività, in una dimensione empatica e comunitaria, condividendo con altri artisti visioni, progetti e performance, mantenendo al tempo stesso una coerente linea di ricerca, che si connota in positivo per la sua rapida evoluzione. Unite dal collante del video, adoperato nella sua dimensione di simbolica narrazione e di insostituibile strumento di registrazione degli eventi, le opere della Gianti attraversano le stagioni dell’avanguardia del secondo dopoguerra per contestualizzarsi al presente con assoluta originalità. L’arte relazionale, la performance, il riuso di materiali e scarti della civiltà post industriale, il segno calligrafico, la body art nell’accezione del tracciamento di parti del proprio corpo su varie superfici, a seguito di movimenti ritmici e rituali, si mescolano in un insieme armonico, organico, e coerente, dove la tendenza alla dimensione spirituale dell’astrazione fa a tratti balenare barlumi di immagini evocate. Edoardo Di Mauro

Delia Gianti, Anche i sogni della notte diverranno il tuo nutrimento 2018 (tecnica mista su coprimaterasso-cm 240x210)

60 - segno 272 | APRILE/MAGGIO 2019

Delia Gianti, Giorno dopo giorno, 2017 (cm 120x200, tecnica mista son pigmenti metallici su tela di lino) in basso particolare

MAMbo, Museo d’Arte Moderna, Bologna

Progetto Oreste

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a mostra “No, Oreste, No! Diari da un archivio impossibile”, allestita nella Project Room del MAMbo si fa interprete dello spirito partecipativo che ha animato Progetto Oreste negli anni della sua attività con l’iniziativa che ha ha permesso lo sviluppo di un insieme di avvenimenti in Italia e in Europa tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del decennio successivo. Il ciclo di eventi, legati al mondo delle arti visive, ha visto per la prima volta gli artisti attivi nella fase di ideazione e organizzazione senza il supporto delle tradizionali figure intermediarie. Tale fenomeno è stato il chiaro segnale di un’importante necessità di cambiamento nel sistema artistico di allora. Identificandosi con l’insieme di autori che hanno dato vita al progetto tutti uniti in rete, Oreste ha visto Bologna come centro di maggiore attività pur avendo esteso il proprio campo operativo all’intero territorio nazionale. L’iniziativa ha precorso realtà oggi più frequenti e consuete come quella dei “run space” o dei progetti di residenza. Questa esperienza di Oreste è raccontata oggi alla Project Room del MAMbo, grazie al progetto espositivo a cura di Serena Carbone che vede esposte foto e documenti dell’attività svolta dal network. Oreste si allinea, alla fine degli anni Novanta, ad un fenomeno non ancora comune ma che mostra in quel periodo i primi segni di vita. Questa tendenza ha visto successivamente artisti uniti assieme gestire autonomamente manifestazioni pubbliche dedicate alla riflessione nel campo delle arti visive. Occorreva inoltre la creazione di una voce nuova e alternativa a quelle già presenti nel sistema dell’arte. Il fenomeno descritto faceva osservare in alcune città italiane spazi gestiti da artisti alla cui attività si accompagnava talvolta la produzione di riviste. Tra gli esempi ricordiamo l’esperienza di Base a Firenze ancora oggi attivo, oppure il collettivo di via Lazzaro Palazzi a Milano. Di quegli anni ’90 ricordiamo inoltre un’esperienza dello stesso segno anche se differente per molti aspetti come la creazione della piattaforma online Undo.net. Il sito web era una vera e propria opera d’arte che assieme al network Oreste ha anticipato lo spirito di numerosi progetti di arte partecipativa realizzati una decina di anni più tardi. Occorre ricordare tra l’altro che la piattaforma web creata dal duo artistico milanese Premiata Ditta, ancora oggi visibile al pubblico, custodisce diverse testimonianze dell’attività svolta da Oreste. Progetto Oreste ha visto coinvolte al suo interno un vasto numero di partecipanti nel corso del tempo, tra le personalità attive fin


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

dalla sua nascita ricordiamo Salvatore Falci, Cesare Pietroiusti, Giancarlo Norese, Eva Marisaldi, Anteo Radovan. Di Oreste vanno ricordate le tre pubblicazioni edite tra il ‘98 e il 2000 e quattro progetti di residenza in località del centro e sud Italia. Ricordiamo inoltre i convegni al Link di Bologna e a Lecce, la partecipazione alle rassegne Democracy! al Royal College of Art di Londra e Le Tribù dell’Arte alla Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea a Roma. Oreste fu presente inoltre al Padiglione Italia in occasione della 48a Biennale di Venezia all’interno del quale venne realizzato un ricchissimo programma di avvenimenti come incontri, presentazioni, dibattiti, concerti. Numerose delle personalità attive all’interno del network risiedevano a Bologna o avevano compiuto gli studi in questa città, per questa ragione molte attività di Oreste si svolgono proprio qui. Il capoluogo emiliano, del resto, beneficiava in quegli anni di un clima giovane e vivo, e del dibattito creato da istituzioni come il DAMS, l’Accademia di Belle Arti e la Galleria d’Arte Moderna. Bologna era inoltre sede di spazi culturali indipendenti che ponevano al centro la creatività delle giovani generazioni come Neon Campobase, Link Project, l’Associazione di via Fioravanti protagonista dell’underground creativo di quegli anni. L’attività svolta da Oreste è documentata oggi da una raccolta di fotografie, opere e documenti, in un archivio realizzato da Emilio Fantin, Giancarlo Norese, Luigi Negro e Cesare Pietroiusti. Il racconto di Oreste al MAMbo avviene tuttavia nella consapevolezza dei limiti riguardo agli strumenti per svilupparlo, è infatti impossibile realizzare un archivio completo proprio a causa della grandezza e variabilità del network. (a cura di Francesca Cammarata)

Nelle immagini, Primo compleanno di Oreste 1998, (da Archivio Rivista Segno) e Oreste alla Biennale, 1999 (Foto Giancarlo Norese)

Rosario Genovese, Progetto EU 1630 – 472, (acrilico e matita su tela, cm 80 x 50) - 2017

Rosario Genovese, Binaria a Raggi X - Vela X-1: (struttura lignea, acrilico e matita su tela- dimensioni: installazione, cm 224 x 60) Anno: 2017

Studio d’arte Cocco, Messina

Rosario GENOVESE

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usione espressive e sinestesie estetiche alla mostra “Cosmonauta” di Rosario Genovese, ideata da Laura Faranda, direttrice dello studio d’arte Cocco, e curata dal critico Dario Orphée La Mendola. L’artista catanese, attivo nel panorama culturale italiano da quarant’anni, nel suo ultimo periodo di produzione artistica ha espanso marcatamente il concetto di creazione e fruizione, proponendo opere a metà tra pittura e decorazione, scultura e architettura. Il “cosmonauta” Rosario Genovese, così definito da Laura Faranda, ha indotto i partecipanti a un viaggio tra stelle nascenti, suoni spaziali e profumi immaginifici. Lo abbiamo intervistato, approfondendo soprattutto i temi contenuti nell’ultima ricerca. - Cosa hanno di innovativo tali opere? - La lettura di queste opere trascende i canoni della classicità: le stelle binarie, infatti, sono un “agglomerato” di varie tecniche che nella storia dell’arte, o meglio dal sistema delle arti, sono state tenute separate. - Può farci un esempio? - Il dittico intitolato Binaria a Raggi X M33X-7, oltre alla presenza pittorica e scultorea, esprime la sua forza attraverso un pick-up per chitarra elettronica assemblato alla struttura lignea intrisa di microcapsule profumate termolabili, i quali rilasciano il loro aroma appena carezzate. - Come vengono rappresentati i temi della tua ricerca? - I temi della ricerca - la vita del cosmo e le sue dinamiche - sono rappresentati attraverso una rielaborazione di vecchi e dimenticati miti che indagavano il rapporto ritmico tra universo e pianeta terra, astri ed emozioni umane, volti a trovare delle spiegazioni riguardo il mistero dell’esistenza. - Qual è l’intenzione? - La mia intenzione, esplicitamente dichiarata, è quella di rivolgermi, con la mia cifra stilistica, il mio linguaggio, a più sensi, al fine di recuperare una migliore e più completa fruizione. La svolta raggiunta, che ovviamente è riflessa nelle varie stelle binarie, punta sia al perfetto mix di media che al tentativo di raggiungere delle esperienze estetiche originali non presenti nelle arti visuali contemporanee. - Dunque questa mostra è da considerarsi originale per svariate ragioni? - Per l’occasione, allo Studio Cocco di Messina, l’innovativo spazio d’arte contemporanea ideato da Laura Faranda, ho appositamente scritto e diretto una performance innovativa, di matrice concettuale. Nel corso della mostra, infatti, hanno partecipato alcuni membri dell’associazione nazionale Uici, l’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti ONLUS-APS. Essi, su mio suggerimento, con l’utilizzo del tatto hanno “suonato” le opere profumate e narrato le personali sensazioni tattili in una breve elencazione di impressioni. La melodia, diffusa insieme a un aroma di gelsomino, ha inevitabilmente invaso la stanza. APRILE/MAGGIO 2019 | 272 segno - 61


MUMI, Francavilla al Mare

Eugenio TIBALDI

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onclusa la mostra a cura di Simone Ciglia, con un finissage animato dal Talk tra l’artista e il curatore, ed è stata l’occasione, anche, per presentare il catalogo. Il pubblico, ha avuto modo di comprendere meglio l’approccio di Tibaldi, e l’attenzione di Ciglia, a un’operazione culturale che ha trovato le basi in un bando pubblico, Abruzzo Include, emanato nel 2016 dalla Regione Abruzzo. L’ideazione e la realizzazione della mostra è stata curata dall’associazione Humanitas, presieduta da Elena Petruzzi, con la collaborazione di Villa Maria Hotel & Spa. E’ stato un finissage partecipato e apprezzato e ha visto tra i suoi partecipanti artisti come Matteo Fato e Giuseppe Stampone, operatori del settore, come Vincenzo Tini D’Ignazio (vicepresidente della Fondazione Malvina Menegaz per le arti e le culture) ed Eide Spedicato Iengo, già professore associato di Sociologia generale all’università D’Annunzio, Chieti-Pescara. «E’ una provincia internazionale», ha detto tra l’altro Tibaldi, «quella che ho trovato qui in Abruzzo. E ammiro molto quegli artisti che dalla provincia e attraverso essa riescono a trasmettere dei linguaggi davvero internazionali. Qui avete un esempio massimo rappresentato da Ettore Spalletti che dal suo studio ha trovato un linguaggio in grado di annullare qualsiasi tipo di confine. Ecco, dalla provincia, io voglio imparare questa capacità di non essere sempre in movimento alla ricerca di un luogo in cui raccontare qualcos’altro». La mostra di Eugenio Tibaldi (Alba, 1977) si è proposto di indagare il concetto di margine secondo le molteplici prospettive di condizione sociale, percezione personale e stato da cui emanciparsi. Proseguendo la sua linea di ricerca, l’artista ha sviluppato un’analisi incentrata sull’ “essere periferico” all’interno di una società, al di là della reale ubicazione geografica. Nelle sue ricerche sul campo, l’autore accompagna la visione geografica a una di tipo sociale, basata sulla dialettica centro/i-periferia/e e la conseguente capacità di un luogo di offrire possibilità sociali ai suoi abitanti. n

Pescara

Museo Civico “Basilio Cascella”

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opo molti mesi di lavori di ristrutturazione, è stato riaperto il Museo Civico che porta il nome di Basilio Cascella, capostipite di una famiglia che, attraverso cinque generazioni di artisti, ha impresso un segno indelebile al patrimonio culturale abruzzese e naturalmente all’eterogeneo mondo dell’arte italiana. Le moltissime opere d’arte di varia natura e tecniche, realizzate dai Cascella da fine 800 a metà degli anni Sessanta tornano in esposizione grazie alla curatela e alla rimodulazione del percorso espositivo da parte dell’architetto Mariano Cipollini, che ha fatto prima sanare la parte strutturale per dedicarsi, in seguito, alla ricostruzione dell’antico laboratorio cromolitografico e ceramico e alla predisposizione delle sale tematiche dedicate ai singoli componenti della storica famiglia Cascella. La nuova suddivisione in stanze agevola lo spettatore nell’individuare il profilo di ogni singolo artista. Due sale sono dedicate a Michele, una a Pietro, un’altra ad Andrea ed ai suoi lavori americani, una stanza che racchiude mito, eros e simbolismo nelle opere di Basilio e le ceramiche, un piccolo gabinetto, con i disegni ed una sala celebrativa con i lavori migliori di tutti. Nell’ultima sala si incontrano i lavori tra i più noti. “Il bagno 62 - segno 272 | APRILE/MAGGIO 2019

Hera Büyüktasçıyan, Underneath the Arches. Foto © Maurizio Esposito

Acquedotto Augusteo del Serino, Napoli

Hera BÜYÜKTASÇIYAN

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econda tappa del programma Underneath the Arches, a cura di Chiara Pirozzi e Alessandra Troncone, in collaborazione con l’Associazione VerginiSanità, la installazione dell’artista turca Hera Büyüktasçıyan, la cui ricerca si focalizza sulla relazione tra il visibile e l’invisibile, identità e memoria, spinge sul dato empatico ed emotivo facendo sentire lo spettatore come realmente immerso in un bacino d’acqua. È proprio sul fondo dell’acqua dell’acquedotto che, Hera Büyüktasçıyan, infatti, fa rimbalzare la visione di prospettiva verso le fondamenta della città, lasciando emergere suggestioni derivanti da storie dell’antica Napoli coerentemente alla propria poetica da sempre interessata all’integrazione fra leggende locali, referenze storiche ed elementi iconografici di varie culture. Con quest’operazione, infatti, riaffiorano storie rimosse dalla narrazione (così era stato anche nelle cisterne a Istanbul 2010; 2012, alla Piscina del Patriarca a Gerusalemme 2014 e al Küçükyalı Archaeopark a Istanbul 2016) che fluiscono nell’elemento dell’acqua, metafora di trasformazione della fluidità stessa della memoria, di una storia sotterranea, non visibile, che tuttavia continua a plasmare il presente. Dunque, nel dialogo fra archeologia e arte contemporanea innescato a Napoli, Hera Büyüktasçıyan riesce a rivelare la vera linfa della città, costantemente sospesa in una tensione fra passato e presente. (dal cs) n

della pastora”, realizzato da Basilio nel 1990 che usava, a far da modella, la moglie Concetta; la scultura “Il Cavaliere Nero” di Andrea Cascella, (premiato alla Biennale di Venezia nel 1964), il trittico pittorico sui paesaggi abruzzesi del più giovane Tommaso Cascella. Eccezionale presenza di pubblico per la riapertura di questo Museo, la cui attività viene da tutti auspicata quale importante funzione culturale, anche con proposte di attualità del mondo dell’arte contemporanea. n


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Progetto-percorso

Georgina Starr, The Eternal Ear, Matera Alberga 2019. ph Amalia Di Lanno

Matera Alberga

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n modalità viaggiatori partecipativi, abbiamo seguito il disegno tracciato da uno dei progetti di Matera 2019 nel senso di accoglienza-convivenza-incontro. Matera Alberga, ideato e curato da Francesco Cascino, in collaborazione con Christian Caliandro, promosso dall’associazione Arteprima e dal Consorzio Albergatori Materani (CAM), e con il sostegno della Fondazione Carical, è un progetto che, attraverso l’arte, intende rigenerare il concetto di Vicinato in una esperienza relazionale che stimoli la riflessione e il cambiamento consapevole rinnovando appunto il senso valoriale di accoglienza, convivenza e incontro. Il progettopercorso Matera Alberga si articola in sei interventi site specific permanenti di arte contemporanea ideati per altrettante strutture alberghiere ad opera di sei artisti coinvolti nell’operazione. Inaugurato il 22 dicembre 2018 con l’opera ‘IDRA-Istituto di Ricerca Anime’ di Alfredo Pirri, installata nell’Hotel Corte San Pietro, il progetto ha poi visto la presentazione e l’apertura al pubblico dei successivi interventi artistici: ‘La Fonte del Tempo’ di Dario Carmentano presso Le dimore dell’Idris, ‘Rapporti’ di Filippo Riniolo presso Locanda San Martino, ‘Double Face / Welcome to Matera’ di Giuseppe Stampone presso l’Hotel del Campo e ‘The Eternal Ear’ di Georgina Starr presso Sextantio-Le Grotte della Civita. Il gran finale di Matera Alberga è all’Hotel Casa Diva dove è svelata l’opera ‘Motherless Child’ di Salvatore Arancio, con una performance su Murgia Timone. Matera Alberga focalizza nella sua denominazione il territorio e la pratica artistica attiva e ricettiva di ricongiunzione al senso dell’ospitalità, dello scambio culturale e del sentire e ricordare uno spazio unico in un tempo eterno. Gli alberghi, attraverso un disegno di rigenerazione, ritornano a essere, come in origine, luoghi di incontro e partecipazione al processo esistenziale di identità-memoria-territorio. Difatti, Matera Alberga nasce e si sviluppa dalla volontà di riportare alla luce modelli abitativi di riconnessione umana, caratteristici del buono e antico senso del Vicinato. Un impegno progettuale teso a sensibilizzare l’empatia, l’incontro e la convivenza, valori fondanti connessi all’uomo e allo spirito dei Sassi. Matera Alberga, coinvolgendo la comunità e i viaggiatori in una esperienza d’arte immersiva, riattiva dispositivi di senso congiunti alla sfera del ricordo e dell’immaginazione, educa l’animo alla visione interna e alla comprensione di valori universali. Incontrare la meraviglia, accogliere l’armonia, convivere ad arte sono declinazioni che permettono possibilità intuitive ben oltre il visibile, all’insegna di un percorso esperienziale teso al ricongiunGiuseppe Stampone, Double Face / welcome to Matera, 2019

Alfredo Pirri, Disegni per Idra, Matera Alberga 2019 ph. Amalia Di Lanno. Filippo Riniolo, Rapporti, Matera Alberga 2018.ph Amalia Di Lanno

gimento dell’uomo al senso primigenio dell’ascolto e della natura. Un progetto che favorisce la pratica combinata di pensiero e azione in una modalità inclusiva di approfondimento critico attraverso una serie di incontri e confronti, indoor e outdoor, incentrati sul rapporto tra arte contemporanea e quotidianità. Matera Alberga invita a sperimentare la pratica dell’arte di relazione per sviluppare un senso interpretativo consapevole, trasformando gli hotel in veri spazi produttivi e partecipativi, nei quali esperire intelDario Carmentano, La Fonte del Tempo ligenza emotiva e riflessione profonda sul rapporto tra arte e architettura, armonia e senso di comunità. Come spiega il curatore Francesco Cascino le opere diventano “un dispositivo di relazione tra materani e viaggiatori stessi, l’idea attorno alla quale, fisicamente, ci si raduna, il punto focale di ritorno allo scambio tra diversità, seme istitutivo di ogni evoluzione” per risvegliare una sensibilità primordiale che ravvivi memoria e valori identitari, segni universali della città di Matera e dell’umanità. Amalia Di Lanno APRILE/MAGGIO 2019 | 272 segno - 63


Paolo SCIRPA Un’Annunciazione Paolo Scirpa, Mosaico con tessere di marmo e pasta vitrea da elaborazione digitale dell’Annunciazione di Antonello da Messina, 1996. cm 207x145. In basso e nella pagina a fianco: Particolari. Tessere cm 1x1

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a gran tempo ormai Paolo Scirpa ci ha abituato al suo modo di procedere nell’ambito del retaggio gestaltico, tra agguerrito rigore metodologico e dismisure ludiche e fastose: ben consapevole, oggi come ieri, del valore intimamente critico della collisione – collisione non gratuita, non meramente destruens beninteso – tra ratio e gioco.


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

I suoi Ludoscopi, vertigini visive e insieme segni sontuosamente devianti, hanno trovato luogo in situazioni estreme, concretamente tanto quanto virtualmente, nel proliferare di montaggi iconografici al quale Scirpa affida i propri fasti inventivi. Ebbene, all’interno di questo continuum concettuale si è verificato, nel tempo recente, una sorta di a parte, tecnico e più riflessivo. L’artista ha preso a interrogarsi sulla natura e la ragione della propria identità culturale, e l’ha ritrovata non in un concetto, bensì, inevitabilmente verrebbe da dire, in un’immagine: l’Annunciazione di Palazzo Bellomo, che vale Siracusa, per lui, più d’ogni altro pur straordinario segno. En artiste, non un paesaggio e neppure un’Afrodite: un’immagine pittorica dalla grazia dimessa, piuttosto; nulla di monumentale: una visione misteriosa che parla del mistero per eccellenza. Quell’immagine Scirpa ha assunto e, accantonati per una volta i panni dell’arguto provocatore visivo, ha scelto di amplificare amorevolmente, facendo della propria inserzione una sorta di alito del divino, della luce assoluta, entro la scena. Per conseguenza necessaria, egli ha deciso di trascrivere la scena in modi tecnicamente non semplificati, ma ponendo a loro volta in collisione fervida antico e presente. L’immagine ripresa in bianco/ nero, sgranata come per eccesso di ingrandimento d’una bassa risoluzione (la natura del mito, dalla lezione di Duchamp in poi, è la riproduzione dell’opera, non il suo statuto primario), si è ricostituita in mosaico, in una sorta di elevazione al quadrato dell’interrogazione di Scirpa alla propria sicilianità.

Un mosaico in bianco/nero, dunque, come se, savinianamente, una vecchia illustrazione del D’Ancona – Gengaro – Wittegens, ripassata al pc, ne emergesse arricchita d’un segno ulteriore, un accidente criticamente amorevole e si rifacesse, da qui, opera, forma formata. Un mosaico che riflette sua volta sul proprio mito – che è d’essere colore, coagulo di luci supreme – e insieme si fa portatore d’una immagine di coscienza, d’una sua metamorfosi ulteriormente appropriata. Certo, sarebbe suggestivo, anche se solo aneddotico, raccontare delle fasi operative della nascita di questo mosaico: la lentezza, l’anomalia artigianale, quel continuo collidere di cecità ravvicinata e di comprensione visiva in distanza. Gestalt su Gestalt, dall’antico ad oggi, se ci interessassero gli slogan. Ma non era questo il punto di interesse di Scirpa, la sua ragione operativa e inventiva. Era, e si conferma, il costituirsi di un’immagine dotata in sé di una forza espressiva straordinaria, un d’après assai atipico che rende omaggio, davvero insieme reinventando, un’immagine già sfericamente dotata di senso. Eccolo, infine, un altro mistero dell’arte. Questo procedere per possibili, mostrando della modernità non la vocazione a destrutturare, far collidere, far trascolorare il senso, ma ad amplificarlo e moltiplicarlo, il senso, per comprensione complessa. Sì, è l’esatto opposto delle ecolalie postmoderne; è pensiero forte, preciso, alto. Per questo lo amo. Milano, luglio 2003 Flaminio Gualdoni APRILE/MAGGIO 2019 | 272 segno - 65


Hank Willis Thomas, Ernest and Ruth, Metrotech, Brooklyn, New York, 2015 Courtesy: the artist and Jack Shainman Gallery.

La parola diventa arte nel libro di Michael Petry The Word is Art

Intervista a Michael Petry a cura di Cristina Rosati

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ullo scorcio del 2018 Thames and Hudson ha dato alle stampe The Word is Art, un volume di circa 300 pagine con cui Michael Petry indaga il valore del testo scritto all’interno delle arti visive. Partendo dai diversi ambiti delle arti visive in cui la parola ha prevalso – Installed Words, Three-Dimensional Words, Light, New Media, The Conceptual Word, Social Comment, The Drawn Word, Book – il volume ci accompagna in un affascinante viaggio intercontinentale, alla scoperta di un mondo in cui la scrittura è la parte più potente della pratica artistica, fuori e dentro al museo. E il museo è il luogo dove lo scrittore si esprime. Nel 1994, a Londra, Petry ha fondato il Museum of Contemporary Art (MOCA London), museo senza museo su iniziative specific site di scultura, videoarte, pittura, fotografia e installazioni. Dal 2004 il progetto ha trovato una sua sede stabile nel quartiere di Peckham, classica periferia multietnica di una metropoli europea, ma non ha cambiato identità ed offre ad artisti anche emergenti la possibilità di esprimersi in progetti non-commerciali. Grazie a Michael Petry e Roberto Ekholm - artista e co-curatore del progetto Nature Morte and in the future, The WORD is Art - all’interno del Project Space del MOCA artisti e museo cooperano e le opere vengono proposte al pubblico quando sono mature, secondo tempi di produzione non determinati. Qui l’artista vive la sua libertà creativa, e alla fine del lavoro produce un artist book. Questa scelta identifica bene Michael e Roberto: tutti i media sono funzionali al dialogo e all’ascolto, e loro appartengono a quella generazione in transizione tecnologica che si destreggia bene con iPod e vinili, che ama Internet e le librerie di quartiere; che ha piena consapevolezza della potenza di questi mezzi e li sa usare tutti con disinvoltura. È al MOCA di Londra che incontriamo Michael Petry con Roberto Ekholm per parlare del libro. Cristina Rosati. Michael, come hai proceduto con la scrittura del libro, seguendo un pensiero lineare o mettendo insieme gli elementi come in un mosaico? Michael Petry. I libri nascono dai miei interessi di artista. Scrissi The Art of Not Making (2011) per rispondere a chi si sorprendeva che le mie opere in vetro soffiato venissero realizzate a Murano. Ero consapevole che per il pubblico non è sempre facile distinguere tra processo creativo e manifattura dell’oggetto d’arte. Nature

Deborah Kass, OY/YO, 2015 Courtesy: Deborah Kass / Artist Rights Society (ARS), New York, NY. Image courtesy of the artist. Photo: Elisabeth Bernstein

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Morte: Contemporary Artists reinvigorate the Still-Life tradition (2013) è nato riflettendo su quanto il genere della natura morta ancora oggi affascini gli artisti che vogliono parlare di destino e di morte. Alla base di The Word is Art è invece la constatazione che la parola scritta è sempre più fortemente presente nell’arte contemporanea. Strano a dirsi, ma spesso sono gli stessi editori a parlare del libro come di qualcosa destinato all’estinzione, ma tutti noi produciamo parola scritta, che poi viaggia attraverso i nostri dispositivi e arriva ovunque. Tutti scriviamo in modo diverso e di più rispetto al passato. Nel libro sono presenti moltissime parole, scritte nelle lingue più varie, con gli strumenti più impensati, che diventano sculture, dipinti, installazioni, oggetti artistici. Il mio campo di indagine è stato il mondo. C.R. Pensi che oggi rispetto al passato gli artisti abbiano a disposizione più strumenti per esprimersi attraverso la parola scritta? M.P. Gli strumenti sono sempre stati molti. Oggi a fare la differenza è la tecnologia, che muovendosi molto velocemente rende tutto nuovo, e ciò che è nuovo oggi sarà vecchio domani. E la grande novità è che con Internet ognuno di noi può diventare autore, fotografo, artista, video maker . Il risultato è che il linguaggio visuale si evolve, perché molte persone fanno cose che un tempo facevano solo gli artisti. Ovviamente, questo non vuol dire che tutto sia arte e che tutti siano artisti. Roberto Ekholm. Oggi, grazie alla tecnologia, gli artisti non solo godono di maggiore libertà, ma hanno la possibilità di spingere il loro linguaggio verso ogni direzione, oltre limiti non immaginabili nel passato. C.R. Il libro non parla di Text Art ma piuttosto del modo in cui gli artisti utilizzano la parola come mezzo di espressione. Non pensi che i due concetti potrebbero essere fraintesi? M. P. Non credo, perché il titolo del libro, The Word is Art, e il suo sottotitolo, Text and the written word in contemporary art, tolgono ogni dubbio. La parola, come è intesa nel libro, porta con sé il concetto di traduzione. Cosa ci accade di fronte a un’opera fatta di testo scritto? la mente legge il testo innanzitutto come testo, ma questo non è l’opera d’arte. L’opera d’arte è l’insieme dell’immagine, che include il testo. Quindi per capire l’opera occorre leggerla su due livelli: come testo e come immagine complessiva. La mente deve tradurre il linguaggio del testo nel linguaggio dell’arte. Il lettore troverà nel libro esempi di opere “scritte” in una lingua diversa dalla propria, e sarà portato a leggere prima l’immagine come arte, poi come testo, ma attraverso il passaggio della traduzione nella propria lingua: in casi come questi le traduzioni si moltiplicano. Il testo in arte implica sempre una traduzione. C.R. E l’artista, dopo che ha prodotto l’opera, non può fare altro che accettarlo. M.P. Esattamente. L’artista deve sapere che non conoscerà mai le ulteriori traduzioni della sua opera. Le parole non coincidono con l’arte; ci portano verso l’arte: sono parte del tutto ma non sono il tutto. L’esempio massimo di questa consapevolezza lo dà Magritte quando scrive sulla sua opera “Questa non è una pipa”. C.R. Michael, sei artista, autore, curatore. Quale di questi mestieri ti guida di più? M.P. L’arte è il punto di partenza della mia scrittura. Quando scrissi Installation Art, negli anni Novanta, nessuno sapeva cosa Ishmael Randall-Weeks, Pilares, 2014 Photo: Adrián Villalobos. Courtesy: the artist


arte e letteratura ASPETTI CRITICI, LIBRI E CATALOGHI

Monica Bonvicini, NOT FOR YOU, 2006 Courtesy: Monica Bonvicini and VG Bild-Kunst. Photo: Mattias Givell

volesse dire fare installazioni, dunque il libro nacque dall’esigenza di chiarire a noi stessi e agli altri qualcosa che non si può spiegare con una formula facile. Inoltre, e più in generale, è sempre difficile far comprendere al pubblico cosa fa veramente un artista perché è ancora molto forte il mito dell’artista romantico. R.E. L’idea che l’artista debba identificarsi con una figura mitica danneggia molto gli artisti stessi; chi si avvicina all’arte oggi sente la pressione di dover aspirare a un modello. I modi di essere artista in realtà cambiano continuamente e oggi, che gli artisti lavorano con diversi nuovi media, siamo in grado di conoscere forme di arte prima impensate. Dunque un unico modello di artista eroe romantico è molto limitante. M.P. E di solito l’artista eroe romantico è uomo. Una donna artista non potrebbe mai rappresentare quel modello. Nel libro metà degli artisti rappresentati sono donne, alcuni sono conosciuti, altri meno, e nessuno di loro è un personaggio eroico. Cerco sempre di mettere i lettori nella condizione di giudicare il vero valore dell’opera d’arte, al di là del brand, del valore monetario o del nome dell’artista. Il lettore noterà che nel libro non si fa distinzione tra artisti che sul mercato valgono milioni e artisti emergenti, al contrario si propone un dialogo tra differenti linguaggi. Solo in un libro è possibile fare questo tipo di operazione.

Antonio Riello, Not Made in Italy, 2011 (particolare) Courtesy: the Artist. Photo: Fiona Wang

Luca Rossi, If you don’t understand something search for it on You Tube, 2017 Val Badia (San Martin de Tor), SMACH 2017 Courtesy: Courtesy of Germano Montanari and the artist Photo: Gustav Willeit

C.R. Immagina di poter aggiungere un altro capitolo al tuo libro. Quale sarebbe l’argomento? M.P. In realtà il lavoro non è ancora finito, perché al libro seguirà una mostra. C’è da dire che attualmente nel Regno Unito viviamo una situazione di attesa: i grandi musei nazionali e le piccole realtà espositive non possono portare avanti la programmazione delle

loro mostre, dato che nel caso di una “hard Brexit” i costi di trasferimento delle opere potrebbero lievitare sensibilmente. In una situazione come questa non possiamo fare altro che guardare con obiettività ai problemi, promuovere il confronto e saper attendere. È questo lo spirito con cui continuiamo a lavorare: e nel libro il dialogo è appena incominciato. n

Mircea Cantor, Sic Transit Gloria Mundi, 2012 FIAC 2012, Grand Palais, Paris. Courtesy Mircea Cantor. Photo: Gabriela Vanga

Maurizio Nannucci, The Missing Poem Is The Poem / 1969, 1969 Maxxi Roma, 2015 Courtesy: Galleria Fumagalli Milano and the artist Photo: Musacchio & Ianniello

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MULIERES IN ECCLESIIS TACEANT Testo di Domenico Amoroso con un’intervista a Sylvia Franchi

Renata Prunas Campionario - 1979

Gwenn Thomas Moments of Place IV - 2013-14

Lucia Romualdi Installazione Galleria Artivisive 1975 - Roma

Vanna Nicolotti Struttura nera - 1978

Bice Lazzari Segmenti, linea e rosso - 1976

Eugenia Beck Lefebvre Rocce delle Seychelles - 1970

Marika Af Trolle - Annalisa Alloatti - Eugenia Beck Lefebvre - Mirella Bentivoglio - Federica Bertino - Tomaso Binga (Bianca Menna) - Irma Blank - Anna Bonoli - Zaza Calzia - Lucilla Caporilli Ferro - Bona Cardinali - Rosanna Castaldo - Lucilla Catania - Yvonne Cattier - Paula Claire - Carla Crosio - Laura D’Andrea Petrantoni - Immacolata Datti - Lucia Di Luciano - Lia Drei - Anna Esposito - Amelia Etlinger - Candida Ferrari - Giosetta Fioroni - Gisela Frankenberg - Ilse Garnier - Gerda Gluck - Marie Zoe Greene Mercier - Santina Grimaldi - Boumila Grogerova - Silvia Guberti - Patrizia Guerresi - Nedda Guidi - Angela Hart O’Brien - Ana Hatherly - Lore Heuermann - Annalies Klophaus - Ketty La Rocca - Maria Lai - Liliana Landi Sveva Lanza - Bice Lazzari - Paola Levi Montalcini - Bertina Lopez - Eliana Lumetti - Dacia Maraini - Lucia Marcucci - Annalisa Marini - Jessica Martensson - Elisa Montessori - Giulia Niccolai - Vanna Nicolotti Anna Oberto - Anezia Pacheco e Chaves - Gloria Persiani - Jasmine Pignatelli - Marguerite Pinney - Monica Pioggia - Renata Prunas - Betty Radin - Valeria Randazzo - Annie Ratti - Fiorella Rizzo - Maria Roccasalva - Lucia Romualdi - Luisa Ronchi Imbesi - Rosy Rosenholz - Cinzia Ruggeri - Giovanna Sandri - Lucia Sapienza - Mira Schendel - Dianne Schroeder - Pina Scognamiglio - Giovanna Secchi - Mary Ellen Solt Claudia Steiner - Wendy Stone - Lina Strano - Chima Sunada - Salette Tavares - Gwenn Thomas - Biljana Tomic - Anna Torelli - Franca Tosi - Silvia Trevale - Aviva Uri - Inge Vavra - Giancarla Verga Art director: Sylvia Franchi - artivisivesylvia@libero.it - www.associazioneartivisive.com 68 - segno 272 | APRILE/MAGGIO 2019


attività espositive INTERVISTE

Cinque decenni d’arte nel libro Mulieres in ecclesiis taceant

intervista a Sylvia Franchi a cura di Domenico Amoroso

I

nizierei questa intervista con una parola ed un invito: ricorda. Non certo per cavalcare l’onda della nostalgia, che in te é inesistente, ma per determinare una sintesi che sia nello stesso tempo razionale ed emozionale. Libera da vincoli teorici ma densa di motivazioni molteplici profonde, in linea con il progetto del libro. - Ricordo, durante l’attività della Galleria Artivisive, i primi incontri con le artiste donne della poesia visiva, la manifestazione che organizzai in collaborazione con diversi critici d’arte nel 1969 con il titolo: Per una poesia totale, fu la prima Rassegna Internazionale dedicata a questa forma d’arte: tra gli altri furono presenti Giovanna Sandri, Mirella Bentivoglio, Ketty La Rocca, con le quali c’è stata sempre una grande intesa, e Lucia Marcucci da Firenze del Gruppo Settanta. Anni dopo, nel 1974, organizzai una mostra dedicata specificatamente alla creatività femminile nei confronti del linguaggio-immagine, curata da Mirella Bentivoglio, con ben ventisette artiste di varie nazionalità, tra cui Annalies Klophaus, Gisela Frankenberg (Germania), Betty Radin (Inghilterra), Amelia Etlinger, Mary Ellen Solt, (USA), Isa Garnier (Francia), Chima Sunada (Giappone), Marguerite Pinney (Canada), Salette Tavares, Ana Hatherly (Portogallo), Boumila Grogerova (Cecoslovacchia), Anezia Pacheco (Brasile), Liliana Landi, Giulia Niccolai, Irma Blank, Lia Drei e Anna Oberto (Italia). Nel 1978, ampliata, la mostra fu presentata alla Biennale di Venezia con titolo: Materializzazione del linguaggio, costituendo, come ebbe a dire Mirella Bentivoglio, l’unica rassegna storica al femminile presente alla Biennale di Venezia. Negli anni successivi affidai alla Bentivoglio alcune opere e pubblicazioni della mia collezione personale, sapendo che ne avrebbe fatto buon uso, anche con donazioni.

- Mi sembra significativo, che il primo approccio con artiste sia avvenuto tramite la poesia visiva, ma non esclusivamente. C’è stato anche un percorso legato alle svariate realtà territoriali di cui l’Italia è ricca. - Infatti. Negli anni Settanta, Artivisive continua il suo programma interdisciplinare, in controtendenza rispetto alla moda del momento che era settoriale, ospitando una serie variegata di mostre per Lina Strano, siciliana con le sue scritture visive, per Nedda Guidi con le sue rigorose sculture in ceramica, di Lore Heuermann, austriaca presentata da Maria Torrente, di Eliana Lumetti da Milano, con un testo di Rosario Assunto, di Franca Tosi presentata da Giuseppe Marchiori. Da citare anche le mostre di Anna Torelli da Napoli, Rosanna Castaldo di Roma, Annalisa Alloatti (Torino) e l’americana Marie Zoe Greene Mercier, scultrice presente a Venezia durante la Biennale del 1966, e da me seguita da allora. Per quanto riguarda le indagini in provincia iniziate nel 1969, nata dal programma di ricerca sul territorio che molti anni dopo fu ripresa da altri con il nome di Genius Loci, sempre negli anni Settanta si susseguirono varie personali: di Renata Prunas con i suoi lavori di Arte povera, Maria Lai sarda, con i fili cuciti, Pina Scognamiglio, Lucia Romualdi, Sveva Lanza, Bice Lazzari, Vanna Nicolotti, Anna Esposito. Hanno frequentato abitualmente Artivisive dagli anni Settanta, Lia Drei, di cui ho esposto alcune opere in varie occasioni e Tomaso Binga (Bianca Menna), che vi inizia ad esporre in quegli anni, mentre nel 1984 partecipa ad una mostra itinerante dal titolo Alfabeti nella seconda sede di Arti Visive.

ka Joulalen Nicolai tunisina di origine berbera (1987-88) e Luisa Ronchi Imbesi (1984) con le sue installazioni dagli straordinari interventi cromatici. Una particolare attenzione ho prestato anche a Giosetta Fioroni e al suo libro dedicatomi. - Messi da parte gli anni ‘80, il debutto degli anni Novanta segna forse la fine delle ideologie anche nel campo dell’arte e l’affermarsi di un maggiore pragmatismo ed anche un rimescolamento generazionale dei linguaggi. - Certamente per alcuni artisti. Ma ho riscontrato anche continuità nella ricerca. Da allora fino ad oggi sono da segnalare: Immacolata Datti, scultrice, della quale ho visto trasformarsi le opere in una evoluzione continua, Carla Crosio, presentata da Gillo Dorfles nel 1993, con cui organizzai, prima a Roma poi a Vercelli nel 1994, la Rassegna Fondamenta a cura di Lorenzo Mango, cui tra gli altri, la scultrice Anna Bonoli ed Eugenia Beck che solo nel 2008 inizia ad esporre su mia insistenza. Più volte in Italia, con lei si è stabilita una vera intesa culturale e ancora oggi, dopo la sua scomparsa, mi occupo delle sue opere. Altre mostre da me organizzate sono state quelle con Jessica Martensson svedese, Candida Ferrari da Parma, Gerda Gluck tedesca, che Milena Ugolini presentò per la personale con le sue sculture in carta, Lucilla Caporilli Ferro, Claudia Steiner. Cinzia Ruggeri da Milano, Monica Pioggia, Valeria Randazzo. Diane Schroeder americana di Chicago e Gwenn Thomas americana di New York. - Naturalmente la ricerca di Artivisive continua…. - Molto ci sarebbe da dire sulle ultime generazioni di donne artiste da me seguite, ma mi limito a segnalarne due: Jasmine Pignatelli con interessanti sculture in ceramica, Lucia Sapienza, impegnata nella ricerca tra linguaggio e immagine. Di altre artiste, incontrate anche solo attraverso la loro produzione artistica, voglio aggiungere qualche nome: Paola Levi Montalcini, Francesca Jacona, Federica Bertino, Angela Hart O’Brien, Edit Revai, Sara Campesan, Ersilia Gioia, Franca Grilli, Giuliana Ippolito, Zita Noè, Sèdie Hèmon, Lucia Di Luciano (...) ma rimane certamente una pagina aperta per considerevoli osservazioni nel mondo dell’arte femminile.

Candida Ferrari, Libro Trasparente, 1996 (cm. 25x20 acrilico su carta)

- Arriviamo con gli anni Ottanta ad un momento particolarmente fervido, legato soprattutto alle Rassegne Nazionali, tra le quali quelle di Caltagirone e Termoli. - Infatti alle Rassegne Nazionali partecipano anche Silvia Guberti, Patrizia Guerresi, Fiorella Rizzo, Lucilla Catania e Annie Ratti (a Caltagirone); Maria Roccasalva e Giancarla Verga (a Termoli). Tuttavia continuano le personali e le mie esplorazioni. Yvonne Cattier francese, Inge Vavra austriaca, Marika af Trolle svedese, hanno rappresentato, attraverso le mostre personali degli anni Ottanta gli esiti dei viaggi di ricerca all’estero, con visite ai loro studi. Ancora da segnalare negli anni Ottanta: MaliAPRILE/MAGGIO 2019 | 272 segno - 69 Candida Ferrari Libro trasparente 1996 cm 25x20 - acrilico su carta


per Enrico Crispolti Testimonianze di un’esperienza condivisa

A

ll’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, giornata di ricordi dedicata alla figura dello storico e critico d’arte Enrico Crispolti (Roma 1933- 2018), teorico della disciplina e docente che, attraverso la Scuola di specializzazione dell’Università di Siena, ha formato generazioni di studiosi. La giornata, introdotta dalla Presidente dell’Accademia Livia Pomodoro e dal Direttore Giovanni Iovane, curata da Luisa Somaini, con la collaborazione di Ignazio Gadaleta e Livia Crispolti, ha inteso analizzare il metodo con cui, in più di sessant’anni di impegno “militante”, Crispolti abbia aggiornato la conoscenza dei linguaggi artistici contemporanei e dei nuovi media, inquadrando le ragioni del fare dell’artista nel contesto culturale di riferimento. Fra i maggiori esperti di Futurismo, Informale, Pop Art e di artisti di diverse tendenze dalla seconda metà degli

per Alessandro Mendini

Architettura sussurrante

D

a mesi Industrie Discografiche Lacerba stava preparando una re-release di Architettura Sussurrante, il curioso e poco noto esperimento musicale di Alessandro Mendini - realizzato con la collaborazione dei Matia Bazar, di Magazzini Criminali ed altri artisti - pubblicato in appena 2000 copie nel 1983. “Casa Mia” - brano di apertura della raccolta - usava frammenti di Cinismo Abitativo, un editoriale scritto da Alessandro Mendini per la rivista Modo nell’aprile del 1979 ovvero 40 anni fa, e ciò invitava alla celebrazione. Ma la scomparsa improvvisa di Mendini ci ha colti di sorpresa, e quello che doveva essere lo spunto per una rilettura di quella stagione del fare design che si espandeva oltre gli oggetti e le architetture, diventa oggi un tributo alla memoria. La raccolta di brani di Architettura Sussurrante è manifesto di un’idea che slegava la disciplina del design dal suo contesto industriale e consumista. Il discorso è decisamente poetico come si intuisce fin dalle note di copertina scritte dallo stesso Mendini “(…) quando chiudiamo gli occhi e cerchiamo di percepire l’architettura in maniera piú totale, piú antropologica che geometrica, ecco l’odore, il tatto, il calore, il buio dell’architettura. (…) Se poi avviciniamo l’orecchio alle mura di una stanza, esse ci parlano, ci dicono il loro messaggio, la loro architettura sussurrante, la nenia accumulata dalle generazioni che fra quelle mura hanno avuto vita e morte, gioia e dolore. Questo è il senso della raccolta di canzoni, dizioni e rumori di questo disco: di essere cioè il suono “elemento costitutivo”, “decoro auditivo” di progetti e architetture, di essere la componente sonora di esperienze architettoniche complesse.” Il progetto

70 - segno 272 | APRILE/MAGGIO 2019

anni Cinquanta, Crispolti dà vita ad uno dei più vasti archivi privati italiani come centro di documentazione del contemporaneo che gli ha permesso di allestire grandi progetti editoriali. Un breve documentario, raccoglie alcune riflessioni di Enrico Crispolti sul ruolo dello storico e del critico d’arte. Il filmato è tratto da un più ampio documentario Arte a Critica, ideato da Angelo Casciello e realizzato da Gennaro Visciano nello studio di Via di Ripetta 132, a Roma, in occasione dei suoi ottant’anni. L’iniziativa milanese, nell’intenzione dell’Archivio Crispolti, sarà seguita da analoghe giornate: a Roma, il 27 maggio al Dipartimento di Storia dell’Arte dell’Università La Sapienza, a cura di Ilaria Schiaffini e Claudio Zambianchi; in autunno, a Siena, presso il Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università degli Studi di Siena, a cura di Massimo Bignardi e Luca Quattrocchi; a Firenze a Le Murate Progetti Arte Contemporanea, a cura di Valentina Gensini; e a Baronissi, presso il Frac (Museo Fondo Regionale d’Arte Contemporanea) in provincia di Salerno. I cinque appuntamenti, nel loro complesso intendono costituire un primo approfondito bilancio della multiforme attività dello studioso Enrico Crispolti e ha molteplici richiami concettuali, dalla Musique d’ameublement di Erik Satie, alla ambient music di Brian Eno, ovvero musica che definisce uno spazio ma non ha bisogno di essere ascoltata. Ma anche musica che nelle parole di John Cage - finalmente offre la possibilità di “fare uscire il compositore dalla sua individualità, restituendo ai suoni la libertà di essere se stessi”. Cercando quindi di dare una collocazione musicale ad Architettura Sussurrante si potrebbe immaginare un pop angolare e narrativo, lontano dalle classifiche ma anche dalla sperimentazione di genere. Che trova l’ironica autorevolezza del manifesto nel suo essere progetto corale. I mezzi espressivi sono molteplici: mentre Magazzini Criminali ci offre una piece teatrale in forma di audio-dramma, Arredo Vestitivo di Maurizio Marsico riassembla la forma di un ammiccante commercial radiofonico attraverso il cut-up dadaista. E a ricordarci che gli anni ottanta erano allora appena iniziati ecco la filastrocca mendiniana, cantata da Antonella Ruggiero, di “La casa è la casa e la casa è” esplodere nel velocissimo electroFranco Summa, La Porta dell’Infinito.

della sua eclettica personalità, componendo un mosaico di voci attraverso gli interventi di coloro che con lo studioso hanno collaborato e si sono formati. Tra i vari relatori a Milano, Luca Massimo Barbero, Renato Barilli, Luca Beatrice, Rachele Ferrario, Fulvio Irace, Lorenzo Giusti, Francesco Poli, Luisa Somaini, Marco Tonelli, Michele Casamonti della galleria Tornabuoni, e numerosi artisti tra i quali Fernando De Filippi, Ignazio Gadaleta, Giuliano Giuman, Franco Marrocco, Ugo Nespolo, Fabrizio Plessi. pop di Casa Mia, - brano composto da Mauro Sabbione tastierista dell’era elettronica dei Matia Bazar che proprio in quel momento intraprese il cammino verso una multimedialità contaminata dal postmoderno che poi lo porterà ad abbandonare il gruppo. Casa Mia verrà esposta per lungo tempo al MOMA di New York insieme alle opere di Mendini. L’edizione 2019 di Architettura Sussurrante pur essendo una riproposizione filologica dell’originale del 1983 non ne è copia anastatica. La copertina dell’epoca, progettata da Mauro Panzeri, è stata ridisegnata dallo studio newyorkese Anti-B Design con il senso della rivisitazione e dell’omaggio contemporaneo.

da Franco Summa

per Alessandro Mendini lla pagina 410 della raccolta dei suoi scritti (Skira 2004), Alessandro Mendini A scrive: “Da molti anni Franco Summa ed io in-

trecciamo dei contatti. Parliamo, discutiamo, ci scambiamo opinioni. Il motivo è piuttosto chiaro: sebbene con metodi progettuali e con esiti visivi diversi, noi perseguiamo obbiettivi, poetiche ed utopie molto simili ... per entrambi la ricerca del simbolico, del riferimento arcaico, classico, mitologico e metafisico ... il bisogno di proporre oggetti come simboli, di cercare feticci, di testimoniare contrasti alla violenza del mondo, di proporre oggetti in termini di rito, di cerimonia, di calma e di lentezza... E poi un altro atteggiamento che rende paralleli il lavoro di Franco Summa e il mio e cioé l’approccio al progetto secondo una visione globale, pensato come fluido, come fatto invasivo che si espande verso tutti i meandri dell’universo: le varie opere visive che noi facciamo, qualsiasi sia il loro carattere, la loro funzione, misura o destinazione, sono spezzoni di una comunicazione, di una utopia letteraria globale, destinata a coprire e rappresentare il mondo con la sua espressione poetica. Perciò la parola poesia, che tanto ricorre nel vocabolario di entrambi, proposta come tocco lieve ma come sostanziale formula, garante della salvezza del mondo, rovesciamento del trend tecnico ed economico che invece sta distruggendo il mondo. Poesia, simbolo e strumento della spiritualità dell’uomo. Il quale uomo, tanto Franco Summa che io, vogliamo far vivere in spazi, in superfici e strade impostati sul senso artistico e pittorico dell’abitare: dilazioni di segni di colori, di ornamenti, di figure.”


arte e letteratura ASPETTI CRITICI, LIBRI E CATALOGHI

Okwui Enwezon

compare a soli 55 anni Okwui Enwezor. Una lunga malattia ha debilitato il criS tico nigeriano/statunitense (Calabar 1963),

Biennale di Venezia 2015: a sinistra il corridoio laterale dell’Arsenale con l’installazione di Ibrahim Mahama, in alto Okwui Enwezor - foto Roberto Sala

curatore dell’undicesima edizione nel 2002 di Documenta Kassel (cfr. Segno 185 estate 2002) definito da Viana Conti ambizioso e lungimirante primo curatore nero. Direttore della 56° Biennale di Venezia nel 2015 giudicata da molti critici tra le migliori di rilevanza storica, con un brusco e labirintico lavoro immerso nel discorso marxista. (cfr. Segno 253 estate 2015))

Quolibet, 2018

Skira, Milano 2018

The Book Is a Small Architecture. Interior of an Interior

Marco Bagnoli

questo corposo volume, dedicato all’artioriginario di Empoli, è Germano Celant, Inelnstatesto critico che lo apre intitolato Senza

l volume nasce dalla collaborazione fra tre figure trasversali e interessanti della Icontemporaneità che firmano la curatela di

questa pubblicazione sviluppata da NABA, Nuova Accademia di Belle Arti: Italo Rota, NABA Scientific Advisor, Anthony Marasco, NABA Aesthetics Senior Lecturer e l’architetto Diego Terna. Viviamo in un mondo in scala 1:1 e siamo sempre dentro ad un grande interno: è lì, lo vedo, non è una mappa, è la realtà fisica. Sono dentro o sono fuori? Sono fuori o sono dentro? È questa la traccia da seguire e attraverso la quale lasciarsi coinvolgere in questo libro immaginato come una piccola architettura. L’interno di un interno, come recita l’inglese titolo e concept allo stesso tempo, che spinge a connettere immagini e concetti e propone al lettore di diventare co-autore. Visual Essay, un testo per immagini, è l’introduzione metodologica e una palestra per esercitarsi, un wellness club della mente che cerca nelle recondite esperienze dei nostri corpi lo spazio in cui sono consumate, compresi videogiochi e Google Earth, in una partita di Roomscape, per trovare vie d’uscita. Web e Google Earth sono esplorati come un parco tematico della nostra fisicità, dove il reale è ormai narrato in maniera autonoma dalla realtà, film e sitcomedy sono modelli per le architetture della nostra vita. Con immagini e concetti ispirati da un ciclo di seminari sviluppati dal Dipartimento di Progettazione e Arti Applicate di NABA, questo volume si rivolge a tutti i consumatori e costruttori di spazio, di spazi fisici e della mente, cosi come di spazi virtuali.

Electa 2018

I Portatori del Tempo Il tempo pieno

uarto volume, della Enciclopedia delle Arti Contemporanee curata Q da Achille Bonito Oliva, con il coordinamento

scientifico di Andrea Cortellessa che completa i precedenti lavori dedicati al “tempo comico” (2010), al “tempo interiore” (2013) e al “tempo inclinato” (2015). Nella dialettica fra tempo vuoto della “potenza” e tempo pieno dell’”atto”, sin da Aristotele la filosofia ha sempre cercato una risposta agli enigmi e ai paradossi della temporalità. In questo modo è possibile superare la differenza tra silenzio e rumore, tra intervallo e azione. Paradossalmente l’opera totale di Wagner si salda con quella di Schönberg, Berg e Webern, il suprematismo di Malevic, il taglio di Fontana, l’opera di Brancusi, l’architettura di Gaudì, l’arte minimale e musicale di Andre e Glass fino a quella ambientale. Il tomo, così introdotto da uno scritto del filosofo e semiologo Paolo Virno, ripropone la struttura dei precedenti ed è diviso in otto sezioni disciplinari: musica, architettura, arti visive, cinema,

nuovi media, teatro, fotografia, letteratura, e si conclude con la postfazione, un testo di sintesi e raccordo di Achille Bonito Oliva, ideatore del progetto. Il volume contiene, inoltre i saggi di: Federico Capitoni sulla musica, Stefano Chiodi sulla architettura, Michele Dantini sulle arti visive, Enrico Ghezzi e Lorenzo Esposito sul cinema, Marco Senaldi sui nuovi media, Annalisa Sacchi sul teatro, Roberta Valtorta sulla fotografia, Andrea Cortellessa sulla letteratura. Il glossario è di Marie Rebecchi.

affrettare risposte su Marco Bagnoli, a offrire al lettore l’immediata traccia per penetrarne l’opera, che non può prescindere dal contesto di formazione impregnata di un fervido clima culturale per l’arte unico e forse irripetibile. Scorrendo le prime pagine, sono gli accadimenti visuali e iconici che hanno segnato le ricerche artistiche internazionali fra America ed Europa negli anni Settanta a mostrare il carattere di un’epoca, quello in cui il giovane Bagnoli gravita appena ventenne, maturando sin dagli esordi lo spirito che in breve tempo avrebbe caratterizzato la sua poetica. Si parla di riduzione di elementi strutturali, di pattern ritmici, d’immagini seriali, di componenti New Dada che conducono alla Pop, di Arte Programmata alla Minimal, di artisti come Jasper Johns, Yves Klein, Robert Rauschemberg, Piero Manzoni, Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, Edward Kienholz, e ancora di Bridget Riley, François Morellet, Enrico Castellani, Jan Schoonhoven, Donald Judd, Jan Flavin e Sol Le Witt che da soli bastano a comprendere il ventaglio di proposte e ricerche in auge in quei decenni che da li a poco avrebbero condotto alle esperienze di maggiore valore filosofico come Conceptual Art, Land Art, Arte Povera e Body Art. Logica e fisica, poi rigenerazione positiva dell’energia estetica sono le parole pilastro fondamentali nella costruzione di nuovi pensieri dell’arte – e anche in questo caso i nomi da citare sarebbero innumerevoli – lemmi, tuttavia, che modificano il proprio significato e significante nel successivo passo verso il ritorno alla scultura e alla pittura, diventando portatori di un nuovo pensiero rassicurante, di una ricostruzione riproduttiva, così come la descrive Celant riferendosi alle manifestazioni tipiche degli anni Ottanta. Nel ripercorrere, seppure in breve, questo spaccato fondamentale dell’arte contemporanea, verrebbe da dire che essere giovani artisti allora doveva essere stato qualcosa di particolarmente stimolante, eppure a pensarci bene, forse non meno difficile di oggi, se riflettiamo su quanto potrebbe essere stato arduo trovare una propria dimensione nel rapportarsi a movimenti e figure così intense e produttive anche e soprattutto di pensiero. Celant, a tale proposito, precisa alcune individualità autonome, impossibili da includere negli agglomerati artistici del periodo e tendenti a valorizzare gli aspetti legati alla magia, al mistero, all’enigmaticità e alla poesia dell’opera. È «in quest’ambito di insistenza sul valore liberatorio della potenza racchiusa nell’anima del mondo, ottenuta attraverso la discesa del magma della natura gloriosa dell’arte, che si inserisce a la immersione sacrale e metafisica di Marco Bagnoli, il quale sin dalle prime esperienze, datate 1972, si affida alla progressiva fede nel potere terapeutico della poesia e in seguito della ricerca visuale». Con queste poche frasi Celant spiega e introduce l’opera di un artista, non certo APRILE/MAGGIO 2019 | 272 segno - 71


ai margini dei grandi movimenti dell’epoca, ma sicuramente autonomo e spiazzante se si confronta il suo lavoro alle coeve tendenze di maggiore successo. Cosa racconta Bagnoli con le proprie opere? Con una semplicità disarmante Celant risponde che sul piano della storia dell’arte il contributo di Bagnoli conduce al formarsi di un cosmo che professa l’unità delle culture. Ci sono le ombre, quelle di De Chirico, c’è l’energia che si trasforma, quella di Beuys, ci sono immagini e parole (Mallarmé, Rimbaud, Valéry), ma anche spazio e tempo o meglio Spazio x Tempo dalla nota pubblicazione del giornale-manifesto del 1975, dove già appare il motivo della banda rossa, cifra stilista della sua ricerca oltre che portatrice di valori riconducibili alla storia di primo Novecento, come la Teoria dei colori di Goethe e le tavole didattiche di Malevic. Dalla fine degli anni Sessanta l’attitudine verso la Poesia Visiva lo conduce alla pellicola cinematografica che amplifica i valori di multisensoriale e pluri-visuali già fondanti al suo discorso. Sono sempre i temi del sacro, del divino e del magico a imperare nell’opera di Bagnoli, connotati e connotanti di uno spirito meditativo, se non addirittura malinconico (Risaliti) riconducibile all’agire del pellegrino. È nello scorrere delle diverse sfaccettature che accompagnano la vita dell’uomo che Bagnoli codifica un linguaggio costruito da elementi linguistici e comunicativi che ne mettono l’opera in comunicazione con l’universale, dove il medium, scultura o fotografia che sia, diventa il collante fra le dimensioni della realtà e della spiritualità. Su questa scia Bagnoli rappresenta nella storia dell’arte una sorta di continuum con le esperienze più significative del Novecento, interessate ad esperire il dualismo tra esistenza e simbolico alla ricerca di una illuminazione interiore. Si pensi a quelle di Ad Reinhardt e Barnett Newman, a loro volta debitrici delle teorie di Kandinskij, Kupka, Balla e Mondrian, non a caso puntualmente citati da Celant come importanti referenti nella costruzione del pensiero di Bagnoli. Un discorso che continua anche nel ricordo del primo intervento pubblico dell’artista, protagonisti alcuni lavori interattivi dove emergono silenti conversazioni fra fonti di luce (anche qui il ‘900 gli è ispiratore con i precedenti di Balla, Lásló Moholy-Nagy, Fontana, Flavin, Nauman, Merz) capaci di restituire una figurazione “realistica” della energia luminosa cui, tuttavia, Bagnoli aggiunge assunti d’impronta più scientifica seppure scartando sperimentazioni supertecnologiche anch’esse peculiari del periodo. Segue un naturale interesse per l’Oriente, dove l’elemento luce e il simbolico, ma anche il tema del viaggio, si evidenzia con maggiore sensibilità nella produzione degli anni Ottanta, fino a toccare la materia, poi l’atmosfera per giungere alla concezione di opere narranti il senso della trasmutazione che contempla al proprio interno anche l’elemento oscuro. Correndo verso la fine del percorso su Bagnoli, magistralmente ricostruito da Celant con coinvolgimento e passione, si arriva all’ultimo paragrafo intitolato Il Giardino Planetario (si ricorderà come tale dicitura abbia rappresentato il leitmotiv della recente Manifesta palermitana). L’artista e la sua opera, è qui oramai con evidenza il giardiniere, in altre parole l’intera umanità secondo la concezione di Clément (1997) ma in anticipo sulla teoria secondo quella di Celant che intravede questo discorso in Bagnoli già nei lavori della fine degli anni Ottanta e primi Novanta. Tuttavia, è proprio nelle esperienze degli anni Duemila che l’idea del giardino, o meglio del planetario, si palesa con maggiore pregnanza nella messa in relazione delle singole opere. Qui vi sono coinvolti un bouquet di elementi sempre diversi capaci di rendere l’opera d’arte: «un serbatoio che permette a Bagnoli di destarsi 72 - segno 272 | APRILE/MAGGIO 2019

in ogni situazione e proporre un meccanismo di vita come gioco di polarità antagoniste». Chiude il volume un’essenziale cronologia che ripercorre il percorso artistico di Bagnoli dagli anni Settanta a oggi, imprescindibile per ogni studioso o non che desideri conoscere un artista che ha saputo percorrere la propria via come un vero e proprio pellegrino solitario ma sempre attento e non avulso alle grandi correnti dell’arte contemporanea. (Maria Letizia Paiato)

Edizioni Kappabit, Roma

via, riconoscendo nell’insegnamento dell’arte quel valore unico e prezioso che risiede nella trasmissione di una disciplina, di una progettualità. Tecniche, identità e riflessione per apprendere, praticare e produrre per resistere al buio della disoccupazione (Michaud), una scuola formativa, esigente, innovativa (Gramsci), una scuola da riformare (Giulio Carlo Argan), pensiero teorico e pratico e molta fantasia (Gianni Rodari e Bruno Munari) studiare l’arte contemporanea per una presa sensoriale sul reale (Filiberto Menna), infine essere maestri per caso e innovatori al contempo (Giorgio Caproni). Sono queste le figure pilastro sulle quali Tolve compone la propria critica, conducendo il lettore a vedere proprio nella catastrofe possibili vie da percorrere per ricostruire il futuro. Il volume si chiude, infatti, con esempi positivi come il programma Educational della Biennale di Venezia, l’esperienza del CRAC di Cremona (purtroppo conclusosi), il [Non] Museo di Cesena, il Teatroscuola di Serra San Quirino nelle Marche, l’Opera Barolo a Torino, H-Campus a Ca’ Tron e A Cielo Aperto dei Bianco-Valente di Latronico. Probabilmente Socrate e Platone, il prendersi cura della cosa comune, non torneranno mai a essere punti di riferimento della nostra classe politica, ma chi tutti i giorni vive la scuola, di ogni ordine e grado, farebbe bene a ricordarsi di Giorgio Manganelli, così come l’autore a conclusione del volume fa, che colorare di speranza, di fantasia e immaginazione il prossimo futuro dovrebbe essere un dovere fantastico. (Maria Letizia Paiato)

Antonello Tolve Istruzione e catastrofe

on questo titolo, tutt’altro che rassicurante, Antonello Tolve traccia sin dalle C prime battute i contorni di un problema di

grande attualità e che a rigore di logica dovrebbe essere a cuore di ciascun cittadino. Con Istruzione e catastrofe parla di educazione, di costruzione di sapere, di cultura, di processi formativi, di sistema scolastico e d’insegnamento dell’arte che dovrebbero essere sempre oggetti di primario interesse dell’agenda politica nazionale. Quelli che prenderebbero essere i pilastri di una società civile, che voglia definirsi tale, purtroppo oggi appaiono sempre di più argomenti confinati nell’orbita della banalità se non addirittura del superfluo, sicché abbandono e incuria, ma anche rinuncia al futuro, sembrano avere preso il sopravvento. Una cultura – pone l’accento Tolve – oggi diventata cooltura, dove il cool è l’impronta più importante per la riuscita dello spettacolo di turno, e dove alcuni pensano, spostando con questo passaggio l’attenzione al mondo dell’arte, che il turista amante di esso possa essere un culturista. Non solo il turista, diciamo noi, ma l’intera classe politica che oggi ci “rappresenta”, cui sarebbe opportuno regalare questo piccolo ma denso volume per sollecitarli alla comprensione che solo ridando la giusta attenzione a formazione e istruzione è possibile creare una realtà sociale e culturale aperta al dialogo e al valore critico, per non collassare definitivamente in quella pratica della diffidenza quotidiana così definita da Umberto Eco e puntualmente citata da Tolve in più punti del libro. Farebbero bene a leggerlo e si schiarirebbero le idee sul valore pregnante che l’educazione artistica, vero cuore di questo saggio, ha avuto e può offrire in un possibile processo di rigenerazione culturale. Si può insegnare l’arte? È la domanda che ritma le ottanta pagine del libro, passando fra i pensieri di artisti e intellettuali di grande spessore come Louis Bourgeois, Noam Chomsky, Carlo Ludovico Ragghianti, Leo Lionni e molti altri che non hanno dubbi a rispondere negativamente al quesito, tutta-

a+mbookstore, Milano 2018

Io sono Carla Pellegrini

on il sottotitolo Storia della Galleria Milano e di tutto quello che mi è piaciuto C fare, la Pellegrini (1931) aggancia al Io Sono,

movente del libro quale affermazione della propria identità, la storia della galleria di cui è direttrice dal 1965, lasciando ampio spazio a quell’interpretazione tipicamente novecentesca del binomio arte-vita. Il volume, curato da Elio Grazioli, cui la Pellegrini racconta la sua storia, è ricco di aneddoti dove l’arte s’intreccia a fatti e incontri straordinari, viaggi avventurosi secondo un andirivieni costante fra passato e presente. La storia di Carla a un certo punto coincide con quella della sua Galleria Milano, che negli anni ha esposto, in anticipo sui tempi e con lungimiranza, i lavori di tanti degli artisti più importanti della nostra contemporaneità: dagli esponenti della Pop inglese nel 1966 alla Body Art più radicale in una mostra curata da una giovane Lea Vergine nel 1969, anno in cui presenta anche una personale di Allen Jones. E poi


arte e letteratura ASPETTI CRITICI, LIBRI E CATALOGHI

una programmazione che, fino ad oggi, ha spaziato in ogni direzione, dalla fotografia d’avanguardia al design, dalla cultura popolare alle ricerche antropologiche, dalla tanto amata arte tedesca al cinema sperimentale fino a mostre dettate da un chiaro impegno politico. A legare ambiti così diversi è il suo gusto e infallibile intuito e ancor più la sua persona, perché in fondo “la questione è quello che lei è, che continua ad essere ancora oggi”. Il libro comprende, infine, un vasto apparato di fotografie che ritraggono Carla e tante persone – artisti, curatori, critici, amici e famigliari – incontrate nel corso della sua lunga vita e carriera.

avviene la gestazione fluida «dell’immagine», lo spazio diventa volume e veicolo, «l’immagine» viene «scomposta», «congelata», «ricompostsa», «scongelata» e «trasformata»” (p. 65). E prosegue: “Da questo momento l’immagine non viene più «nutrita», acquista autonomia ed inizia un iter visualizzato all’interno del mondo”. Bucciarelli ci parla della presenza dell’arte e dell’artista nel mondo, di quello sguardo che osservando genera a sua volta mondi, e lo sguardo non è altro, secondo una lettura classica della Fenomenologia, che essere presente nel mondo, essere «della stessa carne», come scriveva Merleau-Ponty. La presenza dell’artista nelle sue performances, la presenza della sua immagine, in miniatura, di ceramica o di colore, disegnata o scolpita, nelle tele e nelle installazioni, non è altro che la presa di coscienza di questo sguardo che è a sua volta essere-nel-mondo e forza creatrice, di quelle immagini che poi «acquisteranno autonomia». Lucrezia Cippitelli

DARIO PEREZ FLORES

Gli ultimi lavori pur se ancora radicalmente geometrici, tendono a mostrare una certa smaterializzazione, facendo galleggiare il colore e le vibrazioni. (MB)

Flavio Favelli Serie Imperiale

ue volumi raccontano il lavoro dell’artista. Il primo, intitolato Serie ImpeD riale, pubblicato da Corraini edizioni 2018 è

Vito Bucciarelli Lo Psiconauta Lo Psiconauta o dell’essere nel mondo

ito Bucciarelli Lo Psiconauta è un viaggio di immagini e parole che abbracciaV no e ripercorrono la carriera di Vito Buccia-

relli, artista delle immagini e del corpo, che ha attraversato la storia dell’arte italiana con curiosità, sperimentalismo e ricerca dalla fine degli anni Sessanta ad Oggi. Lo Psiconauta che abita il libro è Bucciarelli stesso, che in un testo critico di Boatto che introduce il volume, viene presentato come il viaggiatore che esplora il mondo, lo abita, lo interroga con stupore e curiosità, e nel suo abitarlo – il mondo che Boatto chiama La Terra - lo fa emergere al nostro sguardo: “Nomade degli spazi cosmici – il «cosmonauta» - come pure nomade degli spazi dell’immaginario terrestre e della psiche «lo psiconauta»”. (p. 6) La scrittura di Boatto ha accompagnato il lavoro di Bucciarelli sin dagli anni Settanta, ed infatti ritroviamo in questo volume una serie di suoi testi, insieme ai testi di Tommaso Trini, Filiberto Menna, Santiago Amon, di Giacinto di Pietrantonio, Maria Letizia Paiato, Romano Gasparotti, che hanno seguito, indagato e raccontato i suoi lavori nei decenni. Il volume propone anche alcuni testi di Bucciarelli stesso, testi storici che accompagnano le sue performance o testi/manifesti che indagano la sua relazione – ed il suo sguardo – con il mondo. È proprio in questi testi d’artista che riusciamo a trovare un filo rosso che lega con coerenza tutti lavori prodotti in una vita intensa di viaggi, permanenze ed esperienze. Lavori che possono apparire slegati, se interrogati con fare veloce osservando e comparando le scelte formali: dalle tele degli anni Settanta alle installazioni, dalle performances ai più recenti oggetti-sculture in ceramica e terracotta. “L’immagine deriva da una serie di registrazioni interne / esterne, messaggi codici che confluiscono, si modellano e si organizzano all’interno dello spazio mentale. All’interno dello spazio mentale

Valmore studio d’arte, Vicenza

Dario Perez Flores

in uscita la Monografia dell’artista Dario Perez Flores, a cura di Monica È Bonollo ed edita da Valmore studio d’arte,

che tratta l’artista in esclusiva per l’Italia. La monografia raccoglie i maggiori contributi dei critici internazionali sull’artista, testi inediti, documentazione d’archivio e un gran numero di opere dell’artista, esplicative del percorso di ricerca articolato nelle sue diverse fasi. Nato a Valera, Venezuela, nel 1936, Dario Perez Flores studia scultura presso la Scuola d’Arti Plastiche della sua città e si laurea in Lettere all’Università Centrale di Caracas. Nel 1970, con una borsa di studio dal governo venezuelano arriva in Francia, dopo aver viaggiato negli Stati Uniti e in Europa. Si stabilisce a Parigi dove tuttora vive. Nel 1972 realizza le sue prime opere bidimensionali, i Reliefs Mobiles: rilievi mobili con trame in movimento azionate da motori che modificano i rapporti spaziocolore, inizialmente in bianco e nero e successivamente a colori. Dal 1976, realizza i suoi primi Prochromatiques, opere spogliate da meccanismi e motori, provviste di aste verticali, sospese su una superficie di colori graduali, che creano atmosfere cromatiche e cangianti con la complicità dello sguardo dell’osservatore. Nel 1981 Perez Flores incontra Denise René che da quel momento lo fa partecipare a tutte le mostre nazionali e internazionali della sua galleria. Nel 1984 ottiene il prestigioso “Primer Premio de Pintura al Salón Arturo Michelena” di Valencia, in Venezuela. La serie Dynamique-Chromatiques degli anni ’90 è un nuovo passo decisivo. L’opera è una frattura dello spazio, in cui la tela è composta da diversi pezzi geometrici. Queste rotture integrano e allo stesso tempo danno ritmo alle vibrazioni ottiche.

legato all’omonima mostra curata da Silvia Litardi ed Elisa Del Prete, ed è il nome dato a una serie di francobolli emessi nel 1929 e in uso fino al 1946, che riportano il volto di Vittorio Emanuele III. Tra questi, ne spiccano due in particolare, scelti dall’artista, riportanti la sovrastampa di un altro timbro alterante le sembianze del sovrano. L’opera di Favelli nasce da questa suggestione che, nell’esercizio dell’ingrandimento a muro, enfatizza i tratti così storpiati di Vittorio Emanuele III, tali da fargli perdere quell’aurea di solennità che si accompagna storicamente alla sua immagine. Il secondo: Univers. Un negozio metafisico, edito da Magonza 2018, racconta invece la storia di un negozio metafisico, una “bottega” inaugurata dall’artista a Venezia, a Fondamenta Sant’Anna (Castello 944, zona Arsenale), in parallelo con il vernissage della Biennale d’Arte. Questo ambiente essenziale, in cui aleggia una luce al neon con la scritta “Univers”, è raccontato da Favelli stesso come situazione diversa dalla dimensione commerciale: un “anti-negozio” in cui vendere, con modalità, prezzi e tempi differenti, oggetti unici, originali, firmati e siglati dall’artista, realizzati anche con materiale di recupero, opere d’arte non replicabili che si staccano dalla legge globale del mercato. Nella mia città ideale c’è sempre stato un negozio, che più che per vendere esiste per ricreare l’ambiente di un negozio, ma in fondo, senza esserlo completamente. Un bel negozio [...] dove si vendono solo poche cose, quasi niente. (Flavio Favelli, tratto da Univers. Un negozio metafisico).

Pina Inferrera Natura Altera

l Museo Mineralogico di Andora, nel rivedere fotografie, installazioni, sculA ture e le light box dell’artista messinese

esposte nell’ambito della mostra, è stata ospitata una conversazione con l’artista Pina Inferrera per il suo ultimo Libro d’artista. Per approfondire il tema del libro d’artista quale mezzo espressivo di un lavoro artistico, nello specifico un manufatto librario eseguito direttamente dall’artista in ogni sua fase ed elemento, dalla progettazione alla realizzazione materiale: ogni scelta di tecnica e via espressiva che ha quindi una sua peculiare funzione comunicativa ai fini della trasmissione del messaggio. Caratteristica che APRILE/MAGGIO 2019 | 272 segno - 73


lo rende unico nella grande famiglia delle creazioni artistiche è l’esigenza di toccarlo, manipolarlo, percepirlo attraverso i cinque sensi per poterlo fruire e comprenderne il significato: infinita è la tipologia dei materiali e delle forme di cui il libro può servirsi per esprimersi attraverso un artista. Inoltre, la possibilità di toccare l’opera a differenza di quanto regolarmente accade nelle gallerie e nei musei costituisce uno degli elementi del successo delle esposizioni che hanno come punto focale il Libro D’Artista. Alcune volte il libro è pubblicato in edizione limitata ma la maggior parte degli artisti preferisce l’esemplare singolo, per questo si usa indicarlo con l’espressione francese “unique”. Il libro d’artista di Pina Inferrera Natura Altera, è infatti unica copia, contiene 12 immagini inedite a colori con stampe prodotte dall’artista stessa su carta cotone fine art esclusive e di qualità che fanno scoprire il valore di un libro che diviene un’opera d’arte.

figurazione. “L’opera grafica -scrive il curatore- è stata per Sughi il luogo in cui saggiare determinate possibilità espressive” e, poiché è il segno ad essere custode dell’intuizione, riteniamo importante questa immersione nel mondo in bianco e nero dell’incisione, per apprezzare la maestria di Sughi e l’attualità della sua poetica. Tommaso Evangelista

Collana Editoriale

Archivio Vincenzo Agnetti

dato voce ad alcuni eccellenti attori di questi settori che parlano della loro visione dell’arte contemporanea e riflettono sul cambiamento del sistema artistico post-bellico . Gli intervistati: Carl Andre, Michaël Borremans, Mark Bradford, Glenn Brown, Mary Corse, Anthony D’Offay, Wojciech Fangor, Walton Ford, Adrian Ghenie, Mark Grotjahn, Damien Hirst, William Kentridge, Robert Longo, Sarah Lucas, Shirin Neshat, Demetrio Paparoni, François Pinault, Sean Scully, Pat Steir, Kaari Upson, Danh Vo

igure di spicco della scena artistica italiana fra gli anni Sessanta e Settanta e F forse il maggior esponente dell’Arte concet-

Silvana Editoriale

Alberto Sughi Opera grafica (1946-2011)

lberto Sughi (Cesena, 1928 - Bologna, 2012) è stato uno degli indiscussi proA tagonisti della pittura italiana nella seconda

metà del Novecento. Ancora poco noto è il corpus grafico che raccoglie, forse in maniera più intima e sintetica, i temi della sua poetica segnata da paesaggi urbani silenti, interni spogli, stanze mute nelle quali vive un’umanità borghese segnata da solitudine e disincanto. Il catalogo ragionato, edito da Silvana Editoriale e a cura di Sandro Parmiggiani, per la prima volta raccoglie, ordina e presenta questo corpus nella sua rilevante consistenza - 391 tra incisioni, litografie e serigrafie - e nella sua continuità (1946-2011). Ogni grafica, grazie al lavoro impeccabile dell’Archivio Sughi curato dai figli Serena e Mario, è stata analizzata, numerata e dotata di scheda mentre un ricco apparato critico permette di leggere in trasparenza l’intera opera. Si tratta invero di una produzione che rivela, nell’ininterrotta tensione all’esercizio delle tecniche grafiche e all’esplorazione delle infinite possibilità del segno e del disegno, il perenne scavo interiore alla ricerca di un’immagine rivelatrice: “Io non sono un grafico; ma, forse, un disegnatore” ha scritto il pittore che più di altri, in Italia, ha contribuito a illustrare un’epoca attraverso le sue inquietudini scegliendo, coraggiosamente, l’opzione della

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tuale nel nostro paese, Vincenzo Agnetti, prematuramente scomparso, lascia il suo Archivio alla figlia, attuale direttrice, Germana Agnetti che, in collaborazione con il nipote Guido Barbato, si è finalmente ristrutturato con una politica di accessibilità agli studiosi e un programma di iniziative rivolte al pubblico degli appassionati. Oltre alle mostre, infatti, l’Archivio Vincenzo Agnetti promuove una collana editoriale di agili pubblicazioni dedicate a temi centrali nella ricerca dell’artista e che ne attraversano trasversalmente la produzione oggettuale, le azioni, i testi. Tale collana, che conta già tre volumi, cui hanno collaborato tra gli altri Bruno Corà, Simone Menegoi, Marco Meneguzzo, Paola Nicolin, Elena Re, Giorgio Verzotti, pubblica oltre a saggi critici, anche foto e documenti d’epoca, costituendo un importante strumento di approfondimento del lavoro di Agnetti e del dibattito critico attorno a esso.

Marta Gnyp You, Me and Art

ou, Me and Art. Gli artisti del 21° secolo danno straordinari spunti su pratiche Y artistiche ricche e diverse del nostro tempo. Mai l’arte contemporanea è stata così popolare come lo è ora, mai il suo pubblico è stato così ampio. Nel mondo dell’arte in rapida evoluzione e in grande espansione, una cosa non è mai cambiata: è l’artista che rimane al centro dell’universo artistico. In affascinanti interviste personali, diciassette eccezionali personaggi del mondo dell’arte contemporanea riflettono su cosa significhi essere un artista oggi, fornendo materiale per analizzare le domande più urgenti dell’attuale sistema artistico. Quali valori dovrebbero prevalere? Come definire l’artista quando le nozioni di sciamano, rivoluzionario e bohémien non sono più rilevanti? Qual è la relazione tra artisti e il loro pubblico? Mentre gli artisti operano in stretto collegamento con curatori, collezionisti e galleristi, per completare il quadro, Marta Gnyp ha

Alessio Fransoni Teoria politica dell’arte

artendo da un’analisi puntuale della teoria politica di Hannah Arendt, questo P libro si propone di indicare una possibile via

per pensare l’arte in modo politico, considerando da un lato la teoria politica come un modo di pensare valido in generale, e cioè applicabile anche ad altre discipline, e mostrando dall’altro che l’arte ci dice qualcosa della natura stessa del politico. Su queste basi l’arte può essere osservata dalla prospettiva di una pluralità costitutiva, che essa stessa, insieme agli altri concetti del politico, aiuta a definire. Parlare d’arte vuol dire parlare di cosa significa stare tra gli uomini, e parlare delle modalità di questo “stare” ci pone davanti alla questione decisiva della relazione tra libertà e mondo, della quale l’arte è una risposta. La teoria dell’arte riformulata come teoria politica richiede un ripensamento dei rapporti tra storia e critica, degli approcci interpretativi e dei termini chiave della lettura formale (plasticità, medium, supporto), come pure delle pratiche artistiche paradigmatiche (dalla scultura della Grecia preclassica all’action painting), e dei momenti storici concettualizzati in categorie d’uso comune, quali “avanguardia” e “ritorno all’ordine”.


Contemporary Art Fair

25— 28 April 2019 Tour & Taxis

by EASYFAIRS

25-28 04.2019 Main partner


s

GALLERIA ENRICO ASTUNI Via Jacopo Barozzi, 3 BOLOGNA | ITALY info@galleriaastuni.net www.galleriaastuni.net


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