Il Calderone - Beltane 2015

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n 03 Beltane 2015


Il Calderone Si accendono i Fuochi di Beltane e questo nuovo numero del Calderone passa attraverso di essi, assecondando il naturale mutamento delle cose, la crescita, le diverse direzioni verso le quali l’Energia di questo periodo ci spinge con forza ed entusiasmo. Il Tempo del ‘dentro’, del silenzio dell’introspezione è trascorso. Il nostro pensiero ora è rivolto a Bel, il simbolico signore della Luce, il Maschile che esplode e con esso il Suono, un suono che con la propria benefica vibrazione accompagna questo tratto luminoso del nostro sentiero lungo la Ruota dell’Anno; ci siamo soffermati sul ritmo di antiche note che hanno da sempre accompagnato la Via spirituale dei popoli, le campane tibetane, e su

quello, purtroppo sempre più raro, del soffuso ronzio delle api fra i fiori. Un brano musicale onorerà la gioia di questo momento mentre Il dolce suono dei ricordi di un’Arpa d’erba, arricchirà il nostro Calderone con una nuova rubrica di approfondimento letterario. Maggio è arrivato, danzando fra i nuovi giorni e la sensazione di una ciclica eternità, ed in questo numero vorremmo approfondire il significato simbolico ed antropologico di questo Tempo e quello naturale ed atavico del movimento del corpo che diventa espressione di un impulso, capacità di seguire armonicamente il ritmo fluido della Vita. La voglia di camminare insieme at-

traverso la Natura ed i biancospini in fiore, in questo Tempo di ‘fuori’ e di scoperta, ci ha portato anche ad un piacevole confronto di idee su cosa essa rappresenti per le diverse religioni/filosofie di vita che ci sono accanto, e ad un interessantissimo dialogo di tre ‘viaggiatori’ con un saggio e stimato druido, JJ Middleway. Un gioioso cammino fra i Fuochi di Bel Daniela F.P.


interviste


Intervista a JJ Middleway Ciao JJ, dopo una full immersion di cinque giorni trascorsa assieme a te, ne approfittiamo per farti qualche breve domanda da pubblicare sulla nostra rivista. Innanzitutto, puoi brevemente dirci cosa rappresenta per te il Druidismo?

Per me, come praticante di questo sentiero, il Druidismo rappresenta la via del cuore, la via della terra ma soprattutto la via dell’ umiltà. Vi faccio un esempio: “il focolare è l’ altare il lavoro è il culto il servizio è il sacramento”. Questa tua esemplificazione è bellissima e così evocativa.

Su questa base, secondo me fondamentale, aggiungerei ovviamente l’ amore per la nostra Madre Terra e per tutto ciò che ci circonda. Cosa intendi quando dici “ Amore verso la nostra Terra”?

E’ semplice. Deve esserci una sorta di alchimia, un marcato mix tra reverenza e celebrazione che passa attraverso il riconoscimento della sacralità che ci circonda e lo spirito di servizio che ci accomuna. Per raggiungere questa alchimia cosa suggerisci a noi tutti e a chi ci legge?

Sapete, per riuscire a sviluppare un sano Spirito di Servizio unito alla consapevolezza della Sacralità è ne-

cessario innanzitutto imparare a percepire il silenzio interiore, è fondamentale aprire il proprio cuore all’ esterno mettendo a disposizione anche la propria vulnerabilità, questo, soprattutto quando incontriamo gli altri. Così facendo noi tocchiamo le persone, apriamo il loro cuore e nel contempo impariamo dalla loro

umanità. Bisognerebbe riuscire ad accettare noi stessi e il mondo cosi com’è, dovremmo riuscire a farlo con coraggio e con la comprensione dei cambiamenti che sono sempre in atto e, di conseguenza, dovremmo percepire la verità celata dietro ad essi.


Caspita JJ, quanto lavoro interiore hai espresso in così poche parole.

Credo che la cosa più importante, da questo punto di vista sia quella di dimostrare di non sapere. In realtà noi non conosciamo tutto ed è per questa ragione che onoriamo il mistero ma anche la nostra stessa stupidità, legata proprio al fatto di essere consapevoli di non sapere. Non è certo l’ abito, la tunica in questo caso, che fa di noi un buon Druido. Non esistono badge d’identificazione ma solo la piena consapevolezza di noi stessi quali esseri divini si, ma perfetti nella loro imperfezione. Hai una pratica giornaliera che ti aiuta a radicarti nei principi che ci hai esposto sopra?

Certo, senza una pratica la teoria non funziona. Io comincio sempre la giornata con dei canti e delle meditazioni. Cerco inoltre di radicarmi nei principi di integrità, umiltà, grazia e umanità cercando di viverli e di portarli nel mondo in prima persona. Mi sforzo ovviamente di essere aperto al processo della vita, accettando tutto quello che arriva come un dono. Questo a volte non è facilissimo ma un buon addestramento unito alle qualità di cui ho parlato sopra lo rendono fattibile e pienamente praticabile. Il trucco è quello di essere radicato al momento presente per ricercare la guarigione interiore e

la compassione verso tutti gli esseri, affidandosi e fidandosi della saggezza intrinseca alla vita stessa. Hai un background da Buddhista praticante, questo ha in parte influenzato il tuo sentiero druidico?

Pensate solo al mio nome JJ Middleway ( via di mezzo ) Io sono consapevole di percorrere una larga strada e durante questo mio camminare cerco di posizionarmi proprio nel mezzo, così come è descritto dai Sutra buddhisti di quasi tutte le tradizioni. Il Buddhismo mi ha insegnato la compassione verso tutti gli esseri, ha aperto la mia mente alla saggezza dando un profondo significato alla mia vita. Del Buddhismo e del druidismo inoltre, amo soprattutto la totale assenza di dogmi da dover accettare per sola fede. La via contemplativa offerta dal buddhismo mi è servita molto per comprendere i punti essenziali legati all’ accettazione e alla ricerca del silenzio interiore. Grazie JJ, per noi le tue parole sono state di forte ispirazione, credo che lo saranno anche per i nostri lettori.

Grazie a voi per questa breve intervista e grazie per il bellissimo soggiorno in Italia durante il quale ho vissuto momenti di intensa condivisione, momenti fatti di cuore e di anima e anche attimi caratterizzati da tante belle, sincere e fraterne risate. Paolo, Stefano e Mirella


divinita ‘ - leggende


Beleno na figura maschile ci aspetta fuori dalla accogliente Terra dopo il risveglio di Primavera, all’accendersi dei Fuochi di Beltane: dove prima era il buio, la costruzione-dentro, la solo-apparente immobilità, la protezione, l’introspezione e l’approfondimento, ora c’è la Luce, l’esplosione del movimento, l’azione, la voglia di fare e di essere, l’ ‘andare fuori’ in tutti i sensi. Nulla è più antico dell’attesa della Luce e l’essere umano, così come ogni altra creatura in ogni Tempo ed in ogni cultura, ha guardato al Sole come alla primaria fonte di sopravvivenza, Signore dei cicli del giorno e della notte, del freddo e del caldo, della Vita e della Morte. Questo è quindi il Tempo di Belanu o Beleno, o Bel, o… tutte le altre varianti di questo nome, appartenenti alle diverse culture e lingue protoceltiche, che hanno in comune la radice protoindoeuropea bʰel-, che significa appunto “luce”. Questa radice è presente con lo stesso significato nelle protolingue indoeuropee, afroasiatiche, ed anche nel Sanscrito come ‘bha’. Bel infatti è il dio primordiale della luce, venerato perfino dai Sumeri in medio oriente a partire dal VI millennio a.C., e forse ancor prima, sin dalla notte dei tempi della preistoria neolitica. Adorato dai Liguri, dagli Iberi, e dai Celti . Iscrizioni con il suo nome sono state rinvenute a sud dalla Gallia sia cisalpina che transalpina

U

Il Luminoso

e dall’Illiria fino alle isole britanniche a nord. L’etimologia ci aiuta sempre a ricercare il significato profondo, ormai nascosto dietro le parole e spesso dimenticato. La Luce di Beleno e della radice bel-, così non è solo quella del Sole, ma anche quella dell’ ’apparire dall’altro mondo / l’illuminazione dal mondo degli dei’, successivamente stabilizzatosi in ‘luce’. Il dio luminoso, adorato per la sua influenza sulla luce solare e di conseguenza sulla stagionalità, sull’agricoltura e sull’allevamento, ed in pratica su ogni attività umana, sovrintendeva quindi anche all’illuminazione della Psiche, nell’accezione spirituale e mentale, e come guida alle innovazioni ed alle invenzioni. Dio di ciò che è nuovo e lucente quindi: le luminose fiamme di Beleno benedicono con il loro risplendere un germoglio rigoglioso, una novità, un pensiero appena nato, ed anche i giovani vitelli, mentre passano fra i due fuochi sacri di Beltane, e tutte quelle gioiose unioni che genereranno nuova vita al prossimo Imbolc. Anche per i popoli guerrieri, meno dediti all’allevamento ed all’agricoltura, il Tempo di Beleno segnava comunque l’inizio del periodo dell’azione, dell’andare-fuori… era la stagione delle scorrerie che avrebbero portato ‘nuove’ terre e ‘nuove’ conoscenze. Spesso, per molti suoi aspetti, Belenos è stato associato ad Apollo e, come quest’ultimo, si supponeva guidasse il Sole attraverso il cielo in

un carro trainato da cavalli: i suoi simboli sono infatti il Cavallo e la Ruota (…del Tempo e del carro del Sole) , come dimostrano le offerte dedicate al dio di piccole statuine di argilla a forma di cavallo, trovate nel santuario di “ Sainte-Sabine in Borgogna. La tradizione di accendere fuochi in occasione delle festività dedicate a Beleno è quindi antichissima ed endemica, e Beltane ( etimologicamente: ‘i fuochi di Bel’ , ma anche ‘fuoco brillante’ o ‘fuoco fortunato’ ) è la più importante e nota di queste occasioni. Un rito spesso spontaneamente ancora vivo nelle zone rurali che tipicamente sono più legate alla ciclicità della luce naturale e che più attingono alle tradizioni che, come queste, affondano le proprie radici nella notte dei tempi protostorici se non addirittura preistorici. Fra i fuochi di Beltane passa il Nuovo che crescerà durante l’estate, chiedendo luce calore e ‘fortuna’; nella splendente luce di quelle fiamme si crea l’energia da spendere immediatamente, senza aspettare oltre perché questo è il Tempo di agire … il tempo della gioventù , fisica o spirituale e mentale, il tempo dell’Entusiasmo ed anche il tempo delle nuove unioni, perché anche gli aspetti maschili e femminili sono al massimo della propria potenzialità e possono e vogliono confrontarsi ed esprimersi insieme per generare nuova Vita in tutti i sensi, benedetti dalla scintillante e propizia luce di Bel! Daniela F.P.


CAMMINANDO LUNGO I SENTIERI DELLA NATURA Noi siamo parte della Natura. Questo è un assioma di fondo che guida il Sentiero del Druidismo per vie soggettive e dall’aspetto molteplice, derivato dai singoli modi di essere personali, ma che, allo stesso tempo, in una armonica dualità le unisce facendole convergere verso una direzione comune che è l’amore ed il rispetto per la Terra e per ogni cosa esistente, materiale e immateriale, in quanto, appunto, frammento di un Unicum a cui noi stessi apparteniamo. La curiosità nata dal confronto con altre filosofie/religioni con le quali, come gruppo, siamo entrati in contatto e che mostrano ( anche spesso con la partecipazione attiva ai nostri rituali ) un’affinità ed una comunanza di modi di ‘sentire’ la Natura molto profonde, ha generato

questa piccola ‘ricerca’ che avrà tutti i limiti del muoversi solo in un ambiente circoscritto ma che risponde comunque ad alcune interessanti domande di fondo. Personalmente ho pensato, come primo approccio, di non rivolgermi ai ‘Maestri’ delle diverse Vie ma proprio al ‘comune sentire’ di chi le segue. Ho pensato inoltre di non interrompere le risposte con domande varie ma di porne due di base e lasciare loro una totale libertà di espressione e costruzione del discorso. Le domande erano semplici: Cosa rappresenta la Natura nella Via che tu hai scelto? Quale sono gli aspetti di essa che condivide col Druidismo ed in quali se ne differenzia? Le risposte sono state belle, chiare e profonde e le cito qui in un ordine casuale che non ne definisce certo l’importanza.

Questa è la risposta di un ragazzo che partecipa molto spesso ai nostri rituali: Ian, induista. “La religione induista,nello specifico gli hare krisna, credono che tutti gli esseri viventi dell’universo materiale siano in relazione tra loro in quanto particelle di Dio. L’obbiettivo finale di tutti è tornare da Krisna, nell’universo spirituale. Il tempo necessario per compiere “l’impresa” dipende dalle azioni che un essere compie nelle sue vite. Il karma(ad ogni azione corrisponde una reazione) determina il tempo che servirà per tornare a casa. Ogni pianeta ha milioni di forme di vita con diversi stati di coscienza. Un anemone di mare molto probabilmente non compie azione meschine di proposito quindi tutto ciò che fa è solo parte del suo percorso


spirituale. Un uomo che uccide un altro uomo sa quello che fa. Sa che uccidere è sbagliato. Molti non sanno che, se in questa vita compiono azioni negative, nella prossima si reincarneranno in un essere inferiore (con un basso stato di coscienza) e dovranno nuovamente passare per tutte le forme di vita che già avevano vissuto fino a tornare ad essere uomini e quindi consapevoli delle proprie azioni. E’ importante rispettare ogni forma di vita. Uccidere una mosca non è un gesto esecrabile come l’assassinio di un uomo ma ti allontana comunque da Dio. Non

compiere azioni negative è il primo passo per riunirci a Krisna, compiere azioni positive è il secondo: rispettare ogni forma di vita. Una margherita, un cane, un abete sono vite e siamo noi uomini responsabili del loro benessere. Amandole, rispettandole, curandole, accudendole le aiutiamo nel loro percorso karmico e aiutiamo anche noi stessi perché siamo miliardi di frammenti di una cosa sola. In questo consiste il basilare sentire comune con il Druidismo ma c’è anche un’importante sfumatura di differenza: il comune legame e rispetto per la natura e la vita in

generale per gli induisti è un mezzo per raggiungere uno scopo. Per me essere insieme a voi tutti e’ come andare al cinema con degli amici: tutti vediamo lo stesso film ma ognuno lo vive a modo suo, chi per evadere dalla quotidianità, chi per emozionarsi, chi per condividere un pensiero ma siamo li nella sala o, per tornare alla realtà, nella Natura a relazionarci con una parte di noi, a camminare sulla stessa strada , a seguire il nostro percorso spirituale. Ian

La foglia che cambia il mondo E così ha risposto alle stesse domande M., buddhista: Siddharta iniziò una ricerca interiore, un cammino, sottoponendosi a diverse pratiche spirituali ascetiche e non, ed incontrò molti maestri, ma era sempre insoddisfatto di quanto sperimentato. Finché un giorno dopo molti lunghi anni di ricerca che non aveva portato a nulla, si sedette al riparo sotto un albero, un ficus religioso, a meditare, non sapeva cosa altro poter fare, e dopo aver meditato a lungo dall’albero si staccò una foglia che cadde nelle sue mani. All’improvviso tutto fu chiaro, lampante, come se fosse sempre stato a disposizione di tutti ma nessuno se ne fosse mai accorto. Nella foglia Siddharta vide tutto. Il sole che aveva fatto fiorire l’albero, le nuvole che

avevano portato la pioggia che aveva nutrito l’arbusto, gli insetti che lo abitavano e che si nutrivano delle foglie cadute, gli uccelli che avevano lasciato cadere il seme da cui era nata la prima piantina, la madre terra che aveva accolto le radici, il vento che aveva portato con se il polline, potrei, ovviamente, continuare all’infinito. Siddharta aveva visto una cosa fondamentale: che l’albero non poteva vivere solo di se stesso, ma tutto era collegato a quell’albero. Tutto quanto lo circondava. Senza una sola di quelle cose l’albero non sarebbe potuto esistere e quella foglia non sarebbe caduta mai tra le sue mani. Estendendo questo concetto a tutto quello che ci circonda, che vediamo, che possiamo toccare, sentire e vedere ci rendiamo conto che nulla può vivere un sé separato da tut-

to il resto. Questo concetto è il cardine dell’illuminazione di Siddharta che si risveglia a questa nuova conoscenza, si illumina a questa nuova grande saggezza e diventa il Buddha (illuminato o risvegliato) e l’albero diventa l’albero della Bodhi. Questo è il pricipio cardine del buddhismo come lo conosciamo noi oggi, questo principio viene chiamato “origine interdipendente”. Dopo l’Illuminazione il Buddha diede il suo primo insegnamento che indicarono il percorso per liberarsi dallo stato di sofferenza, senza il bisogno di intermediari, ma attraverso un lavoro su se stessi. Da quel momento passò la sua vita ad insegnare come raggiungere il suo stato di Illuminato ad innumerevoli persone. La natura, quindi assume nel


buddhismo, una valenza eccezionale, chi medita resta seduto ad osservare. Si esce dal concetto di bene o male, buono o cattivo, perché un inverno, ad esempio, dovrebbe essere male? La natura in inverno riposa, e solo grazie al riposo risorge rigogliosa a primavera. La natura stessa, secondo la mia umile opinione, è esente dai concetti di bene o male,

la Natura è una maestra importante e noi dobbiamo imparare a osservare e fare insegnamento delle sue piccole variazioni silenziose e costanti. Osservando un fiore ci rendiamo conto che cresce da un semino ha una sua vita e poi muore, ma da quel fiore nasceranno altri semi quindi quel fiore è morto davvero? È nato davvero? Chi siamo noi per decidere o

stabilire dove sta, in questo caso per esempio, il confine tra vita e morte? Semplice. Chi pratica la disciplina buddhista non lo fa. Prescinde dai concetti di nascita e morte che sono solo illusioni. E semplicemente vive rispettando tutte le forme di vita. Animali e vegetali.

Questa è la risposta di Lorenzo, cristiano:

No, affatto! Dio ha amato l’Uomo senza riserve, al punto da morire per esso. Ogni creazione di Dio, amata da Lui in modo incondizionato, ci pone, quindi, in una condizione di gratitudine, di responsabilità verso ciò che ci è stato dato, perché immagine stessa del suo Amore. L’esempio di San Francesco è emblematico: il senso di contemplazione, fratellanza, solidarietà, gioia e carità, sotto la luce dello sguardo di Dio, è tutto in relazione con la Natura e, per questo motivo, il trattare bene il mondo che

ti circonda e accoglie è immagine viva della gratitudine verso chi l’ha creata e te ne ha fatto dono. Non posso, quindi, non pensare che Dio , nella sua infinita bontà, ha dato a me una sua preziosa creazione, con il compito di custodirla e di amarla. Questo non vuol dire che non possa trasformare la Natura stessa, perché tutto è in continua evoluzione, ma ogni gesto che compio deve essere sotto la luce dell’Amore incondizionato che Dio ha per me e per le altre sue creature. La differenza sostanziale che sento tra Cattolicesimo e Druidismo nei confronti della Natura è che per il primo essa è dono e immagine di Dio mentre per il secondo la Natura rappresenta un interlocutore unico e vivo. Ma, tuttavia, è una differenza che sfocia in un’analisi più approfondita che lascio a chi ha strumenti molto più accurati dei miei.

“Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (Genesi 2, 15) Partendo da queste parole del racconto della Creazione, emerge da subito un aspetto molto importante, che dovrebbe essere al centro della vita di qualsiasi persona (come me e altri) che risponde al Credo Cattolico: l’Amore e la Gratitudine. Lontane dal concetto di Natura?

M.

Lorenzo


salute e benessere


Danzare la dualita Immagina. Immagina una lavandaia francese del 1700. Col suo bel incarnato rosato, il seno procace che sporge dal bustino e le gonne lise dagli anni, raccolte in vita con un nastro. Immaginala immersa fino alle ginocchia in un grande mastello di legno, mentre con i piedi pigia e ripigia i panni nella lisciva calda, sotto un sole di fine aprile. Dancer appunto. Dan-

zare. E chi avrebbe mai pensato che una parola così nobile avesse un’origine etimologica così umile? Mi viene un grande stupore se la paragono con l’arte della danza classica o quella codificata nei passi e nell’abbigliamento, dei balli da sala ad esempio. Come minimo, gli prende un colpo a tutte le paillettes e i lustrini dei co-

stumi caraibici, alla memoria della prima antenata danzatrice. Ed io che da qualche tempo, sogno il Tango Argentino in uno splendido abito di chiffon rosso, dovrò sicuramente rinunciare alle scarpe col tacco, ora che so! Dancer, prende un’altro peso. Uno capace di spostarsi da un piede all’altro ritmicamente mentre si supera l’estetismo e si fa qualcosa di utile e finalizzato. Danzare quindi, nel pensiero e nella forma. Come i simboli che apprezzo di più di Beltane. Il passaggio purificatore attraverso i due Fuochi Sacri e la danza attorno al Palo di Maggio. Bellissimo farli dal vero, una grande gioia e vitalità, che ti auguro di provare. Ma il peso da bilanciare ora vorrei che inducesse alla riflessione, perché se un simbolo rimane solo quello che si può vedere o fare, tende a morire e ad essere dimenticato. Ed io non voglio avere sulla coscienza nessun un omicidio, nemmeno simbolico. Esistono nella nostra fisiologia ad esempio due fuochi sacri, l’emisfero cerebrale destro e sinistro. Ognuno dei quali, nella misura specifica della persona, più o meno sviluppato. In modo orientativo possiamo dire che il sinistro svolge azioni di tipo organizzativo, pratico, difensivo e nel presente, mentre il destro si occupa del nostro lato creativo, affettivo, accogliente e nel passato. Siamo anche dotati di un May Pole, che potremmo immaginare come il Canale Ver-


tebrale, in cui si sviluppa l’SNC ( sistema nervoso centrale ) al cui corpo sono collegati nastri che mettono in relazione tutte le parti con l’insieme, l’SNP ( sistema nervoso periferico ). Ripensando ai movimenti della danza di questi due simboli primaverili, il passaggio attraverso i fuochi propone un attraversamento, oppure quando a fine cerimonia i fuochi vengono riuniti, un salto. Mentre la danza attorno al Palo, muove i corpi in una spirale concentrica con i nastri colorati che si accorciano man mano che si intrecciano, creando una verticalità discendente, a rappresentare i raggi solari, fecondatori della terra. Essi mostrano anche le relazioni tra me e la mia comunità

nei movimenti ciclici e alterni di Vita e Morte. Abbiamo quindi cinque movimenti principali, l’attraversamento e il salto, probabilmente legati ad un rituale più antico, il doppio serpente alternato, la spirale concentrica e la verticalità discendente, sicuramente espressione cerimoniale più recente. Curioso paragonare, nello sviluppo temporale di questi rituali l’evoluzione del nostro sistema nervoso, in cui l’SNC si allunga nell’SNP, come se il passaggio da un sistema ad un altro, da un rituale all’altro fosse avvenuto senza soluzione di continuità. Ma ad un livello interpretativo più profondo comprendere queste danze, può significare molto. Cioè può

lasciarci in mano una soluzione per gestire tante difficoltà concrete del nostro viver quotidiano. Perché oggi sappiamo che è importante riequilibrare le azioni dei nostri due fuochi-emisferi e sviluppare anche ciò che è un talento solo in potenziale. Sappiamo che la vita è multiforme e che richiede abilità di spostarsi da ciò che ci riesce spontaneo a ciò che oggi potremmo definire SPINTANEO ( citazione dalla mia docente di Medicina Cinese e Kinesiologia Soili Rainieri ). Questo richiede una certa disciplina, ma sviluppa anche una flessibilità mentale, impareggiabile. Per non parlare di una buona dose di fiducia, nel flusso della vita.


Sappiamo poi, che dalle fronde del mondo degli ideali, il movimento naturale mi porta verso il basso, a confrontarmi con la concretezza della vita, la sua durezza e durata, se vuoi. È questa sicuramente la questione più spinosa, la felicità del mio essere nel qui e ora, sta nelle azioni che compio e quante di queste corrispondono alle aspettative, ma soprattutto alla volontà profonda. Sappiamo io e te, che la coincidenza è pressochè miracolosa, frutto di migliaia di tentativi, proprio come da un albero nascono migliaia di semi, ma pochi diventano alberi, anch’essi. La questione della felicità tende al centro, come la danza a spirale. Lo fa per ripetizione e similitudine, per portarmi in contatto con la mia Volontà Profonda, che potrei definire, a mio gusto si intende, come una coincidenza di bisogni biologici e necessità dell’anima. Questi devono affrancarsi nella vita, prima o poi; se non succede, la spinta interna può diventare così elevata, da generare frustrazioni e malessere. Come se un danzatore decidesse di smettere di ballare all’improvviso e tutti quelli dietro di lui ancora in movimento,

gli piombassero addosso formando un mucchio confuso di umani, nastri colorati e Palo di Maggio sopra tutti. Sarebbe un gran casino, ma non è la fine del mondo. Intendo dire che il movimento a doppia serpentina, ci insegna che la vita si incarna, tra creazione e distruzione, comunque. Ci insegna che anche nelle condizioni più infime, la Vita continua, e la danza non è finita, fino a quando davvero non è finita, cioè quando vengono meno i fondamenti della

vita, che nel caso umano sono respiro e battito cardiaco. È interessante notare come proprio questi aspetti fisiologici, siano il frutto di movimenti alterni, tra apertura e chiusura, contrazione e rilascio. Ma anche il movimento stesso, è legato all’antagonismo muscolare, che secondo un attraversamento del confine della dualità percepita, esprime in realtà la sostanziale complementarietà delle parti. E non si tratta di vedere il bicchiere mezzo pieno, è la realtà oggettiva, non c’è apertura senza chiusura, non c’è razionale, senza creativo, non c’è dolore perenne senza felicità. La questione è, so cogliere l’alternanza? So stare nel ritmo? Beh che problema c’è, forza danziamo! ( gran finale multimediale ascoltando Lorenzo Jovannotti con “Io Danzo” http://youtu.be/vZ4J5M6849E ) Ilaria Page


luoghi


Cornovaglia Insolita …Buongiorno e da Tintagel e ben alzati! Eccoci pronti per proseguire e concludere il nostro viaggio alla scoperta di angoli pittoreschi e misteriosi della Cornovaglia. Siamo

pronti per salire in macchina, dopo un ultimo sguardo al mare dall’alto della scogliera ed un saluto mentale a Merlino e Re Artu (…chissà se anche a loro piaceva stare in silenzio

al mattino di buon ora a guardare l’immensità del mare…), si parte verso la misteriosa Dartmoor…

un luogo denso di storia e mistero, selvaggio, incantevole e romantico. Veri e propri simboli del parco sono i pony selvatici, la cui presenza in questa zona risale all’età del bronzo. Situato nella contea del Devon, nella parte sud-occidentale dell’Inghilterra, è il parco nazionale più meridionale della Gran Bretagna e ospita 953 chilometri quadrati di splendide brughiere, una vegetazione rada composta da paludi, piccole valli e radi boschi di quercia che si mescola a sporgenze di roccia granitica alte anche 600 metri, antiche rovine, ri-

gogliose vallate con distese immense di erica e ginestra che nella stagione estiva si colorano di viola e giallo, e straordinaria fauna. Dartmoor è forse la zona più selvaggia dell’Inghilterra, Conan Doyle ambientò proprio in queste brughiere le vicende di Sherlock Holmes e il mastino dei Baskerville. In effetti le condizioni atmosferiche proprie del luogo come nebbia, pioggia e, durante le buie notti invernali, spesso la neve, danno al paesaggio qualcosa di soprannaturale e creano un’atmosfera davvero misteriosa.

4. Giorno

Partenza da Tintagel di buon mattino verso Dartmoor, dove si arriverà dopo circa un’ora di macchina e dove ci si fermerà 1 notte (consiglio il B&B The Forest Inn. In realtà, non so se ancora sia aperto, forse ora funziona solo come ristorante: cercatelo, comunque, e se c’è prenotatelo ;) !!) Vi consiglio di camminare nell’antica foresta che ispirò Tolkien per i suoi ‘Ent’… lasciatevi andare, seguite istintivamente la Via, raggiungete l’acqua che scorre fra le felci, toccate gli alberi millenari ed osservatene le forme…. PARCO NAZIONALE DI DARTMOOR Il parco nazionale di Dartmoor è


Si puo’ passeggiare un po’ a piedi o a cavallo nelle brughiere e scoprire cerchi di pietre, menhir, croci in pietra che segnano le antiche vie medievali, file di pietre lunghe anche 3,38 chilometri come quella di Stall Moor, e antichi villaggi. Oppure, percorrere in bicicletta tranquilli sentieri nel bosco o difficili itinerari fuori strada; solcare il fiume Dart in canoa…il tutto rilassandosi in mez-

zo ad uno dei panorami più sensazionali dell’intera Gran Bretagna. Dartmoor è famosa per i suoi miti e le sue leggende. Si dice che sia luogo di ritrovo dei folletti, di un cavaliere senza testa e di un enorme creatura nera conosciuta come la “Bestia di Dartmoor”, forse la leggenda più famosa della brughiera inglese, seconda la quale, la brughiera di Dartmoor sarebbe infestata da una grossa

creatura nera e pelosa. Tale leggenda nasce da quella del ‘cane nero’, una creatura molto presente nel folklore inglese, ma non sono pochi a testimoniare di aver visto davvero una creatura nera delle dimensione di un pony correre nella brughiera e cibarsi delle pecore che vi pascolano. A detta di molti si tratterebbe di un grande felino britannico.


5. giorno ….. E il momento è arrivato. Si sale in macchina e si parte verso Londra, dove ci aspetta il volo di rientro per l’Italia. Uno sguardo dal finestrino dell’auto, un saluto ai vecchi Ent, alle antiche

pietre …. sappiamo con certezza che i nostri occhi hanno assorbito tutta la meravigliosa bellezza della Natura e che il nostro cuore ha assimilato tutte le intense emozioni che questi luoghi ci hanno trasmesso, emo-

“Some of my kin look just like trees now, and need something great to rouse them; and they speak only in whispers. But some of my trees are limb-lithe, and many can talk to me.” Treebeard - J.R.R. Tolkien -

zioni che nutriranno corpo e spirito quando saremo a casa. Questo è il bello del viaggio: non limitarsi ad un’osservazione puramente turistica, anche se profondamente culturale, ma “nutrirsi” e “dissetarsi” dello Spirito del Luogo, della sua essenza che diventa poi parte di noi e che ci accompagnerà sempre, anche nei ricordi donandoci una sempre rinnovata voglia di andare oltre e di continuare il nostro infinito viaggio ancora e di nuovo, verso nuovi spazi, affascinanti, misteriosi, bellissimi. Alla prossima: l’avventura continua…… Luisa


alberi e piante


Il biancospino Crataegus spec. Camminando nei prati e nei boschi radi, in questo periodo intorno a Beltane, si sente un profumo dolce e aromatico: quasi come miele con una nota di resina. Non ci vuole tanto per scoprirne l’origine... una nuvola bianca con un sottile presentimento di verde ci attira - ma attenzione: sembra delicata vista da lontano ma, guardando meglio, notiamo

le spine bianche che la difendono in maniera decisa! La Botanica divide in più di 100 specie, sottospecie e varietà, questo piccolo albero o cespuglio, ciò avviene perché le specie del Biancospino si incrociano facilmente e la variazione naturale ha animato l’uomo a selezionarne tante varietà per scopo

ornamentale o per i frutti. I Biancospini sono in genere molto robusti e adattabili, sopportano venti forti e siccità, ma anche terreni umidi. Sono arbusti o piccoli alberi quasi sempre spinosi che crescono comunemente nelle siepi, nei boschi e nelle macchie di tutta l’Italia e nel Europa fino al sud della Scandinavia. Anche in montagna arrivano a 1800 m di altitudine. Sopravvivono nei pascoli grazie alla loro difesa spinosa, gli animali riescono mangiarne solo le punte fresche e in questi casi spesso si trovano cespugli che somigliano a bonsai. Gli alberi possono raggiungere un’età notevole: fino a 500 anni. Le radici sono profonde e riescono penetrare anche terreni difficili e rocciosi. Il Biancospino appartiene alla grande famiglia delle Rosàcee con fiori caratteristici a calice con quattro o cinque petali. Solo nelle varietà selezionate dall’uomo i fiori possono essere pieni di numerosi petali. In Italia due specie si trovano comunemente: Crataegus laevigata (= C. oxyacantha), il Biancospino selvatico e Crataegus monogyna, il Biancospino comune. Il nomi scientifici derivano dal greco: krataigos = forza, robustezza; oxys = punta; akantha = spina I nomi popolari sono numerosi e sottolineano la grande importanza di questa specie per l’uomo: Spino bianco, Spina pulici, Calarighe, Albero delle Streghe, Albespine, Spinasanta, Bagaja,


Calanice, Seresöi e tanti altri. Anche per i Celti l’albero era di grande importanza, i nomi sono tanti nei vari rami del gaelico: Draenenwen (spino bianco), Sceach Gheal e Huath (terribile) etc. I fiori sono bianchi spesso con un velo di rosa, in coltivazione esistono anche varietà ornamentali con fiori rosa e rosso anche e con più petali. Le infiorescenze appaiono insieme alle prime foglie da fine aprile fino a fine maggio a seconda della latitudine e della altitudine. Sono raggruppati in corimbi. Le foglie, scabre e lobate, sono lunghe 3-7 cm e sul bordo dentate. I frutti maturano a settembre e ottobre, sono di colore rosso scuro e contengono da uno (C. monogyna), fino a tre semi, sono commestibili e molto ricercati anche dagli uccelli. Il Biancospino viene usato tradizionalmente per le siepi lungo i confini e per separare appezzamenti di pascoli. Tra il 1750 e il 1850 in Britannia sono state piantate circa 320 000

km di siepi, quasi sempre di Biancospino (legge del “Enclosure act”). Il legno di questo albero è molto denso con fibre fini, duro e solido, la falegnameria lo usa per l’impiallaccio dei mobili, per bottoni e manici. Dai frutti e dai fiori si possono fare gelatine, vino e liquori e l’archeologia ha trovato tracce dei suoi frutti già negli insediamenti lacustri di 3000 anni a.c. Nel Nordeuropa e nella zona delle alpi con questi frutti del biancospino si produceva una bevanda fermentata, alcolica...chi sa se qualcuno la fa ancora? I poteri fitoterapeutici di questa pianta sono molti, fino ad oggi viene usata per rafforzare il muscolo cardiaco e per migliorare ed equilibrare la circolazione del sangue. Il medico irlandese Green intorno al 1850 usò per prima volta il Biancospino per questa terapia in modo professionale: aveva trovato questa conoscenza nei libri dei monaci, i quali seguivano a loro volta le vecchie tradizioni dei Druidi.

Questo albero antico e bellissimo è comunque indicato, dal punto di vista erboristico, contro l’indurimento delle arterie e contro il mal di gola. Fiori e foglie hanno un effetto sedativo e in fitoterapia sono la base di alcuni preparati per l’ insonnia, le vertigini, gli accessi di angoscia e il nervosismo. Il risultato delle ultime ricerche è che gli effetti del biancospino sul metabolismo e il cuore sono notevoli e immediate (entro un minuto): questo ne spiega l’usanza nei casi di svenimento e per alzare la pressione del sangue. Se il Biancospino viene usato per un lungo periodo, puo rallentare il battito cardiaco. La pianta viene usato in tonici, infusi, vino e tintura madre. Le sostanze curative piu importanti nel Biancospino sono le Trimethylamine (fiori), i flavonoidi (iperoside, rutina) e le procianidine oligomere. In generale comunque il Biancospino può essere assunto con tranquillità, solo le persone con problemi cardiaci devono stare attente e consultare un medico prima dell’uso Le storie, le leggende ed i miti intorno al Biancospino sono tante e molte si sono sviluppate intorno alla Dea bianca che in Galles si chiama Olwen, a Roma la Cardea e nella cultura degli antichi grechi Hera (moglie di Zeus). Spesso la pianta simbolizzava l’equilibrio tra femminile e maschile, la congiunzione, la purificazione e la protezione. Grandi cambiamenti nel mondo dei celti e dei Druidi rappresentò la leggenda secondo cui Giuseppe di Arimathea, nell’anno 63 d.c. avrebbe portato il calice dell’ultima cena


di Gesù a Glastonbury; qui avrebbe piantato il suo bastone in terra e quello si sarebbe radicato ed avrebbe cominciato a crescere. Secondo la leggenda nacque così un piccolo albero di Biancospino! Questo fioriva due volte all’anno, in primavera e intorno al solstizio invernale e per secoli venne onorato e decorato con dei fiocchi di stoffa. Ancora oggi si trovano i suoi figli vicino ai ruderi dell’Abbey e in altri posti della città. Questa storia è importante perché il bastone di Biancospino connette i miti cristiani con la spiritualità dei celti e con il loro posto centrale nelle isole Britanniche. Ancora oggi Glastonbury viene chiamata la “Gerusalemme inglese”. Il Biancospino originale è stato distrutto dai Puritani sotto Cromwell insieme alla abbazia. Ma già prima i monaci ne avevano coltivato tanti figli e attraverso di essi quello è sopravvissuto fino a oggi. In Irlanda il Biancospino viene

onorato ancora oggi come un Albero sacro e come casa delle fate, nuove strade devono girare intorno a certi Biancospini (chiamate ‘lone bush’.,cespuglio singolo) che spesso sono decorati e onorati con doni ai loro ‘piedi’. Una leggenda della mitologia nordica narra che questo albero sia cresciuto da un artiglio e una piuma del padre di Odino, chiamato ‘Bolthorn’. Nell’Europa centrale i Druidi praticavano una cerimonia celtica che somiglia molto all’attuale rito del Giubileo durante il quale il Papa apre la porta santa per l’ indulgenza dei cristiani peccatori: i Druidi formavano infatti una porta con due Biancospini e le persone che passavano fra di essi venivano purificate spiritualmente. Anche in Anatolia, vicino a templi antichi c’erano ‘porte’ creato da piante di Biancospino. Nell’ Ogham, il Biancospino è as-

sociato con la lettera H, uath , che significa originariamente paura. In seguito il significato fu ampliato ad amore, cuore, purificazione, protezione e preparazione per la crescita spirituale. Aiuta ad aprire il cuore a diversi livelli: può essere utile per togliere quindi le paure e cosi usare l’energia personale per delle azioni fruttuose. In tante culture il Biancospino viene o veniva rispettato come pianta di grande potere, pieno di magia antica. Quando troviamo un esemplare vecchio in campagna o nel bosco possiamo provare anche noi, ad entrare in contatto con sua energia. Specialmente adesso, a Beltane (BelTine = “The fire of Bel”, Belenius, dio celtico del sole) in cui questo albero sviluppa tutta la sua bellezza ed il suo carattere.

Bbiliografia Brandolin Chiarababba, S. (Editrice) (1984): Dizionario di Botanica. Milano (I) Coitir, N. Mac (2003): Irish Trees, Myth, Legends & Folklore. Cork (IR) Gottwald F.-T. & Rätsch, Ch. (2000): Rituale des Heilens. Aarau (CH) Hageneder, F. (2006): Die Weisheit der Bäume. Stuttgart (D)

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Markus Juniper


La tradizione del Maggio e il Dio vegetazionale Tra rituali di fertilita’ e divinita’ pagane Un Elemento che permea l’intero substrato della cultura e delle tradizioni popolari d’Europa è la presenza dello spirito arboreo, espressione successiva di divinità pagane presente ancora oggi in quella cultura “subalterna” contadina e mai dimenticata. Tra le sue numerose manifestazioni, il Maggio si presenta ancora oggi tra le pieghe di un rito molto antico, espressione popolare di una qualcosa che, nell’evoluzione della religione, dall’Animismo al Cristianesimo, ancora resiste alle spire del tempo e alla successione delle religioni. Varie sono le ipotesi sull’origine etimologica del nome “Maggio”, per alcuni studiosi esso scaturisce da una antica dea della fecondità, Maja. In questo periodo, infatti si tenevano delle feste, chiamate Majume, durante le quali si compivano riti orgiastici e, proprio a causa del loro carattere di deboscia, proibite dall’Imperatore Costantino. Questi rituali, però, compiuti nel bacino del Mediterraneo da tempo immemore e connessi alla fertilità, non erano facili da sradicare e così con una operazione sincretica il Cristianesimo sostituì alle feste di Majume la “giornata delle rose”. Per altri invece il termine deriverebbe dal mese stesso in cui questa festa si celebrerebbe e che coinciderebbe con quella di Beltane, termine centro europeo che a sua volta proverrebbe da “bel”, cioè “brillante”, espressio-

ne forse legata ai numerosi falò che si accendevano in questa data, o da un antico dio gallese della pastorizia conosciuto come Belinos, o “grande albero sacro”, denominazione che già ci suggerisce quello stretto rapporto tra la divinità, l’elemento arboreo e il Maggio che esamineremo in seguito. Il Frazer nel suo libro Il ramo d’oro descrive tantissime tradizioni europee nelle quali usanza più diffusa era quella di portare al villaggio un enorme albero per poi adornarlo con i frutti della terra, animali e piante, come ringraziamento alla divinità ma anche come gesto basato sul concetto di magia simpatica per il quale “il simile produce il simile”. L’esporre frutti e vivande altro non era così che un modo per propiziare fertilità e abbondanza. Queste tradizioni erano già presenti nei floralia che si tenevano nell’antica Roma durante le Calende di Maggio, quando, dopo canti e balli, si propiziava la fertilità con rituali a sfondo orgiastico, usanze che ancora ritroviamo nell’Inghilterra del 1500 e che tanto facevano scandalizzare i puritani. Altra tradizione, sempre in tema di “accoppiamento” era poi la presenza di un Re e una Regina del Maggio, idea sicuramente successiva a quella arborea ma che ben ricorda i rituali di accoppiamento che si tenevano in quei periodi. Con l’avvento del Cristianesimo, questi rituali, dopo un iniziale condanna per il loro richiamo pagano, a causa

del loro forte radicamento nella tradizione popolare, furono trasformati e legati ai Santi della nuova religione come al San Jack in Green inglese o al San Giorgio, definito “il verde” degli slavi. Nascono così leggende su santi come San Waast o il Beato Giacomo che, piantando il loro bastone nel terreno lo avevano trasformato in un grande albero, un modo per rendere cristiani luoghi e culti pagani. La Divinità Vegetazionale Archetipo della Tradizione arborea L’uomo dei primordi è fondamentalmente cacciatore e raccoglitore dunque la sua vita è strettamente correlata a quei cicli naturali per i quali da sempre ha mostrato interesse, conoscere i loro segreti non significa dominare la natura ma esserne parte integrante, entrare in perfetta sintonia con la Grande Madre e crescere prosperando con lei. All’inizio è il bosco con i suoi frutti a dare sostentamento al primitivo che, proprio per questo, vede in esso e negli stessi animali che vi abitano una sorta di divinità androgina e immanente che lo governa. Successivamente nel Neolitico le popolazioni mediterranee, dedite alla caccia, entrano in contatto con popoli asiatico-orientali già agricoltori. Avviene così una grande trasformazione culturale, l’uomo comincia a produrre frutti e ortaggi e intuisce che la terra non è sempre fertile, ma lo diventa solo quando è resa tale da quello che poi sarà defi-


nito il principio maschile. In tutte le culture il culto del Compagno della Dea è caratterizzato da due elementi comuni, il ciclo di morte e resurrezione, basti pensare al dio pastore mesopotamico Dumuzi e lo stretto legame tra il dio e l’elemento arboreo, tracce di quel ricordo che lega l’elemento maschile alla vegetazione, ma andiamo con ordine. In quasi tutte le mitologie è la divinità maschile a subire un ciclo di morte e di resurrezione che da sempre è stato associato al sole. In realtà per spiegare questi cicli di morte semestrale, l’idea solare è una forzatura scarsamente applicabile perché, anche se effettivamente esso subisce un indebolimento durante il periodo invernale non subisce una vera e propria morte, idea smentita ogni giorno dal suo risorgere. Tra i fenomeni naturali, invece, non vi è uno come quello della morte e della resurrezione che più si avvicina alla sparizione e alla ricomparsa della vegetazione. Se dunque ipotizziamo che la “comparsa” del Dio sia legata all’agricoltura, si potrebbe così pensare che alla base del ciclo di morte e resurrezione sia in realtà il ciclo naturale dei campi, con la loro semina, crescita e morte. Anche la fine sempre violenta del Dio potrebbe così essere messa in relazione con la “distruzione” da parte dell’uomo dei prodotti dei campi, falciati, battuti e poi ridotti in polvere. Il dio è così un dio vegetazionale, come poi sottolineato dal suo stretto legame con l’albero. L’elemento arboreo infatti è sempre presente nel mito del Dio, Tammuz, ad esempio, il giovane eroe amato da Persefone,

nasce da una corteccia d’albero nella quale era stata trasformata sua madre Mirra, Attis, viene trasformato da Cibele in un pino, il dio siriano Baal è raffigurato come dendroforo, “il portatore dell’albero” e l’elenco potrebbe continuare per molte pagine. Questa idea è anche presente nell’antico Egitto ove, sulla cassa entro la quale vengono racchiusi i resti di Osiride, cresce un albero di Melograno, poi, rappresentato dallo zed, antichissimo disegno per tradizione associato al suo culto, ma, in realtà, molto più antico, dato che si trova raffigurato anche in tombe del periodo predinastico, mentre il nome del dio non lo troviamo prima della V° dinastia. L’albero cresciuto sulla cassa costruita da Tifone è dunque un simbolo di resurrezione, spesso rappresentato nei sarcofagi, proprio con il compito di riportare in “vita” il defunto. Interessante è leggere in questa ottica un’altra tradizione “arborea” , quella che il Frazer ci descrive nel suo Ramo d’Oro “…Sulle sponde settentrionali del lago [ di Nemi, N.d.A.] si erigeva il bosco sacro e il santuario di Diana Nemorensis, la Diana del Bosco…In questo bosco sacro cresceva un albero attorno a cui è probabile vedere, anche a notte inoltrata, una truce figura. Nella destra teneva una spada sguainata e si guardava continuamente d’attorno… Quest’uomo era un sacerdote e quando un nuovo individuo voleva occupare il suo posto per prendere il sacerdozio doveva uccidere il suo predecessore… non prima però di aver strappato un ramo dal succitato albero…”. Lo studioso poi aggiunge che “…La strana

regola non ha alcun riscontro in tutta l’antichità classica e non si può spiegare per mezzo di essa…”. In realtà se guardiamo la tradizione del sacerdote o re del bosco nell’ottica del culto degli alberi potremmo facilmente affermare che è sicuramente questo l’archetipo del sacerdote di Nemi, la cui vita, sempre spezzata da morte violenta, era legata ad un albero. L’Evoluzione Della Tradizione Del Maggio Come abbiamo visto vi è così una personificazione del dio nell’albero, idea che ancora oggi troviamo nell’usanza in molti paesi di sposare le donne agli alberi ai quali si conferisce, proprio come fossero divinità, il potere di renderle feconde. Tradizioni ove ancora oggi si conserva il ricordo del dio-albero le troviamo in diversi paesi europei come la Russia, la Slovenia e l’Inghilterra e che si ripropone proprio nel folklore popolare della tradizione del Maggio. Cerchiamo ora di dare una interpretazione agli stessi e di capire il legame tra l’albero, lo spirito silvano e le sue evoluzioni nelle credenze e religioni popolari. All’inizio la divinità è vista e concepita come immanente, essa permea tutto ciò che circonda l’antico, in una visione fortemente animista la vegetazione, l’animale, il cielo, sono espressione della divinità. Successivamente, con il passaggio dall’animismo al politeismo, una nuova idea si fa largo nella mente del primitivo, l’albero non viene più visto come divinità ma come sua dimora, lo spirito arboreo invece di essere considerato l’anima di ogni albero, diventa la divinità della foresta.


In quest’ottica l’usanza del Maggio di tagliare e trasportare al villaggio l’albero è un modo per portare nella propria dimora una parte dello spirito che ivi risiede e di farlo diffondere tra la gente assicurando fertilità e prosperità. In seguito allo spirito arboreo viene associato un aspetto antropico, anche a causa della semplicità da parte del selvaggio di associare ad una divinità sembianze umane. Iniziano così a nascere figure di divinità silvane quali Priapo e Pan, spesso rappresentati con un volto umano e con attributi agresti, come il bastone usato per spaventare gli uccelli, la falce per potare gli alberi e sulla testa foglie d’alloro e spesso con un enorme fallo, o come nel caso di Pan, addirittura dotato di uno doppio, simbolo proprio della sua natura vivificatrice e fecondatrice. Da questa successiva rappresentazione antropomorfa nascono una serie di tradizioni ancora oggi espletate durante le feste del Maggio, così lo spirito silvano viene personificato anche da bambole e pupazzi che vengono posti vicino alla vegetazione o arsi negli stessi falò non con la successiva idea cristiana di purificazione dal male, ma per quella insita nel concetto di divinità della natura che deve morire per poter rinascere. L’evoluzione della antropizzazione dello spirito arboreo però prosegue e da fantoccio di paglia, simulacro del dio, acquista vere e proprie sembianze umane. Ecco così che dal rogo del fantoccio o del simulacro si passa all’uomo e in particolare allo straniero che si trovava di passaggio nella zona e che, rappresentando la divi-

nità, doveva morire per poter assicurare la rinascita dei campi. Proprio a sottolineare la similitudine tra la divinità e l’uomo troviamo ancora nel mito e nelle tradizioni popolari alcune tracce come nella narrazione che parla del re Litierse, imponente mietitore. Quando qualche straniero passava per le sue terre egli lo sfamava e dissetava per poi costringerlo a farlo mietere con lui e se questi, come accadeva sempre, avesse finito per ultimo, lo legava nell’ultimo covone e gli tagliava la testa con la falce. Da qui nascono le tradizioni che parlano di “padre” o di “re e regina” del Maggio o delle gare che si compivano durante le feste, tipo l’arrampicata sull’albero della cuccagna, per designare il sovrano dei Maggi, o ancora l’usanza di fanciulle vestite a festa, proprio a rappresentare la “cima”, che giravan tra le case a propiziare il nuovo avvento della prosperità: ”… Rosellina di Maggio gira tre volte: Miriamola da tutti i lati, osa di Maggio vieni dal bosco verde: ci rallegreremo tutti. Così andiamo dal Maggio alle rose…”. In realtà, però, la figura dello spirito silvano è ancora molto astratta come si può notare dalle genericità dei nomi come il “re del Maggio” e così, con l’avvento della religione Cristiana, l’evoluzione della divinità arborea è soggetta ad un’ultima evoluzione che porterà ad una ben precisa individuazione della stessa. La difficoltà da parte degli esponenti della Chiesa di allontanare le popolazioni contadine da questi rituali pa-

gani costrinse gli stessi ad “inglobare” queste tradizioni e ad integrarle nelle nuova religione, ecco così che da nomi e cariche astratte lo spirito silvano diventa il Santo cristiano, il San Giorgio Verde degli slavi, il San Giuliano di Acettura o il San pellegrino di Perugia, nomi differenti per celare quello che ancora oggi queste tradizioni nascondono: il culto degli alberi e dello spirito arboreo.

Andrea Romanazzi


la via di gaia


Tra fiori e ronzii Beltane, è il tempo di festeggiare con gioia i colori vividi e i profumi esaltanti della stagione. La Terra accoglie desiderosa la luce ed il calore del Sole, è tempo di fertilità, è il tempo della vita che germoglia. L’albicocco, il susino e il ciliegio sono in fiore così come l’acacia, il timo e il tarassaco. Le api si nutrono, il primo miele è già pronto e la regina si prepara a deporre. Ma le cose stanno cambiando! Certamente è noto a tutti che le api producono miele, cera e propoli, meno noto è il lavoro che, attraverso l’impollinazione incrociata, svolgono contribuendo alla formazione dei semi e dei frutti delle piante. Moltissimi studi dimostrano il ruolo fondamentale di questo insetto nell’impollinazione delle piante coltivate dall’uomo e insieme agli altri insetti pronubi come i bombi, le vespe e le farfalle sono anche fondamentali per la salvaguardia ambientale della flora

spontanea, ostacolando la scomparsa di specie botaniche e migliorando la biodiversità. Si può ulteriormente affermare che le api siano dei validissimi indicatori biologici della qualità dell’ambiente, di conseguenza la loro scomparsa o il forte spopolamento indicano la situazione di degrado di un ecosistema. Purtroppo la situazione attuale rivela un forte declino a livello globale di questi preziosi alleati. Le ragioni maggiormente colpite sono quelle del Nord America e dell’Europa. Nonostante la mancanza di solidi programmi internazionali di monitoraggio degli insetti impollinatori si è potuto stimare approssimativamente l’andamento delle perdite attualmente note in Europa: parliamo di un aumento di mortalità delle colonie pari al 20 per cento. Non è possibile attribuire ad un unico fattore tale fenomeno di moria (o della loro scarsa salute in generale), piut-

tosto possiamo ricondurre tale effetto a molteplici fattori come, tra i più importanti, le malattie e i parassiti, i cambiamenti climatici e le pratiche agricole di stampo industriale. Lo stato nutrizionale e l’esposizione a sostanze chimiche tossiche influiscono sulla capacità di resistere a malattie e parassiti poiché provocano indebolimento e stress rendendole, di conseguenza, più suscettibili alle infezioni. Anche i cambiamenti climatici come l’innalzamento delle temperature, l’irregolarità delle precipitazioni o gli eventi meteorologici sempre più estremi sono fonte di smarrimento ed aumento dello stress. Ma è l’agricoltura industriale la principale minaccia a livello globale per gli insetti impollinatori. La distruzione degli habitat naturali, l’espansione delle monocolture e la mancanza di diversità limitano la capacità delle api di nidificare mentre l’utilizzo di erbicidi e pesticidi rappresentano il rischio più diretto. Nello specifico si sono osservati gli effetti dell’utilizzo degli insetticidi sulle api, tra questi citiamo le interferenze sulle capacità di approvvigionamento del cibo, disturbi del comportamento alimentare, perdita dell’orientamento e riduzione delle capacità olfattive. Studi scientifici hanno rilevato sette tra gli insetticidi maggiormente nocivi per le api e gli altri insetti pronubi. In Europa alcune di queste sostanze chimiche vengono utilizzate ad alte concentrazioni mentre altre vengono irrorate a


basse dosi ma cronicamente. Associazioni ambientaliste e della tutela dell’agricoltura chiedono costantemente all’Unione Europea e ai governi nazionali di vietare l’uso di pesticidi nocivi per le api, di sostenere e promuovere pratiche agricole che apportino benefici al processo di impollinazione, di migliorare la conservazione di habitat naturali all’interno e intorno le aree agricole, l’incremento della biodiversità nei campi e l’aumento di finanziamenti per la ricerca, lo sviluppo e l’applicazione di pratiche agricole ecologiche. Cosa puoi fare anche tu? Oltre a sostenere le associazioni ambientaliste che si occupano di questa campagna attraverso la firma delle petizioni, la diffusione e l’informazione, puoi aiutare api, bombi e farfalle anche a casa tua. Invece di

piantare nel tuo giardino o sul balcone il solito geranio puoi scegliere di imbellire la tua abitazione con le varietà di piante maggiormente apprezzate da questi operosi insetti. Di seguito una lista dalla quale prendere spunto: calendula, lupinella, trifoglio incarnato, erba medica, coriandolo, cumino, borragine, rosmarino, timo, girasole, malva e lavanda. Puoi acquistare semi biologici e con l’occasione di una passeggiata …seminarli nel parco . Per gli amanti del fai-da-te è possibile costruire un “rifugio per api” da posizionare in un luogo sicuro (le istruzioni sono facilmente reperibili in internet). GemmaGioia

“La felicità C’è un’ape che si posa Su un bottone di rosa: lo succhia e se ne và…. Tutto sommato, la felicità È una piccola cosa.” Trilussa


la musica degli Ainur Un libro e un disco da portare con voi nel Bosco Sacro del vostro Essere.


Con questo titolo, chiaro riferimento al tolkeniano Silmarillon, inauguro la rubrica culturale de Il Calderone. Vi recensirò un libro e un disco, sperando di fare cosa gradita facendovi scoprire o riscoprire i talenti bardici che vivono e hanno vissuto la nostra splendida Madre Terra. Essendo questo il primo appuntamento della rubrica ci tenevo a recensire un libro a me molto caro, che appartiene di diritto alla Top Ten personale. Ma come tutti i bardi che si rispettino, per creare un po’ di suspence, inizierò dal disco. Un album non recentissimo in realtà, risale al 2007, ma che è stata per me una scoperta recente. La talentuosa Mariee Sioux con il suo disco di debutto Faces in the Rocks. Nata negli Stati Uniti da un padre musicista di origini polacche, ha sangue nativo nelle vene. E sono proprio le origini native della cantante che incorniciano un album dalle atmosfere particolari, rendendolo un gioiellino folk. Un folk dalle atmosfere soffuse che richiamano una psichedelia sognante grazie all’uso misto della strumentazione. Nei brani si susseguono strumenti classici della tradizione cantautorale occidentale e strumenti della tradizione indigena americana (native american flute, buffalo drums, rainstick), suonati dalla bravissima Gentle Thunder. Atmosfere dolci e soffuse ma anche ipnotiche e incantatrici grazie all’uso della ripetitività delle parole, del flauto incalzante, della voce a volte resa un sussurro. Un incantesimo che accende la parte

ancestrale di ognuno di noi. Mariee ci racconta dei suoi antenati, della concezione naturale di tutte le cose tipica dei nativi, parla alla nostra anima. Racconta cose che già conosciamo, concetti che ci appartengono con suoni che sentiamo vibrare dentro perché sono linguaggio universale. Parlando di questo album non posso fare a meno di accennare alla copertina dove una Madre Terra nelle sue diverse manifestazioni, viene cullata nel Grembo sotto un grande Albero della Vita. In superficie alcune anime eteree vagano sulla Terra. Un viaggio sciamanico che vale la pena fare. Un album che può fare da sottofondo magico durante la lettura del libro scelto per voi: L’Arpa d’Erba di Truman Capote. (The Grass Harp, 1951).Un grande classico della letteratura statunitense. Protagonista è il piccolo Collin Ferwick che, rimasto orfano viene affidato alle cure delle due cugine sessantenni, Verena e Dolly Talbo. Le due sorelle zitelle, estremamente diverse nei caratteri, diventano per Collin due figure distinte che lo accompagneranno nel viaggio iniziatico all’età adulta. Dolly, che rimane sempre chiusa nella sua cucina, si prende cura di Collin insieme a Catherine, la governante. Si occupano della produzione di un rimedio naturale contro l’idropisia. Quando Verena viene a conoscenza del piccolo gruzzolo accumulato dalla sorella grazie alle vendite del rimedio, vuole impossessarsi dei soldi e della ricetta; Dolly, Collin e Catherine scappano di casa e trovano rifugio

in una casetta costruita sulle cime di un grande sicomoro che sovrasta lo sconfinato paesaggio campestre. Qui ha inizio la loro vita sull’albero, un’avventura dove si intrecciano le storie degli abitanti del paese, un piccolo villaggio nel sud degli Stati Uniti. A personaggi terreni si intrecciano le storie di personaggi mitici, stravaganti nelle loro vicissitudini, e di ognuno di loro apprendiamo il racconto della propria vita attraverso ricordi, dicerie di paese, pettegolezzi, grandi amori e tragiche passioni, racconti di vite che si perdono nel tempo. Un’atmosfera surreale e nostalgica, il ricordo di vite che ci hanno preceduto, che troviamo in un’altro grande libro, l’Antologia di Spoon River. L’Arpa d’Erba è uno di quei capolavori che non si leggono spesso, romanzo preferito dello stesso Truman che ci regala una prosa spesso autobiografica, magistralmente scritta (anche nella versione italiana). E’ lui che si fa portavoce del susseguirsi delle generazioni di un piccolo villaggio attraverso il substrato culturale di un territorio così caratteristico, raccontandoci uno spaccato di vita reale che è al contempo sogno, quell’incertezza onirica che solo i ricordi ci sanno regalare. “Senti?” Chiese Dolly la bambino nel bosco. “E’ l’Arpa d’Erba. Conosce la storia di tutta la gente della collina, e quando saremo morti racconterà anche la nostra.” Buona lettura.

Cristina Pedrocco


triadi

che cosa e‘ il druidismo


Il druidismo e:

- Ombre ancestrali che si delineano grandi nel crepuscolo della luce del giorno e accarezzano la luna, imbiancata dal sole: guardiani di questo posto sacro - Esseri pietrosi fermi in piedi, orgoliosi ed alti - I vecchi sono tornati a casa, sono Druido? - si, lo sono. Adrian Rooke


Il druidismo e: La via delle mie radici ancestrali e spirituali La strada dell’l’Amore Universale, i miei Dei e Dee La Via della Sapienza e della Luce ritrovata Annick Jacq ( Menhir) Per me il Druidismo è: una profonda connessione con il mondo naturale Il reame spirituale E molta gente meravigliosa!

Peter Van Den Berg

( Dryade magazine, The Netherlands)


eistedfodd


Un canto d’amore Come il canto del sole all’alba Tu cresci e respiri con me… in un luogo segreto e divino Tu canti donandomi la mia Luna.. Tu balli la luce su campi di parole inespresse Ho scoperto la vita riflessa nella forza della tua carezza per l’eternità il tuo grido di battaglia dentro le mie ossa per l’eternità… perdermi nei tuoi occhi.. per l’eternità amarti davanti al fuoco e cantare con il lupo e il cervo del nostro amore. Per l’eternità musica che riecheggia libera nelle caverne delle nostre memorie… Musica che parla del mio desiderio per Te… E per l’eternità far sorridere i tuoi occhi accarezzando la tua anima con dita di vento Amarti nelle notti d’estate inebriati dal gelsomino in fiore e sfiorare la tua anima con pioggia di foglie d’autunno Avvolgerti nel calore della neve in inverno E per l’eternità volare nei cieli della nuova primavera… Per l’eternità il tuo nome nella mia anima….

Stefano Alessi Aeothin /|\


La danza dei fuochi C’è un fuoco che brilla nell’aria notturna Ricordi di un tempo,risate lontane L’ardore serpeggia tra membra e risate L’estate che arriva l’estate che nutre. L’immagine è viva di un quadro incantato La terra si offre,la vita è affamata. La dolce fragranza stravolge i colori Nell’attimo in cui si innalzano i canti Ogni parola ogni sorriso ogni movenza Accompagna questa danza d’amore Il palo della vita,l’albero del villaggio Ornati di festa coi colori del tutto Passi frenetici abbracciano l’atto La vita si accende nessuno la ferma I fuochi son mille le danze sfrenate Il rito dell’amore è di nuovo selvaggio Ovunque si sente il frivolo corteggiarsi Che mai più si spegne finché il fuoco resiste C’è voglia di vita la morte è alle spalle L’inverno è battuto di nuovo si parte Questo è il momento di nuovo ardore Il sentiero si snoda nella notte Non resta che seguirlo Il fuoco ci guida,i canti ci riscaldano La danza educa il nostro incerto andare Ma più non si resta la vita è davanti La sacca è pronta le stringhe allacciate La madre mi chiama Camminero’ sul suo ventre... Emiliano savoia Il palo di Maggio si erge giocondo, si può ammirare da ogni angol del mondo; mille nastri colorati attorcigliati intorno


Il palo di Maggio di fratellanza e amore esso è adorno. Schiere festanti ballano e cantano, amanti nascosti di dolci effusioni s’ammantano; ecco, il miracolo si ripete e ognuno pensa “ Sai che buffo ci vedesse il prete”. Poi scende la notte e i fuochi si accendono, i druidi coi bastoni dai monti discendono; alzano il corno colmo d’idromele al cielo la benedizione solenne oltrepassa ogni velo. I giovincelli con le ragazze fan balli gioiosi, per qualcuno potrebbero sembrare peccaminosi; a loro non importa solo l’amore stanotte conta. Poco lontano si forman le file per saltare i fuochi, i ragazzi si cimentan in numerosi giochi; le ragazze ammirano e tenendo dell’amato il braccio saldo compiono del fuoco il salto. Giunge lesto il mattino e ognun torna sul proprio cammino; chi ai campi, chi al pascolo, chi allo studio promettendosi di rincontrarsi presto sotto lo sguardo della Dea e del Dio. Andrea Maltana


Return the Echoes


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LE VOCI DEI QUATTRO un breve viaggio fra antichi strumenti musicali

IL FUOCO Finalmente la ruota dell’anno ha girato ancora per condurci alla stagione della rinascita, dell’energia e della passione: Beltane è la festa dei falò nella notte, del miele, del piacere e, rivolti a sud, possiamo celebrare il ritorno della gioia e della forza vitale che il fuoco rappresenta. Con le sue lingue di fiamma, in costante movimento, illumina, scalda e purifica: allontana le tenebre e ci regala bagliori di sicurezza sin da quando

solevamo nasconderci nelle caverne, all’alba dei nostri tempi. Il fuoco è simbolo di potenza, di possibilità fisica di forgiare e fondere, ma soprattutto, essendo antitesi delle tenebre, è l’elemento più adatto a rappresentare la dualità, la dicotomia che da sempre accompagna l’animale uomo. E’ la dirompente immagine della passione ed è strettamente legato ai metalli. Proprio a causa della forza e della vi-

talità che il fuoco comunica, potrebbe forse stupire il legame rappresentativo che lo connette ad uno degli strumenti musicali antichi più meditativi e contemplativi ancora oggi conosciuti, riscoperti ed ampiamente utilizzato delle moderne tecniche di trattamenti olistici per la cura del corpo e dell’anima. Parliamo delle...

Campane Tibetane Si tratta di antichissimi strumenti musicali, realizzati completamente in metallo, le cui origini affondano nella cultura sciamanica pre-buddista diffusasi dapprima in Tibet, poi in tutta l’Asia. Le campane tibetane, contrariamente a quelle appese capovolte, è priva di qualsiasi pendolo o batacchio interno e si usano in modo statico, poggiandole in terra. Il meraviglioso

ed ipnotico suono si ricava colpendo o sfregandone il bordo esternamente con un percussore (bastone cilindrico in legno, rivestiti solitamente di pelle di camoscio, la cui misura varia seconda delle dimensioni della campana) maneggiato dal musicista: tale manovra produce una lunga vibrazione poli armonica, cioè un suono fondamentale e la serie di armonici che corrispondono a questa frequen-

za. Qualsiasi sia la frequenza fondamentale, la ciotola contiene tutti gli armonici che corrispondono a quella frequenza, che non necessariamente corrisponde ad una nota musicale della scala utilizzata in occidente. In genere, il colpo a percussione è ciò che produce il suono di base, mentre lo sfregamento determina l’emissione dei sovrattoni... un po’ come quando ci divertiamo a far risuonare


Campane Tibetane un bicchiere di cristallo passando sul bordo un dito umido! La caratteristica del suono delle campane tibetane le ha rese lo strumento ideale da utilizzare durante i riti religiosi e le meditazioni poiché numerosi studi hanno dimostrato l’effetto psicotropo che un sono vibrante è in grado di trasmettere alla mente umana. Ovviamente la qualità del suono e il numero di armonici presenti dipende in larghissima parte dalla lavorazione della ciotola che, se liscia, di fattura omogenea e priva di imperfezioni, potrà donare suoni lunghi, pieni ed uniformi. Ad aumentare il prestigio di una campana concorrono anche la lavorazione estetica decorativa e la grandezza: già fra le antichissime ciotole datate al 2000 A.C. abbiamo rilevato esemplari che vanno da un diametro di pochi centimetri (che producono suoni più acuti) ad un massimo di circa quaranta centimetri, con peso che equivale ad alcuni chili.

Attualmente l’area di produzione delle campane era vastissima in Asia, anche se oggi il Nepal è il paese che vanta una più larga realizzazione, anche a scopi puramente decorativi, senza badare all’effettiva qualità del suono emesso dall’oggetto: anticamente, le campane erano uno strumento eletto, che doveva presentare caratteristiche ineccepibili poiché era in grado di sintonizzare magicamente l’uomo alla forma dell’universo e al numero 7 che lo rappresentava. In effetti, secondo la tradizione le migliori e più preziose campane tibetane venivano realizzate, attraverso i quattro passaggi di fusione, battitura, forgiatura e lucidatura, con una lega composta dai sette metalli planetari: oro per il Sole, piombo per Saturno, rame per Venere, stagno per Giove, mercurio per Mercurio, ferro per Marte ed argento per la Luna! Addirittura la lega poteva anche variare per includere fino a dodici metalli. Il numero 7 esprimeva (ed esprime

ancora) l’equilibrio perfetto e la totalità del sistema di un ciclo compiuto, della mediazione tra umano e divino ed i sette metalli rappresentano appieno la manifestazione dell’energia della Natura... una perfetta campana tibetana costruita con sette metalli produce un suono formato da sette armonici che a loro volta si trasformano riportando il proprio ordine all’energia dell’universo. La percettività dell’essere umano è così sensibile a tale cascata di cicli e ricicli che, non a caso, le campane tibetane stanno vivendo un nuovo momento di celebrità e vengono utilizzate soprattutto a scopo meditativo e curativo... e anche questo ci riporta, in un infinito ciclo, al momento e alle ragioni della loro nascita! La Voce del Fuoco ha parlato.... ...al prossimo canto! Alessia Mosca Proietti


L’Obod in Italia GroveS e Seed GroupS Il cerchio di arth (Torino)

Silver Wolf Circle (Piacenza)

Il cerchio di anu (Trento/Lodi)

La Radura di Bright (Trento)

Bosco dell’Awen (Biella)

La Tor (Friuli) Doron Beth (Padova)

Il COnciliabolo Celtico Toscano (Toscana)

L’’Iperico (Abruzzo Molise/Puglia)

Il Biancoscpino e La Quercia (Roma)

Per maggiori informazioni sui Grove e seed group: www.druidry.org/community Il corso, che e’ pubblicato per l’’Ordine da Oak Tree Press nella versione italiana e pubblicato e distribuito da Il Bosco dell’Awen. Per info e iscrizioni: info@boscodellawen.org.


Faccia da Druido hanno collaborato a questo numero...


Colophon Il Calderone Rivista italiana di druidismo dell’OBOD (The Order of Bards, Ovates and Druids)

Stefano Alessi, Aeotin Markus Juniper Davide Armentano

Numero 03 Beltane 2015

Redazione Daniela, Fata Betulla Paolo Veneziani, Bran Alessio Cotena, Bradhan Ilaria Page Briga delle Colline Monica Zunica Cristina Pedrocco Gemma Gioia

Hanno collaborato a questo numero: Stefano Alessi, Aeotin Isabella Amosso Davide Armentano (Grafica e impaginazione) Daniela, Fata Betulla Alessio Cotena, Bradhan

Gemma Gioia Luisa Lovari Markus Juniper Ilaria Pege, Briga delle Colline Franco Pozzer (marchio della rivista) Emiliano Savoia, Duir Tanet Mirella Porcelli Paolo Veneziani, Bran Laura Villa (foto) Monica Zunica

Chiunque fosse interessato a partecipare o a ricevere gratuitamene in formato elettronico la rivista, può prendere accordi con la redazione inviando una mail a: ilcalderoneredazione@gmail.com Per qualunque richiesta rivolgetevi allo stesso indirizzo! La partecipazione e la diffusione della rivista è aperta a tutti. A questo link la rivista gratuita sfogliabile: https://issuu.com/ilcalderone

Questa rivista, ed in particolare la rubrica “salute e benessere”, non intende fornire diagnosi e prescrizioni per casi specifici, né può sostituire la consultazione medica o veterinaria. I rimedi inseriti nel testo devono essere considerati solo come indicativi. L’autore e l’editore declinano ogni responsabilità per un uso indiscriminato di questi rimedi quando non avvallato da prescrizione medica o veterinaria. Questa rivista non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene prodotta e distribuita senza alcuna periodicità stabilita e sotto l’egida dell’OBOD inglese. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n° 62 del 7.03.2001. -Il Calderone- All rights reserved - Tutti i diritti riservati.


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