Freaks#4soundxissuu

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#4 2014/ FREEMAGAZINE /

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WALK THE LINE QUANDO L’AMORE BRUCIA L’ANIMA regia James Mangold • 2005

TI VESTI DI NERO PERCHÉ NON HAI TROVATO NIENT'ALTRO DA METTERE, HAI SCOPERTO IL TUO SOUND PERCHÉ NON SUONI BENE E HAI CERCATO DI BACIARMI PERCHÉ NON VOLEVI... DOVRESTI PRENDERTI QUALCHE RESPONSABILITÀ UNA VOLTA OGNI TANTO JOHN

J.CASH


B u t a a l K

! o t k i N s di Freak aradale

ia L’editor

Ben ritrovati amici del Cinema; per dare il la

al numero dedicato a tutto ciò che lega suono e cinema abbiamo voluto un Maestro di cerimonia d’eccezione, che non ha bisogno di presentazioni: Ennio Morricone. Chi meglio di lui potrebbe dirigere l’orchestra di Freaks in occasione del numero “Sound”? Dunque silenzio in sala e lasciamo la parola al suono della bacchetta del Maestro; il preludio di Steve Della Casa è l’ennesimo capolavoro di memoria storica cinematografica e ci predispone alla succulenta sinfonia di (altri) Fenomeni che andiamo ad ascoltare: il primo movimento è un Requiem che ci parla di quattro attori, grandi appassionati di musica che ci leggeranno dall’aldilà… L’aria che segue è una toccata con fuga diegetica, ma il Maestro vuole stupirci e dirige tutta una serie di film radiofonici come intermezzo che ci predispone al prosieguo dell’opera. Da buon sperimentatore qual è, ci propone un’interpretazione di onde a bassa frequenza, soggiogando definitivamente le nostre menti, per poi continuare con l’innovazione confrontandosi con l’altrettanto Maestro Derek Jarman e l’avanguardia dei Coil. L’intermezzo è una sfida altrettanto impegnativa, come interpreterà la melodia minimale ravvicinata del terzo tipo? Non ancora soddisfatto, ci propone un medley in salsa Velvet Goldmine per stupirci definitivamente. Sebbene provati da tanta creatività ci lasciamo trascinare nel gran finale; andante con moto in compagnia di Buster Keaton e il suo muto “assordante” e per finire un omaggio devoto ad un altro mostro sacro come lui, il Maestro dell’ordine sonoro Bernard Herrmann ritrovato su un’isola misteriosa… A proposito, cosa avrà risposto l’immenso Morricone alle domande postegli dalla genuflessa redazione? Voltate pagina e lo saprete. Buona visione. Stefano Delmastro / Roberto Melle

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concept /

SOUND


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/Copertina: NoCurves - tape artist www.nocurves.ws www.instagram.com/nocurves Riproduzione fotografica: Karim El Maktafi (http://www.behance.net/karimelmaktafi) e CROSS+STUDIO Milano

Alla regia di FREAKS #4 /Editore: HI-MEDIA di Giancarlo Musto via Cernaia 25 - Torino /Direttore responsabile: Antonio Verteramo /Regia: Roberto Melle, Stefano Delmastro /Aiuto regia: Pierpaolo Bottino /Collaboratori: Francesca Argentero, Filippo D’Arino, Matteo Emme, Mario Fassio, Mauro Melis, Macs Padrini, Giorgio Pilon, Dario Quatrini, Giorgio Rubbio, Selvaggia Scocciata, Giacomo Sturniolo, Francesca Trinca. /Ringraziamenti: Steve Della Casa, Vintage Movie Collection.

/Con la collaborazione di

/Pubblicità: HI-MEDIA: emotional communication via Cernaia 25 - Torino - tel. +39 011 6694724 P.I. 10194980016 commerciale@freaksmagazine.com /Seguici e contattaci su: www.facebook.com/FreaksZine oppure cercaci e scaricaci su: www.issuu.com/freaks_mag scrivici a: redazione@freaksmagazine.com /Stampa: GRAFART viale delle Industrie 30 • 10078 Venaria Reale (TO) • tel: 011 4551433 • www.grafart.it

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Autorizz. del Tribunale di Torino n° 14 del 21/05/13 Tutti i diritti riservati. Vietata la riproduzione.


4_Il Maestro: intervista a Ennio Morricone G. Musto _FREAKS Interview

22_Grazie G. Sturniolo 25_Inside

8_I pirati di Torino S. Della Casa

FREAKS Concept

11_The angelic conversation G. Pilon

26_Piume d’oro e labbra di avorio F. Trinca

12_A good scream: Blow Out e l’arte del rumorista S. Darchino - AMNC

29_A me le orecchie! A. Verteramo 32_Radiosequenze M. Fassio

14_Requiem for a dream P. Bottino 16_Pentatonic extraterrestrial conversation F. D’Arino

34_Noi siamo le colonne R. Melle 38_La musica diegetica senza Céline S. Scocciata

18_Oscar FREAKS Concept

20_Vintage Movie Collection

40_Lyrics

FREAKS Concept

FREAKS Concept

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IL MAESTRO: INTERVISTA A ENNIO MORRICONE Intervista a cura di Giancarlo Musto

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Con più di 70 milioni di dischi venduti, il Maestro Ennio Morricone non è solo uno dei compositori musicali più noti nel mondo, ma è universalmente riconosciuto come uno dei più importanti autori di colonne sonore cinematografiche: più di 500, di cui trenta solo per film western, compresi i capolavori di Sergio Leone, regista con il quale diede vita a una lunga collaborazione. Ultraottantenne, il Maestro Morricone è ancora sulla cresta dell’onda: oltre alle colonne sonore scritte, la sua attività vanta oltre 100 composizioni di musica assoluta, centinaia di direzioni d’orchestra, 8 Nastri d’Argento e molti altri riconoscimenti; uno su tutti arrivato il 25 febbraio del 2007, quando, dopo cinque nomination non premiate, gli è stato conferito il Premio Oscar alla carriera “per i suoi magnifici e multiformi contributi nell’arte della musica per film”. L’elenco delle opere e delle Sue speciali iniziative è lunghissimo e il Maestro, che ha l’energia di un giovane musicista e va in giro per il mondo tra concerti e programmi artistici, guarda sempre al futuro. Maestro Morricone, Lei ha segnato la storia del cinema firmando le colonne sonore di tantissimi film, tra le tante ce n’è una che ha amato di più? E perché? «Sono affezionato a tutte le mie musiche, mi creda, e lo sono moltissimo, perché per tutte ho lavorato

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duro e ho provato grande sofferenza creativa. Ma se proprio dovessi scegliere penserei con affetto alle belle musiche di un paio di film che non hanno molto avuto successo, come ad esempio “Un uomo a metà” di Vittorio De Seta e “Un tranquillo posto di campagna” di Elio Petri. Certamente, il mio motivo più riconoscibile è il canto del coyote ne “Il buono, il brutto e il cattivo”. Cosa che peraltro mi fa un po’ sorridere dato che è il tema più sintetico che abbia mai scritto». A tal proposito, chi era Sergio Leone? «Sergio era un grande regista, ma soprattutto un grande amico». C’è un regista con il quale non ha ancora lavorato che Le piacerebbe scoprire? «No, non c’è. Ho lavorato con tanti, quasi tutti e sinceramente non desidero lavorare con altri. A quasi novant’anni, non provo più molto interesse verso le nuove avventure. La musica costa molta fatica e, quando non costa fatica, vuol dire che è robetta. Nel prossimo futuro voglio dedicarmi esclusivamente a dei progetti artistici, a cui passare il testimone, e, di tanto in tanto, fare qualche concerto». Dal “Federale” di Luciano Salce nel 1961 a “Bàaria” di Giuseppe Tornatore nel 2008: quasi cinquant’anni trascorsi a scrivere musiche per film. Cos’è cambiato? «È molto difficile da dire. Certamente la costante è la volontà di far bene e sempre meglio. Perché queste composizioni sono sempre il frutto di un tormento operoso di chi fa questo lavoro: una carriera di passione totale».


Ci sono musicisti, come ad esempio i Metallica, che usano il suo brano “L’estasi dell’oro” per introdurre i propri concerti. E lo stesso fanno i Ramones, ma anche altri gruppi con brani diversi: cosa pensa delle contaminazioni musicali e della nuova musica? «Mi piace questo fenomeno, ci mancherebbe. Bruce Springsteen trasmette prima dei suoi concerti un mio disco originale. E anche gli altri che lei ha citato, pur preferendo una loro esecuzione, portano la mia musica ai loro concerti. Non mi dispiace affatto, ovviamente, sempre che ci sia qualità, ma mi accorgo da questo sintomo che sono attenti alla mia musica. Le contaminazioni sono belle e interessanti: certo, vanno fatte bene».

Rai di essere eseguiti in Rai: cioè la mia musica non sarebbe mai stata ascoltata su radio Rai. E immediatamente lasciai. Lui mi disse: “Lei sta lasciando un lavoro che vale tutta una vita”, ma io non mi fermai. E da allora non mi sono mai fermato». Dall’alto della sua maturità artistica e, ora, guarda più verso il basso o sempre verso l’alto? «No, sempre in alto. Non penso quasi mai al passato; ma sempre al futuro e, a lavorare meglio, cercare delle nuove idee, ma soprattutto a non ripetermi in cose già fatte».

Maestro Morricone, oltre che di musica «applicata» Lei è un compositore di musica «assoluta». Come vede la situazione in Italia per la professione di musicista? «La vedo male, purtroppo. La musica è un patrimonio che ha bisogno dell’aiuto del pubblico. Lo Stato, invece, toglie i soldi alla musica, soprattutto alle piccole istituzioni sul territorio che, senza aiuti, muoiono e, con loro, la musica. Ci sono buone scuole, buoni professionisti che, però, una volta terminati gli studi, si trovano abbandonati a se stessi. A malincuore devo dirle che l’Italia non è il paese della musica». Una curiosità: perché si licenziò dalla Rai il primo giorno dopo l’assunzione come assistente musicale? «Semplicissimo: all’epoca, quando fui presentato al direttore, mi informò di una circolare amministrativa che impediva ai compositori

Il Maestro Morricone prima di un concerto.

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E il futuro prossimo di cosa parla? «Innanzitutto di tre speciali concerti in America: il primo a Città del Messico, il secondo a Los Angeles e il terzo a New York. E poi tanto riposo per la mia schiena dolorante!».



La Torino degli ultimi trent’anni ha avu-

to due terreni di grande vivacità culturale: la musica e il cinema. Del cinema questa rivista si è già occupata in modo approfondito da sempre. Adesso si parla di sound. Per i ragazzi che tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta cercavano di vivere una città che stava faticosamente e tra mille contraddizioni uscendo dalla monocultura FIAT i due terreni non erano più così lontani. Il primo Festival Internazionale Cinema Giovani (poi Torino Film Festival) nel 1982 ospita una retrospettiva di Amos Poe (regista che frequenta molto la New Wave newyorchese) e termina alla grande con la proiezione di Time Is On Our Side, film concerto sui Rolling Stones che pochi mesi prima avevano tenuto uno storico concerto all’Olimpico. E il massimo livello di creatività teorica è raggiunto, tra il 1982 e il 1985, dalla fanzine Blood che vede riuniti molti nomi che saranno importanti per il futuro spettacolare della città. Inoltre, due film indipendenti molto famosi all’epoca (e molto dimenticati adesso) raccontano la Torino dei locali, della prima timida movida: sono Pirata! di Paolo Ricagno (ci sono i Gaz Nevada, Jo Squillo e altri cantanti della nuova scena rock) e I ragazzi di Torino sognano Tokyo e vanno a Berlino di Vincenzo Badolisani (dove si vede la mitica discoteca Studiodue – ricavata peraltro dalle spoglie del cinema Piemonte e dove i protagonisti vogliono mettere in scena uno spettacolo video rock denominato Granita Elettronica). Infine, il locale più rappresentativo della nuova Torino porta un nome che tradisce con ogni evidenza la passione cinematografica dei suoi fondatori: Hiroshima Mon Amour, infatti, è un capolavoro di Alain Resnais pluripremiato nel mondo, ma questo i tanti ragazzi che lo affollano per i concerti forse lo ignorano. Insomma, possiamo sostenere senza tema di smentita che cinema e musica procedono di pari passo nella nuova Torino. Due dei registi più rappresentativi della nuova generazione, Guido Chiesa e Davide Ferrario, hanno alle spalle anche una grande attività come critici e organizzatori musicali.

Paolo Manera, un vero e proprio genius loci per quanto riguarda tutta l’attività del documentario, ha a sua volta scritto libri di musica ma soprattutto appare in un film di Mimmo Calopresti, Preferisco il rumore del mare, mentre sta suonando con il suo gruppo di culto, che non a caso si chiamava Bandamanera. Il già citato Paolo Ricagno è poi diventato docente al Conservatorio. E i Subsonica hanno molte nuances cinematografiche visto che Boosta ha condotto su La7 un programma di culto come La 25aora, mentre Max Casacci ha fatto le musiche (ed è anche attore) per un film diretto dal padre Ferruccio Casacci: e Casasonica, il loro laboratorio, è ricavato proprio dagli studi dove il padre esercitava la sua attività nella settima arte.

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Testi: Steve Della Casa



Who hast by waning grown, and therein showest Thy lovers withering, as thy sweet self growest. If Nature, sovereign mistress over wrack,

all’improvviso il terzo corpo, concreto, non onirico, compreso nel suo nobile ruolo: il monarca tatuato, adagiato sul trono, lavato e baciato dagli amanti, glorificato

As thou goest onwards still will pluck thee back, She keeps thee to this purpose, that her skill May time disgrace and wretched minutes kill. Yet fear her, O thou minion of her pleasure! She may detain, but not still keep, her treasure: Her audit (though delayed) answered must be, And her quietus is to render thee.” Shakespeare’s Sonnet CXXVI

In questo silenzio estraneo agli altrui sguardi, costretti in una solitudine imperfetta, il ricordo è l’unica luce che illumina l’amore; il desiderio vince la reciproca assenza esaltando la volontà degli amanti e non si piega di fronte all’ingannevole e fragile alibi del destino, dibattendosi senza sosta. Ad occhi chiusi, come in un sogno che reitera se stesso all’infinito, arde perenne la fiamma della passione e manifesta la sua presenza dapprima sotto forma di luce abbagliante, poi debole e fioca delinea i contorni del desiderio; l’istinto non riesce a sottomettere la ragione, le immagini incalzano travolgenti e lascive, le ombre sono la forma del desiderio. I corpi si abbandonano alla penombra e l’anima si strugge, senza sosta, sino all’incontro che permane nella condizione astratta e sospesa del sogno. Acqua e fuoco, corto circuito simbolico degli elementi, rito alchemico e purificatore;

consapevolezza e la conoscenza. In questo frangente l’abbandono è totale; l’amore sensuale vive il suo trionfo più sublime, il desiderio si trasforma in passione indomabile e impetuosa. Il presente brucia nello stesso attimo in cui prende forma e le labbra consumano la carne, divorandone il respiro; il tempo si cristallizza, l’estasi trasfigura l’incarnato degli amanti prima del malinconico congedo finale. Il ricordo, null’altro che il ricordo; il profumo dei fiori celebra il tormento, il cespuglio trattenuto tra le mani rievoca un’infinita passione nella quale annegare, inesorabile come una lentissima dissolvenza. I Coil furono: Peter Christopherson (27 febbraio 1955 – 24 novembre 2010) John Balance (16 febbraio 1962 – 13 novembre 2004) Nota: The Angelic Conversation è un film del 1985 del regista inglese Derek Jarman. Mentre la voce narrante di Judi Dench recita i sonetti di Shakespeare, due amanti si cercano, si amano e si allontanano in un’ambientazione onirica dove le immagini sono la rappresentazione simbolica della loro passione amorosa.

nella sua languida purezza. I tamburi apocalittici, incalzano marziali e gli amanti ingaggiano una simbolica lotta; plastici e sensuali, avvolti dal buio in una grotta, un percorso allegorico verso la

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Un’opera intensa, delicatissima e sperimentale resa memorabile dalla colonna sonora dei Coil che accompagna lo spettatore per tutta la durata del film. Tra gli attori principali occorre ricordare Paul Reynolds e Philip Williamson, la produzione è di James Mackay.

Testi: Giorgio Pilon / Layout: Dario Quatrini

“O thou, my lovely boy, who in thy power Dost hold Time’s fickle glass, his sickle, hour;


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“A GOOD SCREAM”: BLOW OUT E L’ARTE DEL RUMORISTA. di Stefano Darchino - Associazione Museo Nazionale del Cinema

In principio era Psycho.

E l’urlo si fece carne, quella di Janet Leigh, dilaniata ripetutamente nella celeberrima sequenza della doccia. Trent’anni dopo, Jack (John Travolta) è alla ricerca di quel grido perfetto: Blow Out (1981) è, come molti altri film di Brian De Palma, Hitchcock miscelato all’ossessione per l’assassinio di J.F. Kennedy. Cercando di ricostruire il delitto al quale ha assistito, Jack finisce per decostruire il film stesso, frazionarlo in fotogrammi, separarne la traccia sonora da quella video, metterne a nudo i meccanismi nel suo continuo muovere avanti e indietro il nastro del magnetofono. Lo stesso lavoro metafilmico lo aveva compiuto Gene Hackman ne La conversazione (The Conversation, 1976), altro film politico e paranoico, emblema di quella New Hollywood in cui De Palma si era

formato. Ma mentre nell’ambizioso lavoro di Francis Ford Coppola si narra di un investigatore privato esperto in intercettazioni, qui il protagonista Jack è un rumorista (in inglese “foley artist”). Questa figura bizzarra nel panorama dei ruoli cinematografici è incaricata di trovare tutti i rumori ed effetti speciali sonori mancanti in un film. Si dice che di solito porti i pantaloni corti per impedire che il tessuto, strusciando durante il lavoro, rovini le registrazioni e che giri con un’inseparabile valigetta piena dei più svariati oggetti. Come un bambino estremamente creativo, gioca a riprodurre rumori con stratagemmi inaspettati: è capace di sbriciolare un cono gelato per rendere lo schiudersi di un uovo (com’era successo dietro le quinte di Jurassic Park) o di torturare sapientemente frutta e verdura per

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sequenze gore e splatter (come si vede nel recente Berberian Sound Studio, una pellicola ancora inedita in Italia e debitrice delle opere sopra citate). Tutto questo lavoro in studio permette di ottenere un evidente risparmio di soldi e di… vite umane. Ma il rumorista deve suo malgrado uscire dalla tana e tuffarsi nella realtà (da lui non più controllabile e manipolabile) per catturare rumori d’ambiente. Jack sta proprio registrando la natura avvolta nella notte quando ascolta ciò che non avrebbe mai dovuto ascoltare. Qui, come nel finale, il nostro protagonista si rende conto che

il suono migliore è quello casuale, quello in cui la realtà s’imprime così potentemente da superare i confini con la finzione.


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Il suo cuore si era fermato dopo un pieno di Speedball in vena raccontavano i rotocalchi dell’epoca, per me rientrava solo nel girone dei dannati! Era stato lui a chiamarmi in quel bungalow del Chateau Marmont all’alba del 5 marzo, in preda agli eccessi di quell’ultima settimana. La sua Animal House. Il rumore a tempo dei tergicristalli sporchi di neve risvegliavano i miei ricordi persi nel tempo. Era ancora dietro l’angolo quel tavolino di vetro al Viper, gocciolante di tequila, marijuana, cocaina, eroina e GHB, che ospitava gli abusi di River Phoenix. Le sue notti tormentate si alternavano a giornate sul set e in sala di registrazione con gli Aleka’s Attic. Io ero attaccato al suo culo come un’ombra, lo osservavo da vicino quando, con

i suoi amici Belli e Dannati si iniettava un’ultima e fatale dose di finissima Brown. “I lost my real reason, I was scared, its taste was sweet, There were too many colors”. La sigaretta accesa e gli pneumatici bruciavano i chilometri attraverso la bufera e la corsa sull’Interstate 80 era inarrestabile. Dall’esterno l’accelerazione e la musica rimbombavano come un tuono, il maltempo non fermava la corsa, sembrava Christine la macchina infernale, neanche le avverse condizioni atmosferiche avevano la meglio. Qualche pieno e caffè nero le uniche soste nella notte gelida e via fino alle porte della Grande Mela, dove alle prime luci dell’alba si fermò nell’unico diner aperto, Il Daisy, un’istituzione sin dagli anni ’30 in città. Un giovane ragazzo sulla trentina, aprì la porta e la serranda, scaldò e versò il primo caffè della giornata ed attaccò una vecchia radio, dove passavano “Black eyed dog” di Nick Drake: “Un cane dagli occhi neri bussa alla mia porta, un cane dagli occhi neri mi chiede di più, un cane dagli occhi neri che conosceva il mio nome... sto invecchiando e voglio tornare a casa, sto invecchiando e non ne voglio più sapere.” Ah! Era a vecchia ossessione del signor Ledger quella per il cantautore folk (tanto da omaggiarlo con un videoclip), che

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sconfinò in bianco e nero con un mix di ossicodone, idrocodone, diazepam,temazepam, alprazolam e doxylamine, ripeté come una cantilena al ragazzo ancora assonnato, uscendo dal locale. Una formula micidiale. Eccoci al dunque, Mr. Black (questo era il suo nome) arrivò alle 5 di mattina di fronte al Pickwick House in Bethune Street. Il vento gelido e la neve si placarono in un secondo mentre scese dall’auto, le spalle asciutte sotto il cappotto si distesero mentre il collo si rizzò per far scivolare il capo all’indietro e permettere allo sguardo di individuare la finestra dell’appartamento di Phil. Entrò nella hall e salì silenziosamente le scale di servizio, aprì la porta ed un flash lo colpì negli occhi. “La musica, cioè la vera musica non solo il rock’n’roll, ti sceglie, è lì che vive nella tua macchina o quando sei solo con la cuffia, vedi ponti immensi e panoramici, hai in testa cori angelici, è un luogo diverso dal benevolo grembo dell’America (…) “ Il corpo giaceva riverso sul fianco, con una siringa nel braccio, la morte accese lo stereo e suonò l’ultimo requiem “Search and Destroy”, dal vinile di sua maestà Iggy Pop! Grande Philip Seymour Hoffman.

Testi: Pierpaolo Bottino / Layout: Francesca Argentero

Los Angeles era casa sua. Uscì molto presto quel sabato mattina e si diresse deciso, chiavi in mano, verso la Dodge Monaco nera; si accomodò sugli interni in pelle rossa e mise in moto il propulsore 440 RB Chrysler. Accese l’autoradio ed alzò bene il volume per ascoltare le note di “Everybody Needs Somebody To Love” dei Blues Brothers. Con voce roca esclamò: “è un giusto inizio, la miglior colonna sonora per questo lungo viaggio verso New York”, con lo stesso tono con cui John Belushi cantava a Dio il suo bisogno di amore.


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Nel film del 1977 “Incontri ravvicinati del terzo tipo” (Closer Encounters of the Third Kind, diretto e sceneggiato da Steven Spielberg) gli alieni inviano ai terrestri un messaggio costituito da una sequenza di cinque note**. La sequenza è stata scritta dal compositore e direttore d’orchestra John Williams su diretta indicazione di Spielberg. Williams voleva utilizzare una melodia con le classiche sette note, ma Spielberg pretese categoricamente una sequenza di sole 5 note; per rappresentare l’equivalente musicale della parola inglese di cinque lettere che identifica il saluto più semplice e diretto (Hello!). (**) Si tratta in realtà di sole quattro note, due delle quali separate da un’ottava; una scala pentatonale sui generis, dunque…

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NB: Anche nel film Mars Attack di Tim Burton (1996), viene ripreso il tema del suono come possibilità di confronto fra l’uomo e gli alieni. Ma questa volta in chiave cinica e distruttiva. Gli alieni idrocefali, ottusi e cattivi di Mars Attacks risultano infatti annientabili solo dalla musica del cantante country Slim Whitman.

Testi: Filippo D’Arino / Layout: Mauro Melis

“…benché si tratti di una forma di contatto piuttosto primitiva, tutta l’Alleanza a questo punto è concorde. Il codice è pronto per la trasmissione, esatto. No, nulla a che vedere con la nostra modulazione empatica. Sarebbe impossibile. Del resto questi esseri, pur dotati di intelligenza superiore, non dispongono dei gangli neuronali adatti all’empatia in forma evoluta. Possono percepire, evidentemente; ma non possono modulare. Il loro è un limite sostanzialmente morfologico, quindi imprescindibile. Proprio per questo motivo è stato deciso di formulare il messaggio di contatto seguendo una modulazione che possa rientrare nei loro parametri percettivi. Si tratta di cinque suoni differenti. Un codice arcaico di natura terrestre basato interamente su una scala tonale. Molto elementare, concordo. Ad ogni modo, gli elementi selezionati sono i seguenti: Sol(4) La(4) Fa(4) Fa(3) Do(4). Il risultato ci sembra adatto alle circostanze. Diretto, breve, semplice. Non è escluso possano verificarsi fraintendimenti di qualche natura, ma faremo in modo che il messaggio di contatto non venga percepito come una possibile minaccia. Abbiamo già previsto in tal senso massima cautela nel controllo dell’intensità sonora in fase di emissione…”


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“È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura… Gli sparuti, incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato, e l’uomo miserabile.”

La to Kro A Zb nos Q ig u Bo niew artet bS inc Preisn – The Da m la B An ien J r – F er – D eatit a u ton ura i ello do r l’am es Ira des – ore e– 5 Ven – E La (fea 4:54 :25 dit very to B t t t i Do – F hing . Ra ff ore n ver Tryin aella Th ald J oh g– eC C –4 a ho 3:2 arrà) Mo :13 ir nos 6 n –6 El ica C of th – Sin :25 Ga eT fon etti t e Le o i m – a D Ti in pl le M J arc – Mu rube e Chu do m rò hit agg e r ch v – e elli i – R la col 2:58 ( – The ore Bru ita II – am L a –3 on a– :54 no La mb – 9:35 (Ge 3:0 3:3 uzi 1 3 org ) es Biz et)

(Jep Gambardella)

Testi: Mario Fassio

Ma come suona la Grande Bellezza? Quella di Roma, del film, di Paolo Sorrentino, di Servillo, dell’Oscar al miglior film straniero? Suona come un vecchio 33 giri graffiato, un tempo molto amato, che fruscia dolce e instabile sul piatto dello stereo a casa dei genitori. Suona come la playlist di una festa di capodanno di qualche anno fa. Una festa clandestina, iniziata alla grande e finita nello spleen, tra silenzi e carezze venute male. Suona come la nostra vita quando corriamo veloci nel tunnel della malinconia: un buio elettrico che da i brividi e acuisce i sensi. O forse, semplicemente, suona come deve suonare: sprazzi di musica celestiale che emergono dalle viscere di un ballabile rumore di fondo.

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Pagina pubblicitaria a cura della redazione. Il soggetto è di pura fantasia.

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PAROLE Campi di grano. Due ufficiali americani e uno tedesco si avvicinano al centro della scena. Si vede anche uno spaventapasseri vestito di tutto punto. I due “americani” sono Franco e Ciccio con la divisa militare. Vogliono liberare il tedesco e gli consigliano di indossare gli abiti dello spaventapasseri al posto della divisa per non dare nell’occhio. Giacca, pantaloni, gilè, paglietta e cravattino: gli abiti di scena di Buster Keaton.

SENZA PAROLE --Grazie! Fu la prima e l’unica parola che pronunciai in un film. Non avrei mai voluto farlo, ma il tempo, le circostanze e lo stato di necessità possono fare molto. Erano passati quasi quarant’anni dalla mia promessa e quei due attori, mi pare che si chiamassero Franco e Ciccio, erano stati così gentili e ossequiosi nei miei confronti. E poi c’era il maledetto whisky, veleno inesorabile, ma il mio migliore compagno a quel tempo. Non bevevo le marche più sofisticate e costose, ma la quantità era notevole e le mie finanze si erano molto ridotte. Fuori dalle ipocrisie, in tutta onestà: Buster Keaton che parla aveva ancora un prezzo, al contrario di Buster Keaton e basta.---Ma forse la sto annoiando, mi taccio.---Ma no, la prego, vada avanti.---Ci provo, magari con un po’ più di ordine. Sembra una vita ma era solo pochi mesi fa...Campi di grano. Due ufficiali americani

e uno tedesco si avvicinano al centro della scena. Si vede anche uno spaventapasseri vestito di tutto punto. I due “americani” sono Franco e Ciccio con la divisa militare. Vogliono liberare il tedesco e gli consigliano di indossare gli abiti dello spaventapasseri al posto della divisa per non dare nell’occhio. Giacca, pantaloni, gilè, paglietta e cravattino: gli abiti di scena di Buster Keaton.

Il regista italiano Luigi Scattini mi aveva ingaggiato, a patto che parlassi, per fare una piccola parte nel film “Due marines e un generale”. Dovevo lavorare con due comici italiani molto in voga, considerati un po’ troppo popolari e di basso profilo. In realtà si trattava di due tipi eccezionali, fra i pochi all’altezza dei grandi comici dei vecchi tempi. Ma come ho scoperto direttamente sulla mia pelle, non sempre si viene capiti. Le parole da pronunciare non erano state concordate e non erano importanti in sé, ad un certo punto qualcosa avrei detto. Le riprese procedevano, qualcosa giravo anch’io, ma non aprivo bocca. Il tutto non doveva durare molto, si trattava di un film a budget ridotto e così arrivò il momento. Poteva sembrare facile, per essere più sciolto avevo trangugiato anche qualche sorso in più, ma davanti alla cinepresa non mi riusciva proprio di parlare. Il regista fu paziente e gentile, Franco e Ciccio credo capissero perfettamente la situazione e si sentivamo in imbarazzo, mentre io non proferivo parola. Per non mettermi sotto pressione, si decise di finire il tutto senza che

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io dovessi pronunciare alcunché. Un qualcosa si sarebbe aggiunto, ci avremmo pensato dopo. Questa comprensione e questo rispetto mi colpirono molto. Verso la fine delle riprese, mentre venivo liberato dai

due simpatici marines, in mezzo ai campi di grano, mi fecero trovare una sorpresa del tutto imprevista. Mi chiesero di cambiare i miei abiti militari di ufficiale tedesco con gli abiti civili indossati da uno spaventapasseri: erano una copia perfetta dei miei abiti di scena dei tempi migliori: la “divisa ufficiale” di Buster Keaton. Mi commossi e quasi senza accorgermene


gesto naturale. Subito pensai: tutto qui? Solo in seguito, ripensandoci, mi venne un po’ di tristezza.--- Ma, mi scusi se mi permetto: ma perché non volle mai “parlare”? In fondo, seppur con riluttanza, lo fece anche Chaplin. E poi, non vorrei essere sfrontata, ma ci sono stati fatti film bellissimi anche col sonoro. ---Lo so, è difficile da spiegare...

Provo. Noi arrivavamo dal Vaudeville, dove la comicità era fatta di gesti e di acrobazie. Nulla in comune col teatro classico, dove le parole erano molto se non tutto. L’idillio fra noi e il cinema, nuova arte che raccontava solo con le immagini, fu cosa di un momento. Il mondo intero, ricchi, poveri, borghesi, operai ci amarono da subito. Facevamo ridere, facevamo piangere, ci capivano e ci avrebbero capiti per sempre. Almeno così pensavamo. Ma un giorno di ottobre, era il 1927, mi recai al cinematografo per curiosare su un avvenimento di cui si stava parlando molto: il primo film sonoro della storia del cinema. Il protagonista era un collega che arrivava anche lui dal Vaudeville. Ovviamente non parlava, di solito. Però cantava, era un “cantante di jazz”. In quel film avrebbe parlato, quello era l’avvenimento. Il film fu una delusione. Regia debole, storia debole, tutto si basava sulle splendide canzoni di Al Jolson, così si chiamava il famoso protagonista, e su poche frasi sconclusionate che furono da lui pronunciate. Pensi che la prima frase della storia del cinema fu: “aspettate un momento, aspettate un momento, non avete ancora sentito niente”. Secondo lei quelle parole lasciavano presagire qualcosa per il futuro?... Come potevo considerarmi preoccupato? Dopo quella esperienza da spettatore, decisi che non avrei mai fatto un film sonoro. In effetti qualche applauso e qualche urlo di stupore ci furono, ma il tutto era così tremendamente ridicolo da non far presagire neppure lontanamente ciò che sarebbe

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successo poi. L’avveniristico sistema sonoro della Vitaphone era indubbiamente senza prospettive. Ne ero sicuro. Come i Lumiere erano sicuri che il cinema fosse un’invenzione senza futuro. Ma in quel maledetto giorno di autunno non avevo minimamente pensato a quella tragica analogia. Da allora l’unico futuro che iniziò velocemente a dissolversi fu quello del cinema muto. Finì il successo, finirono i soldi e iniziarono decadenza, alcol e depressione.---Un vero peccato. Mi dispiace per lei e per tutti noi. Se avesse voluto provarci chissà quanti capolavori ancora avrebbe potuto regalarci. Ma la vedo stanco, sono una pessima infermiera, forse è meglio che la lasci riposare. Le sistemo le coperte e la lascio dormire.---Grazie...--

EPILOGO Buster Keaton morì poco dopo, il primo febbraio 1966, a causa di un incurabile cancro ai polmoni. Ora giace nel cimitero di Forest Lawn Memorial Park di Los Angeles vicino a Marty Feldman, suo discepolo ed ammiratore, che volle essere seppellito accanto a lui. Feldman e Mel Brooks nel 1976 dedicarono al cinema muto il bellissimo “Silent movie”, dove il famoso mimo Marcel Marceau parlò per la prima ed ultima volta in un film, dicendo : -- no!-A proposito, la storia molto diffusa (sostenuta anche dallo stesso Scattini) secondo la quale Buster Keaton parlò solo nel film “Due marines e un generale” è del tutto infondata. Grazie!

Testi: Giacomo Sturniolo / Layout: Francesca Argentero

mi uscì in modo naturale quel ringraziamento. In altri tempi l’avrei considerato una drammatica resa, ma in quel momento, forse il tanto tempo passato o forse il tanto whisky in corpo, mi sembrò un


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fre aks in si de

dj Bonnie:

Ragazzi ascoltatemi.

Messaggio per i super muscoli che vivono in cittĂ .

Per tutti quelli che hanno le orecchie e sono pronti all'azione: mi e` appena stata fatta una richiesta da parte dei Gramercy Riffs. Una speciale richiesta per i Guerrieri; si quei ragazzi dai coglioni molli che vivono a Coney. Si avete capito, i Guerrieri, ho una canzone che gli va giusto a pennello... Nowhere to Run di Arnold McCuller.

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“The thing is to free one’s self: to let it find its dimensions, not be impeded.” Virginia Woolf, A Writer’s Diary Quel mattino, solcando le strade grigie di una città ormai troppo smorta per essere osservata, Arthur strinse la sciarpa intorno al volto e d’un tratto ne sfiorò la pelle, inaspettatamente ruvida e segnata. L’ombra di una nuova giornata si ergeva all’orizzonte, ma non pareva promettere nulla di riguardevole. Quasi non riconobbe la sua persona e, marciando meccanicamente, si sentì mancare al proprio corpo, come se ogni singolo movimento discendesse da un burattinaio maldestro e onnipotente. Il mondo gli scorreva accanto privo di gloria, i passi si succedevano alla volta di nessuna meta e – forse per caso - avrebbe raggiunto il solito luogo, ove le ore sarebbero passate nuovamente nel livore dell’anonimato. Quelle strade recavano la cicatrice del taglio improrogabile con le proprie origini, il dolore del distacco, il senso di solitudine. Gli anni ’70 erano polvere e il decennio seguente si era portato via le pulsioni e l’effervescenza di quell’epoca d’oro. Girando l’angolo, su un muro consunto, lo colpì il manifesto di un concerto. Su di esso un uomo elegante e attempato campeggiava spavaldo, annunciando una data in città. L’età e l’aspetto lo facevano sembrare un po’ ridicolo e, sorridendo tra sé, quasi per incanto riconobbe in quei tratti la giovane stella che tanti anni fa aveva illu-

minato i suoi giorni, donando un senso al suo vivere. Ora appariva provato, quasi eterno, ma ormai vecchio. Gli tornò alla mente la sera in cui, sul palco, fu inscenata la morte del suo alter ego musicale, Brian Slade, e un colpo di pistola ne celebrò la fine. Si doveva lasciare spazio ad altri eroi e per lungo tempo di lui sparì ogni traccia, fino a quando…

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D’improvviso sembrò tutto lontanissimo, la vista si annebbiò, e ad inghiottire la sua mente furono bagliori confusi di un’era remota. Arthur si sentì arrossire e d’incanto sprofondò lento su un cuscino di piume variopinte e pailettes. Le prime corse affannate verso un nuovo universo, i vestiti inconsueti e brillanti, il trucco ardito per smascherare finalmente il proprio essere! E poi la musica, diversa da tutto ciò che era stato sentito fino a quel momento, e l’orgoglio infantile di appartenere ad un’umanità inedita, terra di incontri possibili, frontiera di scoperte ineguagliabili. In ogni suono rintoccava costante l’idea di interpretare un ruolo autentico e unico, quasi il resto del pianeta si muovesse secondo altre coordinate. Si urlava con fragore la propria diversità, si annunciava impetuosi: “Questo sono io!”. E i dischi, le foto sulle copertine, corollario di sogni e visioni arcane, mentre intorno gli interpreti del passato denunciavano avviliti segni di decadenza. Fino a quando? Gli anni passarono, i colori si fecero più tenui e la vita prese un altro corso, ben più tiepido. Si smorzarono le gioie, il nuovo divenne “già visto”, i miti sbiadirono fino a perdere l’aura scintillante della giovinezza. Che ne era stato di loro, di quegli imbattibili compagni? Dove avevano sepolto le loro armi, chi li aveva uccisi?


Testi: Francesca Trinca

Il tempo, la consuetudine, i profitti, gli interessi dell’industria discografica? Si intonavano tristi i canti della dipartita, della fine di un’epoca, e si filmava per l’ultima volta una scena che non avrebbe richiesto repliche. In quel piattume scintillò abbagliante una fulgida stella e dalla radio di un’auto uscì una voce famigliare. Era quella di Curt Wild, amante e sodale di Brian, animo puro, fiamma viva, colonna sonora di un’esistenza. Arthur ripensò alla notte in cui ebbe il dono di incontrarlo e gli istanti condivisi esplosero in una miniera di lustrini che sfiorarono i confini di altre galassie; in quella bolla colorata si era compiuto il suo destino e da essa ogni giorno traeva la sua piccola scorta di ossigeno per resistere ad un universo di plastica. Quando il caso li riunì, Curt era ancora uguale a se stesso, la sua arte era lontanissima dalla finzione, e - sulla rabbia impotente di quelle note - Arthur si sentì intimamente rivivere.

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A ME LE ORECCHIE! 1 MARZO 2013

Quel matto di Antonio Tublén mi ha invitato nella sua casa di Molle, per parlarmi di un film. Dice che ha un’idea grandiosa, un tizio che, attraverso le onde sonore a bassa frequenza (L.F.O. Low Frequency Oscillation n.d.r.), riesce a ipnotizzare le persone, convincendoli a fare quello che vuole lui. Mah, come idea mi sembra un po’ una stronzata, ma un giro dalle sue parti vado a farlo lo stesso. La penisola di Kullaberg è uno spettacolo in questa stagione.

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MARZO 2013

Dal diario di Alexander Brøndsted, produttore del film L.F.O. (2013, Svezia) Testi e traduzioni: Antonio Verteramo

QUINDICI

LUGLIO 2013 L.F.O. è pronto.

Tublén vuole organizzare una preview per i giornalisti, solo che vuole a farla a casa sua, a Molle. È una follia, mi è toccato pagare una settimana di soggiorno a 10 critici cinematografici.

Tublén è un genio!! Sulle prime l’idea non mi convinceva granché, poi a un certo punto è sceso in cantina per fare non so che, e quando è tornato ero convintissimo a fare questo film. Secondo me sarà un successo!

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3 APRILE

“Roba da Oscar!” ha detto uno!

2013

4 milioni e mezzo di Corone per girare il film?!? Ma chi si crede di essere? Martin Scorsese? Mi toccherà tornare di nuovo da lui per discuterne a Molle - non so perché, ma lui non vuole saperne di venire a Stoccolma.

LUGLIO 2013

Recensioni entusiastiche.

All’inizio sembravano un po’ dubbiosi, poi lui - come fa sempre - è sceso in cantina, e subito dopo i critici avevano cambiato idea.

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28 NOVEMBRE 2013

APRILE 2013

In fondo cosa sono 4 milioni e mezzo di Corone, quando si realizza un capolavoro. È bastato guardarci negli occhi per capirci subito.

Sono sicuro che ne guadagneremo il quadruplo!

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Agli Oscar ci andremo veramente! Tublén è riuscito a convincere uno dei giurati a venire a casa sua. E lui ha assicurato che porterà LFO agli Oscar come miglior film straniero, e proporrà Tublén come Miglior Regista!!


LFO, Svezia, 2013 Regia: Antonio Tublén Sceneggiatura: Antonio Tublén

Il film è stato presentato in concorso al 31° Torino International Film Festival, e - senza nemmeno dover utilizzare gli LFO - ha convinto i giurati dell’Underground Film Festival 2013 di Minneapolis, che lo hanno premiato come miglior film della manifestazione.

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LA RADIO E IL CINEMA NASCONO PIÙ O MENO NEGLI STESSI ANNI, NELL’ULTIMO, EUFORICO DECENNIO DELL’OTTOCENTO. LE LORO STORIE HANNO SEMPRE VIAGGIATO PARALLELE, ATTRAVERSANDO

TANTE RIVOLUZIONI – TECNOLOGICHE, SOCIALI, DI COSTUME, DI LINGUAGGIO. SPESSO PERÒ SI SONO INCROCIATE, CON BUFFE COINCIDENZE. COME QUELLA DELLO SHOW RADIOFONICO LA GUERRA DEI MONDI NEL 1938:

LA TRASMISSIONE SCATENA IL PANICO NEGLI STATI UNITI (“ARRIVANO I MARZIANI E CONQUISTERANNO LA TERRA!”) E APRE LE PORTE DI HOLLYWOOD AL SUO GIOVANE, TALENTUOSO AUTORE, ORSON WELLES.

L’aneddoto è citato in uno degli episodi di Radio Days (Woody Allen, 1987) dedicato al periodo d’oro della radio americana, a cavallo tra i Trenta e i Quaranta. La buffa zia del protagonista è in auto con il fidanzato proprio durante la trasmissione: il terrore sale, lui fugge, il fidanzamento sfuma. Come capita anche nella vita vera, nel film la radio tiene compagnia, fa sognare, lancia canzoni irresistibili ed è capace perfino di fare un po’ di giustizia tra gli esseri umani: nella prima scena ci sono due ladri intenti a rapinare un appartamento. Squilla il telefono, uno dei due risponde e si trova in diretta a un gioco radiofonico. Lo speaker gli fa ascoltare tre canzoni, che il ladro indovina. I proprietari tornano a casa e trovano la casa vuota, ma il giorno dopo - sorpresa! - arriva un camion pieno di elettrodomestici: è il premio del quiz.

politico-sociale che negli anni Settanta hanno accompagnato la nascita delle radio libere italiane, al centro de Radiofreccia (Luciano Ligabue, 1998), I cento passi (Marco Tullio Giordana, 2000) e Lavorare con lentezza (Guido Chiesa, 2004). C’è la mitizzazione dello speaker, che potrà diventare DJ, come il mitico Lupo Solitario di American Graffiti (George Lucas, 1973), oppure scomodo entertainer, come il protagonista del febbrile Talk Radio (Oliver Stone, 1988), oppure ancora animatore delle truppe in guerra, come il simpatico Robin Williams di Radio Saigon in Good Morning, Vietnam (Barry Levinson, 1987). Soprattutto, con la radio va in scena un “medium” che è allo stesso tempo intimo e universale, capace di diffondere messaggi definitivi: urla di rabbia, dichiarazioni d’amore, ansimi erotici, gag memorabili, slogan sovversivi.

Al di là dell’aggraziato omaggio alleniano, sono tanti i film in cui la radio ha un ruolo significativo. Apparecchiature, microfoni, cuffie, apparecchi domestici di ogni foggia, dimensione ed era tecnologica: se per definizione la radio non si vede, paradossalmente al cinema è quasi sempre epica e sexy. Ed è raccontata con particolare passione. Ci sono lo slancio libertario, la controcultura e il fervore

Se è vero che “il video ha ucciso la star della radio”, come cantavano The Buggles, il cinema l’ha resuscitata, o almeno, l’ha fatto diventare testimone di un’epoca, figura simbolica. Per dire, l’ultimo film di Robert Altman, uno dei giganti della Nuova Hollywood, era la storia di una piccola stazione radio del Minnesota prossima alla chiusura. Radio America (A Prairie Home

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Testi: Mario Fassio / Layout: Matteo Emme

Companion, 2006) è un affresco crepuscolare, con tanti personaggi, tante canzoni folk e country, annunci pubblicitari un po’ démodé, un vecchio teatro che sarà demolito, buffe improvvisazioni e malinconici presagi di morte. Gli stessi presagi che forse riconosceremo ogni volta che passerà in tv il mitico I love Radio Rock (The Boat That Rocked, Richard Curtis, 2009). In questo atto d’amore per gli anni Sessanta, per la libertà e per la musica rock made in UK, c’è un personaggio speciale. È “il Conte”, l’unico DJ americano a bordo della stazione radio galleggiante. È debordante e carismatico ed è interpretato con la consueta maestria da Philip Seymour Hoffman. Quasi alla fine del film, quando la radio pirata che sfida il governo inglese imbarca acqua e sembra stia per affondare, il Conte prende il microfono. Parla del tempo che passa, di bastardi al potere, di ragazze e ragazzi che hanno dei sogni, di sogni che si trasformeranno in canzoni. È una scena memorabile, resa ancora più intensa dagli sguardi, dalla fisicità e dalla voce di questo attore che ci ha lasciato troppo presto, in un freddo giorno d’inverno. Ci ha lasciato sgomenti e increduli, come quando – all’improvviso - perdiamo per sempre il segnale della nostra stazione radio preferita.

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“Critico cinematografico…”. Ecco quanto ebbi a dire a mio padre, deludendolo definitivamente. ma le colonne sonore invece non avevano rivali… AveProbabilmente sognava per me il premio Pulitzer

vano naturalmente intrinseca una caratteristica che le rendeva uniche, riconoscibili e capaci di suscitare sentimenti dei più profondi. Un’altra caratteristica curiosa ed inspiegabile consisteva nel fatto che a ritirare i premi non si presentava mai nessuno; Infatti gli innumerevoli riconoscimenti andavano come d’abitudine a colmare gli scaffali impolverati e traballanti nella piccola sede londinese della Island451, facendo bella mostra di sé e dando lustro e prestigio a tutti quelli che avevano lavorato ai vari progetti. I film della piccola factory erano opere scomode, che raccontavano verità e sentimenti che le Major non si sognavano neanche di trattare, una fucina di passione ed amore sincero per il cinema quasi come fosse un servizio sociale per l’umanità. Entusiasta della scelta, mi convinsi che sarebbe stato il mio pezzo migliore di sempre e partii per Londra deciso ad incontrare e svelare l’identità di quei musicisti anonimi. Dato che non ero certo il primo ad essere stato incuriosito dal mistero musicale, mi aspettavo una certa diffidenza da parte del presidente, che invece mi accolse con una rassicurante tazza di tè buono quasi come le melodie a cui intendevo dare finalmente volto e nome. Il personaggio, simpaticissimo, che si chiamava Ian Kane si faceva chiamare “Cittadino Kane” in onore di Orson Welles e mi spiegò che lui era solo un rappresentante, un punto di riferimento fisico della Island451, ma che in realtà non avrebbe potuto svelarmi assolutamente l’identità del grande capo… Un po’ come nel film omonimo di Lars Von Trier. Tanto meno avrebbe potuto mettermi a conoscenza degli autori musicali, ne valeva a suo dire della stessa sopravvivenza ed indipendenza del progetto.

dopo la mia promettente laurea in giornalismo, quindi la scelta di dedicarmi agli scritti in celluloide lo gettò nello sconforto. Uscii di casa determinato e pensai che, vista la natura reazionaria e conservatrice di mio padre, avevo fatto la scelta giusta e che un giorno sarebbe stato ugualmente fiero di me. Cominciai a scrivere subito di cinema presso la testata locale, e ben presto feci il grande salto andando a lavorare a tempo pieno per il magazine Z-Movie, punto d’arrivo per tutti i pennivendoli a 35 mm. Molti festival e rassegne dopo, una riunione di redazione segnò in modo indelebile la mia serena esistenza, il tema consegnato ai collaboratori era semplice e lapidario, “Sound”. Mi intrigava molto legare un’altra mia passione fondamentale a quella principale, ero galvanizzato e terrorizzato al tempo stesso, non potevo fare il compitino; questa volta giocavo in casa! Detto questo, con tutta l’ansia da prestazione possibile, mi misi all’opera facendo come d’abitudine la mia ricerca preventiva sul focus indicatoci: ovviamente gli argomenti non mancavano, ma come tutte le volte in cui avevo deciso di essere particolarmente brillante e originale, caddi nell’ovvietà scegliendo il mondo delle colonne sonore, almeno le conoscevo bene; tra l’altro il Maestro Ennio Morricone sarebbe apparso nel numero in questione con una inaspettata intervista, ed allora perché non sfruttare questo assist prezioso? Misi allora a dura prova il mio udito per intere notti, senza venirne a capo, troppo scontato, troppo visto e sentito… Poi l’illuminazione! Da anni ormai, una piccola e misteriosa casa di produzione indipendente faceva incetta di premi alla miglior colonna sonora, Oscar compresi, grazie alle preziose e stupefacenti melodie che accompagnavano le opere in pellicola della suddetta. Si chiamava Island451 e produceva dei piccoli capolavori di qualità a basso budget, per palati fini come si suol dire, per cui difficilmente gli autori di queste chicche ricevevano il premio più ambito come miglior film,

Deluso ma non vinto dal muro invalicabile erto gelosamente a difesa da Mr. Kane, decisi per l’occasione di tornare a fare il giornalista d’inchiesta come mio padre avrebbe voluto e cominciai a pedinarlo giorno e notte.

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Perdo nuovamente i sensi e mi risveglio nel mio hotel di Londra con i bagagli pronti per la partenza. Tornato a casa ho scritto il pezzo per la rivista, non ho vinto il Pulitzer ma mi sono divertito un mondo! 35

Testi: Roberto Melle

Il cittadino Kane faceva una vita sorprendentemente normale e la settimana spesa nei vari appostamenti non portò nessun risultato, fino a che un giorno prima della mia partenza ormai rassegnato, Ian Kane prese un treno, scese a Dover e quindi prese il traghetto verso le isole… E qui amici miei finisce la mia carriera di novello Sherlock Holmes; avevo seguito il mio uomo con grande attenzione convinto di passare inosservato, invece appena salito sul traghetto persi i sensi e mi risvegliai non so quanto tempo dopo, in un comodo e caratteristico cottage su di un isola sconosciuta che mi ricordava tanto la location di “10 piccoli indiani”. Appena ripresomi dal narcotico con cui ero stato mandato a contare le pecorelle venni accolto cordialmente dal cittadino Kane che si scusò per il gesto poco ortodosso e che da li a poco ne avrei capito le ragioni insidacabili. Stavamo seduti in silenzio su vecchie poltrone accoglienti sorseggiando cherry d’annata, quando entrò nel salone un vecchio signore che mi sembrò subito di riconoscere… Infatti, si trattava di Bernard Herrmann, il maestro dei maestri, l’autore delle colonne sonore dei film di Hitchock, del primo film di Orson Welles e di altri innumerevoli capolavori della storia del Cinema. Ero esterrefatto; era stato dato per morto nel 1975 dopo aver appena terminato la registrazione delle musiche di “Taxi Driver” di Scorsese, e invece adesso questo vecchietto ultracentenario sereno e sorridente, mi si avvicina e senza proferire parola mi fa cenno di seguirlo nel salone attiguo adibito a piccolo auditorium, prende la bacchetta da direttore d’orchestra e comincia a guidare una melodia celestiale ai suoi orchestrali seduti davanti a noi. Riesco a stento incredulo a riconoscere tra questi Jim Morrison, Jeff Buckley, Elvis Presley, Brian Jones, Jimi Hendrix e tanti altri… Ma non finisce qui; completamente rapito da quella visione semi-onirica mi accorgo che in una specie di tribunetta a mò di gineceo, appollaiati a godersi lo spettacolo e divertiti dal mio stupore ci sono: James Dean, Steve McQueen, Vincen Price, Bela Lugosi e vedo ancora… Incredibile, ma questa è l’isola dove…


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LA MUSICA DIEGETICA SENZA CÉLINE. Vi siete mai chiusi in una canadese con il vostro grande amore ad ascoltare “She smiled sweetly” dei Rolling Stones? Chi ha visto i Tenenbaum, o qualsiasi altro film di Wes Anderson, ha già capito di cosa sto parlando. Ecco a voi la musica diegetica, ovvero la musica che fa parte dell’andamento narrativo. In questo caso la musica ascoltata non solo da noi spettatori, ma anche da Margot e Richie Tenenbaum. Da sempre la musica diegetica stimola la nostra empatia facendoci sentire parte di “quel” momento, ci diverte, ci commuove, ci fa tremare. Ascoltare il tema del IV movimento della suite Peer Gynt di Edvard Grieg dopo aver visto M. di Düsseldorf è una tortura. Sarà mica merito, o colpa, del motivetto fischiettato dal mostro prima di rapire e uccidere i bambini? Siamo davanti al primo film sonoro del cinema tedesco e Fritz Lang ha già capito come arrivare al suo pubblico con il suono e rincara la dose diegetica annunciando l’arrivo dell’assassino con la filastrocca sull’uomo nero cantata dalle potenziali vittime. E che dire della musica diegetica che ci fa ballare insieme ai protagonisti dei film? Non so voi, ma dopo Pulp Fiction non posso più guardare lo spot dei biscotti sen-

za tapparmi il naso e fare finta di affogare, alla Mia Wallace. Pulp Fiction è sicuramente un trionfo di musica e suoni diegetici. Chiedetelo a Vincent Vega. Sarà proprio il “DRIIIN!” del tostapane a far premere il grilletto al personaggio di Bruce Willis. Almeno Vincent muore nel suo luogo preferito, il bagno, con in mano il suo fumetto preferito. Per i nerds recidivi come me, trattasi di Modesty Blaise, di Peter O’Donnell, un fumetto del 1965. Gli effetti della musica diegetica si vedono soprattutto sulla nostra memoria. Anzi, potremmo dire che questo utilizzo della musica in parte è la nostra memoria filmica. Infatti non ci ricordiamo Audrey che fa colazione da Tiffany, ma Audrey che suona malinconica una Moon River da Oscar con la sua chitarrina. Una scena tanto forte da oscurare l’affascinante Paul. Chi adora i “piani ben riusciti” sicuro in cuor suo sa che quel personaggio mite e dall’occhio languido altri non è che il temerario Hannibal dell’Ateam. Tuttavia la memoria qualche volta può giocare brutti scherzi. Talvolta una canzone extra-diegetica, magari appena accennata in qualche scena, viene immediatamente associata all’intero film. Un esempio? Prendete Titanic.

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Qual è la prima cosa che vi viene in mente pensando alla nave che affonda?

L’orchestra che suona

o Céline Dion?


Testi: Selvaggia Scocciata / Layout: Giorgio Rubbio

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fre aks ly ri cs Oow Friends say it’s fine, friends say it’s good Ev’rybody says it’s just like rock’n’roll I move like a cat, charge like a ram Sting like a bee, babe I wanna be your man Well it’s plain to see you were meant for me, yeah I’m your boy, your 20th century toy Friends say it’s fine, my friends say it’s good Ev’rybody says it’s just like rock’n’roll Fly like a plane, drive like a car Ball like a hen, babe I wanna be your man - oh Well it’s plain to see you were meant for me, yeah I’m your toy, your 20th century boy 20th century toy, I wanna be your boy 20th century toy, I wanna be your boy 20th century toy, I wanna be your boy 20th century toy, I wanna be your boy Friends say it’s fine, friends say it’s good Ev’rybody says it’s just like rock’n’roll Move like a cat, charge like a ram Sting like I feel, babe I wanna be your man Well it’s plain to see you were meant for me, yeah I’m your toy, your 20th century boy 20th century toy, I wanna be your boy 20th century toy, I wanna be your boy 20th century toy, I wanna be your toy 20th century boy, I wanna be your toy

T-REX 20th Century Boy 40


RUSSELL

CROWE

JENNIFER

CONNELLY

RAY

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