FREAKS, cinema e altri fenomeni #1

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#1 2012/ FREEMAGAZINE /

Zero


“Amico mio, il tempo quando entra qui si ferma un attimo e si leva il cappello... Anche tu avrai un posto simile a questo, ma il mio è questo qua.” (G. Albertazzi - Ora e per sempre)


concept /

TORINO

! o t k i N - le di Freaks a d a r a B atu’editoria

Kla

L

Dopo il viaggio sulla Luna, Freaks torna sulla ter-

ra a bordo della navicella Omicron di Gregoretti e atterra a Torino, la città dove è nato il cinema in Italia nel 1907. Sulle note di Fred Buscaglione ci lasciamo trasportare per “Augusta Taurinorum” alla ricerca di fenomeni da reclutare, ma un poeta di nome Macario ci ricorda che il Cinema non è la Vita, anche se le reminiscenze di Steve Della Casa direbbero il contrario… Il racconto è sempre rosso e profondo quando c’entra Dario Argento, anche se questa volta di sangue non troveremo traccia; la ruvidezza estatica della Rosa Tigre di Tonino De Bernardi ci darà invece quei cupi profili di cui la città è pregna. A proposito di profili oscuri, ma che ci faceva Federico Fellini a cena con Gustavo Rol con un misterioso plico in mano? Il mistero svelato in esclusiva per Freaks! Osserviamo i set di autentici capolavori del cinema e i visi di celluloide della Film Commission attraverso gli originali scatti realizzati per questo numero, andiamo per le strade di Mirafiori e della Falchera, le due periferie estreme che diventano puro cinema grazie ad un metallurgico di nome Mimì e all’immenso Marcello Mastroianni, (con la preziosa partecipazione di Davide Ferrario). Non potevano mancare qualche Demone (in trasferta da San Pietroburgo), le memorie catodiche di una maschera del fu “Cinema Giovani” e la vera natura sabauda di Diabolik. Vi lasciamo comunque con un quesito irrisolto… Ma perché i ragazzi di Torino, sognano Tokio ma poi vanno a Berlino? Buona visione. Stefano Delmastro / Roberto Melle

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/Copertina: Giorgio Rubbio

Alla regia di FREAKS #1 /Regia: Roberto Melle, Stefano Delmastro /Aiuto regia: Pierpaolo Bottino /Collaboratori: Katia Bernacci, Filippo d’Arino, Matteo Emme, Fabrizio Esposito, Valentina Mannone, Mauro Melis, Luigi Nervo, Macs Padrini, P. Palù, Gabriele Peirolo, Dario Quattrini, Giorgio Rubbio, Francesca Trinca, Antonio Verteramo. /Ringraziamenti: BlahBlah di via PO a Torino, Steve della Casa, Davide Ferrario, Film Commission Torino, Janka per il video promozionale, Mauro Macario, Vintage Movie Collection. /Seguici e contattaci su: facebook alla pagina Freaks, cinema e altri fenomeni oppure cercaci e scaricaci su: www.issuu.com Freaks è una rivista a distribuzione gratuita. Rivista in attesa di registrazione, tutti i diritti riservati© 2012

/Stampa: GRAFART Corso Novara 35 • 10078 Venaria Reale (TO) • tel: 011 4551433

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Index/ interview

ma_di L. Nervo

al cine

4/Cullato d

ottino

B rstellari_di P. te in i g g ia V 6/

ne sso_di V. Manno

do ro 8/In profon

n the 10/Movies o classic

sposito

move_ph: F. E

io ita_di M. Macar v la è n o n /Il cinema

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, ma giovadnicea_di G. Peirolo 20/Cineti este ca cato e, tigri inca 22/Di rossta F. Tr ed e si_di t on_Freaks concep ti c e ll o C ie v Mo 24/Vintage astro _ph: S. Delm t e s e d n a r g 26/Torino, il ltre i no i cuorid’oArino n fa e h c e n F. 32/La fi elli di Mirafiori_di canc urgo di S.Pietri ob i n o m e d I / cc 34 . Berna a Torino_di K ne 37/Proiezio

poetry

io ata_di M. Macar

priv

ta: otagonis r p e ic r tt o A / am 38 A. Verter Falchera_di rini

K_di M. Pad 40/Fattore io ognano Tok s o in r o T i d i 44/I raganzoz a Berlino_di P. PalĂš e van i R. Melle egli spiriti_d d o v ta s u G / 46 s concept

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fre aks int erv iew

CULLATO DAL CINEMA FIN DA BAMBINO

STEVE DELLA CASA RACCONTA COME È NATO IL SUO SOGNO Il rapporto tra Torino e il cinema è antico, profondo e in continua evoluzione.

Molti registi affermati si sono innamorati della città e molti giovani hanno scelto le strade del capoluogo piemontese per girare le loro prime pellicole e sperimentare nuove forme espressive e tecniche innovative. Il merito per il fermento che si vive sotto la Mole va soprattutto a quelle associazioni e a quei personaggi che con la loro passione ne sono l’anima pulsante. Tra loro uno dei nomi più noti è quello di Steve Della Casa, che da studente aveva dato vita allo storico Movie Club. Da sempre legato alla sua città, è stato anche il direttore del Torino Film Festival, rassegna dedicata al cinema indipendente che a fine ottobre compirà 30 anni.

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tion da molti registi sia di cinema che di tv? Qual’è la magia di questa città? E il suo rapporto con essa?

“Come tutti gli amori è nato quando ero molto piccolo. Mio padre insegnava già all’università, mia madre invece insegnava in una scuola serale. C’era per mio padre il problema di farmi addormentare. Lui lo risolse così. Siccome vicino a casa mia (in via Palmieri, quartiere Cit Turin) c’erano molte sale aperte tutte le sere, lui mi portava allo spettacolo delle otto. Io resistevo mezz’ora poi mi addormentavo. Ma le immagini che vedevo in quella mezz’ora mi affascinavano tantissimo. Ancora oggi mi capita di vedere vecchi film pensando di non averli visti ma poi vedo un’immagine che mi fa pensare (forse è autosuggestione, forse no) di averlo visto in quel periodo, che va dai due ai cinque anni. Era un po’ come una tata che mi cullava prima del sonno”.

“Il mio rapporto con Torino è ottimo soprattutto da quando non vivo più solo lì ma passo metà del mio tempo a Roma. Come diceva Soldati (che su questo scrisse anche un romanzo, “Le due città”) Torino la si apprezza molto di più quando ci si torna. Credo che sia lo stesso spirito che fa sì che praticamente tutti coloro che ci girano un film siano entusiasti e soddisfatti. Siccome però il cinema non è solo emozione ma anche business, un altro argomento che molto aiuta a scegliere Torino sono i vari incentivi che la Film Commission mette in atto nei confronti di chi gira in città”.

Il cinema a Torino è in continuo fermento, con giovani professionisti di talento aiutati da iniziative come quella del Film Festival. Su quali aspetti dovrà puntare la città per crescere ancora? “La città non deve mettere in atto particolari incentivi, ma mantenere quelli che sono già in atto. Il sistema cinema è una ricchezza per la città, procura lavoro e conferisce un’immagine positiva. E un sistema che viene fuori da trent’anni di lavoro, che ho vissuto in prima persona (lavoravo già al Torino Film Festival nel 1982, alla sua prima edizione, poi ne sono diventato il direttore). Toglietemi tutto ma non il mio orologio, dice una pubblicità. Io direi: togliete tutto a Torino, ma non il cinema.

Se no che senso avrebbe aver scelto la Mole, simbolo di Torino, come sede del Museo del Cinema più visitato d’Europa?”

Con chi andava al cinema da bambino e quali film le piaceva guardare? “Fino a quell’età praticamente solo con mio padre. Poi avevo almeno due uscite cinematografiche a settimana: il sabato pomeriggio al cinema Esedra (che c’è ancora) con i miei amici, la domenica con mio padre, mia madre, mio nonno, mia nonna e il mio fratellino. Poi ogni tanto riuscivo anche a poter andare qualche sera infrasettimanale. Beh il ricordo più curioso riguarda un sabato pomeriggio quando in programma c’era “Il tiranno di Siracusa” di Pietro Francisci con Rossano Brazzi. Allo spettacolo delle 14 ho visto il film, allo spettacolo delle 16 come d’abitudine con alcuni amici ci nascondevamo in un angolo del cinema e schernivamo i bambini che passavano. A un certo punto uno reagisce e noi lo prendiamo in giro ancora di più. Era una scena particolarmente buia e quindi non vedevamo bene con chi avevamo a che fare. Era padre Bartolomeo, che era molto piccolo e che era anche il nostro catechista. Riconobbe solo me e fui sospeso dall’accesso al cinema per tre mesi. Una tragedia”. La sua Torino è stata scelta come loca-

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Testi: Luigi Nervo

Steve, quando è nato il suo amore per il cinema? Che cosa ha fatto scattare la scintilla?


Dallo spazio la stazione di controllo Mole (da noi riconvertita) sembra un piccolo puntino luccicante, gli impulsi emessi dalla sua punta indicano come un faro la giusta rotta intergalattica verso la città. A distanza di cinquant’anni esatti dalla prima missione come esploratore scelto per l’invasione del pianeta, eccomi qui nell’atmosfera terrestre, in fase di atterraggio sulla piattaforma circoscrizione 4 della città, installata con le imponenti tecnologie del pianeta Ultra. Promosso ad esploratore di prima classe, dovrò relazionare i miei superiori sui luoghi deputati a comporre il catalogo turistico del nuovo programma V.I.A (viaggi interstellari alieni). In effetti, la fabbrica, dove le creature di seconda scelta erano impiegati, non è più redditizia, così le creature di prima scelta da noi controllate hanno deciso di diversificare le attività produttive. Alla base mi aspetta un corpo confortevole di seconda scelta, chiamato Bilancia, sulla trentina, capelli e occhi scuri, di corporatura robusta verosimilmente somigliante al povero Trabucco. Eccomi al suo interno, grazie all’utilizzo dei nuovi kit di invasione dotati di “touchscreen” (nostra grande invenzione), accedere alla coscienza è diventato un gioco da ragazzi. Il corpo risponde perfettamente a tutti gli input, generando i consueti primitivi movimenti meccanici. Sono pronto! Si apre di scatto il portellone, la luce abbagliante è il passaggio dall’interno all’esterno della sala di preparazione, intravedo la città di Torino. Via all’esplorazione!

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PIATTAFORMA ATTERRAGGIO

TORRE DI CONTROLLO

STAZIONE DI LANCIO

CENTRO V.I.A.

Testi: Pierpaolo Bottino / Layout: Matteo Emme

- qualche tempo dopo -

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egreteorniao s ia m a l pondeè, chi ti parla tseria. “Ciao nris a. Cioo dalla segre o in teleforeic trat on sonabbia io… i cgaispito che ntu on Avra , sempre che indni, se ti va, casa esso giù… quio. Così poi ti già ma un messaggc’è nemmeno lasciamo. Ah, non richi a. Ciaooo”. Dian

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Dai dai, andiamo. Voglio vedere casa nostra al cinema. Fu questo l’inizio della fine, quando Diana, la mia ragazza, iniziò a insistere per vedere casa nostra al cinema. Diana non aveva solo insistito per vedere casa nostra al cinema, ma anche per affittarla come location a quelli del cinema. Diana, hai letto la sceneggiatura? Guarda che poi hai paura, già lo so.

Il pomeriggio stesso stavamo (stavo) già firmando il contratto d’affitto per un attico in Piazza Vittorio. Quanto poteva durarle ancora la paura? Non mi importava. Dopo altri sei mesi, la sorpresa stavo per farla io.

E adesso, tutti su da noi. Chi vuole una bella coppa di sangue ghiacciato? Hahahahahahahah!

Diana, dobbiamo lasciare questa casa.

Nessuna risposta. Quando mi voltai lanciai gli occhi nel vuoto, riuscendo a intravedere solo il deretano del più lento della combriccola. Mentre rovistavo nel mio impermeabile alla ricerca delle chiavi di casa, Diana non accennava a mollarmi il braccio prima di esordire con la frase che avrebbe rovinato la mia vita.

No. Non riesco a vendere la casa di Piazza C.L.N. e l’affitto qui è troppo caro. Andiamo in un bilocale.

Io lì non ci dormo.

Non ci penso nemmeno.

Come al solito, non stavo ascoltando una parola. Sì ti amo anche i… cooosa? Voglio andare in albergo. Ma che dici? Sai quanto pago di mutuo per farti vivere qui, nella casa “così bella che ci girano i film”?

Ovviamente Diana non aveva letto la sceneggiatura. Capiva solo la cifra dell’assegno prima e la possibilità di sfoggiare casa nostra (mia) a tutta Torino dopo.

Che vuoi che ti dica? Ho paura!

Ma vaaaaaa! È solo un film! Figurati se ho paura!

Trenta minuti dopo eravamo già in albergo, naturalmente il più costoso di Torino. Quanto poteva durarle la paura? Una settimana? Un mese? Sei? Diana serbava una sorpresa niente male.

Ore e ore di affermazioni che, per l’ennesima volta, mi convincevano a fare come voleva Diana. Come quella volta che abbiamo preso Flaffy, il barboncino nano che cagava come un leone, quella volta che abbiamo ospitato un surfista (a Torino?) californiano, che ha vissuto a casa nostra (mia) a scrocco per sei mesi, quella volta che mi sono fatto cotonare i capelli come il cantante dei Cugini di Campagna solo perché Diana voleva capire se “forse” gli somigliavo.

Io ti avevo avvertita però. Quindi adesso andiamo su, che ti piaccia o no. Prendere o lasciare. O così o niente. Cascasse il mondo.

Vendi la casa. Diana, non è mica facile vendere una casa come quella. Ci vorrà tempo. Allora prendiamo (che voleva dire prendi tu, paga tu, sgancia tu) un appartamento in affitto. Fuori discussione, che ti piaccia o no si torna a casa. Prendere o lasciare. O così o niente. Cascasse il mondo.

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Scherzi?

Dove? Porte Palatine. Cosa? È una zona popolare quella. Proprio per quello. Basta discutere, che ti piaccia o no, si va alle Porte. Prendere o lasciare. Così o niente. Cascasse il mondo. E questa volta il mondo cascò davvero. Il giorno dopo Diana non c’era più. Al suo posto c’erano un mutuo, due affitti e diversi insoluti, per colpa di un film che conteneva nel titolo il destino del mio conto corrente ormai, inesorabilmente, in profondo rosso. Testi: Valentina Mannone

Mi ero divertito a incidere quel messaggio, solo che non avrei mai più richiamato nessuno. Anzi, non sarei nemmeno più tornato a casa, dopo quella sera.

Usciti dal cinema nessuno parlava. La camminata lungo i portici di Via Roma sembrava la processione dei morti viventi. Proposi anche un brindisi nella casa dell’orrore, giusto per fare lo splendido.


ph: Fabrizio Esposito©

FILM COMMISSION MOVIES ON THE MOVE

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FILM COMMISSION MOVIES ON THE MOVE


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fre aks cla ss ic

IL CINEMA NON E’ LA VITA

MEMORIE DI UN VECCHIO ARTIGIANO di Mauro Macario

E’ strano - ma un qualche significato deve pur averlo - essere invitato a scrivere sul cinema (e sul rapporto con la vita), proprio adesso alle soglie della sua fine storica, simultaneamente al crepuscolo esistenziale dell’autore del presente articolo.

Da orgoglioso e malinconico “passatista”, ne ravvedo un’intima congiunzione già di per sé sufficientemente interattiva sul tema obbligato che caratterizza l’impostazione editoriale di questa rivista che, guarda caso, nasce anch’essa là dove l’argomento del suo interesse sta morendo: prossimamente su questo schermo, nessun schermo. Dal vagito al canto del cigno. Infatti, tra breve, la pellicola cesserà la sua avventura circolare nelle grandi bobine dei proiettori cinematografici sostituita dal video attraverso il computer. Senza la pellicola il cinema muore come un corpo senza cuore. E poiché morirà innocente sarà il caso di definirlo “Cinema Paradiso” nel suo loculo onirico tutto rivestito di celluloide. Circolare però è anche il concetto taoista che presuppone che nulla svanisce ma tutto si ricicla sotto altre forme energetiche e figurate. Finchè le affascinanti teorie filosofiche sulla ipotetica permanenza “trasformata” delle cose terrene non sarà comprovata nella realtà effettiva, non posso non accogliere questa notizia epocale se non con tutto lo scoramento generazionale che ne consegue perchè l’immagine digitale sullo schermo sarà sempre la figlia illegittima della televisione e del videoclip. Questo trapianto artificiale non sarà così traumatico per la popolazione futura che, reciso il cordone ombelicale con la cultura umanistica e assorbita completamente in quella tecnologica sarà perfettamente riconvertita ai nuovi criteri della sua

involuzione antropologica. Chi come me sta alla frontiera dei due mondi, in attesa che l’uno sorga e l’altro scompaia, più che mettere il piede in avanti, volge lo sguardo al proprio vissuto. D’altra parte, anche un altro sacro “feticcio umanistico” il libro, nella sua veste cartacea, si sta trasformando quasi del tutto in e-book e un giorno la sua sopravvivenza puramente espositiva sarà solo museale ad uso esclusivo di collezionisti e archeologi. La morte della pellicola è una morte carnale, un lutto planetario, non la si potrà più toccare, guardare i fotogrammi contro una fonte luminosa, né vedere in essa la sua protostoria e il percorso fatto durante l’intero Novecento. Provate a toccare i pixel, se ci riuscite. E’ un’altra componente umanistica che se ne va, inghiottita e sepolta da quegli stessi mostruosi ingranaggi che Chaplin mostrava in “Tempi moderni” e, in modo differenziato, decenni dopo, Jean Luc Godard in “Missione Alphaville” e Francois Truffauti in “Fahrenheit 451”. Il senso profetico sociostorico è una peculiarità misteriosa che appartiene all’artista intuitivo che, come diceva Rimbaud, “deve farsi veggente” come ai tempi nostri fu veggente solitario, a lunga distanza, sul nostro destino, il genio percettivo-critico di Pasolini: “credo nel progresso, non credo nello sviluppo”. In definitiva, tanto per ridere verde, la letteratura di fantascienza popolare degli anni ‘50 e ‘60 presente nelle edicole a pochi soldi e così tanto sconsiderata dai critici, si

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è rivelata più realistica del neorealismo stesso. Io vengo da un’Italia in bianco e nero dove l’autore cinematografico non era un perito elettronico né un cyborg informatico ma un umanista che sapeva ritrarre la realtà del suo paese, il momento storico, l’evoluzione dei costumi, le sue istanze collettive e le sue pulsioni individuali a tal punto che la gente si rispecchiava sullo schermo riconoscendosi nella propria identità culturale oggi spazzata via dal gas nervino della globalizzazione che ci ha reso orfani di noi stessi, delle nostre radici amniotiche, del patrimonio insostituibile del passato, nonché forse degli stessi archetipi ancestrali. Riconoscersi è il principio fondante del senso di appartenenza. Siamo tutti soli e tutti ottenebrati da un unico modello, come ha voluto l’America. Il popolo cileno (e altri popoli con altri poeti) si rifletteva nella poesia di Neruda quando ancora la figura del poeta interagiva con lo spirito di una nazione interrogandolo, interpretandolo, rappresentandolo nello snodo continuo degli eventi. E vengo da un’Italia artigianale, onesta, laboriosa, dove chi voleva intraprendere un mestiere doveva prima impararlo senza improvvisazioni dilettantistiche o forme di autoesaltazione oggi indotte da un sistema mediatico che tende a declassare/abbassare i livelli qualitativi dei prodotti artistici. Quei parametri valevano per qualsiasi lavoro, da quello più umile a quello più nobile. Quando - e qui venia-


©Archivi Farabola

1973 - da sinistra: Mauro Macario, Maurice Ronet, Micky Pignatelli, Beba Loncar, Marco Reims.

mo al punto - per diventare un regista di cinema, partivi col ruolo di secondo assistente, quindi passavi a primo assistente, poi ad aiuto regista, infine a regista della II° unità (leggesi anche: umiltà). Solo con questa procedura e numerosi film alle spalle come esperienza diretta non filtrata attraverso teorie astratte, è possibile imparare la tecnica cinematografica che è complessa, ha un suo alfabeto settoriale, regole obbligate, e richiede tempi meditati di assorbimento ed elaborazione. Sappiamo bene che in letteratura non puoi creare uno stile con la sola conoscenza delle aste e che si scrive “scuola” e non “squola”. La tecnica che diventa stile è l’anima profonda del regista nello specifico del linguaggio, il vero contenuto di un film, più della storia narrata. La storia, tutto sommato, è seconda-

ria. Ci sono belle sceneggiature naufragate nella mediocrità e script banali divenuti dei capolavori. Nessuno di noi si sognerebbe mai di criticare De Pisis perchè ha dipinto un mazzo di fiori in un vaso. Anche nel cinema il segno, lo stile, la forma, il linguaggio, sono gli elementi sui quali dovrebbero poggiare le ragioni valutative degli addetti ai lavori. Poi se ci sono urgenze contenutistiche da esprimere e comunicare ben vengano, ne abbiamo bisogno. Non dimentichiamo però che “il pensiero” giunse in una fase successiva alla nascita della settima arte, mentre dopo “la presa degli intellettuali” iniziò un decorso persecutorio e sprezzante nei confronti del cinema spettacolare. Per avere una visione professionalmente illuminata e corrispondente al vero, occorre l’apprendistato, il tiroci-

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nio pratico, aver vissuto il set in tutte le mansioni e trascorso un tempo interminabile in sala di montaggio dove aprendo il ventre del materiale girato, osservandone i più segreti meccanismi, ti si disvelano tutti “i perchè” che ti domandavi durante la lavorazione. Non pochi registi del cinema d’autore odierno, veri e propri “cult”, sono tecnicamente rozzi, puerili, incapaci, a un occhio esperto, di muovere la macchina da presa con talento inventivo, perizia, padronanza; appaiono sgrammaticati rispetto alle regole elementari, piatti e statici nelle inquadrature, senza ritmo interno. Forse sarebbero più idonei a scrivere che a dirigere. Anche la direzione recitativa comporta una precedente esperienza teatrale.

Ad una rassegna estiva di cinema “emergente” un critico presentava


un giovane autore e s a l t a n d o lo co m e una figura tra le più promettenti del nuovo cinema italiano. Alla fine del primo tempo sono scappato via preda di uno sconcerto disperato.

Le riprese sembravano fatte da un bambino di otto anni; probabilmente un turista a Rimini con la sua telecamerina domenicale avrebbe fatto di meglio. Se ne deduce che anche un critico dovrebbe fare l’apprendistato, non da un altro critico, ma sul campo, a fianco di una troupe e poi tanta sala di montaggio fino a saturarsi. Lo scandalo di oggi in taluni ma comunque troppi casi è l’incompetenza del linguaggio scelto, la faciloneria amatoriale di chi, da un giorno all’altro, decide di dirigere un film. Da un giorno all’altro io non so fare il pizzaiolo né il pediatra. Un chirurgo se sbaglia operazione non può trincerarsi dietro al fatto che aveva poca esperienza oppure che sa alcune cose della chirurgia, ma non tutte. Perchè poi il paziente muore. Riguardate, se vi capita, i titoli di coda del cinema in bianco e nero e rendetevi conto chi erano gli aiuto registi: i futuri grandi autori del cinema italiano o almeno degli ottimi professionisti cui affidare le sorti di una produzione. Anche la tendenza dominante che solo il cinema d’autore è degno d’attenzione denota una visuale limitata e fuorviante. Come non esiste un’arte minore e un’arte maggiore (nella canzone Léo Ferré, Jacques Brel, Georges Brassens, e Fabrizio De André lo hanno ben dimostrato) ma solo artisti minori o maggiori, così non esiste un genere cinematografico superiore e uno inferiore. Esistono semplicemente dimensioni diversificate di generi separati, ciascuno degni di una propria storia e di una propria catalogazione critica. Ho letto una recensione molto tempo fa che demoliva con toni sprezzanti un certo film di stampo spettacolare (in realtà non solo) che dal punto di vista squisitamente registico era un capolavoro. D’altro canto, lo stesso critico confondeva un “carrello” con

©Archivi Farabola

1973 - da sinistra: Maurice Ronet, Luciano Rossi, Mauro Macario.

una “panoramica”. E qui si ritorna al già detto. Prima di debuttare come regista ho fatto l’assistente, poi l’aiuto, e infine il regista della seconda unità per circa dodici film a fianco di Bruno Corbucci, un regista di indirizzo popolare. Erano film che appartenevano ad ogni genere: musicali, cappa e spada, comici, storici. La migliore scuola è quella del cinema definito di serie B. Film che dovevano essere girati con

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tempi di produzione strettissimi: solo quattro settimane! Il minimo possibile. Anche quaranta inquadrature al giorno! Imparare era obbligatorio. Il grande impatto con il cinema l’ho avuto da ragazzo con la “nouvelle vague” francese, frequentando negli anni Sessanta a Milano le mitiche sale i cui nomi ci rimandano a tempi eroici: l’Orchidea, il Meravigli, il Rubino. Sale che si facevano carico di di-


Un film su tutti rimase nel mio cuore: “Fuoco Fatuo” di Louis Malle, tratto dal romanzo omonimo di Pierre Drieu La Rochelle. Una storia “pavesiana” si potrebbe definire, interpretata magistralmente da un sofferto e straziato Maurice Ronet, che offriva la sua intensità espressiva al personaggio del bel Alain, intellettuale alcolizzato che a Parigi vive i suoi ultimi giorni preda di uno smarrimento esistenziale irreversibile che lo porterà al suicidio. Negli anni ‘70 altri due registi seguii con ammirata partecipazione: Claude Lelouch e Claude Sautet. Citare Lelouch in Italia è come parlare del diavolo. Il regista tacciato dai nostri critici di essere un melenso narratore di seconda categoria una sorta di Liala in versione cinematografica, è uno tra i registi più straordinari sul profilo tecnico e stilistico, pochi potranno uguagliare un linguaggio formale così alto e poeticamente originale. Ogni sua inquadratura, soprattutto del primo gruppo di film, è pura poesia. Claude Sautet, colto e raffinato, dai toni più pacati, entroflessi, timidi, fu un altro punto di riferimento entusiasmante e insostituibile. Il cinema intimista non ha mai fatto presa nel nostro paese ma ricordo un caso unico e struggente: “Le stagioni del nostro amore” di Florestano Vancini. Lo dissi con slancio all’autore che avevo incontrato casualmente agli stabilimenti della FonoRoma e lui mi rispose tristemente:”Un film che non è stato amato né dalla critica né dal pubblico”.

vulgare quell’ondata innovatrice di registi geniali. Furono soprattutto i film di Jean Luc Godard, Louis Malle, Alain Resnais, a colpire il mio immaginario, ma anche figure meno note come Jean Gabriel Albicocco e Jean Louis Richard. Non per lo sperimentalismo sbandierato e troppo presto storicizzato in gelide analisi postume, ma per la poesia, la poesia che aveva trovato sullo schermo una sua ricollocazione e

negli spettatori della mia generazione un’implosione identificativa che sfiorava la commozione. È inspiegabile, ma credetemi, pur essendo allora senza nessuna cognizione tecnica (ovviamente), intuivo in modo trasversale che lo stile di ripresa e la particolare fotografia in bianco e nero, alla “Raoul Coutard” per capirci, stavano misteriosamente alla base di quella commozione imprimendomi per sempre un marchio d’amore incancellabile.

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La po es i a c h e v i ene dallo schermo... l’intricato mondo dei sentimenti...il senso del sogno che si trasferisce nel nostro quotidiano... Una trappola illusoria. Il sogno è salvifico e al contempo ci fa a pezzi. No, il cinema non è la vita.


Il mio unico film come regista (scrissi anche il soggetto e la sceneggiatura), “Perché si uccidono”, girato nel 1973 a Torino e distribuito sul territorio nazionale solo nel 1976, è un tipico esempio di “ibrido ‘70”. 1973 - da sinistra: Mauro Macario, Mauro Reims, Eleonora Fani, Maurice Ronet, Luciano Rossi.

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Mi spiego. In quel periodo a Roma, numerosi registi cercavano, credo in buona fede, una terza via rispetto ai due canoni cinematografici codificati: il cinema di cassetta e quello d’autore. Come? Unificandoli in un disperato e ingenuo tentativo di parto gemellare o parto misto. Una sorta di innesto OGM che racchiudesse i due generi storicamente e esteticamente contrapposti. Sarebbe giusto rivisitare la produzione d’allora per verificare quei film di buona confezione formale e di accettabile dignità contenutistica da salvare. In verità, l’innesto raramente riuscì ma qualche figlio non riconosciuto forse meriterebbe almeno una vecchiaia decente. Naturalmente quando sento dire che qualcuno considera “Perché si uccidono” addirittura un “cult”, sorrido. Certo è il primo film italiano sul tema della droga o forse tra i primissimi, ma è un film datato che non necessita di esegeti; il metro critico di Tarantino ha i suoi meriti e i suoi demeriti. Sono trascorsi circa quarant’anni da allora e le imperfezioni narrative e i dialoghi sarebbero da cancellare. Parlo in questi termini lucidi e onesti anche perché pacificato con me stesso dal momento che la mia creatività ha preso da molti anni un’altra direzione: la letteratura poetica. Salvo solamente la bontà interpretativa degli attori e il lato tecnico della regia che è sempre stato il mio interesse primario. Ottimo il montaggio (Franco Fraticelli) e il doppiaggio (Ferruccio Amendola). Il cast comprende: Maurice Ronet (il mio mito), Marco Reims (Marco Calleri), Beba Loncar, Micky Pignatelli, Eleonora Fani, Antonio Pierfederici, Luciano Rossi, Enrico Longodoria, e i torinesi Lia Dezmann, Armando Rossi, Margherita Fumero. La storia in breve andò così. La Mondialpol prestava i suoi agenti e le sue macchine sul set di un film giallo che si stava girando in città e dove il sottoscritto svolgeva il suo lavoro di aiuto regista. Gli interni erano ambientati negli studi della Fert in uno scenario di pre-abbandono molto malinconico se si pensa a quanta storia del cinema era passata in quei luoghi. Anche mio padre girò alcuni suoi film degli anni ‘40 in quei teatri di posa leggendari. L’elenco delle cose perdute è infinito. Lì, si respirava un’atmosfera fatiscente e evocativa. Il luogo suggeriva l’idea di una grande soffitta dove per caso, ci torni da adulto e ritrovi, integri ma polverosi, i giocattoli dell’infanzia. A fine riprese, Marco Calleri e suo fratello Giorgio mi proposero di girare un film a condizione che il soggetto trattasse la problematica della tossico dipendenza. Ancora oggi verso i fratelli Calleri conservo una profonda gratitudine. La lavorazione durò per ben dieci settimane tutte consumate in ambienti dal vero. Dalle ville dell’alta borghesia industriale disseminate sulla collina dietro la Gran Madre, fino ad un caseggiato diroccato sui rilievi di Moncalieri, e, passaggio obbligato, nella gotica periferia suburbana. Il film, alla sua uscita, non ebbe successo commerciale a causa di una distribuzione inadeguata e debole che sbagliò programmazione. Il grande dono fu l’amicizia con Maurice Ronet. Mi ricordo che una sera gli mostrai la frase che Pavese lasciò sul frontespizio dei “Dialoghi di Leucò” quando si suicidò all’albergo Roma in una anonima stanza del terzo piano. Maurice sussurrò: “Fantastico...” e si chiuse in una sua tristezza impenetrabile. Forse, per un attimo, tornò a rivivere il personaggio del bel Alain del film “Fuoco Fatuo”... Avrei voluto che quel film fungesse da deterrente a tutti i ragazzi dediti alla droga, invece proprio tra loro divenne un “cult”... No, il cinema non è la vita, è un falso d’autore come la clonazione che non riproduce l’originale ma crea un’altra cosa dalle sembianze apparenti e illusorie.

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CINEMA GIOVANE, Confessioni di una maschera Primi anni ’90. Giovane, torinese e cinefilo: non potevo che frequentare il Festival Internazionale Cinema Giovani di Torino. Anzi, finii per lavorarci come volontario tuttofare e, in veste molto più glamorous, come maschera di sala durante i pomeriggi dedicati alla rassegna di cortometraggi Spazio Torino. Il ruolo di maschera offriva, oltre ad un nutrito numero di situazioni spassose/frustranti alla Clerks, la possibilità di vedere o per lo meno intravvedere i film in concorso. L’entusiasmo per l’attesa scorpacciata di metraggio non durò molto. “Questo non è Cinema.” ricordo di aver pensato alla fine del primo giorno. La mia delusione non era legata alla qualità artistica delle opere presentate, avevano i tipici pregi e i difetti del cinema amatoriale. Qualcosa però non funzionava dal punto di vista visivo. Senza considerare fotografia e scenografia, c’era una tara comune a tutte le opere presentate: nessuna era girata in pellicola. Dal proletario VHS al professionale BVU, tutti i formati utilizzati presentavano lo stesso difetto, ai miei occhi non erano Cinema. “La colpa è della televisione”. Questo era il mantra degli indignati genitori della mia generazione, cresciuta con le prime TV private e la valanga di film, telefilm e cartoni animati trasmessa a tutte le ore. In questo caso mi sentivo di dar loro ragione: la colpa della mia fissazione estetica ce l’aveva la televisione. Nel caotico palinsesto delle TV degli anni ’80 il cinema era onnipresente. Le emittenti locali compravano per due lire librerie di film classici che spesso venivano trasmessi più volte nell’arco dello stesso giorno. Il cinema era un’esperienza quotidiana, interrotta qua e là dalle prime pubblicità locali, dai telegiornali e dalle telenovelas sudamericane. Questi “elementi di disturbo” avevano caratteristiche estetiche totalmente differenti dai film che interrompevano. Erano sì immagini in movimento, ma un movimento più fluido di quello cinematografico. La poca attenzione dedicata alla fotografia e alla scenografia in questo tipo di produzione accentuavano ulteriormente la sensazione del reale, contrapposto alla finzione cinematografica. Queste caratteristiche le avrei associate per sempre a prodotti di nullo o scarso valore artistico.

Le immagini dei cortometraggi proiettati al cinema Massimo soffrivano della stessa malattia. Per quanto ambiziosa fosse la sceneggiatura il risultato finale era sempre più simile a Ciranda de Pedra o a Topazio che a Heimat, per citare un’ossessione cinefila coeva. Estetica Catodica, suona quasi come una malattia e, per quanto mi riguarda, lo è. Hollywood ending Questa storia ha un finale felice. Da qualche anno le macchine fotografiche reflex digitali sono in grado di produrre filmati dalle caratteristiche molto simili a quelli prodotti da una costosissima cinepresa cinematografica da 35mm. Non ci sono più scuse, andate a fare Cinema!

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Testi e layout: Gabriele Peirolo

In quegli anni non potevo saperlo, ma la differenza estetica fra il cinema in televisione e la televisione tout court è di carattere tecnico. Le immagini fisse che nel cinema creano l’illusione del movimento hanno una frequenza di 24 fotogrammi al secondo, mentre quelle televisive si alternano a 50 semiquadri (fotogrammi interlacciati) a secondo. Tutto questo si traduce in una rappresentazione del movimento più fluida che è sempre stata il mio campanello di allarme. La pochissima profondità di campo delle telecamere, che quasi sempre generano un’immagine in cui tutto è a fuoco, solitamente conferma il sospetto iniziale.


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DI ROSE, TIGRI ED ESTASI “…Ces robes folles sont l’emblème De ton esprit bariolè; Folle dont je suis affolè, Je te hais autant que je t’aime!...” A CELLE QUI EST TROP GAIE – Charles Baudelaire – 1852

Il profilo ruvido di una città è disegnato sulle ombre tracciate dai marciapiedi, ove marciano lenti, talvolta annoiati, corpi in cerca di adorazione; si espongono all’apparenza, fondamento stesso del mondo, e – nella loro oscura natura - divengono emblemi della creazione. Anni passati, ricordi di volti inconsueti e amici dall’aria ambigua. Intorno a Porta Nuova girano facce nocive; odorano di oscenità, scarti dell’impero sonante. In me vive il fascino per le rose sfiorite, pulsa il seme delle disarmonie. Si fanno incontri curiosi. Scene di compravendita di carne all’ingrosso, pelli mature date vie per pochi soldi, travestite da qualcos’altro; maschi che si fingono signore. Questo universo umano aprirà in me il gusto per una categoria estetica che giungerà fino al mio presente. Lo ritroverò in altre forme nel tempo a venire; abiterà infinite espressioni artistiche, passando attraverso note, arti figurative, testi e pellicole - sempre ne subirò l’incanto. Conosco Rosa Tigre un pomeriggio d’autunno e subito mi travolge. Calpesta le strade fasciato da vesti stravaganti; dall’alto dei tacchi acrobatici, vorace, divora la realtà e i suoi occhi sono ebrezza di umanità, luce viva. Scintille di divinità lo investono, donando ai suoi tratti colori sempre nuovi. Intorno il mondo lo scruta, lo studia, quasi fosse pezzo da museo, e non coglie il senso del suo esistere; il suo è il linguaggio cifrato di chi vuole uscire da sé per trovare l’amore e, nella sincerità estrema del gesto, si sacrifica, si vende appunto. La ricerca dell’identità diviene un affare di corpi e - nonostante il dolore intimo di chi è costretto a vendere la propria carne - culmina nella possibilità infinita di incontri. Il senso di decadenza che apparentemente investe un uomo che si fa donna per offrirsi a vari acquirenti non è da ricercare nello squallore delle forme, ma nell’indipendenza stessa delle sue pose; la sua essenza si decompone infatti in una moltitudine

di attimi in cui trova compimento l’esistenza. L’universo evocato non è una fantasia estetizzante, ma un infinito organico. Solcando l’asfalto consunto, Rosa Tigre brilla come un astro nascente, si accende di vita, brucia come un vulcano, recita mille ruoli per divenire infine se stesso/a. La nostra Torino è il centro ultimo deputato a tale “miracolo”, geometria di vie che sono un autentico invito al viaggio la cui meta è l’io ritrovato. È la regione ideale di un’anima che nella sua frammentarietà ritrova l’unione, terra straniera entro cui è possibile rinascere ed ascoltarsi; è il luogo fisico (e della mente) che segna una zona di confine, entro cui sono applicabili modelli differenti, terreno “romantico” nel quale convivono armonicamente gli opposti. Le rose profumano, incantano, ammaliano, e nel loro fulgore si intravede già l’appassimento; al tempo stesso pungono, dolgono, come le tigri feriscono. “L’unico rischio non è la fine” mi confidano le labbra luccicanti di un uomo completo nella sua doppiezza, come se le peripezie di chi fa la vita fossero la chiave ultima per la speranza, perché “il fuoco brucia, deve bruciare”.

dolore 22


amore

Cinema da artigiano che si sporca le mani, le dita ricoperte di calli di chi lavora ancora la materia grezza fino a trarne prototipo di bellezza, Tonino De Bernardi esplora angoli di mondo con lo sguardo fresco di chi osserva le cose con stupore, senza artifici, senza trucchi, con giovane candore. Il suo interprete, maestoso Fufluns entro cui scorre la linfa della vita nella sua manifestazione piÚ assoluta, dona alla settima arte il ritratto esuberante di una creatura multiforme, cassa di risonanza entro cui risuona l’eco di mille esperienze.

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Testi: Francesca Trinca / Layout: Giorgio Rubbio

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TORINO, IL GRANDE SET.

ph: Stefano Delmastro©

“Cabiria” (regia Giovanni Pastrone, 1914 - bianco nero) - Riproduzione del Molok - Museo del Cinema - Via Montebello

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“Hanno cambiato faccia� (regia Corrado Farina, 1971 - colore) - Grattacielo Rai - Via Cernaia


“The Italian job� (regia Peter Collinson, 1969 - colore) - Lungo po Murazzi

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“Profondo Rosso” (regia Dario Argento, 1975 - colore) - Villa Scott - Corso Giovanni Lanza

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musica e pAROLE Maurizio Blatto è nato a Torino nel 1966. Ha accantonato sul nascere una carriera da avvocato preferendo Backdoor, storico negozio di dischi cittadino. Da dietro il bancone “cura” e alleva plotoni di maniaci musicali. Collabora da anni con la rivista musicale Rumore. È titolare di un corso di “Storia dei dischi fondamentali” al Circolo dei Lettori di Torino. La sua canzone è How Soon Is Now? degli Smiths. Dovendo scegliere, sceglie vinile. L’ultimo disco dei Mohicani (Castelvecchi) è il suo primo libro.

Giorgio Pilon / selfimperfectionist


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Testi: Filippo d’Arino / Layout: Dario Quattrini


mafia uccida il brigadiere amante di sua moglie e che riesca a far ricadere la colpa su Mimì mettendogli la pistola in mano. Cose che possono capitare. Non doveva andare così, ma è così che va. Perciò adesso prendi Mimì e fagli scontare il carcere. Il tempo che serve, neanche un giorno in più. Che all’uscita trovi ad aspettarlo una piccola folla disgraziata: la moglie fedifraga, l’amante torinese, la vedova del brigadiere, più i bambini. Lascia a Mimì l’unica scappatoia per mantenerli tutti: diventare galoppino per un boss della mafia. Lo stesso da cui era scappato all’inizio, prima di approdare a Torino. Lasciaglielo fare. Lascialo lì. Solo, sfinito, finito. E lascia che Fiore, delusa, se ne vada. Non è certo se a Torino. Di sicuro lontano da lì. E dal suo Mimì.

Ora togli i primi anni settanta. Togli la Sicilia, il proletariato, la Mafia, l’emigrazione di massa. Togli Mimì. Togli Fiore. Togli le corna, la lupara, le gravidanze (coatte e non), il debito con la giustizia, i compromessi, la disfatta. Via tutto. Lascia però l’amore, se ne resta. Lascia l’affanno. Lascia i cancelli di Mirafiori a fare da testimoni silenziosi. Cambia la sceneggiatura, ma non cambiare scenario. Non saranno più gli stessi tram, non sarà più la stessa nebbia. Ma la città è ancora quella. Solo più scintillante, più estenuante, più città che mai. Prendi una ragazza carina e in gamba laureata a Palazzo Nuovo. Giovane speranza aperta al mondo ma già annichilita in un call center. Falla abitare dalle parti di C.so Settembrini. Falle incontrare un operaio all’uscita del primo turno, pronto ad altri sei mesi di cassa integrazione. Non è siciliano, lui. E’ tunisino, che è poi quasi la stessa cosa. Bel tipo. Silenzioso. In gamba. Si chiama Almoud. Lo chiamano Moumou. Siamo nella seconda decade degli anni duemila. Tutto è cambiato e niente è diverso. I cancelli di Mirafiori sono ancora lì a fare da sfondo a ogni storia possibile. Per finta. Per davvero. Allora prendi tutto questo. Ma non farne un film. Lascia perdere. Non ne verrebbe fuori granché. Già visto mille volte, già sentito. Perfino nelle peggiori fiction in seconda serata. Tutto così credibile. Così possibile. Così prevedibile. Lasciala perdere, la realtà. Ne hanno già fatto scempio. Lasciala lì dov’è. All’ombra della Mole o dietro i cancelli di Mirafiori. Dove comunque, come sempre, la noteranno appena.

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// MIMI’ METALLURGICO FERITO NELL’ONORE / Italia 1972 / Soggetto, sceneggiatura e regia di Lina Wertmüller Con Giancarlo Giannini e Mariangela Melato.

P

rendi i primi anni settanta. Prendi un operaio siciliano. Fai conto che il suo nome sia Carmelo Mardocheo, ma accorcialo pure in Mimì perché suona meglio. Fagli perdere il posto di lavoro (perché lui, di scendere a patti con la Mafia, proprio non ne vuole sapere). Poi fagli lasciare la sua terra, fallo emigrare a Torino. Più di duemila chilometri a nord del suo mondo. Dal sole alla nebbia. Dai carretti ai tram. Dalla coppola all’eskimo. Dai muri di fichi d’India ai cancelli di Mirafiori. Che la giovanissima moglie Rosalia rimanga in Sicilia. E che Mimì invece, spaesato ed avvilito, a Torino si adatti come può. Che cambi idea. Che scenda a qualche compromesso. Che la Mafia (che è dappertutto e lui non lo sapeva) cominci ad andargli a genio. E che le sue vera necessità finiscano alimentate da finte virtù. Lascia perciò che diventi metallurgico un po’ bieco ed arrivista. Illecito e colluso fuori, sognatore dentro. Poi lascia che per beffa del destino si innamori nel frattempo di una sottoproletaria onesta e pura di nome Fiore. Il parco del Valentino in autunno a fare da complice. Le soffitte nei dintorni di Porta Palazzo a fare da contorno. Il freddo che avvicina. Che lei lo faccia tribolare come si deve, ma che i due alla fine si innamorino. E per davvero. Perché è giusto così. Fai che nasca un bambino bello e paffuto. Poi capovolgi tutto. Via dalla Mole. Via dalla fabbrica. Via dalle tribolazioni del proletariato. Duemila chilometri indietro. Riprendi Mimì e rieccolo in Sicilia, insieme a Fiore. Insieme al bambino. Sfacciatamente al cospetto della giovanissima moglie, che è rimasta lì dov’era ma non del tutto immobile. Che nel frattempo ha avuto un figlio, quasi per inerzia, con un triste brigadiere. Lascia che Mimì a questo punto sia Mimì, fagli fare il siculo ferito nell’onore, cornificato dentro e fuori. Lasciagli dimenticare quel minimo di emancipazione che credeva di aver conquistato. E fagli sanare la ferita a modo suo. Solo un po’ meno siculo di quanto sarebbe dovuto. Invece di vendicare le corna a colpi di lupara, che le vendichi in modo persino più atroce. Che trovi modo e fegato e coglioni per ingravidare l’orripilante moglie del brigadiere, l’amante di Rosalia. E poi lascia che tutta sta commedia, che in fondo è anche un piccolo dramma, faccia il suo corso così come deve. Lascia Mimì in balìa di se stesso e delle circostanze: che un sicario della


I demoni

di Sanpietroburgo è stato girato quasi interamente tra

Torino, Venaria Reale e Sanpietroburgo nel 2007, ed ha visto la

luce nell’aprile del 2008, dedicato ad un pubblico che non si accontenta di essere guidato nella visione ma che preferisce avere spunti che lascino spazio al ragionamento analogico e ad un gioco di scatole cinesi al quale pare proprio che il regista si sia affidato, in una crescente ricerca del significato nel significato. La trama ci parla di Dostoevskij, il grande scrittore russo, che si reca in visita ad un pazzo internato in un manicomio, Gusiev, dal quale ha ricevuto una strana lettera. L’uomo racconterà a Dostoevskij che il Granduca sta per essere ucciso da un gruppo terroristico del quale il folle fa parte dai tempi dell’università, e che solo Fjodor, in virtù di quanto ha scritto sulla libertà nei suoi libri, può fermare l’assassinio. L’intento di Gusiev è salvare la donna di cui è innamorato, che comanda i terroristi e che potrebbe con questo attentato rimetterci la vita, oppure essere imprigionata e torturata. La storia continua in un avvincente inserimento di personaggi, come Anna, la stenografa che aiuterà, anche nella vita reale, Dostoevskij a finire il libro che deve consegnare all’editore entro una data precisa, pena la perdita di tutti gli introiti dei libri per i dieci anni a venire, o ancora Aleksandra, la donna che comanda i terroristi, e che si scopre essere la ricca nipote della moglie del Prefetto di Sanpietroburgo.

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Ma

l’idea che dà il film è che la trama potrebbe anche essere meno articolata, perché ciò che veramente colpisce è la danza che si snoda tra i fotogrammi: tra Torino e Sanpietroburgo, tra il passato ed il futuro, e ancora tra Dostoevskij e Torino. Un gioco che sembra divertire il regista, che forse in quest’opera ha voluto anche versare un po’ del suo mondo interiore, proponendo un qualcosa di non standardizzato e che può a prima vista avere un ritmo di altri tempi, ma che scopriamo invece molto attuale nell’analisi dell’uomo e anche nella reazione politica del popolo e delle istituzioni. È un vortice che forse solo noi torinesi possiamo comprendere appieno, guidati dalla musica incalzante di Ennio Morricone, mentre osserviamo la nostra città che fa da sfondo alla storia di un uomo e forse di tutti gli uomini, stretti nel dubbio, negli accadimenti passati, nella politica e nella colpa. Le scene, fumose, scure, spesso girate durante la notte o in ambienti chiusi, ricordano il nostro inverno, forse anche un po’ il carattere torinese, spesso intimista e malinconico. È una visione onirica, come gli incontri che si fanno in una notte solitaria, nella nebbia del primo mattino, nel freddo della spirale dei pensieri, sotto il pallido riparo dei sontuosi edifici settecenteschi e dei portici che ripetono le loro arcate sempre uguali. Le similitudini tra Sanpietroburgo e Torino sono sconvolgenti, non solo per i motivi di cui sopra, ma anche per una certa fratellanza urbanistica, non dimentichiamo che Pietro il Grande, dopo la bonifica della zona, chiamò a sè i migliori architetti e pittori europei per il suo grande progetto: la costruzione di una città bellissima, alla quale parteciparono alcuni dei migliori artisti torinesi, che riprodussero in quel luogo, lontano, ma solo sulle carte geografiche, gli edifici di Torino.

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Anche

Dostoevskij

Testi: Katia Bernacci

ha però un forte legame con la nostra città, nel film il suo problema con il gioco viene ripetutamente citato, ed è la causa del contratto che lo lega all’editore truffaldino, stipulato solo per poter avere un forte anticipo che consente all’autore di pagare i creditori e non finire in prigione. Ebbene proprio in quegli anni, a seguito di una visita a Torino ed a ripetute perdite al gioco in questa città, Dostoevskij rimase senza un soldo e finì di scrivere “Il giocatore”, un romanzo di grande successo in quegli anni inquieti. Affascinante anche il rimando al passato, ed alla prigionia di Dostoevskij, che viene in gioventù arrestato e condannato a morte per le idee espresse nei suoi libri, per poi essere graziato sul patibolo e subire una condanna alla deportazione in Siberia per quasi dieci anni. La prigionia torna continuamente nei pensieri dello scrittore, ed è questa esperienza che lo fa sentire vicino a Gusiev, il folle, sino a spingerlo ad acquistare un cappotto per l’uomo, (che arriverà però troppo tardi), sino a fargli venire attacchi epilettici anche negli anni a venire, molto tempo dopo questa esperienza, quando ancora la dolce Anna, diventata sua moglie, lo accudirà, cercando di sopire i suoi demoni. Altri elementi colpiscono l’immaginazione, come gli splendidi costumi dell’epoca (l’ambientazione, ci dice l’incipit nelle prime scene, è nel 1860), che ha consentito al film di vincere due Nastri d’Argento nel 2008 per fotografia e scenografia e due David di Donatello nel 2009, per migliori costumi e miglior scenografia. Sono anche interessanti l’impianto teatrale ed il linguaggio usato, quasi metaforico, un sottolineare le immagini che in alcuni punti diventa eccessivo, ma in linea con il secolo di cui si parla. Il film ha infine il pregio di comunicare pensieri, non potrebbe essere altrimenti con un grande testimone come Dostoevskij, e come dice lui stesso in seguito all’arresto: “Qualcuno di voi ha provato a leggere nella mia anima?”. Quanto sono differenti le anime degli uomini? E quanto lo sono i luoghi dove vivono?

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fre aks po et ry

PROIEZIONE PRIVATA (la poesia del non)

Non è come in un film non funziona così dalla banchina del porto dalla scaletta dell’aereo dal binario della stazione lei non correrà verso di te gridando il tuo nome con le lacrime agli occhi e tanto meno al rallentatore né ci sarà musica in play-back ad esaltare l’emozione di quell’abbraccio ripreso con carrello circolare e dolly finale in campo lungo dall’alto tu che hai immaginato lo stesso scenario sostituendo i protagonisti con altre facce in primo piano sei rimasto troppo tempo in quel pulciaio dei sogni con il cuore contratto in ultima fila e troppi anni sulla banchina del porto alla scaletta dell’aereo in fondo al binario della stazione ad aspettare nessuno guardando gli abbracci degli altri udendo una musica che solo tu sentivi la vita non è un film francese loro non tornano né al rallentatore né a passo normale semplicemente vanno in un altro film

riceviamo un bacio onlus giusto sul letto di morte a volte neanche quello non si capisce cosa frena la libera espressione di un gesto naturale che salverebbe il mondo fermando gli orologi sull’ora da inventare esseri umani hanno coperto la distanza tra la terra e la luna ci sono pochi centimetri tra due labbra eppure quelle labbra non riescono a coprire una distanza infinitesimale ecco perché tanti pianeti non sono visibili a occhio nudo e capita sempre più spesso di piangere come servette a una pellicola sentimentale non è come al cinema hai solamente venduto i gelati alla fine del primo tempo inghiottito dai tuoi stessi sogni tra il buio e quel fascio di luce senza neanche sentire i tuoi capelli cadere certo potremmo rigirare il finale e dire che il film è per tutti ma non è così quella corsa al rallentatore non è per tutti e poi è tardi sullo schermo bianco è già apparsa la parola FINE da “La Screanza” di Mauro Macario, Premio Eugenio Montale Fuori di Casa 2012, edizioni Liberodiscrivere

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38 una semplice location di periferia, ma un vero e proprio protagonista cinematografico, con una lunga carriera alle spalle. Tutto inizia nei primi anni ’80. Come un boss alla Scarface, Falchera è disposta a tutto pur di arrivare e di farsi notare. E la cronaca di quegli anni è un vero Romanzo Criminale, che contribuisce a creare la mitologia del quartiere: dall’omicidio di Tonino Micciché alle case occupate. Dagli scontri tra bande, tipo I Guerrieri della Notte, ai vandalismi nelle scuole. Ma è negli anni ’90 che arriva la vera svolta nella carriera cinematografica della Falchera. Davide Ferrario, regista considerato sperimentale, cerca un quartiere operaio in cui ambientare Tutti giù per Terra e s’innamora della Falchera: “L’ho trovata fantastica da usare come set cinematografico – spiega – un quartiere affascinante, perché Falchera è un luogo sospeso. È certamente una periferia, con tutti i suoi aspetti, ma una periferia con una sua poesia”. I lunghi viali del quartiere dimostrano di avere talento per la commedia leggera, e così dopo il film tratto dal libro di Culicchia, Falchera si guadagna un ruolo anche nei successivi film di Ferrario: Figli di Annibale e, soprattutto, Dopo Mezzanotte. Amanda, Angelo e la sua banda sono della Falchera,

Nonostante abbia poco più di 50 anni di vita, sono tante le anime della Falchera, il quartiere-villaggio sviluppatosi tra gli anni ’50 e gli anni ’70 all’estremità settentrionale di Torino. Nessuno però sospetta che Falchera in realtà sia un “personaggio filmico”. No, non

Dalle casette a tre piani stile inglese per i profughi istriani, ai palazzoni occupati dagli immigrati meridionali, da Bronx violento e famigerato a quartiere dormitorio per gli operai...


Testi: Antonio Verteramo

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e lo ribadiscono con tutto l’orgoglio di chi sa di vivere in una realtà speciale e diversa: “Quello che colpisce di questo quartiere è che è un posto dove devi andare apposta - aggiunge Ferrario - ha soltanto due accessi. Questo ha creato un suo microcosmo, dove c’è tutto un mondo che sembra separato dal resto”. Nel curriculum cinematografico del quartiere non possono mancare, naturalmente, le interpretazioni del disagio giovanile e del degrado. Lo stesso Ferrario, utilizzando materiale girato per Tutti giù per Terra, realizza il docu-film La Rabbia, quasi una risposta a L’Odio di Kassovitz, girato nella banlieu parigina. Il primo regista a portare sullo schermo le difficili realtà del quartiere è però un ragazzo di Falchera Nuova, Giacomo Ferrante, che già nel ‘91 in Real Falchera Football Club traccia uno spaccato di vita dei ragazzi di zona attraverso la storia di una squadra di calcio di periferia. “Il film ha vinto il premio Gabbiano d’Oro al Festival di Bellaria - spiega Ferrante - e pur raccontando una storia locale, vuole avere un valore universale”. Sfruttando le potenzialità del documentario, Ferrante utilizza Falchera e i suoi personaggi anche nelle successive produzioni: Barriera d’Italia (2000), storia della zona nord di Torino: “In particolare, ho voluto ricordare la morte di Tonino Micciché - continua Ferrante - un evento che inserisce la Falchera direttamente nella storia d’Italia e in quel difficile periodo degli anni di piombo”. E poi, il corto Frammenti di quartiere, presentato alla Fiera del Libro di Torino, Alzabarriera, videoinchiesta

sulla periferia torinese, e Stranamore. Attenti a quei 2, storia d’amore tra ragazzi “nati ai bordi di periferia”. Falchera è protagonista dalle molteplici sfaccettature, non solo sociali, ma anche visive: “L’architettura, di Astengo prima e delle torri dopo, crea molta grafica visiva” conferma Davide Ferrario, che, naturalmente, non ha rinunciato alla Falchera nemmeno nel suo ultimo film: “Ho appena finito di girarlo e non ho nemmeno ancora il titolo - ci rivela - ci sono delle scene girate alla bocciofila di via Tanaro. È un posto in cui torno sempre con piacere, tanto che mi hanno dato la “cittadinanza falcherese”. Intanto, la carriera cinematografica del quartiere esplora nuovi mondi: Laura Halilovic, nomade trasferita alla Falchera, corona il suo sogno di diventare regista e realizza nel 2009 “Io, la mia famiglia rom e Woody Allen”. Le scene, girate tra il campo nomadi di via Germagnano e le case di Falchera, raccontano le mille storie di zii, cugini e altri amici che si spostano sulle roulotte, e si ritrovano a vivere in una situazione nuova, divisi tra il desiderio di abitare in una casa normale e il miraggio di essere sempre in movimento... E in fondo il destino cinematografico della Falchera era scritto. Già nel 1979, nel romanzo A Che Punto è la Notte, Fruttero e Lucentini ambientano alcune scene in un quartiere di periferia a Torino, senza fare però nessun riferimento preciso. Ma quando nel 1991 Nanny Loy gira il film tratto dal libro, con Mastroianni nel ruolo del commissario Santamaria, non ha dubbi: la location non può che essere Piazza Falchera!


K IL FATTORE

La signora Angela non era solita usare il treno e quella mattina dell’agosto del 1962 si trovava, suo malgrado, a dover risalire controcorrente il fiume in piena dei pendolari che come tutti i giorni venivano a lavorare a Milano affollando la stazione Nord. Era una splendida quarantenne, e non passava certo inosservata. Forse qualcuno avrebbe ancora potuto riconoscerla in quella modella che qualche anno prima era stata la testimonial della pubblicità della nota marca di saponette LUX e in svariate foto di moda, o magari confonderla con sua sorella Luciana di qualche anno più giovane ed eletta Miss Sport nel 1948. Angela era abituata ad essere controcorrente. Fin da ragazza aveva sempre avuto un carattere forte, estroverso e ribelle. Come poteva essere considerata una ragazza che negli anni 50 già aveva la patente e guidava un’auto sua, praticava svariati sport solitamente riservati ai maschi e aveva addirittura un brevetto di pilota d’aereo? Elegantemente “anticonformista” e “controcorrente”, ma più prosaicamente scandalosa e impertinente. Ad assecondarla in queste sue scelte era stato suo marito Gino Sansoni, un vulcanico editore milanese, già fondatore di una delle prime agenzie pubblicitarie del dopoguerra, con il quale da poco più di un anno dirigeva una casa editrice. Angela era da sempre attenta e curiosa e amava osservare la gente intorno a se fantasticando sulla loro vita, personalità e sogni. E quale posto in prima fila poteva essere migliore di un vagone di un treno, mentre la città sfilava veloce fuori da finestrino? Quel signore corpulento due sedili avanti, ad esempio, doveva essere di Torino perché sembrava essersi perso nelle pagine de La Stampa. E come accadeva sempre più frequentemente in prima pagina i titoli annunciavano nuovi macabri ed efferati delitti, furti e rapine. E la ragazza alla sua sinistra che sfogliava avidamente il nuovo numero di GrandHotel? Era di certo alla ricerca dei momenti clou in cui il bel tene-

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“Volete un’ora da brivido? Episodio completo. Leggete Diabolik! Chi è Diabolik? Diabolik è il re del terrore! Diabolik è il genio del delitto! Diabolik vuol dire mistero! Compratelo subito!” La copertina ritraeva una donna atterrita dinanzi a un uomo dagli occhi di ghiaccio, inguainato in una tuta nera attillata che brandiva un coltello. E il bello era che il “Re del Terrore” non era il cattivo di turno ma il protagonista. Alla modica cifra di 150 lire il primo numero di Diabolik faceva la sua apparizione nel mondo del fumetto. Dopo un timido inizio il suo successo era stato travolgente, tanto che sulla sua scia erano nati tantissimi altri personaggi e testate. Anti-Eroi dai nomi piuttosto eloquenti: Kriminal, Satanik, Killing, Mister X e molti altri, accumunati dal “fattore K”. Di un vero e proprio fenomeno di costume come quello dei fumetti “neri” non poteva non accorgersi l’industria cinematografica e diversi di loro avevano già visto la propria trasposizione cinematografica, ben prima quindi del vero ed originale RE del Terrore. Addirittura sotto forma di parodia, con Dorellik interpretato dal popolare Johnny Dorelli, sigh…

broso dallo sguardo magnetico faceva cadere ai suoi piedi la giovane ingenua di turno, avvinghiandola in un bacio passionale per almeno due pagine del fotoromanzo. Forse cercava il suo principe azzurro, ma più probabilmente un’inconfessabile avventura di una notte che le regalasse brividi ed emozioni. Sul sedile di fianco a lei qualcuno aveva dimenticato un voluminoso libro di Marcel Allain, dalla cui copertina faceva capolino l’audace e spietata figura della sua creatura letteraria: Fantomas, con tanto di mascherina e cilindro. Appena salita sul treno in corridoio aveva incrociato un elegante signore in giacca e cravatta con un ottimo profumo e un fiore all’occhiello; forse era stato proprio lui a dimenticarlo o forse a lasciarlo di proposito; non era una lettura con cui presentarsi ad un’incontro galante e di certo non poteva trovare posto nella tasca della sua giacca. Angela correva con lo sguardo nel vagone fantasticando su questo e quel passeggero mentre un’idea si faceva rapidamente strada nella sua mente fino ad apparire addirittura ovvia in tutta la sua semplicità. Le persone intorno a lei erano diverse, certo, splendidamente eterogenee ma accomunate da una cosa. Tutte passavano quotidianamente un tempo più o meno lungo su un mezzo di trasporto che fosse treno o tram cittadino, e cercavano letture di svago ma avvincenti che gli permettessero di vincere la pena di quei noiosi spostamenti. Leggevano la cronaca nera, si appassionavano agli intrighi, al brivido, e sognavano l’avventura e l’amore. E certamente avrebbero apprezzato riviste e giornali che potessero essere comodamente infilati in una borsetta o in una tasca di una giacca. Ecco, diciamo un formato tascabile!

Cinque anni dopo, la stazione Nord non era molto cambiata. Dopo una breve sosta in edicola, giusto il tempo per acquistare il corriere e l’ultimo numero di Diabolik , Mario affrettava il passo in direzione della stazione. Il suo cognome era Bava, di mestiere faceva il regista e con i suoi film si era guadagnato l’appellativo di “Regista Maledetto”. I suoi detrattori riferivano che “maledetto” fosse l’esclamazione che gli riservava chi, in piena notte, si trovava in preda agli incubi dopo aver visto un suo film. Altri critici, pochi in verità, lo consideravano invece un ottimo regista che era stato capace in pochi anni di creare un nuovo modo di fare film gialli e thriller e inventare praticamente il genere horror italiano. Figlio d’arte, aveva inoltre ereditato dal padre perizia tecnica e inventiva nel realizzare effetti speciali, cosa che gli era assai utile nelle scene più “splatter”. Mario era reduce dal buon successo di Operazione Paura

Nel giro di pochi mesi, affiancata dalla sorella Luciana, una piccola redazione di grafici e un reticente disegnatore (tal Zarcone detto “il tedesco”) il suo progetto era pronto a vedere la luce. Il primo novembre del 1962 in edicola la pubblicità annunciava:

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dell’anno precedente e quando, qualche mese prima, era squillato il telefono e aveva udito quel nome “Diabolik” gli era sembrato un vero colpo di fortuna. Dall’altro capo del telefono c’era Dino De Laurentis, il famoso e pluripremiato produttore cinematografico e c’era un progetto ambizioso; portare al cinema il popolare fumetto nero delle sorelle Giussani, un budget alto, il più alto fosse mai stato messo a sua disposizione e una distribuzione internazionale. Il fatto che De Laurentis avesse licenziato dopo una sola settimana Tonino Cervi dalla regia del film chiamandolo come seconda scelta gli era sembrato più uno scherzo del destino che un cattivo presagio. E poi gli era capitato più di una volta di subentrare in corsa ad un altro collega. Ma, giorno dopo giorno, le incompatibilità caratteriali con Dino e le differenti visioni su come dovesse essere il film erano venute prepotentemente a galla.

Testi e layout: Macs Padrini

Mario aveva letto avidamente Diabolik e si era fatto un’idea chiara di quella che riteneva fosse l’essenza del personaggio, le caratteristiche peculiari da cui non si poteva prescindere. Diabolik era un anti-eroe, cupo e anticonformista. Perfetto per poter realizzare una pellicola con echi dark e horror, il genere a lui più congeniale, dove poter realizzare molti “effetti speciali” già parzialmente provati in altre produzioni ma mai sviluppati appieno per limiti di budget. Dino invece aveva in mente ben altro; una sorta di James Bond in calzamaglia che potesse essere visto dal grande pubblico e distribuito senza timori di censura. De Laurentis era un produttore di grande successo, visionario e istintivo e aveva intuito le grandi potenzialità del mondo del fumetto con quelle storie che erano praticamente già delle sceneggiature per immagini. Ma era anche scaltro e pragmatico. Oltre ai diritti per il Re del Brivido, si era infatti anche assicurato quelli di Barbarella, l’eroina sexi-fantascentifica di una popolare serie a fumetti francese. E siccome il film aveva avuto dei ritardi nella produzione, aveva dirottato John Phillip Law, partner della bellissima

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K

romanzo giallo “Uccidevano di notte”di Italo Fasan, edito un anno prima. Gli agenti della squadra mobile di Torino si erano dati un gran d’affare per risolvere il caso di via Fontanesi ma senza successo; il nome di Diabolich sarebbe probabilmente finito tra i molti misteri dimenticati, se le sorelle Giussani non l’avessero “recuperato” e rivisitato con il “fattore k” per il popolarissimo antieroe dei fumetti.

Jane Fonda, sul set di Diabolik, di fatto imponendolo a Bava. Per Eva Kent si erano avvicendate tra le altre Catherine DeNeuve prima di Marisa Mell. E se i due si stavano rivelando per quello che erano, bellocci senz’anima, malgrado l’impegno registico profuso, una qualche consolazione la davano le scelte azzeccate di Michel Piccoli alias Ginko e Ralph Valmont, personaggio creato appositamente per la sceneggiatura cinematografica e interpretato da Adolfo Celi. Discussioni interminabili e compromessi avevano infine partorito una sceneggiatura ibrida, con un Diabolik cattivo ma non troppo, morti edulcorate e relegate sullo sfondo e grandi scene di inseguimenti. Il suo amico Morgherini aveva lavorato alle scenografie ed era riuscito a dare un’atmosfera POP al film che non era niente male, ma in definitiva, Danger Diabolik (questo il titolo previsto per l’uscita nei cinema) era stato per Mario un’occasione persa.

Case e palazzi cominciavano rapidamente a prendere il posto della campagna. Mario era sceso a Porta Nuova e stava cercando trafelato un Taxi per raggiungere la troupe per gli ultimi ciak. Un ultimo sforzo e si sarebbe lasciato alle spalle una così travagliata produzione. Sul sedile del treno aveva dimenticato, senza neppure averlo sfogliato, “il cuore di fuoco” numero 88 di Diabolik.

Dal finestrino del treno, il paesaggio cambiava velocemente, come in un film, come le pagine di una storia a fumetti, quella che avrebbe comunque portato a termine non appena arrivato a Torino, dove lo aspettava la sua troupe per girare l’ultima parte degli esterni. Strano il destino, dove tutto era cominciato, in qualche modo, almeno per lui, tutto sarebbe finito. Sì, perché si ricordava bene tutta quella storia del killer che alla fine degli anni ’50 aveva tenuto con il fiato sospeso tutt’Italia e la cui triste popolarità aveva addirittura trovato ampio spazio sui quotidiani stranieri. Tutto era iniziato il 25 febbraio del 1958 con il ritrovamento del cadavere di un operaio della Fiat nel quartiere popolare di Vanchiglia, il borgo del fumo come lo chiamavano i torinesi, in via Fontanesi. La mattina dopo la Stampa di Torino si era vista recapitare una lettera firmata da “Diabolich” che, con enigmi e giochi di parole, rivendicava l’omicidio del giovane meridionale. Il serial killer non aveva in realtà inventato nulla di nuovo perché nome (identico ma senza “h” finale) e modi di agire alla ricerca dell’omicidio perfetto li aveva praticamente copiati dal

Danger Diabolik ebbe un buon successo di pubblico ed è considerato oggi come uno dei migliori esempi di film Pop degli anni sessanta. È stato “citato” dal regista Nathaniel Hörnblowér nel video Body Movin’ dei Beastie Boys (versione remix di Fat Boy Slim).

Mario Bava non realizzò mai il sequel di Diabolik anche se De Laurentis glielo propose: “Mi ha chiamato, gli ho fatto dire che sono ammalato, invalido a letto, permanentemente” dichiarò il regista.

Diabolik fumetto è ormai un’icona mondiale della nona arte; continua a vivere le sue avventure mese dopo mese in edicola, su miriadi di oggetti di merchandising e cartoons per i più piccoli. Nel 2012 festeggia, sempre a fianco della bellissima Eva, i suoi primi 50 anni.

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“Il perché noialtri non avessimo il viso ustionato da lampade generose e non affollassimo i negozi alla moda alla ricerca dell’ultimo modello di qualsiasi cosa è una domanda a cui non so rispondere, quello che ci guidava era pura passione per l’amicizia, la condivisione e un’abbondante dose di eccentrico individualismo.” Da “20 negli 80” 2011 (edizioni Vis Vitalis)

Lascio cadere il libro. Questa frase mi ha letteralmente pietrificato... Im-

mediatamente tornano a riaffiorare ricordi che credevo irrimediabilmente cancellati. Suoni e colori ritornano nitidamente, portando con se tutte le emozioni provate allora e ricomincio a sognare. Ritorno a leggere per alimentare la memoria rediviva e di nuovo mi fermo incuriosito; la causa scatenante che ha spinto l’autore a scrivere è stato un film! La cosa si fa sempre più interessante... Può un film dare vita ad un libro? La risposta è si a quanto pare. Quindi, finalmente appagato, mi addormento fra dolci re-

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miniscenze New Wave. Il giorno dopo mi precipito in videoteca, devo trovare quel film ma non è impresa facile. Si tratta di un film girato a Torino nel 1985 da Vincenzo Badolisani, il titolo è “I Ragazzi di Torino sognano Tokio e vanno a Berlino” praticamente introvabile, narra la leggenda che sia stato trasmesso da qualche rete privata in programmazione notturna e in qualche proiezione eroica da cineclub da combattimento, poi nulla più. Mi affido alla rete disperato, dove trovo recensioni devastanti e definitive ma vado


speranza. Un ignoto personaggio che si presenta come “Clay Cabiria” dice di aver letto il mio appello e rivela di possedere una copia digitale del film che sarebbe felice di donarmi gratuitamente. Eureka! Breve scambio di coordinate per fissare l’appuntamento davanti ad una buona birra e poi finalmente l’incontro. Mi trovo davanti ad un autentico cinefilo che la birra rossa rende ancor più loquace e disponibile; infine mi dona un dvd, credo masterizzato per l’ennesima volta che io ricevo come una reliquia, quindi ancora eb-

bro per le abbondanti forniture alcoliche corro a casa famelico per la visione tanto desiderata. Vedo il film con ingordigia e immediatamente capisco tutto; il lavoro di Badolisani, vilipeso e dileggiato, mediocre dal punto di vista tecnico e recitativo ha però un valore antropologico incommensurabile, è probabilmente l’unica testimonianza di costume fedele e appassionata di un periodo magico, quello della scena Wave torinese, che negli anni ‘80 ha raggiunto livelli altissimi in chiave di creatività artistica e musicale. Il tempo ci dirà chi ha ragione!

Testi e layout: P.Palù

oltre, devo vederlo assolutamente! In qualche forum ne ritrovo il fugace passaggio, sempre condito da impietosi giudizi negativi ma del film non c’è traccia, non risulta neanche nel database dei film girati a Torino e la cosa mi getta nello sconforto; quale capolavoro di bruttura sarà mai questo film per non essere neanche considerato degno di menzione nel serioso e documentatissimo sito? Mistero... Poi quando ormai sto per gettare la spugna un messaggio altrettanto misterioso su Facebook riaccende la

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PORFIRIO VILLAROSA

Esta é la cancion de Porfirio Villarosa che faceva el manoval alla Viscosa PORFIRIO! che, me conosse? Conoscete Porfirio Villarosa dalla bocca fascinosa lo credevano spagnolo o portoghese, egli invece è torinese era un rude e modesto terrazziere faceva il suo mestiere ch’era un piacere Ora invece Porfirio Villarosa todo el giorno se reposa ogni diva dello schermo che lo vede dice t’amo e lui ci crede e così per salvarsi un po’ le spese lui deve divorziare tre volte al mese! Olé olé, Porfirio Villarosa che faceva el manoval alla Viscosa col suo sguardo conturbante egli é l’oscar degli amanti quante donne ha conquistato non se sa Ed un bel dì Porfirio Villarosa abbandona su due piedi la Viscosa bello più di Valentino, prediletto dal destino s’è sposato ed or la grana lui ce l’ha Porfirio, Porfirio alle donne cosa fai tutte quante tu le inguai, come mai, come mai Porfirio, Porfirio alle dive sai piacer, qualche cosa devi aver come fai, come fai

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Olé, olé, Porfirio Villarosa è soltanto più un recuerdo la Viscosa quante volte s’è sposato, tante volte ha divorziato ed ora fa l’innamorato di Zaza… Che cannone quel Porfirio Villarosa che faceva el manoval alla Viscosa

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ph: Livio Ninni©

ph: Livio Ninni©

Global Warning by Ninja1+Mach505 Il messaggio di quest’opera è sufficientemente chiaro: il tempo stringe e la Terra, così come noi, ha bisogno di un rapido cambiamento attitudinale da parte nostra. Le due immagini sono state scattate da parti diametralmente opposte circondanti la vasca, così come sono due i modi di osservare il problema: in maniera drammatica, contemplando il nostro pianeta mentre viene distrutto dalle nostre stesse mani, e in maniera attiva, dando un messaggio forte e un consiglio per il futuro. Qual miglior posto per far da cornice se non la gabbia dell’orso in un ex zoo? Truly Design, a cominciare dal 2003, nasce come una tradizionalissima crew di graffiti, unendo quattro amici che avevano altre passioni in comune: illustrazione, grafica, pittura tradizionale e altre forme d’arte. La crew è presto divenuta una fucina di idee che sfidava i confini tradizionali dei graffiti, sviluppando la collaborazione, fino alla nascita di uno studio vero e proprio di comunicazione visiva nella natìa Torino. Le capacità complementari dei quattro amici hanno dato luogo a un calderone di arte eclettica. Truly Design è: Mauro149, Rems182, Ninja1 e Mach505.

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