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Web-magazine di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

L’OPPIO DEI POPOLI

Numero 98 Settembre 2021


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Confini Web-magazine di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Numero 98 - Settembre 2021 Anno XXIII Edizione fuori commercio

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti - Cristofaro Sola +

Hanno collaborato:

Gianni Falcone Roberta Forte Lino Lavorgna Sara Lodi Giuseppe Marro Antonino Provenzano Fausto Provenzano Angelo Romano Cristofaro Sola

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Contatti: confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Sara Lodi e Gianni Falcone

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EDITORIALE

I POPOLI DELL’OPPIO Strana coincidenza che i Talebani siano, allo stesso tempo, tra i fondamentalisti più accaniti e tra i maggiori produttori di oppio al mondo. Con loro, guarda caso, gli iraniani con i loro ayatollah e i pachistani dell'omonima Repubblica islamica. I tre Paesi insieme formano la cosiddetta "Mezzaluna d'oro", ossia il maggior cartello mondiale di produzione dell'oppio. Insomma i popoli dell'oppio (e dell'eroina e della morfina). Che ne direbbe Marx che, nel 1843, scrisse: "Il fondamento della critica irreligiosa è: l'uomo fa la religione, e non la religione l'uomo. Infatti, la religione è coscienza di sé e il sentimento di sé dell'uomo che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso. Ma l'uomo non è un'entità astratta posta fuori dal mondo. L'uomo è il mondo dell'uomo, lo Stato, la società. Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto. La religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo point d'honneur spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo solenne completamento, il suo universale fondamento di consolazione e giustificazione. Essa è la realizzazione fantastica dell'essenza umana, poiché l'essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque, mediatamente, la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l'aroma spirituale. La miseria religiosa è insieme l'espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l'oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale. L'esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l'esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione, dunque, è in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l'aureola." E' comunque innegabile la correlazione tra un certo modo di intendere l'Islam e l'oppio. Ma come si conciliano Sharia e oppio? La prima proibisce alcol, droghe, tabacco e gioco d'azzardo e prevede pene severe per i trasgressori: dal taglio delle mani a quello della testa. Alcuni esegeti sottilizzano che il Corano proibisce solo il vino per l'effetto inebriante e, quindi, le droghe sarebbero comprese nella proibizione solo per deduzione. Fatto sta che i Sufi erano definiti "mangiatori di hashish" per l'uso smodato che ne facevano con motivazioni "mistiche" e che il "Vecchio della montagna" nutriva i suoi "assassini" con la stessa droga.


EDITORIALE

Ed anche per dire che gli afgani, grandi coltivatori di papavero bianco, da cui ricavano l'oppio, lo consumano normalmente dandolo persino ai neonati per calmarli quando piangono troppo e che a molte milizie islamiche venivano e vengono fornite droghe per incrementarne lo sprezzo del pericolo. Difficile quindi dare una risposta soddisfacente al quesito. Resta la contraddizione tra fondamentalismo religioso e comportamenti. Come restano tutte le contraddizioni tra religioni e violenza, tra fede e prevaricazione. Fatti salvi buddismo e taoismo. Angelo Romano

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L’OPPIO DEI POPOLI Ne è passato di tempo da quando Marx ebbe a scrivere quella frase, nota ai più, 'La religione è l'oppio del popolo'; un'espressione con la quale, così com'è, è lecito pensare che il filosofo tedesco abbia voluto esprimere un giudizio non solo verso i credi dello spirito ma anche verso le istituzioni che sulla Terra li rappresentano, accomunandoli tutti in una valutazione che si sostanzia da sola: l'oppio, consumato attraverso il fumo, ottunde la mente e fa dormire. Un significato dal quale non si sono certo discostati quei soggetti che negli ultimi centosettant'anni l'hanno pronunciata o parafrasata. Soggetti, fra gli altri, del calibro del sacerdote anglicano Charles Kingsley, scrittore e docente, o del certamente laico Vladimir Il'iè Ul'janov, in arte Lenin. In realtà, il ragionamento dell'uomo di Treviri, espresso nell'introduzione de 'Per la critica della filosofia del diritto' di Hegel, è stato un tantino più complesso perché egli non solo non critica la religione che considera teoria generale del mondo, realizzazione fantastica dell'essenza umana ma la ritiene anche 'l'espressione della miseria reale' e la protesta contro di essa, 'il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l'oppio del popolo.' Quindi, necessaria per sopportare il dolore di disagi e angherie. Poi, passaggio non da poco, aggiunge, che: 'Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale.'. E ciò per rendere giustizia (!!) all'inconsapevole motivatore del comunismo. Semmai, a dirla tutta, l'unico pericolo che Marx individua nella religione è che l'uomo, con l'idea di Dio, sia portato a non ravvisare sé stesso come protagonista del processo storico. In sostanza, egli vede nella religione e nelle sue istituzioni terrene realtà ed azioni ineludibili, inalienabili, imperiture che, nate con l'uomo, lo accompagnano utilmente nel corso della sua esistenza, in saecula saeculorum. Ma, non poteva certo immaginare che, a distanza di poco meno di due secoli dalle sue considerazioni, una tra le maggiori istituzioni religiose si avvitasse su sé stessa sovvertendo due millenni di dottrina in un contesto, nel mondo occidentale, di una desertificazione spirituale che non trova riscontro nella storia dell'essere umano. Né poteva supporre che altre istituzioni, altri soggetti, contestualmente si adoperassero a ché, sovvertendo il pensiero marxiano e ribaltando il paradigma, inducessero l'uomo nella condizione di drogato permanente, confinato in un'opprimente realtà, inesorabile, della quale in buona parte egli deve pure sentirsi angosciato colpevole. Dicevo dell'istituzione religiosa. È innegabile che la discendenza della parabola per la Chiesa Cattolica Apostolica Romana sia iniziata con la fine del Concilio Ecumenico Vaticano II. Oddio,


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ovviamente queste non sono mie considerazioni bensì appartengono al Papa emerito, Benedetto XVI, che nel suo libro, 'La mia vita', afferma senza mezzi termini che la riforma liturgica emersa da quel concilio, tesa a recepire la 'modernità', sia stata di 'inaudita' rottura con la tradizione millenaria, fino al punto di banalizzarsi e banalizzare la stessa liturgia, la dottrina e persino l'esistenza dell'istituzione. Non mi dilungo sull'esemplificazione dei cambiamenti perché gli attempati come me li hanno presenti mentre ai giovani, cosa triste, non interessano. L'altro aspetto che il Papa emerito pone in evidenza è che quell'evento è sostanzialmente servito ad alimentare la fantasmagoria del circo massmediale. Come a dire che l'aspetto al quale la Chiesa si è uniformata negli ultimi decenni dello scorso secolo è quello dello spettacolo. E non solo. Monolitica all'esterno per ben due millenni nonostante le lotte interne che l'hanno travagliata, malgrado le scissioni che l'hanno scossa, alla fine del secolo passato ha sostanzialmente inteso dividersi tra sedicenti 'conservatori' e asseriti 'progressisti' così da avallare formalmente il fatto che 'cattolici' si può essere all'interno di qualsivoglia espressione partitica. Di primo acchito, l'atteggiamento può anche apparire giusto e doveroso ma ciò, se da un lato ha depotenziato quelle forze che si opponevano alla suddetta desertificazione spirituale, dall'altro ha avallato altre forze le cui azioni hanno teso e tendono a sostituire il richiamo al trascendente in ogni impianto culturale con il solo falso demiurgo della tecnica e dell'edonismo competitivo. In pratica, parafrasando Solženicyn, ha costruito il cappio dove, in nome della liberalità e della 'modernità', ha infilato il collo. Quando il tracollo ha iniziato ad essere manifesto, ha provato a riempire le piazze facendo perno sui giovani ma, al di là dei grandiosi colpi d'occhio rappresentati dai Papaboys, altri pregnanti effetti non ha suscitato perché le chiese hanno continuato a restare vuote al punto da indurre l'amministrazione diocesana ad una loro, come dire, riorganizzazione territoriale, fatta di chiusure, trasferimenti e incarichi ad interim per la costante, concomitante diminuzione delle vocazioni. Ora, qualcuno pensa che un tal grado di disaffezione nei riguardi dell'istituzione sia derivato dal disdicevole comportamento di alcuni preti che hanno indugiato nelle forme più abiette del 'peccato della carne', che sono risultati preda della bramosia dell'avere, che alla comprensione e alla modestia hanno sostituito paradossale arroganza. Be', certo non ha aiutato, ma ciò che è risultato determinante per l'avvio del tracollo è la sempre maggiore scarsità di generale autorevolezza e di contraltari con i quali confrontarsi. La storia è ricca di notizie di Papi bestemmiatori, profittatori, ladri, con amanti a iosa e figli a profusione e, con loro, a scendere nella gerarchia ecclesiale, di analoghi comportamenti da parte di cardinali, vescovi e monsignori, priori, abati, semplici preti e miseri frati. Eppure, la loro presa sulla comunità non è mai venuta meno, persistendo quel binomio che ha retto le società sin dall'origine dell'uomo, fatto dal potere temporale e da quello spirituale, in accordo o disaccordo tra loro ma comunque esistenti per 'testimoniare' l'un dell'altro l'esistenza. L'ho già scritto in passato ma mi piace ricordarlo: circa trent'anni fa, il consigliere di Reagan, Francis Fukuyama, scrisse un saggio che ebbe vasta risonanza nel mondo e sollevò non pochi timori: 'La fine della storia e l'ultimo uomo', dove il politologo affermava che l'ordine

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capitalistico, basato sulla cancellazione di qualsiasi legame umano o sociale non mediato dal mercato, apparentemente tollerante di stili di vita e di opinioni politiche diverse, era ormai l'orizzonte ultimo dell'umanità. In sostanza, il politologo affermava che l'orizzontalizzazione della società, insieme alla sola dottrina liberista, aveva contribuito a far venire meno la figura del Principe, o del Popolo che dir si voglia, e in conseguenza quella del Potere spirituale. E l'una senza l'altra non si sostiene, non vi è democrazia, vi è caos, confusione, la fine della storia. Poi, alcuni anni dopo, lo stesso Fukuyama, non più consigliere, scrisse un altro saggio, molto meno noto del precedente, eppure risolutivo dell'analisi precedente: 'La grande distruzione. La natura umana e la ricostruzione di un nuovo ordine sociale' dove il politologo assicurava che l'uomo ha comunque dentro di sé la capacità di creare un'alternativa al suo destino apparentemente segnato. E non vi è altra premessa ad un tale cammino, asseriva, se non attraverso una sorta di ripristino di Ordini e Gerarchie. Tra poco, arriverò a toccare meglio quest'ultimo aspetto ma, intanto, a conclusione del ragionamento in atto è di tutta evidenza che, nel momento in cui le immagini delle autorità temporali hanno iniziato a sbiadire, parimenti lo stesso effetto ha colpito quelle spirituali. È mancato il contraltare sul quale fare presa in quanto, in via traslata, venendo meno il Principe, è venuto meno il Popolo. Perciò, è pressoché inutile, ritengo, aprire le porte della 'comunità dei fedeli' ad 'accompagnati', ai divorziati, ai gay, consentire la comunione senza digiuno e addirittura senza confessione, permettere sistemi di contraccezione. E, ancora, addirittura denegare l'assolutismo dei comandamenti sia pur mitigandolo con la maturazione delle persone. È inutile, ritengo, perché l'unico effetto che ciò produce è lo sconcerto dei fedeli audacia temeraria igiene spirituale tradizionali. Dopo due millenni di dottrina sull'intangibilità dei sacramenti, sulla negazione del genere gay considerato deviante patologia mentale, sul vincolo nel rapporto sessuale, sulle condizioni tassative per tornare nella Grazia di Dio, sull'obbligo morale, oltreché spirituale, del rispetto del dettato delle Tavole, non si può che restare sconcertati. E a restare tali sono soprattutto quei fedeli avanti con gli anni, quelli che avrebbero maggiore bisogno del conforto spirituale, sia per le traversie della vita che per quelle del corpo. Certo, anche i giovani necessiterebbero di un tale sostegno ma, allevati sotto l'insegna deificata della scienza e della tecnica e lanciati verso il miraggio cricetiano dell'edonismo competitivo, ne fanno volentieri a meno. Altro che oppio. Il destino di quel credo sembra purtroppo segnato e nemmeno i ripetuti, plateali slanci verso i 'reietti' del mondo ritengo possano sopperire alla mancanza di fedeli e di fede; tutt'al più, questi possono arricchire la variopinta coperta di Arlecchino, peraltro fatta di materiali vari, sotto la quale non giace un corpo bensì un insieme di membra sconclusionate. Ci sono categorie ma manca un popolo perché l'esigenza spirituale dell'uno, pur se differente nella motivazione da quella dell'altro, formi comunque quel tessuto connettivo morale che abbisogna, per ritrovarsi, di occasioni e di momenti di comunione nei luoghi deputati. E, del resto, nemmeno il sottomultiplo di popolo, la famiglia, assolve più alla funzione, come tante volte dalle pagine di questa rivista abbiamo amaramente rilevato.


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Quel che emerge, quindi, è un improbabile, sconsiderato insieme di soggetti per i quali la speranza da un lato è segno di debolezza mentre dall'altro è un sentimento sconosciuto in quanto presuppone aspettazione fiduciosa nella realizzazione, presente o futura, di ciò che si desidera. Del che, oggi, insieme ai presupposti formativi, mancano assolutamente le basi in quanto tutto deve essere riconducibile al 'qui' e 'subito': condizioni che, intuitivamente, non scacciano l'angoscia, anzi l'accrescono. Quindi, per tornare a Fukuyama, se le parole del politologo nel secondo saggio hanno un fondamento teorico di verità, in pratica la possibilità di un ripristino degli assetti tradizionali della società rasenta lo zero. E ciò, tutto lascia pensare, a seguito di un preciso disegno: l'uomo, sempre più solo, non confida più in un Dio che nemmeno conosce; le ancore di 'salvezza' offerte si limitano, come dicevo, alla scienza e alla tecnica per approcciare le quali, comunque, occorre correre e competere, in solitudine. Infine, con buona pace di Marx, non si pone certo la questione, che nemmeno vede, di essere motore della storia. Manca l'insieme e mancano le pulsioni dell'insieme, politiche, emotive, culturali. Certo, c'è l'Italia turrita, raffigurata su francobolli, onorificenze, monete, monumenti, passaporti e carte d'identità ma essa è ormai divenuta un ente quasi nominalistico, ombreggiato dall'azzurro drappo a dodici stelle, immersa in 'guerre tra bande' fatte articolate in accordi e disaccordi, scontri e confronti bilaterali e multilaterali, nazionali, comunitari ed extraeuropei, con un giudice di gara che redige di volta in volta le regole dell'incontro, paradossalmente delimitato da una vistosa riga bianca e contornato da attenti guardalinee. L'Ente Italia, è evidente, fa fatica a trovare una netta connotazione giuridica; al pari di altri Paesi si può dire, ma quest'ultimi beneficiano di un animo meno rinascimentale, meno inutilmente turbolento e frammentato e risultano maggiormente identitari come collettività nazionale. Già, perché qui da noi manca quella moltitudine che, raffigurata dall'abile penna degli storiografi, in altre parti continua ad assaltare la Bastiglia intonando la Marsigliese. Da noi, invece, si è persa traccia della schiera dipinta da Giuseppe Pellizza da Volpedo. Oddio, chiariamoci. Pur amandolo come mio prossimo, non credo nel popolo come motore di storia ma certo è che senza il suo conseguente assenso, procurato o spontaneo che sia, comunque rappresentato con toni opportunamente operistici, le azione delle élite si sarebbero concluse con un quartino all'osteria o appese ad un cappio. Però non c'è da temere: le società civili e democratiche non appendono più alcuno e Mastro Titta è andato da tempo in pensione. Tutt'al più, resterebbe il passaggio alla mescita ma, anche lì, non corriamo il rischio di incrementare il disdicevole uso di alcool perché, in ogni caso, le élite sono scomparse. La pialla della moderazione ha efficacemente compiuto la sua opera. Per cui, venendo a mancare le seconde, si è smarrito il fattore primo. Due emblematici interconnessi elementi, élite e popolo, spariti dai banchi del mercato della politica, intruppata nel politically correct e nel pensiero debole, consenziente a che le sue azioni non abbiano più come finalità il benessere della polis bensì la tranquillità e la redditività personale di soggetti terzi che nulla hanno a che vedere con la stessa polis; peraltro, senza avvedersi, la politica, che così facendo denega il suo ruolo e la sua funzione per farne un'umoristica quando non drammatica

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farsa. E così the people, senza élite a caratterizzarlo e motivarlo, è stato trasformato in consumatore, utente, follower, fruitore, avventore, cliente quando non evasore e inquinatore, bisognoso comunque di politiche attive. Non arrivo a immaginare le passive. Si vede, in ogni modo, l'attenzione che la semantica gli riserva al fine di individuarlo propriamente attraverso i suoi bisogni o le sue manchevolezze. Va be'. Non ho voglia di scherzare. In ogni caso, mancando un fattore che accomunasse le diversità come poteva essere quello religioso, il ruolo di 'pusher' è stato assunto da altri soggetti cambiando però le finalità della somministrazione: non più il potente analgesico spirituale quale 'espressione della miseria reale' e protesta contro di essa, non più 'sospiro della creatura oppressa'. No. I nuovi 'oppiacei' sono tesi a suscitare indignazione 'popolare', 'paura' collettiva, collera 'sociale', avversione comune: il Girolimoni d'occasione sbattuto in prima pagina. Non certo a fornire un calmante, una valvola di sfiato all'angoscia bensì ad accrescerla. Il popolo è scomparso ma resta la massa da indirizzare. In passato, mi sono già trovata a citare Noam Chomsky a proposito della metafora della 'rana bollita' e cioè dell'illusione dell'essere umano circa le sue presunte illimitate capacità di adattamento. Ma Chomsky, da grande scienziato cognitivista e teorico della comunicazione, ha anche affrontato, tra l'altro, la pervasività dell'informazione a cura dei massmedia. Egli asserisce che, oltre ad esserci un uso fraudolento delle informazioni, vi è un 'livellamento' conformistico degli stessi media, costituito dalla 'fissazione delle priorità'. Per l'insigne studioso, un certo numero di mezzi di informazione determina una sorta di struttura prioritaria delle notizie, alla quale i media minori devono più o meno adattarsi a causa della scarsità delle risorse a audacia temeraria igiene spirituale disposizione. Le fonti primarie che fissano le priorità, precisa, sono grandi società commerciali a redditività molto alta, e nella grande maggioranza sono collegate a gruppi economici ancora più grandi. L'obiettivo è quello che Chomsky definisce 'fabbrica del consenso', ossia un sistema di convincimento attuato coi mezzi di comunicazione di massa ritenuto dallo studioso molto efficace per il controllo e la manipolazione dell'opinione pubblica. Ad ogni buon conto, tratto da Media e Potere, una delle ultime opere dello scienziato, allego un significativo decalogo. Ora, non è da dire che Chomsky sia un pazzo visionario; altrimenti il prestigioso M.I.T. non gli avrebbe certo consentito di tenere cattedra presso di sé, né autorevoli istituzioni gli avrebbero conferito eclatanti riconoscimenti e tributato palesi apprezzamenti. Per cui, stabilita la chiave di lettura, prendiamo ad esempio la cessata operazione dal nome di Enduring freedom, Libertà duratura, condotta da vent'anni (sottolineo vent'anni) a questa parte in Afghanistan dagli USA, insieme a Gran Bretagna, Italia, Francia, Germania, Canada, Australia e Polonia, con il contributo militare di Albania, Belgio, Croazia, Danimarca, Irlanda, Lituania, Norvegia, Nuova Zelanda, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia e Svezia. Inoltre, fra i paesi islamici che hanno dato una diretta collaborazione troviamo il Bahrein e la Giordania mentre l'Uzbekistan ha fornito le basi logistiche. Ma la collaborazione più importante sembra essere stata quella del Pakistan. Vent'anni, dove uno schieramento di forze 'da paura' non è riuscito ad aver ragione di un numero


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di talebani combattenti oscillanti tra i 6.000 e i 12.0001, collocati prevalentemente nel sud del Paese. È superfluo sottolineare che il noto epilogo dimostra da sé la vacuità del nome della ventennale operazione. Almeno, la presenza russa, durata circa dieci anni, aveva un senso: si basava su vecchi rapporti tra i due Paesi risalenti addirittura al 1919 quando il governo del re Amânullâh Khân fu il primo a riconoscere il regime bolscevico instauratosi a Mosca dopo gli eventi della rivoluzione d'ottobre, ricevendone in cambio sostegno e appoggio durante la terza guerra anglo-afghana: conflitto che comportò il definitivo affrancamento dell'Afghanistan dall'influenza coloniale britannica. Vent'anni di lotta contro guerriglieri, in precedenza sotto il nome di mujahidin, sostenuti in tutti i modi dalle società civili e democratiche per il loro impegno combattente contro i biechi bolscevichi, negatori delle libertà e fautori di riforme in netto contrasto, si pensi, con i dettami e le prescrizioni coraniche, come la 'liberazione' della donna, la sua istruzione, l'abolizione del burqa, un efficiente sistema scolastico, una funzionale rete viaria, un'efficace pubblica amministrazione, ad opera di un governo, è ovvio, di stampo nettamente socialista. Quando è troppo, è troppo e a 'mali estremi' è stato giusto e doveroso contrapporre 'estremi rimedi': si dice che i campi di papavero nelle zone controllate si estendessero a perdita d'occhio e che la 'produzione' di oppio (neanche a farlo apposta), con ampio beneplacito, sia 'andata alle stelle' al fine sostenere finanziariamente lo sforzo di opposizione alla tracotanza bolscevica. Poi, dopo l'uscita di scena dei russi, l'Afghanistan conobbe dodici anni di travagli interni: le forti tensioni tra i comandanti dei mujaheddin portarono alla nascita dei taliban, una milizia composta da giovani afghani di origine pashtun provenienti dalle scuole islamiche del Pakistan e da mujaheddin delusi dai loro comandanti. In seguito, i finanziamenti derivati dal traffico degli oppiacei consentirono ai talebani di acquistare gli armamenti con cui condurre una guerra civile, conclusasi nel 1996, con la presa di Kabul e la nascita dell'Emirato Islamico dell'Afghanistan. È inutile sottolineare che in quel periodo vennero cancellate le 'turpi' riforme. Eppure, fino al 2001, nessuno rilevò alcunché nella ri-trasformazione afgana. Solo dopo l'11 settembre, e alla luce di prove inconfutabili che individuavano nei talebani e soprattutto nell'organizzazione terroristica del miliardario Osama Bin Laden gli artefici di sanguinosi attentati, gli USA, di concerto con la comunità internazionale, diedero vita all'offensiva militare. La lotta al vigliacco terrorismo divenne l'imperativo categorico, l'impegno nel quale profondere ogni risorsa, l'obiettivo principe da debellare. Un imperativo, un impegno ed un obiettivo che, di lì a breve, avrebbero inglobato l'Iraq, spudorato detentore di ordigni di distruzione di massa, talmente bene ammucciati, avrebbe detto Camilleri, che dopo diciotto anni non sono ancora venuti fuori. Relativamente all'Afghanistan, sono passati due decenni in armi: da parte USA sono stati spesi oltre 1.000 miliardi di dollari. La Gran Bretagna ne ha sborsati 30, la Germania 19 mentre la quota 2 dell'Italia è ammontata a quasi 9 miliardi di euro . Nel complesso, l'impegno finanziario delle forze in campo è assommato a 2.313 miliardi di dollari. Le vittime del lungo conflitto da parte Usa hanno totalizzato 3.846 morti fra i contractor, 2.461 decessi fra i soldati statunitensi a cui vanno

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aggiunti 1.144 soldati in forza agli eserciti di altri Paesi. Di questi 53 sono italiani. Le vittime civili, 3 invece, sono state quantificate in ben 47.245 . Forse, danni collaterali. L'epilogo ci è tristemente noto, ad ulteriore testimonianza dell'inutilità della vicenda. Ma ancor più triste è il contenuto dell'intervista rilasciata dal veterano americano Miles Vining e pubblicata su Repubblica: R. "[…] ... Ma d'altronde, l'America ha sempre gestito male la sua presenza in Afghanistan". D. "Cosa intende?" R. "Non abbiamo perso sul campo di battaglia, ma negli uffici di governo: perché non ci siamo mai occupati della corruzione endemica nella società afghana. Per dire, i soldati combattevano con coraggio. Ma i comandanti li derubavano d'ogni cosa, i rifornimenti sparivano, non gli arrivavano nemmeno divise e cibo. Nella società civile lo stesso. Corruzione ovunque, a partire dal sistema giudiziario: in tribunale vinceva sempre chi pagava di più i giudici. Anche per questo i talebani hanno seguito: quando giudicano sono crudeli, certo. Ma hanno una loro morale e fanno giustizia coerenti col loro credo. Non li giustifico, sia chiaro, sono nemici della democrazia. Ma noi non abbiamo costruito una società civile in grado di stare in 4 piedi da sola. E senza quella, non c'è guerra vinta che tenga". Ora, c'è già chi pensa di mettere a frutto lecito le sempre presenti colture di oppio cercando di indurre i talebani a vendere il prodotto del sudore della loro fronte alle big pharma. Non credo che un'operazione del genere vada in porto per una questione di 'prezzo' ma comunque è indicativa del fatto che, chiuso un capitolo, se ne può aprire un altro: ma sì, parliamoci con questi talebani, e chissà che l'Afghanistan tra non molto non possa diventare come il Vietnam del quale ha seguito pedissequamente il copione, compresi gli attentati in aeroporto: divenire, cioè, un'ambita meta turistica, destinazione di importanti flussi di visitatori. Alla fin fine, ognuno ha le sue culture, basta guardare la Cina che da Paese con una dittatura dichiaratamente comunista ha sposato il turbo capitalismo, inalbera miliardari di numero di poco inferiore agli USA, è ricercata meta di vacanze e ambito partner negli affari. Peraltro, recenti indagini affermano che se nel '90 la percentuale di PIL mondiale proveniente da Paesi con scarsa o punta democrazia era di circa il 15%, tra un paio d'anni è stimata attorno al 50%. Di spazio ce n'è. Potrei chiudere qui ma gli officianti che all'incenso nei turiboli hanno sostituito l'oppio ce ne sono molti e proliferano in continuazione. E da noi, il sentimento di emulazione e uno stato di fantasia non fanno certo difetto. Lo so, è una mia 'fissa' ma sono sempre dell'avviso che nella nostra beneamata terra il 'grande teatro' abbia aperto i battenti all'incirca trent'anni fa e, sulla scorta dei ripetuti, grandi successi, continua indefesso a sfornar commedie, scritte ed interpretate da vecchi e nuovi attori. Ad esempio, 'moralizzazione' che avrebbe dovuto rigenerare il Paese dopo mezzo secolo di depravazione, sembra non sia ancora riuscita a debellare la corruzione che nelle more pare addirittura polverizzata. 'Competizione', quella parola magica che, cancellando garanzie e tutele, avrebbe dovuto portare benefici economici e sociali a profusione, finora ha arrecato solo precarizzazione e disperazione. 'Razionalizzazione della spesa' che avrebbe dovuto cancellare le uscite inutili e improficue, ha visto schizzare il deficit verso vette vertiginose, a prescindere dal Covid; ha osservato inerme la nascita delle Regioni come centri autonomi di spesa così da creare 'pozzi senza fine', peraltro a disdoro


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dell'omogeneità dei servizi; continua a consentire la permanenza in essere di oltre mille Enti dichiarati inutili alla modica cifra di 13 miliardi all'anno nonché l'esistenza, al costo di 650 milioni annui, di milleduecento partecipate di enti territoriali che, per legge, dovrebbero essere chiuse 5 da tempo . La 'lotta all'evasione', poi, ha visto vari remake: l'Agenzia delle Entrate, per sua stessa ammissione, dei 900 miliardi di cartelle emesse negli ultimi dieci anni, ne dichiara incassabili grosso modo solo un'ottantina6 mentre le casse degli istituti di credito lussemburghesi e olandesi sembra contengano oltre 7.000 miliardi buona parte dei quali derivanti da evasione, si crede proveniente in parte dall'Italia7. Però, che magnifico effetto producono sugli spettatori le altisonanti dichiarazioni di crociate contro il torvo evasore. Per non parlare, infine, della 'salvaguardia ambientale', un tema estremamente caro alle sensibili coscienze green: i tanto decantati termovalorizzatori sono di là da venire, la raccolta differenziata è a macchia di leopardo quando non una farsa che vede la consegna delle istruzioni ma non i cassonetti, non esiste una campagna di sensibilizzazione e la campagna contro la plastica è stata boicottata da chill fetient 'e virus; in compenso, in piena pandemia, è stata tentata la sostituzione del parco auto con monopattini elettrici e biciclette. Dice un'amica che a vedere uomini nella posa pliè da danza classica e col mento in alto, si atrofizzano le ovaie. Ma il Covid, nei suoi effetti perversi, ha fatto di peggio: ha sovvertito il funzionamento delle sinapsi fino a far cortocircuitare l'ordinamento del pensiero e l'uso della lingua, in un indisciplinato guazzabuglio senza capo né coda di bizzarrie espresse e di realtà taciute. Ma che vogliamo farci, mi son detta: l'assurdo non conosce dogane e non paga dazi. E poi, diciamola tutta, da quando lo spirito critico, formatosi alla dura scuola del sapere e del pensare, è stato strumentalmente polverizzato in una miriade di altisonanti espressioni di distinguo tratte dal Bignami e male interpretate, il ridicolo dilaga. Ma pochi sembrano avvedersene lasciando campo libero ai redivivi, più ottusi seguaci di Giano della Bella. Basti dire che, nel periodo, abbiamo appreso i motivi del NO alle Olimpiadi in Italia nel 2024. Sembra che l'ex deputato pentastellato Di Battista, nelle sue 'memorie' pubblicate da Rizzoli sotto l'aulico titolo 'Meglio liberi - Lettera a mio figlio sul coraggio di cambiare' abbia affermato che, contrario alle Olimpiadi, non essendo sicuro di come la pensassero i romani, chiese al meccanico Massimo che "… radunò una decina di persone: l'edicolante, il fruttivendolo del quartiere, un paio di parenti, un pensionato. … Così, quasi in modo solenne, domandai cosa ne pensassero delle Olimpiadi a Roma. Le loro risposte furono molto aspre, e non posso riportare le parole esatte per evitare querele. A ogni modo uscii dall'officina, dal mio 'soviet' personale tra bulloni, pezzi di ricambio e olio, e mandai un messaggio a Virginia: 'Sulle Olimpiadi nessuna esitazione, linea durissima. La stragrande maggioranza dei romani sta dalla nostra parte". Siamo del gatto direbbero a Pisa. Ma il clou del periodo è la gestione della pandemia. Non sembra che la sua trattazione 'informativa' e 'dispositiva' abbia pedissequamente osservato le regole dell'allegato catalogo di Chomsky? Tra l'altro, pare che ogni voce dissenziente, per quanto autorevole, sia stata oscurata. Mi dicono che persino Facebook abbia bannato voci e video

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divergenti dalla cacofonia informativa-espositiva-dispositiva. Ma il 'pezzo forte' sembra essere quello che stiamo vivendo in questi giorni: il tanto citato green pass ottenibile a seguito della vaccinazione. Premesso che, per mia libera scelta, già da tempo ho fatto prima e seconda dose, mi sono presa la briga di rileggere la Costituzione dove, nell'art. 32 si precisa che "Nessuno può essere obbligato 8 a un determinato trattamento sanitario" in mancanza di una legge che lo imponga." . Questo significa che non si può accusare il non vaccinato di danneggiare gli altri con la propria scelta di non vaccinarsi. Non esiste, infatti, alcuna responsabilità per conseguenze che derivano dall'esercizio di un diritto costituzionalmente valido. Ciò che solamente esiste è il dovere di comportarsi responsabilmente e di osservare, quindi, nel caso di specie le norme di prevenzione. Ne consegue che se i diritti di libertà legittimano scelte diverse e addirittura opposte a quelle che si vorrebbero imporre, il dovere di prevenzione - mascherina e distanziamento - applicabile a tutti, vaccinati e non, si basa sul principio giuridico secondo il quale 'non impedire un danno che si ha il dovere di bloccare equivale a provocarlo'. Dal che l'eventuale censura. Ora, la domanda è: perché lo Stato non converte il diritto di non vaccinarsi in un obbligo a farlo? Delle due l'una: o quei danni non sono così gravi, oppure i vaccini che dovrebbero evitarli non offrono sufficienti garanzie a uno Stato che volesse imporli per legge. Comunque, mi sembra che qualcosa non torni in questo gioco della persuasione nei confronti di persone che, per il semplice fatto di aver deciso di non vaccinarsi, sono accusate di essere prive di qualunque senso morale. In esito al decalogo, peraltro. Stavolta, mi fermo veramente qui mentre volute di fumo mi turbinano attorno. Anche se non trovo una nota di speranza per concludere. Un momento … mi sovviene l'opera cinematografica del regista Hayao Miyazaki, 'Si alza il vento', dove il protagonista avrebbe voluto fare l'aviatore ma a causa di una forte miopia finisce per fare il progettista e 'creare' i famosi 'Zero' che tanto danno hanno arrecato nella II guerra mondiale. Quel titolo, ad onor del vero, è stato tratto da una poesia di Paul Valery9 , scritta dopo la I guerra mondiale, mentre attorno a lui turbinano gli eventi che hanno portato alla II. E, in effetti, si alza il vento … bisogna tentare di vivere. Roberta Forte Note: 1. https://it.wikipedia.org/wiki/Talebani 2. Sole 24 Ore – Mondo - 13 agosto 2021 3. https://www.ilgiorno.it/mondo/guerra-afghanistan-morti-soldi-1.6750580 4. La Repubblica – Esteri – Anna Lombardi – 28 agosto 2021 5. Messaggero – Primo Piano – il Rapporto della Corte dei Conti – 20 agosto 2021. 6. https://www.liberoquotidiano.it/news/economia/13509290/evasione-fiscale-cartelle-non-riscosse-2000oltre-900-milardi.html 7. La Repubblica – Affari e Finanza – 14 ottobre 2019 8. II capoverso – 1.a riga 9. Le cimetière marin - traduzione di Giancarlo Pontiggia, in: Aurora, Cantico delle colonne, Il cimitero marino, Palma; introduzione di Valerio Magrelli, commento di Antonietta Sanna, Milano: TEA, 1995


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ALLEGATO LE DIECI REGOLE DELLA MANIPOLAZIONE MEDIATICA 1. La strategia della distrazione L'elemento primordiale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel deviare l'attenzione del pubblico dai problemi importanti e dei cambiamenti decisi dalle élite politiche ed economiche, attraverso la tecnica del diluvio o inondazioni di continue distrazioni e di informazioni insignificanti. La strategia della distrazione è anche indispensabile per impedire al pubblico d'interessarsi alle conoscenze essenziali, nell'area della scienza, l'economia, la psicologia, la neurobiologia e la cibernetica. Mantenere l'Attenzione del pubblico deviata dai veri problemi sociali, imprigionata da temi senza vera importanza. Mantenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza nessun tempo per pensare, di ritorno alla fattoria come gli altri animali. 2. Creare problemi e poi offrire le soluzioni Questo metodo è anche chiamato "problema- reazione- soluzione". Si crea un problema, una "situazione" prevista per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio: lasciare che si dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, o organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che il pubblico sia chi richiede le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito della libertà. O anche: creare una crisi economica per far accettare come un male necessario la retrocessione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici. 3. La strategia della gradualità Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, a contagocce, per anni consecutivi. È in questo modo che condizioni socioeconomiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte durante i decenni degli anni 80 e 90: Stato minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione in massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero state applicate in una sola volta. 4. La strategia del differire Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come "dolorosa e necessaria", ottenendo l'accettazione pubblica, nel momento, per un'applicazione futura. È più facile accettare un sacrificio futuro che un sacrificio immediato. Prima, perché lo sforzo non è quello impiegato immediatamente. Secondo, perché il pubblico, la massa, ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che "tutto andrà meglio domani" e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. Questo dà più tempo al pubblico per abituarsi all'idea del cambiamento e di accettarlo rassegnato quando arriva il momento.

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5. Rivolgersi al pubblico come ai bambini La maggior parte della pubblicità diretta al gran pubblico, usa discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione particolarmente infantile, molte volte vicino alla debolezza, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente mentale. Quando più si cerca di ingannare lo spettatore più si tende ad usare un tono infantile. Perché? Se qualcuno si rivolge ad una persona come se avesse 12 anni o meno, allora, in base alla suggestionabilità, lei tenderà, con certa probabilità, ad una risposta o reazione anche sprovvista di senso critico come quella di una persona di 12 anni o meno. 6. Usare l'aspetto emotivo molto più della riflessione Sfruttate l'emozione è una tecnica classica per provocare un corto circuito su un'analisi razionale e, infine, il senso critico dell'individuo. Inoltre, l'uso del registro emotivo permette aprire la porta d'accesso all'inconscio per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori, compulsioni, o indurre comportamenti... 7. Mantenere il pubblico nell'ignoranza e nella mediocrità Far sì che il pubblico sia incapace di comprendere le tecnologie ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù. "La qualità dell'educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza dell'ignoranza che pianifica tra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare dalle classi inferiori". 8. Stimolare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità Spingere il pubblico a ritenere che è di moda essere stupidi, volgari e ignoranti... 9. Rafforzare l'auto-colpevolezza Far credere all'individuo che è soltanto lui il colpevole della sua disgrazia, per causa della sua insufficiente intelligenza, delle sue capacità o dei suoi sforzi. Così, invece di ribellarsi contro il sistema economico, l'individuo si auto svaluta e s'incolpa, cosa che crea a sua volta uno stato depressivo, uno dei cui effetti è l'inibizione della sua azione. E senza azione non c'è rivoluzione! 10. Conoscere agli individui meglio di quanto loro stessi si conoscano Negli ultimi 50 anni, i rapidi progressi della scienza hanno generato un divario crescente tra le conoscenze del pubblico e quelle possedute e utilizzate dalle élites dominanti. Grazie alla biologia, la neurobiologia, e la psicologia applicata, il "sistema" ha goduto di una conoscenza avanzata dell'essere umano, sia nella sua forma fisica che psichica. Il sistema è riuscito a conoscere meglio l'individuo comune di quanto egli stesso si conosca. Questo significa che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un controllo maggiore ed un gran potere sugli individui, maggiore di quello che lo stesso individuo esercita su sé stesso.


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IL NODO DI GORDIO PROLOGO L'allegoria platonica nota come "Mito della caverna", da sempre, serve ai saggi per spiegare la complessità delle vicende umane ai tanti che, in virtù dei propri limiti, percepiscono la realtà in modo distonico, scambiando il grano per loglio e viceversa. Oggigiorno, però, le mistificazioni politiche e mediatiche consentono di elevare al rango di "saggi" una pletora di soggetti che, metaforicamente, ricordano i prigionieri incatenati nella famosa caverna, dando vita, quando pontificano da quella scomoda posizione, a una torre di Babele confusionaria più nefasta dei drammatici fatti distortamente narrati. Hanno un gran da fare, pertanto, i "veri saggi", con vista lunga, solide basi culturali, conoscenza di uomini, vicende e luoghi per esperienze dirette e non per "sentito dire" in quel vizioso circolo narrativo che distorce continuamente, fino a stravolgerle del tutto, storie già zoppicanti all'inizio della narrazione. Hanno un gran da fare, ma la loro è una battaglia persa in partenza: non vi è difesa immediata contro la tracimazione di un grande fiume in piena, che può solo suggerire i correttivi da adottare per impedire quelle future, cosa sistematicamente elusa, non essendo l'umanità adusa a trarre lezioni valide dalle esperienze negative: "La storia è maestra, ma non ha allievi", sosteneva Gramsci. La difficoltà oggettiva nel confutare le errate interpretazioni delle vicende umane, del resto, soprattutto quando siano retaggio di soggetti beneficiari di alti riconoscimenti culturali, è storia vecchia, ben spiegata da William Hazlitt, saggista inglese poco noto in Italia ancorché autore di pregevolissime opere, tra le quali spicca "L'ignoranza delle persone colte", pregna di quell'amaro sarcasmo tanto più efficace quanto più rivelatore di amare verità: "Le cose nelle quali eccelli veramente - sostiene Hazlitt - non contano perché [gli altri] non le possono giudicare. Il principale svantaggio di sapere di più e di vedere più lontano degli altri in genere è di non essere compresi. Una persona intellettualmente dotata tende a esprimersi per paradossi, il che lo colloca subito fuori dalla portata del lettore comune. […] La forza intellettuale non è come la forza fisica. Non puoi contare sulla comprensione degli altri se non entrano in simpatia con te. […] Certe persone non le batti mai. Qualunque cosa fai, loro la fanno meglio". Il saggio risale al 1822 e quindi al "lettore comune" si può aggiungere "spettatore televisivo", che formula le sue teorie in funzione della percezione empatica suscitata dai vari ciarlatani che si alternano nei talk show, che proprio per quanto sopra esposto oscurano i pochi capaci di disegnare un quadro veritiero delle problematiche discusse.

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IL DIFFICILE APPROCCIO La lunga premessa, quindi, serve ad arare il terreno per far percepire quanto sia difficile dissertare sull'oppio dei popoli, con evidente riferimento alla realtà contingente, senza correre il rischio di alimentare la già consistente torre di Babele, soprattutto se si abbia il buon senso e l'umiltà di non collocarsi sull'Olimpo che ospita i veri saggi, capaci di osservare le vicende umane da una prospettiva favorevole. Di certo l'impresa risultò molto facile a Marx, forte delle sue "verità assolute", che gli consentirono di associare la religione all'oppio, utilizzato come lenitivo dalle persone sofferenti per andare avanti, sia pure illusoriamente. Altrettanto facile è stata per i tanti pensatori che, dopo di lui, con analogo determinato rifiuto di qualsivoglia elemento sovrannaturale, ne ricalcarono le orme: Novalis, Heine, Kingsley, Lenin, a loro volta emulati da epigoni storicamente più vicini al nostro tempo, i cui nomi non val la pena citare, sia per la debole consistenza effettiva sia perché si correrebbe il rischio di trasformare questo articolo in un elenco telefonico. La geopolitica del nostro tempo, di fatto, riproponendo in modo drammatico l'eterno scontro tra Occidente e Oriente, pone i "pensatori" (e anche gli scienziati) di fronte al terribile dilemma se riconsiderare o meno l'approccio semantico con le religioni, che dello scontro costituiscono l'elemento fondamentale, accantonando definitivamente quelle formule cerchiobottiste che consentono di salvare capra e cavoli in ossequio al famoso detto di H. L. Mencken: "Il gregge è gregge e ha bisogno di un ovile". Mai come oggi sarebbe necessario dire al gregge che non esistono ovili sicuri nei quali trovare conforto e sedare le proprie paure e che tutto ciò che abbiamo incamerato a livello di formazione personale va messo in discussione e bisogna ripartire da zero in ogni campo, eccezion fatta per la scienza, che si evolve con processi diversi da quelli del pensiero e può essere oggetto di speculazione dottrinaria, anche in contrapposizione, solo tra quei soggetti convenzionalmente chiamati "scienziati", molto diversi dai tanti patetici figuri, politici e giornalisti compresi, che giocano a fare gli scienziati nei salotti televisivi e sui social. Sarebbe necessario, ma già il condizionale indica la titubanza, il dubbio, la perplessità. Il già citato Mencken, che in quanto a certezze assolute non era secondo a nessuno, nel celebre saggio "Il trattato sugli dei", asserisce testualmente: "La religione fu inventata dall'uomo, così come dall'uomo furono inventate l'agricoltura e la ruota, e in essa non v'è assolutamente nulla che giustifichi la credenza che i suoi inventori avessero l'ausilio di potenze più alte, terrene o d'altra natura. In alcuni suoi aspetti, essa è estremamente geniale, in altri di commovente bellezza, ma in altri ancora è così assurda da rasentare l'imbecillità". Cesellando poi il rapporto tra le varie religioni, crea un parallelismo disfattistico tra quelle indiane e il cristianesimo: "La vera patria delle apocalissi e delle escatologie è l'India. Si sono inventati più paradisi e inferni qui, che in tutto il resto del mondo, e la loro influenza è visibile in tutte le teologie moderne; la verità è che la teologia cristiana - come ogni altra teologia - non è soltanto contraria allo spirito scientifico, lo è anche ad ogni altro tentativo di pensiero razionale. [...] L'unico vero modo per conciliare scienza e religione è di istituire qualcosa che non sia scienza e qualcosa che non sia religione".


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Se il suo pensiero, poi, si può riassumere nella riflessione sulla teologia, ritenuta "il tentativo di spiegare l'inconoscibile nei termini di ciò che non vale la pena conoscere", il riconoscimento tributato al cristianesimo, "sola fra le religioni del mondo ad aver ereditato un contenuto estetico che la rende un'opera d'arte così potente da consentirle di sopravvivere alla sua stessa decadenza", si possono ben comprendere, come accennato all'inizio del paragrafo, i terribili quesiti che deve porsi qualsiasi intellettuale serio: è pronta l'umanità ad accettare l'idea che da polveri stellari ebbero origine, più o meno quattro miliardi di anni fa, i primordi vitali del genere umano? Tutta l'umanità, in egual misura e allo stesso tempo? In Occidente e Oriente? Se la risposta è "no" - e ovviamente non potrebbe che essere "no" - è giusto forzare la mano al di là delle mere riflessioni soggettive contenute in tanti saggi, bilanciate però da altre riflessioni di segno opposto? O bisogna rassegnarsi all'idea che una generosa illusione, per la moltitudine delle persone, sia da preferire a una negazione comunque preconcetta? Ciascuno può rispondere come meglio ritenga opportuno, a quest'ultimo quesito, in funzione della propria sensibilità, del livello culturale, dell'approccio con la vita e con il prossimo. Il "sì" e il "no", mai come in questo caso, hanno pari dignità e possono mettere sulla bilancia, in egual misura, ragioni più che valide, inevitabilmente destinate ad annullarsi reciprocamente. Le vicende umane, ovviamente, seguono un corso che prescinde dalla volontà dei singoli e quindi la cosa più sensata che si possa fare è tentare di rendere più comprensibile "ciò che accade". LO SHOCK AFGANO Siamo tutti scioccati per le tragiche notizie che giungono quotidianamente dall'Afghanistan, sempre accompagnate da immagini raccapriccianti. Gli eventi sono precipitati così velocemente da risultare per certi versi incomprensibili, anche alla luce delle notizie riportate dai media nei giorni immediatamente successivi alla partenza dei soldati statunitensi. Si è detto di tutto e di più, con "preoccupate" previsioni sulle possibili conseguenze del ritiro, cresciute d'intensità a mano a mano che i talebani conquistavano senza troppa fatica intere città. Giunti a una sessantina di chilometri da Kabul, il grido di allarme si è levato ancora più impetuoso in tutto il mondo: "Occorre intervenire subito; la capitale cadrà nel giro di tre-quattro mesi al massimo". "No - sentenziavano altri - se non si agisce in fretta per fermarli (nessuno diceva come fermarli, tuttavia), cadrà nel giro di due mesi!" Eccezion fatta per pochissimi analisti, quindi (tra i quali chi scrive, che aveva ampiamente previsto il repentino disfacimento dell'esercito afgano, vuoi per paura vuoi perché in massima parte solidale con i "confratelli" che avrebbe dovuto fermare), i capi del mondo, a cominciare da Biden, i soloni di Bruxelles, i direttori e gli opinionisti delle grandi testate con stipendi da favola, sono rimasti a bocca aperta quando i sessanta chilometri sono stati coperti in quattro giorni e i talebani si sono presi pure lo sfizio di non entrare subito a Kabul, per consentire ai soldati americani e a molti occidentali di svignarsela a gambe levate. Quello che è accaduto dopo, e sta ancora accadendo, è cronaca quotidiana. È perfettamente inutile, quindi, ribadire come il Paese sia precipitato indietro di venti anni, quanto siano estranei alla civiltà gli attuali detentori del potere, le atrocità commesse, la triste condizione delle donne,

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la sofferenza dei bambini, le complesse conflittualità interetniche tra le varie tribù e quelle più radicate che oppongono Sciiti e Sunniti, le ingerenze interessate delle potenze che con i talebani solidarizzano, i rischi connessi dall'alto numero di profughi: queste cose, tutto sommato, risaltano nei media, talvolta con servizi e commenti sui quali non vi è nulla da obiettare. Anche le responsabilità dell'Occidente, e degli USA in particolare, vengono diffusamente trattate con dovizia di particolari, collegandole a quelle che hanno determinato la nascita dell'ISIS (su CONFINI ne abbiamo parlato nel numero 40, gennaio 2016, pag. 4) e addirittura alla disastrosa campagna vietnamita degli anni Settanta, conclusasi con analoga ignominiosa fuga in elicottero dei diplomatici. Gli approfondimenti seri, quindi, per chi ne abbia voglia, non sono difficili da reperire e solo per facilitare il compito segnalo l'ultimo numero di "Limes", intitolato "Lezioni afghane", che mi sono sciroppato in rete prima dell'uscita in edicola (18 settembre): offre davvero una visione esaustiva della complessa vicenda, senza tralasciare il ruolo dell'Italia. Essendo il "come", quindi, ampiamente e ben trattato, ciò che risulta più utile, per "completare il discorso", è una visione d'insieme che consenta di comprendere "il perché" di certe cose. Per farlo, come sempre, occorre partire da lontano. ORIENTE E OCCIDENTE "Oriente e Occidente: nella storia del mondo, questo incontro non soltanto è d'importanza primaria ma rivendica anche un suo posto peculiare. Esso indica la direzione principale della storia, l'asse che si orienta sul corso del sole. Illuminato fin dai primi albori, è un modello che continua a svilupparsi fino ai giorni nostri. I popoli si presentano sull'antico palcoscenico e nell'antico intreccio con una tensione sempre nuova". Si potrebbe tranquillamente iniziare in questo modo, "oggi", un trattato che affronti le tematiche legate al confronto-scontro tra Oriente e Occidente. Il paragrafo citato, invece, risale al 1953 e figura all'inizio dello stupendo saggio di Ernst Jünger, "Il nodo di Gordio", che offre spunti di notevole interesse, proprio alla luce di ciò che sarebbe accaduto dopo, a riprova della grandezza e della lungimiranza di un uomo che sapeva guardare oltre gli steccati delle miserie umane e cogliere la vera essenza della storia. Dell'Oriente avverte "tutto il peso", restando colpito dai re persiani e dai loro satrapi, dagli scià e i khan, dai condottieri di immense schiere e colonne "sulle quali ondeggiano stendardi stranieri". Gli sconvolgimenti iniziati con l'invasione russa dell'Afghanistan (causa della nascita di Al Qaida) e proseguiti con quella americana; la crisi irachena mal gestita dai Bush padre e figlio (causa della nascita dell'ISIS); la guerra civile in Siria; l'esplosione del terrorismo fondamentalista; i terribili attentati negli USA e in Europa; i disordinati e drammatici flussi migratori; i ricatti di Erdogan; le ingerenze russe e cinesi, per lo più di natura economica; le sofferenze dei curdi e degli armeni; le prepotenze dei tiranni amici dei terroristi sistematicamente ignorate dai governi occidentali, adusi a celare la mancanza di coraggio nel prendere il toro per le corna dietro la comoda "ragione di stato", cinicamente espressa alla faccia delle tante vittime dei tiranni; tutte queste cose e molte altre ancora, che per noi rappresentano oggetto di quotidiane discussioni, studi, analisi, sono estranee a Jünger, che


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può solo fare affidamento, per le sue riflessioni, su ciò che vede in quegli anni e sul "passato". Nondimeno le nozioni di cui dispone bastano e avanzano per fargli dire ciò che noi avremmo scoperto a nostre spese: "Di fronte a queste immagini (luoghi e persone del mondo orientale, N.d.R.) impallidisce la minaccia di una sconfitta ad opera di genti a noi affini, di eguali in una guerra di popoli e perfino in una guerra civile. Con i neri dagli occhi obliqui, con i piccoli gialli sorridenti, con i cavalieri dalle ispide chiome, con i giganti dagli ampi zigomi, è un nuovo sole quello che spunta. Come statue di divinità straniere, essi si stagliano sulle colline, davanti alle loro tende, nel palazzo conquistato. Verso di loro sale il fumo dei grandi incendi simili a fuochi sacrificali; il sangue delle stragi, le urla delle donne violentate annunciano l'inizio del loro potere. I loro condottieri non somigliano ad Alessandro, il modello dei principi e dei comandanti occidentali; come per Gensis Khan, la gloria e la potenza per essi consistono nel non avere mai pietà". Eccolo citato, quindi, il nome di colui che ci "apre la mente", rivelandoci la vera essenza di un mondo che ancora oggi stentiamo a comprendere, solo da lui sconfitto proprio perché lo aveva ben compreso, a differenza di Calo XII a Poltawa, Napoleone a Mosca, Ernst Paulus a Stalingrado, ai quali si sarebbero aggiunti coloro che ci avrebbero provato dopo, con analoghi disastrosi risultati. Alessandro capì che prima di sconfiggere un grande re doveva sconfiggere "i grandi spazi" nei quali si avventurava e imporsi nel rispetto di regole ben precise, che trascendevano tanto la pur eccellente formazione militare quanto il nobile retaggio dinastico, arricchito dagli insegnamenti aristotelici. Capì queste cose e vinse. Secondo l'antica profezia, chi fosse stato in grado di sciogliere l'intricato nodo di Gordio avrebbe avuto il dominio del mondo. Nessun essere umano poteva riuscirvi, cimentandosi nell'impresa a mani nude, nemmeno Alessandro, che dopo un paio di inutili tentativi sguainò la spada e troncò il nodo con un fendente. "La spada così maneggiata - ci ammonisce Jünger - è spirituale: è lo strumento di una decisione libera e risolutiva ma anche di un potere sovrano. Il nodo racchiude la costrizione del destino, l'oscuro intreccio di segreti, l'impotenza dell'uomo di fronte all'oracolo. […] Nessun sovrano asiatico avrebbe potuto concepire l'idea di Alessandro, nessuno di essi avrebbe potuto prendere tale decisione. […] Come tutte le grandi immagini, il nodo di Gordio è sempre presente e attuale. In quanto simbolo del potere ctonio e dei suoi vincoli, si ripresenta ad ogni incontro tra l'Europa e l'Asia e ogni volta deve essere nuovamente tagliato. E ciò significa un incontro carico di fatalità". Già, un incontro carico di fatalità, nel mondo moderno bloccato dall'ipocrisia figlia dell'illuminismo, che impone all'uomo di giustificare con alibi menzogneri le azioni bieche, perché comunque la si giri, quando si attacca un popolo per sottometterlo, per piegarlo alla propria volontà, sempre di azione bieca si tratta. Occorre considerare, tuttavia, che se l'ipocrisia, anche malcelata, può funzionare nell'Occidente per vincere le elezioni e intrattenere rapporti di ogni tipo con i vari tiranni che risultano comodi, preziosi e rassicuranti amici, quando ci si spinge troppo a Est non funziona più, a meno che non si recida ancora una volta con un colpo di spada il

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nodo di Gordio, la qual cosa tradotta in termini attuali vuol dire trasformare le farlocche e fallimentari "missioni di pace" per esportare la democrazia in vere azioni di guerra per sottomettere i popoli e dominarli con formule di neo-colonialismo. Cosa possibile, ovviamente, perché nemmeno i bambini dell'asilo credono alla bufala dell'invincibilità degli afgani, siano essi espressione dell'esercito regolare che sconfisse i russi con l'aiuto dei talebani e dei muj?hid?n (sostenuti dagli USA e loro alleati) in virtù della conformazione geografica del territorio, ritenuto impossibile da espugnare, o espressione dei talebani che in venti giorni hanno conquistato il Paese, mettendo fuori gioco l'esercito regolare armato e istruito dalle potenze occidentali nonché i gruppi ribelli a loro ostili. Se lo si volesse davvero, l'Afghanistan potrebbe essere "conquistato" in un mese da una vera coalizione occidentale, recidendo di nuovo il "Nodo di Gordio". Certe cose, tuttavia, sono complicate anche per i più cinici e bugiardi governanti occidentali e sarebbero possibili solo con un novello Alessandro Magno che, allo stesso tempo, fosse in grado di tirare il fendente, bloccare sul nascere ogni possibile conseguenza nefasta e imporre un nuovo ordine mondiale che legittimasse anche la sottomissione di quei popoli che tagliano teste come se fossero punte di asparagi e trattano con più rispetto i serpenti velenosi che le donne, per tacere di tutto il resto. In mancanza, le cose sono quel che sono, ossia quelle che vediamo e subiamo. Cerchiamo, quindi, quanto meno di non mistificarle, cosa che diventa più facile se variamo la prospettiva di osservazione. I TALEBANI DI CASA NOSTRA Il primo dato che emerge da un'accorta lettura della fallimentare politica occidentale in Oriente è una sorta di inversione dei ruoli, in parte favorita dalla perdita di credibilità della classe politica, che però invece di suggerire alle masse pacate riflessioni, per indurle a fare ammenda anche dei propri errori, soprattutto nella scelta dei rappresentanti politici, ha generato reazioni isteriche e violente, per di più rivolte contro chi dello sfacelo era meno responsabile. Sono ancora nitide nella mente le immagini dell'attacco al Campidoglio perpetrato dai fans di Trump, che si può definire la tragica e logica conseguenza di venti anni di rabbia, incomprensioni e delusioni di una buona fetta di quel popolo americano incapace di guardare al di là del proprio orticello. Le masse incolte e irragionevoli hanno sempre bisogno di un capro espiatorio quando la rabbia raggiunge livelli tali da non poter essere più controllata e a un abile mestatore basta poco per manovrarle a proprio vantaggio. Gli americani che avevano creduto alla bufala delle armi di distruzione di massa, al ruolo messianico degli USA come modello di civiltà e di democrazia da esportare e da imporre a tutti i Paesi del mondo, alleati e nemici che fossero, e che davvero ritenevano di avere nobilmente sacrificato tante vite umane per rendere "civili e simili a loro" Paesi come Iraq e Afghanistan, rendendosi conto dell'abbaglio, dell'inganno, sono divenuti loro simili a quei terribili nemici che si pretendeva di redimere, a riprova che cellule di "talebanismo e di fondamentalismo" sono presenti anche nel "civilissimo" Occidente e basta poco per dare loro alimento. Dobbiamo imparare a leggere bene questo aspetto del nostro essere, per evitare l'errore di


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sentirci giudici in grado di emettere sentenze "giuste", di condanna per taluni, assolutorie per altri. Dobbiamo imparare a guardare bene dentro noi stessi, per dare un'esatta dimensione ai nostri pensieri e alle nostre azioni, rinunciando alla stupida presunzione che ci porta a ritenere di poter dire la nostra su ogni cosa e di avere sempre ragione. E dobbiamo sforzarci, soprattutto, di rendere sempre meno "veritiera" la già citata frase di Gramsci sulla storia maestra senza allievi, perché nulla più della conoscenza di "ciò che siamo stati e da dove veniamo" ci consente di comprendere ciò che siamo e dove possiamo andare. Per rendere davvero maestra la storia, però, occorre destrutturarla, ossia depurarla dalle troppe mistificazioni, impresa non certo facile perché quasi tutta la storia è da esse contaminata. Ne abbiamo già parlato in passato, con riferimento alle distorte rappresentazioni delle crociate, del risorgimento, dei nativi americani fatti passare per crudeli assassini in tanti libri e film prima che si rendesse evidente il loro feroce sterminio da parte dei coloni partiti alla conquista del West, delle guerre mondiali. A conclusione di questo articolo aggiungiamo un altro tassello, cercando di inquadrarlo in un'ottica la più vicina possibile all'argomento trattato, per far meglio emergere i talebani di casa nostra e anche quel pizzico di talebanismo più diffuso di quanto si pensi in larghi strati della popolazione. Iniziamo col guardare i monumenti che popolano le nostre piazze e a meglio approfondire cosa essi realmente esprimano, al di là delle rappresentazioni imposte dalla storiografia ufficiale: Garibaldi "eroe dei due mondi", Vittorio Emanuele II "re galantuomo", Cialdini, La Marmora, Bava Beccaris, La Farina e tanti altri protagonisti della nostra storia, presenti anche nelle piazze e nelle strade di città dove hanno compiuto efferati e inutili massacri di inermi cittadini. Guardiamoli da un'altra prospettiva, cercando di andare oltre le apparenze. Vittorio Emanuele I è noto come re "tenacissimo", ma in realtà era solo uno zuccone, come ci ricorda Lorenzo del Boca nel prezioso saggio "Il maledetto libro di storia che la tua scuola non ti farebbe mai leggere" (Piemme editore, 2017): "poca intelligenza, niente cultura e scarsa personalità", caratteristiche non certo ideali per un monarca, che ovviamente non potevano certo suggerirgli le azioni più consone da adottare in momenti delicati. Esauritosi il ciclone napoleonico, durante il quale si era comodamente rifugiato in Sardegna, che a Napoleone non interessava in virtù del radicale sottosviluppo, ritornò in pompa magna a Torino, "parrucche incipriate comprese", sì da indurre Massimo d'Azeglio a scrivere testualmente nel diario: "In quel cocchio, con quella faccia da babbeo ma altrettanto da galantuomo, girò fino al tocco dopo la mezzanotte, passo passo per le vie della città, fra gli "evviva" della folla, distribuendo sorrisi a dritta e a manca". È superfluo ribadirlo, ma ribadiamolo lo stesso: la folla plaudente era la stessa che cantava la Marsigliese all'arrivo dei francesi. Riconquistato il potere, invece di trarre vantaggio dall'epopea napoleonica, che qualcosa di buono aveva lasciato, spostò subito le lancette dell'orologio indietro di diciotto anni (agendo né più né meno di come hanno agito i talebani, che le hanno spostate indietro di venti anni), abrogando le nuove leggi e ripristinando le vecchie, con provvedimenti che a leggerli oggi sembrano barzellette d'avanspettacolo: chiuse il valico di Moncenisio perché era stato

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inaugurato da Napoleone; voleva anche far saltare per la stessa ragione un ponte sul Po, pericolo scongiurato solo perché da un lato sorgeva la villa della regina, che avrebbe potuto subire danni. Coloro che avevano ricevuto onorificenze durante il passato regime se le videro revocate, ricevendo anche l'accusa di collaborazionismo con il nemico (cosa analoga sta accadendo a tanti afgani, oggi, trucidati dai talebani per aver "lavorato" negli ultimi venti anni alle dipendenze degli occidentali). I valdesi e gli ebrei, che con Napoleone avevano goduto di un briciolo di libertà, furono nuovamente ghettizzati e costretti a disfarsi in fretta dei beni immobili, svendendoli, per non vederseli espropriati, cosa che non riuscì a tutti. (I talebani, sunniti, considerano loro nemici i connazionali sciiti, combattendoli e ghettizzandoli, alla pari di tante altre minoranze etniche, ritenute a loro non affini; paradosso del paradosso, i terroristi dell'ISIS, che ai cugini talebani contendono il primato mondiale di ferocia e integralismo, considerano questi ultimi degli "impuri" all'interno della comune corrente sunnita, in quanto di etnia Pashtun e politicamente compromessi con gli USA, dai quali furono aiutati nella guerra contro i russi). Nella "Norma" di Bellini si parlava di "libertà", parola sconcia e pericolosa, che fu sostituita con "lealtà". (I talebani sono solo leggermente più drastici, perché loro sognano un mondo nel quale la musica scompaia del tutto: "La musica è proibita nell'islam, ma speriamo di poter persuadere le persone a non fare queste cose, invece di fare pressioni". Così si era espresso a fine agosto Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani, intervistato dal New York Times. Nel frattempo, tanto per far capire la consistenza della "pressione", in caso di fallimento della "persuasione", i suoi amici avevano provveduto a sparare un colpo in testa al cantante Fawad Andarabi e qualche colpo in più al comico Nazar Mohammad, dopo averlo duramente malmenato). Quanti esempi comparativi di questo tipo potremmo elencare, partendo dalla caduta di Romolo Augustolo ai giorni nostri? Migliaia, o addirittura decine di migliaia. Oggi abbiamo i "no vax", che incarnano il talibanismo pseudo-scientifico e rappresentano un pericolo pubblico per il rifiuto di vaccinarsi, arrivando addirittura a minacciare di morte gli scienziati che si affannano a ribadire, un giorno sì e l'altro pure, che al momento il vaccino rappresenta l'unica arma efficace contro la pandemia. E anche il mondo "no vax", accomunato dalla comune fede contraria ai vaccini, è costellato di sette ciascuna delle quali depositaria di proprie verità assolute. Tentare di catalogarle esaustivamente è impresa più ardua del districarsi tra quelle del mondo islamico e pertanto ci limitiamo a parlare solo di Francesca, una bella signora romana, che simbolicamente le rappresenta tutte. Ex grillina, è rimasta fulminata sulla strada di Damasco (pardon, del campidoglio capitolino) da quel tipo pittoresco che capeggia l'armata brancaleone del centro-destra in gara nelle prossime elezioni amministrative, aduso a conquistare i possibili elettori parlando molto bene di un certo Cesare e di un certo Augusto, che tanto hanno fatto per Roma, inducendo migliaia di cittadini a chiedersi reciprocamente che mestiere facciano questi due illustri personaggi e dove reperire gli indirizzi dei loro profili Facebook e Instagram. E fin qui niente di male, ovviamente, perché c'è di peggio sul fronte del trasformismo politico.


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La bella signora Francesca, però, non solo è una convinta no-vax, ma sostiene che "la pandemia è stata pianificata per decenni, tutto è stato orchestrato con frodi di massa, corruzione globale, censura senza precedenti ed estrema corruzione nei media e nei governi". Ogni teoria, ovviamente, per essere credibile ha bisogno di validi sostegni scientifici e, nel caso in cui denunci azioni nefaste, anche di colpevoli ben individuabili. Ecco, quindi, il carico da dieci. Il piano dei poteri forti sarebbe quello di sterminare la popolazione mondiale perché siamo troppi sul Pianeta; Conte è al servizio del capitalismo finanziario e degli occulti piani del nuovo ordine mondiale; il ministro della Salute Speranza è un ebreo askenazita formato dalla McKinsey, che riceve ordini dall'élite finanziaria ebraica. La decimazione della popolazione mondiale consentirebbe un più funzionale controllo dei sopravvissuti, grazie al vaccino dotato di microchip e alle funzioni del 5G. Per dovere di cronaca devo precisare che Michetti ha preso le distanze dalla sua candidata, togliendole il simbolo e di fatto ritenendola "incandidabile e ineleggibile", anche se oramai non è possibile escluderla dalla lista. Gesto senz'altro apprezzabile, ma configurabile come la classica rondine che non fa primavera: come lei, e in tutti i campi, ce ne sono davvero troppi. CONCLUSIONI Che cosa fare, quindi, in un mondo che non può fare a meno né dell'oppio dei popoli né dei tiranni che di esso si servono? Né più né meno quello che abbiamo sempre fatto: recitare la nostra parte, quale che essa sia. La commedia umana andrà avanti così ancora a lungo, perché per ora non c'è speranza di vedere spuntare all'orizzonte un cavallo bianco cavalcato da un novello Alessandro Magno. Il nodo di Gordio, quindi, resterà intrecciato e in tanti continueranno a farsi male tentando di scioglierlo nel modo sbagliato, mentre noi occidentali ne pagheremo le conseguenze, ma senza arrabbiarci più di tanto. Del resto le vere cose importanti sono le vacanze e la movida. Tutto il resto è noia. Lino Lavorgna

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FONDAMENTALISMI Il più subdolo dei fondamentalismi rende schiavi con l'illusione di essere liberi. Lo schiavo più docile è colui che presume di essere libero e che, di conseguenza, è inconsapevole della propria condizione subalterna. Una condizione che è mentale e che influenza i comportamenti sociali e politici, gli stili di vita, i consumi, omologando i gusti, i tic e i tabu secondo i desiderata del Leviatano e dell'eggregore egemonico. L'ultimo uomo - per citare Nietzsche - è l'occidentale (e l'occidentalizzato) moderno, talmente condizionato dalla narrazione corrente dall'essere convinto che il suo sia il migliore dei mondi possibili, da imporre con la persuasione o con la forza al resto del pianeta recalcitrante e fermo sul suo universo di valori. Ci troviamo difronte ad un integralismo di segno diverso rispetto a quelli religiosi o, per meglio dire, figli della religione del Libro e dei monoteismi originati nel vicino oriente, ma che ha alla base un identico profilo antropologico e psicotico rispetto ai secondi: "stabilire la propria egemonia in campo religioso, politico e culturale, rifiutando qualsiasi alleanza o collaborazione con partiti o movimenti d'ispirazione ideologica diversa" (così la Treccani alla voce integralismo). E' un fondamentalismo laico, democratico, liberale, scientista, aperto a quella retorica dei diritti civili e della pedagogia gender che appassiona solo europei ed americani - e neanche tutti - ma che sono totalmente estranei al sentire comune del resto degli abitanti del pianeta. Un approccio infantile e superstizioso che ha prodotto - come l'ha definito Alain De Benoist - quel disincanto del mondo originato dalla cultura illuminista, dalla filosofia materialista e dall'economicismo mercatista e poi iberista, in un processo dissolutivo durato tre secoli fino alla attuale dittatura del pensiero unico dedito alla decostruzione di punti di riferimento, limiti, identità, in una società liquida (descritta da Z. Baumann) e aperta (esaltata con sinistro fanatismo da K. Popper e J. Attali) alle influenze dell'infraumano (secondo i fondamentali insegnamenti di Evola e Guénon sugli stati dell'essere) per preparare l'avvento di un rizoma umano (Deleuze e Guattari) ibridato con le macchine. E' il mondo post moderno - allucinato e allucinante - frutto marcio del liberalismo, unica ideologia imperante dopo le guerre e le fibrillazioni del Novecento. Strumenti di tale oscuro condizionamento sono gli organi di stampa mainstream, le televisioni, i social network, il cui compulsivo utilizzo sta formando generazioni di webeti dal comportamento autistico e privi di senso critico. Assistiamo alla involuzione dei sedicenti "professionisti dell'informazione" dal giornalismo alla comunicazione di interessi inconfessabili,


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falsari che hanno abiurato i doveri deontologici per prestarsi - lautamente ricompensati - alla manipolazione delle informazioni, occultando ciò che è scomodo ai loro padroni o che contraddica la narrazione politicamente corretta, fino ad inventare di sana pianta notizie infondate o pompate. Ogni tanto questi facitori autorizzati di fake news vengono smascherati clamorosamente, come quando tre tra i più noti giornalisti televisivi , per esaltare le capacità balistiche dell'egemone, fecero passare come autentico attacco con droni le immagini di un videogioco. Oppure quando, dopo la vittoria elettorale di Trump, una nota giornalista della Rai si fece sfuggire una recriminazione lamentando - tradendo la sua indole da agit-prop - a cosa servissero loro giornalisti se poi la gente vota diversamente. Ovviamente tali figuracce hanno suscitato l'ilarità degli addetti ai lavori, i quali però si sono ben visti - con rare eccezioni - dal renderle pubbliche o dal sottolinearle. Dall'epoca degli esperimenti di Pavlov sui riflessi condizionati dei cani, le tecniche manipolative si sono talmente evolute da raggiungere un livello di raffinatezza tale da renderle imperscrutabili ai più e soprattutto ai saccenti acculturati (analfabeti di ritorno con la laurea in tasca ma incapaci di comprendere ciò che leggono o vedono, secondo quanto dimostrato dagli ultimi impietosi studi statistici sul livello di preparazione dei diplomati e dei laureati). Il maggior linguista e scienziato cognitivo contemporaneo - Noam Chomsky - ha descritto nei particolari le tecniche di manipolazione attuate con minuziosa determinazione dal mainstream lavorando sui tempi lunghi, tanto dal rendere accettabile e normale ciò che era considerato inconcepibile e abominevole soltanto qualche decennio prima. Innanzitutto si crea o si strumentalizza un problema,audacia innescando la paura eigiene indicando con gradualità crescente soluzioni già decise a temeraria spirituale priori. Ingrediente fondamentale dunque è la paura, creare il panico. Il meccanismo fu spiegato da uno dei maggiori gerarchi nazisti, durante il processo di Norimberga, quando gli fu chiesto come avessero fatto a portarsi dietro un popolo colto e civile come quello tedesco; la risposta fu agghiacciante nella sua semplicità: tramite la paura, disse, perché instillando e soffiando sulla paura si può far fare ciò che si vuole a qualsiasi popolo. Altro elemento fondamentale della manipolazione collettiva è la gradualità, in modo da assuefare lentamente - per non provocare allarme - le masse ad accettare, per esempio, la perdita dei diritti costituzionali alla mobilità, al lavoro, alla stessa vita affettiva e alla libertà di cura. Preso a piccole dosi, ogni organismo si abitua al veleno fino ad accettarlo come ineluttabile, anzi normale. Chomsky spiega questa tecnica con la metafora della rana bollita: la rana nuota liberamente nella pentola e quando si accende la fiamma trova gradevole l'iniziale tepore, l'acqua diventa più calda ma la rana quasi non se ne accorge e continua a nuotare, fino a quando il crescente calore non ne ottunda i sensi e la capacità di reazione; ormai è troppo tardi per reagire e la rana si trova bollita senza aver opposto alcuna resistenza; se la rana fosse stata immersa direttamente nell'acqua bollente sarebbe fuggita. Con gradualità le masse saranno indotte ad accettare riforme draconiane (quando liberali, liberisti e tecnocrati parlano di riforme intendono lacrime e sangue per la popolazione), trattandole come bambini gli si dirà che andrà tutto bene, che se fanno i bravi avranno la ricompensa (come i cani di Pavlov), che accettare

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limitazioni alla libertà e l'inoculazione di sieri magici sarà il prezzo momentaneo da pagare affinché torni tutto come prima. Il messaggio manipolatorio, per essere efficace, deve emozionare. Di qui l'insistenza sulle sofferenze, onde inibire il senso critico, e la rimozione iniziale - poi seguita dalla negazione, se la verità nonostante tutto dovesse cominciare pericolosamente a circolare - di ciò che funziona o che può funzionare (per esempio le cure, attuate con successo da migliaia di medici contravvenendo alle linee guida imposte). Emozionare gli ingenui e, allo stesso tempo, demonizzare coloro che non si adeguano additandoli a bersaglio delle paure dei primi, distogliendo così le masse dai loro veri nemici ovvero gli stessi manipolatori e i loro padroni. Divide et impera. Si arriva in tale guisa a giustificare la cancel culture e l'abbattimento delle statue, il rogo dei libri all'indice, il divieto dello studio dei classici e della filosofia in quanto retaggio di una pretesa cultura razzista, xenofoba, paternalista, in un delirio di neo puritanesimo e di fondamentalismo laico, liberal e radical chic che ebbe in Umberto Eco e Furio Jesi i suoi primi cattivi maestri. Per fortuna c'è ancora chi resiste alla manipolazione, conservando la capacità di mantenere una visione della realtà per quella che è e non per come viene rappresentata e facendo proprio il detto Sufi che recita "Nulla è come appare" oltre all'insegnamento buddhista sulle due verità. Uno di questi è Alexandr Dugin - non a caso definito dalla stampa di Wall Street il "più pericoloso filosofo vivente" - il quale indica in una Quarta Teoria Politica l'unica alternativa possibile per salvare l'umanità e il pianeta dalla catastrofe. Una quarta teoria politica che - prendendo atto della fine della seconda teoria (il comunismo) e delle terze vie (nazionalismi, fascismo) - faccia uscire l'umanità dall'incubo della dominante prima teoria politica (il liberalismo) e della sua dittatura soft fatta di pensiero unico, globalismo e post umanità. Giuseppe Marro


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LA CADUTA DI KABUL E IL SUICIDIO DELL’OCCIDENTE È la catastrofe. Abbandonare l'Afghanistan a quel modo, dandola vinta ai talebani, è un'onta sull'onore degli occidentali che non si cancellerà facilmente. Le immagini di caos e di disperazione che giungono dall'aeroporto di Kabul sono allucinanti. Peggio della caduta di Saigon, il 30 aprile 1975; peggio dall'abbandono statunitense, nell'estate del 2014, di Mosul, della piana di Ninive e del nord dell'Iraq nelle mani dei miliziani del "califfo" al-Baghdadi. Cristiani e yazidi ancora ricordano con terrore i giorni della fuga da parte dei "liberatori" occidentali. È peggio di Dunkerque, nel 1940. Almeno, in quella circostanza, i britannici difesero la sacca di evacuazione delle truppe anglo-francesi dall'avanzata della Wehrmacht, la forza armata del Terzo Reich. L'agosto di Kabul assume piuttosto le tinte plumbee di un 8 settembre 1943, giorno della resa incondizionata italiana agli eserciti alleati, ma anche giorno del "tutti a casa", quando l'interruzione improvvisa della catena di comando della nostra forza armata colse di sorpresa le truppe impegnate sul campo al fianco dei tedeschi, lasciandole allo sbando prive di stringenti ordini operativi. Lo hanno detto e scritto tutti, per cui non è necessario stare a ricamarci su: la colpa del disastro è dell'Amministrazione di Washington. Il "gendarme del mondo" ha mollato la presa su un territorio fino a ieri considerato strategico nella lotta globale al terrorismo di radice islamica fondamentalista. Che adesso Joe Biden finisca in cima alla classifica dei peggiori presidenti nella storia degli Stati Uniti d'America non importa nulla. Semmai, le nostre preoccupazioni sono rivolte a quei cittadini afghani, uomini e donne, che si sono lasciati conquistare dalle buone ragioni dell'Occidente e che adesso si vedono cinicamente abbandonati a un destino di morte, in balia della ferocia talebana. C'è un aspetto della disfatta di Kabul che farà male all'Occidente più di molte battaglie perse sul campo. Con la precipitosa partenza dei contingenti della missione a guida Nato Resolute Support Mission (Rsm), non sono stati lasciati nelle mani del nemico soltanto sofisticati sistemi d'arma ma è andato perso il bene più prezioso per un Paese, o per una coalizione di Stati: la credibilità. Dopo l'umiliazione subita a Kabul, quale nazione vorrà più credere alle profferte di aiuto dei futuri inquilini della Casa Bianca? Dopo le sconcertanti dichiarazioni ascoltate dalla viva voce di Joe Biden sulla capacità delle forze governative afghane di fare fronte per molto tempo alle pressioni dei talebani - dichiarazioni che la realtà si è incaricata di smentire nel volgere di poche ore - chi in tutta coscienza se la sentirebbe di acquistare una auto usata dal presidente degli Stati Uniti? E il peggio deve ancora arrivare.

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Già, perché quale gruppo sociale oppresso, in qualsiasi angolo del pianeta viva, vorrà impugnare le armi contro i propri aguzzini interni ed esterni fidandosi del sostegno statunitense? Caliamoci per un attimo nei panni dei cittadini di Taiwan per coglierne lo sbigottimento. Come faranno a dormire sonni tranquilli essendosi finora posti sotto l'ombrello del "grande fratello" americano per stare al riparo dalle mire espansioniste della Cina comunista? Le grandi potenze globali avranno buon gioco nel ridicolizzare il player americano con la capziosa accusa di "abbandonare gli alleati" pur di "proteggere i propri interessi". In special modo Russia e Cina trarranno dal maldestro epilogo della vicenda afghana importanti indicazioni circa la reale consistenza della minaccia americana. Ma guardiamo in casa nostra: 53 vittime e 723 feriti, è stato il prezzo di sangue che l'Italia ha pagato in questi venti anni di guerra nella granitica certezza di fare il bene del popolo afghano. Oggi non possiamo neanche lontanamente pensare che sia stato tutto inutile. Se lo facessimo sarebbe come tradire il sacrificio dei nostri ragazzi. In Afghanistan la coalizione dei Paesi occidentali è arrivata nel 2001 (il contingente italiano dal 10 gennaio 2002) con l'operazione Enduring Freedom (Libertà duratura), a seguito dei sanguinosi attentati dell'11 settembre. Bisognava estirpare la radice del male che lì aveva attecchito. Ma come farlo senza mettere in conto di costruire una società nuova su presupposti inconciliabili con l'impianto giuridicoreligioso della sharia, codice statutario dell'ideologia fondamentalista islamica? Joe Biden mente quando afferma che: "La nostra missione non avrebbe mai dovuto essere la costruzione di una nazione, ma combattere il terrorismo". Il target era Al-Qaeda ma anche l'universo talebano di contorno che dal 1996 aveva allungato i suoi tentacoli sulla società afghana, prestandosi a brodo di coltura per la crescita della variabile terrorista nella guerra dell'islamismo radicale all'Occidente capitalistico e cristiano-giudaico. Dopo venti anni l'Emirato islamico dell'Afghanistan è tornato. E al potere ci sono i talebani che osano prendersi gioco degli occidentali imbastendo conferenze stampa farsa allo scopo di vomitare offese sull'altrui intelligenza con sconclusionati ossimori del tipo "siamo impegnati a rispettare i diritti delle donne sotto il sistema della sharia", come se le parole diritti, donne e sharia potessero combinarsi razionalmente nella stessa frase. E l'Europa? Semplicemente non esiste al di fuori della sua natura di espressione geografica. Tra i partner dell'Unione non c'è accordo su nulla, neanche sulla volontà di accoglienza dell'inevitabile ondata di profughi afghani che tra qualche settimana al massimo busserà alle porte del Vecchio Continente. L'Europa non c'è oggi e non c'è stata ieri, quando avrebbe dovuto far sentire la propria voce in dissenso presso il potente alleato d'Oltreoceano che annunciava patti stipulati col diavolo talebano. Al momento non resta che affrettare le operazioni di evacuazione dei civili afghani terrorizzati all'idea di essere lasciati nelle mani degli aguzzini. Ma si tratta di un pannicello caldo che non serve a suturare la ferita che mina i cardini della civiltà occidentale. La strada maestra sarebbe stata quella di aiutare quei cittadini afghani, soprattutto giovani e donne, che hanno preso coscienza della superiorità dei valori occidentali rispetto a quelli (antistorici) propugnati dalla visione oscurantista e totalitaria dell'islamismo radicale, a


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restare nella propria terra per edificare un futuro migliore in grado di dare al mondo qualità individuale, cultura e bellezza al posto di terrorismo e oppio. Nel caos generale c'è il nostro Mario Draghi che prova a mettere insieme, mediante la formula del G20 la cui presidenza di turno quest'anno è italiana, i potenti della Terra per farli dialogare e giungere a una soluzione condivisa sull'approccio alla crisi afghana. Non possiamo non augurargli di avere successo in un'impresa che al momento appare disperata. Eppure, oggi servirebbe mantenere, a dispetto dell'ultimatum ingiunto dai talebani alla coalizione occidentale per il ritiro totale delle truppe entro il prossimo 31 agosto, un seppur ridotto assetto logistico intorno all'aeroporto di Kabul. Bisogna assicurare il rimpatrio di tutti quei civili occidentali che per diversi motivi, anche umanitari, sono ancora in territorio afghano. I media si sono concentrati su ciò che accade nella capitale ma l'Afghanistan è grande e i cooperanti occidentali sono dislocati in provincie lontane da Kabul. A costoro non possiamo fare spallucce. Come non possiamo restare sordi al grido di dolore delle tante donne afghane che non ci stanno a ritornare alla schiavitù di genere imposta dall'ideologia talebana. Quegli spiriti, e corpi, eroici vanno messi in salvo e ciò non lo si potrà fare se tutti i militari occidentali andranno via, come pretendono i nuovi padroni. Occorre istituire su suolo afghano un'area franca sotto la giurisdizione delle potenze alleate occidentali. Come fare? A Washington lo sanno bene: costruire una Guantánamo (ci riferiamo alla base navale, non alla prigione) afghana. Come con Cuba, un contratto di affitto perpetuo o, in alternativa, un'occupazione di fatto di un fazzoletto di terra di 45miglia quadrate, garantirebbe agli Stati Uniti in primis di tenere un occhio vigile sulla prevedibile riorganizzazione dei gruppi terroristi islamici e agli afghani desiderosi di libertà di avere una porta aperta sulla modernità. Guantánamo è rimasta in mano americana dal Trattato Usa-Cuba del 1903, sopravvivendo a sessant'anni di castrismo. Perché non rifarlo a Kabul? In fondo, sarebbe un modo di salvare un po' di quella faccia occidentale annegata impietosamente in un lago di palta afghana. Cristofaro Sola

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IL FANTASMA DELLA LIBERTA’ E IL CORAGGIO DELLE DONNE Sembrerà assurdo, paradossale, inverosimile ma c'è un filo rosso che lega l'Italia all'Afghanistan. È il legame tra le vicende della politica nostrana e le proteste di piazza delle donne di Kabul e delle principali città afghane. Il nodo di congiunzione è la libertà. Non è uno scherzo: la battaglia che una parte della destra italiana sta conducendo in Parlamento e all'interno della maggioranza governativa contro l'estensione del green pass a tutte o quasi le interazioni sociali è consonante con la sfida lanciata dalle donne-coraggio afghane ai loro oppressori talebani per non tornare a essere prigioniere del burqa e, con esso, schiave della misoginia degli uomini. È questione di libertà, in entrambi i casi. Ma la parola "libertà" non può essere declinata allo stesso modo in contesti abissalmente differenti. Già, perché la categoria concettuale che ha occupato il dibattito politico in casa nostra, a proposito delle misure da assumere in sede governativa per fronteggiare il rischio di recrudescenza della pandemia, attiene alla cosiddetta "libertà negativa", che è il diritto dell'individuo a non subire interferenze da parte di altri, e in particolare da parte dello Stato. Quella, invece, per cui stanno combattendo le donne afghane è "libertà positiva": desiderio insopprimibile di essere padrone di se stesse, di essere strumento proprio e non altrui degli atti di volontà che le riguardano, di essere soggetti e non oggetti del proprio destino. A un'osservazione superficiale il parallelismo potrebbe apparire blasfemo. E, in effetti, qualche disagio lo crea l'accostamento del voto contrario dei parlamentari leghisti, insieme a quello di Fratelli d'Italia, all'estensione del green pass alle attività commerciali come ristoranti, cinema e palestre, alle scene di violenze ai danni delle donne che hanno osato sfidare l'arroganza talebana. Si tratta di due livelli di coraggio incomparabili. Purtuttavia, il nesso c'è. Benché sia comunemente accettato, anche dalle parti del pensiero liberale più intransigente, che la libertà individuale non possa essere illimitata, altrimenti condurrebbe al caos non essendo armonizzabili in toto le intenzioni e le attività umane, il problema sta nella definizione dell'estensione del perimetro individuale entro il quale a nessuno, a cominciare dallo Stato, sia permesso interferire. Più quel confine si allontana più l'individuo è libero. Eppure, il prezzo pagato alla libertà del singolo non può essere la privazione della libertà degli altri. La rinuncia a un pezzo significativo di essa - è la tesi della sinistra - renderebbe tutti più liberi. Qual è, dunque, per l'individuo il limite di cessione dello spazio esclusivo di decisione che non deve essere valicato, pena l'annichilimento della forza costitutiva della libertà? Rimanendo sul piano della stretta attualità, la polemica sull'estensione del green pass era sembrata eccessiva. In


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particolare, era apparsa una forzatura demagogica l'ostinazione nel voler considerare la certificazione pensata dal Governo come uno strumento di coartazione della libertà personale. Poi, però, c'è stata la lettera scritta a quattro mani da Massimo Cacciari e Giorgio Agamben che ha spiazzato il campo liberale. Per i due filosofi il green pass introduce, in primo luogo, una discriminazione tra chi ne è in possesso e chi ne è sfornito, tale da mettere in discussione i cardini della società democratica (argomentazione egualitaria). In secondo luogo, il tracciamento di tutti gli individui, o quanto meno la maggior parte di essi, sarebbe l'atto proprio e consapevole di uno Stato totalitario (argomentazione libertaria). Cacciari e Agamben nella "lettera" citano due esempi eclatanti: "Non a caso in Cina dichiarano di voler continuare con tracciamenti e controlli anche al termine della pandemia. E varrà la pena ricordare il "passaporto interno" che per ogni spostamento dovevano esibire alle autorità i cittadini dell'Unione Sovietica". I due esagerano? E se invece avessero ragione nel denunciare il rischio della deriva autoritaria? D'altro canto, l'opinione pubblica si sta abituando all'idea che la normalità, superata la fase emergenziale, possa trasmigrare nello "stato d'eccezione" schmittiano, dove la sovranità esce dall'alveo costituzionale che la assegna al popolo per depositarsi nelle mani di un unico decisore politico (sovrano). Non è forse vero che per l'immaginario collettivo il solo che decide in Italia sia "Super" Mario Draghi? Sentiteli i nostri concittadini intervistati per strada: Draghi lo vorrebbero ovunque, al Quirinale, a Palazzo Chigi, a fare l'amministratore di tutti i condomini d'Italia. Si comprende perché nessuno abbia emesso un fiato sulla decisione di prorogare causa Covid lo stato di emergenza, con annessi poteri straordinari al premier, fino al 31 dicembre 2021. Stando così le cose, Matteo Salvini (pur con qualche ondeggiamento) e Giorgia Meloni non sbagliano a battersi contro un provvedimento - il green pass esteso - che la maggioranza democontiana vorrebbe spacciare per frutto della ragionevolezza e della responsabilità. Nessuno più di noi è convinto della necessità di fare marciare insieme l'interesse del singolo e le istanze della comunità, senza preordinare rigide gerarchie nella scala delle priorità. Tuttavia, esiste quel confine della non-interferenza nella libertà individuale che non deve essere violato. Se c'è un problema con le vaccinazioni, si segua la via maestra che in uno Stato di diritto resta la legge. Il Governo proponga e il Parlamento approvi l'obbligo vaccinale per tutti. Se non si ha il coraggio di farlo non si giochi al rimpiattino con la libertà delle persone. Camuffare un obbligo che non si ha la forza d'imporre con un altro obbligo "smart" che discrimina, precipita la società in un lugubre egualitarismo orwelliano nel quale tra i consociati, "vigilati" da un "Grande fratello" tecnologico, ve ne siano alcuni più uguali degli altri. Se c'è in ballo la sicurezza e la salute della maggioranza degli individui si pongano in essere interventi mirati. Ma è bene che i tracciamenti restino circoscritti alle categorie sensibili ai fini della sicurezza sanitaria e non estesi "a tappeto" all'intera popolazione. Ciò che, tuttavia, resta insopportabile è la pretesa, ipocrita, di voler coartare la libertà del singolo in nome del raggiungimento di un livello di libertà che solo in via ipotetica si assume essere più "alto". Siamo seri: un liberale non si sottrae a una legittima primazia dell'istanza "organica" comunitaria. Ma non è immaginabile che quello stesso liberale, in nome della prevalenza di un

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preteso interesse collettivo, subisca passivamente ogni colpo inferto alla sua libertà, fino all'annientamento. Se non è sufficientemente chiaro il concetto, si prenda esempio dalle donne Kabul che stanno insegnando al mondo che le ha illuse e tradite cosa voglia dire, in concreto, essere padrone di se stesse. Lì c'è un potere che vuole segregarle per il loro stesso bene. Ma quelle meravigliose donne non vogliono smettere di sognare la libertà. E per quel sogno sono disposte a farsi ammazzare. Il solo rapportarle alle nostre angosce, alle piccole paure quotidiane e alle convenienze spicciole di cui è intessuta la trama esistenziale dell'opulento Occidente, ci consegna a una figura barbina. La cruda verità è che le generazioni del nostro tempo storico hanno smarrito la memoria di come si faccia a tenersi la libertà. Se cominciassimo a ragionare con la nostra testa e a non seguire da automi il mainstream del politicamente-corretto sarebbe già qualcosa. Non tantissimo, ma qualcosa. Cristofaro Sola


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AUTOLESIONISMO Nella destra italiana il tafazzismo è tornato. Che bella notizia! È tuttavia storia vecchia che, a destra, se una cosa funziona non ci si sforzi di farla andare meglio ma ci si dia da fare per mandarla in rovina. Dopo l'autoaffondamento del Popolo delle Libertà non era stato facile ricostruire nel campo del centrodestra un rapporto di fiducia tra le varie anime che lo compongono. La stella polare seguita per restare uniti è stata quella di ascoltare il sentimento maggioritario nel Paese. E, per quel poco che possano valere, i sondaggi sulle intenzioni elettorali degli italiani lo confermano. Troppa grazia perché a qualcuno non venisse voglia di mettersi di traverso. Ha cominciato Giorgia Meloni che, nell'intestardirsi a non salire sul carro del Governo Draghi in nome di una proclamata coerenza morale, ha visto l'opportunità di "fare cassa" elettorale dall'opposizione a danno dei suoi alleati. Per arrivare dove, non si capisce. Ad assestare bordate alla casa comune ci hanno poi pensato alcuni esponenti di Forza Italia, preoccupati delle loro sorti personali nel caso in cui la liaison tra il leader leghista e il vecchio leone di Arcore dovesse sfociare nell'auspicata unificazione dei due partiti. Ha dell'imbarazzante il comportamento velenoso di esponenti forzisti, presenti al Governo, che spendono più tempo a marcare i distinguo da Matteo Salvini che a dire una parola che sia una contro l'oscena faziosità, ancorché ridicola, di Enrico Letta. Come se non bastasse, ci si è messa anche la fronda interna alla Lega, la cosiddetta "ala nordista", a sparare alla schiena del "Capitano", facendolo passare per il parente scomodo di cui ci si vergogna ma che bisogna tollerare per il bene della famiglia. Ragazzi, sveglia! Se siete a fare i fenomeni nelle stanze del potere romano o i "condottieri" in qualche regione d'Italia lo dovete a quel "marziano" di Matteo Salvini. È necessario che vi si ricordi dove eravate grazie alle vostre miopie da bottegai padani nel 2013, quando il giovanotto vi ha preso per mano per fare della Lega il primo partito italiano (il vantaggio virtuale di Fratelli d'Italia assegnato dai sondaggi è un'illusione ottica)? Non lo diciamo esplicitamente perché la volgarità non è nelle nostre corde, ma eravate proprio lì: ci siamo capiti. Mollare Salvini sulla battaglia per non estendere il Green pass indiscriminatamente a tutta la popolazione non è una genialata. Giocare a fare i "draghiani" più di Mario Draghi non vi porta da nessuna parte, se non a essere gli "utili idioti" che lavorano per il nemico senza accorgersene. Il popolo della destra certi smarcamenti a favore di telecamere li ha già vissuti drammaticamente sulla propria pelle ai tempi dell'apoteosi di Silvio Berlusconi, nel 2009. Li ricordate Gianfranco Fini e l'opera

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demolitoria - suggerita da chi lo sappiamo, e neanche a farlo apposta era un inquilino del Quirinale - orchestrata per scavare la fossa a un leader che avrebbe potuto finalmente compiere la svolta liberale attesa dal Paese? A Via Bellerio ci sarebbe qualcuno che si è accomodato sulla sponda del fiume nella convinzione di vedere passare il cadavere del proprio leader. L'occasione potrebbe essere prossima: una débâcle della Lega sotto la "linea Gotica" alle comunali di ottobre. Ora, non è che Salvini sia l'essere perfettissimo, qualche stupidaggine di recente l'ha fatta e ciò lo ha reso vulnerabile. Vogliamo dirlo? Aver ceduto sulla questione Durigon è stato un clamoroso boomerang che adesso gli ritorna contro. Quando i "governisti" della Lega si sono uniti al coro della sinistra nel condannare la presa di posizione dell'ex sottosegretario all'Economia, Claudio Durigon, sull'intestazione dei giardinetti pubblici di Latina ad Arnaldo Mussolini, chiedendone le dimissioni, Salvini avrebbe dovuto fare muro anziché accompagnarlo alla porta. Ora, nel Lazio - e non solo nel Lazio - il popolo della destra che era stato orgogliosamente missino e poi di Alleanza Nazionale prima del suicidio politico di Gianfranco Fini, si era fidato della nuova Lega sovranista e meno della conventicola dei "quattro amici al bar di Via della Scrofa", alias Fratelli d'Italia prima versione. Nessuna meraviglia se adesso la delusione patita per il trattamento riservato nel partito a Durigon condurrà quello stesso popolo a snobbare le urne delle Comunali di Roma, dove il centrodestra avrebbe potuto camminare sugli allori per prendersi il Campidoglio. Ora torna tutto in discussione con l'inquietante prospettiva per i romani che, dopo anni di disastri grillini, rispunti un vecchio arnese della sinistra (Roberto Gualtieri del Partito Democratico) a riportare indietro le lancette dell'orologio ad acqua del Pincio. Ma non ci sono soltanto i pesi massimi dei partiti a ingarbugliare la scena. Siamo quasi in autunno ed è tempo di funghi. In questi giorni spuntano ovunque, non solo porcini e prataioli ma anche "intellettuali" di destra che sfoderano ricette miracolose. Tra questi, Filippo Rossi di "Buona destra". Le cose che dice sono il trionfo dell'autolesionismo. La sua ricetta? Una destra normale, sana di mente, gentile, che rompa con l'altra faccia di quell'unico mondo: la destra sovranista, cattiva, tossica. Eppure, se c'è stata un'impresa per la quale Silvio Berlusconi sarà citato nei libri di storia è l'aver sdoganato la destra post-fascista introducendola a pieno titolo nelle dinamiche del cosiddetto "arco costituzionale". Una conquista da custodire gelosamente. Oggi, come si dice a Napoli, "Se ne vene cacchio cacchio" "l'intellettuale" di turno a spiegarci, dalla pagina on line di "Formiche. net", che la buona destra italiana dovrebbe prendere esempio dai cugini gollisti francesi che si sono opposti al lepenismo impedendogli di prevalere in Francia. Dichiara testualmente Rossi: "Marine Le Pen non vince mai proprio perché c'è una destra gollista che si oppone al sovranismo e al radicalismo. Insomma, due recinti politici distinti e distanti". Bravo furbo! Così la sinistra e personaggi alla Emmanuel Macron la spunteranno sempre. Il dramma della destra francese è di non aver avuto in questi anni un Silvio Berlusconi in grado di sollecitare un sano revisionismo all'interno del mondo storicamente presidiato dal Front national, oggi Rassemblement National. Nell'Oltralpe, la strada giusta ancora auspicabile resta quella che


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passa per il pieno recupero di Marine Le Pen alle ragioni politiche e alla visione del gollismo, non la sua ghettizzazione e il congelamento dei voti - tanti - che la Le Pen drena nel cuore profondo della Francia. E qui da noi che si fa? A sentire Rossi, per tenere a bada i "cattivi" sovranisti, alle Comunali di Roma va sostenuta la candidatura di Carlo Calenda, il rampollo della "meglio" borghesia radicalchic capitolina, contro quella del candidato unico del centrodestra Enrico Michetti. Ragazzi, comprendiamo la voglia di mettersi in mostra fingendo di avere un pensiero intelligente, ma bersi il cervello è troppo. Mozione d'ordine: prima che parlino in pubblico, alcol test per tutti gli intellettuali, o sedicenti tali, di destra. Mettendo da parte l'ironia, lo diciamo senza mezzi termini: cari politici e intellettuali della parte avversa alla sinistra -come il mitico Walter Veltroni appellava il centrodestra - la ricreazione è finita. Basta giochi e giochetti di palazzo e castronerie sparate in libertà, c'è da ritrovare compattezza e unità d'intenti. Non vi è concesso suicidarvi politicamente, perché, dopo anni di strapotere della sinistra, c'è un popolo che attende disperatamente il proprio turno per governare il Paese. Stavolta cercate di non deluderlo. Sarebbe un'inemendabile vigliaccata. C.S.

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IF Con una rosa in mano e la cenere sul capo entro idealmente a Westminster e mi inchino davanti alla tomba di Kipling per rendere omaggio e, al contempo, impetrare perdono. Omaggio al genio letterario, perdono per l'indecente furto che, tramite estemporanea parafrasi, mi appresto a perpetrare: ma non ho scelta. Soltanto il ritmo dell'immortale "If" mi appare infatti come unico strumento per esprimere (umilmente "of course") ciò che provo nei confronti di quella futuribile "terza" via che si vorrebbe ormai obbligata per la nostra attuale società, laddove io credo invece che oggi ci si trovi di fronte ad una via "altra " (e non "terza") del tutto inimmaginabile - dopo due millenni e mezzo di ininterrotta Civiltà dell'Occidente e relativa Storia - non più di una quarantina di anni fa. Pertanto: ….. Se ritieni che, con la definitiva scomparsa del Dio, tu ti sia liberato di un'immanenza condizionante la libera espressione del tuo più intimo edonismo, …. Se senti che, con l'eclissi della figura del "padre" tramutatosi in fratello maggiore, tu non avrai più a relazionarti con un'autorità morale, ma soltanto con un'entità detentrice di un superiore, episodico potere di fatto con cui istaurare null'altro che dialettiche utilitaristiche, …. Se consideri gli anziani una zavorra sociale ormai fuori dal tempo da doversi archiviare quanto prima possibile, …. Se ti è gradito accomodarti in un credo religioso che invece che far da "ponte" tra terra e cielo ama atteggiarsi a facilitatore tra terra e terra e sponda di prossimità tra umani del medesimo pianeta, …. Se ti acconci a ricomporre la sublime follia del rapporto tra i sessi (ad uno dei quali tu sia comunque pervenuto in qualsivoglia maniera) negli asfittici parametri di invalicabili comportamenti fissati da norme giuridiche, …. Se consideri iatture dell'esistenza la solitudine ed il silenzio, mentre ritieni il costante, ininterrotto rapporto telematico con gli altri esigenza ineludibile per il tuo stesso stare al mondo, …. Se ritieni che il virtuale sia l'autentica essenza del reale senza il quale i fenomeni che ti circondano non hanno ne luogo ne consistenza e che un qualsivoglia evento possa dirsi vero ed effettivamente verificatosi soltanto se mediato da detta dimensione, …. Se ritieni che l'umanità che ti circonda sia un caldo gregge o un accogliente stormo (scegli tu!) nel quale accomodarsi e, assecondandone movimenti o evoluzioni, considerare in tal modo esaurita ogni qualsivoglia, altra finalità propria dello stare a questo mondo,


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…. Se consideri la democrazia parlamentare a suffragio universale unico punto di possibile convergenza per un' autentica composizione di quel pulviscolo di disparate, erratiche e contraddittorie esigenze umane espresse "una tantum" dal cittadino con una semplice crocetta su un foglio di carta a velleitaria, supposta sintesi di ogni suo sentire sociale e/o aspirazione di natura economica, …. Se consideri del tutto naturale che i "mass media" non si limitino a riferire accadimenti, ma, mischiando invece in modo surrettizio fatti ed opinioni, creino bolle di eventi di natura artificiale, ma dalle concrete - e spesso nefaste - ripercussioni sulla vita di inermi cittadini, …. Se consideri il politicante di professione un individuo cui guardare come referente per l'inveramento di tuoi concreti bisogni materiali o, se non altro, di tue velleitarie e vaghe aspirazioni di tipo sociale, sorvolando sugli aspetti di età, formazione, esperienza, competenza, affidabilità e serietà di un tale costui (e, ops ! naturalmente, anche di una tale costei) , …. Se attribuisci all'onnipresente P.I.L. (Prodotto Interno Lordo) la massima autorevolezza in termini di unità di misura della qualità della vita di una nazione indifferentemente dal fatto che le attività economiche che contribuiscono a formarlo siano liete o tristi, positive o negative (matrimoni e/o funerali), …. Se ritieni del tutto normale che in un sistema che si autoproclama sempre ed a gran voce "democratico", una supposta emergenza sanitaria di discussa caratura tecnica possa traghettare un'intera società verso uno stato di polizia non conclamato, ma in grado di trasformare di fatto i propri cittadini in occhiuti controllori del vicino, …. Se consideri la tecnologia, in tutte le sue manifestazioni, unica risposta ad ogni tua aspettativa esistenziale e le cui innumerevoli offerte di protesi corporali per potenziare la tua modesta persona fisica - in termini di cervello (computer), vista (televisione), udito (radio e telefono), gambe (mobilità meccanica), nonché totale dominio dell'aria e dell'acqua - faranno di te il superuomo del mito nonché "dominus e donno" della tua felicità su questa terra, …. Se ti convinci che un'episodica ed erratica informazione telematica di tipo puntuale possa ben sostituirsi ad una più ampia cultura e che una quasi perfetta conoscenza di infiniti, singoli "particulare" possa sopperire all'esigenza di saper collocare tali circoscritti aspetti dell'esistente sugli ineludibili assi cartesiani del tempo (la Storia) e dello spazio (il Mondo), …. Se ritieni tuo auspicato destino, in un non lontanissimo futuro, quello di riuscire a trasferire ogni tua conoscenza, competenza, abilità, sensazione, autoconsapevolezza e capacità di autoriproduzione, dalla tua attuale individualità fisica fatta di semplice, ma esigente carbonio ad un'altra costituita da un altrettanto semplice, ma per nulla esigente silicio (pilastro dell' elettronica), in modo tale da non aver più bisogno del sostegno di questa nostra piccola Gea che sembra apparire in crescente affanno nel prendersi cura della nostra sopravvivenza nel suo attuale stato biologico , …. Se sei convinto senza ombra di dubbio che la vita nel nostro pianeta Terra (che, come è noto, gira intorno al Sole da cinque miliardi di anni e che prevede di poter continuare a farlo per almeno altri cinque) sia collegata in modo diretto ed ineludibile ad ogni singola azioni di noi

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microscopici esseri umani, (presenti su di essa da appena quattro milioni di anni) guardandoti bene dal chiederti come mai la nostra Gea abbia potuto resistito in tutta serenità per quei miliardi di anni antecedenti la nostra comparsa e ben prima che noi umani si cominciasse a "romperle le scatole" con un leggero aumento di CO2, …. Se appalterai, subordinandolo del tutto al principio del "politicamente corretto", ogni tuo estemporaneo pensiero o desiderio di libera azione e soffocherai sul nascere qualsiasi tuo naturale moto di ribellione intellettuale nei confronti dell'esistente dato che far ciò ti porrebbe "ipso facto" al di fuori del tuo consesso sociale di appartenenza, …. Se sei convinto che trovare dietro l'uscio di casa, a fatica zero, la scatola contenente la materializzazione immediata di un vago desiderio appena concepito e già evaporato, sia il modo migliore di prendere a morsi la vita, …. Se non vedi l'ora di impossessarti di un'identità artificiale appena ventilata in modo gratuito e superficiale, dal virtuale ed episodico "influencer" di turno che ti spiega chi tu realmente sia e soprattutto cosa tu debba fare di te stesso per appartenere, in modo degno, a questo meraviglioso pianeta, …. Se ritieni che sia del tutto "à la page" scegliere il nome (rigorosamente anglosassone) dei tuoi figli con la stessa creativa "nonchalance" con cui, non più di una generazione fa, lo si faceva per "battezzare" il proprio cagnolino, …. Se non hai dubbi , infine, sul fatto che le dimensioni dell'esibizionismo e dello spettacolo siano la vera anima dell'attuale universo esistenziale e che, di conseguenza, il vendere e il comprare una qualsiasi merce, sia essa materiale che immateriale, costituisca l'ineludibile scopo per cui valga la pena di patire in questa nostra valle di lacrime, ….. allora tuo sarà il futuro e tutto ciò che vi è in esso, ma - quel che più conta - a questo punto tu non sarai più un uomo (ari-ops! o donna), figlio/a mio/a, ma soltanto un inedito e misterioso qualcos'"altro" ! Antonino Provenzano Roma, 18 agosto 2021


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DROGHE DI STATO: A VOLTE RITORNANO "A VOLTE RITORNANO" è un celebre film horror tratto da una raccolta di racconti di Stephen King. Parla di delinquenti morti che, a distanza di anni, ritornano nelle vesti di zombi seminando il terrore tra inermi cittadini. A VOLTE RITORNANO, pertanto, è un titolo azzeccato per parlare delle insulse proposte di chi vorrebbe legalizzare le droghe, che di tanto in tanto affiorano nella cronaca quotidiana, terrorizzando la componente sana della società. Questa volta è Beppe Grillo che ha smosso le acque, lanciando l'ennesima proposta referendaria per depenalizzare la cannabis e aprire la strada alla legalizzazione. Sono trascorsi solo pochi anni, ma sembra davvero lontana la stagione felice che, grazie alle gesta di un manipolo di cavalieri della tavola rotonda, ha fatto emergere il tanto marcio prodotto da intere generazioni di fetentoni al potere. Peccato che i novelli cavalieri, compreso il loro Re Artù, non hanno impiegato molto tempo a comprendere, una volta assisi su comode poltrone, che era molto più conveniente togliersi di dosso la pesante armatura e trasformarsi in scudieri proprio di quei fetentoni che avevano fieramente combattuto.Che cosa replicare, quindi, al guitto nazionale e ai tanti sostenitori di erbe puzzolenti e polverine bianche? A loro nulla, perché a certi soggetti non vale la pena conferire dignità interlocutoria, soprattutto su materie così delicate, e la risposta più opportuna è un silenzioso disprezzo. Agli altri, invece, soprattutto ai giovani, ricordiamo con forza che l'unica droga valida di cui devono nutrirsi si chiama "cultura". Non si facciano abbagliare, quindi, dai falsi miti di una società allo sbando e dalle chiacchiere dei mistificatori interessati. Non esistono droghe leggere, come hanno ben dimostrato tanti illustri scienziati e fior di studiosi, tra i quali figura il più grande psicoterapeuta italiano, Claudio Risé, autore di saggi che sono vera medicina per lo spirito, tra i quali spicca quello dedicato proprio alla cannabis, la cui lettura dovrebbe essere imposta nelle scuole: Cannabis - Come perdere la testa e a volte la vita, Edizioni San Paolo, 2007.Siccome non è lecito sperare che la scuola possa assolvere a un siffatto nobile proposito (è più facile trovare docenti sostenitori della liberalizzazione, tra l'altro) ciascun lettore di questo articolo farebbe cosa buona e giusta se ne acquistasse almeno due copie: una per sé e una seconda da donare a qualche giovane. Sofocle sosteneva che l'opera umana più bella è di essere utile al prossimo. Se il prossimo è composto da giovani che sbandano soprattutto per gli errori commessi da noi adulti, incapaci di lasciare in eredità un mondo decente, aiutarli a uscire dal tunnel, prima ancora che un'opera bella, si configura come un preciso dovere, equivalente a un grosso debito da onorare a ogni costo. Lino Lavorgna

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D’AGOSTO Così è l'estate: breve caotica mentitrice. Le famiglie si disperdono. I figli perdono tempo e telefonano agli amici. Tutto è riarso. Stupisce come l'albero del marciapiede sopravviva all'enormità del secco sulla sua cupola intatta e senza verde: forse trova linfa dalla felice rottura di una fogna. Il traffico non fa solo rumore, ma anche caldo e polvere. Il lavoro continua in luglio come per riappropriarsi del suo mandato di condanna che l'inverno quasi lenisce per l'ordine che vi regna. Le tegole della sua città accumulavano inerti il calore, i terrazzi e i vasi sui balconi, gli stessi recipienti d'acqua sui tetti, che la mente avrebbe deciso essere invece fresche piscine erano brodaglia certamente. Dai cani randagi riceveva il senso del chiuso della loro pelliccia asciutta, come dai gatti che si aggiravano tra i tavoli di Mafone, preludio a sozzure di resti di lische buttate in un angolo. E sempre caldo: calda la pietra, lo stucco e il legno dell'antico palazzo che si sacrificava da secoli all'afa per donare frescura a qualche salone defilato e ombroso. Calda la strada, in certi incroci inglobava nell'asfalto tappi di birra, bulloni, chiodi, perni come una resina australe, una larva miocenica. Caldo, se non che in certe traverse che la mappa avrebbe mostrato collimare il mare ad una valle. Allora era fresco, ma di materia specifica, fresco di mappa appunto fresco di stampa, di sarda salata avvolta in un giornale scaduto, di brezza con un po' di gasolio di porto. Di Campagna, col fico al posto del mare anche se è molto vicino, di vigna di palma e poi di nuovo caldo di roccia e di lana di pecora e spine impolverate e infine caldo di scorza di fichi d'India di stazzo che invece stava fresco al suo interno come i suoi frutti in ghiacciaia. La mente lo precedeva come per quella tossica che vide seduta sul muro dell'aiuola. Oscillava la testa avanti e indietro, gli occhi socchiusi completamente fatta. Anche a lei quel caldo dava autonomi messaggi alla fantasia a pensieri incongrui e veloci, superati con fastidio, sbaragliarti da nuovi e più strani. Pensò al Kanat che aveva scoperto da poco in un cantiere, al suo esatto profilo e l'acqua che vi scorreva, a tutti i Kanat della sua città che emiri e schiavi avevano insieme sognato, alla benedizione di quell'acqua fresca che vi scorreva in silenzio timida, bella e più evidente segno della sua stessa ricchezza di qualsiasi palese ruscello montano.


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Il suo intrecciarsi a fasci di diverse provenienze sotto la sua città il suo giocare fino a perdersi ormai per l'oblio dei suoi segreti e le sue mete. Erano calde anche le lapidi che erano molte sui palazzi che costeggiava camminando. Caldo era “Ferdinandus et Uxor Suavissima” e i tanti Marchioni che quasi colavano dal loro piombo incavato sul bianco di glassa del marmo. Ebbe per un attimo idea del caldo di un loculo raggiunto dal frinire di una cicala, animale da caldo per eccellenza più o quanto il cane, il gatto di cui si è detto, il cavallo sonnolente della carrozzella da nolo, il piccione che predilige le gronde roventi delle chiese. Il bar aveva le tende a fiori con frange, la gente ai tavolini si animava solo per chiamare il cameriere. Qualche turista dall'aria sfatta provava la granita al limone. Dall'angolo ove era si vedeva la cuspide della Porta Nuova tra fronde di alberi altissimi e il cielo di sfondo. E' lì che c'era la brezza, un vento da obelisco e pini, venticello di capitale. Tornò al lavoro dopo quella breve pausa come se tornasse da un nulla senza prospettive né senso, come se il caldo si fosse mangiato le illusioni che il lavoro alimentava e le sue relative attese. Ma subito smise e scese di nuovo per strada. Sentiva una pienezza o un vuoto che doveva versare da qualche parte come un'amarezza da rimuovere, uno scontento. Imboccò volontariamente stradine più anguste e modeste senza negozi, per vedere se da qualche persiana al piano terra si potesse intravedere nel buio di un'unica stanza qualche persona per la quale l'agosto non differiva per nulla da gennaio. Ne vide alcuni, soprattutto uomini grassi e seduti come le madri nei vicoli, rivolti al muro, che gli sembravano godere la brezza della loro trincea. Ne vide altri che proprio gli sembravano intatti dall'agosto. Più in alto famigliole ai balconi cercavano rifugio dall'afa della soffitta, i barbini in mutande, le madri in vestaglietta coi fiori da tovaglia, i padri in calzoncini, tra scope, biciclette e casse di birra. Ma loro in alto non erano indifferenti all'agosto, lo erano invece quelli dei bassi. Nessuno si soffiava, nemmeno sbuffava, nessuno era discinto o men che vestito. Gli sfuggì ogni possibile metafora e morale di questa condizione oggettivamente rilevata. Rimuginando su ciò tornava al lavoro, al suo studio e già sentiva più fresco, erano finalmente le 19. Fausto Provenzano Palermo 20/7/1994

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Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

www.confini.org


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