Confini 106

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Web-magazine di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

IL CREPUSCOLO DEGLI DEI

Numero 106 Giugno 2022


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Confini Web-magazine di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Numero 106 - Giugno 2022 Anno XXIV Edizione fuori commercio

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti - Cristofaro Sola +

Hanno collaborato:

Gianni Falcone Roberta Forte Lino Lavorgna Sara Lodi Stefania Melani Antonino Provenzano Fausto Provenzano Angelo Romano Massimo Sergenti Pierpaolo Sicco Cristofaro Sola

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Contatti: confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Sara Lodi e Gianni Falcone

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EDITORIALE

PER GIOVE! Passeggiavo per Roma, la Città Eterna, qualche tempo fa. Dalle parti di via di Villa Caffarelli mi ha colpito l'insegna di un elettricista: "Ottimo Massimo", impianti e riparazioni elettriche, con tanto di fulmine in rilievo, tipo fumetti americani. Poiché "Minerva la curiosa" è stata sempre la mia "dea guida", decido di entrare nel negozio fronte strada. Dietro un bancone, colmo di cianfrusaglie tecnologiche, scorgo un vecchio dalla bianca chioma fluente, il viso fiero, gli occhi spenti. Gli dico: "Buongiorno" e mi presento per quel che sono: un giornalista curioso e un libero pensatore. Ci stringiamo la mano - la sua grande, energica e callosa - e declina il suo nome, Giove Scordato, detto Jupy. Mi esce uno spontaneo: "Ancora venero il tuo nome del quale spero tu comprenda la grandezza". "Piuttosto il peso" replica lui, sibillino. "Certo è un nome impegnativo e non comune... ma il peso? Appena cinque lettere... e che dovrebbe dire Atlante...", replico. Mi guarda sornione: "Ha lasciato i pesi da tempo e si è dato al calcio, meno fatica e più soldi, il mio peso è diverso, è quello della memoria e della sacralità svanite". "Tutto cominciò con quel gran ladro di Prometeo, che, protetto da Mercurio, rubò il fuoco sacro per portarlo agli uomini e lo rese così solo banale fuoco, buono solo per scaldarsi ed appiccare incendi. La mia aquila si è ingozzata del suo fegato ma ormai il male era fatto. Quel cretino di Mercurio sfuggì alla mia ira e, oggi, fa il postino in motorino. Ti ho rivelato la mia vera identità solo perché hai detto che ancora veneri il mio nome e si è accesa in me la scintilla del ricordo. La bellezza di Venere, oggi richiestissima escort, la doppiezza di Giano che si è dato alla politica, l'abilità di Vulcano ormai atleta paralimpico, la procacia di Giunone che fa la balia precaria, la precisione di Diana ridotta a guardiana di cinghiali a Roma nord e la bionda Cerere che fa la piazzista di Ogm, l'inviolabilità di Vesta che ha un negozio di vestiti usati, l'irascibilità di Nettuno che si è dato ai Bagni, la mestizia di Plutone che scava fosse al cimitero, il caratteraccio di Marte che gestisce una "Paranza" in Sicilia, l'eleganza di Apollo che è organizzatore di Gay Pride, l'unica che ancora si difende è Minerva che ha messo su un'aziendina di intelligenza artificiale. Ci siamo adattati ai tempi e la nostra immortalità e divenuta una condanna insopportabile. Sono sparite le ninfe delle fonti e dei boschi diventate tutte volontarie di Green Peace o


EDITORIALE

"Gretine", Europa che un tempo rapii è una laida baldracca, Asia, sconosciuta ai più, si è trasformata in vile Argento e, per Fortuna - oggi lavora per Lottomatica - che America non è mai stata nel Pantheon. Potrei ancora trattenerti a lungo sulla sorte delle tante divinità dimenticate ma devo lasciarti per una riparazione urgente. Si tratta del corto circuito che oscura questo mondo". Angelo Romano

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IL CREPUSCOLO DEGLI DEI L'amico direttore ha voluto gratificarmi. Del che lo ringrazio. Ma, a questo punto, per motivi puramente ludici, reputo opportuno chiarire come la scelta del tema si sia determinata. Nel senso che, alla luce degli eventi, a lui 'girava' per la mente la 'caduta' alla quale metaforicamente abbinava 'i giganti': un plateale moto dall'alto verso il basso con conseguenze sovente dannose per il caduto e rumorose per gli astanti, specie se a cadere è un 'gigante', appunto. A quel punto, all'improvviso, si materializzò una fantastica scena di quel capolavoro leoniano dal curioso titolo 'Il buono, il brutto e il cattivo', ambientato nel periodo della guerra di secessione americana. Un film dove il grande regista, come in una coppa alchemica, nel mentre traccia dei tre protagonisti la rispettiva parte autobiografica dove coesistono bellezza e bruttezza, umanità e ferocia, demistifica tali concetti e, nel contempo, in una dichiarata denuncia della follia della guerra, demistifica la stessa storia degli Stati Uniti d'America, mostrandone il lato violento e brutale, appannato dalla tradizione mitizzante dell'epopea western. Ebbene, in quella rammentata scena, il povero Tuco, al secolo Eli Wallach, vessato a più non posso dal perverso caporale Wallace, un gigante guercio unionista, guardando il suo carnefice gli dice: "Mi piacciono quelli grandi e grossi come te, perché quando cadono fanno tanto rumore e quando ti butterò giù io... aaahhh... ne farai di rumore.". E, in effetti, così accadrà. Questo per dire che se la scena, di per sé, si adatta al pensiero dell'amico direttore, non è però aderente, a mio sommesso avviso, alla situazione nazionale e internazionale che vuole evocare. Nel senso che il perverso 'gigante' cade per aver infierito al punto da far superare all'oppresso il limite di sopportazione. Però questo, purtroppo, non rispecchia la realtà odierna in quanto di 'giganti', guerci e perversi, possono anche essercene in giro per il mondo ma, sfortunatamente, non ci sono Tuco a riscattarsi, non solo dalle traversie subite ma anche di una vita di stenti. Come non ci sono più biblici Davide in grado di 'fiondeggiare' il gigante filisteo Golia. E, ovviamente, non mi riferisco ad un 'riscatto' traumatico, cruento, sanguinoso. Certo che no. Siamo gente del III millennio, occidentali per quel che oggi voglia significare, civili e con parvenze democratiche, acculturati quanto basta, cauti e riflessivi. Ma non ci sono più nemmeno novelli Mohândâs Karamchand Gândhî, capaci di diventare 'Mahatma' che, alla guida di un movimento non violento, possano indurre i 'giganti' quanto meno a inginocchiarsi. Il 1947 è lontano un intero millennio. Leonardo Sciascia, nel suo leggendario 'Il giorno della civetta', fa dire al padrino mafioso Mariano che interloquiva col capitano Bellodi: "Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo


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l'umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz'uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà. Pochissimi gli uomini; i mezz'uomini pochi, ché mi contenterei l'umanità si fermasse ai mezz'uomini. E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi. E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito. E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre…" E, si pensi, eravamo, allora, nel 1961. Oggi, è il tempo della 'nebbia', del mito del nulla elevato a tutto e della demistificazione del valore ridotto a niente, dell'abbattimento di simboli di tradizione e dell'innalzamento di etichette di consumo. Oggi, è il tempo dello strame e dei suoi spargitori, insensibili al puzzo della lettiera. È il tempo degli ominicchi, dei piglianculi e dei quaquaraquà di Sciascia, degli inani e inermi spettatori indignati e distanti di Byung-Chul Han, dei servi, degli schiavi e degli eunuchi di Weber, del popolo-rana di Chomsky, delle 'ignare' società di De Benoist e di altre deprimenti manifestazioni che l'essere umano riesce a dare di sé stesso, lasciando ampio spazio agli imbecilli portatori del perfido 'verbo' dell'oicofobia. Così, fortunatamente (si fa per dire), non devo parlare di 'giganti', bensì di dei e del loro crepuscolo. Credo, infatti, che la similitudine ultima renda meglio la realtà che ci circonda: un'allegoria, questa, che peraltro messaggia una speranza: agli inani e agli inermi, agli stanchi e disperati, agli oppressi impauriti offre la possibilità di confidare, nonostante tutto, nella circolarità del tempo e nell'azione del Fato. Non voglio certo evocare il tristo quadro dato dal maestro Karl Böhm che alla caduta del Reich dirigeva la quarta opera della tetralogia wagneriana, il Crepuscolo degli Dei, appunto, quanto invece il soggetto di quel dramma, molto interessante peraltro. Là, attraverso la metafora di Sigfrido, Wagner tende a rappresentare l'Armageddon della mitologia norrena descritta ampiamente nella Ljóða Edda e più specificatamente nella profezia della Voluspa: il ragnarøkkr, il crepuscolo degli dei, avviato da Odino che incendia il Walhalla e dalla scomparsa delle Nornir mentre tessevano il filo del Destino. Un crepuscolo col quale, dopo la morte di Baldr, il figlio di Odino, inizia un periodo di caos e di lotte sanguinose seguito da un inverno di tre anni. Le potenze divine si scontrano e tutti gli dei muoiono, il cielo trema e le rocce si fendono. Il Sole si spegne, la Terra sprofonda e le Stelle cadono mentre un gran calore si sprigiona in alto. Ma una coppia umana, Lif e Lifthrasit, sopravvive alla catastrofe e dà inizio ad una nuova stirpe e ad un'era nuova sotto la sovranità di Baldr risorto. Sono soltanto io a notare delle attinenze con scenari passati e, in una dannata ipotesi, presenti? Comunque, diamo inizio alle 'danze'. Non voglio certo essere blasfemo ma, intanto, possiamo ravvisare il crepuscolo della spiritualità occidentale. Ci abbiamo scritto su un'infinità di volte ed è inutile ripercorrerne i motivi ma un aspetto vorrei comunque evidenziarlo: il progressivo grigiore della deità, quale che sia, generalmente s'identifica con analogo grigiore nella nostra mente. E se proprio non volessimo concepire una deità, potremmo almeno considerare al suo posto il tasso

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di misericordia, di rettitudine e di morale che mostriamo. In ogni caso, dei termini del binomio non ne possiamo fare due concetti avulsi l'uno dall'altro né possiamo analizzarli in via disgiunta in quanto sono intimamente legati: l'uno frutto dell'altro in un rapporto di mutuo alimento e sostegno. Purtroppo, il processo crepuscolare è dato per inarrestabile a meno che un nuovo fattore prorompente non fermi ed inverta la degenerazione. La Chiesa cattolica, il più importante credo cristiano, è divenuta totalmente pragmatica e l'improvvisa accelerazione nell'evoluzione della sua dottrina l'ha paradossalmente distaccata dalla società. Inoltre, ha ridotto i principi fondanti ad una sorta di optionals. Né, peraltro, si avverte più il senso di appartenenza ad un rito mistico, privato per giunta di quella parte misterica attinente al solo officiante, celebrato perfino in modo assolutamente comprensibile dal colto e dall'inclita. Così, l'autorevolezza del dio si è persa: troppo permissivo, quasi compagno silente nella trasgressione, pronto a giustificare e, ovviamente a perdonare. Ma incapace di lottare e di punire e, quindi, inservibile nelle avversità. Non vorrei apparire fazioso nel non citare e analizzare gli altri credi cristiani ma, absit iniuria verbis, sono fedi che potremmo definire 'locali', per quanto ferreo sia il legame che le unisce alle comunità e per quanto nutrite siano quest'ultime. Anzi, al di là del tema, senza voler essere irriverente né tantomeno dissacratore, forse sarebbe il caso di smussare, se non superare, le differenze dottrinarie e di metabolizzare quegli ostracismi delle chiese cattoliche di rito orientale che finora hanno impedito un proficuo confronto col mondo cristiano dell'ortodossia. E questo non certo perché io sia un fervente credente quanto invece perché sono amante della tradizione. Mi spiego. Riguardo agli scenari venturi circa il livello di spiritualità nel nostro continente e la sua audacia temeraria igiene spirituale connotazione, non so quale sia il pensiero dei maggiorenti del luteranesimo, del calvinismo, o dell'anglicanesimo. Né, tantomeno, conosco quello dei patriarchi ortodossi. Ma certo è che le società del futuro saranno sempre più mélange, in ogni senso. E, se aggiungiamo che i tassi di natalità delle società autoctone non brillano, avremo nel medio-lungo periodo una presenza sempre più incisiva e pregnante di fedi d'importazione; una presenza vieppiù accresciuta dalla prolificità dei 'nuovi' cittadini per i quali, per cultura e tradizione, non valgono tutti quei fattori frenanti della natalità (insicurezza economica, incertezza del futuro, ecc.). Certo, quale inciso, vorrei che la politica rimuovesse quegli ostacoli non soltanto ai fini dell'accrescimento della 'nostrana' natalità ma anche e soprattutto per ridefinire la dignità della persona, di tutte le persone, alquanto compromessa. Detto ciò, per l'amor del cielo, non ho assolutamente alcunché verso le fedi d'importazione in quanto sempre di spiritualità si tratta, praticata inoltre in maniera più partecipata, ma ciò non toglie che questo stia a significare il crepuscolo della nostra società, della nostra cultura, delle nostre tradizioni. Il che, in una civile convivenza, sarebbe ancora il meno se non fosse per il fatto che il generale crepuscolo incombente, oltremodo materialista e mercantilista, non sembra accettare diversità né concedere sconti. Tanto per sposare la cinematografia fantascientifica di Lucas, pare di assistere all'avanzata del Lato Oscuro della Forza, punteggiato da pochi Lord Dart Fener. Già, perché uscendo dalla stretta attinenza al tema per sposare la metafora, di 'dei' avviati verso


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il crepuscolo pare ce ne siano diversi. Intanto, come non citare l'Unione Europea? Da europeista convinto, mi piange il cuore nel farlo ma l'accadimento di fatti recenti hanno accresciuto il grigiore che già albergava sui palazzi comunitari. Né serve a dissiparlo il pannicello caldo dello sventolato 'salario minimo comune' che, automaticamente, ridiviene una 'variabile dipendente' nella diversità dei sistemi fiscali. Per tornare all'Unione, è stato scritto molto dalla nostra rivista in merito alle sue modalità di costruzione e al suo agire ma come non tornare a sottolineare che i due recenti, più impegnativi eventi della sua storia l'hanno indotta solo a mostrare la corda? La pandemia e i fatti in Ucraina, infatti, avrebbero potuto rappresentare quel blocco di partenza dal quale muovere intanto per cementare sulla scorta della necessità e dell'urgenza e poi per incrementare le occasioni e le possibilità di ulteriori azioni sinergiche. Ma se, nel primo caso, ciò che è stato manifesto è solo la sua indecisione e la sua confusione operativa, nel secondo è di tutta evidenza il suo stato di sudditanza, per giunta afona. Mi stupisce molto che l'unico evento, il solo, che abbia avuto la capacità di indurre il Presidente della Commissione e qualche leader nazionale a 'tuonare' per il superamento dell'unanimità nelle decisioni sia stata la ritrosia di Orban nel praticare sanzioni all'aggressore. Il che, quanto meno, è curioso. Ci ostiniamo, come europei, a rifiutare la nascita di un esercito comunitario ma, nel contempo, ci poniamo al servizio totale della NATO la quale, con tutto il rispetto, essendo un'organizzazione istituzionalmente destinata ad occuparsi di fatti nel Nord Atlantico, non dovrebbe avere nulla a che spartire con eventi in essere sulle coste del Mar d'Azov, distante un intero continente dalla sua zona di precipuo interesse. Ma tant'è. Non solo: nel nome sbandierato di una 'difesa europea' ci stiamo attrezzando perché una tale sudditanza divenga stabile nel momento in cui decidiamo, tutti, di rispettare lo stanziamento del 2% del bilancio nazionale per impegni NATO in missioni, investimenti e dotazioni militari. Ovviamente, non ho alcunché contro quell'Organizzazione né, tantomeno, contro il suo maggior sostenitore, gli USA ma, almeno per una volta, si abbia l'onestà di rischiarare l'incombente crepuscolo e di dichiarare coram populo che il comportamento finora adottato dalla 'deità' europea si connota unicamente come vassallaggio, strano per giunta, in quanto il dirimere fatti e accadimenti nel proprio territorio comporta, nel silenzio totale, l'ambiguo intervento di terzi. E questo, voglio sottolinearlo, non significa che nelle mie considerazioni vi sia una sottesa giustificazione dell'orso assalitore. Non ce n'è. Comunque, mi piace rilevarlo, sembra che gli unghielli della 'fiera', descritta come redivivo Lucifero, 'dio degli Inferi', non siano particolarmente acuminati. Il suo PIL è di gran lunga al di sotto di quello italiano, nonostante il suo territorio abbia un'estensione di ben undici meridiani e sia particolarmente ricco di materie prime tra le quali l'energia e i metalli, preziosi e industriali. Le sue dotazioni militari, inoltre, sono datate ad almeno trent'anni fa. Da Paese con quasi centocinquanta milioni di abitanti, la sua forza semmai è nel numero dei militari. Il fatto, almeno all'apparenza, è che uno Stato, ricco di possibilità, non

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sembra aver fatto tesoro comune dell'economia di mercato, oltremodo limitata nei suoi riflessi sociali, vista la carenza degli strumenti di distribuzione della ricchezza e dei sistemi di finanziamento dell'erario. Ciò posto, con l'impiego addirittura ridonante della tecnologia negli eventi bellici e con le relative dotazioni attuali degli Stati 'interessati alla contrapposizione' (è difficile trovare termini che si adattino alla situazione), come potrebbe pensare il rincarnato Satana di invadere, che so, l'Europa? E questo, mi ripeto, allo stato attuale. Non parliamo, poi, degli apparati futuri ipertecnologici che scaturiranno dalla disponibilità delle ingenti risorse finanziarie consentite dagli aumenti negli stanziamenti di bilancio. A meno che non si pensi ad un'offesa nucleare da parte dell'aggressore. Ma, anche qui, già con gli attuali sistemi di rilevazione, l'entità smisurata della risposta sarebbe devastante per tutti, a cominciare dall'aggressore stesso. L'esteriore verità è che la 'deità malefica' del socialismo realizzato, incombente sulle genti per oltre settant'anni, è stata efficacemente fronteggiata dalla 'deità benefica' dell'Occidente, incarnata dagli USA e dai suoi alleati; e del resto, la concezione imperialista americana si realizzava in uno scenario mondiale dove non v'erano altri 'imperatori/dei'. Ma con la caduta del rinomato Ba'al Zebub, il Signore delle Mosche, con lo sfilacciamento dell'Occidente e la quasi contemporanea insorgenza di un altro impero, quello cinese la cui influenza si espande dall'Africa all'America Latina, con qualche riflesso persino in Europa, il fondale strategico è indubbiamente cambiato. L'aspetto curioso della vicenda è che l'Occidente, tutto, a cominciare dagli USA, ha fatto a gara nel dare audacia al gigantetemeraria asiatico entratura WTO, delocalizzazioni produttive e knowhow in igiene nel spirituale abbondanza, al punto da farne una potenza competitiva sullo scacchiere internazionale. Ma, si sa, Business is Business come ci disse, ante litteram, Otis Turner nel lontano 1915. Se si aggiunge che le due ultime guide del Nuovo Continente, con tutto il rispetto, non hanno brillato né in politica economica né in quella internazionale, il sipario che calava sulla scena americana, aggravato da ultimo da una rilevante inflazione, era alquanto crepuscolare. Diversamente, va detto, da quella europea, almeno potenzialmente. E ciò, a prescindere dall'inefficienza delle istituzioni comunitarie, peraltro dichiaratamente incompetenti sia in materia economica che in quella della difesa, oltreché in quella sociale. È innegabile la forza economica che la Germania, intransigente 'dea' comunitaria, esponeva sino ad un biennio fa. Sul suo territorio passava oltre il 36% degli scambi commerciali dell'intero continente, la sua produzione faceva testo nel mondo e il suo rilevante peso poliedrico era avvertibile nell'agire di ciascuna istituzione unionista. Ma, il Covid prima ed ora i riflessi della guerra in Ucraina ne stanno facendo una sorta di quadro a luce stroboscopica dove alla ripresa del PIL, peraltro ritoccato in meno, e del commercio con l'estero si contrappongono le intermittenze degli abnormi rincari delle materie energetiche (oltre 121%) e dei metalli nonché dell'inflazione, prossima al 6%. Ma ciò che soprattutto la Germania sconta ora è un trentennio di politica economica merkeliana del Fiscal Compact che ha inchiodato un intero continente alla stagione dei tassi di Trichet, in


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nome di un'austerità che oggi non trova più né padri né madri. Per non parlare della politica energetica dalla svolta verde, di facciata, che ha messo al bando ogni ricerca sul nucleare, spianando la strada al dominio assoluto delle materie prime di Putin oggi e di Xi domani, ritenuti partner affidabili. Secondo diversi analisti, l'etichetta che oggi più le compete è 'Unfit to lead', inadatta a guidare. Comunque, un po' per celia e un po' per non morir, avrebbe detto la Butterfly pucciniana, è l'unico Paese a 'ragionare' sulle sanzioni contro l'orso russo. Invece, circa le altre due 'deità' minori, i due paredri, la Francia e l'Italia, la prima si sta riprendendo abbastanza bene dal tonfo del 2020 e, attraverso un'efficace politica di sostegno, sta compensando efficacemente gli stravolgenti rincari nelle materie energetiche. Ma due novità aprono la strada ad altrettanti enormi, crepuscolari interrogativi: la prima è rappresentata dalla politica energetica. Il riscontro di 'crepe' importanti in quattro reattori nucleari, dovute secondo gli esperti a 'stress', ha comportato il fermo per controlli di circa la metà dei restanti reattori. Il che, fatto tristemente umoristico, comporterà che i costi dell'energia elettrica, in un Paese che l'ha prodotta a iosa e venduta ad 'affamati' terzi, arriveranno ad essere addirittura il doppio di quelli tedeschi. La seconda novità è sicuramente data da due contestuali fattori, ambedue incentrati sulla politica internazionale: Nel passato, quel Paese non ha mai brillato quale aficionado alleato USA. Oggi, è allineato e coperto sulle sanzioni e, addirittura, sembra essere il primo acquirente del GNL americano. Inoltre, anche qui a differenza dei trascorsi, è manifesta la liaison che sembra aver tratteggiato con l'Italia la quale pare rispondere in amorosi sensi, come dimostra il Trattato del Quirinale su una cooperazione rafforzata. Dove questo, tutto questo, andrà a parare non è dato di sapere oggi: ma certo è che l'immagine che emerge è l'ulteriore scadimento dell'Unione mediterraneo-centrica e l'insorgenza, prepotente addirittura, di un interesse esclusivamente atlantico che poco, per non dire nulla, ha a che vedere col mantenimento di un'identità continentale. C'è da dire, però, che l'atlantismo tout court non sembra portare fortuna a chi, pur se europeo, l'ha sempre praticato. Ovviamente, mi riferisco alla Gran Bretagna, 'dea' incontrastata dei mari sino al 1915, sottoposta al voler di Woodrow Wilson nella pace di Versailles, partecipante al 'banco' della crisi del '29 dove ha giocato una partita non tanto a favore degli USA, barcamenante fino alla II guerra e, da lì, 'fedele' alleata del sorgente imperialismo americano; un'alleanza stretta ancor più manifesta dalla caduta del Muro che ha consentito il libero, unico, espandersi della potenza del Nuovo Continente. Ha provato, per ripiego, ad entrare nella Comunità Europea e poi nella UE dove, dopo aver adottato la formula dell'opting out che, tra l'altro, ha comportato il rifiuto dell'euro, ha stazionato sempre con uno spirito fortemente polemico. Fino alla sua notifica d'uscita del 2017. Già la Brexit ha creato a quel Paese non pochi problemi di natura economica: uscita di importanti gruppi industriali, scadimento del ruolo della City nella finanza mondiale, ecc. Ma il colpo più forte è venuto, oltre che dal Covid, dai riflessi degli eventi bellici. Là, lo spettro della recessione, ventilato dal 2023, secondo gli analisti potrebbe colpire già entro fine anno. I prezzi ad aprile

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sono saliti del 9%, il maggior tasso inflattivo da oltre 40 anni. A pesare è l'impennata dell'energia, ma anche l'aumento dei costi di cibo e trasporti; un insieme di fattori che ha portato il governatore della Bank of England a definire gli incrementi 'apocalittici'. La fiducia dei consumatori, peraltro, è crollata a - 40; nel 2008, era scesa a -39. Ma i 'pensieri', si sa, non vengono mai da soli. Nelle recenti elezioni nell'Irlanda del Nord, la rilevante vittoria del Partito Nazionalista d'ispirazione cattolica, il Sinn Féin, cioè Noi Stessi, che ha superato di gran lunga il Partito Unionista (con l'Inghilterra), sono certo porterà nuovo alimento all'intento mai sopito della riunificazione dell'Irlanda, stanti peraltro le parole della leader del partito vittorioso: "… I risultati elettorali rappresentano un momento determinante per la nostra politica e per la nostra gente. Oggi si inaugura una nuova era, che credo offra a tutti noi l'opportunità di reimmaginare le relazioni in questa società sulla base dell'equità, dell'uguaglianza e della giustizia sociale …". In pratica, il Re è nudo avrebbe detto il bambino su indicazione di Christian Andersen anche se un nuovo vestito sta provando a darselo, chissà se in affitto: con il Patto di Londra, che stabilisce reciproca assistenza tra Inghilterra, Finlandia e Svezia, ha messo in campo una sorta di Nato senza Nato e di Europa senza l'Unione. Lo so. Ho lasciato fuori dalla disamina l'Italia, 'dea minore' europea e gli USA nel nuovo scenario. La prima non ho voglia di esaminarla anche perché, nella sua attuale foschia, se l'atlantismo tout court dell'attuale premier non mi sorprende più di tanto ciò che mi meraviglia molto di più è il ruolo delle ex e delle attuali opposizioni: in pratica, dei partiti tutti. Non penso che la presenza (e il ruolo straordinario) dell'attuale Presidente del Consiglio perduri nella prossima legislatura ma non vedo all'orizzonte alcun soggetto con la capacità di uscire dall'esame (a volte pittoresco) della contingenza e di tratteggiare un programma di medio periodo che si proponga di rispondere al mutato, complesso quadro politico-economico nazionale e internazionale. Potrei spendere un po' più di parole per rappresentare il mio pensiero in merito ma preferisco ricorrere ad un dialogo della Storia Infinita: "Atreyu: Ma cosa è questo nulla? Gmork, il Lupo: È il vuoto che ci circonda. La gente ha rinunciato a sognare, ed io ho fatto in modo che il nulla dilaghi. Atreyu: Ma perché? Gmork: Perché è più facile dominare chi non crede in niente.". Qualcuno potrebbe obiettare e ricordarmi che il futuro è tracciato dal PNRR a fronte del quale incasseremo centinaia di miliardi; un solco tracciato dal vomere affilato dalla resilienza e dalla ripresa dove spargere le 'sementi' europee ed aspettare il raccolto. Certo, conosco il meccanismo ma non è questo a rendermi dubbioso quanto una serie di fattori: non sembra che tutto il campo a disposizione riceva sementi; l'esperienza dei seminatori non pare comprovata; non sembra essere stato calcolato il 'vento' (della crisi) e la sua forza di dispersione; nessuno sembra aver scacciato il branco di corvi che stazionano sui fili dell'alta tensione in attesa del pasto. Gli USA, invece, rappresentano un discorso a parte in quanto, a mio sommesso avviso, stanno provando a rivitalizzare un Impero nella consapevolezza, come accennato, che non è più il solo ed unico. Ed è qui, anche se la veste della 'deità' è stata lustrata e rappezzata, che si avverte un 'nuovo', incombente crepuscolo. Sembra quasi che l'aggressione inopinatamente perpetrata


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dall'orso russo sia risultata quasi 'provvidenziale' per rinnovare legami di sbiadita identità, tuttavia in uno scenario e con una meccanica totalmente differenti rispetto al passato. Se il Vecchio Occidente, nella sua propaggine europea, era stato avviato e sorretto dal Piano Marshall per fornire valsente così da sostenere, in un giro virtuoso, esportazioni americane, oggi queste sono indotte e vincolanti 'scelte', peraltro compiute dagli acquirenti a costi esorbitanti e a debito. Potrei aggiungere che la pandemia e i fatti bellici stanno compromettendo la salute di bilanci nazionali, ritenuta ferrea fino a non molto tempo fa. E potrei sommare a questo che la fragilità di altri bilanci nazionali può 'nascondere' appetibili risparmi e beni artistici, quali possibili garanzie su 'pagherò'. Potrei farlo, ma sarebbe un fuor d'opera perché non ho la sfera e, comunque, ciò non porterebbe luce sullo scenario politico ed economico nel quale il Nuovo Continente si sta muovendo. Uno scenario dove l'attrice, surrogata, è l'inflazione e i suoi devastanti effetti sul potere d'acquisto, sui salari, sui costi al consumo: effetti che per larghe fasce della popolazione stanno divenendo impossibili da gestire. Il fatto è che gli USA, visti gli ultimi quarant'anni, probabilmente non credevano che l'inflazione potesse tornare ad esplodere. Elevati tassi di crescita, ridotti interventi sociali, bassi tassi d'interesse e un indice inflattivo appena al di sotto del 2% lasciavano probabilmente configurare una stabile situazione ottimale. Poi, è arrivata la tempesta perfetta: il Covid prima con i massici interventi sociali dell'amministrazione attuale, poi la guerra in Ucraina, il peggioramento di una disponibilità già scarsa di beni intermedi e una crisi energetica che ha portato il costo di gas e petrolio su livelli mai visti, con un'inflazione ad oltre l'8%, nuovo nemico da combattere visto il risvolto politico interno nonché sulla geopolitica. Una battaglia non certo facile considerato il rialzo dei tassi da parte della FED con la conseguente frenata dell'economia e, per giunta, con la fiducia degli elettori verso l'attuale leader al di sotto del 30%. Una battaglia, peraltro, dove gli attori, quelli veri, sembra tendano a confondersi nelle ombre della sera, tra il lusco e il brusco. L'ha già detto e ribadito l'amica Roberta Forte in due passati articoli ed io voglio unirmi a lei nell'affermare che non credo al complotto mondialista: anche perché, semmai, l'esistenza di una eventuale 'trama' non potrebbe che riguardare una parte di questo mondo, quella ostinatamente definita 'occidentale'. Quella che ha da perdere finanziariamente. Almeno nella prima parte. Se fossi uno scrittore di storie fantapolitiche, a questo punto arriverei a pormi una domanda: siamo proprio certi che le scelte compiute da Stati che si affiancano o si contrappongono ad altri Stati abbiano tutte una, e sola, veste politica? Ma non sono uno scrittore e, in ogni caso, non scrivo di fantapolitica. Sono casomai un lettore, alquanto curioso e a vasto raggio e recentemente mi è capitato di leggere un articolo1 che mi porta a pensare. Riguarda l'Ucraina. In pratica, l'autore, dopo una premessa inerente allo scenario di guerra tra Ucraina e Russia, ricorda che i due paesi producono circa il 30% del grano mondiale e che la via marittima, attraverso i porti del Mar Nero, è la più importante. Giudica ovvia, quindi, la turbolenza dei mercati, aggravata dalla confusione sulle sanzioni alla Russia e, nello scenario bellico, dalle mine disseminate in mare dall'esercito ucraino. Ma aggiunge un ulteriore

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elemento, per quanto riguarda l'Ucraina, e cioè l'intensa opera di privatizzazione svolta dopo la fine dell'Unione Sovietica su sollecitazione del FMI e della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, che ha beneficiato poche grandi multinazionali. Ciò posto, l'autore ricorda che la FAO, l'agenzia dell'ONU per l'alimentazione, ha affermato poche settimane fa che le scorte mondiali di cereali sono sostanzialmente stabili. Evidenzia, in aggiunta, che per dichiarazione della Banca Mondiale, gli stock sono a livelli record e che tre quarti dei raccolti russi e ucraini sono già stati consegnati prima della guerra. Dunque, afferma, il grano è usato come arma economica per realizzare ulteriori profitti, generare paure e indirizzare l'opinione pubblica rispetto al conflitto. Ne deduce, quindi, che la prima menzogna da sfatare è che sia la guerra l'unico motivo della carenza di cereali e dell'aumento dei prezzi. A sostegno della tesi aggiunge che, ad osservare il mercato dei relativi futures, emergono forti speculazioni. Conclude, infine, nel tracciare legami operativi, con tanto di nomi, tra le multinazionali dell'alimentazione, quelle dell'alta finanza e quelle dell'high-tech. Non ho la competenza per dichiarare la fondatezza di quanto sopra ma certo è che se fosse vero ciò rappresenterebbe il crepuscolo dell'ultimo definitivo dio, l'Essere Umano, fatto ad immagine e somiglianza della deità e, quindi, dio anch'egli. Ma, come dicevo prima, il 'crepuscolo' nella concezione norrena porta alla rinascita di Baldr o, nella fantascienza di Lucas, all'emergere risolutivo del piccolo Luke Skywalker, figlio/alter ego di Lord Fener, servitore di Palpatine, Signore del Lato Oscuro della Forza. O, almeno, confidando nella circolarità del Tempo, questa è la speranza. Massimo Sergenti

Nota: 1. https://www.nuovogiornalenazionale.com/index.php/estero/politica-internazionale/7007-la-battaglia-delgrano-e-le-quattro-sorelle.html


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DEI PROFANI E SACRI IMBECILLI Lo so. Dovrei scrivere di dei 'veri' e di quelli metaforici, di quelli cioè che si sono atteggiati a tali e che l'incombente crepuscolo vespertino, tra stracci sinuosi di nebbia mossi da malefici refoli, sta facendo sbiadire allo sguardo e nel pensiero. Ma non ne ho voglia anche perché tornare ad analizzare la situazione 'divina', spirituale, immanente, oltre a ripetere concetti e a ribadire fatti, non potrei fare di più. Mi piange il cuore: io che non sono una credente per convinzione bensì per convenzione, mi sento depressa nel vedere l'opera dell'uomo che, quasi con una furia iconoclastica d'altri tempi e luoghi, sta distruggendo il più bel parto della sua mente: il 'divino' strumento, l'unico in grado di salvarci dall'angoscia esistenziale. E i cupi segni dei tempi, eccessivi e terribili, ci sono tutti. Come ci sono tutti gli avvisi di rilassatezza morale e di montante angoscia. Non parliamo, poi, di 'dei' metaforici rappresentati soprattutto da Stati la cui azione, per definizione altrui o propria, era etichettata come 'grande', 'imperiale', 'magnifica', ecc.; in pratica, posti sul piedistallo dalla considerazione delle genti, quando non della venerazione, erano arrivati ad avere la barba e a sedere su una nuvola dalla quale osservare con degnazione i comuni mortali. Si pensava che potessero anche stendere un dito e, attraverso lo scoccare di una scintilla, dalla mota creare l'Uomo. Ma, si sa, le 'cose' (a tanto siamo arrivati) non durano in eterno e, come dicevano i sudditi di quello Stato che della grandeur ne aveva fatto un credo, tout passe, tout lasse, tout casse e tout se remplace. Tutto passa, tutto si lascia, tutto si cancella e tutto si rimpiazza. Il che, con l'ultima aggiunta, lascerebbe ben sperare nel futuro; in realtà, il concetto di 'dio', quello della 'potenza divina', l'astrazione della trascendenza ed il criterio della soprannaturalità sono stati adeguatamente rielaborati per divenire un Big Mac a 18 strati, sieri antiCovid e antivaiolo delle scimmie comprensivi delle loro 826 varianti, uno smartphone a tre, quattro, ventisette lettori ottici, un logo sulla scarpa o sulla mutanda che molleggia nell'incedere, uno Smart TV a 64K, oled, con schermo curvo di 100 pollici, ecc. ecc. ecc. L'Olimpo è molto vasto e un'accorta impresa edile è in continua corsa per creare le abitazioni di lusso dei nuovi 'padroni del vapore', ovviamente dotate di domotica: con lo smartphone, puoi comandare l'acqua della doccia o quella del bidet mentre leggi da un e-reader l'ultimo e-book dell'onnipresente Mario Rossi. No. Non ha importanza se sotto la doccia o sul bidet ci sia tu o un altro. Scherzo? Certo, ma è indubitabile che i frutti della scienza e della tecnica siano diventati i nuovi santuari da raggiungere in pellegrinaggio. Manca l'argent per la carrozza e per il tiro ma la determinazione dei fedeli è tale che, dopo un cammino di stenti, giungono finalmente in vista

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dell'oggetto di culto, spesso mercé l'aiuto, disinteressato s'intende, di caritatevoli istituti di credito che sui bordi della strada vendono a rate ombrelli e bibite rinfrescanti. La verità, triste quanto si vuole, è che il denaro da un lato e, dall'altro, la scienza e la tecnica, hanno rimpiazzato i 'vecchi' dei, svaniti nella foschia incombente. È stata un'accorta e meritevole operazione di marketing, non c'è che dire: vuoi mettere la soddisfazione del possesso di un piccolo apparato tecnologico, prono ai tuoi voleri? E che dire dell'undicesima dose di vaccino, frutto di una trentennale ricerca ben ante Covid, che ti ha consentito di entrare in quel luogo di appagamento corporeo che è un ristorante semplicemente mostrando il green pass, anch'esso figlio della tecnologia? Un green pass che prossimamente ti consentirà persino di andare a pisciare in un luogo pubblico. La libertà di movimento e d'espressione liberatoria non ha prezzo, da raggiungere anche a costo dell'angoscia. Anzi, questa ne diventa il motore: considera quando in fila dalle 4 del mattino, in attesa che apra lo store per acquistare il nuovo telefono, tu t'interroghi con affanno di che ampiezza sarà la scorta e se sarà bastevole a soddisfare gli astanti. Continuo a scherzare? Faccio del sarcasmo. Comunque, non è, come dicevo, che le società, i Paesi, siano indenni da uno stato, come dire, di 'abbandono'. Luoghi di attaccamento e di venerazione fino a qualche anno fa, dove alla mostra delle bandiere ci si doveva alzare in segno di deferenza e spesso intonare con commozione un inno, oggi sono divenuti, per buona sorte, luoghi da legami sentimentali sempre più tenui e, più che altro, un'espressione della carta geografica. In che ti laurei? Ho chiesto recentemente al figlio di un amico. In ingegneria aerospaziale, è stata la risposta. Hai già inviato il tuo curriculum in giro? Certo. E giù una lista di aziende la cui ubicazione va dalla Germania, agli USA, passando per la Spagna. Per la Spagna … Ma, qualora dovessero assumerti all'estero, un domani pensi di ritornare in Italia? Certo. Per trovare i miei. Parlo dell'Italia, con la morte nel cuore e forse la situazione in giro non è perfettamente aderente alla nostra ma ci stanno pensando il Covid e i riflessi della guerra in Ucraina a sanare le differenze. E comunque, chi freme più parlando di patria? Di tradizioni? Di vincoli affettivi per i luoghi natali? Oggi siamo cittadini del mondo, padroni dell'universo, viaggiamo da un capo all'altro del globo grazie ai low cost, … agli ostelli e agli zaini, ci tuffiamo a caro prezzo sulle limited edition di magliette e scarpe griffate di valore irrisorio, guidiamo un'utilitaria da 200 CV comprata ovviamente a rate 'su misura', comandiamo a bacchetta ben 200 canali televisivi e un migliaio di quelli satellitari, navighiamo nello spazio cibernetico di trilioni di trilioni di byte dove, tra l'altro, ci possiamo masturbare gratis senza dover comprare il giornaletto hot, possiamo evocare il Genio della Lampada on line con un semplice click e soddisfare ogni nostro desiderio. Eppure, siamo incazzati. Ma che madonna vogliamo si chiede il governante di turno il quale, a volte, è rincoglionito come noi. Anzi, proprio perché come noi abbiamo pensato bene di darcelo come capo, dopo aver ascoltato le mirabilia delle mirabilie contenute nei programmi elettorali che da decenni si ripetono senza sosta tutti uguali, a destra e a manca: " … Dobbiamo agire più incisivamente in


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Europa, impiegare meglio e di più le risorse comunitarie, incentivare gli investimenti esteri diretti, fare un piano industriale, dobbiamo aiutare le imprese nell'internazionalizzazione soprattutto le piccole e medie, incentivare la ricerca, migliorare la governance e semplificare l'amministrazione pubblica ricorrendo al digitale, dobbiamo rimodificare il Titolo V della Costituzione, snellire le norme inerenti il mercato del lavoro, essere intransigenti nel rispetto delle norme ambientali, combattere l'evasione, l'elusione e la corruzione, proseguire nelle liberalizzazioni e nelle dismissioni del patrimonio immobiliare inutilizzato, aggredire il deficit e ridurre il debito pubblico …", etc., etc. e, come diceva Benigni, in uno spettacolo di alcuni anni fa, in riferimento a Berlusconi, "vi tolgo le tasse e vi trombo la nonna". Ma, intanto, anno dopo anno, la situazione sociale è andata deteriorandosi, senza strumenti di protezione, distrutti scientemente; i rapporti umani si sono persi e, parafrasando dal Signore degli Anelli, Non riconosco il tuo viso, Éowyn. La vista mi si oscura, disse Théoden. Perché, in effetti, non riconosciamo più il viso del nostro prossimo, ormai nemico, accusato di tante di quelle sfrontatezze che la risposta più appropriata sarebbe l'ostentazione del pugno chiuso col solo dito medio sollevato. Un gesto che, peraltro, faremmo a noi stessi, prossimo a nostra volta. E, il tutto, mentre le deità decadute e i loro i sepolcri imbiancati di evangelica memoria, stanno a guardare sparlando di giustizia, di crescita, di tasse, di occupazione. Infatti, Matteo (l'evangelista, s'intende), rivolto a scribi e a farisei ipocriti, aggiunse: "Così testimoniate, contro 1 voi stessi, di essere figli di chi uccise i profeti. Ebbene, voi colmate la misura dei vostri padri" . Temo di non sbagliare se affermo che di tutte le promesse fatte in quest'ultimo trentennio, decine e decine, forse quelle realizzate in parte non arrivano alle dita di una mano. Già, che voglio … Bella domanda! Vorrei che la gente si rimpossessasse dell'anima e potesse rompere l'iniquo patto con Mefistofele perché, nonostante le promesse, non c'è una Margherita ad aspettarci, né un'Elena di Troia, come non c'è un attimo talmente bello da indurci a volere che si fermi. Testimone Goethe. Purtroppo, siamo ancora più sprovveduti di Faust e per noi, rebus sic stantibus, non c'è salvezza perché, nonostante l'equivoco che può sorgere nel chiedere tempo per concludere un gioco alla Play Station, non aspiriamo più all'Infinito. Continuo a parlare dell'Italia? Sì ma, come dicevo, altri Paesi si stanno impegnando per adeguarsi a noi. Dovranno faticare un po' ma sono certa che, alla fine, ce la faranno. Del resto, dopo il Covid, affrontato in ordine sparso, basta vedere la situazione generale in Europa e quella al di là dell'Atlantico, data da una guerra combattuta per procura, stavolta ferreamente compatti. Non si poteva, certo, restare immobili e insensibili dinanzi ad un'aggressione compiuta proditoriamente ai danni di un Paese europeo civile e democratico. Ed anche ammesso, ma non concesso, che esistesse un qualche motivo all'irrequietezza dell'aggressore, la via della diplomazia, del dialogo, anche del confronto serrato e poi dei patti avrebbero dovuto essere la sola scelta. Anche se gli accordi di Minsk sono divenuti carta straccia, anche se ai referendum separatisti di Doneck e Lugansk, le due province del Donbass, erano presenti tra gli altri oltre cinquanta osservatori del continente in rappresentanza di parlamenti nazionali e del Parlamento Europeo

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che, di fatto, li hanno avallati. Anche se i moti separatisti che li hanno preceduti hanno visto la sanguinosa repressione ucraina. Tutto ciò posto, non s'è mai visto che sanzioni volte a destabilizzare il 'nemico' si ritorcano soprattutto a danno di chi le ha emesse. Ma che ci vogliamo fare, questo è il destino delle genti quando un fatto bellico, da guerra di potenza si trasforma in dichiarato scontro ideologico. Sia pur con termini diversi, sembra di essere tornati al 1919, alla pace di Versailles, dove il volere di Wilson, da vincitore di una 'guerra giusta' nonostante un solo anno di presenza sullo scenario bellico, al fine 'di rendere il mondo sicuro per la democrazia' impose condizioni capestro ai vinti, stravolgendo così quasi quattrocento anni di storia della diplomazia continentale. E, nel buttare all'aria ogni tradizionale teoria politica, segnò in modo indelebile il destino dell'Europa. Lo fece, peraltro, col pieno assenso dei rappresentanti delle altre potenze vincitrici europee: David Lyold George, Vittorio Orlando e George Clemenceau. "Questa non è una pace, è un armistizio per vent'anni." sentenziò nel 1920 Ferdinand Foch, generale comandante le forze dell'Intesa sul fronte occidentale. E questa non sembra una guerra o, almeno, non secondo i canoni tradizionali. Non ci sono dichiarazioni di stato di belligeranza, l'Ucraina giuridicamente non è in guerra con la Russia e questa non lo è con l'Ucraina. I diritti di transito sul territorio ucraino di gas russo verso l'affamata Europa sono stati regolarmente corrisposti. Gli armamenti impiegati dall'Ucraina negli attuali scontri nel Donbass provengono dai Paesi NATO i quali però non sono in guerra con la Russia. Anzi, se questa critica la cosa e giudica la situazione, come dire, quantomeno bizzarra, non manca un qualche ministro degli esteri che si adonta. Si adonta … rendiamoci conto. Ci adontiamo persino se il prezzo del gas, alla canna del quale siamo attaccati, viene fissato in rubli dal venditore, sganciandolo dalla supremazia del dollaro non foss'altro che per … la situazione. E, nonostante tutto, possiamo tranquillamente fare una call a Putin per avere notizie rassicuranti sulle forniture di grano e l'interlocutore si affretta con altrettanta tranquillità a fornircele. Nel contempo, le sanzioni praticate all'aggressore, notoriamente, ci stanno mettendo in ginocchio come europei e una nuova più vasta Weimar si profila all'orizzonte, stavolta anche con l'assenso tedesco. Se volessimo ricorrere a Plutarco, potremmo dire: "… Pirro rispose a uno 2 che gli esternava la gioia per la vittoria che "un'altra vittoria così e si sarebbe rovinato" . Ma non rende fino in fondo l'idea. Per cui, preferisco parafrasare Foch: 'Questa non è una guerra, è l'annuncio di uno tsunami' che già si tratteggia all'orizzonte. Già. A rinforzare la spinta ci sta pensando l'Unione ponendo al 2035, sotto l'emozione del green, il termine ultimo di vita per i motori endotermici. Ci scommetto che non esiste persona che non aspiri a vivere in spazi ameni ma, da novelli criceti, un minimo di pace mentale penso sia ambizione comune tra tante corse sulla ruota. Tuttavia, non c'è pace tra gli ulivi. Non voglio ripetere ciò che ho scritto nel mio articolo di aprile scorso 'Reset' a proposito dell'argomento ma mi limito semplicemente a ribadire un inconfutabile fatto: l'annunciata rivoluzione elettrica per l'automotive, sia pur proiettata a tredici anni per il completamento, viene avviata in un momento di forti stress economici, statali e imprenditoriali.


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E, facendo per un attimo i finti ottusi, non è che la questione riguardi solo quei Paesi che ospitano stabilimenti di produzione, perché in un'economia interconnessa i riflessi cadono immancabilmente su altri. Noi, ad esempio, forniamo alla sola Germania quasi il 30% di una loro autovettura, parte del quale è componentistica elettronica per motori endotermici. Se, poi, consideriamo che l'intera componentistica di un motore elettrico è esattamente la metà di un motore endotermico, lascio le considerazioni a chi ha orecchie per intendere. Una trasformazione, quindi, che va avviata ora e che comporta anche riconversioni industriali, dirette e indirette. Per cui, ripeto: in considerazione delle problematiche sul tappeto, era il caso di varare ora la rivoluzione automotive la quale si lega alla svolta green della produzione industriale generale? Oh! Ma non dobbiamo preoccuparci. Il sostegno pubblico (che curioso aggettivo) non mancherà, vista la buona causa. Un sostegno, comunque, a debito definito anch'esso 'buono' ma, visto l'allungamento (almeno un decennio) dei tempi di riassorbimento del tonfo del Covid a causa dei gravosi riflessi delle sanzioni, la domanda finale è: chi paga cash da subito? Certo, Pantalone, è ovvio. Ma persino Gabriele Galantara ripubblicherebbe la sua celebre vignetta dove "… a conti fatti' - Pantalone si chiede: Valeva proprio la pena?"3. Una riflessione alla quale aggiungo un moto di stupore: va be' che noi siamo poveri mortali, affannati per vivere. Per cui, ci sta se ignoravamo cosa l'Unione avesse in pentola per il futuro prossimo. Ma non avrebbe dovuto cogliere impreparati soggetti il cui partito, oltre ad operare (???) in Europa, regge (???) la 'nostra' cosa pubblica; soggetti che, di colpo, scoprono il fatto e, minacciando fuoco e fiamme, denunciano in aggiunta che terre e minerali rari, basilari per la generale svolta green, sono monopolio cinese. Il grande Edoardo avrebbe detto: Scetate Lucarié, songh' 'e nnove. E gli avrebbe fatto da rincalzo Bellocchio: Eh. Sì. La Cina è vicina. Da mettersi le mani nei capelli. Ma, ripensandoci, non ci crucciamo perché, trattandosi di commedia dell'arte, troviamo personaggi con le medesime caratteristiche, peraltro ripetuti nelle diverse rappresentazioni, che con gusto e con sagacia gestiscono al momento i canovacci. Così, nell'odierna rappresentazione, nel mentre vediamo l'opposizione totalmente e unicamente proiettata al sostegno dell'Occidente (sic), la maggioranza invece è variegata: chi si stupisce come detto, chi si defila, chi con ragionevolezza tenta di controbattere alla metafora sulla teiera di Russell e chi non sa di cosa si stia parlando. Nessuno che abbia improvvisato sul 'caro energia' ma abbiamo tempo. Tanto, nel frattempo, il Demiurgo proverà a stabilire un 'price cup'. Chissà se a settembre, quando gli analisti indicano il manifestarsi più evidente della crisi, ci sarà modo di innovare i canovacci perché, nelle more, forse qualcuno avrà riletto il PNRR e si sarà accorto che la piccola e media impresa (anche nel suo risvolto nel Terziario) è la grande assente, nonostante fornisca il contributo più rilevante al PIL. Ma non è sola: le tengono buona compagnia il turismo e il Sud che, nonostante la concessione di portafogli, sono fermi alle riflessioni di Giustino Fortunato. Ma, anche qui, non ci affliggiamo: tanto è una figurazione temporanea perché il crepuscolo incalza.

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Già. Vecchi dei e idoli (ma sì, allarghiamo indegnamente il concetto a Nietzsche), stanno sbiadendo attorno a noi, uno via l'altro: le deità, gli Stati, le istituzioni, la società, la famiglia, si allontanano nella bruma vespertina che ovatta i suoni e confonde le immagini. Ma, fortunatamente, da quella stessa nebbia, in maniera sempre più evidente ed efficace, stanno profilandosi nuovi idoli, fortunatamente apolidi, senza lo strascico di un seguito che richieda affetti, legami emozionali, valori e ideali. Idoli che già operano a nostro vantaggio nelle nostre comunicazioni, anche personali, nella nostra alimentazione, per la nostra salute, e per la gestione del nostro denaro. Idoli che ci curano, ci indirizzano e ci sollecitano. Idoli che, da entità profane, sono comunque consapevoli degli effetti che la carenza del sacro potrebbe produrre nella nostra mente: qualcuno, povero di spirito, nonostante gadget e brand, potrebbe ricadere nell'angoscia esistenziale. Ebbene, nel loro disinteressato interesse, stanno efficacemente provvedendo a sacralizzare gl'imbecilli. Forse, dal momento che l'azione è partita dal Nord America, hanno travisato il rispetto che le tribù indigene riservavano ai poveri di mente, ma tant'è. L'importante è l'intento. Così, in una naturale rivisitazione del vetusto passaggio biblico, stanno provvedendo a renderci a loro immagine e somiglianza: apolidi, senza un passato né un'identità. E volenterosi imbecilli, giovani e anziani, ordinati sacerdoti del nuovo credo, si affannano a cancellare i segni della nostra appartenenza, del nostro ieri comune e della nostra identità. Sacerdoti, sacri artefici del superiore volere, che imbecillemente abbattono la loro scure su feste comandate, presepi, libri, statue, quadri, intestazione di vie, e tanto altro che ci ricordava da dove veniamo. Nemmeno i libri per bambini, tipo Pippi Calzelunghe, sono sfuggiti al rogo. Qualcuno ha provato a dire sommessamente che questo era un atteggiamento dei mai tanto deprecati nazisti ma, apriti cielo, ha rischiato la lobotomia in quanto irriducibilmente diverso. Ma la cura amorevole dei nuovi Idoli non si è arrestata lì: caduta la memoria di dove veniamo e resa ininfluente l'esigenza di sapere dove andiamo, restava a completamento della maieutica, il punto di chi siamo. E, dulcis in fundo, anche qui, sacri volenterosi imbecilli stanno provvedendo, intanto cancellando il genere. In altre epoche avremmo detto: Socrate si rivolta nella tomba ma, oggi, a chi frega più nulla? Roberta Forte

Note: 1. Mt 23, 27-28 2. Plutarco – Vite parallele – Pirro e Mario - Ed. 2017 - p. 305 3. Gabriele Galantara – il Morso dell'Asino 1911 - Universale Economica Feltrinelli 1980


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IL CREPUSCOLO DEL SIGNOR ROSSI Osservo le dita della mia mano che si agitano sulla tastiera del computer e rifletto, forse per la prima volta, come esse non siano altro che una casuale risultanza di una decina di milioni di anni di inconsapevoli scelte evolutive compiute dalla mia specie animale di appartenenza. E tutte quante condizionate da un unico, drammatico e spietato filo conduttore: "vietato sbagliare", pena irreversibile estinzione. Guidato da indicibile fortuna o da intelligente illuminazione (d'origine divina? Ci potrebbe anche stare), sembra che il nostro primordiale progenitore - ma intendo proprio "primordiale" nel senso di originaria entità monocellulare capitata per caso in acconcio brodo di coltura predisposto da casuali fatalità naturali - non ne abbia sbagliata fin'ora, nel corso di qualche milione di anni di evoluzione, una, che sia proprio una. Il Signor Rossi "tipo Zero" - categoria a cui ovviamente appartiene anche colui che digita queste righe - sembra aver infatti "indovinato" fino ad oggi tutte quante le sue scelte evolutive (congratulazioni vivissime!) dato che, se ne avesse sbagliata una soltanto, noi staremmo qui a discettare su ipotesi dell'irrealtà. Di conseguenza egli occupa ora il vertice della catena alimentare e può tradurre in azione quella smisurata messe di pensiero/intuizioni che gli attraversa il cervello senza che alcun nemico naturale lo minacci se non che gli eventuali capricci che Gea, per proprio puro "divertimento" (nel vero senso etimologico del termine), gli scarica, di tanto in tanto, addosso sotto forma di erratiche, svariate e, ahimè spesso, disastrose fattispecie. Sin dalle primordiali scelte del tipo : 1) restare sulla terraferma piuttosto che immergersi nel mare, 2) lasciare la foresta pluviale per andarsene a spasso nella savana, 3) intuire le molteplici utilità del fuoco, 4) inventarsi la geniale ruota, 5) coltivare i cereali e, via via e fino al giorno d'oggi, anche, 6) lavarsi di più e meglio, il "progetto istitutivo" dell'archetipo dell'attuale Signor Rossi si è sempre più evoluto (al netto di seppur nefaste, ma certamente auto inflitte, calamità tipo guerre e massacri vari) fino a giungere, da Re della Natura, ai giorni nostri. Ed eccolo a ritrovarsi a dover fronteggiare, ahimè per un'ulteriore, ennesima volta, una inconscia "scelta" evolutiva, chiara nel dilemma, ma anch'essa sconosciuta, angosciante e pericolosa data l'intrinseca irreversibilità che di fatto l'accomuna a tutte le altre precedenti fattispecie. Di cosa si tratta? Ma dell'odierna, epocale mistura di "Elettronica" (intesa nell'accezione più ampia del termine) ed Internet abbattutasi sul pianeta non più di una ventina di anni fa! La prateria di opportunità che il dominio sul fuoco o l'invenzione della ruota (fate Voi!) offrirono ai primordiali danti causa del nostro Signor Rossi non è infatti molto difforme da quella che

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elettronica e "web" dipanano oggi ai piedi della nostra contemporaneità. Le esponenziali potenzialità che tali invenzioni mettono a disposizione dell'attuale umanità pongono altresì quest'ultima di fronte ad un'ennesima "scelta" evolutiva (mi auguro, per inciso, che si sia tutti quanti d'accordo sul fatto che l'attuale Signor Rossi non costituisca per nulla il terminale evolutivo, sia fisico che psichico, della razza umana: dice nulla, a titolo di banale esempio e per limitarsi al semplice ambito dei centimetri d'altezza, comparare la gioventù italiana di oggi con quella di sessant'anni fa?) della quale una cosa soltanto è certa: l'affrontarla ovvero il respingerla per intraprendere altre eventuali vie, segnerà per sempre e ad ogni modo, il percorso evolutivo dell'animale uomo. Una tale possibilità di "scelta" è peraltro un'ipotesi del tutto teorica in quanto in termini prettamente evolutivi c'è sempre ben poco su cui riflettere o ragionare: la "scelta" è infatti del tutto istintiva, immediata è soprattutto inconsapevole. Una volta concepita o intuita o appena tentata, essa è di fatto già acquisita, irreversibile; ogni altra alternativa svanisce all'istante, diventa irrecuperabile. Non resta che procedere in quell'unica direzione di marcia e, come suole dirsi,: "… che la Natura (o Dio) ce la mandi buona! Noi, contemporanei di questo XXI secolo, sembriamo aver infatti abbracciato "in toto" opzioni irreversibili tipo: 1) mondo virtuale, 2) ibridazione uomo-macchina con evidente predilezione per quest'ultima, 3) intelligenza artificiale extracorporea, 4) sdoppiamento tra universo sensoriale e metaverso elettronico, 5) crescente riduzione di tempo e spazio nella realizzazione degli eventi attraverso il loro avveramento nel cosiddetto "tempo reale". Tutte cose queste che, in natura, erano potenzialmente possibili, ma non ancora attuate, fin quando l'essere umano ha deciso, compiendo di fatto una precisa scelta culturale, di mettervi mano (ricordiamo che il Signor Rossi è l'unico essere vivente che evolve in modo parallelo sia in termini fisici, come tutti gli altri animali e dunque molto lentamente, che in termini psicoculturali in modo invece molto veloce). E ciò, né più né meno di come quella lontana volta in cui, attraverso la tecnologia, riuscì a convertire con la ruota, il semplice attrito radente in un'altrettanto banale, ma vincente, attrito volvente. Semplice no? Bastava pensarci e ricorrere all'inesauribile cassetta degli attrezzi fornita da madre natura ove può trovarsi di tutto, dallo scalpello per la pietra al silicio per i "chip" elettronici. Appena addentratisi però in una tale impresa si è condannati a perseguirla in modo irreversibile, in quanto il "REALE" non accetta ne ripensamenti ne rimpianti. La Natura consente soltanto di andare avanti su una determinata linea evolutiva fino a quando ci si potrebbe trovare di fronte ad un ostacolo invalicabile in quanto imprevisto perché imprevedibile; cioè al punto in cui, avendo sbagliato la scelta, si è irrimediabilmente fuori gioco (grazie Mr. Darwin!). Con in mente sempre il caro Signor Rossi - e direi, in questo caso, "si magna licet" - passiamo, ad esempio, ai poveri dinosauri. Essi le avevano indovinate tutte, ma proprio tutte e dobbiamo dar loro il credito di non essere


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assolutamente responsabili della loro estinzione (per quanto concerne almeno le risultanze delle loro sempre fortunate scelte evolutive nei millenni di esistenza, che li avevano portati ad essere i sovrani assoluti del mondo animale dell'epoca). Un po', se vogliamo, come è stato per il nostro, almeno fino ad oggi, fortunato contemporaneo. Sarebbe infatti del tutto ingeneroso imputare ai dinosauri carenza di adeguate competenze astronomiche che avrebbero dovuto far loro prevedere in tempo utile - per potersi attrezzare con eventuali "rimedi" preventivi di natura evolutiva - l'arrivo dell'asteroide il cui impatto al suolo, con conseguente pulviscolo atmosferico, privò, come è noto, la terra dei raggi solari per più di un anno sottraendo ai pachidermi quella foliazione arborea necessaria a riempire il loro ventre extralarge; quest'ultimo sì, invece, effettiva conseguenza di improvvide scelte evolutive a favore di un spropositato sovradimensionamento a cui l'imprevedibile asteroide avrebbe poi, di fatto, presentato l'esiziale conto finale. Temo infatti per nostro Signor Rossi una futura sorte che, per dirla con Leopardi (" … oimè, quanto somiglia al tuo costume il mio"), potrebbe non essere del tutto dissimile da quella riservata ai simpatici Brachiosauri. Questi infatti, bulimici di foglie, posero le basi per una ipertrofia corporea che, alla fine, fu la principale concausa della loro estinzione ; il signor Rossi, dal canto suo, bulimico di tutto (suolo, aria, energia, spazio, materie prime, cibo, acqua …..) ha già posto le basi di un'analoga ipertrofia socio-esistenziale su base planetaria di fronte alla quale la povera Gea non potrà che alzare le mani facendo si che il tutto si concluda senza neanche il bisogno dell'asteroide di turno. Sarebbe allora del tutto fuori luogo l'affermare: "vincenti sì, ma oggettivamente "stupidi" i Brachiosauri; altrettanto "vincenti, ma forse analogamente "stupidi" anche i vari Signor Rossi?" Ai posteri, l'ardua sentenza! Antonino Provenzano

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SULL’UCRAINA, NON CI STO Di rado, su questo giornale, mi esprimo in prima persona. Preferisco il "noi". Non è civetteria. E neppure un ingiustificato senso di grandezza trasfuso in un ridicolo plurale maiestatis. È piuttosto una scelta di metodo per rendere evidente il coinvolgimento del lettore nelle cose che scrivo. È un modo semplice ma diretto per onorare il patto di lealtà che si stipula tacitamente tra chi scrive e chi legge. Niente di più. Tuttavia, tale criterio non può valere sempre. Ci sono delle circostanze nelle quali è doveroso, per dirla con orrenda locuzione, "metterci la faccia". Ciò di cui sto per dire è una di quelle. Sono più di cento giorni che, a proposito della crisi russo-ucraina, la grancassa dei media batte sul medesimo tasto: Vladimir Putin è il tiranno aggressore da abbattere (quelli bravi lo chiamano regime change), il popolo ucraino è eroico nel battersi per la libertà, il fronte degli occidentali è compatto nel sostenere l'Ucraina fino alla sconfitta del nemico. E poi il messaggio subliminale: resistete, restiamo che, alla fine, vinceremo. Sì, la spunteremo noi. We shall overcome, canterebbe Joan Baez. Ne ho piene le tasche di ascoltare castronerie. Non vedo alcuna alba radiosa all'orizzonte. E per gli ucraini, di cui all'improvviso abbiamo scoperto di essere fratelli di latte, ciò che vedo al momento è morte e distruzione. Non prendiamoci in giro e, soprattutto, non illudiamo quei poveracci che si stanno facendo massacrare in nome di un avvenire di benessere facile che l'Ovest ha mostrato loro dal buco della serratura dell'Unione europea. Nel frattempo, ci stiamo impoverendo. Stiamo tornando indietro, come europei e come italiani. Per cosa? Per dare a qualcuno ciò che non possiamo dargli? La dico dritta. Non sono un "putiniano". Essendo cresciuto nel mito del pragmatismo bismarckiano, giudico questa guerra profondamente sbagliata. Peggio: prevedo che questa guerra porterà l'Occidente alla catastrofe. In tutti i sensi. Perciò, maledico la classe di governo che l'Occidente si ritrova sul groppone, tanto negli Stati Uniti quanto in Europa, per l'assoluta miopia dei suoi protagonisti, inetti e pericolosi. Compreso il nostro premier che, lasciatemelo dire, è stata una delusione cocente. Pensavo che il dottor Mario Draghi valesse di più. Mi sbagliavo. Il graduale, ma irreversibile, assorbimento della Russia post-comunista nella sfera geopolitica e culturale dell'Europa democratica e libera avrebbe dovuto essere la stella polare per i governanti occidentali, se avessero avuto criterio. Invece, hanno fatto e stanno facendo l'esatto contrario. Puntano all'isolamento della Russia e fanno a gara per spingere Mosca tra le braccia della Cina. Che è il vero nemico dell'Occidente, perché, a differenza della Russia, non è mai stata "europea"


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e, negli ultimi due decenni, ha sviluppato una crescente volontà di potenza, destinata a trasferirsi dal piano strettamente finanziario-commerciale a quello geopolitico e strategico. Pechino aveva bisogno di assicurarsi un partner fedele che gli garantisse forniture illimitate di materia prima, in particolare energetica, per completare il suo progetto espansionistico, concepito sull'aggressione alle economie del mondo per il tramite delle proprie manifatture e delle proprie risorse finanziarie. Lo hanno trovato grazie agli occidentali: la grande madre Russia trasformata nel drugstore del gigante asiatico. Si può essere più stupidi? Ci stiamo accanendo contro un falso bersaglio: Putin che invade l'Europa emulando al contrario due pazzie, quelle di Napoleone Bonaparte e di Adolf Hitler, quando il nemico reale è già tra di noi? Pechino ha piazzato i suoi avamposti in Occidente grazie agli accordi per ricreare la Via della Seta. Belt and Road Initiative, così si chiama il progetto di espansione globale cha anche un nostro Governo (il Conte prima versione) ha gioiosamente - e colpevolmente - sottoscritto. Dire queste cose provoca l'orticaria a quel benpensante? Pazienza, se la faccia passare con un efficace antistaminico perché non cambio idea: il sostegno all'Ucraina contro Mosca è stata ed è una monumentale fesseria. Che purtroppo pagheranno i nostri figli perché, a differenza della mediocre classe dirigente occidentale, a Pechino hanno pazienza e vista lunga. Intanto, c'è stato un primo assaggio di ciò che avverrà in futuro. Qualche settimana fa, aerei russi e cinesi, impegnati in un'esercitazione militare congiunta sul Mar del Giappone, hanno violato lo spazio aereo nipponico nel momento in cui il presidente Usa, Joe Biden, era a Tokyo insieme al primo ministro indiano, Narendra Modi, e al neoeletto premier australiano, Anthony Albanese, per il vertice del Dialogo quadrilaterale di sicurezza (Quad) nel quadrante geopolitico dell'indopacifico. Capite che vuol dire? La più grande potenza nucleare al mondo che si salda al gigante economico e tecnologico asiatico. Russia e Cina insieme possono arrivare dove vogliono. Provare a fermarle porterà alla Terza guerra mondiale, con esiti facilmente intuibili. E pensare che c'è stato un tempo nel quale i russi le esercitazioni militari le facevano con gli italiani. Il protocollo Ioniex vi ricorda nulla? Vi rinfresco la memoria: esercitazioni bilaterali aeronavali italo-russe nel mar Ionio, nella cornice degli accordi di Pratica di Mare del 2002. Era la strada giusta da percorrere, ma l'insipienza dei governanti occidentali, che si sono succeduti negli ultimi due decenni, l'ha cancellata. E oggi se ne pagano le conseguenze. Prevengo il moto di sdegno dei "sinceri atlantisti e convinti europeisti": darla vinta a Putin è una sconfitta per la libertà. Stupidaggini condite con dosi massicce d'ipocrisia. E, per favore, non si tiri fuori l'abusato Winston Churchill e la sua fermezza nel rifiutare qualsiasi cedimento a Hitler. Il primo ministro britannico, nel 1940, poté mantenere il punto con il nemico perché aveva il sostegno degli Stati Uniti ma, soprattutto, perché non era in campo avverso l'Unione Sovietica. La Storia non è fatta di "se". Tuttavia, a titolo di puro esercizio intellettuale, qualche iperbole ce la si può concedere. Immaginate se Hitler, invece di rinnegare il patto Molotov-von Rimbbentrop, siglato nell'agosto del 1939, di non aggressione tra la Germania e l'Unione Sovietica e invece d'invadere il territorio russo nel giugno del 1941 - Operazione Barbarossa - avesse convinto Stalin a fare fronte comune contro le "plutocrazie" capitalistiche

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occidentali aprendo la strada alle armate del Reich, attraverso il Caucaso, verso il Medio Oriente e le sue risorse petrolifere, pensate che il signor Churchill avrebbe mantenuto la stessa granitica fermezza contro Hitler? O avrebbe riconsiderato la strada del negoziato con Berlino mettendo in conto l'assoggettamento di gran parte del territorio europeo continentale al Reich? Oggi Putin sta vincendo. All'Occidente resta una sola opzione: decidere se circoscrivere il danno. La massa d'incapaci che occupa le cancellerie occidentali farebbe bene a prendere lezioni di realpolitik da un grande vecchio che di queste cose ne capisce. Il novantanovenne Henry Kissinger lo ha detto senza giri di parole: non cercate una sconfitta devastante per la Russia in Ucraina e cercate invece di convincere Kiev a cedere una parte del suo territorio alla Russia. Questa guerra sta rimodellando l'equilibrio geopolitico mondiale. C'è ancora pochissimo tempo perché ciò non avvenga a totale danno dell'Occidente. Si obietterà: gli ucraini non ci stanno a perdere territorio. Comprensibile, ma li abbiamo chiamati eroi, allora lo siano fino in fondo. Cosa fanno gli eroi? Si sacrificano per salvare altri. Privarsi di un pezzo di territorio per ottenere in cambio una solida riappacificazione dell'Ovest con la Russia è nell'interesse anche degli ucraini. Non lo si vuole fare? Vorrà dire che è proprio vero ciò che dicevano i latini: a quelli che vuole rovinare, Giove toglie prima la ragione. L'offensiva russa andrà avanti, lenta ma inarrestabile, scandita a colpi d'artiglieria e di bombardamenti missilistici. Obiettivo: la conquista dell'Oblast' di Odessa fino al Delta del Danubio e al ricongiungimento con la Transnistria, in Moldavia. Risultato atteso da Mosca: l'acquisizione del Mar d'Azov al regime delle acque interne dello Stato russo e il pieno controllo della costa settentrionale del Mar Nero con la contestuale esclusione dell'Ucraina dai benefici economico-strategici dello sbocco al mare. E per l'Occidente? Sapere di avere un nemico giurato alle porte, lietissimo di sostenere i nuovi amici di Pechino nel progetto di fagocitare Taiwan. È la consapevolezza di tale scenario prossimo venturo che ci fa rimpiangere l'assenza sul campo non soltanto del nostro Silvio Berlusconi ma anche di Angela Merkel e di Donald Trump sull'altra sponda dell'Atlantico. Con tutti loro in sella sono certo che non si sarebbe arrivati a questo disastro. E noi italiani staremmo a goderci l'agognata ripresa economica. Cristofaro Sola


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UE: UNA POLITICA DEL TUBO Nella Babele della guerra russo-ucraina c'è una piccola crociata che viene combattuta da pochi e con impressionante disparità di armi. Si tratta della guerra all'ipocrisia e alle menzogne con le quali i governi occidentali, e il nostro più di altri, tengono a bada le inquiete opinioni pubbliche. È un fronte di lotta complicato, tuttavia non possiamo tirarci via dalla prima linea. Perché tutto si può sopportare, ma non che un Governo inganni i propri cittadini. È doloroso doverlo ammettere: sulla sbandierata compattezza dell'Unione europea nel contrastare Vladimir Putin non c'è niente di vero e Mario Draghi mente quando racconta agli italiani dei suoi memorabili successi in sede comunitaria. È il caso dell'approvazione del sesto pacchetto di sanzioni alla Federazione Russa, comminato dall'Unione europea. Il varo del travagliato provvedimento è avvenuto nel corso del Consiglio europeo straordinario del 30-31 maggio, a Bruxelles. Si è giunti all'accordo grazie a un compromesso raggiunto con i più riottosi a inasprire i rapporti con Mosca. La macchina propagandistica dei media di regime ha puntato il dito sul solito Viktor Orbán, l'amico ungherese di tutti i nazionalisti del mondo, a cominciare da quello che alloggia al audacia temeraria igiene spirituale Cremlino. Ma è troppo comodo avere a portata di mano l'uomo nero sul quale scaricare tutte le colpe per gli errori compiuti. Deprecabile che anche il nostro premier abbia fatto ricorso alla falsificazione della realtà per dare una robusta mano di vernice coprente alle sue incapacità. Punto di contrasto per l'adozione dell'ennesimo pacchetto di sanzioni ha riguardato l'embargo del petrolio russo esportato nei Paesi dell'Unione europea. Bruxelles ha avallato la narrazione secondo cui la misura, che se andrà a regime sarà soltanto all'inizio del prossimo anno, riguarderà tutti i 27 Paesi-membri dell'Ue a eccezione dell'Ungheria alla quale, per particolari condizioni geografiche (mancanza di sbocchi al mare), sarebbe stato concesso di continuare a ricevere petrolio dalla Russia. Così l'ha spiegata lo stesso Draghi. Tutto falso. Innanzitutto, non è solo l'Ungheria ma vi sono anche la Repubblica Ceca e la Slovacchia a beneficiare della deroga. E non soltanto loro. A guadagnare da questo imbroglio è, come sempre, la Germania. E anche la Polonia. Ma facciamo un passo indietro. Il documento conclusivo del vertice al punto 5 del paragrafo sulle sanzioni recita testualmente: "Il Consiglio europeo conviene che il sesto pacchetto di sanzioni nei confronti della Russia riguarderà il petrolio greggio, nonché i prodotti petroliferi, forniti dalla Russia agli Stati membri, con un'eccezione temporanea per il petrolio greggio fornito mediante oleodotto". Non si citano i Paesi interessati dall'"eccezione" ma si introduce un discrimine tra

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due modalità di trasporto del petrolio: via mare e tramite oleodotto. Solo la prima viene colpita dalla misura sanzionatoria, non la seconda. Ma di quale oleodotto parliamo? È il Druzhba, che in lingua russa significa amicizia. L'"oleodotto dell'Amicizia" è un residuato della Guerra fredda. Il più lungo al mondo - 4mila chilometri - ha una portata massima quotidiana di 1,4 milioni di barili. Dal 1962 (anno di entrata in funzione) trasporta petrolio grezzo siberiano e degli Urali dalla Repubblica ex-sovietica del Tatarstan e dall'Oblast' di Samara a Mazyr, nella Bielorussia meridionale. Lì l'oleodotto si divide in due tronconi: uno meridionale, l'altro settentrionale. Il ramo meridionale attraversa l'Ucraina e a Užgorod, nell'Oblast' della Transcarpazia, si fraziona in ulteriori due rami che vanno: il primo in Slovacchia (Družba-1 il percorso originario), il secondo in Ungheria (Družba-2). Il ramo slovacco si divide ancora presso Bratislava: un tratto punta verso nord-ovest diretto in Repubblica Ceca e l'altro si dirige a sud, in Ungheria. L'oleodotto Družba-1 attraversa il confine ungherese a Dregelypalank e giunge a Százhalombatta. Il ramo settentrionale, invece, attraversa la Polonia per giungere a Schwedt in Germania, dove si collega con l'oleodotto Mvl a Rostock e Spergau. Ora, qual è il quadro che si delinea dopo la decisione di Bruxelles? Quello di un'Unione europea a geometrie variabili. Tre dei ventisette membri hanno di fatto ottenuto una deroga a tempo illimitato. Germania e Polonia, attraversate dal tubo che viene dalla Russia, si sono impegnate a chiudere gradualmente il rubinetto dell'oleodotto nel ramo che finisce in casa loro. Attenzione, però: l'impegno non è vincolante. Significa che, per l'ennesima volta, ciò che vale per i comuni mortali non vale per i "cugini" tedeschi i quali continuano bellamente a fare gli affaracci loro a spese dei più fessi che, in Europa, sono quelli che hanno i Governi più deboli e più inclini a servire gli interessi dei poteri forti. Per l'Italia, che il petrolio russo lo riceve via mare, è un danno gigantesco. In Sicilia c'è la più grande raffineria del Paese. È della Lukoil Italia srl, dal 2009 divisione italiana della svizzera Litasco Sa a sua volta controllata dal colosso petrolifero russo Lukoil di Vagit Alekperov. Per effetto delle sanzioni varate, l'impianto siracusano di Priolo Gargallo deve chiudere, lasciando senza lavoro 10mila unità di personale, diretto e indiretto, oltre al danno per la mancata raffinazione di 14 milioni di tonnellate di petrolio all'anno, che corrispondono al 26 per cento della raffinazione di greggio sul territorio nazionale. La Bulgaria, che si è trovata in una condizione simile a quella italiana, ha avuto la prontezza di riflessi di concordare con Bruxelles una deroga per continuare a raffinare petrolio proveniente dalla Russia. Roma non si è degnata neanche di provarci. E poi raccontano delle magnificenze di questo Governo? Altro che applausi, Mario Draghi e compagni meriterebbero pedate. Sapete cosa ha ottenuto l'uomo del "whatever it takes"? Non che in sede comunitaria si mettesse un tetto al prezzo del gas per evitare che la speculazione finanziaria si mangi gli italiani, ma un laconico riconoscimento dell'argomento, citato nel contesto fumoso delle conclusioni del vertice europeo. È scritto: "Il Consiglio europeo invita la Commissione a esaminare anche insieme ai nostri partner internazionali modalità per contenere l'aumento dei prezzi dell'energia, compresa la fattibilità dell'introduzione di tetti temporanei ai prezzi all'importazione, se del caso" (Punto 27, lettera a-Paragrafo IV. Energia). E questa sarebbe la grande vittoria di Mario


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Draghi, un insultante "ne riparleremo, se del caso"? Tra qualche giorno il Parlamento ascolterà le comunicazioni del presidente del Consiglio in vista del Consiglio europeo ordinario che si aprirà il prossimo 23 giugno. L'articolo 4 della legge numero 234 del 24 dicembre 2012, che detta le norme generali sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea, prevede che il Parlamento possa adottare "atti di indirizzo volti a delineare i principi e le linee dell'azione del Governo nell'attività preparatoria di adozione degli atti dell'Unione europea". Gli "inutili idioti" a Cinque Stelle hanno cominciato ad agitare le acque su una questione di nessun impatto concreto sulla realtà - lo stop all'invio di armi italiane all'Ucraina - nel chiaro intento di distrarre l'attenzione dell'opinione pubblica dalla sostanza vera dei problemi. Sostanza che rimanda al suicidio economico dell'Italia in un contesto comunitario nel quale ciascun membro, a eccezione del nostro Paese, persevera nel favorire i propri interessi nazionali. Piuttosto che girare a vuoto su questioni inutili o troppo più grandi di noi, si obblighi Draghi ad andare in Europa a dire che la festa è finita e che se si richiedono sacrifici per aiutare gli ucraini, li si faccia tutti in pari misura; basta con la politica comunitaria dell'"armiamoci e partite"; basta con Berlino che fa la voce grossa contro Mosca con i nostri portafogli. Finora gli italiani sono stati alla finestra a guardare. Tra poco andranno al mare lasciandosi i guai alle spalle. Poi però arriverà l'autunno. E con l'autunno, la previsione degli analisti è che la crisi economica deflagrerà in tutta la sua virulenza. Aziende che salteranno, prezzi dei beni di prima necessità alle stelle, contrazione del credito, difficoltà di approvigionamento delle materie prime e, soprattutto, aumenti incontrollati dei costi della benzina, del gasolio, dell'energia elettrica e del gas per le famiglie e per le imprese. A quel punto, non sarà l'inane albagia di Mario Draghi a salvare dalla rabbia popolare la "mostruosa creatura" del Frankenstein governativo, tenuta in piedi con lo scotch. Cristofaro Sola

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SULL’ORLO DI UNA CRISI DI NERVI Donne sull'orlo di una crisi di nervi. È il titolo di un film scritto e diretto dal regista spagnolo Pedro Almodóvar. La pellicola è del 1988 ed è liberamente ispirata alla pièce teatrale La voce umana (1930) dello scrittore francese Jean Cocteau. Oggi quel titolo lo prendiamo in prestito per rappresentare in modo perfetto lo stato d'animo di Matteo Salvini. L'incipit è: un leghista sull'orlo di una crisi di nervi. Già, perché sembra che il "Capitano" non ci stia più con la testa. Sono mesi che non ne azzecca una. Scende nel gradimento degli italiani. E più l'indice cala, maggiore è il numero dei passi falsi che Salvini colleziona. Che sia ansia da prestazione? Vedersi scavalcato da Giorgia Meloni, seppure nei sondaggi, gli toglie lucidità. Tuttavia, non è la leader di Fratelli d'Italia la protagonista unica dei suoi incubi notturni. E diurni. Con certosina pazienza e gesuitico cinismo, il suo alter ego nel partito, Giancarlo Giorgetti, gli sta scavando la fossa. Il numero due della Lega sta portando il partito, attraverso un severo processo di normalizzazione in chiave europeista, in direzione opposta a quella praticata dal 2014, data d'inizio della rivoluzione copernicana targata Matteo Salvini, all'estate del 2019, stagione del decesso del sovranismo leghista certificato dal funerale celebrato sotto il sole stordente del Papeete. Per dimostrare la fallacia del detto "quando si tocca il fondo non si può che risalire", Matteo Salvini ne ha pensata un'altra, clamorosa: una personale missione di pace a Mosca per convincere Vladimir Putin a cessare il fuoco e ad avviare un negoziato che salvi l'Ucraina da un destino che appare segnato. È uno scherzo? Caro Matteo, non puoi fare sul serio. Viene difficile individuare chi sia la mente sopraffina nel suo staff che l'abbia indotto a credere nel successo dell'avventura. Di certo non sarà stato Lorenzo Fontana, responsabile Esteri e vice-segretario federale del partito. Al contrario, indiscrezioni di stampa ricostruiscono il contenuto di una telefonata piuttosto burrascosa tra il capo e il suo vice, nella quale il secondo avrebbe ammonito il primo a riflettere bene sull'improvvida iniziativa che potrebbe tramutarsi in un ferale boomerang. Ci sta che Lorenzo Fontana si preoccupi delle "genialate" del capo, perché il dirigente veronese non è soltanto il tessitore discreto di tutti i rapporti internazionali della Lega. Fontana è la voce di quel mondo leghista ultraconservatore, convintamente identitario e ancor più convintamente contrario alla globalizzazione, che ha dato volto e rappresentanza all'Italia profonda, cattolica, sovranista, oppositrice delle politiche europee che mortificano il lavoro, le produzioni, i valori, le tradizioni del nostro Paese. Un mondo che in parte ha abbandonato la sponda leghista quando ha preso atto della svolta moderata, consociativa, "draghiana", del partito. Porzione di elettorato quantificabile nello scarto percentuale che corre tra il 34,26 per


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cento conquistato alle Europee nel maggio 2019 e le odierne stime che valutano la Lega al di sotto del 15 per cento. Per Salvini, sganciarsi dal mondo che Fontana rappresenta, sarebbe il colpo definitivo alla sua ambizione di continuare a guidare il partito nel prossimo futuro. A essere invece leader del centrodestra alle prossime politiche il "Capitano" non pensa più. Quel treno è passato da un pezzo. Ora è il momento di Giorgia Meloni che all'ultima virata ha preso il vento in poppa spingendo la barca Fratelli d'Italia a volare sull'onda del consenso. Come si dice: nella vita ci vuole fortuna. E la signora Meloni è donna fortunata. Già, perché per le sue ambizioni di leadership, la vicenda della crisi russo-ucraina si sta rivelando un terno al lotto. Per come si sono messe le cose, oggi lei figura come una solida atlantista, più vicina ai repubblicani statunitensi e a Mario Draghi nel sostenere la rottura con Mosca e l'appoggio incondizionato a Kiev di quanto non lo sia Salvini che è partner di Governo. Attenzione, però: non è tutto oro ciò che luccica. L'occasione, offerta dall'aggressione russa all'Ucraina, di mostrarsi fieramente schierata con l'Occidente ha consentito alla signora Meloni di nascondere un po' di polvere sotto al tappeto. L'antiputinismo sbandierato da Fratelli d'Italia non è soltanto figlio di una netta scelta di campo geopolitico. Ha un retrogusto di opportunismo che disturba. Più che ascoltare la voce della libertà che viene da Ovest, dagli Stati Uniti, Giorgia Meloni è stata attratta dalle sirene antirusse della Polonia. È accaduto per ragioni di bottega. A Varsavia il Governo in carica è guidato da Mateusz Morawiecki, leader del partito Diritto e Giustizia (PiS) che alle ultime elezioni per la Sejm - la Camera bassa del Parlamento polacco - ha raccolto il 43,59 per cento dei consensi ottenendo la maggioranza assoluta di 235 seggi su 460. Il PiS è un partito conservatore che attualmente esprime 27 europarlamentari. Costoro sono iscritti al Gruppo/partito dei Conservatori e Riformisti europei (Ecr) presieduto, dal 2020, da Giorgia Meloni. Il PiS, dopo l'uscita dei conservatori britannici dall'Unione europea, è la rappresentanza nazionale più consistente nell'ambito dell'Ecr. La delegazione italiana, costituita esclusivamente da Fratelli d'Italia, conta otto europarlamentari dopo l'ingresso nel partito dell'europarlamentare ex leghista Vincenzo Sofo. Di recente, la componente polacca ha mostrato segni d'insofferenza verso la presidente Giorgia Meloni, ritenuta troppo incline a dare spazio alle idee del premier ungherese Viktor Orbàn sull'ipotesi di rassemblement con la destra lepenista e filo-putiniana. Il malessere ha spinto i polacchi, nel 2021, a minacciare un'uscita clamorosa dall'Ecr, gruppo che avevano contribuito a fondare nel 2009 insieme ai Conservatori britannici e al Partito Democratico civico della Repubblica Ceca. La crisi russo-ucraina, piovuta come cacio sui maccheroni sulla destra conservatrice italiana, ha consentito alla Meloni un totale recupero della frazione polacca. Da qui l'acuirsi della spaccatura nel centrodestra nostrano, con la Lega rimasta fedele al Gruppo Identità e Democrazia, frequentato in coabitazione con i sodali francesi di Marine Le Pen e Forza Italia, orgogliosamente ancorata al Partito Popolare europeo; da qui l'appiattimento di Fratelli d'Italia sulle posizioni oltranziste del Governo polacco. Di tale anomalia Matteo Salvini finisce per esserne in qualche misura vittima incolpevole. Che non è propriamente il migliore viatico per cominciare una cavalcata trionfale verso il traguardo delle Politiche del 2023. Cosa deve fare il leader leghista per

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uscire dal cul-de-sac nel quale si è cacciato? Difficile a dirsi, con un Mario Draghi che ha preso il comando delle operazioni e ha deciso di tirare dritto per la sua strada ignorando i mal di pancia provocati dall'azione di governo ai partiti della maggioranza. Ciò che sappiamo, invece, è quel che Salvini non deve fare. Non faccia idiozie con iniziative strampalate che gli tornerebbero indietro come un boomerang, per usare un'immagine attribuita a Lorenzo Fontana. Neanche rimettersi alla testa della protesta sociale ha senso, a meno che Salvini non abbia in mente di andare fino in fondo nella contrapposizione a Mario Draghi. Ora, la domanda è: il "Capitano" ha la forza di far saltare il Governo? E, soprattutto, il partito che è sempre più "giorgettiano", lo seguirebbe? A giudicare dai fatti, la risposta è negativa. Un dato di cronaca lo conferma. La notizia della programmata spedizione moscovita di Salvini è cominciata a circolare pressappoco in concomitanza della serrata indetta dai pescatori contro il caro gasolio. In altri tempi il leader leghista non avrebbe avuto alcun dubbio sul dove farsi trovare dai giornalisti e dai fotografi: su qualche molo di uno dei tanti porti italiani a fare baccano. Oggi, invece, giunge l'eco di un silenzio assordante sull'argomento da parte del leader leghista. Segno che stavolta ai manifestanti Salvini non saprebbe cosa dire. E men che meno, cosa promettere. Povero Matteo, mala tempora currunt. Ma temiamo che per lui la brutta stagione non sia finita se è vero che l'aforisma ciceroniano prosegue con un poco incoraggiante: "Sed peiora parantur". C.S.


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GATTI MAMMONI So che non è attinente al tema proposto ma non potevo evitare di esprimere il mio pensiero, la mia personale considerazione sui referendum conclusi la scorsa settimana e sul loro esito. E, per dirla tutta, avrei anche tralasciato il fatto se, l'altra sera, un'accreditata commentatrice televisiva non avesse, con un'aria di certa superiorità, spiegato ai poveri ascoltatori e ai colleghi giornalisti presenti in studio perché la mandata referendaria ultima è stata un sonoro flop. In sostanza, l'autorevole giornalista ha sostenuto che la scarsissima affluenza alle urne è stato un segno di maturità dell'elettorato perché la tematica proposta non l'ha sentita come 'sua', come vicina alle problematiche della sua vita, come tangente ai suoi interessi. Per cui, i promotori hanno compiuto un'iniziativa puramente demagogica, forse ideologica, che l'elettorato ha punito. Forse sarà così perché, ovviamente, non sono nella mente del singolo elettore ma, di contro, sono propenso a credere che l'arroganza della commentatrice di cui sopra non abbia eguali. Abbiamo votato di tutto, tornate referendarie anche da dodici quesiti i cui argomenti erano talmente astrusi da essere spiegati con dovizia da soloni del diritto. Quesiti talmente enigmatici che esperti non solo del diritto ma anche di economia, di finanza, di sociologia hanno occupato ore ed ore dei palinsesti televisivi e radiofonici per chiarire gli effetti del 'SI' e quelli del 'NO'. Mi correggo. 'Spiegare', 'chiarire' sono espressioni un po' fuorvianti. Nel senso che l'accento della macchina dell'informazione è stato sempre posto sull'opportunità di una specifica scelta. Ed è talmente vero che il mondo del lavoro, ad esempio, in due differenti occasioni ha votato contro i suoi interessi: mi riferisco alla cancellazione dei decimali sulla scala mobile e al principe dei paradossi: l'abolizione dell'art. 18 della L.300/70. Con ogni probabilità, l'ha fatto perché, con senso di responsabilità, da un lato si è fatto carico del gravame aziendale e, dall'altro, ha creduto alla 'magia' della competizione. Vista la successiva abolizione della scala mobile e costatato che la competizione, per essere tale e per sortire effetto, abbisogna di altri fattori che, a distanza di decenni, tardano a concretizzarsi, potrei ribaltare il concetto espresso dalla nota commentatrice e affermare che l'accento su quei 'SI', al quale l'elettorato ha creduto anche grazie all'impegno 'informativo', servivano in realtà a particolari interessi. Ma non mi spingo a tanto. Certo è che altri quesiti, chiarissimi, che toccavano la morale di un Paese e le tasche dei cittadini, mi riferisco al finanziamento pubblico ai partito e all'acqua, pur se vincenti non hanno sortito effetto alcuno. Il rimborso elettorale ha sostituito il primo e le società di gestione fanno i prezzi a loro piacimento. Per tornare alla recente tornata, credo invece che l'elettorato non abbia proprio saputo del

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recente appuntamento, grazie a quell'atteggiamento generale che da qualche tempo a questa parte, contraddistingue sull'argomento politici e informazione: il silenzio. Le recenti vicende che hanno travagliato la magistratura non portano certo a emettere un giudizio sull'intera categoria ma dal momento stesso che uno dei suoi alti esponenti fa pubblicamente delle affermazioni che, peraltro, ripete in un libro-intervista, penso che quantomeno una qualche iniziativa avrebbe potuto essere assunta. Ma non è questo il punto. Né lo è la pendente riforma Cartabia sull'argomento che, peraltro, non sembra avere un percorso felice. Il punto è che i massmedia hanno dato sommaria notizia del referendum in parola (parlo dei programmi di prima serata) neppure una settimana prima del suo svolgimento. Se poi ne hanno fatto un cenno su qualche programma simile a 'Quelli della notte' non mi è dato di sapere. D'altro canto, potrei pensare che una parte politica non abbia avuto interesse a menzionare né, men che meno, a sostenere il 'SI' e che, quindi, non abbia sollecitato una puntuale informazione. Ma non giungo al punto di credere che non si sia 'spesa' neppure a livello di contrapposizione politica se non culturale. L'ulteriore punto, alquanto curioso, è che nemmeno i promotori, che insieme formano la maggioranza degli elettori secondo gli ultimi sondaggi, è sembrato che l'abbiano sostenuto, nonostante a proprio interno, in passato, qualcuno abbia invocato l'Arcangelo Michele. Come detto, ciò che ha contraddistinto più di tutto la recente tornata è stato il silenzio, generale. Quale impulso, positivo o negativo, e da chi, avrebbe potuto ricevere l'elettore e, quindi, responsabilmente valutare se votare e come? Ciò che mi viene alla mente è un film del 1975, 'Gatto Mammone' del quale invito a leggere la trama sull'usuale Wikipedia. Ecco. Con un sorriso amaro, credo che la situazione che ha caratterizzato la tornata referendaria ultima sia stata una convergenza di Gatti Mammoni. M.S.


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LA LEZIONE DELLE AMMINISTRATIVE Il verdetto delle urne c'è stato. Ma non è di agevole decodificazione, né a sinistra né a destra. Proviamo a capire. Partiamo dal centrodestra. Asserire che uniti si vince mentre divisi si perde, è una verità. Ma non basta. Bisogna domandarsi come, con quali programmi e risorse umane da mettere in campo? La lettura che, a caldo, ne hanno dato gli esponenti moderati della coalizione, ai quali si è aggiunta Forza Italia, è fuorviante. Essi dicono: vincono i candidati moderati che rassicurano l'opinione pubblica. Asserzione che prelude all'ennesimo errore strategico. In primo luogo, vi sono stati candidati della coalizione di estrazione conservatrice che hanno stravinto. Come Pierluigi Biondi, riconfermato al primo turno sindaco de L'Aquila. In secondo luogo, la classificazione concettuale della tipologia di "moderato" resta piuttosto scivolosa quando incrocia il vissuto quotidiano. Si prenda il caso del sindaco di Genova, Marco Bucci. Il suo profilo vincente si è caratterizzato non per la mitezza dello sguardo ma per il puntuto decisionismo della sua Amministrazione. Il decisionista è, per definizione, uno che non si impantana nelle mediazioni infinite, ma va dritto come un treno quando si tratta di scegliere cosa fare. Al riguardo, Bucci lo si può descrivere come moderato tout court? In terzo luogo, bisogna considerare il consenso che ogni componente della coalizione reca alla causa comune. Guardiamo Palermo. Lì vince al primo turno il centrodestra. Il candidato sindaco, Roberto Lagalla, di estrazione cattolico-popolare, ottiene il 47,6 per cento (98.448 voti). Tuttavia, la vittoria è stata determinata non soltanto dai voti dei centristi e di Forza Italia ma dal contributo decisivo di Fratelli d'Italia (13,7 per cento) e della lista "Prima l'Italia" d'ispirazione leghista (7,1%). Alla luce di questa combinazione, che si è ripetuta in molte altre città al voto, il rischio è che la frazione moderata ricaschi nell'errore capitale di ritenere i voti della destra funzionali alla vittoria ma non a essere protagonista nel governare il Paese. Sarebbe salutare se, prima di mettere mano al cantiere per la ristrutturazione della coalizione che il prossimo anno sfiderà il centrosinistra, si analizzassero le criticità che permangono nel campo del centrodestra, a partire dalla crisi che sta attraversando la Lega. I "giornaloni", che hanno rinunciato da tempo a darsi uno spessore intellettuale, all'unisono hanno intonato il de profundis a Matteo Salvini. Sarebbe lui il grande sconfitto di questa tornata elettorale. E, in effetti, lo sarebbe se ci limitassimo a un'osservazione di superficie. Le cose cambiano se cominciamo a chiederci quale Salvini sia stato sconfitto. Quello duro e puro, sovranista ed euroscettico che abbiamo conosciuto tra il 2014 e il 2019 o il Salvini del riflusso giorgettiano, moderato e governista, che ha preso piede dalla svolta del Papeete (estate 2019) per imporsi con

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l'avvento del Governo Draghi? Se stiamo ai numeri non trova appeal nell'elettorato la seconda versione, quella soft. La cartina di tornasole che lo dimostra è il risultato di Fratelli d'Italia, in crescita esponenziale nelle roccaforti leghiste del Nord. Cosa vuol dire? Che un'opinione pubblica protestataria, totalmente critica con le scelte del Governo Draghi, tradita dalla svolta "confindustriale" imposta principalmente da Giancarlo Giorgetti, è trasmigrata nel bacino di consenso di Giorgia Meloni, quando non nel serbatoio dell'astensionismo. Precedentemente, la Lega sovranista era divenuta punto di riferimento politico dell'elettorato operaio e dei lavoratori autonomi nonché del mondo della piccola e micro-imprenditorialità, pesantemente penalizzato dagli effetti negativi della globalizzazione. La capacità di rappresentare interessi disomogenei, oltre gli steccati di classe, ha trasformato l'offerta programmatica della Lega in un progetto egemonico. Il "Capitano" ha raccolto - della porzione maggioritaria dello scontento popolare si è occupato il Movimento Cinque Stelle - una parte di quella disperazione sociale che, se non opportunamente incanalata all'interno delle dinamiche democratiche, avrebbe provocato una voragine nella tenuta della coesione sociale. L'approdo al Governo di unità nazionale ha fatto mutare pelle alla Lega, troppo rapidamente e troppo radicalmente. Un esempio paradigmatico. Salvini sovranista ha tuonato per anni sulla necessità di adottare regole stringenti per impedire la fuga all'estero delle imprese e il conseguente saccheggio industriale del nostro know-how. Giancarlo Giorgetti, dal momento dell'insediamento al ministero dello Sviluppo economico, ha fatto di tutto per impedire il varo di una normativa sanzionatoria in danno della libertà assoluta delle aziende di chiudere baracca e burattini e trasferirsi altrove, per produrre alle condizioni di mercato più favorevoli. Il cedimento della Lega non è stato semplicemente programmatico, ma valoriale e identitario. Ragione per la quale è giusto chiedersi: quale Salvini ci sarà nei prossimi passaggi? Tornerà il tribuno che parla al "popolo degli abissi" oppure resisterà il Salvini agghindato per il pranzo di gala del liberismo economico risorgente, manovrato dalla mano draghiana presente in Lega? Il quadro politico uscito dalla tornata delle Amministrative non è replicabile nel futuro prossimo. La "variante autunnale" potrebbe deteriorare lo scenario. Molto dipenderà dall'evoluzione della crisi economica. Il confermarsi in autunno della stagflazione, che quasi tutti gli economisti, compresi quelli della Banca d'Italia e del ministero dell'Economia, cominciano a ipotizzare, potrebbe ampliare sensibilmente l'area della povertà assoluta nel nostro Paese. Benché le forze espressione dell'establishment tendano a sottovalutare il dato, è dalla crisi finanziaria globale del 2008 che in Italia si è consolidato un universo protestatario che coinvolge un italiano su tre. A spanne, in sede elettorale, quell'area, estremamente mobile, vale il 30 per cento dei consensi. Negli anni ha trasmigrato in cerca di una rappresentanza che le desse voce. Dal 2013 al 2019 ha dato forza ai due partiti, la Lega e il Movimento Cinque Stelle, che si proclamavano anti-sistema, seppure con differenti accenti. Nel momento in cui entrambe le forze si sono riposizionate strategicamente, tradendo le promesse elettorali, quell'area d'insoddisfazione sociale li ha abbandonati. Nel caso dei Cinque Stelle, rifluendo


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nell'astensionismo; nel caso della Lega, in parte spostandosi su Fratelli d'Italia e in altra parte optando per l'astensione. Secondo il ministero dell'Interno, negli 88 Comuni monitorati (escluse Sicilia, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige, Valle d'Aosta), l'affluenza alle urne è stata del 54,79 per cento, contro il 60,12 per cento della volta precedente. E, soprattutto, contro il 72,94 per cento alla Camera delle Politiche del 2018, che consacrarono il Movimento Cinque Stelle primo partito con il 32,68 per cento. Parliamo di oltre 10 milioni di voti ai quali si aggiungono i 5 milioni e 600mila circa conseguiti dalla Lega. Chi parlerà agli scontenti nei prossimi mesi? Quali saranno le parole d'ordine per convincerli a tornare alle urne? Posto che la sinistra con il Partito Democratico ha fatto da tempo una scelta di campo in favore delle élite europee e dei cosiddetti poteri forti, il centrodestra, nel suo complesso, è intenzionato a farsi carico della protesta sociale? Se lo è non può continuare a dire, come fanno le sue ramificazioni centriste, che la soluzione sta nel rinnovare la fiducia a Mario Draghi anche dopo il passaggio elettorale del 2023, in comunione di spirito e di opere con le mosche cocchiere della sinistra: Matteo Renzi e Carlo Calenda. Il gossip politico di queste ore si sta focalizzando sulla conquista della leadership del centrodestra: toccherà a Giorgia Meloni o Matteo Salvini e Silvio Berlusconi proveranno a fare lo sgambetto alla lanciatissima competitrice? Siamo al panem et circenses della Roma imperiale. Una modalità, aggiornata ai tempi, per distogliere l'attenzione della gente dalla sostanza dei problemi. Non conterà chi guiderà le danze ma cosa farà il centrodestra. E soprattutto, per chi si spenderà. Non c'è da cullarsi sugli allori. La legislatura potrebbe non giungere alla scadenza naturale. Tanto Matteo Salvini quanto Giuseppe Conte hanno compreso che il sostegno piatto a Mario Draghi sta dilapidando quel che resta del loro capitale elettorale. D'altro canto, fingere di contestare il Governo, come hanno provato a fare finora i "contiani" e un "confuso" Salvini, per poi votarne tutti i provvedimenti, è un tatticismo che non paga. Al contrario, accentua il disgusto degli italiani per l'incoerenza e l'inaffidabilità del ceto politico. Non è da escludere che entrambi i partiti si chiamino fuori dalla maggioranza per non doversi fare carico del dividendo negativo di un'esperienza governativa deludente. Se così fosse, al centrodestra non resterebbe molto tempo per guardarsi dentro e decidere cosa essere da grande. Lo facciano prima che sia troppo tardi. Il resto è teatrino che non mancherà a nessuno. Cristofaro Sola

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A NATION ONCE AGAIN Parte prima PROLOGO Lo slogan scelto come titolo dell'articolo non è più di moda sia nell'Irlanda libera sia in quella sotto dominio inglese. Già da alcuni anni è stato sostituito da "Time for real change" ed è con esso che il Sinn Féin ha vinto le recenti elezioni nell'Irlanda del Nord, per la prima volta nella sua storia. Il vecchio slogan, ispirato alla canzone composta nel 1840 da Thomas Osborne Davis, ha accompagnato le battaglie combattute dagli irlandesi desiderosi di liberarsi delle catene inglesi e, dal 1921, le battaglie combattute dagli indipendentisti del Nord, separati dalla madre patria in virtù del trattato anglo-irlandese. Spesso sono state le ultime parole pronunciate dai martiri immolatisi inseguendo un sogno. La stupenda canzone, nella parte iniziale, inneggia ai trecento spartani delle Termopili e ai tre romani che fermarono gli Etruschi sul ponte Sublicio (Orazio Coclite, Spurio Larcio e Tito Erminio), quale esempio metaforico per un presupposto di libertà: "Quando il fuoco dell'infanzia era nel mio sangue, ho letto di antichi uomini liberi, che coraggiosamente restarono in piedi (resistettero combattendo N.d.R.) per la Grecia e per Roma: trecento uomini e tre uomini. E poi ho pregato affinché potessi vedere le nostre catene spezzarsi in due e l'Irlanda, antica terra, diventare ancora una volta una nazione". (Per i più curiosi che vorranno approfondire: non date retta alle interpretazioni alternative sui tre romani, da taluni fantasiosi storici associati a Bruto, Cassio e Decimo Bruto, che, con l'assassinio di Cesare, "avrebbero" inteso preservare Roma dalla tirannia. A prescindere dall'erronea e ingiusta "promozione" etica dei tre congiurati - e di riflesso dei loro complici che a tutto pensavano fuorché al bene di Roma - va precisato che Osborne trasse spunto dai "Canti di Roma antica", scritti dallo storico e politico inglese Thomas Babington Macaulay. Il primo canto della corposa opera, infatti - molto bella, tra l'altro, ancorché misconosciuta in Italia - è dedicato proprio al mitico eroe romano). La canzone, oggigiorno, è cantata prevalentemente dalle persone anziane, dai vecchi e gloriosi ex combattenti dell'Irish Republican Army, in bar e pub poco o per nulla frequentati dai giovani e dai giovanissimi nati un po' prima e dopo "l'accordo del venerdì santo" (10 aprile 1998), che mise fine ai terribili anni dei troubles. Nelle nuove generazioni l'afflato "romantico" dell'indipendentismo si sta lentamente spegnendo, soppiantato da altre problematiche,


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sapientemente sfruttate da Michelle O'Neill per vincere le elezioni. Per correttezza va detto che la brava erede dell'ultimo "eroe" del vecchio Sinn Féin, Gerry Adams, non ha mai mancato di ribadire l'importanza del ricongiungimento con i fratelli dell'Éire, puntando però in modo più incisivo sul malcontento generale per le difficoltà economiche e i tanti problemi insorti dopo la Brexit. Onore al merito, quindi, per la partita abilmente giocata e vinta, ma questo articolo è dedicato soprattutto a "loro", a quegli irlandesi con la pelle ruvida e il corpo segnato da mille cicatrici, che ancora saltano dal letto al primo rumore e affogano nei boccali di "Guinnes" i ricordi di un periodo terribile, durante il quale vivevano ogni giorno senza sapere se avrebbero visto l'alba di quello successivo. Un periodo che ha visto tanti di loro cadere sotto il fuoco degli occupanti e subire l'ancora più dolorosa repressione perpetrata dai connazionali della Royal Ulster Constabulary, irlandesi al servizio di Sua Maestà che non avevano alcuna pietà nel trattare come bestie destinate al macello altri irlandesi. UN PO' DI STORIA Il turista che visita l'Irlanda resta sempre incantato dalla sua bellezza. Spiagge sabbiose, scogliere a picco sul mare, antiche fortezze, splendidi tramonti, una natura variegata che incornicia vasti territori, sono elementi già sufficienti a suscitare "meraviglia", facendo insorgere il desiderio di tornarvi presto. I più acculturati possono elevare il "godimento" percorrendo i sentieri dove la storia ha impresso fortemente il proprio sigillo e visitando i luoghi cari ai tanti artisti e letterati che, con le loro opere, hanno conquistato fama planetaria. Solo chi riesca a entrare nello spirito "celtico-gaelico", tuttavia, può sublimare al meglio l'incontro con una terra e un popolo che, ancora oggi, preservano quel retaggio che si perde nella notte dei tempi, immune dalla contaminazione inferta dai romani ai popoli, anche limitrofi, assoggettati al loro dominio. Occorrono anni per penetrare nell'universo dei Muintir, dei Parthóloin, dei Clanna Nemid, dei Fir Bolg, dei Túatha Dé Danann, dei Maic Míled e dei Gaeli; studiare le divinità celtiche; le festività di Beltaine, Imbolc, Lughnasad, Samhain. Occorrono anni per assimilare l'essenza della "vecchia Irlanda", ma senza questo percorso "culturale", però, si perde davvero molto, mentre chi dovesse iniziare il "viaggio" - con calma e pazienza per non smarrirsi nel fantastico intreccio di storia e leggenda, mito e bellezza, suggestione e magia - non riuscirà più a staccarsi da quel mondo e correrà ogni volta che gli sarà possibile lì dove il passato si fonde nel presente. Lasciando ai più volenterosi il compito di viaggiare a ritroso nel Tempo, pertanto, facciamo partire questo articolo dal 1167, anno in cui un gruppo di Normanni, provenienti dal Galles, iniziò ad invadere l'isola, scombussolando il sistema gaelico che regnava sin dalla preistoria. Quattro anni dopo Enrico II sbarcò con una grande flotta a Waterford, diventando il primo re d'Inghilterra a mettere piede sul suolo irlandese, con il pieno assenso del papa Alessandro III. Senza addentrarci nei complessi intrecci dinastici, va detto che i primi contatti tra "inglesi" e "gaeli" furono caratterizzati da un processo di assimilazione ben gradito dalle popolazioni

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autoctone in virtù dei vantaggi da esso scaturiti, soprattutto sotto il profilo economico. I sovrani, invece, iniziarono subito a contrastarlo, ritenendo che il loro compito fosse solo quello di "civilizzare" un popolo "rozzo e barbaro" (definizione coniata da Elisabetta I, che regnò dal 1558 al 1603): furono vietati i matrimoni misti e, a tutti gli inglesi nati in Irlanda, fu vietato l'utilizzo della lingua gaelica e il ricorso alle leggi irlandesi ancora persistenti per "gentile" concessione della Corona I guai più seri insorsero alcuni anni prima dell'avvento di Elisabetta, quando Enrico VIII, stanco dei poco piacevoli bunga bunga con l'insipida Caterina d'Aragona, che tra l'altro non riuscì nemmeno a dargli un erede, perse la testa per quella grandissima zoccola di Anna Bolena e, pur di legittimare il matrimonio contrastato flebilmente dal papa Clemente VII e incisivamente dall'imperatore Carlo V, figlio della sorella di Caterina, non esitò, nel 1534, a provocare quello scisma che diede origine alla Chiesa Anglicana, fonte di tanti guai futuri. In Irlanda i guai iniziarono subito perché la Riforma protestante fu imposta a tutti i sudditi, generando sconcerto tanto negli irlandesi con retaggio gaelico quanto nei vecchi inglesi cattolici, che di convertirsi non avevano proprio voglia. I funzionari inglesi riuscivano a malapena a far rispettare le disposizioni della Corona e pertanto, tra il 1608 e il 1610, per creare migliori condizioni di "controllo e di condizionamento", fu avviato quel processo passato alla storia col nome di "Plantation": sistematico trasferimento di coloni inglesi e scozzesi fedeli alla Corona (e quindi "protestanti"), che si impossessarono delle terre più fertili nelle Contee del Nord (Tyrone, Donegal, Derry, Armagh, Cavan e Fermanagh), costringendo gran parte della popolazione a trasferirsi nell'entroterra. Nel 1641 scoppiò una rivolta, organizzata dagli irlandesi gaelici e dai vecchi inglesi di religione cattolica, al fine di recuperare le terre espropriate. È con questi scontri che ebbe inizio la secolare divisione tra le comunità cattoliche e protestanti. In quegli anni, in Inghilterra, acquisiva crescente popolarità un ricco possidente, Oliver Cromwell, convinto calvinista e seguace di quella corrente "puritana" che si opponeva tanto alla Chiesa Cattolica (che, a suo parere, negava il primato della Bibbia a favore di quello del papa e tiranneggiava i protestanti in tutta Europa) quanto a quella Anglicana (che per mano di Carlo I "inciuciava" con la Chiesa Cattolica, adottandone alcune regole quali l'investitura dei vescovi e l'introduzione dei libri di preghiere, invece di affidarsi esclusivamente alla Bibbia). Era fermamente convinto che la salvezza eterna fosse alla portata di tutti coloro che si conformavano esclusivamente agli insegnamenti della Bibbia e ai dettami della propria coscienza, secondo quanto sancito dal "Provvidenzialismo", dottrina filosofica che prevedeva l'intervento diretto di Dio negli affari del mondo terreno, condizionandone gli eventi grazie alle "persone elette" da lui scelte. Manco a dirlo, Cromwell ritenne sin da giovinetto di essere "uno di loro" e improntò tutta la sua attività politica, militare e religiosa alla suggestione di tale convincimento. La monarchia incarnata da un assolutista come Carlo I, fervente sostenitore del diritto divino reale, era per lui intollerabile e pertanto fu tra gli artefici della guerra civile, che culminò con la spettacolare decapitazione del re, nel 1649. Istituito il Commonwealth of England (Repubblica Inglese), si preoccupò subito di "sedare" gli scontri in Irlanda, riprendendo il pieno controllo


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dell'isola con i metodi più classici che la storia ci tramanda da sempre, purtroppo tristemente resi attuali dai fatti contingenti che angosciano i nostri giorni: massacro indiscriminato di circa cinquecentomila irlandesi (un quarto della popolazione totale); esproprio delle terre ai legittimi proprietari per distribuirle ai soldati e ai nuovi coloni; promulgazione "dell'Act of Settlement", che prevedeva la deportazione degli irlandesi a ovest del fiume Shannon, pena morte certa in caso di rifiuto. (Per intenderci: il fiume Shannon divide l'Irlanda da Nord a Sud e la zona occidentale, all'epoca, era alquanto desolata e povera di risorse). Nell'eterna lotta tra bene e male l'umanità non è mai stata in grado di fermare preventivamente i tiranni di turno e impedire le terribili guerre, i massacri, i genocidi da loro praticati con una ferocia pienamente comprensibile solo dalle vittime, ma dopo immani sofferenze è sempre riuscita a far sì che essi non terminassero serenamente il cammino terreno nel proprio letto, tranne sporadiche eccezioni che non inficiano la consistenza dell'assunto. Una di queste eccezioni riguarda proprio Cromwell, che morì nel 1658, a 59 anni, per "cause naturali", anche se un diplomatico veneziano che lo conosceva bene, medico, asserì che la morte fu dovuta alle cure non adeguate praticate dai medici personali, chissà se volontariamente o per incapacità. Comunque, affinché fosse chiaro come dovevano andare le cose, Carlo II, riconquistato il trono, il 30 gennaio 1661 fece riesumare la salma e organizzò uno "spettacolo" molto più macabro e truculento di quello che portò alla morte del padre esattamente dodici anni prima: impiccagione (della salma!), sventramento e squartamento! Con Carlo II e il fratello Giacomo II, che gli successe al trono, entrambi cattolici, in Irlanda si registrò un periodo di relativa tranquillità e di pieno riconoscimento della monarchia. La "Gloriosa rivoluzione" (o Seconda rivoluzione inglese), però, sancì l'avvento al potere di Guglielmo III d'Orange, che depose lo zio e suocero (era fratello della madre e marito della figlia Maria) e lo mandò in esilio. Divenuto re di un Paese sostanzialmente diverso dal suo, non riuscì mai a comprenderne le peculiarità che avrebbero dovuto consentirgli di governarlo con saggezza. Non gli piaceva nemmeno il clima e quindi durante l'estate se ne scappava di gran lena nel continente, un po' per sollazzarsi e un po' per guidare le truppe in varie battaglie, lasciando alla sorella Maria il compito di gestire gli affari della Corona. Nel 1689, intanto, fu promulgata la "Dichiarazione dei diritti", in base alla quale a nessun cattolico era consentito ascendere al trono e sposare un monarca inglese. L'Irlanda era rimasta fedele a re Giacomo, rifugiatosi in Francia, ospite del cugino Luigi XIV che, per alleviargli il dolore dell'esilio, gli mise a disposizione una "struttura residenziale all inclusive" in un'amena cittadina collinare dalla quale si gode la vista di Parigi e di un lungo tratto della Senna, più 50.000 lire annue per le spesucce personali (86.500 euro attuali, con un valore d'acquisto, però, almeno triplo). Va da sé che la struttura era a misura di "re": ottomila metri quadrati; cinquantacinque appartamenti; un salone da ballo lungo quanto un campo di calcio; sette cappelle disseminate in vari posti, in modo da trovarne sempre una in caso di impellente bisogno di quattro chiacchiere col Padreterno; una prigione; una dependance chiamata "castello nuovo"; una terrazza-giardino lunga 2400 metri bordata di tigli; giardino inglese e giardino

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francese; grotte con giochi d'acqua e scalinate che degradavano direttamente sulla Senna; una nutrita schiera di varia servitù, per ogni esigenza. (Perdonate la "divagazione turistica", inserita sia per spezzare un po' la cronistoria di tristi eventi sia per indurre chi non l'avesse ancora fatto a visitare Saint-Germain-en Laye: dista solo una ventina di chilometri da Parigi e recarsi in vacanza nella capitale francese, magari perdendo molto tempo a "Euro Disney", senza programmare una tappa nella cittadina con annesso castello che ospita il Museo delle Antichità celtiche e gallo-romane - oggi scioccamente definito Museo delle antichità nazionali - e il Museo di Archeologia Nazionale, è un vero delitto). Splendore dei luoghi e agi, però, non fecero perdere a Giacomo la speranza di riconquistare il trono e così, con l'aiuto del cugino, che gli fornì un discreto esercito, nel marzo 1689 sbarcò in Irlanda, accolto da una folla festante. La controffensiva inglese non si fece attendere, ma si trasformò in una clamorosa disfatta: tutte le roccaforti sull'isola furono occupate senza eccessivi sforzi e il tentativo di sbarco effettuato dalle truppe inglesi fu bloccato sulla battigia. Guglielmo s'incazzò di brutto per le batoste e l'anno successivo guidò personalmente un nuovo attacco, giungendo a Belfast con trecento navi e oltre ventimila soldati di varie nazionalità, ai quali si aggiunsero quindicimila guglielmiti locali. Lo scontro avvenne sulle sponde del fiume Boyne, porta d'entrata di Dublino, dove era schierato l'esercito di Giacomo, inferiore per numero, armamenti, capacità e determinazione bellica: le truppe francesi non è che avessero tanta voglia di morire per "Dublino" e quelle locali, composte da volontari mal addestrati, non potevano reggere il confronto con veri soldati e se la svignarono non appena si resero conto che non c'era partita. A Giacomo non restò che ritirarsi con il suo stato maggiore nel bel castello francese, perdendo però il rispetto dei sudditi irlandesi, che si sentirono abbandonati e continuarono una flebile resistenza a Limerik, presto soffocata da un abile condottiero, il I duca di Marlborough, John, figlio di un certo Winston Churchill, capostipite di una famiglia che avrebbe avuto un ruolo importante in tante successive vicende della storia inglese. La guerra fra giacobiti e guglielmiti poteva oramai considerarsi a tutti gli effetti conclusa e il 3 ottobre 1691 fu siglato il trattato di Limerick, in virtù del quale agli sconfitti furono offerte due opzioni: arruolarsi nell'esercito orangista (non furono pochi coloro che decisero in tal senso); raggiungere il loro ex sovrano in esilio e arruolarsi nella Brigata Irlandese al servizio del Re di Francia, opzione scelta dalla maggioranza del disciolto esercito giacobita, che si trasferì in Francia con mogli e figli al seguito. "Volo delle oche selvatiche" fu definito questo triste abbandono del suolo natio, utilizzato per tutti gli irlandesi che, fino al XVIII secolo, emigrarono per arruolarsi in vari eserciti continentali. A Saint German, intanto, Giacomo trascorreva le giornate tra feste, balli e ricevimenti. Dopo la morte della prima moglie (mamma delle future regine Maria II Stuart e Anna e di altri sei figli prematuramente deceduti) aveva sposato la bella quindicenne Maria Beatrice d'Este, dalla quale ebbe Giacomo nel 1688 e Luisa Maria, nata proprio durante l'esilio, ne 1692. Re Sole, nel 1696, tentò di organizzare un bel complotto per assassinare Guglielmo e ridargli il trono, ma purtroppo il progetto naufragò sul nascere. Nello stesso anno si rese disponibile il


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trono della Polonia e subito il re francese, estremamente generoso con lo sfortunato cugino, glielo offrì su un piatto d'argento, ottenendo però un cortese rifiuto perché Giacomo ancora "sperava" di riprendersi la corona inglese. In Irlanda, intanto, le cose si misero davvero male per i cattolici, vessati ed espropriati di tutti i beni. Le famigerate "Penal Laws" contemplavano una serie infinita di divieti in campo sociale, civile, politico, amministrativo. Fu anche vietata, per esempio, l'iscrizione al prestigioso Trinity College di Dublino. I PRIMI FERMENTI DEL NAZIONALISMO IRLANDESE Paradossalmente furono i protestanti a formulare le prime richieste nazionaliste, preoccupati dell'eccessiva ingerenza inglese, soprattutto in campo economico e commerciale. Nel 1782 ottennero - per la verità senza eccessivi sforzi - una "Dichiarazione di Indipendenza" che impediva al Parlamento inglese di legiferare sulle questioni prettamente irlandesi. Un gruppo di intellettuali (per lo più liberali protestanti ispirati dalle rivoluzioni americana e francese) fondò la "Society of United Irishmen", con lo scopo di favorire una riforma parlamentare e la creazione di una nazione irlandese, capace di superare le divisioni tra cattolici e protestanti. L'associazione si diffuse rapidamente e approfittò dello scoppio della guerra tra Francia e Inghilterra, nel 1793, per ostacolare in modo ancora più incisivo il dominio britannico. Nel 1798 i membri dell'associazione organizzarono addirittura una rivolta, che però fu stroncata dalle forze governative, messe in allerta da alcuni informatori, anche cattolici, che mal digerivano di essere sottomessi al potere politico di una minoranza protestante, in caso di loro vittoria. Il Parlamento irlandese fu abolito e tutto ritornò come prima. I protestanti, pertanto, si andarono via via convincendo della necessità di uno stretto legame con la Gran Bretagna, beneficiando dei vantaggi offerti dalla comune fede religiosa. I cattolici, che avevano ottenuto il diritto di voto senza però poter accedere alle cariche pubbliche, maturarono un forte risentimento che sfociò nell'aperta volontà di creare reali presupposti di indipendenza. Nel 1823 emerse la gigantesca figura di Daniel O'Connel, detto "Il Liberatore" e "L'Emancipatore", padre ufficiale della lotta per l'indipendentismo irlandese. Eletto nel 1828 alla Camera dei Comuni, rifiutò il seggio per non giurare fedeltà a re Giorgio IV, ma la sua determinazione indusse il Governo inglese ad abolire la legge che impediva l'elettorato passivo ai cattolici, per timore di sommosse sanguinose. La terribile carestia che colpì il Paese tra il 1845 e il 1849, però, determinò una forte battuta d'arresto alla sua attività politica. I cattolici non erano proprietari delle terre che coltivavano e vendevano la quasi totalità del raccolto per pagare gli esosi canoni di affitto. L'unico alimento era costituito dalle patate, che marcirono nei campi a causa della peronospora. La carestia provocò diverse epidemie (tifo, dissenteria, scorbuto) e decine di migliaia di persone morirono di stenti, di fame e per la mancanza di cure. Le strade erano lastricate di cadaveri, alcuni

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dei quali furono trovati con l'erba in bocca, utilizzata nell'estremo tentativo di alimentarsi con qualcosa. Sul processo migratorio verso gli USA che scaturì da questo disastro e sulle inadeguate (quando non apertamente vessatorie) azioni della monarchia per venire incontro alle necessità dei sudditi irlandesi esiste una florida e valida letteratura, alla quale si fa riferimento per amor di sintesi, precisando solo che il diffuso senso di abbandono funse da ulteriore suggello per la spinta indipendentista negli anni successivi, grazie anche all'aiuto dei cattolici emigrati negli USA, dove ben presto conquistarono posizioni agiate e ricchezza economica. (Nel 1849, per sfuggire alla carestia, emigrò negli USA anche il figlio di un contadino, stabilendosi nella zona orientale di Boston, insieme con tanti connazionali: si chiamava Patrick Kennedy). Il famoso Primo ministro Gladstone (proprio quello che definì i Borbone di Napoli "La negazione di Dio") si dimostrò favorevole a concedere una sorta di autodeterminazione politica (Home Rule), ma il progetto fu fortemente osteggiato dai protestanti, contrari a spezzare il solido legame con la Gran Bretagna. Il tentativo di portare pace nell'isola, pertanto, determinò l'effetto opposto, dando vita al "movimento unionista", che si prefiggeva di contrastare con ogni mezzo possibile qualsivoglia rivendicazione avanzata dai cattolici. IL XX SECOLO Nei primi anni del XX secolo, quindi, si crearono le premesse per scontri sempre più accesi e sanguinosi e incominciarono a entrare nella storia quei personaggi leggendari che poi, più di tutti gli altri, avrebbero incarnato l'essenza della lotta indipendentista. James Connolly fondò L'Irish Republican Socialist Party; Arthur Griffith fondò il giornale "United Irishman", che adottò lo slogan "Sinn Féin" (Solo Noi). Ecco nascere, quindi, il partito simbolo della causa indipendentista, che avrà un ruolo fondamentale in tutta la storia irlandese, fino ai giorni nostri. Allo scoppio della Prima guerra mondiale circa centomila nazionalisti si arruolarono nell'esercito britannico con la speranza di ottenere finalmente la ratifica del nuovo Home Rule, approvato dal Parlamento britannico nel maggio 1914. Un gruppo minoritario, però, composto prevalentemente di cattolici, si rifiutò di scendere a patti col Governo inglese e diede vita all'Irish Republican Army, passata alla storia con l'acronimo "I.R.A". Il 24 aprile 1916, un gruppo di patrioti (iniziamo subito a utilizzare il termine "patrioti" per definire i combattenti repubblicani, in modo da smontare sul nascere il persistente equivoco insorto più per ignoranza che per malafede - che comunque non manca - in virtù del quale li si definisce "terroristi". Con lo stesso metro di giudizio dovremmo chiamare "terroristi" anche i nostri nonni che hanno combattuto contro l'Austria, per liberare i territori irredenti), guidati da James Connolly e dal poeta Padraig Pearse, organizzò una rivolta passata alla storia come "Insurrezione di Pasqua" (Easter Rising), riuscendo in un primo tempo a proclamare la nascita della Repubblica d'Irlanda. Le forze di sicurezza, però, supportate dagli ingenti rinforzi giunti da Londra, sedarono la rivolta e arrestarono quasi tutti i principali protagonisti, giustiziandone quindici, tra i quali i due capi. James Connolly era rimasto gravemente ferito durante gli scontri e non poteva reggersi in piedi, ma senza alcuna pietà gli inglesi lo fucilarono su una sedia.


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Nel corso della rivolta emerse imponente, gigantesca, nobile, austera, la figura del più grande condottiero irlandese, Michael Collins, coraggioso e puro, combattente nato e per nulla predisposto agli intrighi della politica; insieme con lui acquisì consistente fama anche il suo amico Eamon De Valera, che invece nel mare della politica navigava con grande abilità. Vedremo più avanti come il confronto tra questi due personaggi, che fino a un certo punto condivisero gioie e dolori, avrebbe condizionato la storia del Paese. Nel 1918 il Sinn Féin, guidato da De Valera, vinse nettamente le elezioni ottenendo settantatré seggi contro i ventisei degli unionisti. I deputati si rifiutarono di occupare i seggi nel Parlamento inglese e proclamarono a Dublino la nascita della Repubblica Irlandese. L'anno successivo si tenne a Parigi la Conferenza di pace, organizzata dai vincitori della Prima guerra mondiale. De Valera sperava nel sostegno del presidente statunitense Wilson e restò fortemente deluso quando Seán Thomas O'Kelly, presidente del Parlamento, inviato a Parigi come delegato dell'Irlanda, gli riferì del disinteresse generale per la causa indipendentista. Nondimeno decise di recarsi personalmente a Washington, confidando sull'aiuto dei tanti emigrati affinché si creassero le premesse per essere ricevuto da Wilson come "presidente" dell'Irlanda libera. Speranza vana anche questa, perché gli stretti legami con la Corona inglese non consentirono a Wilson di riceverlo, non essendo l'Irlanda uno Stato riconosciuto dalla comunità internazionale. Michael Collins, intanto, era fermamente convinto che l'indipendenza si sarebbe conquistata solo combattendo e riorganizzò gli "Irish Volunteers", addestrandoli alla guerriglia. La Gran Bretagna rafforzò la presenza militare nell'isola inviando i famigerati "Black and Tans", così chiamati per il colore della loro uniforme, che ricevettero l'ordine di reprimere le istanze repubblicane senza tanti riguardi. Gli scontri tra le due fazioni si trasformarono in una vera guerra e ancor più emerse la grande personalità di Michael Collins, che divenne l'idolo del popolo repubblicano desideroso di staccarsi dall'Inghilterra. Come la storia insegna, tuttavia, i grandi uomini alimentano gelosia e invidia non tanto tra i nemici quanto "tra gli amici", nella fattispecie frustrati per la debordante capacità attrattiva del condottiero, che li offuscava rendendoli quasi dei nani al cospetto di un gigante. Eamon De Valera, la cui furbizia e subdola propensione all'autoreferenzialità è stata compiutamente sviscerata negli studi che riguardano la storia irlandese, restò a godersi la bella vita statunitense per oltre un anno, lasciando che Collins se la vedesse da solo con gli inglesi, rischiando la vita ogni giorno. Anche il mediocre ministro della Difesa, Cathal Brugha, mal sopportava Collins perché il suo ruolo, di fatto, lo portava ad essere il capo ufficiale dell'IRA senza che, però, nessuno lo prendesse in considerazione: in ogni circostanza tutti obbedivano solo alle direttive del condottiero. Gli scontri, sempre più sanguinosi, indussero il Parlamento del Regno Unito a emanare, nel 1920, il "Government of Ireland Act", ossia il quarto "Home rule", che prevedeva la divisione dell'Irlanda e due sistemi di autogoverno: le sei contee nord-orientali avrebbero dovuto formare "l'Irlanda del Nord", le restanti contee "l'Irlanda del Sud". Entrambi i territori, però, sarebbero rimasti parti integranti del Regno Unito, cosa per nulla gradita nella parte meridionale dell'isola, che determinò l'immediata ripresa dei combattimenti.

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Nel 1921, pertanto, gli inglesi proposero una tregua e un vertice per discutere come risolvere "definitivamente" la questione irlandese. Momento molto delicato, che avrebbe condizionato la storia futura fino ai giorni nostri e chissà per quanto altro tempo ancora. De Valera si era fatto cambiare il ruolo da "capo del Governo" a "Presidente della Repubblica" (ancorché da nessuno riconosciuta) per mettersi sullo stesso livello degli altri capi di Stato del Pianeta. Politicamente era da tutti considerato - anche da Collins - l'uomo ideale per le trattative diplomatiche: intelligenza, abilità dialettica e cultura non gli mancavano certo. Non solo per Collins, quindi, che nel Governo ricopriva il ruolo di ministro delle Finanze, ma per tutti gli altri ministri e deputati era "scontato" che sarebbe andato lui a Londra per il vertice anglo-irlandese. Con una mossa a sorpresa, invece, De Valera rifiutò l'incarico, asserendo che, siccome al negoziato non avrebbe partecipato re Giorgio V, non poteva partecipare nemmeno lui, suo "omologo" in virtù del ruolo di presidente della Repubblica (auto conferitosi). Giustificazione subdola e barbina, come meglio trasparirà in seguito. In sua vece scelse proprio Michael Collins, affiancandolo ad Arthur Griffith, ministro degli esteri, e ad altri tre deputati che fungevano precipuamente da accompagnatori. Collins cercò di opporsi con fermezza alla designazione: era un soldato, lui; sapeva come combattere una guerra; sapeva come motivare il popolo, ma non si sentiva in grado di gestire trattative così delicate con "politicanti" di mestiere. De Valera, però, fu irremovibile e quindi dovette obbedire. La delegazione inglese era guidata dal Primo Ministro David Lloyd George, uomo di grande esperienza e artefice, insieme con Wilson e Clemenceau, del nuovo assetto mondiale stabilito dal Trattato di Parigi. La sua "squadra" comprendeva, insieme con figure meno influenti ma di grande peso politico-sociale, Austen Chamberlain (ventennale esperienza politica, ex segretario di Stato in India, ministro del Tesoro, presidente della Camera dei Comuni, cugino del futuro primo Ministro Neville Chamberlain) e un certo Winston Churchill, del quale non serve scrivere nulla. Non occorre molta fantasia per capire come si svolsero i negoziati e come i rappresentanti inglesi ebbero facile gioco con "avversari" sicuramente più nobili d'animo, ma non certo alla loro altezza "strategica". Collins, che di fatto condusse da solo la trattativa nonostante il "capo delegazione" fosse il ministro degli Esteri, si rese conto - non era certo stupido - che non sarebbe riuscito ad ottenere nulla più di quanto non fosse stato stabilito dagli inglesi e quindi poteva fare solo due cose: accettare o rifiutare gli accordi. Ritenendo che un primo passo comunque fosse stato compiuto e che esso poteva rappresentare un valido presupposto per la futura riunione, accettò. Il 6 dicembre 1921, pertanto, fu siglato il Trattato anglo-inglese, che prevedeva la nascita dello Stato Libero d'Irlanda (l'attuale Eire), mentre le sei contee nord-orientali, nelle quali i protestanti erano in maggioranza, avrebbero costituito l'Irlanda del Nord. Quando Collins ritornò a Dublino fu apertamente osteggiato dalla parte più "dura" del Sinn Féin, sostenuta da De Valera, che lo accusò di aver "svenduto" l'Irlanda. Prescindendo dalle contee del Nord, a tutti gli effetti sotto il pieno dominio inglese, lo Stato Libero d'Irlanda, nonostante la forte autonomia politicoamministrativa, aveva lo status di "dominion dell'Impero britannico", che implicava il


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giuramento di fedeltà al re, la qual cosa per i repubblicani era inconcepibile. Collins tentò invano di spiegare che "al momento" proprio non era possibile ottenere di più e che il trattato doveva essere considerato come un sensibile passo in avanti verso la Repubblica. Ciò che Collins ignorava era il contenuto delle conversazioni intercorse tra De Valera e Lloyd George quando fu concordata la tregua propedeutica ai negoziati: il Primo Ministro inglese, infatti, disse al "presidente" che se l'IRA non avesse cessato subito le azioni ostili, avrebbe inviato in Irlanda un soldato per ogni cittadino. Con quali conseguenze è facilmente immaginabile. De Valera, quindi, sapeva bene quali fossero le reali intenzioni degli inglesi e i limiti entro i quali si sarebbero mossi durante i negoziati. Da qui la decisione di mandare Collins allo sbaraglio e poi recitare la parte dell'offeso che tutelava i diritti di tutti gli irlandesi, proponendo di non ratificare il trattato. Quando il condottiero comprese di essere stato "giocato", la spaccatura si rese inevitabile. Il 7 gennaio 1922, dopo la ratifica del trattato da parte del Parlamento della Repubblica irlandese, De Valera si dimise dalla carica di presidente dando inizio, con la sua indefessa attività propagandistica, alla fase prodromica della guerra civile che sarebbe scoppiata nel giugno successivo e che vide da un lato i sostenitori del trattato, guidati da Michael Collins, e dall'altro l'Irish Republican Army (IRA), contraria al trattato, militarmente guidata da Liam Lynch ma eterodiretta da Eamon de Valera. Sulla guerra civile irlandese vanno ben illustrati alcuni aspetti che, soprattutto in Italia, non trovano adeguata trattazione nella storiografia di riferimento. Come abbiamo visto, Michael Collins era un "abile condottiero militare" ed Eamon de Valera un politico a tutto tondo. I giovani dell'IRA che si schierarono con quest'ultimo erano i "ragazzi" di Collins, da lui formati e addestrati! Figli del popolo, infervorati di furore repubblicano, in massima parte con limitata formazione "scolastica", per nulla in grado di districarsi nelle complesse pastoie politico-diplomatiche. Quando de Valera li arringò, accusando Collins di aver tradito le aspettative del popolo irlandese, ebbe facile gioco nel fagocitarli. Collins soffrì moltissimo per questa frattura all'interno dello schieramento repubblicano e cercò in tutti i modi di "limitare i danni", di "far ragionare" i vecchi amici e commilitoni che avevano seguito de Valera, del quale, oramai, aveva ben compreso il gioco sporco. Soprattutto non voleva che gli scontri generassero troppe vittime, da una parte e dall'altra: l'IRA era cosa sua, non di de Valera! Vedere morire tanti ragazzi innocenti non lo faceva dormire di notte, ma anche per un grande uomo è difficile conciliare l'inconciliabile. La fazione di de Valera attaccava a tutto spiano; i soldati governativi non nutrivano nei confronti dei connazionali, in quel momento "avversari", gli stessi sentimenti di "tolleranza" e reagivano con pari impeto e maggiore efficacia grazie ai consistenti aiuti ricevuti dagli inglesi: armi, munizioni, aerei, artiglieria. Un vero disastro, come tutte le guerre civili del resto, che vedono i fratelli contro i fratelli. Collins cercò fino all'ultimo, purtroppo invano, di evitare lo spargimento di sangue, che inevitabilmente coinvolse anche i civili: 250 vittime nella sola Dublino. Ben presto la sua maggiore capacità nel guidare un esercito e la sproporzione di forze costrinse i guerriglieri di

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Lynch a ritirarsi nell'entroterra. De Valera manovrava nell'ombra, secondo le consolidate abitudini, ed è in questo contesto di trame oscure, che molti ritengono ancora irrisolte e che invece non presentano sfumature grigie per chi scrive, che accadde l'evento più tragico della guerra civile. Il 22 agosto 1922, Michael Collins, con un convoglio di fedelissimi, partì da Macroom per recarsi a Bandon, una trentina di chilometri a sud. Entrambe le cittadine erano nella contea di Cork, ossia "casa sua", essendo egli nato a Woodfield, nella zona sud della Contea, non lontano dalle due insenature marine che costituiscono una grande attrattiva turistica. Il suo intento era quello di incontrarsi con i "ribelli", che proprio non riusciva a considerare avversari, e trovare una soluzione per far tacere le armi. Si sentiva sicuro "a casa sua", ritenendo che il suo carisma sarebbe stato sufficiente a far ragionare "la sua gente", soprattutto nel momento in cui le sorti della guerra sembravano segnate. La strada percorsa attraversava il piccolo villaggio di Béal na Bláth, dove ancora oggi è possibile frequentare il "Diamond Bar", stupendo pub, tra i più antichi d'Irlanda ancora aperti al pubblico. Nel deposito alle spalle del locale, proprio nel giorno in cui Michael Collins sarebbe transitato in zona, fu organizzata una "importante" riunione di alcuni militanti repubblicani anti-trattato. "Importante" perché era presieduta nientepopodimeno che da de Valera in persona! Argomento principale della discussione? L'uccisione di Michael Collins, sulla cui vittoria nella guerra civile nessuno più nutriva dubbi. Duecento metri ad est del locale vi era la stradina su cui sarebbe passato Collins, dominata da una collina, sulla quale trovarono facile riparo una decina di ribelli e Denis "Sonny" O'Neill, descritto dai servizi segreti inglesi, in un registro del 1924, come "un tiratore di prima classe, severo e disciplinato e senza dubbio un uomo pericoloso". Era nato nel 1888 a Timoleague, nella stessa Contea di Collins, che aveva conosciuto personalmente durante gli scontri del 1920. Un calesse (o forse un altro ostacolo più consistente) messo di traverso sulla strada, costrinse il convoglio a fermarsi per rimuoverlo, ma subito dalla collina partirono i colpi di fucile, cogliendo di sorpresa la scorta di Collins, che iniziò a rispondere al fuoco senza però poter individuare gli attentatori. Denis mirò con calma in direzione dello stupito Collins, che tutto si aspettava fuorché un agguato nella sua terra. Il tiro preciso lo centrò alla fronte, ponendo fine alla sua avventurosa vita e soprattutto al sogno di vedere presto un'Irlanda unita. Aveva 31 anni e la sua morte sconvolse gran parte del mondo e soprattutto nel Regno Unito in tanti si chiesero, senza sapersi dare una risposta, come si fosse potuto giungere a tanto. Alla cerimonia funebre parteciparono oltre cinquecentomila persone, attonite, appartenenti a entrambe le fazioni in lotta. Chi armò la mano di Denis O' Neill non vi è alcun bisogno di scriverlo. Un giorno, Joe Mgrath, stretto amico di Collins, chiese al subdolo personaggio di partecipare alla sponsorizzazione di una fondazione dedicata all'eroe irlandese, ottenendo la seguente testuale risposta: "Non vedo come possa divenire sponsor di una fondazione Collins; è mia convinzione che la storia riconoscerà la sua grandezza, e ciò avverrà a mie spese". Così è stato e così sempre sarà, perché si può vivere agiatamente quasi un secolo, guidare un


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Paese come presidente per dodici anni, ricoprire importanti ruoli politici nazionali e internazionali per altri quaranta, restando nell'oblio o addirittura nelle pagine più cupe della storia, mentre altri, in soli sei anni di vita pubblica, riescono a conquistare l'aura degli eroi, che li rende immortali. Lo spirito di Michael Collins non cesserà mai di illuminare quell'oceano di nuvole e luce, quel tappeto che corre veloce sull'isola verde, e a riscaldare il cuore di un popolo che, al di là degli slogan costruiti dagli abili comunicatori moderni, è legato indissolubilmente al sogno antico di "A Nation Once again". (Continua nel prossimo numero) Lino Lavorgna

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IL POTERE NELL’ERA DEL WEB2 La pandemia di Covid-19 e la guerra d'invasione - in fieri - della Russia in Ucraina possono essere concepite, usando l'espressione coniata da un illustre politologo del Novecento, il norvegese Stein Rokkan, come delle grandi fratture (cleavages) sociopolitiche dalle quali, i fiumi carsici della storia, riemergono con forza in superficie dopo aver passato la prova di montaliana memoria del "rivo strozzato che gorgoglia". Quasi a significare che la storia, con buona pace di Francis Fukuyama che nel 1992 ne aveva decretato in modo lapidario la fine, è fatta di corsi e ricorsi, i quali fanno "dei giri immensi e poi ritornano". Dunque, governi ed opinione pubblica occidentale, destandosi da uno stato di "ebrezza collettiva"1 autoindotta dalla globalizzazione prima e dalla digitalizzazione in seguito, riaccolgono nelle agende della politica e nella pubblica discussione le issues strutturali: la sovranità degli Stati e la loro politica estera, il riscaldamento globale e le politiche energetiche, la politica sanitaria ed economica, le tanto auspicate e spesso accoppiate in doppietta, rivoluzioni green e digital. Lungi dal rappresentare questa una presa di coscienza collettiva della sfera pubblica, è stato invero il virus made in china e targato ventunesimo secolo, ancora prima del conflitto in corso in Ucraina, a fare da agenda builder, rimettendo al centro del processo decisionale e dialettico i grandi temi della politica e della contemporaneità. Uno spettro che si aggira silenzioso valicando confini e continenti, il Covid-19 è anche il nemico ed antagonista globale di cui il genere umano sovente necessita "per sviluppare l'autocoscienza dei propri demoni e la prudenza del proprio 2 domani" . Numeri alla mano e con il senno di poi, il dato più significativo, tra quelli che riguardano la capacità di reazione dei governi all'emergenza sanitaria, è la differenza tra Asia ed Europa. Stati asiatici come Giappone e Corea del Sud, Taiwan e la stessa Cina, epicentro della pandemia, hanno gestito l'epidemia con uno scarto differenziale netto rispetto ai loro pari occidentali: si potrebbe pensare che a quelle latitudini le libertà individuali valgono di meno, e che la cultura collettivista induca i cittadini a rinunciarvi senza troppi travagli. Ragionamento non errato, che però spiega solo in parte il vantaggio competitivo che l'Oriente ha dimostrato. Non si tratta solo di una superiorità per così dire istituzionale, dovuta alla matrice autoritaria di alcuni di quei governi, primo fra tutti quello cinese. Infatti, la liberal democratica Corea del Sud è stato uno dei paesi che ha attuato minori restrizioni e chiusure, con un numero di contagiati e decessi per Covid-19 molto basso. In un articolo sull'Avvenire del 2020, Byung Chul Han, docente di Filosofia e Studi Culturali all'Universitat der Kunste di Berlino, delinea le ricette dell'East asiatico contro il


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virus autoctono: sorveglianza digitale, big data. In Europa, "è come essere tornati all'epoca della 3 sovranità. Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione. Sovrano è chi chiude le frontiere" . In Asia, i governi hanno sfruttato il potenziale offerto dai big data ed implementato politiche di sorveglianza digitale per contrastare il virus e salvare vite umane. In Cina, milioni di videocamere dotate di sistemi di riconoscimento facciale, sorvegliano le azioni, gli acquisti, gli spostamenti dei cittadini. In alcuni casi rilevano anche la temperatura corporea. Droni volanti controllano che le quarantene vengano rispettate. Ultimamente, è stato creato un sistema di valutazione sociale a punti, che a partire dalle attività dei singoli (acquisti, amicizie sui social, stili di vita) premia i cittadini virtuosi con mutui e visti di viaggio, punisce quelli dissoluti e viziosi privandoli del lavoro. Per noi europei, uno scenario distopico. Ma in Cina ed altri paesi dell'East la privacy e la protezione dei dati personali non esistono. Tutto questo è reso possibile dal controllo che le autorità esercitano sui provider dei servizi. "Forse dovremmo persino ridefinire la sovranità alla luce dell'epidemia. Sovrano è chi dispone dei dati"4. Riconcepire la sovranità degli stati, secondo il filosofo sudcoreano, alla luce del potere dei big data. Per altri, come Chris Anderson, saggista statunitense e fondatore della rivista Wired, ripensare addirittura la scienza. In un suo celebre articolo intitolato "The end of Theory", arriva alla conclusione che nell'era dei big data non serve più costruire una teoria: con l'enorme mole di dati di cui disponiamo si può direttamente simulare la realtà, senza doverci sforzare di comprenderla. Il giusto algoritmo troverà le correlazioni, i nessi che da sempre la scienza cerca di cogliere nella vasta fenomenologia del reale. In questa prospettiva, per alcuni versi distruttiva, l'uomo è un algoritmo obsoleto e tutte le questioni possono essere derubricate a problemi meramente tecnici (il c.d. soluzionismo digitale prospettato da Evgenij Morozov). Quindi, se per alcuni aspetti, il legame tra metodo scientifico e big data appare antitetico, il rapporto tra tecnologia e controllo sociale sembra invece complementare e indissolubile. Il termine stesso rete, reca in sé un'accezione duplice ed ambigua: luogo immateriale dove stringere e rafforzare i legami sociali, ragnatela di fili invisibili, iron cage distopica che opprime ed inquadra entro modelli predefiniti. È stato Michel Foucault, geniale e poliedrico filosofo francese del Novecento, a delineare la genealogia del controllo sociale, distinguendo tra il potere di sovranità degli stati dell'ancien regime e il potere di disciplina tipico delle società post-illuministe. Se l'assolutismo si materializza in forme spettacolari e violente, con il sovrano che possiede lo Stato e i sudditi intesi come sua mera estensione, la disciplina, invece, assume la forma di controllo preventivo su ogni azione del cittadino, il potere si burocratizza in quelle che lui definisce istituzioni totali (l'esercito, il carcere, gli ospedali psichiatrici, le scuole). Partendo dall'analisi dei sistemi carcerari europei, in Sorvegliare e Punire, le questioni dirimenti sono tre: chi sono i soggetti del controllo, quali sono le tecniche attraverso cui si realizza, chi è l'oggetto del potere. I soggetti del controllo sono sia le istituzioni, che gli stessi cittadini. Il controllo non opera solo in senso verticale (medico-paziente, insegante-alunno), ma anche e soprattutto a livello

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orizzontale. La collocazione del cittadino, nella cultura disciplinare, "non e? tanto lo stigma di un terminale dell'azione di governo, quanto piuttosto un ruolo, tutto sommato interscambiabile, in cui il medesimo soggetto puo? essere insieme controllore e controllato (si pensi ai membri della 5 burocrazia)" . Una tecnica del potere disciplinare è la scrittura. Attraverso la fissazione delle norme, l'archiviazione e la registrazione del sapere, essa realizza quel meccanismo di controllo preventivo che costituisce l'ossatura della cultura disciplinare. L'oggetto del potere è l'individuo visto come ingranaggio di un'architettura totale del controllo, inteso nella sua dimensione corporale e comportamentale. Se il web 2.0 potrebbe, metaforicamente, assurgere il ruolo di nuova arena del controllo sociale, in che modo l'indagine di Foucault sulle tecniche, soggetti ed oggetti del controllo, può essere traslata alla dimensione, struttura e logica della rete? In primo luogo, su questo versante, i soggetti attivi del controllo sono molteplici: dalle istituzioni politiche, in misura più accentuata nei regimi autocratici (ad es. Cina), alle agenzie non istituzionali - piattaforme digitali come Google, Facebook, Twitter. Si tratta, a dire il vero, di un monopolio del distretto della Silicon Valley: nel mondo democratico e liberale, i colossi del Tech hanno a disposizione una quantità di informazioni nettamente superiore a quella di cui dispongono gli Stati sovrani. Anche in questo modello vale la duplice dimensione del controllo, verticale ed orizzontale: gli utenti dei social sono al tempo stesso controllori e controllati (si pensi, ad esempio, a tutte quelle app che funzionano con la geo-localizzazione). Per quanto riguarda le tecniche del controllo, è interessante notare come le singole componenti software ed hardware del web funzionino secondo logiche di identificazione (nome utente, indirizzo e-mail, indirizzo IP). Pertanto, è il web stesso, nella sua logica di architettura, la tecnologia con cui si attua il controllo. Così le nostre ricerche su Google permettono la pubblicità personalizzata, i nostri account possono essere cancellati con procedure che ci dissuadono dal farlo (vd. Facebook e Skype). Infine, l'oggetto del controllo sul web sono essenzialmente gli atti dell'utente (ricerche, commenti, pubblicazioni di foto e contenuti) intesi "non come gesti culturali, quanto piuttosto 6 come azioni con un valore economico, e come tali trattati" . Postare un video su Youtube, nella logica dei media tradizionali o mainstream, è un atto comunicativo. Ma gli algoritmi delle piattaforme, con un meccanismo che taluni definiscono filter bubble, processano ed analizzano milioni di video, indirizzando e canalizzando il flusso verso nicchie specifiche di destinatari, ciascuna compatibile con la portata, il significato e la cornice in cui le varie azioni "virtuali" possono essere ricondotte. All'interno del ragionamento che da Michel Foucault porta al web 2.0 si deve iscrivere la tematica del dire di sé, affrontata dal filosofo francese in vari libri (come Tecnologie del sé) e nei celebri discorsi al College de France. Non dovrà stupire come il trend dell'esplosione discorsiva che il filosofo rintraccia nell'era moderna, in particolare in relazione alla sfera sessuale, sia applicabile al contesto digitale di rete, in cui il sé autobiografico degli utenti si manifesta sotto varie forme


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(foto, tweet, riflessioni). Egli rileva, in particolare, nella pratica della confessione, del paziente nei confronti del suo medico ma anche del credente verso il sacerdote, la presenza latente di frame vincolanti e condizionanti che contribuiscono nel loro insieme ad una costruzione sociale del soggetto. In questi contesti esiste infatti uno spazio definito (lo studio medico, il confessionale), un tempo articolato in momenti (la preparazione, l'appuntamento con il medico/sacerdote, la prescrizione della ricetta /assoluzione), dei ruoli (medico-paziente), un sapere (accettato dal paziente, posseduto dal medico), delle azioni (da compiere per chi ne è il destinatario, da enunciare per chi le raccomanda). Il fine, in questo caso, è il ritorno alla norma sociale (con l'assoluzione dei peccati - terapia medica), reso possibile solo attraverso l'intercessione del sapere-potere delle corporazioni (dei medici/sacerdoti), ossia quelle istituzioni totali che per Foucault giocano un ruolo cardine all'interno della cultura disciplinare. In modo speculare, anche gli utenti dei social, nelle loro relazioni comunicative, sono vincolati ad una particolare retorica, di cui, per certi versi si appropriano, ma che per altri, subiscono: i Mi piace su Facebook e il numero di caratteri limitati di Twitter sono forse il segno di un processo di costruzione sociale del senso e del discorso, "dove anche il discorso è richiamato alla suddivisione in unita discrete, opportunamente misurabili e di conseguenza valorizzabili o - se si 7 vuole - mercificabili " . L'idea di un'inevitabilità tecnologica cela quel senso di vergogna prometeica che l'uomo ha sempre provato nei confronti delle innovazioni tecniche. Ma le tecnologie sono lo strumento terminale di una logica umana che le utilizza e le governa nella direzione desiderata. Che questa direzione possa non essere orientata ai venti della democrazia e del progresso, come invece si sognava agli albori di internet, ma a quelli della "grande rabbia", del risentimento e dell'inimicizia sociale, sarà la storia a confermarlo o smentirlo. La logica, quella che guida il sogno e l'azione dei tecno - utopisti, che Shoshana Zuboff, scrittrice e professoressa di Harvard, ha definito con lampo di genio ed intuizione "capitalismo della sorveglianza". Capitalismo in quanto orientato alla linfa vitale di cui si nutrono mercati e borse, ovvero il profitto. Della sorveglianza, perché basato ed ispirato ad un nuovo sistema di potere, fondato sul controllo dei comportamenti individuali, volto a dispiegare la sua forza in ogni ambito dell'esperienza umana. L'esperienza umana è per il capitalismo della sorveglianza il materiale grezzo da cui estrarre dati comportamentali, che processati dai software dell'intelligenza artificiale, divengono prodotti predittivi venduti e scambiati in quello che l'autrice definisce "mercato dei comportamenti futuri". Il surplus comportamentale è la scoperta da cui nasce il capitalismo della sorveglianza, base di partenza per le strategie di marketing individualizzato nonché di un processo volto a modificare e guidare i comportamenti, le abitudini commerciali e sociali degli individui, che agiscono come delle api inconsapevoli all'interno del "grande alveare".

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Quelle api che per Byung Chul Han, costituiscono, nel loro essere sciami, metafora della condizione di isolamento degli individui nella società digitale. "Gli abitanti digitali della rete non si riuniscono: manca loro la spiritualità del riunirsi, che produrrebbe un Noi. Essi danno vita a un peculiare assembramento senza riunione, a una massa senza spiritualità, senza animo o spirito."8. Mi domando, a questo punto, se abbia ancora senso interrogarsi sulla democraticità del web 2.0. Internet nasce sotto il segno di una grande utopia libertaria e democratica: liberare i cittadini di tutto il mondo dai gioghi dell'informazione professionale e della pubblicità, spezzando la catena dell'intermediazione. Ma oggi Google e le altre piattaforme sono divenuti i principali intermediari attraverso i quali il flusso delle informazioni e della pubblicità scorre a velocità inaudita. Gli integrati sostengono che il web 2.0 stia ampliando l'agorà della sfera pubblica. Una quantità di informazioni disponibili sempre maggiore può aumentare il numero dei cittadini culturalmente emancipati e consapevoli del proprio ruolo civico. Inoltre, la natura partecipativa dei social networks apre a forme rinnovate di democrazia diretta. Gli apocalittici ragionano in ottica qualitativa, vedendo nella nuova pubblica piazza digitale il luogo della disinformazione e della polarizzazione. Il flusso multidirezionale e many to many delle informazioni rende quasi impossibile il controllo sui contenuti. L'arena comunicativa si parcellizza in bolle o casse di risonanza, dove risuona un unico rumore di fondo. La dialettica scade nell'insulto. La libertà di espressione si trasforma: da diritto universale a passatempo eccezionale. Inizia un processo di regressione democratica e di contrappasso temporale: in tempi (molto) passati la libertà di espressione aveva consentito la costruzione delle istituzioni democratiche e repubblicane, ora è paradossalmente il diritto - elevato a diletto - di parola che sta decostruendo ed avvelenando le democrazie liberali. Sfociando verso forme, inedite ed inaudite, di populismo illiberale. Innestando un circolo, vizioso ed infernale, diretto alla convinzione che non servano i migliori per prendere le decisioni, ma bastino i più numerosi. Sciagurata applicazione della legge dei grandi numeri alla politica e alla democrazia. Ma la democrazia non è un mero conteggio di voti. La sopravvivenza della più nobile delle forme di governo è legata indissolubilmente alla dimensione qualitativa dello spazio pubblico. Se esisteranno ancora dei parresiasti, vale a dire quei cittadini che esercitando il loro diritto alla parola, scelgono "il parlar franco invece della falsità o del silenzio, il rischio di morire invece della vita e della sicurezza, la critica invece dell'adulazione, e il dovere morale invece del proprio tornaconto o dell'apatia morale"9, allora la democrazia potrà sviluppare gli anticorpi per difendere le sue istituzioni, non già da tremende invasioni barbariche, ma dal proprio nemico dentro10. Pierpaolo Sicco


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Note: 1. B-C. HAN, “La società del virus tra Stato di polizia e isteria della sopravvivenza”, Avvenire.it, 7 aprile 2020. 2. P. SCHIAZAZZI, “L'economia di Francesco”, Milano Finanza, 11 dicembre 2021. 3. B-C. HAN, art. cit. 4. B-C. HAN, art. cit. 5. F. COLOMBO, “CONTROLLO, IDENTITA', PARRESIA. Un approccio foucaultiano al web 2.0”, in Comunicazioni sociali, 2012, n.2, p. 199. 6. F. COLOMBO, art. cit., p. 203. 7. Ibidem 8. B-C. HAN, Nello sciame Visioni del digitale, Nottetempo, Milano, 2015, p. 24. 9. F. COLOMBO, art. cit., p. 207. Foucault dedica ampie riflessioni al tema della parresìa, ovvero l'atto di dire la verità in contesti formali, agito da individui “vocati”. 10. È Il titolo e la tesi del libro di Tom Nichols: le istituzioni democratiche e liberali si stanno indebolendo a causa del carattere narcisistico, tribale ed autodistruttivo che sta assumendo la società civile. Riferimenti bibliografici. Testi: B-C. HAN, Nello sciame. Visioni del digitale, trad.it. di F. Buongiorno, Nottetempo, 2015. T. NICHOLS, IL NEMICO DENTRO. Perché siamo noi stessi a distruggere la democrazia, trad.it. di C. Veltri, LUISS University Press, 2021. S. ZUBOFF, Il CAPITALISMO DELLA SORVEGLIANZA. Il futuro dell'umanità nell'era dei nuovi poveri, trad.it. di P. Bassotti, LUISS University Press, 2019. Articoli e saggi: F. COLOMBO, "CONTROLLO, IDENTITA', PARRESIA. Un approccio foucaultiano al web 2.0", in Comunicazioni sociali, 2012, XXXIV, p. 197 ss. B-C. HAN, "La società del virus tra Stato di polizia e isteria della sopravvivenza", Avvenire, 7 aprile 2020. P. SCHIAZAZZI, "L'economia di Francesco", Milano Finanza, 11 dicembre 2021.

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L’OMBRA DI STALIN: UN FILM SULL’HOLODOMOR PROLOGO Esterno giorno. Campo di grano accarezzato dal vento, ripreso in campo lungo. Sullo sfondo, un vecchio casolare di legno. La scena si restringe verso l'interno di una stanza e il rumore del vento si fonde col ticchettio di una macchina da scrivere. Un uomo inquadrato prima alle spalle e poi di lato sta scrivendo qualcosa. La voce fuori campo ci rivela cosa: "Sull'opera non voglio fare commenti. Se non parla da sola è un fallimento. Volevo raccontare una storia facilmente comprensibile da chiunque; una storia così semplice che persino un bambino potesse capirla. La verità era troppo strana per dirla in un altro modo. Non sono nato per un'epoca come questa. E voi? Il mondo è invaso da mostri, ma suppongo che non vogliate sentire parlare di questo. Avrei potuto scrivere romanzi d'amore, romanzi che la gente ama davvero leggere; forse in un'epoca diversa lo avrei fatto. Ma se racconto la storia dei mostri per mezzo degli animali parlanti di una fattoria, forse l'ascolterete, forse capirete. È in gioco il futuro di tutti, quindi vi prego di leggere attentamente tra le righe". L'uomo incomincia a scrivere il romanzo e la voce fuori campo, declamando le parole iniziali, ci fa comprendere che si tratta di George Orwell mentre dà corpo a uno dei suoi capolavori: "La fattoria degli animali". La scena si sposta altrove. Un giovane, in un grande salone con attempati signori raccolti attorno al tavolo, parla del viaggio in aereo in compagnia di Hitler e Goebbels. Da ciò che dice capiamo che siamo a Londra, nel 1933, e il giovane è Gareth Jones, il giornalista gallese del Western Mail che aveva trascorso qualche mese in Germania per raccontare l'ascesa al potere di Hitler. Con palpabile enfasi riferisce ai membri del governo capeggiato da Lloyd George, di cui è consulente per gli affari esteri, le impressioni maturate durante il soggiorno, suscitando condivisa ilarità perché nessuno dà credito alla sua previsione circa "l'imminenza di una guerra". (Dal film Mr. Jones, disponibile in italiano con il titolo "L'ombra di Stalin", diretto dalla regista polacca Agnieszka Holland). IL GRANO DELLA CRIMEA È L'ORO DI STALIN "Ben seduto sopra al trono, Stalin suona il suo violino. Guarda in basso con cipiglio, il Paese che dà il pane. Il violino è in legno scuro e l'archetto è molto teso. Quando suona i suoi comandi, li ascoltiamo tutti quanti. Ora Stalin ha finito di suonare il suo strumento. L'ha suonato così forte che le corde si son rotte. Sono morti quasi tutti, pochi sono sopravvissuti. (La poesiola, fino a


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questo punto nel film declamata da una bambina, continua sotto forma di canto, in russo). Affamati e infreddoliti, siamo nelle nostre case. Niente da mangiare, nessun posto per dormire e il nostro vicino ha perso la testa (has lost his mind; ha perso la mente, è impazzito, N.d.R.) e ha mangiato suo figlio". (Triste canto dei bambini ucraini vittime dell'holodomor). Non amo parlare delle piattaforme on line che trasmettono film, spesso producendoli e quindi impedendo la diffusione nei circuiti tradizionali, e mi genera grande sofferenza vedere la massiccia e crescente propensione all'utilizzo del tablet o addirittura del telefonino per la visione, la qual cosa equivale ad entrare nel ristorante La Tour d'Argent all'ora di pranzo e ordinare un hamburger con patatine fritte. Ora, però, si rende necessaria una eccezione perché su una nota piattaforma, non a caso appartenente al terzo uomo più ricco del mondo, è disponibile un film del 2019 letteralmente snobbato dalle principali emittenti televisive e, manco a dirlo, mai uscito nelle sale italiane: "Mr. Jones", tradotto con il titolo "L'ombra di Stalin". Un film da vedere assolutamente sia per il valore intrinseco di natura storica sia per il solido rapporto con i fatti attuali. (È comunque disponibile nei principali web store anche in DVD). La trama riguarda lo sterminio per fame del popolo ucraino perpetrato da Stalin, denunciato al mondo dal giornalista gallese Gareth Jones, che si recò in Russia nel 1933, dopo l'esperienza berlinese, e poi in Ucraina, per seguire le orme di un collega assassinato perché aveva scoperto il genocidio che si stava perpetrando. Jones aveva solo ventotto anni, ma il solido background culturale, la prima laurea conseguita a soli ventuno anni, la seconda presso l'Università di Strasburgo nel 1929, la perfetta conoscenza del francese, del tedesco e del russo, gli avevano consentito una grande autorevolezza presso la redazione del giornale con cui collaborava, il Western Mail di Cardiff, e di essere nominato consulente per gli affari esteri dal Primo Ministro inglese. L'apprendimento del russo era stato facilitato dalla madre, che aveva lavorato nel territorio ora "ancora ufficialmente appartenente" all'Ucraina, al servizio di John Hughes, fondatore della città di Hughesovka, l'attuale Donetsk, caduta nelle mani dei russi dopo la recente invasione. Jones vi abitò per un breve periodo, insegnando l'inglese agli abitanti. Il film ricostruisce dettagliatamente le vicende connesse alla drammatica scoperta dell'Holodomor, mettendo bene in evidenza la difficoltà riscontrata nel far conoscere la verità a causa della "simpatia" tributata dagli intellettuali di tutto il mondo al regime sovietico, grazie anche ai reportage di corrispondenti infami, per convenienza personale asserviti al regime staliniano, pur conoscendone la vera essenza. Sotto questo profilo spicca il confronto tra James e il collega Walter Duranty, inglese di nascita ma emigrato negli USA, dove fu assunto dal New York Times per poi essere inviato a Mosca come corrispondente. Duranty divenne ben presto un "vero" propagandista di Stalin, vinse anche un premio Pulitzer e con la sua influenza riuscì a convincere il presidente Franklin Delano Roosevelt a riconoscere ufficialmente l'Unione Sovietica, nascondendogli le atrocità di cui era responsabile Stalin. Nel film, mentre in un lussuoso ristorante Duranty festeggia con i facoltosi amici e colleghi

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l'evento solennemente annunciato dalla radio, drammaticamente impietosa, la voce fuori campo cita un passo del romanzo orwelliano: "Le creature fuori guardavano dal maiale all'uomo, dall'uomo al maiale e ancora dal maiale all'uomo, ma già era possibile dire quale fosse l'uno e quale fosse l'altro". Il film, è facile intuirlo, è pregno di scene che evidenziano magnificamente il tormento di un uomo che in Ucraina vede scene raccapriccianti e non riesce a comprendere come, occidentali come lui, riescano a fare la bella vita a Mosca, incuranti delle atroci sofferenze di un popolo costretto a cibarsi con i cadaveri dei propri cari, morti prima di loro. Indescrivibile, per crudezza, la scena nella quale Jones, rifugiatosi nella casa dove aveva abitato con la mamma, dopo essere sfuggito alle autorità sovietiche che lo avevano smascherato ed avevano timore che potesse rivelare la "verità" dei fatti, si vide offrire del cibo da alcuni ragazzi e alla domanda su dove lo avessero reperito gli fu indicato il corpo senza vita del loro fratello maggiore. Emblematico anche l'incontro con Orwell, al quale rivelò che le autorità russe, dopo averlo catturato, gli intimarono di ritornare in Inghilterra e raccontare che in Ucraina tutto funzionava a perfezione e che nessuno moriva di fame, altrimenti sei ingegneri inglesi, anch'essi imprigionati senza che avessero commesso alcun reato, sarebbero stati uccisi. "Se racconto questa storia - disse Jones moriranno sei uomini innocenti; se però la scrivo, milioni di vite umane potrebbero essere salvate". Lapidaria la replica di George Orwell: "Io penso che dire la verità senza curarsi delle conseguenze sia un suo dovere, e un nostro diritto ascoltarla". Jones raccontò la storia e disse anche che se Stalin non fosse stato fermato in tempo, ne sarebbero arrivati altri come lui. Ancora una volta, però, nessuno gli diede retta: l'unica preoccupazione era fare di tutto per non irretire Stalin con le sue storie. Ancora una volta la voce fuori campo rimanda a Orwell: "Ma proprio in quel momento, come a un segnale convenuto, tutte le pecore scoppiarono in un belato tremendo. Quattro zampe buono, due gambe meglio. Continuarono per cinque minuti senza fermarsi. Quando le pecore si furono fermate l'occasione di protestare ormai era persa perché i maiali erano rientrati nella fattoria". Anche Lloyd George rampognò severamente Jones, invitandolo a ritrattare le sue dichiarazioni, avendo ricevuto le dure rimostranze del governo sovietico. Con estrema chiarezza e tono non certo conciliante gli disse che non poteva permettersi di rompere i rapporti con Stalin, mettendo a rischio gli scambi commerciali e l'attività delle industrie che operavano in Unione Sovietica, sostenendo le finanze del Regno. Tutta la stampa anglo-americana si scagliò contro Jones, sobillata dal potente Walter Duranty, che sul New York Times pubblicò un articolo diffamatorio nei confronti del collega e altamente elogiativo per Stalin: "Voglio rassicurare i miei lettori affermando che la storia della carestia è completamente inventata", scrisse l'infame. Jones ritornò a Cardiff e riprese a lavorare presso il Western Mail, ma con ruolo ridimensionato rispetto al suo valore. Caso volle, però, che ebbe l'opportunità di parlare con William Randolph


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Hearst, a capo del più imponente gruppo editoriale e multimediale dell'epoca, che contava decine di giornali, riviste, stazioni radiofoniche, agenzie che fornivano notizie ai quotidiani di tutto il mondo. I giornali di Hearst pubblicarono l'articolo di Jones e così la cortina di fumo che aveva avvolto i crimini di Stalin si dissolse come neve al sole. Solo apparentemente però, perché, nonostante l'evidenza, i fatti futuri avrebbero dimostrato che l'umanità non ha tratto alcuna lezione da quei drammatici eventi. "Per giorni e giorni gli animali non mangiarono che paglia e barbabietole. La fame sembrava guardarli dritti in faccia. Era di vitale importanza nascondere questo fatto al mondo esterno. Incoraggiati dal crollo del mulino, gli umani stavano già inventando nuove menzogne sulla fattoria degli animali" fa dire la regista alla voce fuori campo, lasciando a Orwell le ultime drammatiche e profetiche parole. Il RUOLO DEL GIORNALISTA "Il giornalismo è la professione più nobile; devi seguire i fatti, dovunque portino, senza prendere posizione". Così si esprimeva Jones parlando con una collega tedesca, giustamente irretita per la piega che stava prendendo la politica del suo Paese, ma ritenendo che il comunismo staliniano potesse essere "la soluzione" per i problemi del mondo. Seguire i fatti senza prendere posizione è qualcosa di straordinariamente sublime, perché consente di dire oggi che Tizio è stato bravo nella tal cosa e domani che ha commesso una sciocchezza immane. Chi eserciti la professione "prendendo posizione", invece, ponendosi al servizio di qualcuno, prima o poi riceverà "l'ordine" di scrivere che Ruby Rubacuori è la nipote di Mubarak; che Putin è buono e misericordioso e la Russia dovrebbe entrare nell'Unione Europea; che la colpa della Seconda Guerra Mondiale va attribuita a Francia e Inghilterra e altre amenità simili. I giornalisti veri, gli uomini come Gareth Jones dovrebbero essere portati in palmo di mano, ma la storia insegna, invece, che sono i Walter Duranty a vincere i premi Pulitzer e a vivere alla grande. Per la cronaca: nell'agosto del 1935, Gareth Jones, mentre effettuava un reportage nella Mongolia Interna, fu rapito da alcuni banditi grazie alla complicità della guida, di cui ignorava il legame con i servizi segreti sovietici. Fu ucciso il 12 agosto, alla vigilia del trentesimo compleanno. La sua attività giornalistica in Unione Sovietica, come ampiamente trasparso, ispirò Eric Arthur Blair, alias George Orwell, per la stesura del romanzo "La fattoria degli animali". Lino Lavorgna

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SALGARI O PEPPENINO? Ecco che ad un certo punto al tapino, che si crede scrittore, la sua vita non bastava più. Sentiva di aver vuotato il suo sacco di ricordi di avvenimenti notevoli, o supposti tali e che, per quanto lo scuotesse, non ne sarebbe uscito niente di più che un qualche residuo inutilizzabile. Aveva già dato fondo alle memorie dell'infanzia, descritto i personaggi con i quali, specie proprio nella gioventù, aveva avuto commercio di vita comune, si era spinto fino ai confini della calotta cranica che trattiene i sentimenti, esplorato finanche qualche anfratto ideologico, dal quale però, a suo onore, si era ritratto con noia, per ritenerli incomprensibili: insomma aveva dato, anzi preso, tutto il possibile. Del resto a ben considerare riteneva quasi miracoloso essere giunto a questo punto: un punto che ora giudicava difficile da implementare proprio per la pochezza della sua vita, l'ordinarietà' degli avvenimenti vissuti, il poco altro da raccogliere dopo modesta semina. E intanto il tempo era trascorso e la chioma bianca era lì a ricordargli che altre chances non avrebbe avuto. Con una ingenuità che sempre aveva coltivato, considerandola un dovere del galantuomo, il sedicente scrittore aveva pure allargato i suoi orizzonti conoscitivi a mondi mai vissuti e frequentati. Questo esercizio gli costava però particolare fatica, intriso com'era di bugie che coscientemente non avrebbe saputo reggere fino alla fine, né peraltro si riteneva un Salgari abile a pagaiare nella giungla del proprio salotto. Anzi, a dire la verità, qualcosa di singolare era invece accaduto nella famiglia di sua madre. Un fratello del bisnonno di lei, gentiluomo dedito a se stesso, chiamava un pescatore perché gli insegnasse a tirare la rete nel salotto buono di casa sua, con quale tremore, si può immaginare, per le chincaglierie che certamente affollavano quel locale. Era stato niente più di un lampo, eppure per un attimo egli credette di aver scorto nei suoi antenati una nuova schiera di personaggi. Ma l'entusiasmo durò poco, a parte quello ora citato: degli altri nulla sapeva, salvo il loro vivere affogati nelle loro stesse vite, che immaginava pesanti come i tristi tendaggi della casa del nonno. Si, è vero, c'era pure lo zio Giuseppe Antonino, detto Peppenino, prozio di prozii, ma sempre zio, che aveva avuto, pare, una vita movimentata, in quanto spadaccino tra i più noti dei suoi tempi, che aveva donato le sue terre ai poveri del suo paese, ma il maldestro nulla aveva lasciato a testimoniare di questa vita singolare, non uno scritto, non una lastra fotografica, nulla se non che il ricordo dei parenti, imbarazzati per la sua originalità, scandalizzati per il suo estremo lascito, che impudicamente individuava quel prossimo, da loro sempre invocato nelle loro preghiere e destinatario di molto fumo, ma poco, pochissimo arrosto. Vedeva che a poco a poco qualcosa si svegliava ai suoi occhi, qualcosa che era un ricordo non suo,


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ma veicolato da succinti racconti dei genitori, che riprendevano, forse amplificandoli, ricordi e memorie volutamente sepolte dai protagonisti. Si chiedeva se a questa ritrosia nel tramandare fatti e personaggi interpetrati nella compagnia di giro costituita dalla famiglia allargata, corrispondesse una loro presunta irrilevanza o piuttosto (anche) una atavica pigrizia che scambiavano per riservatezza. Gli sovvenne allora che l'esercizio del rinnovare memorie per sentito dire, non fosse in fondo molto dissimile dagli esercizi di Salgari, anche se svolti in contesti con minori insidie , di animali e di uomini selvaggi, allora come ora assenti i primi, appena più mansueti i secondi. Chi scrive si rammaricò dunque per la assenza di documentazione sulla vita di Peppennino, immaginando quale miniera sarebbe stata per i posteri, rappresentati da lui stesso, l'aver accesso a carte che testimoniavano di una vita finalmente diversa da quella soffocante sequenza di giorni che scandivano le esistenze di quei signori, perennemente affranti, malgrado la numerosa servitù che li sollevava da ogni cura materiale. O forse proprio per questo! Anche fornita di "anime morte" doveva essere stata un'altra antenata che si mortificava per aver regalato alle nipotine una scatola di biscotti ove troneggiava a grandi caratteri la scritta LAZZARONI, termine che oggi parrebbe carezza nelle trasmissioni televisive e nei film, abituati ad epiteti ben più grevi. E che dire dell'antenato in odore di essere garibaldino, che per sottrarsi alla polizia borbonica si nascose in un anfratto chiuso da una botola, proprio entro casa sua. Fin qui voi direte: quale è la novità? Non ci hanno forse mostrato i telegiornali innumerevoli volte di rifugi e tunnel ove si nascondevano gli n'dranghetisti, occultati a volte dietro lavastoviglie o all'interno di forni mai accesi? Ebbene, a voler dare credito ai racconti, la novità consiste nel fatto che quel gentiluomo si nascondeva portando con se i suoi adorati cani. Ora il vostro scrittore cominciava a verificare se era proprio della memoria svilupparsi e ingigantirsi a misura che il tempo trascorreva, ovvero che l'eroismo di quel rivoltoso si stemperava nella dabbenaggine di condurre con se i cani, nella certezza che non emettessero un ringhio nel corso di una ispezione di polizia. Altri tempi, altri cani e altri rivoltosi! La rassegna degli antenati originali poteva svilupparsi oltre, includendovi un monsignore che per sottrarre le numerose sorelle al fastidio di amministrare un cospicuo patrimonio, preferì farle suore e, per dimostrarsi magnanimo, costruì per loro un intero convento con annessa chiesa, in modo da lenire agli occhi dell'Altissimo la modesta propensione alla chiamata religiosa, con il concambio di un tempio riparatore, che ancor oggi si può ammirare in una strada cittadina intitolata ad un noto martire della sedicente persecuzione borbonica. Più indietro non seppe andare, si convinse di essere ben lontano dai tempi in cui un vitello grasso che faceva le spese di ogni redenzione. Rifletté sul fatto che così come la Natura è un grande ristorante, dove tutti mangiano e sono mangiati, così le religioni sono dei perenni "barbecue" con relativa produzione di fumi grassi graditi agli dei. La materia stava per prendere una piega malsana e così si interruppe. Fausto Provenzano

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GIOVANNI BOLDINI Nella foto: Dipinto murale della Villa " La Falconiera " Pistoia, di Giovanni Boldini. GIOVANNI BOLDINI ( Ferrara 1842 - Parigi 1931 ) Nacque a Ferrara e qui iniziò a dipingere ma la sua città gli stava stretta e ben presto non si accontentò più di viverci. Dilatato il suo spazio artistico si affermò come pittore audace e di grande talento, seppe dipingere le donne come nessuno. Per avere un suo ritratto molte signore della Parigi bene se lo contesero a vicenda. Nel 1862 si trasferisce a Firenze. Nel 1867 va a Parigi con gli amici Falconer. Nel 1870 fu a Londra. Nel 1871 si trasferisce a Parigi. Nel 1897 tiene una mostra a New York. Nel 1926 conosce la giornalista Milli Cardona che sposerà tre anni dopo. Nel 1931 muore nella sua casa di Boulevard Berthier a Parigi. Carissimi amici lettori questa volta voglio condividere con voi un avvenimento molto importante della mia vita, avvenimento che oggi si è rivelato profetico legato alla storia di questo grande artista. Io sono nata e cresciuta nella meravigliosa campagna toscana che amo infinitamente e che è stata la mia vera maestra d'arte. La natura nella sua bellezza e' la prima e più genuina dispensatrice d'arte che io conosca. Vicino a casa mia c'era una villa " La Falconiera " dove abitava la vedova del grande pittore ferrarese di fama mondiale Giovanni Boldini, l'unica donna che lui aveva sposato anche se in tarda età. È stata questa donna stupenda che mi ha sempre spinto e incoraggiato all'arte. Io allora ero giovanissima, appena all'inizio dell'adolescenza, lei veniva a fare visita a mia nonna e vedendo le mie inclinazioni mi esortava a coltivare l'arte per quel talento che lei vedeva in me, sia letterario essendo lei una giornalista, sia pittorico vedendo già da allora la mia predisposizione per il disegno e l'armonia dei colori. Nel 1926 la giovane giornalista Milli Cardona chiese all'anziano maestro un'intervista per la Gazzetta del Popolo, due anni più tardi i due si sposavano. Fu così che lei l'amo' e lo assistette sempre fino alla sua morte avvenuta in Francia e si prefisse di perpetuare la grandezza dell'artista che il destino le aveva messo accanto. L'11 gennaio 1931 Giovanni Boldini moriva. Nel 1938, Milli acquistava la villa pistoiese della Falconiera dove l'artista aveva dipinto opere murali bellissime quando, amico ed ospite dei proprietari inglesi Falconer, vi aveva soggiornato a lungo, per farne sede della collezione Boldini. Io sono stata molte volte in quella villa e ho poi voluto conoscere meglio questo grande pittore che amo molto e che in qualche modo si è incrociato anche con il mio destino. A tutti voi un cammino di arte e di serenità! Stefania Melani


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Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

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