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Web-magazine di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

L’OPPRESSIONE LIBERALE

Numero 81 Dicembre 2019 Gennaio 2020


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Confini Webmagazine di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Numero 81 - Dicembre 2019/Gennaio 2020 Anno XXII

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti - Cristofaro Sola +

Hanno collaborato: Pietro Angeleri Francesco Diacceto Gianni Falcone Roberta Forte Margherita Interlandi Lino Lavorgna Sara Lodi Monica Maggioni Antonino Provenzano Angelo Romano Gianfredo Ruggiero Cristofaro Sola Eduardo Zarelli +

Contatti: confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone e Sara Lodi

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EDITORIALE

MANIFESTO DELLA DESTRA FUTURISTA Noi amiamo la scienza, la tecnologia, l'arte, il pensiero creativo, lo spirito che sa farsi libero, il merito, l'infaticabile ricerca del vero e del giusto, l'onore, la lealtà, l'altruismo, il coraggio. Abbiamo in alta considerazione la politica quale suprema arte per determinare il futuro di mondi, nazioni e popoli. Come tale essa non è arte per tutti ma per persone che incarnano valore e valori. La democrazia egualitaria non ci appassiona ad essa preferiamo idealmente, pur rispettando le leggi, l'aristocrazia dello spirito e sappiamo riconoscere gli spiriti nobili per sintonie valoriali, per la forza dell'esempio, per l'assoluto altruismo ad essi connaturato, per cui nasce spontaneo un vincolo di onore, di reciprocità, di stima, di fede. Ci piace imbatterci nella grandezza, soprattutto degli animi e non pensiamo mai che il buono è nemico dell'ottimo, sapendo che l'ottimo è solo il buono che si fa migliore, che non si arrende a sé stesso. Non prediligiamo il guardare ma il vedere, dopo aver attentamente osservato. E ci incantano gli spazi sconfinati, gli immensi orizzonti, i cieli stellati perché sentiamo in noi di appartenere alla parte senziente del cosmo e questo alimenta la religiosità dei nostri spiriti. Spiriti che cercano, che infaticabilmente ricercano, che non esitano a farsi domande anche senza poter mai intravedere risposte. E se mai la chiave delle risposte fosse irrimediabilmente spezzata, meglio, molto meglio, dotarsi di sensi sensori che amplifichino la nostra capacità di vedere, dentro e fuori di noi, piuttosto che restare sul guado intuendo, solo intuendo, che dall'altro lato c'è tutto quanto non sappiamo e questo ci fa prediligere il pensiero che si fa azione alla speculazione passiva, alla ricerca della narcosi per non vedere, per non osare, per non sentire. Non abbiamo certezze assolute intuendo che sul confine dell'universo, sull'orizzonte degli eventi, ad ogni istante, si crea il cambiamento, l'espansione che vince e trasforma il vuoto generando nuove grandezze, nuove stelle, nuovi eventi. Eppure abbiamo forti convinzioni e la incrollabile determinazione, alimentata da una irrefrenabile curiosità, a volerci spingere sul quel remoto confine. Rispettiamo il passato, il lavorio di quanti ci hanno preceduti, onoriamo la memoria e la storia ma aneliamo al futuro, mossi dal desiderio di volerlo orientare, determinare, plasmare al bene. Un bene che riconosciamo nel miracolo del vivente e nel rispetto verso di esso, che riconosciamo nella responsabilità e nell'integrità delle persone, nella loro libertà a determinarsi, a specificarsi,


EDITORIALE

a realizzarsi, ad esprimersi secondo le loro dotazioni, desideri e inclinazioni e nel loro spontaneo sentire il dovere di voler concorrere al bene ed al miglioramento degli altri e di quanto li circonda. Ci riconosciamo in tutto ciò che specifica. Non indulgiamo verso ciò che omologa e massifica, avendo osservato che la vita è specificazione. Fatte salve le omologanti ragioni generali delle specie. Per questo pensiamo che a ciascuno vada offerto il suo, secondo inclinazioni, talenti o mancanze, si tratti di educazione, di competenze e di saperi, di stimoli, di supporto, di servizi alla persona, di sostegno sociale, di castighi. Crediamo nella pari dignità sociale ed in pari condizioni di partenza. Poi nella corsa della vita si affermano le differenze che, se positive, vanno premiate secondo merito. Non crediamo che egoismo e prezzo siano la misura di tutte le cose, né nella supremazia della volontà dei mercati, né nel magico potere di questi ultimi di autoregolarsi. Essi sono solo uno strumento di scambio con finalità sociali. Finalità determinate dalla politica. Ci sembra giusto che tra i frutti della specificazione, accanto al prestigio sociale vi sia anche la ricchezza, ci sembra anche giusto che questa, raggiunta una più che soddisfacente soglia, trovi un limite alla sua indefinita accumulazione, un limite oltre il quale si accumula esclusivamente per il bene sociale, un limite anche all'avidità ed alla brama di possesso. Tutto si specifica, gli atomi nel loro aggregarsi per formare elementi, le forme del vivente nel costruirsi il loro proprio spazio vitale, mai assoluto e sempre correlato ad altre forme viventi ed all'ambiente che le circonda. L'albero fida nel vento che spargerà i suoi semi, nella terra che nutre le sue radici, nella luce che alimenta i suoi processi viventi, come il fiore fida nell'insetto e nel sole. Anche gli individui e i popoli si specificano, fidando in sé stessi, nei loro simili, in altre specie ed in tutto quanto li circonda. Distillando ciascuno, nel fluire del tempo, personalità singolari e specifiche culture. Ed è questo il loro valore: l'unicità dell'identità. (continua) Angelo Romano

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SCENARI

L’OPPRESSIONE LIBERALE Pubblichiamo la prefazione all’ultimo libro di Alain de Benoist: Critica del liberalismo, La società non è un mercato. Le ragioni impellenti di quest'ultima opera di Alain de Benoist, portano avanti la disanima tanto puntuale quanto sistematica sulle condizioni del nostro tempo sviluppate nel precedente Populismo. La fine della destra e della sinistra. Qui si descrive con capacità esaustive il liberalismo come ideologia dominante nell'estremo Occidente, unitamente all'inverarsi oligarchico del potere contro la sovranità e la partecipazione popolare, dove la democrazia è concettualmente intesa come la forma di governo corrispondente al principio dell'identità di vedute fra governanti e governati, istanza primaria di un popolo in quanto unità politica. Le ideologie sono state le protagoniste della politica moderna, e hanno caratterizzato il conflitto nella società di massa contemporanea. Tra le molte sorte, e poi tramontate, ad avere mobilitato le generazioni sono state quelle espresse dal liberalismo (sinistra e destra), dal comunismo (compresi socialismo, marxismo e socialdemocrazia) e dal fascismo (insieme al nazionalsocialismo e alle declinazioni varie della "terza via"). Il liberalismo è quindi la prima teoria politica. Nata già nel XVIII secolo, essa si è dimostrata la più aderente al determinismo della modernità persistendo e prevalendo su tutti i suoi avversari, e sedendosi su un trono grande quanto il mondo. Non ha più una dimensione politica e rappresenta non più una libera scelta, ma l'unico campo in cui si può giocare la partita dell'umanità: l'utilitarismo economicista. Con la vittoria del liberalismo, l'individuo è diventato il soggetto di riferimento per tutta l'umanità, emancipato da ogni appartenenza comunitaria e identità collettiva, catalizzato dall'ideologia dei diritti umani e dall'onnipervasiva catechesi del "politicamente corretto". Il liberalismo è cioè riuscito nell'intento di sostituire il "politico" con l'autoregolazione giuridicoamministrativa del presente e con il moralismo, tanto da essere ormai - paradossalmente - più che una idea politica, una sussunzione totalitaria della realtà. Permeandosi nel profondo del tessuto sociale e dei comportamenti indotti, il liberalismo è oggi l'ordine "naturale" delle cose, la dittatura dei nostri tempi. La politica diviene biopolitica - delle "particelle elementari", direbbe Michel Houellebecq - mezzo con cui il sistema regola la vita biologica e fisica - attraverso dei nuovi istituti giuridici, il condizionamento tecnologico, la medicalizzazione di ogni atto e momento dell'esistenza, il controllo della stessa riproduzione, la polverizzazione della famiglia e dove lo scambio, la produzione, il consumo, la rapida sostituzione del "materiale umano"


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(eugenetica, eutanasia, immigrazione di massa) disegnano un vitreo e distopico palcoscenico post-umano. Un vero e proprio mutamento antropologico, prodotto dalla civilizzazione e dal dominio onnipervasivo del materialismo pratico e del riduzionismo tecno-scientifico. L'individuo mutante post-umano che si prefigura in questo presente distopico non sarebbe possibile, all'oggi, senza la premessa filosofica liberale per cui il soggetto ha il diritto di perseguire la propria massima felicità senza limiti e pregiudizio per gli altri, la natura e l'Essere. L'antropologia individualistica e utilitaristica è insofferente alla natura e il senso comune della realtà, infervorato da una tensione titanica all'illimitato, nega la forma e la sacralità del vivente, generando sistemi economici, politici e giuridici destinati a una catastrofe ecologica e a contraddizioni sociali irrisolvibili, nell'irresponsabile presunzione che basti affidarsi alla tecnica per risolvere i problemi che la tecnica stessa crea. Sotto l'effetto della religione dei diritti dell'uomo, si è definita una concezione strumentale della democrazia, intesa non più come popolo al governo di un bene condiviso grazie alle libertà pubbliche. La declinazione oligarchica della democrazia è diventata culto individualistico dell'universalismo, disprezzo dell'appartenenza collettiva e quindi della sovranità popolare. Essendo questi valori globalitari, nessun Popolo può sentirsi legittimo, giacché solo l'umanità lo è. Questi valori, dunque, sono stati posti al di sopra della sovranità dei cittadini istituzionalizzando la degenerazione oclocratica della democrazia. Dal 1989, il liberalismo è quindi storicamente l'ideologia onnipervasiva occidentale e della struttura finanche fisiologica del potere, un insieme di valori, un modo di governare e un'antropologia culturale. Questa egemonia si è contorta su se stessa con la crisi economica sorta nel 2008 per la bolla speculativa e con l'emersione populista dell'ultimo decennio. L'autoreferenzialità ideologica del potere liberale si dimostra nel non avere colto la gravità del divario tra rappresentanza parlamentare, partecipazione e governo, sostenendo anzi un ulteriore appoggio alle istituzioni non elettive - e alle tecnocrazie che le amministrano - come banche, agenzie finanziarie, corti giudiziarie, e organi come l'ONU, il FMI, la BM, l'OCSE, l'Unione Europea e la NATO. Il liberalismo, che nella sua ideazione politica poneva la tutela istituzionale delle minoranze rispetto alle maggioranze, si sottrae ora all'istanza partecipativa popolare, dato che si identifica con minoranze non elette - banchieri, finanzieri, imprenditori, scienziati, esperti, opinionisti che si ritengono titolate a decidere per le maggioranze o esplicitamente contro di esse. La legittimità si riduce quindi alla legalità. Questa concezione positivistica-legalistica della legittimità invita a rispettare le istituzioni per se stesse, come se costituissero un fine in sé, senza che la volontà popolare possa modificarle e controllarne il funzionamento. Privatizzando l'economia e deregolamentando il sistema finanziario, d'altronde, si impone un meccanismo autoreferenziale di prestazione tecnica e realizzazione del profitto, che si sottrae alla giustizia sociale e al consenso popolare. Il mercato autoregolato pretende di imporsi indipendentemente dal contesto sociale e dalla sovranità politica, riducendo la volontà generale a un'opinione pubblica da persuadere, ma in realtà da manipolare. Dalla pretesa illuministica di governare

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indipendentemente dai sentimenti del popolo alla volontà di affermarsi contro il medesimo. L'ideale della governance, il modo cioè di rendere "non democratica la società democratica" è oramai nei fatti: senza sopprimere l'apparenza procedurale, si pratica un sistema di governo indifferente al popolo - o, se è il caso, contro - in nome di una etero-direzione transnazionale economico-finanziaria. Non è certo un caso che questa eterogenesi democratica dei fini liberali si sposi con l'occidentalizzazione del mondo, con l'espansione anche cruenta della liberal-democrazia che caratterizza lo scenario internazionale. L'esportazione della "democrazia" e dei "diritti dell'uomo" (ai tempi del primo colonialismo, si diceva della "civilizzazione" e del "progresso") strumentalizza l'universale in funzione di meri interessi politici ed economici parziali ed egemonici. L'universalismo dell'oggi è in realtà il nazionalismo della potenza mondiale dominante. Imporre la democrazia a un popolo, non può che portarlo a considerare la "democrazia" come una forma di aggressione. Il dominio liberale ha divaricato esponenzialmente le disuguaglianze, le democrazie si sono adattate a oligarchie tecnocratiche e le relazioni internazionali si sono piegate all'unilateralismo e all'asimmetria dei rapporti di forza. L'utilitarismo e l'individualismo, alla base fondativa del liberalismo, sono fisiologicamente avversi alla responsabilità sociale, ai legami comunitari e al bene comune. Il liberalismo subordina la società alla realizzazione edonistica dell'individuo, che fa degenerare la libertà in liceità, un "dispotismo dolce" - per dirla con Alexis de Tocqueville - che si installa al di sopra della folla solitaria di uomini simili plagiati nell'ortodossia del "medesimo", mentre lo scopo è il bene comune della democrazia classica, in cui la persona svolge il proprio fine (telos), la vita buona che audacia temeraria igiene spirituale si riconosce nella comunità di cui è parte. Nello Stato democratico è il popolo a essere sovrano. Altra cosa avviene nel regime liberale, in cui sovrano diventa il numero a profitto. La modernità pone il limite della libertà soggettiva dove comincia quella dell'altro, mentre l'appartenenza comunitaria ti pone in obbligo verso gli altri, ragione per cui la libertà è intesa come responsabilità che si fa disinteressato dovere civico. Il liberalismo, per vizi privati e pubbliche virtù, promuove la realizzazione della ricchezza individuale come emancipazione del singolo da ogni misura e norma etica, mentre la democrazia degli antichi mira a evitare che il Re diventi un tiranno, che il singolo diventi un despota in sé e per gli altri, considerandoli uno strumento per il suo utile e degradando la potenza su di sé alla "volontà di potenza" su una realtà reificata e quindi annichilita. La forza del dettato dei nostri tempi si iscrive nell'apparente inerzia e irreversibilità dell'esistente, ma l'idea di un sistema capitalistico capace di rigenerarsi all'infinito cova la possibile inversione di tendenza, perché implica un meccanismo di accumulazione materiale e di espansione nello spazio che deve necessariamente urtare contro un limite, fosse anche planetario. Avere di più non significa vivere bene. In presenza del declino della vita associata e della giustizia sociale, dovuto alla sussunzione nella forma capitale di ogni intendimento e azione individuale e collettiva, è legittimo immaginare - in controtendenza - una democrazia olistica, in cui il criterio dell'agire politico sia rappresentato non dall'espansione dei diritti individuali, ma


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dalla promozione e dalla difesa della comunità di appartenenza? Sì, è legittimo immaginarla, anzi dobbiamo, se conserviamo ancora un intendimento della dignità umana non degradato a mere pulsioni mercificate. La democrazia partecipativa non ha soltanto una portata politica, ne ha anche una sociale; favorendo i rapporti di reciprocità, permettendo la ricreazione di un legame sociale, essa può aiutare a ricostruire delle solidarietà organiche oggi debilitate e a ricreare un tessuto relazionale disgregato dallo sviluppo dell'individualismo e dalla corsa nel vuoto della concorrenza e dell'interesse. È quindi indispensabile individuare delle procedure qualitative e non meramente quantitative di consenso, riattivare la partecipazione comunitaria e valorizzare il vissuto, il locale e il territoriale nella sostenibilità e nella resilienza, nel respiro di un grande spazio continentale autosufficiente e internazionalmente multilaterale. A tale fine, gli strumenti concreti sono la sussidiarietà e la priorità della partecipazione sovrana rispetto alla delega e alla rappresentanza, per cui il merito e la capacità coincidano con lo spirito di servizio. Appartenenza, socializzazione, reciprocità e partecipazione sono i caratteri di fondo della "democrazia organica", per dirla con Alain de Benoist. Per partecipare, è indispensabile riconoscersi nel contesto in cui l'interazione avviene; di conseguenza, risulta essenziale ricostruire la comunità, nella quale il bene comune non è subalterno a quello individuale e anzi l'individuo assume coscienza di sé proprio perché appartiene a un'identità culturale collettiva. In una società in cui l'idea di Patria sia volontaristica, disinteressata e inclusiva, la solidarietà non decade in un astratto umanitarismo moralistico apolide, ma si esprime in un "comune sentire" e si incarna politicamente nella giustizia sociale e nell'autodeterminazione dei Popoli. Eduardo Zarelli

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IL MALE OSCURO INCIPIT "Alcuni ancora difendono le teorie della "ricaduta favorevole", che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere". (Papa Francesco) "Conservatore: uomo politico affezionato ai mali esistenti, da non confondersi col liberale, che invece aspira a rimpiazzarli con mali nuovi." (Ambroge Gwinnett Bierce) PROLOGO Pur amandola tanto, dobbiamo ammettere che l'Europa continua a essere quella vecchia baldracca che ha puttaneggiato in tutti i bordelli, contraendo le peggiori infezioni, per lo più culminanti in "ismo".temeraria igiene spirituale audacia Sono state quasi tutte debellate, a onor del vero, e sparute sacche di resistenza non fanno più paura, ma la peggiore di tutte, il liberalismo, persiste come un virus per il quale non sia stato ancora trovato l'antidoto. Chi lo propaganda come bene supremo è molto abile nel rendere schiavi milioni di persone dando loro l'illusione di essere liberi e l'inadeguatezza delle masse nel fronteggiare le distonie del mondo contemporaneo, soprattutto a causa dei limiti culturali, si trasforma in un prezioso elemento di supporto per i venditori di fumo. Alcune settimane fa la cronaca ci ha mostrato le immagini di bambini che giocavano gioiosamente sulla spiaggia di Chennai, nella parte sud orientale dell'India, immersi in un'enorme distesa di soffice schiuma bianca. Ignoravano, i poveri pargoli, che la schiuma fosse altamente tossica a causa delle sostanze inquinanti contenute nelle acque reflue che si mischiano con l'acqua di mare. Alcuni mesi fa è stata trasmessa in TV una miniserie che ha ricostruito, in modo encomiabile, la tragica vicenda di Chernobyl. Nella prima puntata si vedono molti cittadini di Pripyat, la "città fantasma", assiepati su un ponte ferroviario per guardare l'incendio della non lontana centrale, con la tipica curiosità di chi assista a qualcosa d'insolito, senza temerne le conseguenze. Ignoravano, i poveretti, che dal cielo cadevano sulle loro teste le micidiali polveri radioattive e quel ponte è ora noto come "ponte della morte". Sia in India sia in Ucraina (così come in tante altre situazioni) vi erano coloro che "sapevano" e


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hanno taciuto; addirittura in Ucraina furono "tacitati" coloro che volevano subito rendere nota l'esatta entità del disastro. Questi esempi, pertanto, possono essere considerati emblematici per comprendere la portata nefasta del liberalismo: milioni di persone lo hanno assimilato, innocentemente, ignorandone la letale essenza e subendone le conseguenze proprio come i bimbi indiani e gli abitanti di Pripyat. Le oligarchie dominanti hanno facile gioco nell'azione mistificatoria e inascoltati restano coloro che si affannano a spiegare come stiano effettivamente le cose. Niente di buono si vede all'orizzonte. Chissà quando saranno squarciate le maschere di perbenismo indossate dai fautori del "male oscuro", affinché siano ben evidenti le sembianze mostruose del loro vero volto, e divelti gli spessi muri protettivi eretti a protezione degli sporchi giochi praticati. Solo allora, infatti, si potrà avviare la "cura" con gli unici antidoti efficaci: consapevolezza e cultura. LE RADICI DEL MALE Evitiamo di seguire una linea temporale classica, più consona a un saggio, perché ciò richiederebbe necessariamente un salto nell'antica Grecia e poi procedere lentamente fino alla Rivoluzione Francese e ai giorni nostri. Apprenderemmo, in tal modo, i prodromi presenti nelle opere di Sofocle, la rottura con la tradizione ecclesiastica di Marsilio da Padova, i princìpi della valanga illuminista, il riordino messo a punto da John Locke e i successivi disastri generati dai liberali del XX e XXI secolo. Ma, diciamoci la verità: vi è qualcuno che possa seriamente imputare ai pensatori del passato la responsabilità di aver coscientemente creato i presupposti per questo folle mondo? Non esiste e se si chiedesse ai politici che si riempiono la bocca con i termini "liberale", "liberismo" e liberalismo" di spiegarne la genesi storico-filosofica e le differenziazioni, ci faremmo quattro risate, come sempre accade quando dei simpatici cronisti li fermano per strada per rivolgere loro banalissime domande di cultura generale o su argomenti di attualità al vaglio dei lavori parlamentari, dei quali dovrebbero conoscere anche le virgole. Figuriamoci cosa si possa pretendere dalle masse amorfe e incolte. In effetti, molto più incisiva del pensiero "illuminato" di David Hume, Adam Smith, Montesquieu, Voltaire, Kant, Verri, Beccaria e, ovviamente, John Locke, è stata l'opera di Benjamin Hardy. Ora, emulando Don Abbondio quando si chiedeva chi fosse Carneade, vi state chiedendo tutti chi sia questo tizio e sicuramente vi accingete anche a tuffarvi su Google in cerca di notizie. Tempo sprecato: non ne troverete. Egli, infatti, era solo un modesto funzionario statunitense, in servizio presso il dipartimento di Stato. Settanta anni fa, nel gennaio del 1949, Harry Truman, rieletto presidente, si accingeva a pronunciare per la prima volta il discorso d'insediamento in diretta televisiva. La televisione aveva subito uno sviluppo vorticoso: dai settemila apparecchi presenti nelle case degli americani nel 1942, solo nella zona di New York, si era passati a un numero tale da consentire la visione dei programmi in tutti gli stati, a milioni di persone. I collaboratori e i ghostwriter, ai quali non sfuggivano la portata storica dell'evento e le inevitabili nuove metodologie che si sarebbero dovute apportare nella comunicazione, erano alquanto

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affranti: occorreva trovare argomenti forti per colpire subito "l'immaginario collettivo", aduso a informarsi da sempre sulla carta stampata, affinché fossero poi riproposti e "rafforzati" dai quotidiani nei giorni successivi, consolidando la fiducia nei confronti del presidente. Benjamin Hardy ebbe modo di leggere, casualmente, un promemoria con il quale si chiedeva di proporre argomenti validi per il discorso d'insediamento e decise di sottoporre una sua riflessione al vaglio dei superiori, che lo mandarono elegantemente a quel paese. Ciascuno stia al suo posto, fu più o meno il senso della replica; un modesto funzionario non poteva certo permettersi di fornire consigli al presidente! Hardy, però, non era un tipo arrendevole e non si perse d'animo: riuscì a farsi ricevere alla Casa Bianca e conferì con i consiglieri di Truman: la proposta fu valutata positivamente e aggiunta alla bozza del discorso presidenziale come "quarto punto". Truman approvò e il discorso è passato alla storia proprio come "il discorso dei quattro punti". Quale fu l'idea geniale? Vendere fumo per arrosto e soprattutto fare in modo che tutti cadessero nella trappola. La parola "magica" fu: "Sviluppo". Bisognava far passare il messaggio che gli Stati Uniti avrebbero fornito aiuti ai paesi del terzo mondo per favorirne lo sviluppo, ponendo fine a una miseria straziante! "Un gol a porta vuota", scrive Jason Hickel nel saggio "The Divide"1, quando parla di questo episodio, rivelando il pensiero di Hardy, che si proponeva di "ottenere il massimo impatto psicologico sulle persone, cavalcando e guidando l'onda montante del desiderio universale di un mondo migliore". Il discorso di Truman, cesellato sulla proposta del modesto funzionario, ebbe un successo clamoroso e la gente si commosse ascoltando le sue parole: "Più della metà della popolazione mondiale vive in condizioni prossime alla miseria. La loro alimentazione è inadeguata. Sono vittime delle malattie. La loro vita economica è primitiva e stagnante. La loro povertà è un handicap e una minaccia sia per loro sia per le aree più prospere. Per la prima volta nella storia, l'umanità possiede la conoscenza e l'abilità per alleviare la sofferenza di queste persone. Gli Stati Uniti sono preminenti tra le nazioni nello sviluppo di tecniche industriali e scientifiche. Le risorse materiali che possiamo permetterci di utilizzare per l'assistenza di altre persone sono limitate, ma le nostre risorse nelle conoscenze tecniche sono in costante crescita e inesauribili. Credo che dovremmo mettere a disposizione dei popoli amanti della pace i benefici delle nostre conoscenze tecniche al fine di aiutarli a realizzare le loro aspirazioni per una vita migliore. In collaborazione con altre nazioni, dovremmo promuovere investimenti di capitale in aree che necessitano di sviluppo. Il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di aiutare i popoli liberi del mondo, attraverso i propri sforzi, a produrre più cibo, più vestiti, più materiali per le abitazioni e più potenza meccanica per "agevolarli nel lavoro" (le parole esatte pronunciate furono: "to lighten their burdens; per alleggerire i loro fardelli", ndr). Invitiamo altri paesi a mettere insieme le loro risorse tecnologiche in questa impresa. I loro contributi saranno accolti calorosamente e questa impresa dovrebbe vedere tutte le nazioni lavorare insieme, attraverso le Nazioni Unite e le sue agenzie specializzate, ovunque possibile. Deve essere uno sforzo mondiale per il raggiungimento della pace, dell'abbondanza e della


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libertà. Con la cooperazione di imprese, capitali privati, agricoltura e lavoro in questo paese, questo programma può aumentare notevolmente l'attività industriale in altre nazioni e può aumentare sostanzialmente il loro tenore di vita. Tali nuovi sviluppi economici devono essere ideati e controllati a beneficio dei popoli delle aree in cui sono stabiliti. Le garanzie per l'investitore devono essere bilanciate da garanzie nell'interesse delle persone le cui risorse e il cui lavoro siano orientati verso un effettivo sviluppo. Il vecchio imperialismo - lo sfruttamento per il profitto straniero - non ha posto nei nostri piani. Ciò che prevediamo è un programma di sviluppo basato sui concetti di equo scambio democratico". Ho evidenziato la frase più significativa del discorso, che ne riassume l'essenza demagogica e fuorviante. Ovviamente non esisteva nessun piano effettivo per un programma del genere, ma gli americani si sentirono lusingati per i propositi presidenziali, che li poneva, di fatto, alla guida del mondo e a "fin di bene", per aiutare chi non aveva le loro opportunità. Lo slogan pubblicitario di un modesto funzionario2, basato sul nulla, funzionò alla perfezione: forniva una spiegazione soddisfacente sulle cause della diseguaglianza globale e offriva una soluzione. Il "liberalismo" post bellico, di fatto, nasce dall'idea di un signor nessuno e dalla lungimiranza di Truman, che ne intuì la portata dirompente. Da allora i "liberali" iniziarono a cibarsi di questo modello propositivo, fatto di chiacchiere spacciate per realtà, perfezionandolo anno dopo anno, fino a renderlo "quasi dogmatico". Scrive ancora Hickel nell'opera citata: "Era una favoletta incredibilmente allettante per gli occidentali. Non era una storia come un'altra: aveva tutti gli elementi di un mito epico. Forniva alle persone una chiave di volta per organizzare le idee sul mondo, il progresso dell'umanità e il nostro futuro. Ancora oggi la storia dello sviluppo continua a esercitare una forza irresistibile nella nostra società"3. Come siano andate (e stiano andando) effettivamente le cose, poi, è sotto gli occhi4. Oggi chi non si definisca "liberale" è considerato quasi un alieno. Nel film "Il pianeta delle scimmie" gli umani sono ridotti a schiavi e le scimmie, dominanti, filosofeggiano nei salotti. L'affermazione del liberalismo come modello di civiltà ha profonde analogie con la trama del film. I DOGMI DA SFATARE Sono davvero tanti e riguardano, precipuamente, il pensiero che traspare dagli esegeti del liberalismo5. Qui ne analizziamo solo due, tra i più deleteri. Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino - 26 agosto 1789. Art. 4: "La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così, l'esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. Tali limiti possono essere determinati solo dalla legge". Che belle parole! Pronunciate fino alla nausea con enfasi reboante dai paladini dell'illuminismo illuminato che illumina le tenebre e dona pace e gioia all'umanità! Dove siano, poi, pace e gioia, è un mistero, ma ciò che conta è lo slogan! Ce l'ha insegnato Benjamin Hardy.

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Il famoso articolo, tuttavia, presenta non poche lacune "etiche". Legittima ogni desiderio purché non contraddica quelli altrui e ritiene fattibile tutto ciò che è possibile. E' davvero possibile, tuttavia, determinare con precisione il momento in cui la libertà di un individuo può essere 6 considerata un ostacolo a quella degli altri? Non è possibile, sostiene Alain De Benoist : "Quasi tutti gli atti umani si esercitano, in un modo o nell'altro, a spese della libertà altrui. Intesa in tal modo, la libertà liberale è intesa, in effetti, in maniera puramente negativa, come rifiuto di ogni ingerenza esterna ("libertà da" e non "libertà per"). […] Come dice molto bene Pierre Manent, il liberalismo è in primo luogo la rinuncia a pensare la vita umana secondo il suo bene o secondo il suo fine. La libertà dei liberali, in effetti, è anzitutto libertà di possedere. Risiede non nell'essere ma nell'avere. L'uomo è detto libero nella misura in cui è proprietario, e in primo luogo proprietario di se stesso. [… ]L'idea che la proprietà di sé determini fondamentalmente la libertà sarà d'altronde ripresa da Marx". Per i liberali, quindi, ciò che conta è il "mercato" e la libertà consiste soprattutto nella libertà di possedere. De Benoist sviluppa in modo molto articolato queste tematiche che, di fatto, lasciano affiorare, rendendola tangibile, la grande illusione illuminista, già magistralmente descritta da 7 Nello Di Costanzo nella prefazione del mio romanzo "Prigioniero del sogno" : "Il fallimento della società post-illuminista, tuttavia, è sotto gli occhi di tutti ed è da ciechi non prenderne atto. La natura irrazionale dell'uomo non è stata plasmata dalla volontà razionalista affermatasi nel 18° secolo e lo scontro titanico tra la "natura" e "la volontà di dominio della natura" non ha ancora sancito la vittoria definitiva di quest'ultima, avendo solo generato quel mostro chiamato "ipocrisia" che, a livello planetario, regola la vita dell'umanità. Qual è la differenza, per esempio, tra la tirannide pre-illuminista, che l'illuminismo avrebbe dovuto sconfiggere, e la tirannide dell'occidente contemporaneo? Nessuna, salvo che la prima non aveva bisogno di alcuna copertura per essere legittimata, mentre la seconda necessita sempre di un alibi. E l'alibi, lo sappiamo tutti, in questi casi, è sempre figlio dell'ipocrisia". "Liberalismo di destra" e "destra liberale". Sono espressioni così consolidate nel linguaggio comune da essere percepite come "normali", sfuggendo ai più la matrice ossimorica. La confusione, come sempre, nasce dalla superficialità con la quale si utilizzano delle parole, misconoscendone il significato. A ciò va aggiunta, poi, la distorsione (a volte volontaria e a volte no) che proviene da chi attribuisce ai termini dei significati distonici rispetto a ciò che essi effettivamente rappresentano. In campo dottrinario si legge spesso la differenziazione tra liberalismo, concepito come "ideologia politica" e liberismo, "teoria economica". Soprattutto a sinistra si cerca di distinguere bene i due termini, in modo che si possa tributare al liberalismo un'accezione positiva (politica sociale che salvaguardia e mette alla base delle proprie ragioni le libertà individuali), scaricando sul liberismo, in quanto "teoria economica", la responsabilità di essere all'origine del capitalismo, il mostro che si nutre di "libertà assoluta" e produce più ricchezza in assenza o con scarse regole e interferenze da parte dello stato, rendendo i ricchi più ricchi e i poveri più poveri. La distinzione è mera accademia perché non vi è alcuna differenza sostanziale tra liberalismo e


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liberismo: il sistema politico incarna alla perfezione la teoria politica e viceversa. I due termini sono complementari e obbligati a coesistere. Confondere la destra, quindi, con teorie economiche e sistemi politici che esaltano il mercato, concepiscono la ricchezza un primario valore assoluto e "pragmaticamente" sono orientati a tutelare gli interessi individuali a discapito di quelli della società, concepita non come entità fine a se stessa ma come somma di tutti gli individui che la compongono, è un madornale errore possibile solo in presenza di una grande confusione mentale o di una palese fagocitazione della realtà, per scopi subdoli. Oggi, soprattutto in Italia, è invalsa l'abitudine di parlare di "destra liberale". Ignoranza a parte, qualcuno pensa che in tal modo si allarghi il bacino elettorale di riferimento, che dovrebbe comprendere dei soggetti che incarnino principi in netta contraddizione tra loro. La mancanza di una vera destra, moderna, sociale ed europea, favorisce questo scellerato bluff semantico, che non può produrre nulla di buono perché tiene lontane le persone migliori, che non accettano di lasciarsi etichettare in modo così palesemente fagocitante. Ovviamente ciò può solo far piacere a certi politici adusi a circondarsi di pupazzi servizievoli, ma alla lunga è un gioco che non regge: gli uomini senza qualità, in genere, si perdono alla prima burrasca. Va anche detto, però, che molti furbacchioni mettono in conto questo rischio e depredano a più non posso tutto ciò che sia possibile depredare, fin quando ne hanno la possibilità. I problemi seri, come sempre, riguardano coloro che annaspano nelle paludi, alla disperata ricerca di approdi sicuri, che non esistono nei pressi delle paludi. Dovrebbero imparare prima, pertanto, a non precipitarvi dentro. COME USCIRE DAL TUNNEL DEL LIBERALISMO Ho scritto in precedenza che è inutile farsi illusioni. La strada è lunga e impervia e proprio non si vedono possibili alternative a medio termine: mancano gli uomini in grado di effettuare una vera "rivoluzione culturale" capace di ribaltare concetti e presupposti cancerosi, fortemente radicati nella società. Ogni ciclo, tuttavia, è destinato a esaurirsi, prima o poi, e ciò è stato asserito anche da De Benoist, al quale, in occasione del convegno tenutosi a Pietrasanta il 20 ottobre scorso8, chiesi quando finalmente potremo vedere l'umanità abbandonare irreversibilmente i falsi miti. Alla mia domanda fece seguito quella di un altro partecipante al convegno, di analogo sentore. Mi fa piacere chiudere l'articolo con le sue parole, che come sempre vanno scolpite sulla pietra: "Non si può rispondere a questa domanda. Non sono un profeta, ma credo che la storia sia aperta. La storia è sempre aperta. Il liberalismo è stato la grande ideologia della modernità. Oggi la modernità è al suo culmine e il liberalismo è in crisi. Si tratta del liberalismo economico che chiamate liberismo o del liberalismo politico. Le democrazie liberali sono in crisi. Il sistema capitalista è in crisi. Dunque, sì, credo che verrà la fine della dominazione liberale". Rispondendo alla seconda domanda, poi, aggiunse: "Niente è irreversibile, niente è ineluttabile. E' possibile rapportarsi alla realtà con presupposti di ottimismo o di pessimismo, ma io resto fedele alla massima di Gramsci: "Pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà".

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Vi è, tuttavia, un altro autore, francese, George Bernanos, che diceva: "Gli ottimisti sono degli imbecilli felici; i pessimisti sono degli imbecilli tristi". Tutti a ridere, in uno scrosciare di prolungati applausi, mentre correvamo ad abbracciarlo e a farci autografare i libri, con gli occhi lucidi e la consapevolezza, fonte di gioia elettrizzante, di essere un manipolo di rari nantes in gurgite vasto al cospetto del più grande pensatore vivente e quindi del migliore tra gli uomini che popolano il Pianeta, volendo collocare al primo posto, sulla scala delle capacità, quella di comprendere e spiegare la natura umana e le fenomenologie sociali. Una signora anziana, facendosi largo imperiosamente nella calca rumoreggiante, mi chiese se realmente avesse concluso la replica con la frase: "Credo che verrà la fine della dominazione liberale". "Si, signora - confermai sorridendole - ha detto proprio così". La donna mi prese le mani e socchiuse leggermente gli occhi, volando con la mente chissà dove, e poi, con una tenerezza che toccò le corde più profonde del mio spirito, sempre stringendomi le mani, soggiunse con voce flebile: "Quello sì, sarà un bel giorno". Lino Lavorgna

NOTE 1) Jason Hickel: "The divide. Guida per risolvere la disuguaglianza globale". Editore "Il Saggiatore", 2018. 2) Questi fatti ne riportano alla mente altri, verificatisi in epoca recente, non meno gravi, che vedono sempre dei signor nessuno come protagonisti. Nel 1981, in Francia, con l'arrivo della sinistra al governo, il deficit iniziò a crescere a dismisura. Giscard d'Estaing aveva posto un limite a trenta miliardi, ma il nuovo ministro del Bilancio, il socialista Laurent Fabius, lo portò a cinquantacinque miliardi. Le stime degli esperti, però, proiettarono un esborso per l'anno successivo verso la mostruosa cifra di 100 miliardi. (I francesi, ovviamente, si erano tirati da soli la zappa sui piedi portando la sinistra al governo, ma la storia che favorì la loro ascesa è complessa e non è questo l'articolo in cui parlarne). Erano anni difficili a causa dello shock petrolifero del 1979 e nell'autunno del 1981 si rese necessaria una svalutazione monetaria, cui ne seguì un'altra nell'estate del 1982. L'inflazione volava al 14%. Occorreva reperire in fretta una formula che mettesse tutti d'accordo e che fosse spendibile nella comunicazione politica per i cittadini. Il 9 giugno 1981, pertanto, fu chiesto a due "funzionari" del ministero del Bilancio, Guy Abeille e Roland de Villepin, (cugino di Dominique, poi primo ministro dal 2005 al 2007, ndr) di stabilire con la massima urgenza una regola semplice e utilitaristica. Guy Abeille aveva solo trenta anni, una normalissima laurea in economia e nessuna esperienza specifica; lo stesso valeva per il suo collega. Nondimeno i due ebbero chiara la percezione che non era possibile ottemperare all'ordine ricevuto: nessuna teoria economica consentiva di soddisfare le contraddittorie disposizioni connesse a conciliare l'inconciliabile. "Ubi maior - però - minor cessat" e pertanto i due si misero al lavoro con il solo intento di "obbedire". Esaminate le voci di bilancio, le spese, le entrate e il debito arrivarono a una conclusione: in macroeconomia tutto comincia e finisce con il Pil. Ecco quindi l'idea (farlocca, come sarà dimostrato ampiamente da tanti economisti nei decenni successivi, ndr) di rapportare il deficit al Pil. Resta da capire, però, come mai fu stabilito proprio il 3% e non il 4, il 5, il 6. La spiegazione fornita lascia esterrefatti: "Quell'anno il Pil era di 3.300 miliardi e la spesa si avvicinava a 100. Il rapporto non era quindi lontano dal 3%. Ecco il perché della formula. Poi tra l'altro cadeva casualmente sul "numero 3" che è noto al pubblico per vari motivi ed ha un'accezione positiva, si pensi alle Tre Grazie, ai tre giorni della resurrezione, le tre età di Auguste Comte, i tre colori primari, la lista è infinita". Un numero magico, quindi, facilmente spendibile anche nel marketing politico come Fabius, e lo stesso Mitterand l'anno dopo, fecero. Lo stesso Abeille ha sempre dichiarato di essere consapevole che legare il deficit al Pil era un po' come dividere i cavoli con le carote e il rapporto al massimo può fungere come indicatore, ma in nessun


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caso può essere una bussola perché non misura nulla. Ciò che conta realmente, infatti, è ottenere un valore che calcoli la solvibilità di un Paese, la capacità di rimborso del debito da un'analisi ragionata, lavoro che non era certo alla portata di due modesti funzionari, ai quali per giunta era stato anche chiesto di "fare in fretta". Che nessun ragionamento economico fosse alla base del 3% lo disse chiaramente anche Alexandre Lamfalussy, uno dei maggiori artefici della preparazione e della realizzazione dell'euro e poi presidente dell'Istituto monetario europeo, l'ente precursore della Banca centrale europea: "I governatori sono persone troppo oneste e sanno che i criteri sono sempre arbitrari. Non avrei mai accettato numeri come questo, ma sono contento che i politici lo abbiano fatto". Roba da prenderlo a schiaffi, ma tant'è. In buona sostanza, nel Trattato di Maastricht, varato nel 1992, un provvedimento partorito in Francia undici anni prima, per le ragioni e nelle condizioni succitate, considerato una boiata pazzesca, fu adottato per imporre rigidi parametri all'intera Unione Europea, senza tenere conto dei cicli economici, con quali disastrosi risultati è a tutti ben noto. Sembra l'ennesimo racconto di fantapolitica, ma purtroppo è l'ennesima "verità" misconosciuta ai più. 3) Dei "limiti dello sviluppo" abbiamo parlato diffusamente nel numero 72 di "CONFINI" (marzo 2019.) 4) In questo contesto è sufficiente solo un breve cenno, relativamente ai fatti di casa nostra, su quanto siano state deleterie per il Paese le azioni perpetrate dai liberali risorgimentali della destra storica, mutuatosi a partire dal 1882 nel Partito Liberale Costituzionale, e dai loro successori che diedero vita al Partito Liberale Italiano, protagonisti, all'epoca del pentapartito, della spoliazione continua delle casse dello Stato in concorso con i loro alleati. Su tutti basti ricordare Francesco de Lorenzo e un alto dirigente ministeriale, a lui legato: Duilio Poggiolini. Il primo, più volte ministro, fu arrestato e condannato per associazione a delinquere finalizzata al finanziamento illecito ai partiti e corruzione in relazione a tangenti per un valore complessivo di circa nove miliardi di lire, in gran parte ottenute da industriali farmaceutici dal 1989 al 1992, durante il suo ministero. (Questo è solo ciò che è stato possibile accertare, ma ovviamente vi è molto di più). Il secondo, massone iscritto alla famigerata P2, favorì le aziende farmaceutiche, a danno dei cittadini, lucrando oltre quindici miliardi di tangenti. Nella sua casa di Napoli, inoltre, furono rinvenuti diversi miliardi di lire in lingotti d'oro, gioielli, dipinti, monete antiche e moderne (fra cui rubli d'oro dello zar Nicola II e krugerrand sudafricani). Non di minore rilievo - come ben noto - furono le ruberie e i disastri perpetrati dai paladini della liberal-democrazia sparpagliati negli altri partiti di potere. 5) Vanno comunque letti, dopo aver assimilato gli utili anticorpi, proprio per comprenderne le profonde distonie. Gli autori classici non possono essere imputati di "malafede", contrariamente ai loro epigoni contemporanei. Qui evito una lunga lista e mi limito a citare solo due saggi: "La libertà è più importante dell'uguaglianza", Karl Popper, Armando Editore; "Liberalismo", Friedrich A. Von Hayek, Editore Rubbettino. Da prendere con le molle, invece, i saggi sulla storia del liberalismo, perché è in essi che si confondono le acque in modo spaventoso. Fa eccezione, e lo suggerisco, il saggio di Massimo Baldini, "Il liberalismo, Dio e il mercato", nel quale viene analizzato, senza distorsioni, sia pure in chiave di condivisione, il pensiero di Rosmini, Bastiat, Tocqueville, Sturzo, Mises, Hayek, Röpke, Popper. Discorso a parte - e non certo possibile in questo contesto - meriterebbe Benedetto Croce, la cui teoria ha suscitato le prime perplessità proprio nei sostenitori del liberalismo classico, che mal digerivano la propensione verso l'impegno civile (che Croce considerava addirittura "ragione superiore") e la responsabilità dell'individuo per le proprie azioni. 6) Alain de Benoist: "Critica del liberalismo - La società non è un mercato". Arianna Editore, 2019. 7) Lino Lavorgna, "Prigioniero del sogno", Albatros Editore, 2015. Nello di Costanzo è un affermato giornalista professionista e lavora presso la sede RAI di Napoli. 8) Link alla conferenza di Alain de Benoist nell'ambito della terza edizione di "LIBROPOLIS": https://vimeo.com/369101513.

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MA SI’! BUTTIAMOLI AL MACERO Avresti mai potuto pensare che, un giorno, la 'libertà' arrivasse a fotterti? No, non avresti potuto. Perché, mentre crescevi, ti hanno riempito la testa con le gesta di grandi uomini compiute in suo nome contro disumani tiranni e con le idee nobili che i più grandi pensatori della storia dell'umanità hanno scritto in proposito. E tu eri lì a cercare di trovare, tra le tante definizioni, tra i tanti concetti espressi, quelli più attinenti al tuo sentire. Quelli che sentivi più giusti, più pregnanti di quella passione che aveva mosso gli animi fino ad immolarsi, che aveva guidato mani d'artisti e aveva riempito i sogni degli esuli e dei perseguitati. Li cercavi per appropriartene, per conservarli gelosamente nel tuo cuore, per inalberarli nella tua mente, perché guidassero i passi della tua vita futura e li caratterizzassero. E così, ti gettavi in un'affannata analisi a ritroso di quel tempo che ci racconta la storia del pensiero dell'uomo. Affrontavi Aristotele e ti perdevi nel suo concetto di libertà, ritornando in te con una ridda di riflessioni che non lenivano la sete perché quel filosofo, non corrotto dal 'sapere moderno', affrontava l'argomento con la sola parola greca a disposizione, eleutheria, che designa non tanto la libertà 'psicologica' quanto la condizione giuridica dell'uomo libero, in contrapposizione allo schiavo. Egli dice che un'azione è libera quando 'dipende dall'uomo stesso' e, peraltro, la ricollocava in riferimento al concetto di bene e di male nell'individuo, preso tuttavia nel suo complesso. In sostanza, ne faceva un fatto di etica che non poteva soddisfare l'insieme delle variegate forme di compromissione della libertà stessa, anche se ne completava l'espressione con l'intervento di un fattore terzo: quello della 'giustizia'. Non può bastare, affermavi. E se la morale venisse conformata dalla politica? O, se la giustizia fosse disattenta, senza considerare che essa opera in conformità della legge? E se la legge, nel tempo, modificasse la comune etica? Socrate non era forse stato condannato a morte per le sue idee? Il cerchio delle perplessità era chiuso ma non potevi oggettivamente concepire che il legislatore, somma espressione della pubblica volontà, potesse disattendere il suo nobile compito. E, del resto, ancora non conoscevi quell'espressione, attribuita al Giulio nazionale, secondo la quale la legge si applica per i nemici e si interpreta per gli amici. Così, continuavi nella ricerca delle risposte alle tante domande che ti affollavano la mente. Una specie di folgorazione l'avesti quando t'imbattesti in Cicerone e nel suo De re publica: "[…] La libertà (...) non consiste nell'avere un buon padrone, ma nel non averne affatto. […].". Il pensiero ti vorticava nella testa e, immediatamente, l'immaginazione ti portava a confrontare il concetto di comunismo con l'affermazione del grande avvocato romano.


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Ma, poco dopo, allontanavi l'idea nel ricordare che, in quel contesto, l'assenza di padroni era stata sostituita da uno Stato totalitario che, di fatto, negava la libera espressione e il libero agire. Ma come fanno, ti chiedevi, i comunisti nostrani (allora esistenti) che inneggiano tanto alla libertà a non capire che essa è denegata da una presunta volontà popolare, che peraltro non nasconde il disagio dell'assenza della stessa libertà, in nome di un supposto interesse superiore che è lungi dall'arrivare? Ma se sul piano del materialismo storico andavi poco lontano e così pure con il larvato pensiero che ti era venuto a proposito dell'anarchia, allora perché, ti chiedevi, non provare con la parte spirituale? Ma neppure Sant'Agostino riusciva a soddisfarti ravvisando nella libertà l'esercizio di volontà, ovviamente indirizzata a non peccare. Quindi, una libertà che per essere tale doveva beneficiare della Grazia perché il non peccare, secondo il santo, è un dono divino. Quei concetti ti incupivano: e se uno non credeva? Non aveva diritto di essere libero? Né, tantomeno, ti soddisfacevano le diatribe sorte in tal senso tra Erasmo da Rotterdam e Martin Lutero: il primo, attraverso il De libero arbitrio, respingeva la dottrina del peccato totale e riteneva che nell'uomo sussista una parte di libertà incondizionata mentre il secondo, attraverso il De servo arbitrio, pur non negando che l'uomo peccatore sia capace di scelte e di decisioni intelligenti, si interrogava se ciò non violasse la sovranità assoluta di Dio. E dalli, ti dicevi con disappunto. È mai possibile concepire una libertà al di là della connessione con il divino, che si fermi e persista nel solo uomo? Oh!! Ma, quando arrivasti ad Hobbes e al suo Leviatano ti venne quasi da tirare un sospiro di sollievo che però subito fosti costretta a reprimere: è vero, prescindeva da Dio ma non è che il nostro filosofo avesse una gran fiducia nell'uomo né che gli riconoscesse una gran morale: per lui, il giusto e l'ingiusto sono delle convenzioni, per cui le valutazioni morali sono soggettive, cioè relative all'individuo e alla situazione in cui si trova. E, dunque, il 'bene' è ciò che si desidera e 'male' ciò che si odia. Alla faccia. Beh! Comunque, alla fine il ragionamento si riscattava, anche se in maniera un po' contorta. Premessa la bramosia naturale che spinge ogni uomo a godere da solo dei beni comuni al punto da farlo 'lupo' nei confronti degli altri uomini, così da costituire uno stato di guerra incessante di tutti contro tutti, l'unico 'calmante' di questa furia è, secondo Hobbes, la paura altrettanto naturale della morte violenta; quindi, l'uomo è razionale. Ed è proprio la razionalità a salvarlo dandosi, ai fini della sopravvivenza, tre regole fondamentali: deve ricercare e conseguire la pace, deve rinunciare al suo diritto su tutto e accontentarsi di avere tanta libertà quanta ne riconosce agli altri. Ed è proprio questa seconda regola che gli permette l'uscita dallo stato di natura implicando che gli uomini stringano dei patti fra loro. La terza regola, infatti, è: il rispetto dei patti. Però …, ti ritrovavi a pensare, non male come quadretto. Ma chi costringe l'uomo a rispettare i patti, soprattutto se, a fronte della pace che ha 'preteso', è divenuto più forte dei suoi simili? Neppure Spinoza rispondeva a tali interrogativi col suo Dio identificato nella Natura dove le pulsioni naturali, appunto, sono tipiche dell'uomo il quale è assolutamente libero intanto perché, come afferma nella sua Etica, possiede la potenza dell'intelletto; pensa e può insegnare.

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E, inoltre, è totalmente libero se si pone come soggetto attivo nei confronti della propria tendenza all'autoconservazione. Va be' … ci risiamo. Che stia scantonando in Hobbes? Beh! Per certi versi … ma alla fine è costretto a concepire lo Stato come regolatore della convivenza anche se limita la libertà dell'individuo, senza comunque compromettere il suo potere di pensare e, poffarbacco, di giudicare. In ogni caso, è proprio la ragione ad indurre l'uomo a concepire lo Stato e a limitare la sua libertà per gli innegabili vantaggi che comporta. Però, rassicurati ti diceva Spinoza, vi è comunque un limite all'azione dello Stato: anche esso è sottomesso alle leggi, nel senso che è obbligato a non distruggere sé stesso. Poiché il fine dello Stato è la pace e la sicurezza della vita, la legge fondamentale che ne limita l'azione deriva da quella sua intrinseca finalità, senza la quale viene meno allo scopo per cui è sorto. D'accordo, ma questo lo Stato lo sa? Ti chiedevi tra il preoccupato e l'umoristico pensando al calabrone che, per le leggi dell'aerodinamica, si dice non possa volare. Ma lui se ne frega. E se ciò accadesse anche per lo Stato? Chissà se Locke può dire qualcosa di più stringente, ti chiedevi con affanno. E giù a sfogliare pagine. E se le conclusioni di Spinoza ti avevano indotto un accenno di umorismo, Locke, nell'avvio dei suoi Due Trattati sul governo, ti suscitava buonumore, specie nella sua diatriba con Filmer e il suo Patriarca dove quest'ultimo asseriva che, al pari di Adamo, il potere dei re deriva da Dio. Oh! Bella! Sembra premettere Locke nel precisare che delle due l'una: o il potere l'abbiamo tutti perché siamo tutti figli di Adamo oppure è di uno soltanto, in quanto uno solo è l'erede primogenito; se poi ogni governo è ritenuto legittimo perché è paterno o patriarcale, allora anche un eventuale usurpatore sarebbe giustificato. Ma tu senti che logica, pensavi con un mesto sorriso sulle labbra. Ma, allora, lo Stato serve o no? Premesso che siamo tutti liberi e uguali, serve per somministrare la giustizia, ti rispondeva Locke, così da evitare quella fai da te, in caso che qualcuno si senta più libero e più uguale di altri. Hai capito il furbetto? affermavi sogghignando. Ma qualcosa gli è sfuggito: e se fosse proprio lo Stato a sentirsi più libero e uguale? E se mandasse a ramengo proprio la giustizia che deve amministrare? Ma no. Che vai a pensare, lo Stato siamo noi e come potremmo rinnegare noi stessi? E però, ecco Hume col suo Trattato sulla natura umana a farti ripiombare in una vischiosa nebulosità quando leggevi che la libertà è sempre condizionata da una rete complessa di fattori empiricamente determinabili, non certamente mossi dalla ragione. E se per caso ti fosse venuto in mente di ravvisare della razionalità nei comportamenti dell'uomo, ebbene disilluditi, sembra dire Hume: essa è misurabile solo in rapporto all'utilità dei loro effetti, alla loro efficacia rispetto a certi scopi, il principale dei quali è il piacere. Sì, hai letto bene, il piacere. L'uomo agisce spinto dall'egoismo, dal risentimento per le offese, dalla passione sessuale. Di fronte ad esse c'è solo la simpatia (ma tu senti) che ci fa percepire il piacere o, più astrattamente, il bene altrui come parti integranti e indissolubili del nostro stesso piacere. È la simpatia che ci fa uscire dal nostro egoismo. Chi l'avrebbe detto?


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Stavi quasi per 'mandarlo' perché se uno è misantropo che si fa? O, se quel qualcuno, al di là della misantropia, se ne sbatte del piacere altrui? Ed ecco la 'giustizia', nata per la sua utilità nella società: quell'utilità sociale che dovrebbe rappresentare il fondamento della massima virtù politica, l'obbedienza. Ohi Maronna! L'obbedienza. Già, perché l'uomo non può rimanere indifferente al benessere dei suoi simili, alla promozione della loro felicità, per raggiungere la quale Hume arriva persino a consigliare alla morale di togliersi 'l'abito del lutto' con cui l'hanno rivestita. Ma senti tu che andavano a pensare una volta. Per fortuna, a riequilibrare un po' le cose arrivava Rousseau e il suo Contratto sociale dove l'arduo problema posto era mediare tra due realtà assolutamente certe e oggettive: da un lato l'uomo che è e deve restare libero; dall'altro la società che implica un ordine e quindi delle rinunce. Così, un tantino sulla scia di Hobbes, Rousseau ritiene che sia possibile trovare una soluzione in una alienazione totale, di ciascun associato, con tutti i suoi diritti, alla comunità. Ancora?!? Però, dal momento che l'uomo è persona e la società è un corpo vivente, la salute della società dipende dall'essere dei singoli cittadini. Quindi, occorre un'integrazione cooperante tra uomini e società. Così i cittadini, pur alienando i loro diritti alla comunità, che ne ricava il massimo di autorità, restano liberi nel loro essere uguali, tutelati dalla legge, partecipano attivamente alla vita comunitaria e gestiscono il potere politico. Beh! Beh! È così semplice? Certo che no. La libertà dev'essere ben guidata e, quindi, l'ottimo è un itinerario educativo graduale. Sì, va be'. Mica lo sapeva, però, che sarebbe arrivata la Rivoluzione francese a provare a dargli ragione per poi, col Termidoro, essere costretta a dargli torto. Stavi per saltare Kierkegaard con le sue definizioni di vita estetica, etica e religiosa per ovviare alla noia quando ti imbattevi, proprio a proposito della vita religiosa, in un ragionamento che t'impattava come un treno. Perché su Aut Aut parte proprio bene: L'esistenza è il regno della libertà: l'uomo è ciò che sceglie di essere, è quello che diventa. E poi, e poi … Esaminato lo scandalo all'interno della vita religiosa, egli, su Timore, tremore, afferma che se l'esistenza è libertà, vuol dire che noi abbiamo sempre la possibilità di scegliere qualsiasi alternativa. E che l'angoscia è la coscienza della nostra terribile libertà: tutto ci è possibile, quindi possiamo anche perderci, andare incontro al disvalore, al nulla. L'angoscia è il puro sentimento del possibile. Caratterizza la condizione umana. Ma l'importante è capire che essa forma: infatti, distrugge tutte le nostre presunte certezze, scoprendo le loro illusioni. Certo, da un lato è vero, ritenevi, ma lui la fa troppo semplice. E quando la tua scelta non c'è, ti chiedevi, e tu ti senti ugualmente angosciata a causa di scelte altrui? Ma non sapevi risponderti e non ti sentivi neppure 'formata'. Kant, poi, ti faceva impazzire con le sue quattro antinomie tra tesi e antitesi nella Critica della ragion pratica. E, particolarmente, era la terza che ti sbatteva in paranoia: nella tesi vi è la causalità naturale e la libertà mentre l'antitesi nega che vi sia anche la libertà ma tutto è determinato. Alla faccia …. E come la risolviamo? Non la risolviamo, scoprivi, perché queste antinomie rimangono insolubili: quando la ragione

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pretende di oltrepassare i limiti dell'esperienza non può che oscillare da un opposto all'altro senza avere mai la possibilità di decidere definitivamente. Va be'. Come non detto. Ma così la libertà può andare a farsi friggere, legata alla sola morale personale. E … certo. Sono cose che capitano. E tiravi avanti, depressa. E Hegel non ti aiuta. Nella sua Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio e, particolarmente nella Filosofia dello Spirito, egli ti diceva che la libertà è la più alta manifestazione dello spirito soggettivo che, però, deve entrare in relazione con gli altri e quindi a diventare spirito oggettivo per realizzarsi in istituzioni sociali concrete come il diritto, la moralità e l'eticità. E, per realizzarsi, ti accorgevi che la via di Hegel ha un che di singolare: se la famiglia non è una semplice società naturale ma una istituzione, cioè una creazione dello spirito dotata di grande valore etico, la società civile ne è l'antitesi perché i rapporti sono conflittuali, essendo un 'sistema di bisogni': ed ecco lo Stato, "la sostanza etica consapevole di sé, la riunione del principio della famiglia e della società civile". E fin qui ci siamo. Ma poi comprendevi che per Hegel lo Stato non è né liberale né democratico: la sua sovranità deriva da sé stesso, perché ha in sé la propria ragione d'essere. Il che significa che lo Stato hegeliano non è fondato sugli individui bensì sull'idea di Stato, cioè sul concetto di un bene universale. È lo Stato che fonda gli individui. Comunque, pur essendo assolutamente sovrano, prendevi atto che lo Stato di Hegel non era concepito per essere dispotico o illegale perché deve operare con le leggi: è uno Stato di diritto, fondato sul rispetto delle stesse leggi e sulla salvaguardia della libertà e della proprietà. Ma allora, ti chiedevi un po' frastornata, quelle leggi che determinano l'agire di uno Stato non le fanno i cittadini? E se questi le facessero al di là del loro sentire ma solo nel 'supremo interesse', la politica che ragione avrebbe per continuare ad esistere? Comunque, pensavi, è inutile una critica a posteriori visto che ci ha già pensato Marx. Quindi, lasciamo perdere. E così, quasi stremata e confusa, approdavi a Schopenhauer che ti sdraiava. Nella sua opera 'Il mondo come volontà e rappresentazione' egli afferma che l'unico vero atto di libertà possibile all'uomo è in pratica la soppressione della volontà di vivere. Hai capito che roba? Ma, per fortuna, a farti incazzare e a risollevarti arrivava Nietzsche che, ne La gaia Scienza, prima afferma che Dio è morto, cioè che il mondo occidentale lo ha ucciso perdendo ogni punto di riferimento: nel senso che sono morti ideali e valori rendendo l'uomo 'sperduto nel gran mare dell'essere'. Poi, ti diceva che è l'uomo stesso che deve ricreare i valori. Però, prima deve smantellare la morale, come afferma in Al di là del bene e del male e, appunto, nella Genealogia della morale perché questa è un artifizio dei deboli per incartare i forti. Chi l'avrebbe mai detto. E solo dopo aver fatto questo l'uomo, dimenticando l'umanità e lo stesso uomo, diviene un Superuomo che è libero per antonomasia abbandonando ogni fede, ogni desiderio di certezza, per reggersi "sulle corde leggere di tutte le possibilità". E, però, è anche socievole, come da esempio di Zarathustra che balla. Beh! A quel tempo, avevi una profonda avversione per quel singolare filosofo perché non capivi l'essenza del suo pensiero, men che meno quello circa la libertà. Peraltro, lo giudicavi un insensibile. Dovevi arrivare alla maturità e poi alla vecchiaia per apprezzarne il pensiero, con particolare


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riguardo alla libertà, depurato da tutto quell'artificiale appiccicume col nazismo che dall'una e dall'altra parte hanno voluto strumentalmente appioppargli. Comunque, a riconciliarti con la normalità (???), sia pur con qualche difficoltà, giungeva Heidegger e il suo Essere e tempo dove l'esistenza non è solo apertura verso il mondo ma anche verso gli altri. Il rapporto tra l'uomo e gli altri Esserci (uomini) è un aver cura di loro. Ma si faccia attenzione, sembra dire Heidegger: se sottraiamo agli altri le loro cure si ha un rapporto inautentico di esistenza dove tutto è anonimo, livellato, convenzionale, mentre un rapporto autentico si ha nell'aiutarli ad esser liberi di assumersi le proprie cure. Quest'ultimo rapporto è il fondamento dell'esistenza. Ti accorgevi, però, che, per Heidegger, vi è anche la possibilità dell'esistenza autentica alla quale l'uomo è richiamato dalla voce della coscienza. Essa lo attira a riconoscere l'annullamento ultimo di tutte le sue possibilità, e cioè la morte, quale possibilità "più propria, incondizionata, certa e come tale indeterminata e insuperabile". Ad essa si accompagna l'angoscia. Essa fa vedere all'uomo l'insignificanza e la nullità dei fini che gli vengono proposti nella sua esistenza quotidiana, e poiché questa situazione è un coesistere con gli altri, fra le cose del mondo, l'esistenza autentica dà all'uomo la possibilità di rimanere fedele al destino della comunità cui appartiene. In altri termini, la libertà per l'uomo consiste nello scegliere e nell'accettare la sua situazione e nel rimanerle fedele. Stavi quasi per gioire perché avevi capito che i dissenzienti, ad esempio, per un rapporto autentico con sé stessi e con gli altri, possono autenticare il loro essere nella libertà di rimanere tali. OK. Ce l'avevi fatta. A staccarti la spina della soddisfazione, però, arrivava dulcis in fundo Sartre che, nel suo Essere e nulla, ti forniva la stura per un tuo bipolarismo incipiente: Il nulla è intrinsecamente legato all'essere, ma non è generato dall'essere, bensì dall'essere della coscienza che si perpetua a non essere l'in-sé. Ma, per potere fare ciò, per poter decidere continuamente di non essere l'in-sé, la coscienza deve vivere in una condizione particolare, deve cioè essere libera. Ma tu hai capito che roba? E quello era solo l'inizio. E in effetti, per Sartre, la coscienza è assolutamente libera. E, per libertà, intende proprio quella possibilità di nullificazione o rottura del mondo che è la struttura stessa dell'esistenza umana. L'uomo è "condannato ad essere libero" nel senso che è "condannato" perché non si è creato da sé, ma, una volta nato, è responsabile di tutto quello che fa. Dunque tutto ciò che accade all'uomo dipende dalla libertà e dalla responsabilità della scelta originaria. Ed è solo l'uomo, in un mondo dove le cose sono gratuite, prive di senso e di fondamento, a dare ad esse un valore e un senso. Per cui, secondo Sartre, "È la stessa cosa, in fondo, ubriacarsi in solitudine o condurre i popoli. L'uomo è una passione inutile". Qualcuno deve averlo preso sul serio. Scoprirai che sarà lo stesso Sartre a emendarsi nella sua Critica della ragione dialettica ma quel qualcuno potrebbe non averla letta. Tutto ciò posto, ti verrebbe quasi da chiederti per quale tipo di libertà siano state costruite tante statue in giro, siano state compiute tante eroiche gesta, sia stato versato tanto sangue. Quale libertà abbia suscitato tante animate passioni. Il fatto è che quell'ideale, comunque lo si sia

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voluto intendere, si sostanziava nell'affermazione della dignità umana, nella libertà di parlare, di scrivere, di muoversi, di associarsi, di agire e trovava il suo naturale epilogo in una democrazia fattuale dove la volontà popolare produceva effetto, sia pur espressa col senso della maggioranza, incarnata dalla politica operante in un sistema parlamentare. Perciò, lasciamo stare che io, per puro (mio) diletto abbia scherzato, pur avendo in mente Pulcinella, su due millenni di sofferto pensiero in merito alla libertà, ma resta la dimostrazione del fatto che nella storia dell'uomo la stessa libertà è stata interpretata e coniugata in vari modi; a mio avviso, alcuni giusti e altri sbagliati ma tutti comunque tesi a dare un senso dignitoso all'esistenza della persona e, dichiaratamente, ad operare per essa. Ci sono stati dei travisamenti, certo, ma la voce del popolo, sommessa o altisonante, li ha censurati. Inoltre, quando uno Stato, un governo, è divenuto illiberale, quando cioè ha impedito la libera espressione, la libera volontaria scelta e la libera volontaria azione della persona e dell'insieme di esse, oltre all'insopportazione locale, è stata la comunità internazionale a censuralo, in un atteggiamento pienamente condiviso. Una censura, peraltro, locale e internazionale, che si è attivata (è bene sottolinearlo) per rimuovere (a volte riuscendoci) ogni illiberalità da quel dato Stato: l'intento dichiarato per l'azione interna e/o internazionale, è stato quello rispettivamente di ripristinare o di esportare la democrazia, come in quest'ultimo caso soprattutto i presidenti americani dell'inizio e della fine dello scorso secolo hanno teso a dichiararci. Ma oggi tutto ciò appartiene ad un passato perché i crismi della libertà sono profondamente cambiati. Sono mutati, col beneplacito unanime, da quando la dignità della persona non è stata più la pietra di volta. Era il 1891 quando un Papa di Carpineto Romano, Leone XIII, nella sua monumentale enciclica la Questione Operaia, meglio nota come Rerum Novarum, affermava che il lavoro non può essere considerato una mercanzia perché eleva spiritualmente la persona ed assicura una vita dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia. E, per circa un secolo, non c'è stato Paese o governo, anche fortemente laico, che si sia permesso di alterare quel principio, riconoscendo alla cultura del lavoro un valore universale. Poi, improvvisamente, verso la fine del passato secolo, le librerie hanno esaurito quel testo e i derivanti principi hanno iniziato a consentire dei distinguo, sostenuti proprio dalla libertà: quella nella competizione tra aziende e, nell'insieme di queste, tra sistemi-Paese. Ai fini non più del progresso che inglobava bensì della crescita che distingueva. La libertà, quindi, di superare le rigidità contrattuali poste a garanzia dei diritti della persona-lavoratrice (insieme all'abbattimento degli automatismi nel mantenimento del potere d'acquisto della retribuzione) ha trovato un sempre maggiore orizzonte di applicazione. Per cui, la cosiddetta reformatio in pejus è divenuta una pratica che via via ha trovato un suo consolidamento sia in campo amministrativo che giuridico al punto da rappresentare oggi una normale prassi. Non solo. Il lavoro, da fattore di elevazione spirituale è stato declassato al rango di merce, coniando persino la specifica: mercato del lavoro. Ovviamente libero. Da comprare e vendere, disumanizzato, a seconda del profitto, come ci dice quello umoristicamente definito ad interim. Il top, poi, è stato raggiunto recentemente a Taranto: in nome del salvataggio di una siderurgia che,


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grazie al compiacente silenzio della politica, in molti anni ha arricchito pochi e fatto ammalare tanti compensandoli con un'elemosina, si è arrivati addirittura a proporre un 'scudo penale' perché la torma dei 'mendicanti' possa continuare a cercare di sopravvivere negli effetti delle malefatte del passato e il libero mercato del lavoro non abbia turbative. L'ulteriore certezza smantellata, in nome della libertà del mercato e della libera competizione, è quella che nessuna analisi sociologica del passato avrebbe mai potuto concepire: uno stato di povertà in presenza di un lavoro perché nemmeno la più bassa tra le retribuzioni avrebbe consentito l'ingresso in quella categoria. Oggi, una 'merce' non può aver pretese o accampare diritti. Si compra e si può svendere a seconda della legge della domanda e dell'offerta (e della fame del lavoratore). Ma l'opera 'liberatoria' dalle 'ingessature' del passato non poteva dirsi completa: occorreva disarticolare le società nei suoi gangli portanti: l'attaccamento alla terra natia, alla famiglia, alle tradizioni, alla solidarietà. Con l'apertura delle frontiere e della libera circolazione delle merci, dei flussi finanziari e delle persone, la libertà di trasferirsi, sotto lo slogan dell'opportunità, è divenuta per molti un'inevitabile, penalizzante, 'libera' scelta, con lo sradicamento non solo da luoghi e da contesti familiari ma anche da culture e tradizioni. Si è così configurata, in pieno paradosso, una situazione che, in un generale osanna della libertà, vede comunità di diversi la cui integrazione risulta a volte problematica perché non indotta da libere, volontarie scelte. E questo è il caso, comunque gravoso, di cittadini di Paesi sviluppati che si spostano in altri Paesi analogamente sviluppati che, sebbene diversi per storia, cultura e lingua, hanno tra loro tratti in comune. Il fenomeno, tuttavia, assume ben altre dimensioni quando flussi migratori provenienti da Paesi dichiaratamente in via di sviluppo si dirigono verso Paesi sviluppati. Qui non si tratta di essere pro o contro l'immigrazione o quei poveri disgraziati che si riversano sulle nostre spiagge o su quelle di altri Paesi rivieraschi del Mediterraneo, costretti a tanto da gravosissime condizioni civili e sociali dei loro Paesi d'origine e attratti (sarebbe da ridere se non fosse da piangere) dalla libertà e dal benessere dei loro dirimpettai. Si tratta, invece, di mettere in campo politiche di accoglienza perché l'emarginazione non alligni: una pacifica convivenza solidaristica tra diversi, nel solo rispetto delle identità culturali e giuridiche dei Paesi d'approdo. Non la perdita di identità degli ospiti e degli ospitanti, come vorrebbero ottusi progressisti di maniera, in nome di una libertà curiosamente interpretata. Altrimenti, l'unica realizzazione possibile è una convivenza di diversi, fermamente e fortemente radicati nelle loro esasperate identità, che si fronteggiano e a volte si scontrano proprio in nome della libertà stessa e della caccia alle opportunità. È il caso americano. La tedofora coronata signora che s'innalza davanti al porto di New York, in nome della libertà ha accolto fiumi migratori, sia pur per collocarli temporaneamente nella quarantena di Ellis Island. Ma ci stava: non c'era certezza delle condizioni igienico-sanitarie degli arrivati, sia pur provenienti in massima parte dalla civile Europa. E ci stava pure che, per lungo tempo, quei migranti siano stati contraddistinti dall'etichetta 'White Caucasian', soprattutto per gli irlandesi, e 'Caucasian', soprattutto per gli italiani.

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A questi è stata additata la frontiera ed è stato consigliato loro di reperire un cavallo. Che, poi, siano finiti in buona parte a lavar piatti o a rinfoltire le schiere della malavita organizzata, questo è un altro discorso. Ma la Patria della Libertà è stata (ed è) meta anche di ondate migratorie cosiddette illegali, in massima parte provenienti dall'America Latina e dall'Asia. Del resto, senza i provenienti da quest'ultimo continente, la First Transcontinental Railroad sarebbe rimasta un sogno di Abraham Lincoln e di Ulisse Grant. Ciò a dimostrazione che anche la definizione di 'illegale' può essere 'liberamente' interpretata, ovviamente sul piano della 'libertà' di intraprendere. Ma sorvoliamo anche su questo. Tralasciamo anche il fatto che solo negli anni '60 dello scorso secolo è stata riconosciuta parità di diritti agli afro-americani e, quindi, la libera possibilità di avere un cavallo. La frontiera sapevano già dove fosse. E, già che ci siamo, ignoriamo pure la situazione che, soprattutto negli Stati del Sud, ancor oggi, vede albergare il sentimento di una forte identità 'bianca' che, di fatto, rende un po' meno liberi gli 'altri'. L'aspetto curioso, invece, è che i 'diversi' si siano riuniti in comunità le quali, ovviamente, ognuna per i propri appartenenti, nella patria delle libertà e delle opportunità reclamano pari libertà e, quindi, pari opportunità. Il lato ancor più umoristico è che la politica è alla caccia di tali paradossali istanze, nemmeno pensando di intraprendere una battaglia culturale per eliminare tali discrasie. E così facendo non solo radica le comunità nella diversità ma spaccia per 'vittoria' ogni 'concessione' da ripagare con voti. Chissà se i politici nostrani, sempre pronti ad importare libere politiche d'oltreatlantico che nel Paese d'origine hanno creato profondissimi iati sociali, solitudini, angosce e rabbie incontenibili, non adottino anche qui da noi un tale escamotage. Sarebbe un'opportunità visto che oggi il numero di quelle che ne caratterizzano l'esistenza si sta esaurendo. Per fortuna, a far da collante negli USA c'è un acceso nazionalismo che coinvolge ogni categoria e ceto. Un nazionalismo che fa provare orgoglio d'appartenenza ai tramp che vivono sotto un ponte, agli emarginati che risiedono nelle roulotte e ai fortunati possessori di prestigiosi appartamenti in Fifth Avenue. Ai mandriani texani come ai coltivatori californiani e dell'Iowa, ai montanari del Colorado, ai fighetti newyorkesi e ai petrolieri e pescatori dell'Alaska. Diversamente dall'Unione europea, dove la determinazione a spegnere i nazionalismi è un must senza neppure provare a fornire un minimo motivo per compiacersi dell'indotta appartenenza. Non sono certo contro l'Unione Europea, come tante volte ho precisato. La vorrei, però, diversa. Non solo tesa a far mantenere i conti pubblici in ordine in barba a gaps sociali; non solo proiettata a contrastare l'inflazione quando il rischio è la disoccupazione e la stagnazione; non solo operativa nel difendere l'euro ma attiva anche nelle politiche estere, economiche, sociali, di sicurezza e di difesa. Non voglio, anche qui, dilungarmi perché innumerevoli volte Confini ha ospitato scritti miei e dei colleghi in proposito. Ciò che invece voglio ulteriormente sottolineare è l'attuale inconsistenza del titolo caratterizzante proprio il corpo e l'azione dell'Unione: uno 'spazio di libertà, di giustizia e di sicurezza'.


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L'unica libertà che l'Unione, finora, ha consentito è quella di 'girare' tra i Paesi membri senza passaporto (quando qualcuno non decide autonomamente di sospendere Schengen) e di spostare a piacere al suo interno i propri soldi. Ogni 'concessione' di ulteriore libertà è demandata al Paese di appartenenza, rafforzando così il paradosso della 'casa comune'. Mi viene una battuta umoristica: ma che razza di casa sarebbe dove ogni appartenente può fare il proprio comodo, senza regole comuni, con l'unico obbligo di gestire i propri soldi al fine di essere in grado di pagare a fine mese la quota sociale? Potrei annotare commenti anche a proposito della giustizia e della sicurezza ma è ancora la 'libertà' a sollecitarmi per altro verso perché l'azione dell'Unione si dimostra, di contro, altamente 'illiberale'. E non è tanto perché ha ormai monopolizzato il lavoro dei Parlamenti nazionali nella traduzione nei rispettivi ordinamenti delle direttive e regolamenti comunitari quanto perché, proprio in nome di quella libertà che viene negata, lascia ipocritamente all'interpretazione dello Stato membro le loro applicazioni. È il caso degli OGM, ad esempio. I regolamenti comunitari, dopo decenni di pressioni americane, hanno consentito l'ingresso nel cosiddetto 'mercato interno' di prodotti geneticamente modificati. Non solo. Hanno consentito che si realizzassero colture con sementi geneticamente modificate. L'aspetto illiberale non è tanto l'obbligo di per sé ad accogliere tali prodotti negli scaffali dei nostri supermercati quanto quello di non riuscire, con certezza, ad esimersi dal consumarli. La carne e gli agrumi, per le loro caratteristiche biologiche, non consentono di accertare la presenza o meno di OGM. I controlli su granaglie d'importazione sono lasciati agli Stati membri che li effettuano su campioni forniti daligiene commerciante. E la determinazione della distanza di sicurezza audacia temeraria spirituale al fine di evitare contaminazioni (aria, uccelli, api, ecc.) tra un terreno con colture OGM e un altro, è lasciata alla decisione nazionale. Ora, atteso che sono state riscontrate contaminazioni anche a distanza di oltre 100 Km dal luogo di impianto, quale garanzia potrà mai offrire la dicitura sui prodotti 'OGM free', consentita, liberamente s'intende, dall'Unione? Ma quello di cui sopra è, come detto, un esempio, parziale se vogliamo, della schizofrenica situazione che ristagna entro i confini comunitari: la politica (ammesso che ne abbia capacità) è esautorata dal suo compito principale. Gli unici spazi di manovra consentiti sono sui margini, come ci dimostra l'esempio, e sulla tassazione. E, a proposito di quest'ultima, mi consento una piccola notazione: che sistema fiscale è quello che consente ad un sempre minore gruppo di persone di possedere la maggior parte della ricchezza nazionale, come ci dimostrano i rapporti Oxfam? E, di rimando, questo non dimostra la totale inesistenza di validi strumenti di ripartizione del reddito prodotto? E, tutto ciò nel più assoluto non cale dei reggitori delle impalcature nazionali e dell'Unione nonché del loro unico nume di riferimento: il Mercato. Mi chiedo, a mo' di parentesi: chissà perché tra le popolazioni, oggi libere, appartenenti all'ex blocco sovietico, a cominciare da metà Germania, provano una larvata nostalgia del passato regime e rifiutano il liberismo? Comunque, sviluppando l'equazione, possiamo dire che quando un cittadino elegge, nella libertà che gli appartiene, un proprio rappresentante questo, nonostante l'esistenza di eventuali

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positivi intenti, è subordinato al volere di un gruppo di burocrati semplicemente designati dagli Stati i quali operano, sotto l'altisonante egida della coesione, ignorando completamente ogni riverberazione sociale della loro opera; e ciò in quanto i trattati non prevedono tale accortezza. Non voglio fare demagogia a tutti i costi ma un tale sistema di libertà non è un tantino oppressivo? Tutto questo ci porta ad un'altra domanda che, a mio parere, è fondamentale: quale futuro può avere una società, privata di valori e ideali, precaria nel suo lavoro, incerta sul proprio domani, disarticolata nei suoi gangli portanti a cominciare dalla famiglia? A questo interrogativo, però, non voglio neppure provare a rispondere perché, nell'articolare riflessioni che potrebbero toccare l'essenza delle istituzioni repubblicane, potrei essere tacciata di antidemocraticità. Certo, di antidemocraticità, visto che la stessa 'democrazia', insieme alla 'libertà' ha incontrato una sua rivisitazione al punto da essere impunemente definita 'democrazia illiberale'. Un paradosso, se vogliamo, o, meglio, un ossimoro che però sembra incontrare una sorta di benevola accoglienza. Mi spiego. Non c'è testata giornalistica o quotato saggio che nel parlare di 'democrazia illiberale', dopo aver citato l'intervista rilasciata da Putin al Financial Times lo scorso giugno, non arrivi a dire di Orban, primo ministro ungherese, e della sua azione che, nell'analisi degli articolisti e studiosi va a configurarsi, appunto, come 'democrazia illiberale'. Onestamente, non so se ciò corrisponda al vero o se le asserzioni di quelle analisi abbiano solide basi. Ciò che mi appare strano è che Orban, ammesso che la sua azione possieda una tale configurazione, abbia libera, e alla fin fine apprezzata, ospitalità nella casa comune europea. Per cui, chissà che, in futuro, visti i presupposti, una 'democrazia illiberale' non divenga un modello al quale ispirarsi per ovviare al faticoso lavoro di ricorrere a tante inutili ipocrisie e a insignificanti iperboli. Del resto, con l'istaurazione del pensiero unico e la criminalizzazione di ogni espressione contraria, non siamo molto lontani. Chi mai ha provato a recepire l'atteggiamento di Voltaire a proposito dell'autore dell'Esprit, Claude-Adrien Helvétius quando affermava: "Mi piaceva l'autore de L'Esprit. Quest'uomo era meglio di tutti i suoi nemici messi assieme; ma non ho mai approvato né gli errori del suo libro, né le verità banali che afferma con enfasi. Però ho preso fortemente le sue difese, quando uomini assurdi lo hanno condannato."? A questo punto, l'unica cosa che so per certo è che i libri di filosofia, tutti, andrebbero buttati al macero e non dati inutilmente da studiare a giovani menti che, tutt'al più, potranno prendere i contenuti come mitologia, al pari dell'atteggiamento scapestrato di Giove e della gelosia di Giunone. Naturalmente, senza lamentarci se buona parte di loro non ha contezza di ciò che legge. Roberta Forte


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TRA IL FUMO E L’ARROSTO Ho ascoltato con vero compiacimento la recente, forte presa di posizione del Presidente Mattarella contro l'evasione fiscale che è arrivato a definirla 'indecente'. Ed io mi ritrovo pienamente in quel giudizio, senza ricorrere ad atteggiamenti mentali giustificativi, dati dalla gravosità dell'imposizione: lex, dura lex, sed lex. Possiamo dolerci finché vogliamo ma ciò non può esimerci dal rispettare la legge. Quindi, ogni comportamento, ogni atto che, in maniera persistente, reiterata per giunta, arrivi a disattenderla è da giudicarsi 'indecente'. Peraltro, il Presidente ha quantificato l'ammontare dell'evasione che avrebbe raggiunto l'abnorme cifra di 130 miliardi di euro. Il che lascia sbalorditi per l'entità dell'indecente fenomeno e induce a porsi una precisa domanda: ma come è possibile questo, nonostante controlli, incroci informatici, limitazioni di prelievo, fatturazione elettronica, scontrini fiscali? Non è neppure da pensare che l'Amministrazione competente non svolga al meglio il suo lavoro. Del resto, per sua stessa ammissione, come ha riportato Roberta Forte nel suo 'Il rischio c'è' dell'ottobre scorso, di oltre 1.000 miliardi di cartelle esattoriali emesse tra il 2008 e il 2018, l'Agenzia delle Entrate sarà in grado di introitarne forse un'ottantina. Ed i motivi li elenca tutti, non c'è che dire. Potremmo dolerci dell'esistenza di grandi evasori, come le cronache degli ultimi anni ci hanno informato, ma, come ci dimostra l'opera della Guardia di Finanza, alla fine vengono scoperti. Che, poi, invece di pagare tutto il dovuto, compresi gli interessi e le more, se la cavino con una ridotta transazione, al limite dell'indecenza, possiamo anche accettarlo perché, una volta scoperti, si spera che non abbiano animo di bissare e, comunque, che la sorveglianza sia attenta. Per cui mi chiedo quanti mai possano ancora evadere ed in che misura e con quali sistemi per aver raggiunto una così ragguardevole cifra senza peraltro essere scoperti. Anche perché credo effettivamente che se la dichiarata evasione fosse recuperata e annullata, essa andrebbe a vantaggio delle pensioni, degli stipendi e dei servizi che, diversamente, soffrono di una tale indecente situazione. Ma già che ci siamo, già che il deprecabile fenomeno ha incontrato la ferma, fattiva attenzione del Presidente, perché non allargare la visuale per toccare altri temi che investono l'uso che sembra inappropriato del denaro pubblico e raggiungere vette di eccellenza nei suddetti campi? Ad esempio, ufficialmente censiti e in tal modo definiti esistono nel nostro Paese oltre 1.000 Enti inutili che nessun Governo ha inteso toccare, se non marginalmente: negli ultimi anni, solo una cinquantina hanno avuto il serraggio della porta d'ingresso.

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Appare certamente come un'indecenza anche perché, da calcoli di esperti, essi comportano un impiego di pubblico denaro che va da 12 a 13 miliardi di euro annui. Sarebbero poco meno della metà della Finanziaria 2020. Sempre ad ulteriore esempio, che dire delle Authority? Il nostro Paese ne registra la presenza di ben quattordici e due ulteriori sembrano essere in fase di allestimento. Ora, nihil quaestio per alcune di esse quali la Consob e l'IVASS già ISVAP (che comunque dovrebbero essere rivisitate nel loro campo d'azione e nei poteri), l'Antitrust, il Garante sulle comunicazioni, la Commissione di garanzia dello sciopero, il Garante sulla privacy ma mi chiedo per tutte le altre, del tipo l'Agenzia per l'Italia digitale, quella per l'infanzia e l'adolescenza, quella per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche, quale lavoro di così profonda utilità pubblica possano svolgere. Non ci sono studi che indichino l'ammontare di pubbliche risorse impiegate per il loro funzionamento ma è da ritenere che la cifra sia ragguardevole al punto tale da giustificare una rivisitazione. E, sempre sul piano della decenza, le province che appaiono e scompaiono come e meglio di Houdini? E le comunità montane oggi istituzioni divenute inutili per la ristrettezza delle risorse che ha impedito e impedisce loro lo svolgimento di un importante compito, il monitoraggio del territorio, ma non cancella la sussistenza di un apparato burocratico che deve essere alloggiato, vuole essere pagato, deve telefonare, si deve riscaldare? E gli acquisti in campo sanitario dove il costo di un prodotto può variare tra una Regione e l'altra anche del 100%? E le società partecipate delle grandi città, ad esempio Roma dove l'ATAC, da sola, ha totalizzato un miliardo di perdite e sessanta autobus bruciati? E, senza voler speculare sulle disgrazie non ci sono forse dubbi sulla decenza delle società di gestione delle concessioni governative, almeno in ordine alla manutenzione? A proposito di quest'ultimo aspetto, recentemente mi è capitato, nel fare zapping, di incocciare la trasmissione di Porta a Porta (12 dicembre scorso) dove la Ministra alle Infrastrutture e Trasporti, Paola de Micheli, parlava di oltre 3 miliardi di euro destinati all'apertura di cantieri. Poi, il discorso è scivolato sulla disgrazia del ponte Morandi e l'immarcescibile Vespa le chiedeva a che eravamo, dopo un anno e mezzo dal tragico evento, sul rinnovo o meno della concessione governativa ad Atlantia (si può leggere Benetton). E la Ministra, con aria alquanto compresa nella parte, ha tenuto a precisare che un comitato tecnico sta valutando. Non voglio fare commenti, che pure ci starebbero, in ordine a cosa stia ancora valutando dato il tempo trascorso e la Magistratura al lavoro. Mi chiedo solo se sia decente, come è stato fatto rimarcare in quella sede, che i Benetton, sia pur per interposta persona, partecipino a quel tavolo. Purtroppo le ipotesi di indecenza non si fermano qui. Dopo scandali a iosa e un referendum che ha bocciato il finanziamento pubblico ai partiti, mi chiedo se possa considerarsi decente il rimborso delle spese elettorali agli stessi partiti che, di fatto, è un finanziamento. Se, sullo stesso piano, ad adiuvandum, sia decente l'abitudine di organismi consiliari pubblici (Camera, Senato, Regioni, Comuni) nel riservare un quid annuo per le cosiddette attività politiche dei gruppi. Una componente dell'attuale governo ha inteso cavalcare la strada della decenza negli


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emolumenti dei parlamentari. Non ritengo che il risparmio sia cospicuo ma capisco benissimo l'esempio che se ne ricava. E, pur non avendo alcun peso il mio assenso, concordo. Ma, mi domando, misurate con quel metro, sono decenti le retribuzioni del personale di Camera e Senato nonché della Presidenza della Repubblica dove la retribuzione di un usciere è paragonabile a quella di un dirigente nell'impiego privato? Potrei continuare ma penso di aver reso a sufficienza il mio pensiero per ciò che concerne il nostro Paese. Però, va detto, anche l'Europa sembra esporre alcune questioni che manifestano dubbi di decenza. In Affari e Finanza di Repubblica dello scorso 14 ottobre c'è scritto che circa 13.000 miliardi di euro giacciono in Paesi offshore non per fare investimenti ma per sottrarli al fisco. C'è anche scritto che circa la metà di quei quattrini va in Lussemburgo e in Olanda. Ora, a me non risulta che questi due ultimi Paesi possano definirsi offshore, che abbiano norme che li paragonino alle Cayman et similia. Anzi, a me risulta che l'Unione miri, tra l'altro, alla massima trasparenza. Per cui, va bene la carovana mensile che da Bruxelles a Strasburgo e ritorno sposta decine e decine di TIR per il trasporto di carte dei parlamentari e di atti amministrativi, nonché migliaia di persone: per quanto sia inutilmente oneroso il fatto, lo prevedono i trattati. Va anche bene, nonostante l'apparenza, che gli Stati si facciano tra loro concorrenza nell'acchiappare aziende allettate soprattutto da una bassa pressione fiscale: del resto, se la gestione virtuosa dei loro conti glielo consente, buon pro gli faccia. Ma non sembra decente che Paesi membri dell'Unione, ammessa la veridicità dell'affermazione giornalistica, possano accogliere nel più assoluto riserbo un quantitativo così abnorme di denaro senza accertarne la provenienza e, comunque, denunciarne la liceità. E, se di contro, ciò fosse possibile, perché non candidare l'Italia a forziere d'Europa dove, tra l'altro, sarebbe possibile ai possessori fruire dei vantaggi di denaro illecito coniugandolo con le bellezze naturali, nessuna esclusa? Ovviamente scherzo su quest'ultima parte, sempre in relazione alla decenza. In ogni caso, allarghiamo le considerazioni sull'indecenza e, come sembra giusto fare, combattiamola. Mi sembra già di intravedere ancor più cospicui ritorni sulla mia pensione e una migliore accoglienza negli ospedali. Francesco Diacceto

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UN TRAGICO GIOCO DELL’OCA Un minimo di spiegazione necessita. Intanto, voglio ringraziare l'amico carissimo Antonino Provenzano per aver voluto commentare il mio articolo 'Neppure la morte si salva', pubblicato sul numero passato. Voglio ringraziarlo ulteriormente perché con la sua prosa arguta e sagace mi stimola a pensare nella pochezza delle mie elucubrazioni. Voglio ringraziarlo, infine, perché le sue considerazioni mi inducono affettuosamente a ribattere pubblicando, con il permesso dell'amico stesso e con quello del direttore, la mail della quale ho beneficiato. Cara Roberta come sempre impeccabile e del tutto condivisibile. Ma attenzione: chi ha il coraggio di ammettere la verità deve riconoscere che la colpa di tutta questa "torta" è soltanto TUA e MIA, cioè unicamente della nostra generazione: quella dei "baby boomer" post bellici, oggi settantenni. La generazione di mio padre, "baby" della Grande Guerra, non era affatto paragonabile alla nostra. Quei maschi (e donne in subordine) hanno "costruito"; noi (e concomitanti donne "dominanti") abbiamo soltanto amministrato uno sviluppo tecnologico inventato da pochissimi e gestito da un, ancor più piccolo, Gruppo Dominante Mondiale che ha portato all'attuale sfacelo morale e quindi socio-economico planetario. Non c'è nulla da fare: l'Oste della Storia sta scrivendo il conto concernente le consumazioni settantennali dei "baby boomers" del pianeta. Un'operazione molto semplice. Preparate il Bancomat: quanto consumato da noi, dai nostri figli e giovani nipoti importa, nel totale, la fine della nostra Civiltà occidentale così come tu, io ed i nostri compagni di cammino l'abbiamo conosciuta al momento della nostra nascita negli scorsi anni '40. Chi ci seguirà dovrà cambiare menù e di conseguenza anche ristorante: "da Checco, ottima cucina planetaria, egualitaria di massa in salsa di politicamente corretto; specialità: ricette super tecnologiche di acritica ed apparente facile digestione. Non necessita "Alka Seltzer" essendo il paziente già spiritualmente morto, ma "a sua insaputa". Un abbraccio, Tuo, Antonino


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Carissimo amico mio, tralascio le notazioni tra parentesi relative alle donne (scherzo), che pure hanno una loro ragione (ne convengo), per riflettere sulla tua analisi. È certa la differenza tra la generazione dei nostri padri e la nostra: i nostri genitori, indubbiamente, hanno saputo costruire e noi abbiamo (male) 'amministrato' ma non è andata di colpo così, non è stato uno stacco avvenuto dalla sera alla mattina, non c'è stato un cambio dirotta all'improvviso perché io ho un vivo ricordo della passione, quella politica, che animava la mia giovane (allora) mente che si batteva per migliorare le condizioni del mondo (che parolona); non certo per affossarle. E, analogamente, ricordo la stessa passione, lo stesso impegno, in giovani che, sebbene di diversa cultura politica, avevano ugualmente interesse alle sorti della gente. Ebbene sì, più che costruirlo, volevamo cambiare il mondo; da borghesi, figli di borghesi, frequentatori di università, per costruirci, aspirazione umana, un domani, possibilmente migliore di quello dei nostri genitori, non proprio male ma infarcito di gaps sociali (neppure paragonabili agli odierni). Un domani che inglobasse le persone attorno a noi: i giovani e gli anziani, i proletari e i borghesi, gli imprenditori e gli operai. Questo era il nostro intento che, detto così oggi, suona come dare concreta esistenza a Neverland. E c'era una base: alcuni di noi non nutrivano entusiasmo per la totalità del ventennio pre-bellico e altri non erano emotivamente coinvolti dal socialismo sovietico, disgustati dai fatti d'Ungheria ed entusiasti della Primavera di Praga. Comunque, due regimi, quelli, ambedue totalitari che si arrogavano il diritto di imporre un'etica di Stato. Così, insieme, pensammo potesse esistere un'altra via. Forse, come si dirà successivamente, la 'terza' la quale, come noto, non era sola prerogativa del mondo di destra. In ogni caso, noi di destra, non eravamo 'pariolini', né annoiati. Non avevamo amici con ville al Circeo, non facevamo avvinazzate baldorie il sabato sera né apprezzavamo la 'bianca neve' per sollevarci il morale. Analogamente ciò valeva per i compagni di sinistra. Ci bastava, a volte, una chitarra e, perché no, una consenziente, sana e felicitante attività fisica. Ed è proprio da 'borghesi', sì, da borghesi che volevamo mettere in discussione il 'vecchio mondo', anche perché questa non poteva essere una pulsione di figli di 'proletari' i quali, se non in minoranza, non frequentavano l'università, non si ponevano una visione prospettica della vita che andasse oltre il loro futuro e, in ultima analisi, dovevano sbarcare il lunario senza tanti grilli per la testa. Semmai, erano più interessati alle lotte sindacali dalla cui soluzione derivavano immediati tangibili miglioramenti delle loro condizioni di lavoro e di vita. Noi, tutti noi, proprio da borghesi figli di borghesi volevamo far sì che le vicende travagliate che avevano caratterizzato la prima parte del secolo non potessero ripetersi. Volevamo che la grettezza boriosa degli insegnanti (che, tra l'altro, pro bono pacis, avevano ignorato gli inquietanti segnali di uno sconvolgimento globale che non ha - e speriamo non abbia mai - eguali nella storia), venisse meno per costruire su noi e con noi un domani migliore; volevamo che la l'altezzosità e l'arroganza della 'dirigenza' si stemperasse in un'officina dove poter rubare con gli occhi il mestiere al maestro e da lui ricevere rimbrotti e apprezzamenti in un'ottica costruttiva; volevamo che la politica si facesse carico di questo, ci guidasse, indirizzasse i nostri passi.

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Quella politica, assieme quell'imprenditoria e a quella pubblica amministrazione, ognuna incarnata e animata dai nostri 'padri', che avevano fatto sì che l'Italia rinascesse dalle sue rovine e fosse in grado di trasformare la sua economia e progredire fino a divenire uno tra i sette Grandi del mondo. Eppure, quei nostri 'padri', illuminati, non ebbero fiducia nella loro prole. Non le consentirono di crescere, di misurarsi, non stettero ad ascoltare e temettero che alla fine della fiera venissero compromesse le loro posizioni. E così ci avversarono. Non voglio ripercorre le vicende sessantottine alle quali è stato dedicato, lo scorso anno, un intero numero della rivista ma fatto è che lo iato si è verificato proprio lì, in quel contesto. Praticamente, in tutto il mondo, è vero, ma in nessun altro posto come in Italia. La scuola si è arroccata, la pubblica amministrazione ha avuto comportamenti reazionari, l'imprenditoria si è sdegnata e la politica ha assunto atteggiamenti di lesa maestà fino a decidere di reprimere paradossalmente il proprio futuro. Interessata, com'era, solo ed esclusivamente a perpetuare lo status quo, così da giustificare la sua esistenza e le caratteristiche della stessa. Non era cambiato alcunché. L'importante nella scuola, nella pubblica amministrazione, nell'imprenditoria, era non disturbare il manovratore; quel manovratore che, comunque, al pari del passato, ha chiuso gli occhi e si è arreso alla violenza delle bande. Ovviamente, in pieno conformismo, sempre per quieto vivere. Quanto mai potranno durare, si dice abbia retoricamente chiesto con atteggiamento bonario l'ammiraglio Thaon de Revel al Re, osservando la sfilata dei partecipanti alla marcia su Roma. E, cinquant'anni fa, anche la politica ha fatto finta di non vedere, lasciando agli intellettuali (solo nella sinistra) il compito di criticare certi squallidi comportamenti. Che poi lo abbia fatto per convinzione o solo per facciata, questo è un altro discorso. La destra, invece, ha soprattutto criticato e censurato i critici. In tanti hanno parlato e scritto del '68 ma lo hanno fatto, a mio modesto e sommesso avviso, da un'ottica completamente sbagliata, cioè dando sostanzialmente ragione alla parte più retriva. Quella che non pensava alla ri-costruzione, alle riforme, bensì alla sola distruzione. Così, una violenza, quella delle bande pseudo-politiche, che ha distrutto la fiducia in un sistema e ha irrimediabilmente compromesso la possibilità di riformarlo, ha finito per passare strumentalmente alla storia come una ventata riformatrice (che non ha riformato alcunché). E ciò che, di solito, viene additato a sostegno di quell'assurda tesi, e cioè il divorzio e l'aborto, se non fosse stato per i radicali, alcuni anni dopo, che sono riusciti a smuovere coscienze popolari come i primi referendum hanno dimostrato, saremmo ancora in uno Stato para-teocratico, nonostante i katanga, il voto politico, il piano didattico concordato e i sequestri dei professori a scopo intimidatorio. Comunque. è vero. Noi figli, alla fine dei giochi, ci siamo arresi, ci siamo conformati e, come noi, (colmo dell'ironia) si sono conformati gli artefici degli squallidi comportamenti, i capi dei katanga, di Lotta Continua e di altre formazioni. Anzi, quegli artefici irriducibili, quei capi stoici si sono talmente conformati che oggi la società riconosce loro il ruolo di guru del politically correct. Ben retribuendoli, ovviamente. Un attimo, devo correggermi. Saremmo in uno Stato parateocratico, è vero, se non fosse stato per i radicali ma è sacrosanto ammettere che i 'nostri padri',


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i benpensanti moderati, avevano comunque nel loro essere un orologio biologico che li riconduceva ad un appuntamento con la loro Nemesi. È vero che la storia non si ripete ma, come si dice abbia affermato Mark Twain, fa rima. E non sono rare, nella storia appunto, le interessate, opportunistiche alleanze del Bene con il Male, o almeno di soggetti i cui atti e comportamenti sono opinabili come tali. Il problema del Bene, infatti, è quello di non riuscire a migliorare sé stesso. Si determina per circostanze spesso fortuite, a volte provocate dal sangue, esplica i suoi effetti e prende talmente a cuore il suo ruolo che si radica nel suo compito al punto di scendere a patti con chi vorrebbe comprometterlo. La Storia, appunto, almeno insegna. È dalla fine degli anni '50 dello scorso secolo che si occhieggiavano: i morotei, nel luglio del '60, adottarono il termine 'convergenze democratiche' per sintetizzare il loro punto di vista circa la convenienza di allargare l'orizzonte governativo e inglobare almeno i socialisti che iniziavano a prendere seriamente le distanze dal PCI; rispose loro, nello stesso mese, l'antesignano faro progressista, Eugenio Scalfari, dalle pagine dell'Espresso forzando la sintesi a 'convergenze parallele', ignorando così la geometria euclidea per abbracciare quella ellittica di Riemann. A dissuaderli, non bastò nemmeno l'evidenza di essere noi il confine con l'Impero del Male, tanto per scomodare Reagan, e di avere in casa il primo partito comunista d'Europa. Lo hieros gamos, il sacro sponsale, dopo un articolato iter nello spazio (e nel tempo), riuscì a concretizzarsi nel '76 quando il Bene, il conformismo, i cultori dell'acqua santa, i 'nostri padri' che pure erano riusciti a portare questo Paese fuori dalle secche del dopo-guerra compiendo una sorta di miracolo, al fine di perpetuare sé stessi pensarono, in un cieco opportunismo, di allearsi con il PCI il quale comprese bene che non avrebbe potuto varcare impunemente la soglia del potere; così scelse la via mediata. E per 'concedere' il suo appoggio esterno chiese in contropartita mano libera negli organici del Ministero di Grazia e Giustizia e in quello della Pubblica Istruzione. O, almeno così si disse allora ed io sono propensa a crederci. Fatto sì è che gli effetti di quel 'compromesso', spacciato per 'solidarietà nazionale' hanno cominciato a manifestarsi sin dai primi anni '90; quando il PCI, come ho scritto nel marzo dello scorso anno, di colpo, effettuò un balzo a ritroso di settant'anni per rientrare nel XVII° congresso socialista in quel di Livorno, mettere il silenziatore ai due delegati dell'Internazionale comunista Christo Kabakèiev e Mátyás Rákosi, relegare nel ripostiglio Amedeo Bordiga e salvare il solo Antonio Gramsci, per fare sua la tesi turatiana: il netto rifiuto di ogni soluzione rivoluzionaria e una strenua difesa del riformismo socialista e della sua opera quotidiana di creazione della maturità delle cose e degli uomini. Di quella tesi cioè il cui rifiuto aveva determinato la sua fuoriuscita da quel Congresso per incompatibilità. Così i 'nostri padri', i valenti costruttori che pure qualche piccola pecca l'avevano, vennero spazzati via dall'ondata pseudo-giustizialista che ne seguì, nemmeno più difesi da quel baluardo monolitico dietro il quale si erano trincerati per decenni: la Chiesa Cattolica Apostolica Romana che, come segno dei tempi, si era ritrovata con una doppia anima, una delle quali sedicente 'progressista'.

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Il portone, ormai, era stato spalancato. E a nulla è valso l'intervento a gamba tesa di Berlusca nel '94. Aveva sfilato l'Italia dalla gioiosa macchina da guerra ma la vittoria fu quella di Pirro: sette mesi di governo di nullità. Sette anni di attesa e poi cinque di nullità. Nelle more, prima e dopo, hai voglia a parlare di valori, come ci ha ricordato il nostro direttore nello scorso editoriale. Hai voglia a predicare ideali. Il piattume materialistico e universalistico prese a dilagare impetuoso e a noi 'figli' non è restato altro che prenderne atto e adeguarci. Per gli stessi motivi per i quali i 'nostri padri', per giunta in condizioni ben diverse dalle nostre, si sono adeguati: il timore della e per la famiglia, per moderazione, per ostinazione, per cecità, per indole. Nel caso di noi 'figli', peraltro, di motivo se ne aggiungeva un altro: il rifiuto del martirio. E, del resto, non fu un errore, visto a posteriori: un '68 prolungatosi fino alla fine degli anni '70, con un'escalation del terrore che sembrava non avesse mai fine, per poi esaurirsi invece nello spazio di un attimo. Tralascio ogni considerazione in merito. Agli inizi degli anni '80, poi, Euclide fu talmente accantonato a favore di Riemann che altre 'convergenze parallele' si andarono a determinare: quelle tra i sedicenti progressisti e i liberalcapitalisti. Anche qui si sarebbe potuto parlare di 'diavolo e acquasanta' ma sarebbe stato molto difficile, se non impossibile, attribuire i ruoli. E del resto, muovendo dalla geometria ellittica, i punti di contatto erano proprio il materialismo e l'universalismo. Ed ambedue erano (e sono) cultori del pensiero unico. Così, il cerchio era chiuso. Noi, 'figli' ci siamo opposti, abbiamo avversato ed elevato alte le ragioni, poi ci siamo arresi. Potevamo forse fare di più ma ogni componente sociale (va sottolineato), che voleva 'contare', inalberato il 'modernismo' ammantato di visioni progressiste e (pseudo) liberali, si è accinta a procedere radiosa verso il nuovo sol dell'avvenire. La politica in primis. Si potrebbe chiedere perché ai nostri 'figli' non abbiamo trasmesso il nostro 'sapere', il nostro bagaglio conoscitivo, i nostri valori e i nostri ideali dei quali, per quanto inutili ormai, ne avevamo contezza e, per certi versi, avevano rappresentato i viatici almeno di parte della nostra vita. Non lo abbiamo fatto per non essere tacciati da ipocriti (pur essendolo in parte), come noi abbiamo tacciato i 'nostri padri'. Del resto, le nuove parole d'ordine erano competizione, egocentrismo, specializzazione, globalizzazione nel solco della tecnologia e della scienza imperanti che da un lato accorciavano virtualmente le distanze e dall'altro consentivano all'uomo di vincere sulla Natura: con i capelli bianchi, i seni cascanti, la pancia floscia e le gambe traballanti poteva inalberare un membro da ventenne. Una specie di età dell'oro che ubriacava. Scopriremo poi che la virtualità di un universo ridotto ci relegava in uno più ridotto, a strabuzzare gli occhi davanti ad uno schermo e un membro eretto poteva essere impiegato solo con la compagna o la moglie coetanea o, a salato pagamento, con una prestatrice d'opera. Ma questo assomiglia al senno del poi del quale son piene le fosse. Nell'ambito delle nuove parole d'ordine, pur criticandole, abbiamo solo inteso cercare delle chance per i nostri 'figli', seppur intervallando i nostri consigli con dei 'se' e dei 'ma'. Diversamente, ne avremmo fatto dei residuali di un censo ormai scomparso, il proletariato, o nuova linfa per una vanesia lotta armata. E, onestamente, non c'è sembrato il caso, visti i precedenti.


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È chiaro che a quel punto le 'parole' si erano perse e, con esse, i concetti che rappresentavano e i valori e gli ideali che costruivano, mattone sopra mattone, per dare spazio e senso alla parte spirituale dell'essere umano. Un aspetto mi consola e al tempo stesso mi rattrista: se i nostri 'figli' hanno un vago sentore del passato, i 'figli' dei nostri 'figli' ignorano persino l'esistenza di certe 'parole' e i concetti che esprimono. Quindi, non avvertono la 'perdita', non 'soffrono' e credono che la corsa forsennata alla quale la vita attuale ci costringe, la specializzazione della specializzazione, l'imbarbarimento culturale, la legge del più forte, l'espressione della democrazia solo attraverso la virtualità di un contatto virtuale, l'insoddisfazione esistenziale, lo sradicamento da tradizioni e affetti, quando non (purtroppo) la ricerca dello sballo per 'evadere' dall'oppressione che comunque avvertono, sia il solo ed unico modo possibile di vivere. A rattristarci restiamo noi, 'figli' dei 'padri', generazione di mezzo, che conosce ambedue i mondi ed è in grado di valutare; alle prese con la nostra 'pazzia' che, come diceva Guicciardini, deriva dalle fuliggini della memoria e dalla malinconia. Siamo noi che avvertiamo, come scriveva il collega Sola richiamandosi a Evola, di camminare tra le rovine della Storia. E, a questo punto, con le nostre forze, consci di quel pizzico di ignavia e di ipocrisia che ci ha turbato (e ci turba) l'anima, cerchiamo di mantenere alta almeno la fiaccola di una diversa verità. E chi sa che, in questo mondo post-modernista, dissipatore e dissacratore, qualche altro tedoforo non abbia voglia e tempo di unirsi alla corsa. È la speranza che la marginalità si allarghi. Quindi, carissimo Antonino, non ho alcunché da invidiare ai nostri 'padri'. Non abbiamo dato prova di essere valenti costruttori, è vero ma solamente perché sono completamente mancate le condizioni per farlo. Li ringrazio, ovviamente, per ciò che lo hanno saputo fare ma non posso dimenticare che il germe della distruzione delle loro preziose costruzioni è stato da loro stessi inoculato e a causa del quale sono stati depennati addirittura con ignominia dagli Annali. Con tutta l'affettuosa amicizia che nutro nei tuoi confronti Roberta Forte

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CORRETTEZZA POLITICA Scrive Carlo Lorenzini, in arte Collodi, nel suo racconto "Le avventure di Pinocchio", Capitolo 1 : "C'era una volta …. Un re! - diranno subito i miei piccoli lettori. - No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta … “. " Lo splendido (continuo io) reame del "politicamente corretto". In quella terra beata tutto era stupendo, pulito, ecologico, sicuro, solidale, pacifico, "gender friendly", universalistico e, per sovrappiù, anche "gluten free" e senza olio di palma aggiunto. Vi regnava uno splendido sovrano che aveva tutte le qualità: era (o credeva di essere?) bellissimo, ricchissimo, potentissimo, democraticissimo, saggissimo, intelligentissimo, modernissimo, super equanime. Con tutto ciò, però, non si sentiva appagato. Voleva anche essere elegantissimo, il meglio vestito tra i sovrani del mondo intero. Impartisce dunque l'ordine al ciambellano di provvedere alla bisogna. Questi ne è costernato. Come avrebbe potuto mai soddisfare una pretesa che richiedeva l'impossibile sintesi tra il dato oggettivo della manifattura di un inedito, splendido abito e quello, del tutto soggettivo, di riuscire a cogliere il mistero dei gusti personali di sua maestà? Pensa che ti ripensa, arriva infine alla geniale soluzione e, trionfante, si precipita dal suo re: "Maestà, sono in grado di poter esaudire il suo desiderio. Ho trovato il sarto capace di confezionare l'abito più bello che occhio umano abbia mai ammirato, ma ad una precisa condizione". "Nulla che io non sia pronto ad esaudire" risponde il re fuori di se dalla gioia. "Egli Le cucirà una veste straordinaria, ma con una ineludibile, particolare caratteristica" continua il ciambellano "tale abito resterà sempre invisibile agli occhi della Maestà Vostra ed a quelli di tutti coloro che, nel proprio intimo, non Le sono ne amici ne fedeli e pronti dunque a tradirla alla prima occasione. Nel contempo però, la sua visione delizierà tutti coloro che amino la Signoria Vostra, Le siano sinceramente devoti e godano, di conseguenza, di ogni Sua benevolenza. Di tale caratteristica se ne darà, ma in forma del tutto subliminale, opportuna consapevolezza alla popolazione". "Ci sto!" disse il re che non stava più nella pelle. "Che si dia subito avvio al lavoro!" Dopo qualche tempo, il ciambellano informa il sovrano che l'abito è pronto e che si può quindi procedere all'elaborata vestizione. Il re finalmente può scendere in piazza. Allo schiudersi del grande portone un immediato scroscio di applausi accoglie l'apparizione. E' tutto un susseguirsi di frasi ammirate, di scambio di commenti : "ma che meraviglia!", "mai visto niente di simile!", "che ricchezza di particolari!", "che sfoggio di eleganza!". Al muoversi delle labbra dell'occasionale astante, risponde l'atteggiarsi dicotomico dell'interlocutore palesemente diviso


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tra ampi cenni del capo di esplicito assenso e gli occhi vitrei per lo sconcertante conflitto interiore di chi ben sa, ma non si azzarda ad esternare. Su tale tripudio di farisaico appiattimento, per propria convenienza personale, su una manieristica "correttezza politica", plana inaspettatamente la sempiterna divinità del VERO capace di scardinare (prima o poi) l'acritica, beota "overdose" da massiccia assunzione di varie "verità per sentito dire". Un vispo bimbetto sfugge alla mano della mamma e corre dietro al corteo reale urlando a squarciagola :"…. ma Il re è nudo, il re è nudo !" Segue momentaneo parapiglia archiviato, ahimè, troppo celermente. Un tale reame, trans-nazionale, trans-temporale e parastorico valica continenti ed epoche per giungere tranquillamente ed in ottima salute, fino ai giorni nostri. Tuttavia una saetta di "vera" verità riesce talvolta a colpirlo. Per esempio, ed in tempi ben più recenti (1976), ci consola il cinematografico sbottare del ragioniere Fantozzi sulla constatazione di come "La corazzata Potemkin"non fosse altro che: " una ca … ta pazzesca" seguita da applauso liberatorio degli astanti. Purtroppo, la natura umana ha limiti di piccolezze, tornaconti individuali, paure ed egoismi che soltanto la santa incoscienza di qualche isolato individuo ovvero un non più comprimibile disagio esistenziale al limite della disperazione, potrebbero forse riuscire a travalicare. Al giorno d'oggi il fantomatico abito del re nudo ovvero la capacità "orchiodinìdica" del film di Ejzenstejn si sono riversati nelle mille fattispecie del "politicamente corretto". Tali gratuiti DOGMI di acritica fede puntano (come lo Zio Sam del mitico manifesto di bellica memoria) il loro ditone verso di te (si, proprio te e soltanto te) e, guardandoti dritto negli occhi, ti urlano : "I want YOU !". Vorresti allora tu, povera animella sperduta, azzardarti ad uscire dal coro? Dire:" No, io non ci sto?". Accomodati pure se è ciò ti fa piacere, ma verrai accusato di tradimento della planetaria patria di tutti quelli che supinamente la abitano, anche a costo di acritico appiattimento su dominanti posizioni altrui. - … "stacco" cinematografico (per intenderci, alla Sorrentino, secondo il mitico Maurizio Crozza) - … "Interno giorno: mi trovo al Museo Borghese nell'omonima villa romana; ne esco dopo un paio d'ore in piena sindrome di Stendhal: troppa bellezza, troppe meraviglie concentrate in un unico luogo ed in un breve arco di tempo; le emozioni si susseguono simultanee e contrastanti; debbo fare una pausa, riprendere fiato. - … altro "stacco" … "Interno notte: mi aggiro, "flute" alla mano, per le sale dell'elegante galleria del centro per un "vernissage"/esposizione di arte ASTRATTA contemporanea. Per quanto mi riguarda Stendhal è uscito a prendere il caffè e questo ci può anche stare dato che, naturalmente, non siamo tutti uguali e poi, come suole dirsi, :" de gustibus … ". Il fatto è che la vera esposizione non sta tanto nelle opere quanto nei visitatori. Essi sono l'autentica opera d'arte, la forma plastica in cui verità e finzione, sostanza ed accidente convivono in modo tragicamente umoristico. Ciò che è e ciò che appare si fondono in surreale sintesi. Stendhal è ora rientrato dopo la breve assenza, ma tralascia di osservare le opere a parete

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(inguardabili) e si concentra, giustamente, su quella sorta di "festa mobile" che è l'insieme del pubblico presente. Dame platinate in pelliccia (vabbè, non si fa, è politicamente scorretto, ma per una volta … e forse è pure sintetica !) gioielli scintillanti, tacco 12. Signori brizzolati dalla malcelata vitalità di vecchi lupi di mare da yacht in vetroresina impartenti, sciampagnino alla mano, ordini di manovra elettronica al subordinato marinaio. Ma questa, dopotutto, è varia umanità. Il bello è dato dai commenti di critica para-entusiastica (con prudenza però, non si sa mai e l'irrecuperabile cavolata potrebbe sempre, ahimè, scappare dalla bocca!). “PAROLE:" … interessante .."; "… veramente suggestivo …"; "… mi fa tornare in mente il … "; "… evidentemente il mitico B. ha fatto scuola …". "PENSIERI: "… ma cosa ci sto a fare io ancora qui dentro … ?" "… come sarebbe meglio poter essere tra gli scaffali dell'esposizione Castroni, ove il mio vero gusto ed effettiva, profonda competenza tecnica potrebbero ben sbizzarrirsi tra quella infinità di straordinarie leccornie …!". Ma non si può. L'obbligatoria appartenenza al mondo "giusto" mi impone di ossequiare lo splendido "abito" del re nudo, far finta di godere dell'estasi estetica della corazzata Potemkin e concionare sull' astrattismo. So bene infatti che sarebbe del tutto politicamente scorretto iscriversi al club degli indifferenti davanti a casuali ed indecifrabili macchie di colore buttate lì senza capo ne coda, mostrarsi sconcertati davanti alla osannata scatoletta di merda di artista ovvero non restare folgorati dalla sublime poesia di una banale fototessera ritoccata a colori. Certo, far ciò sarebbe teoricamente possibile, ma dall'alto costo di venire iscritto al partito degli sfigati fuori tempo, escluso dai salotti eleganti, dagli attici giusti e condannato alla compagnia di "scorretti" consimili a cui sono precluse le delizie, le prebende, il successo e le gratificazioni mondane che soltanto quell'onnipotente "comme il faut" socio-politico è capace di distillare. Orsù, consoliamoci tuttavia. Se non altro non c'è tempo di annoiarsi. L'ininterrotta, immaginifica fabbrica di sempre nuovi totem politicamente "corretti" continua a produrre - ed archiviare - a ritmo forsennato. Dalla sua catena di montaggio dopo il già citato abito dell'elegante re nudo e la "poetica" della corazzata Potemkin (ma trattasi ormai di archeologia industriale), sono entrati ed usciti dal catalogo - cito a casaccio -: la benevolenza del Piccolo padre (Josif Stalin), il santino dell'eroe purissimo (Che Guevara), la lungimiranza del politico (Aldo Moro), la poetica del comunista umano (Enrico Berlinguer), la storicità millenaristica del grande Timoniere (Mao Tsetung), la spada vendicatrice (Antonio Di Pietro), il compagno giocoso (Nanni Moretti), l'economista bonario (Romano Prodi), il fotografo ecumenico (Oliviero Toscani), la imparziale comunicatrice (Lilli Gruber), il filosofo progressista (Eugenio Scalfari), il garbato intrattenitore (Fabio Fazio) e … compagnia cantante. Qualche "new entry" in attuale produzione? Che so? : l'acritica difesa di ogni differenza "a prescindere"; la prona adorazione verso quella velenosa lampada di Aladino chiamata Amazon; il plauso allo stravolgimento del corpo femminile fagocitato da stilisti omosessuali (credetemi sinceramente : "absit iniuria verbis") ma, di conseguenza, etimologicamente misogini; la gratuita genuflessione all'improbabile vestale del clima (Greta Thunberg) e si potrebbe continuare per


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ore ed in tutti campi della modernità . Ma cosa ci volete fare? Contemporanei incolti non potendo essi, poveretti, usufruire di alcuna consapevolezza storica (hanno mai, per caso, sentito dire: " nihil sub sole novi"?) - e convinti pertanto, per pura ignoranza, di essere depositari di ogni salvifica ricetta ritenendosi in perfetta buona fede i primi umani venuti mai a calpestare la "cruenta polvere" del mondo" - compongono ormai l'orchestra del pensiero unico planetario. Che dire infine dell'ultimo arrivo fresco di giornata (suvvia, trattandosi di prodotto ittico ci può proprio stare!): i misteriosi pesciolini? Questi, per il solo fatto di essere appunto nuovi, affascinano la sterminata platea dei cronici smemorati contemporanei. Ma come, mi domando, sta per spegnersi il, fino ad ieri osannato, frinire di un grillo (animale d'aria) e si impazzisce già per le evoluzioni in branco di un pesce (animale d'acqua) scientificamente chiamato "sardina pilchardus"? Ma certo! Quest'ultima ha l'incommensurabile pregio di essere appunto pesce e quindi taciturno, almeno per definizione. Soltanto per il momento? Auguriamoci proprio di no! Antonino Provenzano Roma 27/11/2019

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TUTTI PAZZI PER LE SARDINE Il dibattito pubblico si è arricchito di un nuovo ballon d'essai: le sardine. I media ne parlano come di un fenomeno epocale, destinato a mutare il corso della Storia; i sondaggisti almanaccano sulle potenzialità del movimento e su quanti consensi potrebbero riscuotere se si presentassero alle elezioni; gli opinionisti fanno a gara a farne il fattore provvidenziale della politica. Un entusiasmo che, francamente, non condividiamo. Per dirla tutta, pensiamo che si stia esagerando col dare rilevanza al fenomeno. Certo, il fatto che vi siano persone disposte a radunarsi in pubblica piazza per manifestare un sentire politico è sempre buona cosa per la democrazia. Però, da apprezzarne l'esistenza a farne la raffigurazione plastica del sol dell'avvenire ne corre. In primo luogo, i numeri sono relativi. Gridare al miracolo partecipativo per la presenza in strada di alcune migliaia di persone può avere un significato se il contesto antropico che le veda protagoniste sia scarsamente popolato. Ma in realtà urbane densamente abitate, quella folla radunata diventa un puntino sulla carta geografica della politica. Queste sardine sono figlie delle grandi città, non sono espressione della provincia italiana che, dal punto di vista della configurazione del profilo socio-culturale della comunità nazionale, pesa quanto se non più degli agglomerati a forte inurbamento. Si dirà: sono giovani. In parte è vero. Di là dalle cariatidi, reduci dal movimentismo girotondino autoreferenziale dell'ultimo quarto di secolo, che ne affollano le fila si riscontra un basso tasso medio d'età dei partecipanti. E con questo? Da quando il requisito anagrafico da solo conferisce valore a un fenomeno politico? In genere si guarda alle idee. Ma le sardine, che si sono riconosciute in un "manifesto" politico, di idee originali non ne hanno una. Solo alcuni slogan molto laschi: la fede nella politica con la P maiuscola, la voglia di lottare contro chi semini odio e paure, un sacro odio verso i populisti in generale e Matteo Salvini in particolare e l'idea, tra il naïf e il neofuturista, di essere energia pura. Si potrebbe molto ironizzare sul velleitarismo infantile dei risvegliati all'impegno civile, ma sarebbe un errore. Tuttavia, anche a valutarne positivamente l'impatto sulla politica, bisogna sollevare più di un dubbio sul fatto che le sardine di concreto, programmatico, non dicano nulla. Come la pensano sul futuro industriale della nazione? Ci deve essere o va cancellato in nome di un ambientalismo miope e autolesionista? Sono pro o contro le grandi opere e la Tav TorinoLione? In geopolitica, con chi stanno? Con l'Occidente o con le potenze emergenti del Terzo Mondo? Per loro la Nato è ancora l'ombrello desiderabile per sentirsi protetti dalle minacce


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altrui o è quel paziente in "stato di morte celebrale" di cui ha parlato di recente il presidente francese Emmanuel Macron? E l'Unione europea, è il migliore dei mondi possibili o si deve combattere per riformarla dalle radici? E poi, sono per il mercato che si regola autonomamente o tifano perché lo Stato non perda il ruolo di regolatore nei rapporti di scambio tra privati? Di domande ne avremmo moltissime da rivolgere ai capibranco delle sardine, ma confessiamo un forte disagio nell'approcciare un insieme di buona umanità che non si comprende cosa voglia a parte che ostacolare il cammino delle forze sovraniste. Il che ci riporta a un tentativo di collocazione del fenomeno. Le sardine, pur dichiarandosi apartitiche, rilasciano endorsement in favore del candidato del centrosinistra alla presidenza dell'Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini. Jamal Hussein, referente modenese delle sardine, lo ha detto chiaro e tondo: "Portiamo quella piazza che abbiamo creato a Modena, a votare il 26 gennaio, e a votare per chi fino ad oggi ha governato". Non c'è nulla di male a dichiararsi del centrosinistra, l'importante è non imbrogliare le carte. Le sardine non sono un moto spontaneo venuto fuori dalle viscere della società ma una resipiscenza della sinistra che prova a spiegarsi il perché non goda del consenso maggioritario del Paese. Le sardine non incarnano la protesta ma la partecipazione al potere. La loro provenienza non è dalle periferie dell'esistenza ma dal suo centro, nell'accezione che del "centro" dà Lester Walter Milbrath. Lo scienziato statunitense della politica circoscrive il perimetro della partecipazione, nel modello costruito sullo status socio-economico, alle persone che dispongono di un reddito elevato e di un buon livello d'istruzione, che "svolgono un lavoro non manuale e appartengono ai settori sociali, linguistici e religiosi dominanti". È l'identikit della sardina. La finalità che persegue tale categoria di partecipanti alla politica non ha come obiettivo il rovesciamento del sistema, come fu per i movimenti studenteschi del Sessantotto (da qui la constatazione del fatto che fra di loro non vi sia un Mario Capanna e nessuno a tirare le uova ai "signori" della prima alla Scala). Al contrario, essa punta a salvaguardare le risorse di cui dispone mantenendo una posizione di privilegio rispetto al resto della società. Quindi, l'istanza di fondo delle sardine è ispirata a un principio di conservazione dello status quo da opporre a chi provi a metterlo in discussione. Per quanto appaia bizzarro è solo con questa chiave di lettura che può essere compresa l'anomalia di un movimento che scende in piazza non contro le forze al potere ma per impedire all'opposizione di ribaltare gli equilibri egemonici in essere. Per dirla con un pizzico di demagogia, tra le sardine non si trovano i cassintegrati della Whirlpool o gli operai prossimi alla messa in mobilità del siderurgico di Taranto, ma i figli di papà che hanno l'avvenire assicurato. Le sardine sono l'espressione paradigmatica della liquidità valoriale della sinistra del nostro tempo storico che, abbandonata la lotta di classe, si è data alla rappresentanza politica dei ceti produttivi garantiti e protetti dagli effetti della globalizzazione. Le sardine sono un fenomeno di sinistra non nel senso tradizionale ma nella rappresentazione riveduta e corretta dal mainstream radical-chic di cosa s'intenda per sinistra. Per questo devono preoccupare elettoralmente? In linea di massima, no. L'acqua in cui nuotano è stagnante.

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È solo che i media provano a ingigantirne la portata nella speranza di fare aggio elettorale parlando di qualcosa che è potentemente contro la destra e contro il suo uomo di punta del momento. Liberi di provarci, certi di fallire. La fallacia nell'azione delle sardine sta nel non valutare adeguatamente il grado di consapevolezza della realtà posseduto dalla maggioranza degli italiani. Le sardine veicolano l'agente patogeno che ha devastato la sinistra: la sottovalutazione spocchiosa della capacità di discernimento del popolo. Neanche sono nate e pretendono di rieducare le masse ignoranti che vogliono l'uomo forte al comando. Con tale metodologia di costruzione del consenso, un riscontro elettorale significativo le sardine se lo scordino. D'altro canto, perché chiedere loro di andare contro natura? Le sardine sono sardine e mai saranno delfini. E neppure sirene. Il loro destino non è la storia e neppure l'eterogenesi dei fini: è la padella o le fauci di tonni e pescecani. Cristofaro Sola


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AUTONOMIA DIFFERENZIATA E SUSSIDIARIETA’ Di seguito alcune riflessioni sulle possibili implicazioni che discendono dall'attuazione dell'art. 116 cost., c. 3, cost., rispetto al ruolo degli enti locali e dei comuni in particolare, secondo una prospettiva multilivello del principio di sussidiarietà. Una prospettiva che tenga conto dell'esigenza di salvaguardare, tanto nella dimensione nazionale quanto in quella sovranazionale, la coesione sociale, messa in crisi da quell'approccio neo liberista, in base al quale tutti i compiti sociali che la Costituzione affida alla Repubblica sono rinunciabili (cedevoli) dinanzi ai vincoli assoluti del bilancio e all'imperativo categorico della crescita economica. Come è risaputo, nell'attuale disegno costituzionale, il rapporto tra i diversi livelli istituzionali è stato articolato sulla base di due principi fondamentali: quello dell'autonomia e quello della sussidiarietà. Il primo trova un esplicito riferimento normativo nell'art. 5 Cost. che, come è noto, ha trovato attuazione, prima, attraverso le riforme sul decentramento amministrativo, per poi rafforzarsi con le riforme costituzionali del 1999 e del 2001. Il secondo principio, di origine comunitaria, è espressamente richiamato nell'ambito del riparto di funzioni amministrative, ex art. 118 cost. ed esprime la regola di allocazione delle competenze in base al criterio della vicinanza dell'ente di governo, secondo i criteri di adeguatezza e differenziazione. Tale principio ha trovato applicazione anche nel riparto di competenze legislative tra stato e regioni, in virtù dell'indirizzo espresso dalla Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n. 303/2003. Non mi soffermo sulla sentenza, la quale è nota a tutti. Mi sia consentita una brevissima considerazione sul fatto, che se è vero, e lo dico in senso critico, che la Corte, valorizzando solo l'aspetto negativo della sussidiarietà, ha privilegiato un impiego di tale principio non al fine di valorizzare l'autonomia, ma al fine di accentrare le competenze per la tutela delle esigenze unitarie, dall'altro lato, ed è questo, invece, un aspetto che merita specifica attenzione, ai fini di questa riflessione (sull'autonomia differenziata), la Corte ha valorizzato la funzione procedimentale della sussidiarietà, quale principio che, mettendo a confronto potere centrale ed enti territoriali, consente di raggiungere un accordo in ordine ai contenuti dell'attività da svolgere. Sì che, l'avocazione in senso ascendente delle funzioni, e dunque, della competenza legislativa, sarebbe consentita solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano

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effettivo rilievo le attività concertative e di coordinamento, ovvero le intese, che devono esser condotte in base al principio di leale collaborazione. Autonomia e sussidiarietà, nel modello delineato dal Titolo V, sono, quindi, funzionali all'esigenza di migliorare l'efficienza amministrativa, ovvero ad assicurare ai cittadini un livello di benessere adeguato agli specifici bisogni da questi espressi, affinché sia realizzata l'effettività i diritti fondamentali, che la Costituzione pone al centro dei compiti dello Stato e delle sue articolazioni organizzative. Del resto, il titolo V fa proprio il modello di decentramento che era stato anticipato con le riforme Bassanini, che muovevano dall'idea di fondo che l'amministrazione dovesse rispondere efficacemente alla domanda di benessere dei propri amministrati, non soltanto sotto il profilo 'quantitativo' dei compiti, ma anche sotto il profilo 'qualitativo' delle prestazioni e dei servizi che è tenuta ad erogare. Si può quindi dire, che, già prima della riforma del titolo V, l'autonomia costituisse anche un presupposto per perseguire lo sviluppo della comunità locali, e che i criteri di attuazione di tale modello dovessero essere la sussidiarietà, l'adeguatezza e la differenziazione. In questo contesto, quindi, il rapporto tra autonomia e sussidiarietà si risolve, per ciò che concerne la competenza legislativa, nella ripartizione delle materie tra stato e regioni, individuando a monte, sia gli ambiti di interesse regionale da sottrarre all'intervento statale, sia quelli che, esigendo interventi di promozione e tutela di carattere unitario, dovessero essere riservati alla competenza esclusiva dello stato; per ciò che concerne invece le funzioni amministrative, il rapporto tra autonomia e sussidiarietà si è risolto in una applicazione omogenea delle regole di allocazione delle funzioni all'ente di governo più vicino ai cittadini. In entrambi gli schemi, emerge, come ha cercato di evidenziare anche la Corte Costituzionale, a partire dalla sentenza del 303/2003, una rigidità nella distribuzione delle competenze che non ha tenuto conto degli altri due criteri applicativi dell'autonomia, ovvero l'adeguatezza e la differenziazione. Eppure, ben si sa che l'effettività dei diritti fondamentali è condizionata dalla diversità dei contesti territoriali, sociali, economici, culturali, identitari, aggiungerei. Si pensi per esempio alla sanità. Ci sono regioni in cui il servizio sanitario raggiunge degli standard particolarmente riconosciuti e che attirano utenti da tutto il mondo; e ci sono regioni questo servizio resiste e o si configura in modo parziale. Questa rigidità, dovuta all'assenza di una ripartizione delle competenze e delle funzioni differenziata ed adeguata alle capacità amministrative dei governi locali, costituisce senz'altro una delle diverse ragioni per cui questo modello non ha funzionato, a cui si affianca, senz'altro, la mancata fissazione dei livelli essenziali, l'assenza di strumenti di collaborazione e di intese tra i diversi enti, in funzione di una maggiore consapevolezza in ordine alle scelte allocative delle competenze, l'assenza di una strategia unitaria, la crisi finanziaria e l'accentramento delle decisioni che impattano sulla finanza pubblica etc..


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Tutto ciò ci porta a dire, quindi, che l'autonomia per rispondere alla sua funzione, necessita della differenziazione, perché differenziare significa introdurre elementi di efficacia e di efficienza. Per dirla con le parole di un grande maestro, come Mortati, "la ratio dell'autonomia discende proprio dall'opportunità di adeguare il trattamento giuridico delle stesse materie alle peculiarità delle situazioni in quanto risultino diverse da una zona all'altra del territorio nazionale". In questa prospettiva, è possibile cogliere quindi un primo vincolo interpretativo dell'art. 116, c. 3, cost., in base al quale la possibilità di riconoscere ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, deve trovare fondamento nella esigenza di differenziare il rapporto Stato Regione, esigenza che a sua volta non può che essere ancorata alla opportunità di migliorare le prestazioni e i servizi funzionali ai diritti della persona A tal fine, e lo abbiamo sentito prima, diventa imprescindibile definire i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. E vorrei, infatti, a questo proposito sottolineare che la previsione di una soglia unitaria di prestazioni esigibili su tutto il territorio nazionale, costituisce un fattore unificante della cittadinanza sociale, e perciò, irrinunciabile, contro il rischio concreto di una frammentazione della stessa, nelle diversi parti del territorio nazionale, che sarebbe in contrasto con i principi di eguaglianza e parità di trattamento dei cittadini. Alla luce di queste prime considerazioni, si può, quindi, affermare che autonomia e differenziazione concorrono all'effettività dei diritti fondamentali e sono funzionali alla promozione del benessere sociale, nei limiti e in proporzione all'esigenza di uguaglianza sostanziale. In questa specifica prospettiva, in cui si differenzia tanto quanto è necessario per assicurare un trattamento omogeneo dei diritti fondamentali, oltre la soglia minima del livello essenziale. l'art. 116, c. 3, cost., potrebbe costituire quello strumento di flessibilità necessario a valorizzare, in termini di maggiore dinamicità, l'asimmetria che intercorre tra le regioni e tra queste e lo Stato, in funzione di una effettiva uguaglianza sociale. Potremmo persino ritenere che tale asimmetria, se utilmente impiegata, consentirebbe, forse, di superare quelle criticità emerse in sede di attuazione del titolo V. Ci si riferisce, in particolare, sia alle numerose questioni di legittimità costituzionali sollevate in tema di riparto tra Stato e Regioni, che hanno inciso negativamente su settori importanti per l'economia nazionale (come ad esempio la tutela della concorrenza), sia alle disparità di condizioni di benessere tra gli abitanti di regioni diverse, scaturita da un'autonomia non differenziata, applicata, cioè, in modo omogeneo in contesti territoriali profondamente diversi tra loro, sul piano economico, sociale e culturale. Si pensi ad esempio al tema dei diritti sociali. In altre parole, ciò che si vuole sottolineare è che le particolari condizioni di autonomia, di cui all'art. 116, c. 3 cost., potrebbero costituire un'utile strumento per modellare gli assetti organizzativi dei governi locali in funzione dell'esigenza, questa sì, unitaria, di garantire, in contesti territoriali differenti tra loro, la pari dignità sociale, ovvero le medesime opportunità di realizzazione dei diritti fondamentali.

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Così intesa, l'autonomia differenziata consente di realizzare un equilibrio territoriale tra il centro e i territori, fondato sul principio di "omogeneità delle condizioni di vita", con un giusto bilanciamento tra "solidarietà" e "competizione", da cui, quindi, discendano il permanere della libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni, l'esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale e la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali in tutto il territorio nazionale. Tali considerazioni portano, però, ad individuare quale nodo cruciale delle possibili applicazioni dell'art. 116, c. 3 cost., innanzitutto, quello dei limiti entro i quali la differenziazione è ammissibile, ovvero i limiti entro i quali la differenziazione è compatibile con l'esigenza unitaria del sistema, tenendo conto che quando si parla di esigenze unitarie si deve far riferimento, come indicato dall'art. 117, c. 3 lett. 2, all'effettività dei diritti fondamentali in tutte le aree del paese, e non al criterio genericamente richiamato dalla giurisprudenza della corte costituzionale in tema di riparto, dell'interesse unitario, che nella sua concreta applicazione ha finito, invece, come sappiamo, per reintrodurre quel concetto di interesse nazionale, che, non ha nulla ha a che vedere con la funzionalizzazione dell'autonomia organizzativa alla effettività dei diritti della persona. Come dimostra il fatto che l'accentramento delle competenze legislative disposto per esigenze unitarie, non ha prodotto alcun miglioramento in termini di accrescimento del benessere sociale nè di superamento del grave divario esistente tra le diverse aree del paese. Pertanto, in tale prospettiva, è lecito ritenere, allora, che la differenziazione ammissibile non è solo un problema quantitativo, ovvero quella che lo Stato ritiene necessaria per rimuovere le diseguaglianze del paese, ma è anche, un problema qualitativo, che impone, innanzitutto, allo Stato, nel rispetto delle prerogative di garante dell'unità del Paese, di cui all'art. 117 c. 2, cost., di definire le strategie di sviluppo economico e sociale del Paese, individuando quindi le priorità nella allocazione delle risorse, sulla base di una valutazione preliminare dell'impatto che tale allocazione potrebbe determinare sulle diverse aree regionali. In questo contesto, l'approccio da seguire dovrebbe essere quello di favorire l'effettivo bilanciamento tra solidarietà e competitività, tra sviluppo economico, progresso e coesione sociale, in armonia con quel disegno solidaristico che traccia le finalità del nostro ordinamento, ma che non lo vincola quanto al modello organizzativo, il quale potrà, quindi, essere assumere la configurazione più adatta alle esigenze di uguaglianza sostanziale reclamate da una società moderna. Ciò potrebbe, quindi, voler dire che nell'ipotizzare un nuovo modello di autonomia, occorre invertire il paradigma su cui si è fondato l'assetto del titolo V, in base al quale l'autonomia regionale, da un lato, e l'autonomia locale dall'altro, costituivano modelli omogenei connotati da una significativa rigidità, ipotizzando, invece, soluzioni applicative dell'art. 116 c. 3 cost., secondo cui l'autonomia è funzionale alla differenziazione che, a sua volta, è funzionale all'effettività dei diritti della persona, sia nella dimensione dei livelli essenziali, che è quella minima che deve essere garantita sul tutto il territorio nazionale, sia in una dimensione più


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elevata, che può essere quella reclamata dai governi locali più virtuosi, purché, però, ciò non crei nuove forme di disuguaglianza sociale, dando vita alla cd. secessione dei ricchi, per usare un'espressione efficace, riferita alle prime bozze di intesa (G. Viesti). Ed in questo senso, il riferimento all'art. 119 cost., da parte dell'art. 116, c. 3, sembra suffragare tale ricostruzione, confermando che la funzione solidaristica dell'autonomia si affianca, rafforzandola, a quella della efficienza amministrativa. Sotto tale profilo appare imprescindibile il riferimento a due sentenze della Corte costituzionale che, a mio modesto avviso, offrono indicazioni molto utili per fornire una interpretazione dell'art. 116, c. 3 cost. costituzionalmente compatibile. Mi riferisco alle sentenze n. 118/2015 e alla sentenza 275/2016. La prima sentenza è la n. 118/2015, ed è stata pronunciata in riferimento ai quesiti del referendum consultivo di alcune regioni sull'autonomia differenziata, in cui si delineava che i tributi riscossi sarebbero stati trattenuti per circa l'ottanta per cento dalla regione. Qui la Consulta, nel censurare i suddetti quesiti, pone in rilievo l'esigenza di salvaguardare gli equilibri di finanza pubblica, per preservare i legami di solidarietà tra la popolazione regionale e il resto della Repubblica ribadendo, ancora una volta, quindi, il principio secondo cui l'esigenza di mantenere al livello nazionale il sistema di programmazione finanziaria, costituisce una condizione indispensabile per la coesione sociale e la solidarietà all'interno della Repubblica, oltre che per l'unità giuridica ed economica di quest'ultima. La seconda sentenza, n. 275/2016, invece, merita particolare attenzione, in quanto la Consulta, ribaltando un precedente orientamento, ha stabilito un principio di assoluto rilievo in tema di tutela dei diritti fondamentali, e che occorre tener presente nella definizione delle condizioni di autonomia, quale contenuto essenziale delle future intese. La Consulta ha affermato che "è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio e non l'equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione", un'affermazione, questa, di portata generale, destinata ad operare come regola di sistema in tutti i casi in cui esigenze di attuazione dei diritti costituzionali ed esigenze finanziarie dovessero porsi in contrapposizione. Le sentenze della Corte Costituzionale, seppure in momenti e in contesti normativi diversi, sembrano spingere per riconoscere all'effettività dei diritti fondamentali una priorità rispetto ai vincoli di bilancio. Individuando nei confronti del legislatore statale l'obbligo di assicurare le risorse necessarie alla loro concretizzazione amministrativa, e, ove necessario anche ad intervenire ove le amministrazioni locali non utilizzano in modo efficiente tali risorse (art. 119 cost.). Ma allora, se questa è la cornice costituzionale dentro la quale si colloca, o si dovrebbe collocare, l'attuazione dell'autonomia differenziata, è lecito domandarsi quale dovrebbe essere il rapporto tra il principio di sussidiarietà previsto dall'art. 118 cost., con le sue implicazioni in termini di adeguatezza e differenziazione delle funzioni amministrative, e le ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia previste dall'art. 116, c. 3 cost.? In particolare, ci si chiede se, in una dimensione ideale, di efficace ed effettivo funzionamento

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della sussidiarietà, abbia senso modificare l'assetto istituzionale tra Stato e Regioni, oppure se dinanzi alla ineffettività dei diritti fondamentali, dovuta ad una incapacità delle amministrazioni locali, sia più giusto, più efficace rafforzare il versante dell'autonomia regionale, piuttosto che rivedere l'allocazione delle funzioni, differenziandole in base alla virtuosità o meno delle istituzioni locali. Sulla base delle riflessioni sin qui svolte, e tenuto conto delle posizioni dottrinali prevalenti, posso solo provare a delineare una delle possibili prospettive verso cui è possibile orientare la definizione di un nuovo modello di autonomia. Sulla dimensione quantitativa si è già detto, quello che occorre forse mettere a fuoco è invece la dimensione qualitativa della differenziazione, rispetto alla quale il nodo da affrontare, a mio avviso, è il ruolo degli enti locali, ed in particolare del comune, che costituisce senz'altro l'ente direttamente coinvolto nella erogazione dei servizi essenziali alla persona. E lo dico consapevole delle difficoltà in cui tali enti sono costretti a gestire le istanze della comunità rappresentata, difficoltà che attengono alla scarsità di risorse, alla inadeguatezza degli apparati burocratici, all'invecchiamento della popolazione, allo spopolamento delle aree interne, all'aumento della povertà dei ceti medi come fenomeno strutturale, senza contare, poi, le situazioni emergenziali che rendono ancora più difficile il ruolo dei comuni. Pensiamo, ad esempio al fenomeno dell'immigrazione. Per non parlare, infine, degli effetti, a mio avviso negativi, che l'abolizione delle Province ha determinato sull'assetto istituzionale, lasciando i comuni, specie quelli più piccoli, privi di un centro di raccordo. In questo scenario, la dimensione ideale di una autonomia differenziata efficace sul piano della effettività dei diritti e del benessere sociale, deve fare i conti con una realtà che ci consegna una immagine di governo locale in crisi. Ma questo, a mio avviso non deve scoraggiare, anzi un più ampio dibattito sui possibili modelli di autonomia differenziata ci può offrire l'occasione per rileggere il ruolo degli enti locali, secondo una chiave di lettura diversa di quel principio che li ha resi, almeno sulla carta, i protagonisti principali del modello autonomistico del titolo V, una chiave di lettura che ci viene offerta dalla stessa Corte Costituzionale, proprio in quegli orientamenti che paradossalmente hanno spinto verso il centralismo statale, che è quella della valorizzazione della funzione procedimentale, ed aggiungo, consensuale, della sussidiarietà, in base alla quale se è vero che l'avocazione della funzione amministrativa e legislativa è subordinata all'intesa con gli enti interessati, allo stesso modo anche l'attribuzione della titolarità della funzione deve essere procedimentalizzata, a garanzia dell'originaria ragionevolezza della stessa opzione distributiva come prima base dell'organizzazione della funzione. In questa prospettiva, e in mancanza di una camera delle regioni, non sembra azzardata la tesi di chi, da tempo, sollecita la necessità che le leggi regionali o statali di allocazione delle funzioni siano supportate da una motivazione, intesa non come onere, ma come requisito procedurale rivolto a consentire un sia pure limitato sindacato di costituzionalità (Falcon e Vipiana). Condivisibile o meno, tale suggestione evidenzia come la via della consultazione/contrattazione


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con gli enti primari, prodromica alla scelta legislativa circa l'allocazione del miglior esercizio delle funzioni, sia una via obbligata, poiché, come suggerisce autorevole dottrina, "la differenziazione non può che passare attraverso forme di consultazione tra i soggetti dotati di potere legislativo e gli enti locali coinvolti nel processo di differenziazione" (Urbani). Ed in questo senso, l'ipotesi di valorizzare il paradigma procedimentale della sussidiarietà consente di interpretare in una ottica sistematica, anche la previsione contenuta nell'art. 116, c. 3 cost., secondo la quale il riconoscimento di ulteriori condizioni di autonomia è subordinata, alla consultazione degli enti locali, nel rispetto dei principi solidaristici di cui all'art. 119 cost. Allo stesso tempo, inoltre, la centralità delle autonomie locali nel dibattito su autonomia e differenziazione, è, altresì, una logica conseguenza della configurazione pluralista della pubblica amministrazione, che porta a ritenere cruciale, ai fini di un'autonomia regionale efficiente, la capacità amministrativa delle autonomie locali. Per questa ragione si ritiene essenziale l'integrazione tra esigenze amministrative e prospettive legislative. Del resto, in un recente studio di J.E. Nijman, Renaissance of the City as Global Actors, che evidenzia come nella new global economy, sono le città, non più gli stati, ad essere le unità basilari dell'economia e della politica. In una diversa prospettiva, volta a cogliere le nuove frontiere del diritto amministrativo, JeanBernard Auby, nel suo importante saggio Droit de la ville (2016), sollecita la riflessione della scienza giuridica sul diritto alla città, sottolineando come questa sia soggetta ad un processo di evoluzione profonda. Si pensi al tentativo di costituire le smart cities, o alle riflessioni in atto sulle sustainable cities, tanto per fare un esempio. In questo contesto, è, quindi, possibile mettere in luce la rilevanza del ruolo dei livelli di governo locale nella sperimentazione di nuovi modi di amministrare, che possono essere replicati anche in ambiti più ampi. Si è osservato, infatti, come nelle città, ad esempio, si stanno sperimentando modelli pioneristici di partecipazione tra istituzioni e portatori di interessi che conducono a teorizzare un nuovo modello di governance, denominato co-città, nel quale la relazione con il territorio è basata non tanto sulla regolazione da parte dei governi locali, quanto su una cultura politica di condivisione e di cogestione. Sì che, muovendo da queste considerazioni si può cogliere il senso più profondo di sussidiarietà, che, come dicevamo prima, non significa solo privilegiare il livello di governo più vicino ai cittadini, ma, nella prospettiva appena delineata, può assumere significati più moderni in funzione di una maggiore efficienza amministrativa, come ad esempio, quello di valorizzare gli strumenti di co-gestione e indicarli come metodo di dialogo con i vari soggetti, di natura privata, pubblica, associativa, imprenditoriale, istituzionale, che abitano nello stesso momento della storia, le nostre comunità. Tutto ciò ci porta quindi ad affermare che la geografia istituzionale dovrebbe essere il risultato di riflessioni di carattere economico, sociale, culturale e politico, svolte in via preliminare alle richieste di autonomia e differenziazione.

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Per cui, se è vero che l'art. 116, c. 3, cost. si riferisce all'autonomia legislativa delle regioni, è altrettanto vero che tale competenza per essere efficace, deve essere supportata da un'azione amministrativa, vicina ai bisogni da affrontare e alle opportunità da sviluppare. Altrimenti si corre il rischio di sostituire al centralismo statale, un centralismo regionale anche peggiore in termini di uguaglianza e di effettività dei diritti. Sotto altro profilo, che riguarda la dimensione sovranazionale della tutela dei diritti fondamentali, non si può non riconoscere che l'opportunità di restituire centralità al ruolo delle autonomie locali, nel percorso verso la definizione di un nuovo modello di autonomia regionale, assume, una rinnovata centralità anche rispetto al processo di integrazione europea, che, a fronte della crescente sfiducia verso l'UE, come progetto istituzionale in grado di migliorare il benessere sociale della collettività, reclama un cambio di paradigma: e cioè non più, e non solo, uniforme applicazione del diritto dell'Unione, ma uniforme attuazione dei diritti e delle libertà fondamentali. Del resto il livello di penetrazione della Cedu nel nostro ordinamento, ha raggiunto un livello così profondo, anche in virtù del ruolo sempre più incisivo della Corte Europea, da pretendere una maggiore virtuosità delle amministrazioni nell'esercizio delle funzioni. E questo rinnovamento contiene in sé anche il recupero delle identità collettive, come il senso di appartenenza ad una comunità, che non può essere solo la sommatoria di tanti individui. Sono sempre più convinta, infatti, che il recupero dell'identità costituisca una condizione essenziale della libertà individuale, che è sempre più esposta al pericolo che Smith definiva "manipolazioni psicotecniche delle masse" e che, oggi, nell'era dei social network, appare ancora più preoccupante se consideriamo che la rete si configura sempre di più come la sede sociale "privilegiata" se non "esclusiva" della formazione della personalità degli individui. Dunque, andrebbe rinforzato, anche nel rapporto con le istituzioni europee, il valore procedimentale del principio di sussidiarietà, in armonia con i principi espressi già nel libro bianco sulla governance, che ha prospettato un modello decisionale a rete tanto più quando essi sono chiamati a concorrere in maniera particolarmente cospicua al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica determinati in sede europea. Penso ad esempio alle autorevoli sollecitazioni volte a promuovere una riforma del Comitato delle regioni di cui all'art. 35 del TFUE, al fine di rafforzare la portata applicativa dei principi sanciti dal trattato di Lisbona, confluiti negli artt. 4 e 5 del TUE, che valorizzano la sussidiarietà proprio come strumento di raccordo che coinvolge anche il livello locale. Infine, l'ipotesi di un'autonomia funzionale alla promozione dello sviluppo della persona, in cui sia riconosciuta maggiore centralità agli enti locali, potrebbe ulteriormente rafforzare lo stesso ruolo delle regioni nei rapporti con l'UE, innescando una competitività su scala regionale virtuosa, che spingerebbe le istituzioni locali e le parti sociali a riorganizzarsi sul piano amministrativo ed istituzionale per partecipare ai programmi di sviluppo finanziati dall'Unione europea. In tale direzione, significativi sforzi sono stati compiuti nel quadro del precedente ciclo della programmazione comunitaria, ma è evidente che i processi avviati devono essere riorientati in


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funzione del nuovo quadro di riferimento della politica europea, che espressamente individua, tra le priorità di azione, quella relativa al rafforzamento delle competenze tecniche e di governo delle amministrazioni e degli enti attuatori, per migliorare l'efficacia della programmazione e la qualità degli interventi pubblici, nonché per offrire servizi migliori alla cittadinanza. Sotto questo aspetto, quindi, le Regioni potrebbero assumere un ruolo significativo quali enti di raccordo, di programmazione e di promozione di modelli istituzionali a supporto delle comunità locali, nell'attuazione delle funzioni finalizzate allo sviluppo del benessere della persona. E ciò rafforza la convinzione che occorre ripensare in chiave unitaria ad un progetto di autonomia innovativo, che possa differenziarsi in funzione di una migliore allocazione delle competenze istituzionali, per stimolare la creazione di nuovi e più efficaci modelli di sviluppo locale. Un'autonomia, quindi, che sia, in un'ottica multilivello, davvero differenziata in funzione della effettività dei diritti della persona. Margherita Interlandi

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BASHAR AL-ASSAD: L’INTERVISTA CENSURATA DALLA RAI A scanso di equivoci e d'interpretazioni dietrologiche preciso subito che del presidente siriano penso tutto il male possibile e, condividendo in pieno il soprannome "macellaio di Damasco", affibbiatogli da chi evidentemente ha valide ragioni per definirlo tale, non ho bisogno di aggiungere altro in merito. Cionondimeno, questo non vuol dire pensare "tutto il bene possibile" dei suoi detrattori e dei suoi nemici. Tutt'altro. Ogni problematica sociale ha sempre più sfaccettature e non è mai facile districarsi tra bene e male, distinguendo nettamente il primo dal secondo. Se ciò vale in qualsiasi circostanza e per ogni contesto, nell'intricata matassa mediorientale, con i tanti attori che recitano a soggetto, l'impresa di separare in modo netto le ragioni dai torti è quasi al limite delle umane possibilità. Vanno seriamente rampognati, pertanto, i dirigenti RAI che hanno censurato l'ottima intervista realizzata da Monica Maggioni, il 26 novembre, che sarebbe dovuta andare in onda il 2 dicembre e, solo dopo le veementi proteste, resa disponibile su RaiPlay, una piattaforma non certo seguitissima. Non sappiamo le ragioni precise alla base della censura, anche se è lecito presupporre che vi siano state pressioni esterne, con argomenti evidentemente ritenuti validi. Nell'intervista, infatti, Assad appare in una luce diametralmente opposta a quella rappresentata dai media occidentali e le spiegazioni sulle dinamiche che hanno gettato la Siria nel baratro della "guerra civile" (tra virgolette perché non oso definirla in altro modo, anche se lui sostiene un'altra tesi) di certo non possono piacere ai governi occidentali. Se abbia detto o meno solo bugie, o se nelle sue parole vi siano bugie mischiate a verità, non tocca a me stabilirlo. Ho tratto delle conclusioni leggendo l'intervista e ritengo che ciascuno debba avere la possibilità di fare altrettanto. In altre circostanze, poi, non mi esimerò dal commentare le vicende mediorientali nel rispetto delle mie valutazioni e opinioni, ovviamente soggettive e opinabili come quelle di ciascuno. Ora, però, mi limito a mettere a disposizione dei lettori il testo dell'intervista, limitandomi a osservare che nessuno ha il diritto di considerare i cittadini dei cretini, assumendosi l'onere di stabilire cosa debbano leggere e cosa debba essere loro celato. Testo integrale dell'intervista di Monica Maggioni. D. Signor Presidente, grazie per averci ricevuto. Può dirci, per favore, qual è la situazione in Siria ora, qual è la situazione sul campo e cosa sta succedendo nel paese? R. Se vogliamo parlare della società siriana: la situazione è molto migliorata, poiché abbiamo


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imparato tante lezioni da questa guerra e penso che il futuro della Siria sia promettente; usciremo da questa guerra più forti. Per quanto concerne le forze armate, l'esercito siriano ha fatto progressi negli ultimi anni e ha liberato molte aree dai terroristi, eccezion fatta per la zona di Idlib, dove opera al-Nusra (Fronte del soccorso al popolo di Siria, legato all'Isis, ndr) che è supportato dai turchi e il nord della Siria, occupato dai turchi il mese scorso. Per quanto riguarda la situazione politica, si può dire che sta diventando tutto molto più complicato: vi sono molti attori coinvolti nel conflitto siriano il cui unico intento è trasformarlo in una guerra di logoramento. D. Sappiamo che esiste una visione militare per quanto concerne la guerra di liberazione, ma cosa può dirci relativamente alle persone che hanno deciso di tornare nelle loro città? Come procede il processo di riconciliazione? Sta funzionando? R. In realtà abbiamo utilizzato il termine "riconciliazione" per definire la metodologia adottata quando volevamo creare, diciamo, delle condizioni ottimali per le persone che vivono insieme e per quelle che vivevano al di fuori del controllo delle aree governative, con l'obiettivo di ripristinare il rispetto delle leggi e delle istituzioni. L'intento era quello di concedere l'amnistia a chiunque avesse deposto le armi, obbedendo alla legge. La situazione non è complicata per quanto riguarda questo problema: se ha la possibilità di visitare qualsiasi area, vedrà che la vita sta tornando alla normalità. Il problema non era rappresentato dalle persone che combattevano tra loro ed è falso ciò che è stato riportato dai media occidentali, ossia che i siriani combattono tra loro una "guerra civile", il che è fuorviante. In realtà i terroristi prendevano il controllo delle aree, imponendo le loro regole. Quando non vi saranno più terroristi, le persone torneranno alla loro vita normale e vivranno insieme. Non si trattava di una guerra settaria, o etnica, o politica: vi erano solo dei terroristi sostenuti da potenze straniere. Hanno denaro e armamenti e occupano quelle aree. (I due paragrafi conclusivi sono stati tradotti lasciando invariati i verbi al passato e al presente, in modo da trasmettere l'esatta successione mentale del pensiero di Assad, che ha inteso in prima battuta parlare dei terroristi come se fossero stati definitivamente sconfitti ("vi erano") e poi concludere con "hanno" e "occupano", evidentemente riferendosi a quelli presenti ancora nelle zone non liberate. Tutto ciò, ovviamente, solo nel rispetto delle sue considerazioni, che lo inducono a definire terroristi i nemici del regime da lui guidato, ndr) D. Non ha paura che questa ideologia, alla base della vita quotidiana delle persone per così tanti anni, in qualche modo possa permeare la società e prima o poi riaffiorare? R. Questa è una delle principali sfide che abbiamo dovuto affrontare. La sua domanda è corretta. Ci sono due problemi. Le aree al di fuori del controllo governativo soggiacevano al caos, in mancanza di una legge. Le persone, pertanto, specialmente le giovani generazioni, non sanno nulla dello stato, della legge e delle istituzioni. Il secondo problema riguarda l'ideologia, che è profondamente radicata nelle menti. L'ideologia oscura, come la wahabita, ISIS, al-Nusra, Ahrar al-Cham, o qualsia altra ideologia islamica estremista, adusa al terrorismo. Ora abbiamo iniziato a occuparci di questa realtà, perché quando si libera un'area occorre risolvere questo problema, altrimenti qual è il significato di liberazione? La prima parte della soluzione è religiosa, perché

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questa ideologia è un'ideologia religiosa e i religiosi siriani, o per meglio dire l'istituzione religiosa in Siria, sta facendo uno sforzo molto forte in questo senso ed è riuscita a far comprendere alle persone il senso della vera religione, sopperendo ai falsi insegnamenti praticati da Al-Nusra, ISIS o altre fazioni. D. Quindi, in sostanza, i chierici e le moschee fanno parte di questo processo di riconciliazione? R. Questa è la parte più importante. La seconda parte riguarda le scuole. Nelle scuole vi sono insegnanti che istruiscono gli alunni, seguendo un percorso formativo molto importante per cambiare le idee delle giovani generazioni. Il terzo punto riguarda la cultura, gli artisti, gli intellettuali e così via. In alcune aree è ancora difficile svolgere attività formativa e quindi è stato molto più facile iniziare con la religione e poi avviare la formazione scolastica. D. Signor Presidente, vorrei solo tornare alla politica per un istante. Ha menzionato la Turchia. La Russia è stata il suo miglior alleato in questi anni e ciò non è un segreto, ma ora la Russia sta cooperando con la Turchia in alcune aree della Siria. Che cosa pensa al riguardo? R. Per comprendere il ruolo della Russia dobbiamo comprendere i principi russi. I russi credono che il diritto internazionale - e l'ordine internazionale basato su quella legge - sia nell'interesse della Russia e nell'interesse di tutti nel mondo. Per loro, quindi, sostenere la Siria vuol dire sostenere il diritto internazionale. Questo è un dato di fatto. In secondo luogo, essere contro i terroristi è nell'interesse del popolo russo e del resto del mondo. Allearsi con la Turchia e accettare questo compromesso, pertanto, non significa che intendano sostenere l'invasione turca: casomai volevano svolgere un ruolo al fine di convincere i turchi a lasciare la Siria. Non sostengono i turchi, non dicono "questa è una buona cosa, la accettiamo e la Siria deve accettarla." No, non lo fanno. Sono intervenuti a causa del ruolo negativo americano e occidentale nei confronti della Turchia e dei curdi, al solo fine di bilanciare quel ruolo, per rendere la situazione... non dico migliore, ma meno grave, tanto per essere più preciso. Attualmente è questo il loro compito. Per il futuro la loro posizione è molto chiara: integrità siriana e sovranità siriana. L'integrità e la sovranità siriane sono in contraddizione con l'invasione turca, che è molto ovvia e chiara. D. Quindi mi sta dicendo che i russi potrebbero scendere a compromessi, ma la Siria non si comprometterà con la Turchia. Voglio dire, la relazione è ancora piuttosto tesa. R. No, neppure i russi hanno effettuato un compromesso riguardo alla sovranità. No, loro hanno a che fare con la realtà. Ora vi è una brutta realtà ed è necessario essere coinvolti per fare qualcosa. non direi un compromesso, perché non è una soluzione finale. Potrebbe essere un compromesso per quanto riguarda la situazione a breve termine, ma nel lungo termine o nel medio termine, la Turchia dovrebbe andarsene. Non ci sono dubbi al riguardo. D. E sul lungo termine, è possibile qualche piano di discussione tra lei ed Erdogan? R. Non mi sentirei fiero se un giorno ciò dovesse accadere. Mi sentirei disgustato nel trattare con quegli islamisti opportunisti, non musulmani, ma islamisti! E' un altro termine! E' un termine politico! Ancora una volta, però, dico ciò che ho sempre detto: il mio lavoro non consiste nell'essere contento o meno per ciò che sto facendo, di non essere felice o altro. Non riguarda i


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miei sentimenti, riguarda gli interessi della Siria, quindi io andrò ovunque andranno i nostri interessi. D. In questo momento, quando l'Europa guarda alla Siria, a parte le considerazioni sul paese, ci sono due problemi principali: i rifugiati e i jihadisti o combattenti stranieri che tornano in Europa. Come giudica queste preoccupazioni europee? R. Dobbiamo iniziare con una semplice domanda: chi ha creato questo problema? Perché vi sono rifugiati in Europa? È una domanda semplice: tutto è dipeso dal terrorismo sostenuto dall'Europa - e ovviamente dagli Stati Uniti, dalla Turchia e da altri. L'Europa, tuttavia, è stata la principale responsabile nella creazione del caos in Siria. Quindi, ciò che va, torna. (Traduzione letteraria di un'espressione idiomatica, "what goes around comes around", traducibile appropriatamente con la frase "Ecco le vere cause di ciò che è accaduto - o "di ciò che accade", ndr) D. Perché attribuisce all'Europa la responsabilità principale? R. Perché l'Unione Europea ha sostenuto pubblicamente i terroristi in Siria dal primo giorno, dalla prima settimana, dai prodromi della rivolta. Hanno incolpato il governo siriano e alcuni stati, come la Francia, hanno inviato armi e munizioni. Penso che il loro ministro degli Esteri, forse Fabius, abbia detto: "mandiamo". Hanno inviato armi e hanno creato questo caos. Ecco perché molte persone hanno difficoltà a rimanere in Siria; milioni di persone sono state costrette ad abbandonare la Siria. D. In questo momento, nella regione, si registrano disordini e caos. L'Iran è un alleato della Siria e la situazione sta diventando complicata. Riflette sulla situazione in Siria? R. Sicuramente. Il caos è sempre un male per tutti: avrà effetti collaterali e ripercussioni, specialmente in presenza di interferenze esterne. Se è spontaneo, se scaturisce da proteste di persone che chiedono riforme o una migliore situazione economica o altri diritti, è positivo. Ma quando scaturisce da atti di vandalismo, distruzione, uccisione e interferenze da parte dei poteri esterni, non lo è In questi casi è assolutamente negativo, cattivo, un pericolo per tutti i cittadini. D. E' preoccupato per quello che sta succedendo in Libano, il vero vicino di casa? R. Sì. Sono preoccupato per il Libano come lo sono per la Siria. Naturalmente il Libano influenzerebbe la Siria più di qualsiasi altro paese, perché è il nostro vicino diretto. Ma, mi ripeto, se (il caos, ndr) è spontaneo e riguarda la richiesta di riforme per liberarsi di un sistema politico settario, sarebbe positivo per il Libano. Lo ribadisco: tutto dipende dalla consapevolezza del popolo libanese al fine di non consentire a nessuno, dall'esterno, di provare a manipolare il movimento o le manifestazioni spontanee in Libano. (Si noti il sottile stile diplomatico nel "dire e non dire": usa il termine "settario", abbastanza vago all'udito, anche se il significato è ben definito. Saad Hariri ha rassegnato le dimissioni da primo ministro del Libano nel mese di ottobre e in passato aveva "chiaramente" dichiarato che Assad deve lasciare la guida del paese. I giochi che riguardano i due paesi confinanti sono molto complessi e delicati, ndr). D. Torniamo a ciò che sta accadendo in Siria. A giugno, papa Francesco le ha scritto una lettera chiedendole di prestare attenzione e rispettare la popolazione, soprattutto a Idleb dove la

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situazione è ancora molto tesa, perché lì si combatte. Vi è anche un riferimento alle modalità di trattamento dei prigionieri nelle carceri. Gli ha risposto? E in caso affermativo cosa gli ha detto? R. La lettera del Papa riguardava la preoccupazione per i civili in Siria e ho avuto l'impressione che forse il quadro della situazione, in Vaticano, non fosse completo. Ciò è prevedibile, dal momento che la narrativa principale in Occidente parla di questo "cattivo governo" che uccide la "brava gente", come riferito dai media: ogni proiettile dell'esercito siriano uccide solo i civili e ogni bomba cade solo sugli ospedali! Non si uccidono i terroristi e si prendono di mira i civili, la qual cosa non è corretta. Ho risposto, quindi, con una lettera che spiegava al Papa la realtà in Siria, dal momento che siamo i primi a preoccuparci della vita dei civili, perché non si può liberare un'area mentre i civili sono ostili. Non si può parlare di liberazione mentre i civili ti combattono apertamente. La parte più cruciale nel liberare militarmente qualsiasi area è quella di avere il sostegno della gente, nell'area interessata o nella regione in generale. Ciò è stato chiaro negli ultimi nove anni e ciò è contrario ai nostri interessi. D. Quell'appello, tuttavia, in qualche modo le ha consentito di riflettere sull'importanza di proteggere i civili e le persone del suo paese. R. No. A questo pensiamo ogni giorno, non solo dal punto di vista della morale, dei princìpi, dei valori, ma anche nel rispetto dei nostri interessi. Come ho appena detto, senza questo supporto senza il sostegno pubblico, non si può ottenere nulla… non si può progredire politicamente, militarmente, economicamente e in ogni aspetto. Non avremmo potuto sostenere questa guerra per nove anni senza il sostegno del popolo e non si può avere supporto pubblico mentre si uccidono i civili. Questa è un'equazione, un'equazione evidente: nessuno può smentirla. Quindi, è per questo che ho detto, indipendentemente dalla lettera: "Questa è la nostra preoccupazione". Ma, lo ripeto, il Vaticano è uno stato e pensiamo che il ruolo di qualsiasi stato, se si preoccupa dei civili, è quello di comprendere le principali cause (dei problemi, ndr), che sono determinate dal ruolo occidentale nel sostenere i terroristi e dalle sanzioni al popolo siriano, che hanno peggiorato la situazione. Questa è anche una delle cause che hanno prodotto un alto numero di rifugiati in Europa. Non volete rifugiati ma, allo stesso tempo, create le condizioni ottimali per dire loro: "Vai fuori dalla Siria, da qualche altra parte" e ovviamente loro andranno in Europa. Quindi, questo stato o qualsiasi stato, dovrebbe occuparsi delle reali cause speriamo che il Vaticano possa svolgere questo ruolo in Europa e nel mondo: convincere gli altri stati che devono smettere di immischiarsi nella questione siriana, smettere di violare il diritto internazionale. Basta! Abbiamo solo bisogno che le persone seguano il diritto internazionale. I civili saranno al sicuro, l'ordine tornerà, tutto andrà bene. Nient'altro. D. Signor Presidente, diverse volte è stato accusato di usare armi chimiche e ciò ha rappresentato un punto chiave, la linea rossa, alla base di molte decisioni. Un anno fa, più di un anno fa, si è verificato l'evento Douma che è stato considerato un'altra linea rossa. Successivamente, ci sono stati bombardamenti, e avrebbe potuto essere anche peggio, ma qualcosa si è fermato. In questi giorni, attraverso WikiLeaks, è emerso che potrebbe essere stato riportato qualcosa di sbagliato nel rapporto e nessuno è ancora in grado di dire cosa sia successo. (Nell'aprile 2018 la città di


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Douma subì un bombardamento che provocò oltre cento morti, per lo più in un ospedale, e molti feriti che presentavano chiari sintomi d'intossicazione. Si parlò apertamente di attacco chimico da parte delle truppe di Assad e le foto raccapriccianti delle vittime fecero il giro del mondo. Pochi giorni dopo Francia, USA e Inghilterra reagirono con un massiccio bombardamento contro le truppe siriane. Recentemente, però, WikiLeaks ha diffuso una e-mail di un ispettore dell'Organizzazione per la Proibizione delle Armi chimiche che lascia affiorare le sue perplessità, con considerazioni che vanno in direzione di una possibile montatura. Ovviamente non vi è da escludere che la montatura riguardi proprio il tentativo di depistaggio e la verità sia ancora nell'ombra. I morti civili, tuttavia, sono reali, ndr.) R. Sin dall'inizio di questa storia abbiamo detto di non aver utilizzato armi chimiche. Non possiamo usarle. E impossibile usarle nelle condizioni in cui versiamo per molte ragioni; diciamo: "ragioni logistiche". D. Me ne dica una. R. Una è molto semplice: quando si avanza, perché dovremmo usare armi chimiche?! Stiamo avanzando! Perché dobbiamo usarle? Siamo in un'ottima situazione, quindi perché usarle, soprattutto nel 2018? Questo è uno dei motivi. Vi sono, poi, prove molto concrete che confutano questa narrativa: quando si usano armi chimiche - questa è un'arma di distruzione di massa - si parla di migliaia di morti o almeno centinaia. Ciò non è mai accaduto, mai: vi è solo la messa in scena degli attacchi con video truccati. Nel recente rapporto che ha citato c'è una discrepanza tra ciò che abbiamo visto nel video e ciò che hanno visto i tecnici e gli esperti. Parliamo della quantità di cloro riportata: prima di tutto, il cloro non è un materiale di distruzione di massa; in secondo luogo, la quantità che hanno trovato è la stessa quantità che si può avere in casa, esiste in molte famiglie ed è utilizzata forse per la pulizia e quant'altro. Esattamente la stessa quantità. L'OPCW (Organizzazione per la Proibizione delle Armi chimiche, ndr) ha falsificato il rapporto, solo perché è stato imposto loro dagli americani. Per fortuna, quindi, questo rapporto ha dimostrato che tutto ciò che abbiamo detto negli ultimi anni, dal 2013, è corretto. Avevamo ragione, avevano torto. Questa è una prova, una prova concreta riguardo a questo problema. Quindi, lo ribadisco, l'OPCW è di parte, viene politicizzata ed è immorale, e quelle organizzazioni che dovrebbero lavorare in parallelo con le Nazioni Unite per creare più stabilità in tutto il mondo sono state usate come armi statunitensi e occidentali per creare più caos. D. Signor Presidente, dopo nove anni di guerra, lei parla degli errori degli altri. Vorrei che parlasse dei suoi errori, se presenti. C'è qualcosa che avrebbe fatto in modo diverso e qual è la lezione appresa che può aiutare il suo paese? R. Quando si fa qualcosa, ovviamente, si commettono sempre degli errori: questa è la natura umana. Quando si parla di attività politica, tuttavia, vi sono due cose da prendere in considerazione: strategie o grandi decisioni e tattiche o, in questo contesto, l'implementazione. Le nostre decisioni strategiche o le nostre decisioni principali, pertanto, dovevano contrastare il terrorismo, favorire la riconciliazione e contrastare le ingerenze esterne nei nostri affari. Oggi, dopo nove anni, adottiamo ancora la stessa politica; siamo più aderenti a questa politica. Se

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avessimo pensato che fosse sbagliato, avremmo cambiato strategia. In realtà non pensiamo che ci sia qualcosa di sbagliato in questa politica. Abbiamo compiuto la nostra missione; abbiamo implementato la costituzione proteggendo le persone. Ora, se si parla di errori nell'implementazione, ovviamente se ne possono reperire tanti. Penso che se si vuole parlare degli errori riguardanti questa guerra, non dovremmo parlare delle decisioni prese durante la guerra perché la guerra - o parte di essa - è il risultato di qualcosa stabilito in precedenza. Durante questa guerra abbiamo fronteggiato due problematiche. La prima problematica riguarda l'estremismo, in particolare quello wahabita, iniziato in questa regione alla fine degli anni sessanta, con forte incremento negli anni ottanta. Se si vuole parlare degli errori commessi nell'affrontare questo problema, dirò che eravamo molto tolleranti nei confronti di qualcosa di molto pericoloso. Questo è un grosso errore che abbiamo commesso nel corso di decenni. Sto parlando di diversi governi, incluso me stesso prima di questa guerra. La seconda problematica: quando vi sono persone pronte a ribellarsi contro l'ordine costituito, a distruggere proprietà pubbliche, a commettere atti di vandalismo e così via, a compiere atti ostili contro il loro paese, a mettersi al servizio di potenze straniere e i loro servizi segreti, chiedendo loro di interferire militarmente contro il loro stesso paese, occorre chiedersi come sia stato possibile che sia accaduto tutto ciò. Se me lo chiede posso rispondere, per esempio, che prima della guerra avevamo più di 50.000 fuorilegge in libertà, mai catturati dalle forze dell'ordine. Il nemico naturale di quei fuorilegge, ovviamente, è il governo, perché non vogliono andare in prigione. D. E cosa mi dice circa la situazione economica? Parte del malcontento della popolazione - non so se fosse una grande o piccola parte - si è manifestata in alcune aree in cui l'economia non funzionava. Anche questo è scaturito da fattori esterni? R. Potrebbe essere una causa (l'economia che non funzionava, ndr) ma sicuramente non la principale. Alcuni parlano dei quattro anni di siccità che hanno spinto la gente a lasciare la propria terra nelle aree rurali per recarsi in città ... potrebbe essere un problema, ma non il problema principale. Hanno parlato della politica liberale... non avevamo una politica liberale, siamo ancora socialisti, abbiamo ancora un settore pubblico molto incisivo nel governo. Non si può parlare di politica liberale con un imponente settore pubblico. Abbiamo avuto una crescita, una buona crescita, il che non ci ha impedito di commettere degli errori nell'attuazione della nostra politica. Come si possono creare pari opportunità tra le persone? Tra le zone rurali e le città? Quando l'economia si espande, le città ne traggono maggiori benefici e ciò crea più immigrazione dalle aree rurali alle città. Questi sono fattori che potrebbero determinare qualcosa, ma non costituiscono un problema. Nelle zone rurali in cui si ha più povertà, il denaro del Qatar ha svolto un ruolo più incisivo rispetto a quanto verificatosi nelle città: le persone guadagnavano in mezz'ora il salario di una settimana e ciò andava molto bene per loro. (Il Qatar è stato uno dei principali finanziatori dell'ISIS, anche se ufficialmente ne ha sostenuto la lotta schierandosi al fianco dei governi occidentali. La matassa è complicata e ha radici antiche, che riguardano anche la mancata autorizzazione di Bashar Assad, nel 2009, al passaggio di un gasdotto dal Qatar verso l'Europa, attraverso Arabia Saudita, Giordania, Siria e


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Turchia, per tutelare gli interessi degli amici russi, principali fornitori di gas naturale all'Europa, ndr) D. L'intervista è quasi terminata, ma voglio porre ancora due domande. La prima riguarda la ricostruzione, che sarà molto costosa. Come pensa di realizzarla e con chi? R. Non abbiamo grossi problemi. Si dice che la Siria non abbia soldi; in realtà i siriani hanno molti soldi; il popolo siriano nel mondo ha molti soldi e vuole venire a costruire il suo paese. Perché quando si parla di ricostruire il paese, non si tratta di dare soldi alle persone, si tratta di ottenere benefici: è un business. Quindi, molte persone, non solo siriane, vogliono fare affari in Siria. Quando si chiede dove reperire i fondi per la ricostruzione, quindi, possiamo dire di averli già reperiti. Il problema è che le sanzioni impediscono agli uomini d'affari o alle aziende di venire e lavorare in Siria. Nonostante ciò, alcune società straniere hanno iniziato a trovare modi per eludere queste sanzioni e abbiamo iniziato a pianificare. Sarà un processo lento: senza le sanzioni non avremmo problemi con i finanziamenti. D. Concludo con una domanda molto personale, signor Presidente: si sente un sopravvissuto? R. Se si riferisce a una guerra nazionale come questa, che ha visto quasi tutte le città danneggiate dal terrorismo, dai bombardamenti esterni e da altre cose, allora si può dire che tutti i siriani siano dei sopravvissuti. Penso che questa sia la natura umana: essere un sopravvissuto. D. E per quanto riguarda lei? R. Faccio parte di quei siriani. Non posso essere disconnesso da loro; ho la stessa sensazione. Preciso: non mi definisco una persona forte che è sopravvissuta. Se non percepisci questa atmosfera, questa società o questa incubatrice per sopravvivere, non puoi sopravvivere. È un fatto collettivo; non riguarda una sola persona, non è uno spettacolo individuale. Monica Maggioni: Grazie mille, signor Presidente. Assad: grazie. Traduzione e note integrative di Lino Lavorgna

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PROBLEMATICITA’ DELLA CARTA In vista dell'entrata in vigore, nel 2021, della Direttiva UE sugli articoli monouso in plastica (2019/904), che vieterà la vendita sul mercato europeo di una decina di prodotti di uso comune, si inizia a manifestare la difficoltà di fornire alternative altrettanto sicure e prestazionali a cannucce, imballaggi alimentari e stoviglie in materiale plastico. Anche perché alcune grandi aziende, istituzioni e amministrazioni locali, per eccesso di zelo, stanno bruciando i tempi e allargando in modo indiscriminato la rosa di articoli messi al bando. Il rischio per la salute dei consumatori, da alcuni paventato, che potrebbe derivare dalla sostituzione di un materiale ampiamente studiato, testato e regolamentato nel settore alimentare, come la plastica con altri meno indagati, potrebbe essere più concreto di quanto si pensi. Va infatti ricordato che gli imballi in plastica a contatto con alimenti devono sottostare a prescrizioni molto rigide sulla migrazione di monomeri e altre sostanze chimiche, così come sull'utilizzo di inchiostri per la stampa, che non sempre valgono per le confezioni prodotte con materiali diversi. A sollevare la questione non sono stati, per una volta, i produttori di materie plastiche, ma l'associazione europea dei consumatori BEUC, in un rapporto intitolato "More Than A Paper Tiger" (più di una tigre di carta), dove vengono riportati risultati di analisi di laboratorio condotte su imballaggi e altri articoli a contatto con alimenti in carta e cartone colorati, come ad esempio le tazze per caffè o le cannucce. I risultati dello studio non sono rassicuranti: emergerebbero infatti potenziali rischi per la salute dovuti all'esposizione a un numero elevato di sostanze chimiche contenute negli inchiostri utilizzati per la stampa, tra i quali pigmenti, leganti, solventi o additivi di varia natura, ad esempio stabilizzanti UV e fotoiniziatori. I ricercatori stimano che potenzialmente potrebbero essere oltre 5.000 le sostanze utilizzate in questo ambito applicativo, solo una piccola frazione delle quali analizzata e valutata in maniera sistematica dall'Agenzia europea per la sicurezza alimentare (EFSA). "La carta è il secondo materiale di imballaggio alimentare più utilizzato dopo la plastica" sostengono gli esperti della BEUC commentando i dati. "A differenza della plastica, tuttavia, non esistono norme UE che disciplinano l'uso della carta come materiale a contatto con gli alimenti". Potrebbero essere oltre 5.000 le sostanze chimiche contenute negli inchiostri utilizzati per la stampa, delle quali solo una piccola frazione è stata analizzata e valutata in maniera sistematica dall'Agenzia europea per la sicurezza alimentare. Per garantire obiettività e una copertura internazionale, le analisi sono state condotte da quattro associazioni nazionali - in Italia da


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Altroconsumo - su 76 campioni di imballaggio e articoli monouso in carta stampata o cartone per alimenti, come bicchieri da caffè, cannucce di carta, tovaglioli e imballi per prodotti alimentari. I risultati mostrano che: - Oltre un campione su sei conteneva ammine aromatiche primarie, alcune delle quali sono sospettate di provocare il cancro. Nove campioni contenevano queste sostanze in quantità superiore al limite stabilito dal regolamento UE sulle materie plastiche. - Quasi tutti i 76 campioni sottoposti ad analisi contenevano sostanze che agiscono come filtri UV. Alcune di queste sono sospettate di provocare il cancro o di perturbare il sistema endocrino. Ulteriori analisi eseguite su 21 campioni hanno dimostrato che i filtri UV sono in grado di migrare negli alimenti oltre i livelli raccomandati in almeno sei prodotti, compresa una scatola di uvetta per bambini. - La sicurezza della maggior parte delle sostanze soggette a migrazione negli alimenti non è stata valutata dall'EFSA. È però prematuro affermare che vi sia un rischio imminente, poiché nessuno dei prodotti sottoposti a test, da solo, è in grado di mettere in pericolo la salute umana; d'altro canto, ognuno di essi contribuisce ad aumentare l'esposizione dei consumatori a sostanze chimiche problematiche e, in alcuni casi, non adeguatamente valutate. La maggior parte dei consumatori ritiene che ogni materiale a diretto contatto con gli alimenti sia privo di sostanze chimiche nocive, ma purtroppo non è così. Le sostanze chimiche contenute negli imballaggi che migrano negli alimenti alla fine entrano nel nostro corpo, ma non è quello il loro posto. Per proteggere la salute dei consumatori, l'UE deve sviluppare norme rigorose che siano più di una tigre di carta. Monique Goyens, direttore generale del BEUC. Nel corso dell'estate, in Gran Bretagna, un'altra tegola ha colpito le cannucce di carta che McDonald's si è affrettata a introdurre nei propri fast-food per sostituire - ben prima che fosse richiesto dalla direttiva SUP (Single Use Plastics) - quelle di plastica. Un atto non dovuto, che oltre tutto non è stato apprezzato né dai consumatori - che lamentano la dispersione di pezzi di carta nelle bevande durante l'uso (mentre avrebbero dovuto resistere almeno 30 minuti prima di dissolversi) - né dagli ambientalisti, specie dopo che McDonald's ha dovuto ammettere che, a causa del loro spessore, le cannucce non vengono avviate al riciclo della carta, ma conferite nei rifiuti indifferenziati. Il colosso del fast-food si è però rifiutato di reintrodurre le cannucce di plastica, anche se sta conducendo test per trovare un'alternativa più performante. Anche le bioplastiche sono finite sotto la lente, questa volta in Italia, dopo che una dirigente della società di servizi ambientali toscana Alia ha invitato gli utenti a conferire i manufatti in bioplastica compostabile - sacchetti compresi - nella raccolta indifferenziata e non nell'umido a causa delle difficoltà incontrate dagli impianti di compostaggio industriale nel trattare questo tipo di articoli. Se è vero che, in base alla direttiva SUP, le bioplastiche non sono espressamente ammesse come alternative alle plastiche tradizionali, alcune catene della GDO hanno iniziato sostituire le stoviglie in plastica con quelle in biopolimero, ritenute più accettabili sotto il profilo ambientale, terminando la loro vita utile nella filiera dei rifiuti organici, previa raccolta differenziata insieme

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agli scarti di cucina, trasformandosi in compost. Sull'argomento è dovuto intervenire il Consorzio Italiano Compostatori (CIC), ricordando che la rispondenza allo standard europeo UNI EN 13432 garantisce che le bioplastiche possono essere incorporate, in senso generale, nei processi di compostaggio industriale, dove si comportano in maniera analoga allo scarto organico, ossia vengono in parte convertite in acqua e anidride carbonica, e in parte trasformate in compost. Meglio sarebbe, in ogni caso, che i manufatti siano dotati del marchio Compostabile CIC, il cui ottenimento prevede che la prova di disintegrabilità venga condotta in condizioni reali, ossia in un impianto di compostaggio. Le criticità, aggiunge però il Consorzio, potrebbero sorgere dall'aumento della quantità e tipologia di manufatti monouso in bioplastica; anche a seguito dell'entrata in vigore della direttiva SUP (qualora le norme di recepimento esonerino questi materiali dal divieto): quindi non solo sacchetti, ma anche piatti, bicchieri, posate, capsule del caffè, cannucce… Attualmente questi manufatti rappresentano meno del 10% del mercato delle plastiche compostabili - nota il CIC -, ma la loro diffusione potrebbe assumere dimensioni ben più rilevanti. Ciò potrebbe creare confusione tra i consumatori nell'atto di differenziare correttamente i rifiuti, dovendo separare i manufatti compostabili da quelli realizzati in materiali plastici convenzionali, non sempre facilmente identificabili tra loro. Difficoltà a cui andranno inevitabilmente incontro anche gli operatori della raccolta e gli addetti al riciclo dei rifiuti organici. Non solo: la presenza di manufatti compostabili non conformi alla norma UNI EN 13432 porterebbe a un pericoloso decadimento della qualità delle raccolte differenziate e un conseguente pesante aggravio dei costi dell'intera filiera del recupero del rifiuto organico, che ricadrebbe inevitabilmente sulle spalle dei cittadini. Infine - segnala il Consorzio dei compostatori - l'aumento dei quantitativi di manufatti compostabili delle più diverse fogge e dimensioni negli scarti di cucina, avrà come inevitabile conseguenza un significativo cambiamento delle caratteristiche merceologiche e fisiche dei rifiuti organici che gli impianti devono trattare. Il che imporrà adeguamenti tecnici e procedurali agli impianti di trattamento, con relativi costi a carico della filiera. Pietro Angeleri


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PROTESTE CONTRO NATURA Protestare contro i cambiamenti climatici, che ci sono sempre stati e sempre ci saranno, è come contestare i temporali. Sono fenomeni che fanno parte delle dinamiche della natura, alcuni sono ciclici e prevedibili come le stagioni, altri sono improvvisi e imponderabili come i terremoti. Eventi che dipendono da un’enorme quantità di fattori in continua modificazione, che nessun modello m atematico è in grado di elaborare. L’isteria collettiva mette sul banco degli imputati i cosiddetti gas serra e principalmente la CO2, accusata di essere la causa primaria del surriscaldamento del pianeta. L’anidride carbonica è invece fonte di vita: è indispensabile per le piante che la trasformano in ossigeno attraverso la fotosintesi clorofilliana. Senza la CO2 non ci sarebbe alcuna forma di vita sulla terra. Per compensare l’aumento dell’anidride carbonica che comunque va contenuto basterebbe incrementare la quantità di alberi e di superfice verde. L’aria che respiriamo è costituita per l’78% di azoto, 21% di ossigeno e 1% di altri gas, dove la CO2 è presente per lo 0,03%. Un eventuale aumento della concentrazione di anidride carbonica quale incidenza può avere nei cambiamenti climatici in atto? Praticamente nulla. Questo, chiaramente, non significa che non va contrastato l’inquinamento dell’aria causato dalle attività umane (industria, riscaldamento, auto). Tutt’altro. Il nostro pianeta è un circuito chiuso dove tutto si trasforma, nulla si crea e nulla si distrugge (legge della conservazione della massa, Lavoisier). La quantità di energia prodotta è sempre uguale a quella consumata… se non intervengono fattori esterni. intervengono fattori esterni. L'aumento o la diminuzione della temperatura media della superfice terrestre dipende da due condizioni: il sottosuolo, costituito dalla lava che fuoriesce attraverso i vulcani, e l'irradiazione del sole. E' sufficiente un aumento delle attività vulcaniche di superficie e/o sotto gli oceani (la terra galleggia su un mare di magma incandescente) o un impercettibile scostamento dell'inclinazione del sole rispetto alla terra per determinare i cosiddetti cambiamenti climatici. determinare i cosiddetti cambiamenti climatici. La terra, da quando è nata, circa quattro miliardi di anni fa, ha subito ben quattro glaciazioni (l'ultima, quella di Würm è avvenuta 100 mila anni fa), e tra una glaciazione e l'altra il clima e la temperatura della superficie terrestre si sono ovviamente modificati. Questi cambiamenti sono avvenuti a volte in maniera graduale e quasi impercettibile, considerato il lungo lasso di tempo in cui sono avvenuti, e altre volte in modo repentino, come

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AMBIENTE

avvenne 15 mila anni con l'interstadio di Allerod che portò all'improvviso scioglimento dei ghiacciai alpini. Pretendere che il clima sia perennemente stabile e immutabile e attribuire all'uomo il cambiamento in atto, significa non aver capito nulla di come funziona la natura. Gianfredo Ruggiero


DA LEGGERE

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CULTURA SOCIETA’

Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

www.confini.org

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