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Web-magazine di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

GLEBALIZZAZIONE

Numero 78 Settembre 2019


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Confini Webmagazine di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Numero 78 - Settembre 2019 Anno XXI

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti - Cristofaro Sola +

Hanno collaborato: Max Fati Gianni Falcone Clemente Forte Roberta Forte Giny Pierre Kadosh Lino Lavorgna Sara Lodi Antonino Provenzano Angelo Romano Gianfredo Ruggiero Cristofaro Sola Andrea Torresi +

Contatti: confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone e Sara Lodi

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EDITORIALE

LA LIBERTA’ EVANESCENTE Non saziandovi di quel che desiderate si conquista la libertà, bensì sopprimendo il desiderio. (Epitteto)

Nel mondo moderno la libertà viene compressa ogni giorno di più. Norme, leggi, regolamenti, ordinanze, divieti, prescrizioni si affastellano sugli individui in maniera crescente, asfissiandoli. In teoria spingendo all'infinito le attività degli organi legislativi, normativi e burocratici si avrebbero prescrizioni infinite. Come in parte già accade in Italia. Anche se avesse un senso la frase "la mia libertà finisce dove comincia quella del mio vicino" 1 attribuita a Martin Luther King, ma in realtà pensata e meglio formulata da Kant - tale libertà (ancorché non definita nel contenuto) si ridurrebbe proporzionalmente al crescere della popolazione e non v'è dubbio che la libertà di cui godevano i coloni americani nella corsa ai territori inesplorati dell'ovest fosse incomparabilmente più ampia di quella di cui si gode, per lo più, oggi in un condominio. Per lo più perché per chi ha risorse sovrabbondanti è ancora possibile esplorare lo spazio e non solo. A questo vanno aggiunti gli infiniti controlli ai quali si viene quotidianamente sottoposti: videosorveglianza, tra poco, grazie al 5G, con riconoscimento facciale, come in Cina (ogni uscita di un cittadino in Italia è mediamente registrata da almeno 100 telecamere, in Gran Bretagna da almeno 200), audiosorveglianza e intercettazioni (Echelon e trojan vari), monitoraggio delle propensioni al consumo e correlata schedatura digitale dei profili psicografici. Per non parlare dei controlli sui mezzi di trasporto e su strade e autostrade e delle recenti manie censorie di alcuni "social network" pronti a sospendere o cancellare gli utenti ritenuti "politicamente scorretti" in barba alla libertà di espressione ma ossequienti al principio "capitalistico": "a casa mia comando io", quindi la mia libertà è fin dove si spinge il mio dominio, dei diritti altrui non mi importa un beneamato.... altro che antiche regole dell'ospitalità. Tanta pressione fa sì che gli individui spesso perdano la bussola e confondano la libertà con l'essere lasciati in pace nella microsfera della cosiddetta "privacy" o, peggio, la confondano con la pazza voglia di fare strage di innocenti. Questo stato di cose, unitamente al predominio dell'economia sulla politica e della finanza su tutto ci ha resi e ci rende "glebalizzati", ossia simili a coloro che un tempo erano definiti "servi della gleba". Paradossalmente in una situazione addirittura peggiore dei nostri omologhi medievali. Loro, pur essendo legati indissolubilmente ad un pezzo di terra da coltivare avevano almeno delle guarentigie feudali e la pagnotta assicurata dal duro lavoro, i moderni sono invece


EDITORIALE

legati ad una fragile "opportunità" di lavoro, non importa se al di sotto delle minime necessità di sopravvivenza, non importa se fatta di precariato senza prospettiva, né futuro, non importa se assassina di ogni libertà, persino di quella di procreare. E nel frattempo il ceto dei "pochi" drena le risorse di tutti, in maniera ben più massiccia che ai tempi delle monarchie assolute che almeno hanno lasciato ai posteri le vestigia del loro dissennato agire per apparire. E poiché la logica capitalistica è egoistica, accumulatoria e tendente all'anonimato e poiché come diceva "Zio Paperone": - l'archetipo dell'avidità avara del capitalismo - "la cosa più difficile è mettere insieme il primo milione di dollari, dopo tutto diventa più facile", non è lontano il giorno in cui il cento per cento delle risorse sarà nelle mani di pochi sempre più pochi, già oggi il 10% della popolazione detiene il 90% delle risorse. Con l’aggravante, per le persone comuni, che i pochi sono in grado di orientare il futuro e gli accadimenti. E allora si passerà dalla "glebalizzazione" alla "schiavizzazione intensiva e globale" e solo Spartaco potrà farsi "libero". Angelo Romano

Nota: 1. Il diritto è [...] l'insieme delle condizioni per mezzo delle quali l'arbitrio dell'uno può accordarsi con l'arbitrio di un altro secondo una legge universale della libertà. (p. 216) - Nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo (come cioè egli si immagina il benessere degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo, in guisa che la sua libertà possa coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale (cioè non leda questo diritto degli altri). (E. Kant)

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SCENARI

GLEBALIZZAZIONE Più di due mesi fa, l'amico caro Angelo Romano, il nostro beneamato direttore, ha condiviso con me il video dello speech del prof. Valerio Malvezzi, economista e cattedratico in Pavia, postato su 1 Youtube . L'ho visto con tanto interesse e ho aderito ad ogni passaggio dell'intervento di quel docente fino alla sua conclusione, alla sua denuncia del forzato ripristino, generalizzato stavolta, della servitù della gleba, come l'ha definita. Ho aderito, dicevo, perché, accantonando presunzione e superbia, ho costatato con soddisfazione che non c'è stata argomentazione dell'esimio ricercatore che non sia stata già 'toccata', già trattata, già denunciata dalla rivista con la quale ho il piacere di collaborare. Nei suoi sette anni di nuova edizione, infatti, non c'è stato numero di 'Confini' dove lo stesso direttore o almeno uno dei colleghi, senza avere una laurea in economia (mi scuso della supponenza), non abbiano doviziosamente trattato i tanti marchingegni, le mistificazioni, le imposture, gli espedienti, tutti volti a disegnare per la società un tristo orizzonte; la 'glebalizzazione' appunto, nell'ottica neologistica del ricercatore di Pavia. La supremazia prima dell'economia e poi della finanza sulla politica, il dio mercato, il potere e l'impunità delle banche, la cancellazione degli strumenti di ridistribuzione del reddito, la concentrazione della ricchezza in sempre minori mani, l'eliminazione di istituti di tutela giuslavorista e il dilagare della precarietà, lo sradicamento sociale accresciuto dalla sospinta mobilità, la mercificazione del lavoro e dei lavoratori, il riscontro della povertà persino in presenza di un lavoro, un tutto megafonato addirittura come 'salvifico' dagli sherpa dell'informazione, sono solo alcuni tra i pervicaci meccanismi che gravano sulla società per la sua disarticolazione, per la sua dispersione e per la sua successiva riconduzione verso lo stabulario. Dal che il mio ulteriore compiacimento, misero se si vuole, nel costatare che finalmente un autorizzato, organico, 'formatore' di giovani menti abbia il coraggio e la capacità di 'cantare' fuori dal coro avvalendosi, peraltro, di uno dei più efficaci strumenti di diffusione dell'informazione: il web. L'unico aspetto sul quale non sono d'accordo, tuttavia, è il neologismo, 'glebalizzazione', usato per definire un tale approdo perché, sempre senza presunzione, ritengo ben diversa la vita del 'servo della gleba', paradossalmente 'migliore' di quella che ci si prospetta. Dio mi guardi dal dare 'lezioni' di storia o di sociologia a chicchessia ma, intanto, interessante è che tale 'condizione' venne istituita, di fatto, addirittura ai tempi dell'antica Roma per frenare la fuga dalle campagne verso la città. Il che, considerati i tempi, non mi sembra del tutto negativo. Con un provvedimento autoritativo fu, infatti, imposto ai coloni di trasmettere il proprio mestiere ai loro discendenti, 'fissandoli' al terreno che coltivavano al punto da essere venduti


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assieme ad esso. Dal ché, i servi della zolla. Certo, il fatto di essere vincolati alla terra poteva senz'altro risultare oppressivo ma dobbiamo considerare che la vita in città, senza arte né parte, poteva essere anche peggiore. In realtà, al tempo dell'antica Roma, il legame non era proprio indissolubile: matrimoni, trasferimenti, arruolamenti volontari consentivano in fatto, dove non in diritto, di lasciare il 'campo' per nuove destinazioni. Del resto, la società romana (e il relativo ordinamento giuridico) era per certi versi così elastico da consentire che un uomo, per debiti ad esempio, al fine di riscattarli (e riscattarsi) potesse scegliere di divenire per un predeterminato lasso di tempo schiavo del creditore o, per altro verso, addirittura gladiatore così da guadagnare soldi e fama. La condizione di 'servo della zolla', invero, cominciò ad essere un tantino più oppressiva con l'avvio del Medioevo quando al legame con la 'zolla' si sommarono diverse incombenze: il pagamento del fitto o delle decime, specifiche prestazioni e il 'banno' e cioè il turno di guardia, il trasporto di materiali, l'alloggiamento dei guerrieri e quello del signore, la trasmissione di messaggi, ecc. C'è da dire, comunque, che se il terreno era disagevole non era infrequente la concessione ai lavoranti di privilegi o di ampie libertà (franchigie). Insomma, nonostante l'obbligatorietà, i 'servi della gleba' erano portatori di diritti, potevano possedere e lasciare in eredità. Non solo. Non potevano essere allontanati dal 'campo' senza il loro volere. E, aspetto importante, il feudatario non aveva potestà alcuna sulla loro vita. Invero, l'unico istituto che creò forti risentimenti e dissapori fu la necessità dell'autorizzazione del proprietario terriero per sposarsi. L'unico modo per sottrarsi ai vincoli complessivi era fuggire dal fondo per raggiungere la città perché, una volta raggiuntala, venivano meno tutte le servitù. Così, in molti si avventurarono nel non facile viaggio, soprattutto mossi dalle questioni matrimoniali. Già, perché la vita nella città, spesso, non poteva definirsi entusiasmante per una famiglia già formata. Infatti, i fuggiaschi arrivavano isolatamente nei centri urbani e trovavano una comunità organizzata contro la quale erano impotenti. Se il loro lavoro era regolato da una corporazione e doveva essere appreso, i maestri li sottomettevano secondo il loro interesse e se, invece, la loro prestazione non era regolata da una corporazione ma era lavoro a giornata, essi non arrivavano mai a costituire un'organizzazione e restavano plebe disorganizzata in balia degli eventi2. In sostanza, non voglio certo dire che la vita del 'servo della gleba' fosse tutta rose e fiori ma, tutto sommato, per quei tempi, consentiva di avere una dimora, di vivere intanto con i frutti della terra e di guadagnare vendendoli per integrarli secondo necessità attraverso l'acquisto o il baratto. Di allevare i figli e di lasciare loro un'occupazione e una casa. Inoltre, il popolo della 'zolla', a differenza di quello della città, aveva tre caratteristiche che lo differenziavano enormemente: era timorato di Dio nel quale riponeva la speranza naturale di una vita migliore, di una salvezza dalle avversità, dalle malattie. Conosceva la solidarietà e amava la vita. Era "rumoroso, malizioso, scherzoso, pieno di traboccante vitalità, di entusiasmo e di foga.", soggetto sì al diritto feudale, ma con un gusto della vita da "celebrarla" quotidianamente3.

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Non voglio qui ripercorre le tante denunce fatte dalla rivista negli anni, denunce che ho sinteticamente enunciato sopra; ma la differenza è lì, per chiunque voglia osservarla. Oggi non siamo legati ad alcun 'terreno', quando lo troviamo lo lavoriamo per un compenso sempre più basso con sempre meno tutele e possiamo essere allontanati da esso in un attimo, tutt'al più con un modesto risarcimento. Non abbiamo certezze da lasciare in eredità e neppure speranze, non conosciamo più la solidarietà, il pensiero di Dio non allevia più le nostre sofferenze e la vita è diventata la nostra matrigna. Abbiamo accantonato il matrimonio per non correre il rischio d'incappare in vincoli economici e, analogamente, abbiamo messo da parte la perpetuazione di noi stessi: i figli. Infine, nonostante le apparenze, non siamo liberi. E, per accorgercene, non dobbiamo aspettare il commento interessato di Sallusti4 a proposito dei recenti fatti politici o, prima ancora, la dichiarazione pseudo filosofeggiante del presidente Putin rilasciata al Financial Times lo scorso 27 giugno sull'avvento della 'democrazia illiberale': lo vediamo tutti i giorni. Se disponiamo di un minimo di risorse finanziarie, siamo 'liberi' di comprare orgiasticamente negli outlet, di volare forsennatamente low cost, di acquistare superbamente utilitarie-missile. Possiamo scegliere tra cento yogurt, tonni, maionese, merendine e mille altri prodotti tra i quali t-shirt, jeans, felpe e sneakers. E se le disponibilità non sono sufficienti per soddisfare le nostre voglie ecco pronta la banca e la concessione di credito al 'consumo' che, tanto, al di là di 1/1.500 euro non arriva. Tanto, cinquanta o cento euro al mese, anche con una retribuzione di 7/800 euro di un call-center, si possono pagare. Ma, per serbarci l'argent de poche, non dobbiamo alzare la testa. Dobbiamo mantenerci riverenti, a capo chino, giornalmente grati che il 'mostro-mercato' non audacia temeraria igiene spirituale volga il capo verso di noi e non ci sbatta in una solitudine casalinga dove moglie e figli fungono da penose ombre, dove un padre e una madre scuotono tristemente la testa nel vederci sepolti nella nostra stanza, tra devastanti pensieri e il baluginio di uno schermo mentre il tempo passa inutilmente. Una casa dove già non c'era colloquio perché non c'è alcunché da comunicare, dove non c'è festosa separazione perché non c'è possibilità di un mutuo fondiario. Una casa silenziosa che alla disperazione delle insufficienti risorse sostituisce l'angoscia di un'esistenza inutile. Un terzo delle famiglie è in tali condizioni o le rasenta. Non dobbiamo alzare la testa, non possiamo 'rivendicare': le istituzioni democratiche, i cosiddetti soggetti intermedi, espressione cara al Censis e a De Rita, i sindacati insomma, hanno smesso di essere portatori di interessi collettivi, di tutelare, per divenire 'tecnici' della 'flessibilizzazione produttiva', della 'riorganizzazione snellente', della 'riconversione competitiva', adorati fino alla prostrazione dagli scampati allo 'slancio concorrenziale'. Né possiamo appellarci al 'diritto': il legislatore prima e il magistrato poi seguono ormai il 'nuovo corso' volto alla 'crescita' dove non c'è considerazione per il singolo fino al punto da cancellare l'espressione 'progresso' perché lo inglobava e prevedeva la sua elevazione economica e sociale. Dove la 'ricchezza' non deve più essere ripartita (nessuno si azzardi a pensare al reddito di cittadinanza), dove è lecito che si accentri in sempre minori mani, dove le legittime aspettative individuali sono considerate fumisterie di un astruso passato.


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Così …. Per ridere. Chissà se qualcuno dei nostri 'reggitori' si è accorto della somiglianza tra l'attuale situazione e la Carta del Lavoro di Bottai del '27 dove all'art. 1, 1° comma, si legge: 'La Nazione italiana è un organismo avente fini, vita, mezzi di azione superiori per potenza e durata a quelli degli individui divisi o raggruppati che la compongono.'. Eppure, quasi paradossalmente, c'è stato chi, nella scorsa legislatura, ha cercato di inasprire sia il divieto costituzionale espresso nella XII disposizione transitoria e finale, sia il portato della legge Scelba. Aspetti tristemente umoristici della vita. Beh! Ad onor del vero, la seconda differenza rispetto a quel passato, è che a nessuno oggi verrebbe in mente di definirci Nazione. Non lo eravamo, continuiamo a non esserlo e non c'è più speranza di divenirlo. Ogni segno distintivo della nostra identità è stato cancellato (anche quest'aspetto è stato opportunamente affrontato dalla nostra rivista), le tradizioni sono divenute cibo per gatti e l'unica cultura rimasta, che non disdegna il prefisso di pseudo, è quella che ammannisce RAI3 nelle cosiddette trasmissioni di satira e di approfondimento. Già, perché, ulteriore aspetto umoristico della storia è che due 'visioni' (è il caso di dire), a noi estranee, antitetiche tra loro, hanno trovato una convergenza per una comune concezione del tempo e dello spazio: due 'visioni' l'una proveniente dai deserti di Sonora, con l'immancabile scena di una banda di cattivoni con le penne che insegue il solitario cowboy che spara all'impazzata e che, alla fine, riuscirà a prevalere dandogli così la convinzione che potrà conquistare il mondo con una pistola e un cavallo; l'altra proveniente dalle steppe siberiane dove poverissimi mugik, stanchi dell'oppressione zarista, armati di forconi e zappe, pur avendo avuto ragione di moschetti e di cannoni, rimarranno mugik dandogli così la convinzione che l'omologazione al ribasso di un popolo sia cosa buona e giusta. In effetti, due 'chiese', ognuna con i suoi 'dogmi' inderogabili. Vero è che oggi, per l'evoluzione dei costumi (e per gli sfaceli compiuti), rappresentazioni del genere non avrebbero più effetto ma la spregiudicata disinvoltura nell'affermare che, da un lato, la ragione risieda solamente nel più forte e che, dall'altro, la 'verità' abiti solo ed esclusivamente negli eredi della falce e del martello è fatto quotidiano; e, permanendo inalterata la concezione del tempo e dello spazio, le due 'visioni' continuano rovinosamente a convergere. Gli effetti su culture e animi umanistici e rinascimentali, sia pur un po' contaminati dal giacobinismo, li possiamo paragonare a quelli descritti da Hans Ruesch nel suo libro 'Paese dalle ombre lunghe' dove l'autore racconta la vita di una famiglia di cacciatori Inuit (esquimesi) di antichissime tradizioni e modi di vivere, perfettamente adattati all'ambiente glaciale, ed il loro drammatico incontro con l'uomo bianco, con le sue tecnologie spiazzanti e la sua fede, ingiunta agli Eschimesi senza il minimo senso critico né di rispetto. L'unico risultato è stato la devastazione di quel popolo. Non siamo noi i 'servi': questi sono i nostri 'reggitori'. Potrei impiegare un mare di parole per descrivere il mio pensiero. Invece, preferisco ricorrere a quello di Max Weber mirabilmente espresso nella sua opera 'Economia e società' e, più specificatamente, nella parte intitolata 'Sociologia del potere': ' […] Il potere tradizionale sussiste in virtù della credenza nel carattere

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sacro degli ordinamenti e dei poteri di signoria esistenti da sempre. Il gruppo di potere è una comunità; il tipo di colui che comanda è quello del "signore", mentre coloro che prestano obbedienza sono "sudditi" e l'apparato amministrativo è costituito da "servitori". …. […] … 'il volere del signore è vincolato soltanto dai limiti che, nel caso singolo, derivano dal sentimento di equità, e quindi in modo straordinariamente elastico: il suo potere si distingue perciò in un campo di grazia ed arbitrio libero, nel quale egli decide a piacere, per simpatia o avversione, e secondo punti di vista puramente personali che sono anche influenzabili dalla compiacenza personale. Quando però a base dell'amministrazione o della composizione dei conflitti vengono posti dei principi, essi sono quelli dell'equità etica materiale, della giustizia o dell'opportunità utilitaria, e non quelli di tipo formale che si hanno nel potere legale. In maniera completamente eguale procede il suo apparato amministrativo, costituito da persone che sono vincolate personalmente (servi e funzionari domestici) o da parenti o da amici personali (favoriti) o da individui vincolati da un legame di fedeltà personale (vassalli e principi tributari). Manca il concetto burocratico della "competenza" come sfera di funzioni oggettivamente delimitata […]. La struttura puramente patriarcale dell'amministrazione è quella in cui i servitori si trovano in una completa dipendenza personale rispetto al detentore del potere, e vengono reclutati in modo puramente patrimoniale (come nel caso di schiavi, domestici, eunuchi) oppure in modo extrapatrimoniale da strati non completamente privi di diritti (come nel caso di favoriti e di plebei). La loro amministrazione è assolutamente eteronoma ed eterocefala; non esiste affatto un diritto personale all'ufficio per gli amministratori, e non esiste neppure una scelta in base alla specializzazione e un onore di ceto dei funzionari; vengono audacia temeraria igiene spirituale i mezzi amministrativi oggettivi 5 impiegati del tutto in favore del detentore del potere, e nella sua regìa personale […]. Non credo che occorrano altre parole. Ma, allora, noi chi siamo? Noi che, dopo essere divenuti merce, paghiamo le tasse fino all'ultimo centesimo, senza beneficiare di alcun servizio pubblico se non a pagamento (compresa la scuola), mentre alcune società e soggetti evadono somme ingenti per finire di pagare poi, in via concordata, un dieci per cento dell'evaso. Noi che dovremmo beneficiare di un servizio sanitario nazionale a carattere universale che, tuttavia, per fare una TAC o una RM fa registrare un anno d'attesa, sei mesi per una visita specialistica, due o più giorni d'attesa in pronto soccorso su una lettiga prima di un ricovero, una degenza spesso senza sapone né salviette e, a volte, senza farmaci complementari mentre mediamente l'80% del bilancio regionale è destinato alla sanità. Noi che avevamo pensato, nel corso della vita lavorativa, di campare senza grilli per la testa una dignitosa vecchiaia, ci ritroviamo di anno in anno alle prese con provvedimenti che, per ottenere la pensione, aumentano i requisiti anagrafici, poi quelli assicurativi, indi li accorciano integrandoli tra loro, e che infine calmierano l'importo come se, per determinarlo, sia intervenuta in passato qualche benevolenza e non il duro lavoro e i relativi prelievi. Noi che affidiamo i nostri sudati risparmi alle banche che li usano a loro piacimento dandoci Ø interessi quando va bene o, addirittura, addebitandoci un tasso per la gestione del conto.


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Penso possa bastare. Bene. Quindi, alla luce di tutto, ciò se i nostri 'reggitori' sono i 'servi', ricalcando le orme di Weber per noi non resta che la condizione di schiavi o, in via alternativa, quella di eunuchi. Roberta Forte

Note: 1.https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=413911992557872&id=372478550034550 ma ce ne sono molti altri dello stesso Malvezzi su argomenti tutti interessanti 2. K. Marx-F. Engels - L'ideologia tedesca - Editori Riuniti Roma 1972 - pag. 42 3. Fulcanelli – Il mistero delle cattedrali – Edizioni Mediterranee – III edizione ampliata 1972 - p. 30 – citato da Massimo Sergenti – The wall – Confini aprile 2018 4. Il Giornale – 27/8/2019 – pag. 9 - Il cittadino vota ma non conta più: è non democrazia 5.M. Weber, Economia e Società, Edizioni di Comunità, Milano, 1961, anno ed. orig. 1922 - Vol. II, pp. 258-262

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EUROPA NAZIONE COME ANTIDOTO ALLA GLOBALIZZAZIONE PROLOGO In ogni epoca l'umanità si è messa, autonomamente e inconsapevolmente, una spada di Damocle sulla testa che, di volta in volta, ha assunto termini diversi. Molte spade si sono dissolte gradualmente e altre, invece, hanno resistito alla mutevolezza dei tempi, sommandosi a quelle successive. Attualmente l'umanità soggiace alla minaccia di vecchie e arrugginite spade e a quella più recente e più pericolosa, la globalizzazione, correndo seri rischi per il suo futuro. La globalizzazione va distinta dalla tirannide praticata da pochi uomini sulle masse, essendo di essa una variabile indipendente, anche se, per naturale flusso osmotico, ne rappresenta un valido e graditissimo alleato. Il rigurgito del sovranismo è la risposta istintiva che la società contemporanea contrappone ai disastri provocati dalla globalizzazione. Come ogni risposta che risenta dei condizionamenti contingenti, però, anche il sovranismo presenta delle ombre e la confusione che scaturisce da questo confronto-scontro è sotto gli occhi di tutti, evocando l'esempio del gatto che si morde la coda: popoli sempre più disorientati, confusi e incapaci di comprendere le complesse dinamiche di un mondo in rapidissima trasformazione, non riescono a scegliere una classe politica qualificata, (anche a causa di una scarsa offerta, preferendo, gli uomini di alta qualità, tenersi lontano dalle squallide arene politiche) e si tirano costantemente la zappa sui piedi; una classe politica accomunata da un unico elemento sostanziale, la mediocrità, che sempre genera una malsana gestione del potere, corre dietro agli umori degli elettori immaturi, non avendo né il coraggio né la capacità di guardare lontano. Il problema è planetario e l'unica prospettiva risolutrice sarebbe un'Europa unita che fungesse da "faro del mondo", secondo i principi più volte enunciati in questo magazine1. Con siffatti presupposti, però, tale prospettiva perde gradualmente consistenza, alimentando la deriva di miliardi di persone, che sempre più assomigliano a naufraghi su barche senza timonieri. L'ESSENZA DEL FENOMENO "L'americanizzazione del mondo, l'omogeneità dei modi di produzione e di consumazione, il regno della merce, l'estensione del mercato planetario, l'erosione sistematica delle culture sotto l'effetto della mondializzazione mettono in pericolo l'identità dei popoli molto di più dell'immigrazione". (Alain de Benoist)


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"Noi non siamo in una società "multiculturale", ma in una società contemporaneamente multietnica e tristemente monoculturale". (Alain de Benoist) "La globalizzazione è una procedura che permette ai potenti di sfruttare i deboli". (Alejandro Llano - filosofo, docente presso l'università di Pamplona, fratello del più famoso filosofo Carlos Llano Cifuentes (1932-2010) "La globalizzazione è stata per il capitalismo una tappa decisiva sulla strada della scomparsa di ogni limite. Infatti permette di investire e disinvestire dove si vuole e quando si vuole, in spregio degli uomini e della biosfera". (Serge Latouche, economista e filosofo francese) "Il cosiddetto mercato globale, in senso stretto, non è affatto un mercato, bensì una rete di macchine programmate secondo un singolo valore - quello di far soldi al solo scopo di far soldi - a esclusione di ogni altro possibile valore". (Fritjof Capra, fisico e saggista austriaco) "Apparentemente, la dignità della vita umana non era prevista nel piano della globalizzazione". (Ernesto Sábato, - 1911-2011 - scrittore, filosofo e fisico argentino-italiano) "In realtà, la globalizzazione è un altro nome con il quale si esercita il ruolo dominante degli Stati Uniti". (La frase è vecchia e questo concetto è ora molto meno valido, ma val comunque la pena di renderlo edotto) (Henry Kissinger) "La corsa dei popoli verso il brutto rappresenta il principale fenomeno della mondializzazione. Per rendersene conto basta girare in una città cinese, osservare i nuovi codici di decorazione delle Poste francesi o il modo in cui si vestono i turisti. Il cattivo gusto è il denominatore comune dell'umanità". (Sylvain Tesson, scrittore, viaggiatore e "stégophile" (arrampicatore di tetti) francese) "Il futuro del sistema lavorativo è più incerto che mai a causa della meccanicizzazione del lavoro tramite i computer e della globalizzazione sempre maggiore". (Robert James Shiller, economista statunitense, premio Nobel 2013) "Per noi ricchi la globalizzazione è qualcosa di buono per via di internet, il cellulare, il computer. Peccato che ciò non riguardi circa il 75% della popolazione mondiale". (Jimmy Carter.) (Frase datata: ora sarebbe il caso di sostituire "circa" con "oltre") "La globalizzazione e l'individualismo postmoderno favoriscono uno stile di vita che rende molto più difficile lo sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone e non è favorevole per promuovere una cultura della famiglia". (Papa Francesco)

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"Se la globalizzazione significa - come accade spesso - che i ricchi e i potenti hanno ora nuovi mezzi per arricchirsi ulteriormente e potenziarsi sulle spalle dei più poveri e più deboli, abbiamo la responsabilità di protestare in nome della libertà universale". (Nelson Mandela) "La globalizzazione dell'economia è un nuovo genere di colonialismo delle imprese". (Vandana Shiva, ambientalista con dottorato in filosofia, indiana). È finita l'epoca dei grandi imperi politico-ideologici americano e sovietico, agglomerati di nazioni unificate dall'organizzazione politico-amministrativa e militare di una nazione egemone. Con la globalizzazione formalmente tutte le nazioni sono uguali, siano esse ricche come gli Usa o povere come il Guatemala. Ma è una visione errata, perché al posto degli imperi politicoideologici si sono consolidate alcune nazioni che sono da sole delle superpotenze: gli Usa, la Russia, la Cina, l'India. Sono comunità politiche cementate dalla storia, spesso da una lingua comune, sempre da una lunga tradizione culturale. Sono queste potenti nazioni le nuove protagoniste della geopolitica. Esse sole sono in condizione di sottrarsi ai poteri sovranazionali economici o comunicazionali ed hanno strumenti per imporre dazi, fare negoziati e dare regole valide per tutti. L'Europa invece non è diventata una nazione, e per questo sono nate in essa delle spinte centrifughe che vorrebbero dare il potere (sovranismo) alle decine di Stati nazionali che la compongono. Il risultato dell'impotenza europea è una vera e propria devastazione del sistema produttivo e dell'alta cultura umanistica e scientifica tipica del nostro continente. Se vogliamo sopravvivere, non farci frantumare ed impoverire, dobbiamo avere il coraggio di trasformare l'intera Europa in una superpotenza nazionale allo stesso livello di Usa, Russia, Cina, India. La strada maestra è di creare uno Stato federale con pochi poteri ben definiti come gli Usa o la Svizzera. Possiamo farlo utilizzando in modo nuovo gli organi comunitari esistenti: il Parlamento potenziato, il Senato (rappresentato dal Consiglio d'Europa riformato con l'eliminazione dell'unanimità). L'esecutivo, rappresentato dalla Commissione. E una corte federale, lasciando ad ogni nazione il diritto di conservare i propri costumi, le proprie tradizioni, le proprie specificità etiche o gastronomiche. Questo Stato-nazione dovrà difendere ad ogni costo e potenziare al massimo le nostre risorse economiche, culturali e scientifiche. Cioè quello che, negli ultimi secoli, ci ha dato un vantaggio sul resto del mondo. (Francesco Alberoni - "Il Giornale" - 11 agosto 2019) LE FAVOLETTE INGIALLITE La prima iniziai a raccontarla sin dai tempi delle medie, a trascriverla nei temi scolastici, con il tipico entusiasmo che scaturisce dall'ingenuità di ogni ragazzino che vuole cambiare il mondo e dalla gioia di vedersi riconosciuta, un po' da tutti, quella marcia in più che faceva la differenza. La favoletta consisteva nell'esporre concetti universalisti, sia pure in modo raffazzonato, con l'ausilio di una metafora che mi sembrava molto suggestiva: per spiegare la stupidità


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dell'umanità in perenne conflitto, mostravo una foto della Via Lattea e il suo diametro in cifre, che ovviamente nessuno era in grado di citare correttamente: 2.590.206.873.600.000 km. Aggiungevo, poi, che solo al suo interno vi fossero oltre duecento miliardi di stelle (in realtà sono quasi il doppio, ma quelli erano i dati di cui disponevo allora) e oltre i suoi confini si estendevano miliardi di altre galassie, ancora più grandi e così lontane che, per quantificarne la distanza dalla Terra, sarebbero occorse cifre di oltre cento numeri, o addirittura mille! (Facevano molto più effetto degli anni luce). Cosa era il nostro pianeta, dunque, al cospetto di cotanto spazio infinito? Un puntino minuscolo, impercettibile su qualsiasi mappa cartacea che contemplasse anche solo una piccola parte della galassia. Da qui, poi, nasceva l'invito a tenere sempre bene a mente queste proporzioni, che avrebbero dovuto indurre chiunque a riconsiderare i propositi di "chiusura", ad accettare l'idea che la Terra è davvero troppo piccola affinché alimenti divisioni e conflitti e nessuno ha colpe o meriti per dove nasce ma solo colpe o meriti per come vive. Questo mantra l'ho portato avanti per molti anni (troppi, dice qualcuno) e solo la maturità, gli studi e l'esperienza di vita mi hanno consentito di comprenderne l'assoluta inconsistenza, fonte di non poco sconforto, solo in parte mitigato dall'assonanza del mio ingenuo idealismo al nobilissimo pensiero di Confucio, caparbiamente difeso contro chiunque gli facesse notare i limiti della natura umana2. La seconda favoletta, una lingua comune europea, scaturì come logica conseguenza della prima. Non poteva che essere l'inglese, ovviamente, già agevolmente affermatasi da lungo tempo, per forza intrinseca, come lingua comune a livello planetario. Peccato che la volontà di imporre l'inglese come lingua universale fosse nata nelle dorate stanze dei poteri forti, quelli che muovono le fila del cosiddetto "mercato globale", con ben altri propositi: schiavizzare i popoli, rendendoli sudditi dell'imperialismo anglo-americano, grazie all'illusoria percezione di una democrazia che, di fatto, altro non è se non la peggiore delle dittature proprio perché rende schiavi miliardi di persone, dando loro la sensazione di essere liberi. La (di)visione del mondo, tracciata da Ernst Jünger nel celebre saggio "Il nodo di Gordio", chiude incontrovertibilmente ogni discorso universalista. Il grande pensatore tedesco, con una breve frase, sbrandella qualsivoglia riferimento alla piccolezza della Terra comparata all'universo infinito, mia favoletta compresa, inquadrandola nella sua dimensione cosmogonica secondo la reale percezione della stragrande maggioranza degli esseri umani, per i quali sembra (e quindi "è") immensa, o addirittura smisurata3: "La grandezza di Alessandro, la luce che essa riverbera su tutte le corone occidentali, consiste nel fatto che egli seppe affrontare i grandi spazi più ancora che il gran re. Il suo ritorno dall'India è un miracolo più grande della distruzione di Babilonia". Oggi non serve avere la lucidità intellettuale di Jünger per comprendere "la lontananza" che separa i popoli e, soprattutto, l'Occidente dall'Oriente, grazie alla facile evidenza delle reciproche intolleranze e alla recrudescenza del terrorismo, soprattutto nell'ultimo quarto di secolo, purtroppo spesso alimentato dall'incapacità di molti governi dell'Occidente nel

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relazionarsi adeguatamente con i paesi islamici4. E' cronaca quotidiana, inoltre, la difficoltà oggettiva di una reale integrazione di chi, proveniente da paesi minati da un forte integralismo religioso e culturale, ripudia le regole di vita della società occidentale, creando disarmonie sociali 5 e conflitti, a volte estremi, anche in ambito familiare . L'europeismo sano, pertanto, che nulla ha a che vedere con l'Europa dei mercanti, per sua natura "globalista", si rivelò il rifugio ideale per accogliere quella weltanschauung miseramente naufragata sotto i nefasti colpi della realtà. Non che fossero rose e fiori, ovviamente, come più volte scritto, perché ciò che accade su scala planetaria si riflette, proporzionalmente, in qualsiasi ambito territoriale. E' ben chiaro, tuttavia, che parlare di Stati Uniti d'Europa ha molta più consistenza pratica, nonostante le mille difficoltà, che non perseguire l'illusione di un mondo realmente affratellato. EFFETTI DELLA GLOBALIZZAZIONE. L'economia ha sempre condizionato la politica, ma prima del 2000 era possibile, almeno dialetticamente, supportare il primato della politica senza correre il rischio di essere considerati dei visionari. Dal 2007, con l'inizio della grande recessione innescata dalla bolla immobiliare statunitense, anche per i bambini dell'asilo è chiaro che è il dio denaro a regolare le leggi del mondo. Quanto il sentir parlare sempre e solo di soldi, PIL e mercato, possa essere nefasto per la formazione dei giovani e frustrante per chiunque, è di facile comprensione per chiunque abbia dedicato la propria gioventù, negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, a quei fremiti ideali che ponevano al primo posto, sulla scala dei valori, quelli esistenziali. Proprio in omaggio a quel presupposto che considero ancora valido, senza alcun timore di passare per visionario, voglio iniziare questo paragrafo, ovviamente dedicato all'economia, con una citazione di un uomo vissuto duemila anni fa, Publilio Siro, tradotto a Roma come schiavo e poi divenuto un colto e raffinato liberto, che ritengo molto valida per sintetizzare "uno" degli effetti più deleteri della globalizzazione: "Lucrum sine damno alterius fieri non potest". "Uno", ma non il principale, perché, sempre per rafforzare il concetto della necessità di ribaltare il rapporto tra politica ed economia, il danno più grave prodotto dalla globalizzazione è l'aver creato un individuo senza identità, praticando un vero e proprio genocidio culturale con la progressiva distruzione delle radici dei popoli, spacciandola per una democrazia dell'uguaglianza che invece è solo il suo opposto. I fautori della globalizzazione parlano spesso, con linguaggio astruso e accattivante allo stesso tempo, degli effetti benefici scaturiti dall'aumento della ricchezza che, in effetti, è aumentata, ma solo per due categorie di persone: quelle con un reddito medio e i super ricchi. Le altre categorie, in netta maggioranza, già in difficoltà, sono precipitate verso la soglia della povertà o l'hanno abbondantemente superata. Oggi l'1% della popolazione mondiale (non più di 70milioni di persone) detiene una ricchezza pari a quella del restante 99%. Ventisei super miliardari possiedono una ricchezza analoga a quella di circa quattro miliardi di


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persone. E' facile immaginare che le diseguaglianze si registrino precipuamente nei paesi del cosiddetto terzo mondo o in via di sviluppo, ma anche all'interno del nostro beneamato Occidente gli effetti della globalizzazione sono disastrosi. Negli USA il 20% della popolazione (65.862.353) possiede il 33,5% della ricchezza; il restante 66,5%, quindi, riguarda ben 263.449.411 cittadini! In Italia la distribuzione della ricchezza nazionale netta, il cui ammontare è pari a 8.760.000.000 euro (dati 2018), è così ripartita: il 20% più ricco della popolazione ne detiene il 72%; un altro 20% meno ricco il 15,6%; il restante 60% della popolazione (36.000.000), quindi, si deve accontentare del 12,4% di ricchezza nazionale6! Le cause della marcata diseguaglianza sono note: delocalizzazione delle aziende verso paesi che consentono lo sfruttamento dei lavoratori e incentivano gli imprenditori con regimi fiscali convenienti, non scevri di compromessi eticamente discutibili; la disoccupazione interna che da ciò scaturisce, con ulteriore riduzione del costo del lavoro; la colpevole complicità di una classe politica succube dell'imprenditoria, che chiude gli occhi sulla forte evasione, sullo sfruttamento marcato, sia dei lavoratori italiani sia di quelli stranieri, trattati come schiavi (sui sindacati stendiamo un velo pietoso perché la loro conclamata inadeguatezza precede lo scoppio della crisi e gli effetti nefasti della globalizzazione); la massimizzazione degli utili d'impresa, che determina retribuzioni pazzesche per i top manager e un mercato "corrotto", alimentato anche dall'incapacità dei consumatori ad autotutelarsi7. A conclusione di questo paragrafo è doveroso, sia pure in modo estremamente sintetico, spendere due parole sul "sistema" alla base di tutti i mali sociali e principale ispiratore della globalizzazione: il liberalismo, con tutti i suoi derivati. Non esiste forma più bassa di libertà di quella offerta dai cosiddetti liberali, le cui dinamiche di pensiero possono senz'altro definirsi criminali. Ricordiamo tutti il Berlusconi che legiferava sul falso in bilancio, asserendo che esso non costituiva reato. Per i liberali la libertà coincide con il poter fare tutto ciò che si vuole, senza porsi limiti. Con l'impegno di dedicare all'argomento più ampio spazio in altra occasione, qui mi limito a citare il recente saggio di Alain de Benoist, "Contre le liberalisme", Edition du Roche, che rappresenta la summa della pur corposa pubblicistica che 8 affronta in modo serio e non strumentale il grande bluff degli ultimi due secoli . COME USCIRE DAL TUNNEL Di sicuro è più facile scalare il K2. Le ricette sono tante, periodicamente esposte nei frequenti forum economici mondiali, che si trasformano, però, in allegre scampagnate per i potenti della Terra, visti i risultati. Senza politiche serie, anche di natura repressiva, sperare che un imprenditore riduca gli utili aziendali, a vantaggio di una più equa retribuzione dei lavoratori, soltanto grazie agli inviti etici, fa solo ridere. Lo stesso dicasi per l'evasione fiscale, che non viene combattuta per una chiara volontà politica, come spiegato dall'insigne magistrato Francesco Greco nella recente festa del "Fatto Quotidiano", alla Versiliana: "Nelle banche dati abbiamo tutti i conti correnti degli italiani, anche quelli esteri in oltre 100 Paesi, inclusi i paradisi fiscali. In Svizzera vi sono 200miliardi di euro nelle cassette di sicurezza, di italiani evasori, che si possono recuperare, ma è la politica che non vuole

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agire perché gli evasori votano e condizionano chi ci governa". Un altro aspetto nefasto da correggere è il forte gap tra il prezzo giusto dei prodotti e quello reale, che quasi sempre presenta un surplus ingiustificato (vedi nota nr. 7). Recuperare soldi dalle multinazionali consentirebbe di aumentare la spesa pubblica per i servizi sociali primari: sanità, istruzione, sicurezza, a tutto vantaggio delle fasce più deboli9. Ciò che più serve, tuttavia, è un radicale cambiamento della mentalità di tutti: il liberalismo si alimenta dell'ignoranza, il che significa, e diciamo sempre le stesse cose, che siamo noi i primi responsabili delle nostre sventure. Lino Lavorgna NOTE 1) "Confini" Nr. 38, 52, 56, 71, 74 2) A chi gli spiegava che la natura umana è lussuriosa, avida, incline alla guerra e pertanto con i riti (l'organizzazione sociale, amministrativa e politica da lui concepita, per certi versi assimilabile a qualsivoglia progetto che preveda una divisione netta tra bene e male e non tenga conto dei troppi limiti degli esseri umani ) non è possibile governare, replicava seraficamente che i riti, benèfici per lo Stato e gli individui, sono la vera arte di governo; senza di essi si precipita nel caos; ogni gentiluomo ha l'arduo compito di rispettarli e indurre gli altri ad agire allo stesso modo, imponendosi sempre una perfetta moralità perché solo chi dall'inizio segue la retta via non potrà perdersi. 3) Al di là di quanto ben traspare dalla cronaca quotidiana, penso che chiunque sia stato più volte testimone di qualche evento che conclami questo assunto. Per qualche anno ho abitato in un piccolo comune della provincia di Caserta e il medico di famiglia, scelto su indicazione di amici locali, era da lungo tempo un importante punto di riferimento per la comunità. Quando si rese necessario sostituirlo, al suo posto giunse un collega che abitava nel comune limitrofo, ma a poche decine di metri dallo studio, costituendo i due paesi un unico aggrovigliato tessuto urbano. Le case di molti pazienti, invece, potevano distare anche due-tre chilometri. Nondimeno, per tutti, il nuovo medico fu subito definito "il forestiero". 4) Si veda l'articolo "Venti di guerra", pubblicato nel numero 40 di "CONFINI" (gennaio 2016) nel quale vengono illustrate le responsabilità degli USA per la nascita dell'ISIS. 5) La vicenda di Sana Cheema è solo la più recente di una lunga sequela di analoghi episodi assurti alla ribalta della cronaca in tutta Europa e di tanti altri che, purtroppo, restano occultati all'interno delle mura domestiche. La venticinquenne, pakistana, residente a Brescia, è stata sgozzata lo scorso anno dal padre e dal fratello perché si era innamorata di un ragazzo italiano e aveva intenzione di sposarlo. Il suo omicidio ricorda quello della connazionale Hina Saleem, ventenne, assassinata nel 2006 sempre nel bresciano, perché aveva un fidanzato italiano e vestiva troppo all'occidentale. Il padre, lo zio e due cugini furono accusati di aver sgozzato la giovane e averla seppellita in giardino con la testa rivolta verso la Mecca. Il cinema offre molte testimonianze, anche pregevoli, dedicate ai problemi d'integrazione, tra le quali, cito a memoria, limitandomi alla sola Europa: "Cosa dirà la gente" della regista norvegese-iraniana Iram Haq, ispirato a una vicenda personale; "Almanya - La mia famiglia va in Germania", di Yasemin Samdereli; "East is East". E' davvero smisurata, invece, la lista dei film di analogo sentore prodotti negli USA, che inglobano anche il razzismo tout-court, rappresentato in tutte le sue squallide salse, ivi compreso, però, quello, non meno insopportabile, degli stupidi stereotipi statunitensi sul resto del mondo e sull'Europa in particolare. 6) I dati riportati sono quelli ufficiali - fonte "Il sole 24 Ore". Ancorché molto gravi, però, le cifre non riflettono la realtà, che è ben peggiore, come traspare da analisi "non ufficiali", ma molto più veritiere. 7) Si veda a tal proposito il paragrafo "educazione ai consumi" nell'articolo "Crescere o decrescere", nr. 72 di "CONFINI", 3/ 2019. 8) Attualmente disponibile solo in francese. 9) Ciascuno di questi settori meriterebbe un articolo, per metterne in luce le tante distonie, essendo tutti allo sfascio. Nel mese che vede la riapertura delle scuole è opportuno citare lo scandalo dei libri testo, che cambiano ogni anno grazie alla legge voluta dal "neoliberista" Monti, per la gioia degli editori che, grazie al gradito regalo montiano, incassano oltre 600milioni di euro ogni anno, ossia il 20% dell'intero fatturato dell'editoria, facendo piangere, con il cinismo tipico di chi guarda il mondo comodamente assiso su montagne di denaro, alunni e genitori. Un aggiornamento editoriale ogni cinque-sei anni, e soprattutto l'abolizione dei tanti testi inutili, sarebbe quanto mai opportuno.


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LA COMPASSIONE Ero fuori per una breve vacanza quando lessi la mail con la quale il direttore comunicava il tema di copertina di settembre, lo racconto perché, per ragioni legate alla vista, non lessi correttamente il neologismo ma scorsi invece il noto termine. Rammento che mi venne da ritenere che non avrei avuto un granché da dire anche in ragione di quanto già scritto in precedenza e sia chiaro, non perché ritenessi di aver scritto chissà cosa o quanto ma solo perché, nella mia pochezza, non scorgevo particolari ed ulteriori riflessioni da condividere sui processi in corso. Logicamente l'abbaglio durò poco, anzi da li a breve, tramite il canale YouTube, ebbi modo di apprezzare per intero la coraggiosa denuncia1 professata dal dott. Valerio Malvezzi, commercialista, economista, ex Deputato al Parlamento Italiano nei primi anni '90 ed oggi docente universitario in Pavia, che oltre a fornire sinteticamente, ma con efficace chiarezza, una visione compiuta sulle dinamiche neoliberiste che rendono possibile un sistema di controllo dell'informazione, del pensiero, della finanza, dell'economia e della politica utilizza il termine glebalizzazione per indicarne il fine forse ultimo. Sono passati quasi due mesi da quel dì e come accade da qualche tempo, una inconsueta pigrizia fisica mi attanaglia ed eccomi, quando non posso più tardar oltre, ad affrontare per iscritto le riflessioni sull'argomento. Tuttavia ritenendo inutile ripercorrere quanto sapientemente trattato dal professore, ho deciso di affrontare le riflessioni in altra via. Come destato da un sonno ontico mi trovo spesso a riflettere sulla Vita, sull'Uomo e sulla Natura, quindi sul senso, sulla funzione, sulle forze e sugli equilibri, pertanto anche su come si sia potuto giungere sin qui con l'aggravante che, da genitore, lo stato delle cose mi suscita ancor più forti timori per le future generazioni. Le aspettative, o più ampiamente le visioni del futuro, determinate dall'intento costruttivo credo abbiano da sempre costituito il primario impulso dell'uomo nel compimento della vita quotidiana, logicamente non è mai stato per tutti allo stesso modo nel senso che gli uomini, cosi come in natura accade, non hanno le medesime potenzialità e quindi una elite più o meno illuminata e deputata alla guida è cosa indispensabile e di remota necessità, vecchia quanto l'uomo cosciente di esistere. Appunto le aspettative, potremmo parlare di quelle di natura collettiva, pertanto per tutti e per ciascuno, ormai desuete e legate alla società, quindi alla famiglia, ai rapporti umani, al lavoro, alla pace sociale, alla giustizia, alla salute ma anche alla cura ed all'amore che dobbiamo al nostro pianeta, o potremmo parlare di quelle individuali necessarie per il compimento di quelle collettive, quali il raggiungimento delle singole potenzialità in ragione delle proprie vocazioni, il

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progressivo miglioramento della qualità della vita quotidiana, la ricerca della conoscenza, la volontà di affermarsi sugli altri al fine di indirizzare il processo necessario a perseguire i cambiamenti utili ad un benessere collettivo. Insomma due fondamenti di una medesima volontà di progresso. Certo non è quanto si vede ai nostri giorni dove, scomparso l'intento collettivo a causa della società snaturata, non rimane che analizzare quello individuale che si manifesta, in assenza di Potere in quanto schiavi, nella volontà di prevaricare il prossimo per perseguire in molti ed ottenere in misura di una piccola comunità ed a qualsiasi costo visibilità, ricchezza e successo, o magari qualche feticcio di lusso nella speranza che possa alleviare il senso di insoddisfazione, insomma le forme di benessere impermanente a cui oggi puntano gran parte degli individui, tra l'altro, con la pressoché nulla possibilità di risultato sia perché mancano i prodromi sia perché, come si suol dire, le conclusioni sono contenute nelle premesse, infatti non è possibile ad un larghissimo numero di individui ottenere visibilità, ricchezza e successo senza che, con la quantità, se ne perda evidentemente il privilegio. Potremmo dire che abbiamo perso la visione dell'Insieme, che il dio consumismo ha fatto banco e che l'ego smisurato che ne deriva non è neanche intelligente operando il buonismo al posto della Compassione, "dal latino cum patior - soffro con - e dal greco óõìð? èåéá, sym patheia simpatia, provare emozioni con, è un sentimento per il quale un individuo percepisce 2 emozionalmente la sofferenza altrui desiderando di alleviarla" . Simile ad una macchina senziente l'uomo tende ad assecondare il buonismo ed ad ubbidire alle aspettative per timore di subire la punizione, mi riferisco a quelle riservate a chi canta al di fuori del pensiero unico, ritenendosi libero di fare ciò che gli è rimasto consentito e se serve, anche a scapito del prossimo. Sommessamente ritengo che la scomparsa della Compassione si sia determinata in quanto l'uomo, sempre più simile ad una macchina, è sempre più separato dagli altri esseri umani. Quindi cosa fare? Roberta Forte in un suo scritto ha recentemente richiamato Gramsci relativamente al pessimismo dell'intelligenza ed all'ottimismo della volontà, personalmente potrò solo fare ciò che la mia volontà mi consentirà. Andrea Torresi

Note: 1 visibile su: https://www.youtube.com/watch?v=FYK7P15mgZk 2 Definizione tratta da Wikipedia


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FUTURA Lo so di essere una vecchia insofferente e anche un po' stizzosa ma, il direttore mi perdonerà, non potevo lasciar passare il mese senza una riflessione sulle vicende politiche di fine agosto, protrattesi sino a qualche giorno fa. È stato più forte di me anche perché, devo confessarlo, non ho capito un granché sulle motivazioni che hanno portato il primo governo Conte alla fine. Certo, nonostante l'età, le mie orecchie ancora percepiscono i suoni e le dichiarazioni di Salvini atte a giustificare lo 'stacco della spina'. Ma a me, chissà perché, quelle scusanti non convincono affatto; sembrano più da coppia esausta, sfiancata, che da leader politico-partitico. E che Salvini, nel recente passato, abbia dimostrato la sua 'statura', non c'è da dubitarne. Un uomo che, nonostante Bossi e il suo entourage, dichiaratamente identificati (e radicati) col Nord, è riuscito ad aprire la Lega fino a farne un partito a livello nazionale, votato ancora dal Nord ma, a piene mani, anche dal Sud tanto da farne il primo partito del cosiddetto 'centro destra'. Certo, un aiutino probabilmente lo avrà anche avuto dall'impatto delle traversie giudiziarie del vecchio boss sull'opinione pubblica e sull'elettorato ma è innegabile la dose di coraggio impiegata per un'operazione del genere, per quanto a sostenerlo, in particolare al Sud, ci sia stata pure una larga fascia di ex AN rampanti delusi anche dal Biscione. Un uomo, Salvini, che, peraltro, alle scorse Europee aveva fatto una tale man bassa di voti, pure tra i delusi dei pentastellati, al punto da essere indicato dai puntuali sondaggisti come il leader di un partito di futura maggioranza assoluta. Eppure, diciamolo, in un anno di governo non è che abbia fatto molto. Certo, il decreto sicurezza e l'impegno per il riavvio della TAV ma l'atteggiamento maggiormente pagante è stato quello, da ministro dell'Interno, nei confronti delle navi ONG nel trasporto immigrati. Non credo che Salvini abbia un animo razzista; penso semplicemente che egli abbia interpretato le riflessioni, alquanto moderate, della maggior parte della gente sul perché noi, in quanto Paese, dovessimo sobbarcarci l'onere, sia pur umanitario, di ricevere tutti gli immigrati di questo mondo quando altri Paesi, rivieraschi al pari nostro, assumevano un atteggiamento a dir poco ambiguo: rifiutavano l'approdo e, nel contempo, esprimevano pesanti giudizi nei nostri confronti. Penso che egli abbia incarnato buona parte degli elettori nell'assumere un atteggiamento tendente al chiarimento soprattutto con l'Unione Europea, silente fino a poco più di un anno fa dinanzi alle centinaia di migliaia di 'arrivati' all'anno che si riversavano sulle nostre coste e balbettante in quest'ultimo scorcio di tempo.

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E che un chiarimento si reputasse necessario anche nei confronti dei 'soccorritori', le ONG, che sembrano particolarmente interessate al 'salvataggio' fino al punto da spingersi al ridosso delle coste di partenza e di rifiutare aiuti da natanti di quegli stessi Paesi, era nei fatti. Come era negli stessi fatti chiarire se un'imbarcazione ONG possa bellamente ignorare le direttive di uno Stato democratico, universalmente riconosciuto, co-fondatore dell'Unione, annoverato nel G7 e partecipante a pieno titolo ai consessi internazionali. A meno che qualcuno degli illustri giuristi che hanno difeso l'operato dei capitani di 'ventura' non la pensino diversamente. Nel qual caso sarebbe interessante ascoltare la loro costruzione giuridica a sostegno di un ipotetico natante battente bandiera italiana che cerca di far sbarcare in uno dei porti europei del nord Atlantico indigenti immigrati di Bahama dopo l'ultimo tornado. Lo so, lo so, l'ipotesi non sta in piedi ma, a pensarci bene, è proprio la sua aberrazione a sostenerla. Ora, se l'accortezza e la lungimiranza dell'uomo l'avevano portato da un lato a sottrarsi all'abbraccio appiccicaticcio del Cavaliere, smaccatamente sconfitto nelle ultime tornate elettorali (scelta comunque non facile) e, dall'altro, a stringere un 'contratto' di Governo con l'M5S, di dimensioni doppie rispetto alle sue, c'era da aspettarsi, a mio sommesso avviso, che lavorasse dal di dentro del 'contratto' per erodere consensi, per acquisire meriti e per innescare la miccia di potenziale deflagrazione interna ai pentastellati: l'esuberanza smaniosa di Di Battista. A parere della mia debole mente, era Di Battista la 'quinta' colonna, insofferente verso il suo segretario nonché verso l'alleato in poderosa crescita, appena frenato nel suo agire da un senso di opportunità. E, invece, l'ultima scelta che una sprovveduta al pari mio poteva aspettarsi è stata quella di vederlo presentare una mozione di sfiducia al suo presidente del consiglio. Mi domando, nella pochezza delle mie riflessioni: chi pensava la potesse votare? Il PD, impedito da Renzi dall'andare al voto per non perdere la sua forza? Forza Italia nella sua ondivaga esternazione tra l'opposizione e la ricerca di un nuovo patto del Nazareno? I renziani, insoddisfatti della tiepidezza del fratello del commissario Montalbano, contro la restante parte del partito dimostrando così la volontà di dar vita ad un nuovo soggetto a 'sinistra' (si fa per dire)? Oppure, pensava che, facendo cadere il Governo, il PD o i 5S non potessero mai e poi mai allearsi a causa delle passate dichiarazioni? O credeva che, venendo meno una maggioranza, il Capo dello Stato potesse sic et simpliciter prenderne atto, sciogliere le Camere e mandare il Paese al voto così da fargli incassare la piena di consensi e non invece, come suo dovere, verificare se vi fosse in Parlamento una maggioranza diversa da formarsi con un partito che ha avuto 1/3 dei voti e ben 202 deputati? Perché se nella sua mente fosse passata una delle ipotesi suddette e le avesse dato credito, a parere personale, ci sarebbe da dubitare della sua esperienza politica se non della sua sanità mentale. Inspiegabile, poi, agli occhi di una povera vecchia, il ritiro della mozione e, addirittura, l'offerta di ritornare sui suoi passi qualora i Grillini, si pensi, avessero smesso di dire 'NO'. Beh! Questo mi sembra un atteggiamento da asilo infantile che, a volte, mi è capitato di vedere tra due bambini uno dei quali ha tirato o' cuppetiell con lo spillo all'altro e, sonoramente redarguito, promette di


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non farlo più. Ho quasi tratto un sospiro di sollievo quando una tale 'profferta di pace' è stata rifiutata con derisione. E che diamine, mi sono detta nei miei sconclusionati, senili, pensieri: un minimo d'orgoglio. Beh! Alla fine, una nuova maggioranza s'è trovata. Nella mia pochezza, non sono ovviamente al dentro delle sottigliezze politiche, ma mi chiedo quale importanza possa avere continuare a ripetere che il M5S avesse dichiarato in passato che mai e poi mai avrebbe formato un governo con il PD e che il PD, nei trascorsi, avesse espresso lo stesso sentimento. Che importanza possa avere continuare a ribadire il fatto che i pentastellati nascano all'insegna del 'vaff…lo day' rivolto ai partiti di sedicente 'centro destra' e 'centro sinistra' che nel ventennio passato avevano paralizzato il Paese con la loro nullità. A che porterà la manifestazione del prossimo ottobre. Peraltro, nell'elencazione delle 'incongruenze' ha dimenticato che persino Grillo, animatore del video della ripresa (mandata in streaming sulla rete) dell'incontro a suo tempo tenuto tra la delegazione pentastellata da lui guidata e quella del PD guidata dal Bersani nel 2013, ha dato ampio sfoggio della sua istrionesca capacità di deridere l'emiliano smacchiatore di giaguari per poi, nel 2019, in tutta solitudine, fare un video con il quale accoratamente 'prega' il PD di pensare 'bene' all'opportunità che gli veniva offerta; praticamente la loro 'ultima spiaggia'. Sottolineo a me stessa, con disappunto, che i 'figli' del Carroccio dovrebbero ben sapere che la politica è il 'gioco' delle opportunità (e, a volte, degli opportunismi) e l'arte del possibile. Certo, sarà anche la più nobile attività dell'essere umano ma la nobiltà, come sappiamo, è decaduta e prìncipi, baroni, conti e marchesi fanno gli imprenditori quando non gli intermediatori d'affari. Oooh! Forse i leghisti pensano che continuare ad additare agli elettori tali incongruenze salga in quest'ultimi uno sdegno tale da 'gasarli' fino alla prossima consultazione elettorale. Eppure, dovrebbero ben sapere, anche per esperienza diretta, quanto può essere corta la memoria dell'elettore. Ma, comunque, mi auguro sappiano che tra gli appartenenti alla fascia della mia veneranda età, recentemente 'convertiti' alla Lega o maturi aficionados, serpeggia una forte perplessità, se non delusione, nei confronti dell'agire del leader di quel partito, non foss'altro per aver ridato ossigeno a due malati terminali, il PD e Forza Italia. Per cui, da vegliarda, mi auguro che tratti gli elettori da adulti e spieghi le ragioni vere, se ci sono, di questa mossa all'apparenza barbina. Spieghi, se vi sono fondati motivi, del perché 'questa', quale che sia, sarebbe una manovra ordita a Parigi e a Berlino. E, se ricorrono i presupposti, lo faccia alla svelta. Altrimenti, per il tempo che durerà questo governo, Conte 2, le uniche risultanze che si determineranno saranno tutte a detrimento leghista. In ordine, poi, alla durata dell'attuale governo lo scenario appare ai miei vetusti occhi alquanto interessante: la comunità internazionale ha già espresso il suo apprezzamento nei confronti della 'squadra' e del suo reggitore: la neo presidente della Commissione Esecutiva ha avuto lunghi, cordiali e proficui colloqui con lui e persino il presidente americano Trump ha

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manifestato apprezzamento nei suoi confronti ('dimenticando' che il leader leghista era stato addirittura invitato alla festa della sua proclamazione). Lo spread è vorticosamente disceso a significare che i mercati sono tranquilli e la benedizione fornita dalla vigile e solerte Standard & Poor chiude l'idilliaco quadro. Il possesso delle presidenze di ben 11 commissioni parlamentari da parte della Lega, poi, è un fatto di ulteriore nota: certo tutte di peso quali alla Camera, il Bilancio, l'Ambiente, i Trasporti, le Attività produttive e il Lavoro e al Senato, Finanze e tesoro, Affari costituzionali, Giustizia, Difesa, Istruzione, e Agricoltura. Ma queste, ai deboli occhi di un'anziana, appaiono come 'armi' a doppio taglio perché, se si volessero adoperare, esporrebbero immancabilmente la Lega ai voleri di Forza Italia da un lato e ai parlamentari rispondenti a Matteo Renzi dall'altro. Penso sia una questione di algebra. Ci sarebbe da chiedersi, infatti, per quale motivo il Matteo di Rignano, con i suoi 40 senatori, abbia avversato prima e sposato poi l'alleanza giallo-rossa. Toh! Guarda. L'alleanza giallo-rossa …. Già. I colori della Roma Calcio, se non erro. Alla fine, credo che anche la Raggi possa dirsi tranquilla con l'attenzione che il governo le riserverà e sperare che tutti gli 'svarioni' nei quali è incappata finora passino nel dimenticatoio, adesso che è venuta meno l'unica opposizione, non contando l'altalenante atteggiamento di Forza Italia. Tranquilla al punto da pensare ad un secondo mandato? Oh! Cielo. Non scherziamo. L'importante è provare a far dimenticare il degrado e i supplizi logistici così da non penalizzare nel futuro il partito di riferimento. Questo ci porta a chiederci quanto possa durare un'alleanza simile. Tra un partito che, comunque, ha più di un secolo di storia e un altro che ha neanche cinque anni ed è alla prima esperienza di governo. Tra uno strumentale decisionismo e un'approssimazione demagogica… e c'è chi teme la scarsa 'figura' che potremmo fare nei confronti internazionali. E, prima fra tutte le preoccupazioni, la improbabile scelta di affidare a Luigi di Maio il dicastero degli Affari Esteri per il quale è tornata di moda la battuta partenopea 'a pucchiacca 'n mane 'e creature. Ed invece no, non mi preoccupano tali aspetti. Perché ritengo che a salvaguardare la nostra immagine all'estero e a renderla omogenea e coerente con i rituali ci penserà il PD (mai e poi mai avrei pensato di affermare una cosa del genere e riporre in quel partito le mie speranze). Non ritengo un caso la presenza di Gentiloni nella Commissione Esecutiva europea, beneficiato dall'assenso renziano dopo l'iniziale ostracismo. Ma, allora, ritorniamo al punto: quanto potrà mai durare un'alleanza del genere, basata su un 'programma' come si ostina a dire il fratello di Montalbano, ovviamente 'nell'interesse del Paese', 'a favore degli italiani', da realizzare manco a dirlo 'con senso di responsabilità'? A tale domanda, onestamente, non so rispondere, prudente dopo aver 'bucato' la previsione di durata del precedente governo nell'articolo dell'altro mese, non pensando mai e poi mai che a 'staccare la spina' fosse l'unico che, a mio sommesso giudizio, non aveva interesse. Ma, non a caso esistono le variabili indipendenti. L'unica previsione che ora mi sento di arrischiare è quella di pensare che almeno un anno vada avanti: tra pochi mesi non si rinnovano i vertici dei maggiori gangli amministrativi-operativi del Paese?


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E ciò senza pensare che tra un paio d'anni inizieranno le manovre per il rinnovo del mandato di Capo dello Stato. Oh! A proposito … comincia a girare in certi ambienti la voce secondo la quale il presidente del consiglio Conte potrebbe essere l'uomo adatto alla bisogna. Bah! Va a sapere. Adesso me ne vado a letto. Tanto non c'è dibattito e sono stanca. La mia debole testa si è affaticata e probabilmente farnetica. Ma confido nella speranza: Chissà chissà domani/ Su che cosa metteremo le mani/ Se si potrà contare ancora le onde del mare/ E alzare la testa …. Aspettiamo che ritorni la luce/ Di sentire una voce/ Aspettiamo senza avere paura, / domani/ come cantava Lucio Dalla nel suo Futura. R.F.

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E SE CI FOSSE LO ZAMPINO DEGLI USA? Forse è solo un esercizio di fantapolitica e, certamente, non vi sarà modo alcuno di provarlo, ma se la crisi italiana scaturita dal "gran rifiuto" di Matteo Salvini fosse la conseguenza del suo viaggio negli Usa del 17 giugno 2018? Un viaggio "oscuro", consumatosi con un incontro del "capitano" con il vice di Trump, Pence. Stranamente, sugli esiti di quell'incontro e sulle sue motivazioni vi è stato un silenzio assoluto, sia dei protagonisti, sia dei media. Eppure, se fosse stato un incontro gravido di conseguenze positive il Matteo nazionale ce lo avrebbe fatto sapere. Che sia scattato un veto? Un "niet" degli Stati Uniti alla continuazione dell'esperienza di governo della Lega? Che qualche testa d'uovo della Cia abbia confezionato la polpetta avvelenata per Salvini facendo leva sui contatti con Putin e sull'accordo di collaborazione siglato tra la Lega e Russia Unita? Singolare il fatto che le registrazioni dei colloqui di Savoini a Mosca siano state pubblicate su un sito statunitense, singolare e fuori dai suoi schemi anche il voltafaccia di Trump nei confronti dell'amico Matteo e l'improbabile apertura di credito nei confronti di "Giuseppi". E non ci si venga a raccontare - come qualcuno pur ha fatto - che è stato per via dell'apprezzamento di Trump per il buon taglio sartoriale degli abiti di Conte. E che pensare del furto della cassaforte di casa Salvini (padre) avvenuto un mese dopo previo smuramento? Vero è che i ladri hanno svaligiato anche un altro appartamento nello stesso stabile, ma i film di spionaggio ci hanno abituati a pensare sempre ad ogni possibile depistaggio. C'è poi una considerazione finale: possibile che Salvini, che non ha sbagliato una sola mossa da quando ha preso le redini della Lega, si sia fatto fregare da Renzi o abbindolare da una falsa promessa di Zingaretti? Come mai l'Unione Europea si è mossa con apparente largo anticipo e intollerabile tracotanza nell'ostracizzare la Lega vincitrice delle Europee e nell'eleggere un Pd alla presidenza del Parlamento Europeo il 3 luglio? Avrebbe osato tanto se Salvini avesse goduto ancora del favore degli Usa? Finora l'operato di Salvini è sempre stato credibile e conseguenziale ad impegni assunti con gli elettori, ma su una particolare affermazione non risulta altrettanto credibile, quando dice: "Alle poltrone abbiamo preferito la dignità" quanto meno perché mai avrebbe dovuto proporre, a crisi aperta, a Di Maio la Presidenza del consiglio. Renzi, con acume machiavellico, si è infilato magistralmente nella vicenda, ha dissuaso Zingaretti dall'ostinarsi in uno sterile no ai Cinquestelle, ha benedetto la nascita del nuovo governo, ha piazzato i suoi in posizioni chiave e non appena completate le nomine dei sottosegretari ha annunciato la formazione dei suoi gruppi parlamentari dicendo addio al Pd.


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Con tale mossa si è fatto ago della bilancia per la tenuta del governo, terrà "per le palle" Conte, Zingaretti e Di Maio, puntando sul loro orrore per il voto, potrà fare ampio bottino in vista delle prossime importanti nomine che andranno a scadenza e, ma anche questo non lo sapremo mai, potrà "negoziare" la sua "buona uscita" dal Pd. Fossi Zingaretti farei cadere subito il governo per andare al voto così da lasciare il Machiavelli di Rignano con un pugno di mosche, Luigi di Maio in coma irreversibile e "Giuseppi" con un palmo di naso. E così farei anche capire agli Usa che in politica estera, come spesso accade, non ne azzeccano una. Ma è improbabile che il Segretario del PD trovi tanta determinazione da opporsi ai disegni del Colle. Pierre Kadosh

audacia temeraria igiene spirituale

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I PECCATI CAPITALI DEL “CAPITANO” Ora che la frittata è fatta parliamone e poi mettiamoci una pietra sopra. Non c'è altro modo per dirlo: Matteo Salvini, aprendo la crisi al buio in pieno agosto, ha combinato una cavolata di dimensioni galattiche. Voleva le urne e ha rimediato, per la gioia della maggioranza degli italiani, il peggiore governo che si potesse desiderare. Il "Capitano" ha goduto della nostra stima. Ne abbiamo esaltato le doti di stratega razionale quando l'universo mondo gli dava del rozzo, dell'improvvisato, del barbaro. In sei anni alla guida della Lega ha compiuto imprese mirabili che soltanto in parte possono essere riassunte dalle straordinarie percentuali di consenso raggiunte. Ora, è pur vero che siamo umani e che il primo tratto distintivo dell'homo sapiens è che sbaglia, ma come è stato possibile che proprio Salvini abbia toppato a quel modo? Di certo ha ignorato la seconda regola aurea della politica per la quale gli spazi lasciati vuoti vengono occupati. Ha deciso di staccare la spina al governo che gli stava regalando successi e popolarità e i nemici storici non si sono lasciati scappare l'occasione d'infilarsi nella fessura creatasi insperatamente. Davvero credeva Salvini che la sua presa di posizione avrebbe comportato l'automatico ritorno alle urne? Il leader leghista non ha valutato a sufficienza la forza della disperazione dei potenziali perdenti e, soprattutto, la ferrea intenzione del Capo dello Stato di fare l'impossibile per non consegnare la guida del Paese a una forza egemone che si richiama a quel sovranismo che lui, da Presidente della Repubblica, non smette di criticare in ogni occasione pubblica. Non ci dica Salvini che ha creduto alla storia del Capo dello Stato notaio e arbitro imparziale tra le parti in campo. L'odierno inquilino del Quirinale, come i suoi predecessori, è uomo di idee e di pulsioni sentimentali, con un passato politico che non può essere messo da parte come un abito dismesso. La proclamata imparzialità è soltanto l'ennesima leggenda metropolitana che aleggia sulla "Costituzione più bella del mondo". Nella circostanza, il presidente Mattarella non ha vestito i panni del notaio ma quelli più modesti del contabile. Calcolatrice alla mano ha verificato che i numeri per una maggioranza alternativa vi fossero e, da subito, non ha avuto dubbi nell'assecondare le aspettative di tutti gli establishment operanti in giro per l'Europa per benedire la nascita del Governo "laqualunque". Nei giorni passati sono circolate voci secondo le quali Matteo il "Capitano" avrebbe concordato con Nicola Zingaretti la richiesta di voto anticipato. Se fosse vero, Salvini dovrebbe fare per punizione tre volte il giro a piedi del Grande Raccordo


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Anulare, e di corsa. Ma che fa? Si fida della parola di uno del Pd? Se fosse vero il leghista avrebbe violato la terza regola aurea della politica, che discende direttamente dalla prima "in politica nulla è come appare". Il terzo decisivo comandamento prescrive che "in politica non ci si fida di nessuno, dei nemici e neppure degli amici". Enrico Letta docet. Si sostiene che l'errore di Salvini sia stato di carattere temporale, avrebbe sbagliato i tempi di apertura della crisi ritardandoli rispetto al momento più favorevole. Questo è ciò che pensa la comune vulgata. Noi la pensiamo all'opposto. Se errore di tempo c'è stato è perché Salvini ha anticipato la sua mossa. Abbiamo convintamente sostenuto la posizione del "Capitano" quando ha tenuto duro nel tenere in vita il rapporto con i Cinque Stelle. Avrebbe dovuto continuare a farlo almeno fino al momento della loro implosione. Solo dopo che la frattura tra le molte anime del Movimento si fosse consumata palesandosi con la creazione di gruppi parlamentari separati, Salvini avrebbe potuto lanciare la sua Opa su ciò che sarebbe residuato della corazzata grillina. Non c'era da aspettare molto. Un ultimo scossone elettorale alle regionali in autunno, magari con un Cinque Stelle ridotto nel consenso a un prefisso telefonico, avrebbe dato il via alla blitzkrieg nella campagna elettorale di primavera. La rottura prematura ha avuto come effetto immediato il ricompattamento dei Cinque Stelle, con l'aggravante della resurrezione della corrente dell'ultrasinistra di Roberto Fico che ha preso le redini del Movimento facendo leva sull'accusa a Luigi Di Maio di totale subalternità all'alleato sovranista. Salvini, per giustificarsi, si professa uomo di ideali che mai svenderebbe le sue convinzioni per tenersi le poltrone di sette ministeri. Sarà che siamo più prosaici e meno idealisti di lui, ma noi il conto delle rinunce lo facciamo. Saltando dal Governo, la Lega ha perso il diritto di nominare il Commissario italiano alla Ue. Lo è diventato l'accomodante Paolo Gentiloni Silveri. Incredibile, il Pd da sconfitto alle Europee ha piazzato a Bruxelles l'ennesimo yes-man destinato, come l'uscente Federica Mogherini, a fare da tappezzeria nei saloni climatizzati di Palazzo Berlaymont. Addio Governo, si perde la chance di portare per la prima volta nella storia repubblicana una personalità di destra a succedere a Sergio Mattarella alla scadenza del mandato presidenziale. Con assoluta probabilità all'inizio del 2022 ci toccherà subire un altro cattocomunista al vertice dello Stato. Magari una Rosy Bindi o un Romano Prodi, sai che allegria! Via dal Governo si perde l'opportunità di mettere becco nella nomina di oltre 400 personalità manageriali destinate ai vertici delle aziende di Stato, delle partecipate e di altri organismi vitali della Pubblica Amministrazione. Via dal Governo, fine della possibilità di bloccare l'infamia dell'allungamento all'infinito della prescrizione nel processo penale. Via dal Governo, saranno i nuovi arrivati a raccogliere i frutti della battaglia condotta dalla Lega all'interno del Cipe per lo sblocco dei 56 miliardi per le opere pubbliche da fare ripartire. Via dal Governo saranno i nuovi padroni del vapore, i "dem", a scrivere la prossima legge di Bilancio a proprio uso e consumo. Via dal Governo, stop alla difesa dei confini dall'assalto delle navi delle Ong cariche d'immigrati clandestini. Non andiamo avanti nell'elencazione per carità di patria. Salvini si giustifica sostenendo che gli

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avrebbero impedito di fare la Flat Tax. È bastato questo per gettare la spugna? Avrebbe dovuto almeno provarci. E solo dopo aver certificato il fallimento della trattativa con i Cinque Stelle avrebbe potuto rivolgersi agli italiani spiegando il motivo della fine dell'esperienza giallo-blu. Va bene che un capo deve assumere su di se la responsabilità di una sconfitta, ma non è credibile che tutte le colpe ricadano soltanto su di lui. La verità è che Matteo ha ceduto alle pressioni dei dirigenti del suo partito, in particolare della vecchia anima nordista, perché staccasse la spina. In questo harakiri poco rituale c'è stata la manina subito ritratta dei due governatori leghisti di Lombardia e Veneto che hanno montato una polemica assurda sul fatto che non avessero ottenuto l'autonomia differenziata a tempi di record. Hanno rotto i timpani un giorno sì e l'altro pure perché si chiudesse ad horas il negoziato altrimenti minacciavano sfracelli. Adesso saranno contenti. Con il flemmatico pugliese Francesco Boccia alla guida degli Affari regionali, l'autonomia per i loro territori la vedranno col binocolo. E poi i partner del centrodestra. Che forti che sono. Hanno insultato Salvini perché restava in affari con i grillini e ora che si è risolto a rompere cosa gli rimproverano? Di aver consegnato l'Italia alla sinistra. Roba da matti. Come riprendersi dalla botta? Il modo c'è. Ma non parliamone adesso. Cristofaro Sola


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PER UNA NUOVA ETICA NELL’ECONOMIA: LA LEZIONE DI RICCARDO PEDRIZZI Il "Salvadanaio", ultima fatica di Riccardo Pedrizzi, rappresenta, senza esagerazione, il punto di riflessione cui oggi far riferimento sul rapporto etica-economia. Non solo le dimensioni del libro, ma anche il suo tentativo di inverare la dottrina sociale della Chiesa nelle condizioni spirituali e finanziarie dei nostri tempi lo fanno diventare un'occasione che induce a fare il punto, oggi, nel frastuono del mondo che ci circonda. Depurato degli aspetti riguardanti il nostro Paese, sarebbe auspicabile, anzi, una sua traduzione almeno per il mondo tedesco, sempre attento osservatore circa l'evoluzione delle idee. La lettura più di getto che si dà di questo libro sta nel vedere l'àncora della Chiesa come la via per la "sopravvivenza economica", nelle tempeste del nostro tempo. Ed è la lettura che corrisponde alle intenzioni dell'Autore, che appunto vuole calare ai problemi economico- finanziari di oggi l'eterno messaggio di Santa Romana Chiesa. Operazione culturale rilevante, fatta non da chi è interno alla Chiesa, ma da chi è un protagonista del mondo economico-finanziario e politico. Scrive dunque un uomo "laico", ancorché credente, il che offre un sicuro orientamento al lettore anche a proposito dei tecnicismi che la materia presenta e dei modi di pensare di chi ha operato ed opera nel mondo dell'economia. Qui sta uno dei tanti pregi del libro. Ma se la prima lettura, quella istintiva ed immediata, è quella appena detta, come dimostrano peraltro le eccellenti introduzioni di Giuseppe De Lucia Lumeno e del Cardinale Gerhard Ludwig Müller, è possibile aprire il compasso per un altro modo di vedere la questione, che molto probabilmente non è lontano dal pensiero di fondo dell'Autore. Il punto della questione è presto detto. Ciò che è sotto gli occhi di tutti come elemento che non va non è il meccanismo classico: accumulo di risparmio-investimenti, che è il perno su cui si fonda il capitalismo classico. Quello che non va è il fatto che su questo meccanismo di base, correlato a sua volta a chi intermedia tra risparmio ed investimento (il mondo bancario), si sia da tempo innestata una crescita mostruosa, abnorme, smisurata e ormai incontrollabile di un'attività di natura meramente finanziaria finalizzata solo a generare profitti, spesso oscuri. Il punto è tutto qui. Basti pensare che stime ufficiali misurano il rapporto tra prodotti finanziari e pil mondiale intorno a 14/1. Indubbiamente, c'è chi condanna il capitalismo anche per i suoi aspetti fisiologici. Ma non è di questo che qui si sta parlando. L'opera di R.Pedrizzi, la dottrina sociale della Chiesa e tutta la temperie culturale dell'Occidente, con i nessi che legano questi vari passaggi, non negano la validità del meccanismo di base - quello fisiologico - del capitalismo moderno, ossia l'impresa

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che produce beni finanziandosi con un risparmio che viene raccolto ed offerto a chi ne ha esigenza da qualcuno che comincia a far questo di mestiere. Un meccanismo che non casualmente si sviluppa in epoca medievale in un contesto cristiano ed alla cui base non può che esserci una parola tanto esecrata, ma da rivalutare per i suoi aspetti propositivi: profitto. Lavorare gratis può starci, ma che tutti lavorino gratis è impossibile. Quando certe dottrine hanno trovato attuazione, alla fine sono semplicemente implose dall'interno, come un castello di carta caduto senza neanche un refolo di vento. Il messaggio del libro può essere dunque letto anche nel tentativo, in accordo con la pars costruens della dottrina della Chiesa, di mettere l'accento sul buono del meccanismo capitalistico e di stigmatizzare con particolare forza le esagerazioni e le deviazioni avvenute negli ultimi decenni verso la sola e pura finanza, dietro cui ci celano solo chiacchiere: il regno dell'algoritmo. Da questo punto di vista un'esperienza da rivalutare e forse da riprendere in una qualche successiva ed ampliata riedizione dell'opera è quella di una riconsiderazione e di un ammodernamento dell'idea tedesca di economia sociale di mercato. Il manifesto programmatico della CDU/CSU è un ottimo esempio in questo senso. I testi dei classici sono da tempo disponibili sul mercato italiano e si può dunque apprezzarne il senso dell'idea di base: i pubblici di poteri come custodi inflessibili del rispetto delle regole da parte di un mercato lasciato libero, però, di operare con l'autonomia e la flessibilità che ne costituiscono gli indispensabili motori. Si introduce così l'idea del "giusto", di antichissima origine riferita alle logiche dell'economia, rinverdita dal passaggio tomistico e che deve rappresenta il punto di riferimento quando si affronta il tema dell'introduzione di elementi di etica nelle cose economiche. In effetti è quello che R. Pedrizzi fa, quando alle pagg. 299-300, delinea esattamente quello che è stato il modello renano, che egli chiama "quarta fase del capitalismo", ossia il "capitalismo della responsabilità". Il punto su cui induce a riflettere l'opera di R. Pedrizzi può anche consistere, dunque, in un rinverdimento delle ragioni "sane" del capitalismo pensando, ad esempio, a quell'alleanza tra produttori di cui parlava Gobetti, tanto per fare un nome. Temi, questi, su cui si innesterebbero scelte ed opzioni di politica economica attuale, ma anch'essi correlati ad un discorso etico. L'etica nell'economia, così come nelle istituzioni e nell'agire individuale (e senza immaginare improbabili, ma anzi catastrofici uomini nuovi), è tema peraltro che l'hegelismo antico e nuovo ha a lungo trattato, tanto per fare un esempio che si colloca al di fuori del contesto cattolico. Ma è chiaro che il discorso sull'etica sposta immancabilmente l'ottica sulla Chiesa e qui il cerchio si chiude. Le parole-chiave forse sono quelle della Sezione IV del libro: un'economia al servizio dell'uomo. Compito non facile da realizzare e forse possibile a molte e non semplici condizioni: anzitutto, che l'esempio sia virtuoso, l'esempio di chi dice di fare, ma talvolta fa poco o fa diversamente, molto diversamente. L'etica è anche questa, cattolica o laica che sia. E' l'esempio, quello del buon padre di famiglia o del buon maestro di scuola elementare, a


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piegare l'etica individuale verso quella collettiva, a far capire come si fa. Il sacrificio di Socrate non può essere stato vano. Non a caso R. Pedrizzi ripropone al centro i corpi intermedi, nozione sbiadita dopo l'uragano della Rivoluzione dell'89, ma istituti portatori di un'etica sana: che siano queste le parole su cui l'Occidente forse dovrebbe ripensare e rifondare sÊ stesso? Se è ancora in tempo. Clemente Forte

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SANTO PADRE, MA COSA MI COMBINA? Nella seconda metà degli anni '90 del secolo scorso (primo, e credo ancora unico, ambasciatore d'Italia a recarsi personalmente colà) mi ritrovai nelle isole Gilbert della Repubblica delle Kiribati, Oceano Pacifico centrale, a presentare al Presidente di quello stato insulare della Micronesia le mie lettere credenziali ed ebbi in tal modo l'occasione di soggiornare per un paio di giorni in un piccolo, incontaminato atollo da cartolina al di fuori di qualsiasi percorribile rotta turistica. Il ricordo più vivo di quella specifica circostanza è una mia estemporanea riflessione del momento - ispirata forse della bianca sabbia, dalle verdi palme o dalla laguna blu - incentrata su un semplice domanda : "ma perché mai il buon Dio, il fato, o il caso che dir si voglia, abbiano voluto farmi nascere siciliano di Palermo di stretta osservanza cattolico-romana piuttosto che "felice" indigeno animista in quel paradiso terrestre"? Naturalmente tale interrogativo non ha mai avuto risposta ed io mi sono ritrovato ad essere quel che sono, nella mia attuale identità storica, culturale, ambientale, sociale e religiosa senza alcun'altra alternativa se non che quella di dovermene comunque fare un'accettata ragione. E con tale ragione ho comunque convissuto, più o meno serenamente, per ben oltre settant'anni. Ma come canta il grande Frank Sinatra: "and now the end is near and so I ( o, direi piuttosto, "we") face the final curtain", ecco che tutti noi (o almeno quei cattolici dai capelli bianchi) ci ritroviamo oggi davanti ad un inatteso sipario che forse prelude ad un abisso profondo ed ignoto. Chi se lo sarebbe mai aspettato, così improvviso e contraddittorio? Chi avrebbe mai potuto immaginare che il capo supremo della Chiesa cattolica, "pontifex maximus" tra terra e cielo, avrebbe consentito la costruzione di un ultimo ponticello verso un ignoto dottrinario e fideistico foriero di chissà quali e definitive alterazioni della "nostra" Chiesa apostolica romana? Dopo mille accenni, suggerimenti, indicazioni ed interpretazioni sui più svariati temi, ma tutti concorrenti a proporre al mondo una visione laica e mondana della chiesa di Cristo, Papa Bergoglio sembrerebbe venuto allo scoperto consentendo un'ultima e definitiva provocazione: con somma sorpresa apprendo infatti dalla stampa che sarebbe stata assestata una fatale picconata all'ultima, residuale ridotta di sacralità dell'intera Chiesa cattolica, riconducendo nel più concreto - ed a lui ben più familiare - contesto dello "here and now" quell'estremo baluardo di spiritualità pura ancora presente tra le pecorelle del suo gregge: le suore di clausura. Riflettiamo: non credo che vi sia alcun dubbio sul fatto che il voler conciliare, concettualmente ed emotivamente, in un'unica persona (come da imperativo evangelico) l'amore verso Dio e quello


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verso il prossimo sia pratica difficilissima per una comune mente umana. Questa è infatti entità complessa, poliedrica e comunque sostanzialmente contraddittoria. Se infatti per facilitarci il compito volessimo scindere, in due aspetti facilmente percepibili, i limiti estremi di tale forma d'amore slegandoli, a puro scopo illustrativo, l'uno dall'altro, non potremmo che ricorrere ai distinti esempi delle suore Clarisse e Carmelitane, da un lato, e delle Missionarie della carità di madre Teresa di Calcutta, dall'altro. Le prime, nella sostanza, si rivolgono soprattutto a Dio con la loro costante preghiera, le seconde in larga misura, tendono invece a concentrarsi sull'uomo e sulle sue primarie esigenze materiali. Di conseguenza, il perfetto cristiano che volesse conformarsi in pieno al vangelo di Matteo secondo cui: "amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore ed amerai il prossimo tuo come te stesso" quali caratteristiche dovrebbe egli avere? Mi permetto di suggerire umilmente: una specie di santo ircocervo di difficilissima concretizzazione pratica e composto idealmente da una perfetta fusione tra una Clarissa/Carmelitana ed una Missionaria di Calcutta. Dato però che tali due essenziali componenti della fede cattolica, pur se nella loro sostanziale differenza, debbono comunque dottrinalmente coesistere (ma non in una singola simbiosi materiale, realisticamente impraticabile), non vi è altra soluzione che il mantenere in vita le due relative, estremizzanti fattispecie, almeno come simultanei, ma ben distinti, punti di riferimento. La formula fideistica della professione di fede cattolica "io credo nella comunione dei santi" (e non in quella degli infermieri!) è infatti un qualcosa di essenziale nel mantenere quel necessario equilibrio tra gli umani (a volte infinitamente perversi) e la misericordia di Dio (costantemente totale). Di conseguenza ritengo che non si possa fare a meno di nessuna delle due attuali, predette componenti. Ma se alla fine del confronto esistenziale tra tali due complementari elementi, "madre Teresa" prendesse il sopravvento - ridimensionandola - sulla "suora di clausura", il mondo cristiano si squilibrerebbe: amare il prossimo diventerebbe, di per se stesso, PIU' importante che "contemplare" Dio; adorare il creatore, in individuale e silenziosa meditazione, sarebbe invece MENO importante del lenire le inevitabili sofferenze umane. Pertanto, Santità, si rende conto di quello che Lei favorirebbe consentendo l'ospitalità di immigrati nei monasteri di clausura? (escludo infatti che, per esempio, le suore clarisse che come è noto dipendono direttamente da Lei, e da Lei soltanto, possano aver concepito una tale idea di supina accettazione soltanto nel solitario silenzio delle loro spoglie cellette). Ed inoltre, e spero che Lei mi perdonerà tale mia deformazione professionale, da ex diplomatico sono sempre stato convinto che in una struttura prettamente gerarchica nulla che scaturisca apertamente dai ranghi non possa non essere necessariamente ricondotto in qualche modo ad un' inevitabile genesi di vertice supremo. Un monastero di clausura riempito di fedeli musulmani? Forse soltanto Santa Chiara avrà immaginato per un attimo, e con una certa preoccupazione, un simile scenario nei momenti in cui il suo contemporaneo fratello in Cristo - ed altresì Suo omonimo - Francesco d'Assisi faceva visita al Sultano del Medio Oriente al fine, però, di convertirlo al cristianesimo. I musulmani maschi ospiti del Carmelo e/o delle Clarisse (a proposito, Santità, come pensa che possa sentirsi

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lo spirito, ormai eterno, del Suo predecessore Innocenzo IV ? …. ma certamente, Lei mi dirà, quelli erano altri tempi) al solo scopo di una malintesa solidarietà umana costituirebbe, secondo me, un eccesso di peloso "umanitarismo" che neppure i più assatanati (e si, è proprio il caso di dirlo: assatanati!) "buonisti", "internazionalisti", "solidaristi" e compagnia cantante delle variegate agenzie, delle Nazioni Unite e relativi sodali avrebbero mai immaginato che si sarebbe potuto verificare; e ciò, anche nelle loro più pindariche velleità concettuali di amalgama, compattamento ed appiattimento dell'umanità intera sul pensiero unico mondialista. Mi scusi lo sfogo Santità, ma la sola prospettiva di una tale, ipotetica eventualità mi sconvolge. A quando dunque l'ormai inevitabile e definitivo trasferimento dell'intero Vaticano alla nuova sede di Turtle Bay, Midtown Manhattan, New York City, U.S.A., indirizzo ufficiale del Segretariato Generale delle Nazioni Unite come ultima, ma illustre e prestigiosa, agenzia ONU per i diritti "UMANI" (cioè di QUESTO mondo)? E no, Santità, Lei non può dare in tal modo la stura ad un totale ed assoluto tradimento della mia povera, insignificante persona, nonché modestissimo, antico fedele di quella vecchia "mia" ma forse a questo punto sarebbe il caso di dire soltanto "Sua" - chiesa alla quale (e sono certo che me lo concederà in nome del Suo tanto lodato rispetto per i "diritti umani") io resterò comunque legato fintanto che mi sarà dato da vivere. Ma comunque, chi mai sono io? Mi corre l'obbligo di presentarmi: sono un ex bimbetto degli anni quaranta del secolo scorso con madre molto colta, profondamente credente ed osservante e da questa instradato alla religione cattolica con l'aiuto catechistico del santo parroco della parrocchia di "San Espedito martire" della città di Palermo, nonché un ex adolescente degli anni cinquanta/sessanta, alunno del ginnasio/liceo classico "San Luigi Gonzaga" dei padri gesuiti (si, padri gesuiti, proprio i Suoi confratelli!) della stessa Palermo e dunque impregnato - volente o nolente che io ne sia mai stato - di quell'insegnamento cristiano basato unicamente sui quattro evangeli e sugli atti degli apostoli e nei quali, almeno al tempo della loro prima illustrazione al sottoscritto infante/adolescente, non si intravedeva alcuna indicazione in merito ad un presunto, ultimo fine della Chiesa cattolica di dover diventare un'ancillare agenzia specializzata di quell'organizzazione prettamente laica e concettualmente del tutto mondana chiamata Nazioni Unite. Sui principi ispiratori di detta struttura, nonché sulle caratteristiche dei relativi padri fondatori, evito peraltro di pronunciarmi per pura carità di "patria" verso la mia fede religiosa. Credo proprio con costernato dolore, Santità, che quando la Sua visione politica avrà permeato (e Dio ce ne scampi, è proprio il caso di dirlo) l'intero universo della chiesa cattolica, il gregge dei relativi fedeli sarà diventato, ahimè', un perfetto osservante dei valori della "terra" e non più di quelli del "cielo" Conclusione. Non so se la notizia di cui sopra, giornalisticamente riportata e da me qui commentata, sia vera, semivera o falsa. Per me ciò non ha alcuna importanza. Il catechismo cattolico di infantile, ma ancor viva memoria, mi ha infatti insegnato che quattro sono i modi in cui si possa peccare: pensieri, parole, opere ed omissioni; pensieri appunto. Quindi il fatto stesso che una tale eventualità (musulmani nella clausura!) possa se non altro essere stata soltanto


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concepita e fatta in qualche modo circolare, è di per se stesso un profondo vulnus nel monolite di quella fede cattolica a cui noi, modesti credenti "d'antan", siamo stati allevati sin dalla più tenera infanzia. Accadrà, non accadrà? Non ha importanza. La ferita è stata inferta e dunque il Suo messaggio alle suore diventa oggettivamente il seguente: "mie care sorelle della Clausura e del Carmelo, smettetela di 'perdere tempo' in silenziosa, astratta contemplazione del Cristo sofferente sulla croce, ma rimboccatevi le maniche e cominciate finalmente ad occuparvi delle carnali ferite mondane di quei bisognosi fratelli peraltro, nella fattispecie, non soltanto non credenti nel nostro divino Salvatore, ma altresì fermamente persuasi che per accedere al loro eterno paradiso di delizie sarebbe cosa buona e giusta farvi scomparire definitivamente tutte quante dalla faccia della terra .… e cosi sia! Antonino Provenzano Roma, 19.07.2019.

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MA COSA CI STA A FARE UN CREDENTE D’ANTAN NELLA CHIESA DI BERGOGLIO? Sull'onda dell'istintivo senso di sconcertato sbalordimento suscitatomi dalla notizia di fonte giornalistica secondo la quale in ambito ecclesiale sarebbe stata ventilata l'eventualità di una possibile apertura dei monasteri di clausura all'accoglienza di immigrati stranieri di variegata provenienza, ho buttato giù di getto le brevi riflessioni di cui al mio scritto: "Santo Padre, ma cosa mi combina?", senza tener conto del fatto che la relativa pubblicazione su CONFINI, avrebbe dovuto comportare per me preliminari obblighi di carattere, diciamo, 'giornalistico'. Mi sono infatti ricordato che colui che scrive per la pubblicistica avrebbe il preciso dovere di non dare alcunché per scontato, soprattutto se la sua prosa sia frutto di un istintivo moto dell'animo. Ai lettori infatti (non appartenendo essi ovviamente alla cerchia dei suoi diretti conoscenti) non può essere irrazionalmente attribuita, come data per acquisita, la presunzione che essi abbiano alcuna idea dei motivi di fondo dai quali - e per i quali - un qualsiasi scritto abbia preso poi una determinata veste. Mi sono quindi chiesto: è corretto che io manifesti, così di punto in bianco, una evidente personale indignazione come quella che traspare dal mio, certamente irrituale e secco, quesito al Santo Padre? E' giusto che io non chiosi successivamente, almeno in questa sede, in merito ad un possibile, aprioristico dubbio che possa aver attraversato la mente di chi abbia avuto la compiacenza di leggermi, del tipo di: "…. ma tu, caro Antonino, su cosa cerchi di discettare trattando un argomento in merito al quale la tua "autorevolezza", diciamo teologico/ecclesiale, non può comunque travalicare la tua modesta condizione di semplice battezzato, tiepido credente ed ancor più modesto praticante religioso in una vita quotidiana di fatto laicale?". Tale domanda sembrerebbe più che legittima, ma ritengo tuttavia che il relativo argomento sia ANCHE di mia personale competenza. Cercherò quindi di illustrare qui di seguito la sofferta, si proprio sofferta, genesi di quell'interno disagio che mi ha portato ad esternare ciò che potrebbe essere considerato, con qualche ragione, una domanda forse irrispettosa rivolta al Sommo Pontefice. Ma procediamo con ordine. La Storia della Chiesa cattolica e la relativa osservanza del suo credo sono, per quanto mi concerne, iniziate oggettivamente da zero nel momento in cui sono venuto al mondo in un giorno del lontano 1944 (dunque oltre 75 anni fa) ed accolto tra le braccia di una madre colta e profondamente religiosa. Dopo appena un paio di giorni il Papa dell'epoca (e che Pontefice !), PIO XII°, mi dava (attraverso il fonte battesimale) l'"ufficiale" benvenuto nel più ampio gregge di


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santa Madre Chiesa. Diciamo quindi che io mi sono ritrovato di fede cattolica, come oggi suole dirsi, del tutto "a mia insaputa", ma ciononostante in essa sono stato abbastanza serenamente educato, metabolizzandone i valori pur se con gli inevitabili contrasti psicologici e relative sofferenze che tale credo religioso pretende dai suoi praticanti, peraltro totalmente immersi oggi nella crescente laicità della vita quotidiana. La mia venuta al mondo in una famiglia della agiata borghesia cittadina ha inoltre comportato, per oggettive situazioni di fatto, che nella dialettica tra la religione del "sacro" e quella della "solidarietà", io sia stato indotto a propendere verso gli aspetti sacramentali della nostra fede piuttosto che verso quelli di una particolare attenzione a poveri e diseredati. Quest'ultimi infatti si trovavano abbastanza al di fuori dai miei orizzonti esistenziali di giovinetto di buona famiglia, educato dai Padri Gesuiti del Liceo classico "San Luigi Gonzaga" di Palermo, con oggettiva percezione dell'altrui disagio sociale soltanto attraverso i limitati, e peraltro edulcorati, resoconti fatti in famiglia da mia madre, attiva Dama di San Vincenzo. Quindi, per forza di cose, sono cresciuto con gli occhi della fede rivolti più verso Dio che verso il prossimo, pur rendendomi conto che un tale atteggiamento non faceva giustizia all'altro fondamentale pilastro fideistico del Nuovo Testamento concernente ANCHE l'amore per i "fratelli". Un religione dunque manifestata soprattutto attraverso forme di liturgia con, ripeto, un'inevitabile propensione al SACRO. Ne è conseguito quindi che il Papato di GIOVANNI XXIII° e la relativa fine della Chiesa preconciliare - archiviata questa, come è noto, nel 1965 (all'epoca io avevo soltanto 21 anni) - mi ha segnato profondamente costituendo per me un'irreversibile svolta epocale. Dopotutto Sant'Ignazio di Loyola, fondatore appunto dei padri gesuiti, non aveva forse affermato: "datemi l'adolescenza di un giovane ed egli (e, aggiungo io,: sia in positivo che, eventualmente, in negativo) sarà mio per sempre"? L'appariscente svolta imposta alla Chiesa dal Concilio Vaticano II° fu per me sconvolgente. Prima di tale evento - e da semplice fedele osservante di tipo, diciamo, soltanto "domenicale" - io avevo infatti conosciuto: 1) Una Santa Messa, celebrata con il sacerdote rivolto al tabernacolo e racchiusa in un sacrale latino da un "introibo ad altare Dei"ad un "ite, missa est", intercalato da musiche e canti intonati alla sacralità dell'evento; 2) Una Comunione, che si poteva ricevere soltanto se confessati da non oltre un giorno e digiuni dalla mezzanotte precedente; 3) Un'Ostia consacrata che si prendeva in ginocchio e depositata direttamente nella propria bocca dalle mani CONSACRATE del sacerdote officiante (maschio, come Cristo e gli apostoli: e questo "è " un fatto) e via di questo passo. In sostanza il tutto dava molto bene il senso di una corale preghiera, sia razionale che emotiva, che il popolo dei credenti rivolgeva al Creatore soprattutto in una consona atmosfera liturgica. Ricordo molto bene le sconcertanti sensazioni datemi invece dalle conseguenze postconciliari sia in senso lato (almeno per come esse apparivano agli occhi sbalorditi di un cattolico come me che, non avendo ovviamente consultato alcuno degli ATTI ufficiali del Concilio, ne constatava soltanto gli effetti esteriori percepibili "de visu", oppure tramite resoconti di "mass media") che

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con particolare riferimento all'atto fondamentale della fede cattolica: il Sacrificio eucaristico della santa Messa e ad alcuni suoi sbalorditivi aspetti, diciamo "moderni": 1)L'Ostia consegnata direttamente nelle MANI dei fedeli (inoltre : "a che ora risalirebbe il digiuno ed a quale giorno l'ultima confessione"?), talvolta non da parte dello stesso sacerdote celebrante; 2) Accompagnamento di musica rock con chitarre elettriche e strumenti a percussione; 3) Persona del celebrante rivolta verso il popolo, con il tabernacolo del Santissimo posizionato alle sue spalle (peraltro trasferito, poco tempo dopo, in altro luogo della chiesa, appartato e fuori vista); 4) Sorprendente uso della volgare lingua italiana in luogo del tradizionale latino, lingua che aveva se non altro il pregio storico di collegarsi alla genesi "romana" dello stesso cristianesimo militante (al riguardo apro e chiudo una pietosa parentesi sull'uso delle altre lingue volgari nelle varie Sante Messe postconciliari celebrate nel mondo. Tali lingue infatti sono spesso idiomi foneticamente inadatti; forse utili per farsi capire dal popolo presente, ma sconcertanti in Chiesa, ove tranne che nell'omelia, ci si dovrebbe rivolgere soltanto a Dio ed alla sua SACRALITA'. Ed infatti il dialogo con il soprannaturale ha sempre richiesto, in ogni tempo e luogo della Storia umana, linguaggio aulico e certamente non "volgare"); 5) … e, via, via "profanando". La chiesa scaturita dunque dal Vaticano II° non mi è più apparsa, purtroppo e sin dal suo primo esplicito momento liturgico, come la mia Chiesa e, diciamolo chiaramente, se la PROPRIA casa di religione comincia a non far sentire più a proprio agio, c'è indubbiamente qualcosa che non va. In sostanza il Concilio, almeno per come da me "percepito", ha inferto un duro colpo al monolite di quella che era stata la personale cultura cattolica di un giovane laico del tempo. Di conseguenza non cessavo di tentare di cogliere, nel volto ieratico e scavato del subentrante PAOLO VI°, segni di un qualche "sofferto dubbio" che potesse far trasparire un potenziale conflitto interiore in colui che veniva chiamato a "conciliare" (è proprio il caso di dirlo) il tipo di chiesa nelle quale egli era nato ed in cui si era formata la sua vocazione sacerdotale, con il gravoso onere di implementarne, modificati, - almeno nella semplice ottica della grande massa dei fedeli - LESSICO e LITURGIA, con la conseguente responsabilità di dover incidere nei due fondamentali pilastri di relazione tra magistero ecclesiale e secolo. Dopo la sottile oscillazione "concettuale" tra i papi Giovanni XXIII° e Paolo VI°, ecco un'ulteriore progressione in chiave non ortodossa in senso scritturale, con l'affermazione di papa GIOVANNI PAOLO I°: "Dio è ANCHE madre", umanizzante ulteriormente il concetto di divinità. Affermazione questa che forse in termini di pura filosofia teologica potrebbe anche starci, ma che data l'indubbia esigenza comunicazionale del doversi rivolgere ad un vasto popolo di credenti in termini lessicali necessariamente basati su un Minimo Comune Denominatore di ricevibilità, avrebbe potuto comportare serie difficoltà di interpretazione (credo che sia appena il caso di ribadire come, nella comunicazione tra umani, il lessico sia TUTTO; cosa questa di cui era peraltro ben consapevole Gesù Cristo che per rivolgersi alle masse faceva spesso ricorso appunto


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a quel minimo comune denominatore di eloquenza esplicativa che era appunto la PARABOLA metaforica). La prematura scomparsa di Papa Luciani non consentì tuttavia di registrare eventuali sviluppi di natura teologica di tale sorprendente chiave interpretativa. Ed eccoci arrivati alla figura pontificale di GIOVANNI PAOLO II° che è per me quella più dolorosamente divisiva in quanto mi genera tuttora un lacerante conflitto tra cuore e mente. Sulla figura di detto Pontefice - che ho avuto peraltro l'onore di incontrare di persona in occasione del suo pellegrinaggio pastorale nei paesi caraibici nella prima metà degli scorsi anni ‘90 - sentimento e ragione si scontrano in me in modo struggente. Il CUORE mi porta a dire come sarebbe stato difficile il trovare un rappresentante di Cristo in terra più degno ed efficace di Lui : 1) una fede granitica, accompagnata da una esplicita e dolce devozione alla Madonna; 2) una fermezza di convinzione comunicativa capace di trasmettere un senso di guida dalla consapevole responsabilità pastorale di colui che sa di condurre un gregge fatto di anime spirituali racchiuse, ahimè, in corpi fin troppo umani; 3) le due affermazioni del tipo : "non abbiate paura!" e "aprite, anzi spalancate, le porte a Cristo!" espresse in termini di severo pastorale comando, la prima, e di amoroso e responsabile suggerimento paterno la seconda, sono secondo me quanto di più alto, in termini di suprema sintesi tra umano e divino, sia mai uscito dalla bocca di un pontefice romano; 4) una sopportazione dell'umiliante sofferenza fisica accettata, umanamente da eroe e spiritualmente da martire. Esempio unico che rende comprensibile la sua immediata elevazione all'onore degli altari: questo è infatti il modo in cui dovrebbe comportarsi, per essere testimone di verità', un pastore spirituale di esseri umani che mostri di dialogare efficacemente con Dio. La MENTE, invece? Premesso quanto sopra sulla figura SPIRITUALE di Papa Wojtyla, debbo ancora una volta richiamare, per chiarezza di esposizione, la mia affermazione di cui alla prima pagina del presente scritto : " … ma tu, caro Antonino, su cosa cerchi di discettare trattando un argomento in merito al quale la tua "autorevolezza" … etc. etc. ?" Giustissimo, ma a questo punto però io intendo fare riferimento soltanto alla dimensione prettamente STORICA di Carol Wojtyla sulla quale mi sento invece in grado di poter appunto "discettare". Il Pontificato Di Giovanni Paolo II° copre infatti il periodo che va dal 1978 al 2005 che corrisponde agli anni 44-61 (la piena maturità) della mia vita. Pertanto durante il Magistero pietrino di Carol Wojtyla, io c'ero, ne ho seguito le opere (se non altro come testimone di cronaca dal punto di vista della comunità dei cattolici), l'ho visto amministrare la MIA chiesa alla guida della barca di Pietro nella perigliosa navigazione dell'alba del terzo millennio. E noto purtroppo due gravi "errori" da lui commessi per la sopravvivenza stessa di quel cattolicesimo, almeno per come l'ho conosciuto io a partire dalla mia prima infanzia; e, comunque, mi permetto far rilevare tali "errori" nel più sincero rispetto verso quell'eccelsa memoria. ERRORE n° 1: Papa Wojtyla si è strenuamente battuto per contribuire ad abbattere l'unica antitesi politico/ideologica su base statuale che, in relazione ai rispettivi principi di fondo, si contrapponeva realmente al cattolicesimo occidentale: il Comunismo della Russia sovietica. Da parte mia nessuna critica alla persona: egli era un polacco e tale sua impostazione mentale di

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matrice storica appare più che comprensibile, ma resta il fatto oggettivo che egli non abbia percepito, in tutte la sue possibili sfaccettature, lo sconvolgimento che il crollo dell'Unione Sovietica, come entità IDEOLOGICA, avrebbe di per se stesso comportato, per quanto irrazionale ciò possa sembrare, nella "PSICHE" sociale dei fedeli della sua Chiesa. La plurimillenaria saggezza filosofica dell'umanità e tutta la scienza sperimentale ben sanno infatti come una tesi sia percepibile, e quindi eventualmente difendibile, soltanto se in presenza di una sua diretta antitesi. In buona sostanza senza quest'ultima la tesi si sgretola, perde consistenza, evapora. L'esistenza del contrario di una qualsiasi ENTITA' (per quanto concerne lo specifico regime comunista dell'Unione Sovietica, il cattolicesimo si trovava di fronte ad un "contrario" peraltro bivalente, in quanto sia di tipo politico/terreno che teologico/spirituale) è dunque una "conditio sine qua non" affinché detta entità possa veder evidenziate le proprie rilevanti, specifiche caratteristiche. Ci si è infatti mai chiesto perche la tumultuosa accelerazione della crisi del cattolicesimo storico (soprattutto sotto gli aspetti estetico-formali della partecipazione di massa al culto liturgico classico, dato che la spiritualità "fatta in casa" è ovviamente cosa del tutto differente) cominci ad accelerare proprio alla fine del secolo scorso ANCHE in concomitanza (si tratta soltanto di mera coincidenza ?) con la dissoluzione del suo grande antagonista ateo/materialista, chiamato appunto Unione Sovietica? Ci si potrebbe infatti chiedere: Il Cattolicesimo, come gestito sulla terra dagli Umani, deve essere in sostanza TESTIMONIANZA di una fede ovvero atto di diretta INCIDENZA nella Storia e quindi attività politica? ERRORE n° 2 : Il fatto che Papa Wojtyla si sia recato ai quattro angoli del pianeta (ben 130 nazioni) per testimoniare il credo cattolico annunciandone il Vangelo. Egli, secondo me, ha fatto troppo in poco tempo e di conseguenza in modo superficiale: potremmo dire anteponendo "quantità" a "qualità". Dato che la parola di Dio è, come affermato nei Vangeli, il seme del seminatore, essa deve necessariamente cadere sulla terra per poi nascere e svilupparsi e di conseguenza - per restare in metafora - è indiscutibile non soltanto che tale terreno sia innanzitutto fertile, ma anche che non si possano non tenere in debita considerazione le particolari caratteristiche, diciamo, "organolettiche", del suolo stesso nel senso dell'importante ruolo che queste poi verranno a svolgere nello sviluppo, più o meno felice, della futura pianta. Andrebbe infatti tenuto presente che nella terra di Palestina dell'epoca di Gesù tale considerazione sarebbe stata oggettivamente fuori dal contesto della parabola in parola dato che quella regione era, al tempo, una terra fisicamente limitata ed abbastanza omogenea e che quindi una distinzione concepibile per i locali contadini dell'epoca si limitava in linea di massima a due soli tipi di terreno conosciuti: fertile ovvero arido/spinoso. Al giorno d'oggi le cose non stanno più così. Sempre per restare in linea con l'esempio fatto da Gesù, ma attualizzandolo alla presente diversità del mondo moderno, bisogna tenere presente che, ahimè, anche le caratteristiche morfologiche di diversificati terreni di semina (siano essi aridi o fertili, umidi o secchi, sabbiosi o rocciosi, di marina o di montagna) concorreranno, singolarmente prese, a determinare il frutto maturo con la conseguenza che detto frutto risentirà inevitabilmente sia dei geni intrinseci del seme stesso (la universale parola di Dio) che dello specifico terreno in cui


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esso verrà a svilupparsi (le varie culture dei popoli della terra). Pertanto - e chiudo con la metafora - il trovare poi ammassato indiscriminatamente nel medesimo magazzino "frutti" provenienti dalle più disparate regioni del mondo potrebbe forse creare qualche problema di ibrida commistione, A questo riguardo mi sorge spontanea la domanda: sarebbe veramente del tutto fuori luogo chiedersi se il postumo successore di Giovanni Paolo II, l'attuale papa FRANCESCO, non sia forse il portato di quella LOCALISTICA Teologia della Liberazione di autoctona matrice sud-americana foriera di una fede "estremizzata" e rivolta di fatto alla sfera del sociale? Egli proviene infatti da una regione i cui abitanti, bisogna ammetterlo senza ipocrisie, non hanno, ahimè, mai brillato sia per felici visioni "politico /strategiche" di ampio respiro che per apprezzabile senso di equilibrio storico. E soprattutto, e mi rivolgo a Papa Francesco,: "non ritiene Ella, Santità, che - dato il momento di crisi che il cattolicesimo (per non parlare del cristianesimo occidentale su più larga scala) sta oggi attraversando - non si dia proprio il caso che i relativi ranghi vadano ben serrati, motivati e resi più coesi piuttosto che diluiti, allargati e quindi indeboliti ?". Inoltre tornando a papa Wojtyla, mi viene anche spontaneo il ricordare : non affermò Cristo stesso (Matteo 5,13) : "voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? a null'altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente"?. La chiesa di Roma - in un'ottica di pura spiritualità - dovrebbe quindi prestare molta attenzione alla qualità del "sale" di cui essa favorisce la rigenerazione. Inoltre essa non dovrebbe mai perdere di vista il fatto che il sale appunto è alimento da gestirsi in piccole, ma proprio piccole, dosi affinché esso possa esprimere al meglio la sua funzione insaporente: un suo eccesso snaturerebbe la pietanza e sarebbe anche intrinsecamente sgradevole. Credo, a questo punto, che traspaia evidente come io non sia un fautore di un'indiscriminata ed acritica fede "di massa", notando in questa il celato scopo di voler favorire la "quantità" piuttosto che la "qualità" dei relativi fedeli con il rischio che si pervenga (come peraltro già stato autorevolmente profetizzato) ad un tipo di chiesa "grande" questo forse si - ma probabilmente anche strana e stravagante. Sarebbe allora del tutto fuori luogo citare a questo punto la riflessione di G.K. Chesterton, secondo cui: " Non abbiamo bisogno, come dicono i giornali, di una Chiesa che si muova col mondo. Abbiamo bisogno di una Chiesa che muova il mondo"?. Potrei quindi , in conclusione, aggiungere - con il massimo rispetto per Giovanni Paolo II° alla cui figura spirituale assolutamente mi inchino - se non sia forse il caso di attribuire anche al polacco Wojtyla (nella sua specifica qualità di gestore "politico" della Chiesa nel secolo) quell'amara constatazione di Winston Churchill, secondo la quale: "non vi sarebbe qualità che i polacchi non posseggano, ma non vi sarebbero altresì errori che essi non abbiano commesso"? Come suole dirsi : "ai posteri, l'ardua sentenza". Che dire a questo punto della significativa figura di BENEDETTO XVI° (Papa Ratzinger)? Ecco che il "pendolo" sembrava con lui oscillare verso una visione più ortodosso/teologica della dottrina e quindi della fede. La percepita - almeno dalla semplice ottica dei fedeli - apertura al mondo del VATICANO II° richiedeva forse che la Chiesa venisse ricondotta entro più netti binari di ortodossia

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quasi a bilanciare quella sorta di improvvisa fuga in avanti apparentemente distonica alla millenaria, ponderata prudenza del trono pietrino. Ma ecco purtroppo il prematuro, inaspettato interrompersi del pontificato di Papa Benedetto. Egli ebbe infatti a trovarsi quasi subito in una posizione di apparente retroguardia "politica", l'abbrivio era già stato preso, il pontefice sembrava remare contro un percorso già - per quel momento almeno - irreversibilmente tracciato dalle più alte sfere del Vaticano. L'ecumenismo acritico senza barriere religiose, culturali e storico-ambientali tendeva ormai a prendere il sopravvento, la marea concettuale ed ideologica sembrava inarrestabile e la Curia romana evidentemente più che assecondava. Il Vangelo non riguardava più, "in primis" una filosofia teologica, ma piuttosto una sociologia applicata. Ed in tal modo l'irrilevante cattolico che qui scrive viene del tutto colto, come suole dirsi, "in contropiede". E siamo così arrivati ai nostri giorni. Papa JORGE MARIO BERGOGLIO è ormai un libro aperto. All'anziano fedele che verga queste note l'approccio dottrinario ed operativo dell'attuale Pontefice appare più come ispirato ad un manieristico "Cantico delle Creature" di francescana memoria (San Francesco, appunto) che all'amore - concettualmente "sovraumano" ed emotivamente straziante - del Cristo della Croce. Secondo Bergoglio infatti la fede verso Dio sembra doversi manifestare soprattutto attraverso forme di assistenza umanitaria (in un salvaguardato contesto ambientale) nell'ambito di un'indistinta fratellanza planetaria. E questo, senza se e senza ma. Certamente il Gesù del Nuovo testamento non ha mai fatto un discrimine, né una "graduatoria" tra i vari, possibili fratelli e ciò era, storicamente, a quel tempo più che comprensibile. Per la stragrande maggioranza dei palestinesi di duemila anni fa infatti, l'intero universo percepibile era, per l'appunto, soltanto la popolazione della Palestina con qualche fugace contatto con un paio di genti confinanti ovvero, al limite, con il conquistatore straniero di turno. Sarebbe stata quindi concettualmente accettabile, anche se forse non immediatamente metabolizzabile, una Dottrina, per quanto nuova e "rivoluzionaria", che proponesse una oggettiva, "universale" fratellanza senza distinzione alcuna tra esseri umani e relative appartenenze. La Chiesa cattolica tuttavia vive ed opera, da duemila anni a questa parte, in un ben più ampio ed articolato contesto SECOLARE e, con tale contesto, essa deve fare i conti, soprattutto se ci si pone in relazione alle caratteristiche proprie dell'odierna società umana. Non dimentichiamo infatti che la perfetta realizzazione della dottrina cristiana si chiama PARADISO che non pertiene, ahimè, alla intrinseca realtà di questo mondo. Idealità concettuale e prassi socio-temporale hanno peraltro convissuto e si sono confrontati (sia tra i cattolici che tra i laici) sin dagli albori dello stesso cristianesimo e qualora un Papa appaia come non voler tener conto di tale ineludibile caratteristica dell'umanità, egli allora non si comporta più come concreto, e quindi efficace, PASTORE del popolo di Cristo sulla TERRA, ma piuttosto come capo di una ecclesia teorico-ideologica (per quanto "ideale" egli la possa, forse, ritenere), ma certamente non "umana". E soprattutto, non evangelica, in quanto - va ricordato - Gesù Cristo ha sempre mostrato nel corso della sua vicenda terrena, un grande senso di PRAGMATISMO. Delle conseguenze di una sbilanciato rapporto di carattere religioso tra "cielo" e "terra" sono


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purtroppo pieni i libri di storia riguardanti guerre, eresie, scismi e quant'altro. Secondo me l'attuale posizione di Papa Francesco è oltremodo indirizzata in senso, se non altro (?), troppo "teorico/dottrinale" per un contesto mondiale come l'attuale che, lungi dall'essere pronto ad accogliere "in toto" e serenamente una messaggio di pura dottrina, costituisce invece una realtà ancora molto "impura". Ciò, non volendo io prendere in seria considerazione l'astratta possibilità che l'attuale Pontefice possa realmente ritenere - per quanto riguarda in particolare il fenomeno della trasmigrazione dei popoli - che attraverso un'"accoglienza" universale, acritica, indiscriminata e paritaria si possa realizzare sulla terra una specie di teorico e velleitario "paradiso" di ispirazione soltanto teoricamente evangelica in quanto basato su una supposta forma di congenita empatia tra esseri umani ancora lungi dal potersi realisticamente immaginare. Temo in particolare, per l'Italia (ancora, e nonostante tutto, di solida matrice culturale greco-romano-cristiana), future, gravi problematiche socio-economiche in ottica di un'acritica politica immigratoria. E ciò, anche con l'esplicito concorso del marcato sbilanciamento, ormai di tipo più politico che morale, di Papa Francesco a favore di un'applicazione "letterale" della dottrina cristiana al posto di un più pragmatico approccio storico frutto di consolidate esperienze ("Historia magistra vitae"?). E temo soprattutto per il futuro della MIA Chiesa cattolica italiana che forse, nella migliore delle ipotesi, sarà sempre più frequentata da credenti smarriti e quindi molto tiepidi ovvero, nella peggiore, gradualmente abbandonata. Non vorrei infatti che, secondo alcune profezie di fede, Papa Francesco intenda anticipare in qualche modo la "fine" del tempo evangelico, almeno come da noi fin'ora conosciuto. Cristo infatti non ha mai affermato che sia dovere morale dei cristiani adoperarsi per una generale riduzione della sofferenza dell'intera umanità la quale, per suo ineludibile, connaturato destino, DEVE portare a termine il suo doloroso pellegrinaggio sulla Terra prima di poter giungere alla promessa beatitudine celeste. Antonino Provenzano Roma li, 23 agosto 2019

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PENSIERI SULLA TOMBA DI ALEXANDR NEVSKIJ Ho pregato Aleksandr Nevskij di difendere ancora la Russia e con essa tutta l'Europa dagli assalti delle forze oscure della globalizzazione e dell'omologazione planetaria.

La prospettiva Nevskij, lunga circa 5 km, sulla riva sinistra della Neva, com'è noto è intitolata al Santo Aleksandr Nevskij, principe di Novgorod e Vladimir (1220-1263), che fu il difensore della Santa Russia, vincendo ad ovest gli Svedesi sulla Neva ed i Cavalieri Teutoni sul lago gelato, dopo aver fermato, ad est, i mongoli dell'Orda d'Oro mediante trattative diplomatiche e profferte materiali. La prospettiva Nevskij termina nella omonima piazza Aleksandr Nevskij, davanti al Monastero (Lavra) Aleksandr Nevskij della Santissima Trinità, dove c'è la statua equestre dello stesso Nevskij. Questo è uno dei quattro Monasteri ortodossi, denominati con l'appellativo di "Lavra", i quali godevano di uno status privilegiato rispetto ai comuni "Monastyr", perché essi erano le sedi di un Metropolita e di un Seminario. D'altronde, il termine Lavra deriva da Laura (greco: Ëáýñá; cirillico: Ëàâì ðà) cioè alloro, segno distintivo di un livello superiore di dignità. Il monastero della SS. Trinità fu voluto dallo Zar Pietro il Grande nel 1710, perché la sua nuova capitale doveva avere l'onore di possedere una Lavra degna di reggere il confronto con gli altri tre esistenti in Russia. Il complesso, delimitato da mura massicce, appare come una vera e propria fortezza (come d'altronde anche gli altri monasteri da me visitati e cioè Spaso Andronikov e Sergev Posad). Esso racchiude ben sette chiese e tre cimiteri. L'imponente Cattedrale della Trinità, di stile classico, è la più importante e sfarzosa. La costruzione, iniziata nel 1776, fu portata a termine nel 1790 sotto Caterina II dal russo Ivan Egorovic Starov. Dei tre cimiteri del Monastero, quello di San Lazzaro è il più antico della città e vi sono sepolti illustri scienziati, scultori e architetti. Nel cimitero di Tichvim, a destra appena dopo l'ingresso, ci sono le tombe di letterati e musicisti come: il compositore Mily Balakirev; la scrittore Fëdor Dostoevskij; la ballerina e coreografa francese Marius Petipa; il pianista Nikolaj Rubinstein; il cantante d'opera Fyodor Ignatyevich Stravinskij e molti altri. All'interno della chiesa della SS. Trinità si trova il sepolcro di Sant'Aleksandr Nevskij, Aleksandr Nevskij nacque il 30 maggio 1220 e morì il 14 novembre 1263. Figlio di Yaroslav Vsevolodovich, fu principe di Novgorod e di Vladimir ed è noto per le sue epiche gesta militari quale difensore del territorio e del popolo della Russia. Incaricato di difendere le terre del nord-


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ovest russo, il 15 luglio 1240 sconfisse l'esercito svedese che era appena sbarcato alla confluenza dei fiumi Neva e Izhora. Come titolo onorifico per la vittoria conseguita, il giovane Aleksandr riceve il soprannome, di Nevskij, relativo, cioè, alla Neva. Questa vittoria da un lato rafforzò la sua influenza politica, ma dall'altro peggiorò i suoi rapporti con i boiari e fu costretto a lasciare Novgorod. Quando, però, la Russia si trovò sotto la minaccia di invasione da parte dei Cavalieri dell'Ordine Teutonico, le autorità di Novgorod mandano nuovamente a chiamare Nevskij. Egli sconfisse gli invasori germanici nella famosa battaglia del "lago gelato", rappresentata mirabilmente nel film del 1938 di Sergej Michajlovi? ?jzenštejn, con la colonna sonora delle musiche appositamente composte da Prokof'ev. Dopo l'invasione teutonica Nevskij continuò a rafforzare la Russia del nord-ovest. Mandò inviati in Norvegia e stipulò il primo trattato di pace tra la Norvegia e la Rus' nel 1251. Guidò un suo esercito in Finlandia e poi sbaragliò gli svedesi che stanno tentando un blocco del Mar Baltico contro i russi, nel 1256. Morì di ritorno dalla capitale dell'Orda, nella città di Gorodets. Verso la fine del XIII secolo fu redatta una cronaca, intitolata "La vita di Aleksandr Nevskij", nella quale egli è rappresentato come l'ideale principe-soldato difensore della Russia. La Chiesa Ortodossa russa lo annovera tra i suoi santi. Nella mia visita, di qualche giorno fa, al complesso monastico della Santissima Trinità, mi sono recato al sepolcro in cui riposano le spoglie del santo-guerriero ed ho assistito alla devozione popolare verso di lui. I fedeli vi s'inginocchiavano e restavano a lungo in preghiera. Anch'io sono stato a lungo in ginocchio, dopo aver fatto, per tre volte, il segno della Croce all'ortodossa, poiché io credo che le Chiese Cattolica ed Ortodossa siano sorelle e che tra loro debba esserci l'intercomunione. Ma, dianzi alla tomba di Aleksandr Nevskij, molti pensieri hanno riempito la mia mente. Ho pensato alla Russia attuale, che è ritornata alla Fede cristiana dopo anni di ateismo imposto da un'ideologia materialista nata in occidente e quindi estranea alla natura del popolo russo. Ho pensato alla Russia di oggi che difende la propria identità storicoculturale e la sua Tradizione, respinge i modelli dell'occidente decadente, auspica un mondo multipolare in contrapposizione al modello unico globalizzato. Ho pensato a quel nuovo verso dell'inno russo che dice "terra degli avi, benedetta da Dio". Ho pregato Sant'Aleksandr Nevskij di difendere ancora la Russia e con essa tutta l'Europa dagli assalti delle forze oscure della globalizzazione e dell'omologazione planetaria. Portae inferi non praevalebunt ! Max Fati

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GLI UOMINI PASSANO, LE IDEE RESTANO Nel 1929, il crollo della borsa di Wall Street mise in ginocchio tutte le economie occidentali, America, Inghilterra e Germania in testa. Le conseguenze furono drammatiche sia sotto il profilo economico sia sotto l'aspetto sociale: fallimenti a catena di società industriali e commerciali, chiusura di negozi, inflazione alle stelle, disoccupazione di massa, famiglie sul lastrico, fame e povertà diffuse. L'Italia fu colpita anch'essa dalla crisi ma, a differenza delle nazioni capitaliste, seppe resistere meglio. Vi furono certamente una riduzione dei consumi e una contrazione dei salari (in parte compensati dalla riduzione del costo della vita), ma l'impatto che ebbero sulla vita degli italiani fu tutto sommato marginale e non produsse quei drammi umani che si registrarono negli altri paesi. Questo perché il Regime Fascista aveva da tempo allentato il legame con la finanza attraverso il controllo del sistema bancario, elaborato un vastissimo piano di opere pubbliche e, cosa non secondaria, avviato la costruzione di un inedito Stato Sociale. Mentre le altre nazioni annaspavano, l'Italia fu trasformata in un immenso cantiere. Si costruivano strade (la prima autostrada al mondo, quella dei laghi, fu realizzata in quegli anni), nuove città e borghi agricoli, edifici pubblici, tribunali, scuole, biblioteche, palestre e asili. L'acqua potabile e l'elettricità furono portate fin nel più sperduto paese (l'acquedotto pugliese è ancora oggi il più esteso d'Europa). Le opere pubbliche diedero vigore all'economia, agevolando la nascita di nuove imprese e il consolidamento di quelle esistenti a beneficio dell'occupazione che fu mantenuta stabile. Fu un vero boom economico che, a differenza di quello drogato degli anni '60, basato sull'enorme speculazione edilizia, sull'evasione fiscale e ottenuto con fondi esteri, avvenne con capitali italiani, privati e statali. L'inflazione fu tenuta sotto controllo attraverso una ferrea politica dei prezzi applicata ai beni di prima necessità. La campagna del Regime per il grano permise all'Italia di risanare terre incolte, dare lavoro ai contadini e a ridurre la nostra dipendenza dall'estero. L'autosufficienza energetica con fonti ecologiche e rinnovabili fu perseguita attraverso la costruzione di centrali idroelettriche nell'ambito di un ampio piano di risanamento ambientale che vide la costituzione di grandi parchi e aree verdi (solo a Roma furono piantati migliaia di pini, lamenta la sindaca Raggi).


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Purtroppo le sciagurate leggi razziali e la perdita di una guerra piÚ subita che voluta, hanno compromesso l'immagine del Fascismo e fornito un valido pretesto agli economisti liberali e ai sostenitori del potere finanziario per stroncare sul nascere qualunque forma di dibattito che possa portare, sulla base di quanto l'Italia ha saputo realizzare in quegli anni, a un nuovo modello di sviluppo economico e a un nuovo assetto istituzionale basati sui principi di giustizia sociale e democrazia diretta. Se il Fascismo fosse studiato e non criminalizzato, nella sua storia troveremmo le risposte alla crisi di oggi e le prospettive per il domani. Il Fascismo è morto con il suo fondatore, ma non le sue idee che sono di una attualità sorprendente. Gianfredo Ruggiero presidente Circolo Culturale Excalibur

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ITALICHE VERGOGNE: BADOGLIO E ROATTA Su "RAI STORIA" è andato recentemente in onda un vecchio documentario, "La resa dei conti", dedicato all'epurazione dei fascisti dalle cariche pubbliche, dopo la nascita del governo Badoglio, e al continuismo, inteso come volontà di ridurre al minimo indispensabile il processo di epurazione. Il documentario, ancorché estremamente sintetico, nel rispetto di conclamati canoni televisivi (da condannare: sarebbe sempre interessante vedere quanti più reperti possibili, per meglio penetrare nel "mood" di un'epoca, e non delle sintesi che si limitino alla mera esposizione dei fatti salienti), è equilibrato e ben strutturato. Gli autori forniscono un quadro veritiero degli eventi oggetto dell'inchiesta, senza omettere gli orrori che caratterizzarono i presupposti di vendetta, anche da Ferruccio Parri definiti "macelleria messicana". Alcuni errori nella narrazione, pertanto, risentono della difficoltà oggettiva nel reperire notizie vere e certificate, obnubilate dalla diffusa volontà mistificatoria, che raggiunge picchi elevati quando si affrontino le tematiche legate alle due guerre mondiali. Il primo dato da correggere è quanto emerge dall'intervista ad Andreotti, il quale, riferendosi a Badoglio, asserisce che è difficile considerarlo un "antifascista", in virtù degli alti incarichi ricoperti durante il ventennio. Ciò è palesemente falso, come facilmente evincibile da una biografia che lascia pochi dubbi sulla reale essenza dell'uomo, caratterizzata da un cinico opportunismo che lo accompagna sin dagli anni giovanili. La pubblicistica che lo riguarda, oramai, è infinita e ben chiara. Più complessa è la vicenda del generale Mario Roatta, che nel documentario viene liquidata con il solo riferimento alla fuga dall'ospedale militare, il 4 marzo 1945, spiegata con "l'impunibilità dei grossi papaveri, che creava forte indignazione", senza alcun cenno agli intrecci che la favorirono. In quest'articolo, limitato alla trattazione dei succitati personaggi, inevitabilmente si dovrà fare riferimento, sia pure "en passant", a una delle pagine più buie della storia italiana: quella relativa all'armistizio, alla fuga del re e di buona parte del vertice militare, alla mancata difesa di Roma nel settembre 1943. Pagine di storia falsate sia dalle memorie dei protagonisti, che assolvono se stessi, sia da storici compiacenti, attenti precipuamente a diffondere verità di comodo, mille miglia lontane dalla realtà.


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PIETRO BADOGLIO Saltiamo a piè pari quanto scritto nel saggio sulla Grande Guerra, pubblicato a puntate su "CONFINI" da gennaio a novembre 2018, con riferimenti che già evidenziano significativi aspetti negativi del personaggio, e soffermiamoci sul ventennio mussoliniano. Alla vigilia della marcia su Roma fu consultato dal re per avere consigli su come gestire una situazione evidentemente ritenuta molto pericolosa. Replicò asserendo che i dimostranti non costituivano alcuna minaccia, che erano un branco di esaltati e che sarebbero stati dispersi in pochissimo tempo. All'epoca era a disposizione dell'esercito per compiti ispettivi, avendo lasciato il ruolo di capo di stato maggiore nel febbraio 1921, e si offrì di assumere il comando delle operazioni di polizia per sedare i tumulti. Non li ottenne perché il re temeva le reazioni della piazza e l'inevitabile spargimento di sangue che ne sarebbe conseguito. Dalla sua condotta, quindi, traspaiono chiaramente sia l'incapacità nel valutare le dinamiche sociali sia l'avversione al fascismo. Quest'ultimo elemento viene suggellato dalla successiva decisione di rifugiarsi in Brasile con il ruolo di ambasciatore, per evitare contaminazioni troppo marcate con il regime, nella malcelata speranza che cadesse in tempi brevi. Quando si rese conto di essersi fatti male i conti, sfruttò il rapporto privilegiato con la monarchia per ottenere la nomina a capo di stato maggiore generale della Difesa e riprendersi anche il vecchio ruolo al vertice dell'esercito. Incominciò a leccare il sedere di Mussolini e ben presto gli si spalancarono le porte di un potere sempre più marcato: Maresciallo d'Italia, governatore unico della Tripolitania e Cirenaica, comandante del corpo di spedizione in Etiopia, viceré d'Etiopia, presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Sulla condotta infame durante le tragiche giornate pre e post armistizio oramai non vi sono più dubbi, essendo state smontate tutte le mistificazioni prodotte durante i lavori della commissione 1 d'inchiesta presieduta dal senatore Mario Palermo . Una caratteristica comune a tanti politici infami è l'ingordigia nell'appropriarsi di pubblico denaro e Badoglio non sfugge certo alla regola. Le testimonianze in tal senso sono corpose e ben documentate. Qui basta riportare quanto asserito dall'ex governatore della Banca d'Italia, Vincenzo Azzolini, durante il processo a lui intentato nel novembre 1944: "Al 25 luglio 1943, presso la sede centrale della Banca d'Italia, la segreteria particolare del duce era intestataria di conti per un totale 24.337.805,75 lire. Dopo il 25 luglio Badoglio dispose che i conti correnti destinati alle opere di pubblica utilità e alla beneficenza fossero unificati e intestati a lui". Non perse tempo nel prosciugarli: tra il 30 luglio e l'otto settembre incassò ben 14.432.000 lire (circa 5milioni di euro attuali), convertendone una cospicua fetta in franchi svizzeri, per sopperire all'inevitabile svalutazione monetaria che si sarebbe verificata al termine della guerra. Nell'agosto 1943 ordinò l'assassinio di Ettore Muti, che conosceva troppi segreti "scomodi" sulle trattative con gli angloamericani. Il termine "badogliano", del resto, coniato per definire una persona squallida e propensa a tradire cinicamente, riassume da solo il tanto che sì può leggere in molte pregevoli

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MARIO ROATTA Il generale modenese, che già dall'agosto 1943, e quindi ben prima dell'armistizio, ebbe il compito di difendere Roma da un eventuale attacco tedesco, ha un curriculum non dissimile da quello di tanti altri alti ufficiali dell'esercito italiano, arricchito dalle tre medaglie d'argento risalenti alla Grande Guerra. Collezionare medaglie è sempre stato un impegno primario dei militari d'alto rango e, durante il ventennio, anche di molti gerarchi2. Nominato capo di stato maggiore dell'esercito nel marzo 1941, mantenne la carica fino al gennaio 1942, quando ottenne il comando delle truppe in Jugoslavia, dove si distinse per una ferocia nella repressione dei civili che lasciò di sasso gli stessi nazisti. Nel giugno 1943 riprese la guida dello stato maggiore dell'esercito e conservò la carica anche dopo il crollo del regime. Fu lui a firmare la famosa circolare nr. 44, emanata su disposizione del capo di stato maggiore generale Vittorio Ambrosio e sulla quale aleggia tanta "letteratura", non essendo reperibile alcuna copia. La circolare, diramata a tutti i comandi italiani il 2 settembre, con l'ordine di distruggerla dopo averla letta, conteneva le istruzioni per "reagire ad eventuali atti aggressivi del nemico", senza specificare, però, a quale "nemico" ci si riferisse. Da qui la confusione che scaturì dopo l'8 settembre, quando fu reso pubblico l'armistizio firmato segretamente il 3 settembre. Nonostante lo zelo nel tenere celato il contenuto della circolare, il generale Roberto Lerici, comandante del IX corpo d'armata, ne fa cenno in un dispaccio e pertanto è possibile svelarne gli elementi essenziali, da lui trascritti: 1) Sono prevedibili azioni delittuose dei comunisti in accordo coi fascisti (una nota in calce avvertiva: comunisti significa tedeschi); 2) Bisogna premunirsi; 3) Agire, solo se provocati: in seguito ad ordine dello S.M.R.E (stato maggiore regio esercito; n.d.r.) quando si riceva un telegramma o marconigramma così concepito: "Attuare misure ordine pubblico memoria 44" o di iniziativa se collegamenti interrotti; (attenzione a questo punto; n.d.r.) 4) Provvedimenti da prendersi: a) eliminare elementi aeronautici; b) distruggere depositi carburanti; c) tagliare collegamenti; metter fuori uso elementi isolati o sparsi. Meglio prevedere poche imprese ma organizzate bene. Se possibile assumere schieramenti adatti per impedire avanzata colonne comuniste. (Per comunisti s'intendono sempre i tedeschi; n.d.r.); 5) (si omette: riguarda un ordine da Lerici rivolto ai subalterni per la difesa di Taranto e Brindisi); 6) Assicurare i collegamenti; 7) Sempre armati e avere al seguito munizioni e dotazioni individuali. Si sa come è andata a finire: dopo l'8 settembre, i generali che avrebbero dovuto disporre l'attuazione del piano operativo indicato nella "memoria" pensarono bene di scappare con il re, lasciando l'esercito allo sbando. Il punto tre prevedeva di assumere "iniziative" in mancanza di ordini: molti ufficiali e soldati, in realtà, si organizzarono autonomamente per contrastare i tedeschi, immolando la loro vita; come noto, tuttavia, "l'iniziativa" che ebbe predominanza fu quella magistralmente rappresentata nel famoso film di Luigi Comencini: "Tutti a casa".


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Tutte le azioni di Roatta, comunque, possono essere definite deprecabili, alla pari - sia ben chiaro - di quelle dei suoi superiori e subalterni, che pensarono solo a mettersi in salvo, pur essendo in grado di contrastare agevolmente le truppe tedesche e impedire l'occupazione di Roma. Con vergognoso atteggiamento pavido, invece, nella notte tra l'otto e il nove settembre, Roatta ribadì a Badoglio, al principe ereditario e al generale Puntoni, aiutante di campo del re, quanto già dichiarato da Carboni il giorno prima, come meglio vedremo più avanti: Roma era "indifendibile" e il re e il governo si dovevano mettere in salvo. A queste dichiarazioni fece poi seguire l'ordine assurdo alla base dei disastri che si verificarono nei giorni successivi: lo spostamento a Tivoli del corpo d'armata motorizzato che avrebbe dovuto difendere la città, agli ordini del generale Carboni, altro "degno" rappresentante di quella nutrita 3 categoria di mezze cartucce che si coprirono d'infamia . Per la cronaca di quelle ore tragiche e dei giorni che seguirono si fa riferimento alla bibliografia essenziale pubblicata in calce, che offre un quadro realistico dei fatti e delle persone, anche se è necessario bilanciare accuratamente le diverse esposizioni dei singoli eventi, in modo da decantarli dalle palesi contraddizioni. Ciò che qui va evidenziato, rispetto alle lacune del documentario e della storiografia, è come si sia resa possibile la fuga di un prigioniero così importante e quindi ben custodito. La vicenda, intricata e non adeguatamente elaborata, consente di avere un ulteriore elemento valutativo sia sul particolare clima che segnò il primo dopoguerra sia sugli uomini che ne furono protagonisti. Roatta, come noto, divenne il "capro espiatorio" per la mancata difesa di Roma, che lo vide sì responsabile, ma in buona compagnia di tutto il vertice politico-militare. Destituito di ogni incarico il 12 novembre 1943, fu arrestato il 16 novembre 1944. Le accuse furono racchiuse in otto punti che presero in esame tutte le manchevolezze, di seguito riassunte: 1) Mancata analisi delle problematiche strategiche a fronte della sicura minaccia tedesca; 2) Completo abbandono delle truppe, che non sarebbero state in grado di resistere anche se fossero state avvertite per tempo di dare seguito alle disposizioni contenute nella Memoria 44; (l'ultimo dato è falso, perché le truppe italiane erano superiori per numero e armamenti; va considerato, inoltre, che gli alleati erano pronti a sostenerle con l'82a divisione paracadutisti subito dopo la lettura dell'armistizio - "Operazione Giant 2" - ma il valido supporto fu bloccato da Badoglio, "intontito dalle dichiarazioni disfattiste di Carboni, che considerava indifendibile Roma"; n.d.r.); 3) Pur essendo a conoscenza delle trattative con gli alleati, non si adoperò per far rientrare in Italia molte divisioni operanti oltre confine, che sarebbero state molto utili nel contrasto alle truppe tedesche; 4) Mancata proficua cooperazione con gli alleati e rifiuto di una divisione aviotrasportata, che sarebbe stata molto utile per la difesa di Roma, "dando prova di inqualificabile imprevidenza e trascuratezza"; (Come si evince nel punto due la verità è leggermente diversa: Roatta era senz'altro dello stesso avviso, ma il generale Maxewell Taylor e il colonnello William Gardner, giunti segretamente a Roma il 7 settembre per concordare il piano "Giant 2", restarono letteralmente sconvolti per il clima che trovarono nella capitale. Ad accoglierli non vi era nessuno delle "alte sfere" militari e furono portati a pranzo dal colonnello Salvi, che si preoccupò della "confortevole" sistemazione logistica, senza

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manifestare alcuna fretta e apprensione, riferendo che il giorno successivo si sarebbero incontrati con "i capi". "Prego: un altro bicchiere di vino?" chiese sorridendo il colonnello. I due pensarono di trovarsi in una gabbia di matti e risposero in malo modo, asserendo che l'indomani sarebbe stato reso pubblico l'armistizio e pertanto avevano bisogno di parlare subito con Ambrosio, che si era allontanato da Roma proprio per non incontrarli. Finalmente alle undici di sera si riuscì a rintracciare Carboni, il quale scioccò gli americani asserendo che non si poteva fare nulla e che Roma era indifendibile. Ottenuto di parlare con Badoglio, i due si recarono nella sua abitazione per subire il terzo shock: Badoglio reiterò la richiesta di procrastinare la notizia dell'armistizio e gli statunitensi ritornarono a Tunisi con le mani nei capelli; n.d.r.); 5 e 6) Mancata organizzazione della difesa di Roma; 7) Spostamento improvvido delle truppe da Roma, esponendole all'impotenza e alla distruzione; 8) Saputo che doveva imbarcarsi, per destinazione lontana, e conoscendo che il generale Carboni, al quale aveva lasciato il comando di tutte le truppe di Roma, era irreperibile (bunga bunga con Mariella Lotti; vedi nota nr. 3) non sentì l'imperioso dovere di rimanere, per cercare di rimediare e provvedere, in quella tragica situazione, della quale era il principale responsabile, abbandonando le truppe combattenti al loro tragico destino. Tutto vero (o "quasi", come abbiamo visto), precisando che lo stesso si deve dire di Badoglio, Ambrosio, il re e tutti gli altri generali e ufficiali che scapparono a gambe levate verso Pescara e Ortona, per trovare sicuro rifugio a Brindisi, grazie anche alla complicità di Kesserling, circa la quale oramai non vi sono più dubbi, al di là delle mistificazioni e menzogne sciorinate dagli interessati. Complicità che si spiega anche con "la dimenticanza" di Mussolini a Campo Imperatore, che fu di fatto "lasciato" ai tedeschi in cambio del via libera: il convoglio non poteva certo passare inosservato, senza contare che un aereo di ricognizione tedesco sorvolò più volte il cacciatorpediniere "Baionetta", mentre trasportava i fuggiaschi a Brindisi. Su Roatta, però, gravava un'altra accusa formulata dall'Alto Commissariato per la punizione dei delitti fascisti: mandante dell'omicidio dei fratelli Rosselli, nel 1937, quando era a capo dei servizi segreti militari. Come se non bastasse, dalla Jugoslavia Tito ne chiese l'estradizione, accusandolo dei seguenti crimini: sterminio del popolo sloveno; fucilazione di mille ostaggi; uccisione proditoria di ottomila persone; incendio di tremila case; internamento di 35mila persone; distruzione di ottocento villaggi; morte per fame di 4.500 internati nel campo di concentramento di Arbe; mancato rispetto della Convenzione internazionale dell'Aja relativa ai prigionieri, ai feriti e agli ospedali; fucilazione indiscriminata dei prigionieri; internamento e maltrattamento dei familiari, anche minorenni. Roatta capì subito che "aria tirava" e sfruttò istintivamente quello che in psicologia sarebbe stato inventato solo molti decenni dopo: "il pensiero laterale", che consente di trovare una soluzione anche a problemi apparentemente irrisolvibili. Si stava difendendo bene dalle accuse sui fatti di Roma e avrebbe avuto facile gioco, al riguardo, rivelando tutto ciò che sapeva e che poteva documentare.


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Circa i fratelli Rosselli, ovviamente, gli era ben noto come fossero andate effettivamente le cose e anche in questo caso, quale che fosse stato il suo ruolo - molto probabilmente marginale rivelando la verità o comunque "ben difendendosi", vi erano concrete possibilità di cavarsela. Il rischio grosso era finire nelle mani di Tito, cosa che sembrava la più plausibile proprio per liberarsi di lui e impedire che rivelasse verità scomode per molti. Ed ecco, quindi, il colpo di genio: cessa di difendersi dalle accuse per la mancata difesa di Roma e si fa carico di tutte le responsabilità, fungendo, quindi, da volontario "capro espiatorio". Governo, monarchia e alte sfere militari si salvano grazie a questo escamotage e la commissione d'inchiesta si chiude, sostanzialmente, con un nulla di fatto. In cambio di questo favore e dell'impegno a non rivelare la verità su ciò che realmente accadde tra l'8 e il 10 settembre ebbe l'assenso a scapparsene in Spagna, dove visse agiatamente fino al 1966. (Rientrato a Roma, si spense nel 1968). Fu così che, il 4 marzo 1945, alla vigilia del giorno previsto per il deposito delle conclusioni della commissione d'inchiesta, si trasformò in Houdini e sparì dall'ospedale Virgilio, dove era tenuto in stato di fermo. LE COLLINE DELLA VERGOGNA Molti decenni orsono, dialogando con Giorgio Almirante, gli esposi un progetto che fece sorridere di compiacimento tutti gli astanti: eravamo a cena dopo un'intensa giornata trascorsa a girare per molti comuni della provincia di Caserta, in piena campagna elettorale. Gli dissi che se un giorno avessimo conquistato il potere, sarebbe stato bello realizzare, nei pressi di Roma, due importanti attrazioni turistiche: "La collina della vergogna" e "La collina degli eroi". Nella prima sarebbero state erette delle statue, da Tarquinio il Superbo ai giorni nostri, di tutte le carogne che si sono succedute nella storia d'Italia, con una descrizione delle loro malefatte. Di converso, nell'altra, sarebbero state erette le statue di tutti gli italiani di cui essere fieri. Progetto rimasto nell'ambito dei sogni, ovviamente, anche quando ritenni che sarebbe bastato un museo. Chissà, magari sarà possibile realizzare almeno un volume enciclopedico. Di sicuro le voci di Badoglio e Roatta, nella sezione "italiche vergogne", assorbirebbero molte pagine. Lino Lavorgna

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NOTE 1) I verbali della commissione, per lungo tempo secretati, costituiscono uno dei falsi storici più colossali in quanto i responsabili della mancata difesa di Roma mentirono spudoratamente circa la propria condotta. Si salvaguardarono sia la casa reale sia le alte sfere dell'esercito, imputando ai soli generali Roatta e Carboni la responsabilità "militare" per la caduta di Roma, anche se solo formalmente, perché il processo si concluse con la loro assoluzione, seppellendo sotto una cortina di polvere "fatti e misfatti". Emblematico, a tal proposito, un documento poco noto: la lettera che il senatore Palermo inviò il 5 marzo 1945 a Bonomi (presidente del Consiglio) e Casati (ministro della Guerra), resa pubblica solo il 26 settembre 1965, su iniziativa dell'autore, che la inviò al direttore dell'Unità. Il testo della lettera è reperibile integralmente nel volume "L'Italia tradita - 8 settembre 1943" di Ruggero Zangrandi Edizioni Mursia, 2015 e da essa traspaiono chiaramente le responsabilità di Badoglio e degli altri dignitari civili e militari per i disastri che fecero seguito alla notizia dell'armistizio e la volontà mistificatoria nel celare la verità, sì da indurre il senatore Palermo a concludere che "oltre all'inchiesta sulla mancata difesa si Roma e alla punizione dei principali e diretti responsabili di essa, si impone la necessità di una più ampia inchiesta politica, allo scopo di mettere in luce le responsabilità generali e particolari per il modo col quale nel momento in cui una azione illuminata e disinteressata avrebbe potuto salvare il Paese, ne furono invece ancora una volta traditi i veri interessi e fu portata l'Italia alla catastrofe". Al di là delle fonti documentali, è bene precisarlo, il testo di Zangrandi va letto "con cautela" e solo dopo aver ben decantato altrove i fatti narrati. Molte analisi, infatti, risentono della sua particolare visione storica degli eventi e non hanno alcun fondamento concreto, a cominciare dalla patetica difesa del generale Giacomo Carboni, ingiustamente assolto da ogni colpa per la mancata difesa di Roma. 2) Molto significativo, a tal proposito, quanto scrive Paolo Monelli nel saggio "Roma 1943", Arnoldo Mondadori Editore, 1979: "Si assisteva alla ridda dei gerarchi e dei gerarchetti in partenza e di ritorno dal fronte come da una gita dove erano andati a procacciarsi l'inevitabile medaglia al valore ed i titoli per le cariche; anzi non una medaglia, ma parecchie, ché eran venuti di moda i "superdecorati", ed il bronzino nessuno lo voleva. "Val più un quarto d'ora di fuoco che due anni di trincea", si dicevano costoro; ed accadeva che l'occasione tardava un po' troppo, e allora protestavano, come quella eccellenza in Africa Settentrionale: "Sbrigatevi a mandarmi in linea e a farmi la proposta per la medaglia, che debbo tornarmene in Italia dove ho da fare". 3) Carboni fu l'autore, insieme con il generale Castellano (che firmò l'armistizio a Cassibile) del piano che condusse all'arresto di Mussolini dopo il colloquio con il re, il 25 luglio 1943. Messo da Badoglio a capo dei servizi segreti militari, entrò a far parte del "Consiglio della Corona", presieduto dal re. Prima di partire per Tivoli pensò bene di svuotare la cassaforte dei cospicui fondi a sua disposizione e trovò anche il tempo, ad Arsoli - mentre a Roma si combatteva per le strade - di intrattenersi nell'appartamento occupato dalla bellissima attrice Mariella Lotti, impegnata nelle riprese del film "La freccia nel fianco", di Alberto Lattuada, prodotto da Carlo Ponti. Ho letto molti riscontri contrastanti su questo episodio, ivi comprese le dichiarazioni dei diretti interessati. Carlo Ponti dichiarò che, dalle richieste ricevute (rifugiarsi nel famoso castello cittadino, di proprietà del principe Leone Massimo e della consorte Maria Adelaide di Savoia-Genova), ebbe chiaro il sentore che volesse nascondersi; Mariella Lotti dichiarò che Carboni e i suoi aiutanti gli apparvero disorientati, insicuri e stravolti e non mancò di esternare il suo disappunto con la seguente frase: "Non si vergogna, generale, di essere qui a casa mia invece che con i suoi soldati?" Cosa fosse accaduto effettivamente, durante il soggiorno nell'alloggio della diva, non lo sapremo mai. In tanti, a cominciare da Paolo Monelli (op. cit.), sia pure senza scriverlo esplicitamente, hanno lasciato trasparire che, al di là delle dichiarazioni ufficiali, l'inetto generale abbia placato tensioni e mal di testa sul delizioso corpo della stupenda attrice, che non si sarebbe sottratta ad avance decisamente fuori luogo in un momento come quello. In mancanza di prove inconfutabili non mi permetto di propendere per alcuna versione. Non essendo un reato scommettere, tuttavia, qualora fosse disponibile il filmato di quelle ore e un bookmaker stabilisse delle quote prima di mostrarlo, in funzione delle idee maturate grazie alla lettura e al confronto di molti testi, sulla trombatina non esiterei a rischiare un centone.


POLITICA

Bibliografia essenziale. RENZO DE FELICE - "Mussolini l'alleato" - I volume - Tomo primo (Dalla guerra breve alla guerra lunga); Tomo secondo (Crisi e agonia del regime); II volume: La guerra civile; Einaudi Editore, varie edizioni. PINO RAUTI - "Storia del fascismo" - VI volume - Centro Editoriale Nazionale, Roma - 1978; PAOLO MONELLI - "Roma 1943" - Arnoldo Mondadori Editore, 1945 e successive edizioni. ROBERTO ROGGERO - "Oneri e onori - Le veritĂ militari e politiche della guerra di liberazione in Italia" - Grego & Greco Editori, 2006; RUGGERO ZANGRANDI - "L'Italia Tradita" - Mursia, 1971 - 2015 (Con ricca bibliografia generale). ROBERTO CIUNI - "L'Italia di Badoglio" - Rizzoli, 1993 AMEDEO TOSTI - "Pietro Badoglio" - Arnoldo Mondadori Editore, 1956 MARIO ROATTA - "Diario 6 settembre - 31 dicembre 1943" Mursia, 2017.

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SCIENZA & TECNOLOGIA

STAMPARE CASE E’ UNA REALTA’ Dall'esplorazione dello spazio alla robotica alla medicina , la stampa 3D ha un enorme potenziale in tutti i tipi di aree, ma quella in cui sta iniziando a fare un impatto reale è il mondo delle abitazioni a basso costo. L'ultimo esempio di questo è il centro di sviluppo alloggi per i senzatetto in Texas, a partire da un nuovo elegante centro di accoglienza che è stato stampato in 3D in poco più di un giorno La società di costruzioni che ha realizzato le nuove case stampate in 3D prende il nome di Icon. Da quando ha debuttato con il suo primo prototipo alla SXSW in Texas nel 2018, ha portato la sua tecnologia in America Latina, dove sta costruendo il primo quartiere al mondo stampato in 3D che includerà più di 500 case su 51 acri (20 ha) una volta completate. Icon entra nella mischia nella fase II del progetto e aggiungerà al mix un set di sei case stampate in 3D. Queste case sono state progettate da Logan Architecture, con sede in Texas, e Icon ne stamperà per la prima volta tre contemporaneamente allo scopo di dimostrare la sua efficienza di costruzione e concentrarsi sulla riduzione dei costi. Tutte e sei le case saranno completate prima che finisca l'anno, ma la società ha già completato un centro di accoglienza ùùùùùù8nella foto) di 46 metri quadrati per il villaggio, che ha stampato in sole 27 ore. Usando la sua stampante 3D Vulcan II per produrre le strutture di base di case semplici e facendo in modo che gli esseri umani aggiungano tocchi finali come finestre, porte e coperture, l'azienda è in grado di costruire abitazioni straordinariamente economiche ed efficienti. Il prototipo di casa che ha prodotto per SXSW ha richiesto 48 ore per un costo di $ 10.000. Allo stesso modo, il villaggio di case a basso costo che sta costruendo in America Latina è progettato per le famiglie che vivono con meno di $ 200 al mese e si spera possa servire come prova per soluzioni abitative convenienti in tutto il mondo. Giny (fonte New Atlas)


DA LEGGERE

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DIRITTO & DIRITTI

Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

www.confini.org


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