Confini n. 68

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Web-magazine di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

Numero 68 Ottobre 2018

LA RESA DEI CONTI


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Confini Webmagazine di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Numero 68 - Ottobre 2018 Anno XX

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti - Cristofaro Sola +

Hanno collaborato: Gianni Falcone Roberta Forte Giny Pièrre Kadosh Lino Lavorgna Antonino Provenzano Angelo Romano Massimo Sergenti Cristofaro Sola +

Contatti: confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

UN FONDO PER SALVARE L’ITALIA La prima cosa cha avrebbe dovuto fare il nuovo governo era aggredire il debito pubblico piuttosto che effettuare una manovra ancora uno volta in deficit senza, peraltro, realizzare significativamente gli obiettivi di governo. Ed almeno una soluzione alternativa, come vedremo, c’era, in grado di consentire la piena realizzazione degli obiettivi senza andare in conflitto con l’Europa e senza rendersi prigionieri dei mercati. Non bisognava essere profeti per sapere che - date le dinamiche con l'Europa - vi sarebbe stata l'"aggressione" dei mercati e la coalizione di tutti i poteri, forti e deboli, che non hanno gradito l'ascesa dei sovranisti al governo. Il balletto dello spread e delle borse, il conseguente vacillare delle banche era cosa prevedibile, addirittura scontata di fronte ad una manovra in linea con il "contratto di governo". Prevedibile anche il “niet” di Bruxelles, fosse solo per questioni di antagonismo politico. Eppure una soluzione "creativa" ed a portata di mano c'era ed era stata persino prospettata a qualcuno dei "piani alti", ma non vi sono state orecchie che volessero intendere. Di che si tratta? Del "Fondo Italia". Un'idea semplice ed efficace. Il debito pubblico italiano supera i 2300 miliardi. Gli investitori esteri ne detengono il 26%, la Bce il 9%, il restante 65% è detenuto da investitori italiani (banche 20%, assicuratrici 17%, Bankitalia 11%, fondi 3%, famiglie 6%, altri investitori italiani 8% (fonte Sole24ore). L'ammontare del debito costituisce uno dei principali problemi della credibilità internazionale italiana, costituisce, inoltre, un'arma nelle mani degli investitori stranieri sempre pronti a manovre speculative per incrementare i tassi di interesse (spread, ossia differenziale di rendimento tra titoli tedeschi e italiani). Tra le priorità della politica vi è quella di affrontare il problema del debito e di mettere al riparo il Paese, ossia gli italiani, dalla speculazione. Una possibile soluzione è quella di costituire uno speciale fondo di investimento in cui far confluire, per gestirlo in maniera ottimizzata, il patrimonio pubblico (immobili, partecipazioni, concessioni) stimato intorno ai 700 miliardi. Al fondo viene conferita la totale gestione dei beni affinché siano amministrati in maniera efficiente e redditizia. I beni conferiti in gestione sono inalienabili e restano nella disponibilità dello Stato. Il fondo ha durata ventennale salvo proroghe. Un management adeguato e reclutato in maniera trasparente garantisce una gestione professionale e di qualità.


EDITORIALE

Ai detentori di debito pubblico non italiani vengono offerte, in concambio, quote del Fondo contro i titoli di stato posseduti. Il vantaggio per questi ultimi è quello di investire su un sottostante valore reale delle quote e la possibilità di incamerare gli utili di gestione, facilmente superiori ai tassi attuali ed a quelli ottenibili con un'impennata dello spread. Comunque molto meglio del semplice pagherò di uno Stato indebitato e con rating scadente. Tale operazione consentirebbe di centrare quattro obiettivi di rilevanza nazionale e di grande prestigio politico: - la messa a reddito efficiente del patrimonio pubblico; - l'azzeramento di circa un terzo del debito; - la messa a riparo da manovre speculative; - la liberazione di risorse per finanziare il programma di governo senza condizionamenti "esterni". Ciò senza svendite o finte privatizzazioni e senza depauperare il patrimonio pubblico. Le minori entrate derivanti oggi allo stato da partecipazioni attive sarebbero compensate dai minori interessi sul debito (un terzo circa, pari a non meno di 22-25 miliardi anno). Si spera in un ravvedimento operoso. Angelo Romano

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SCENARI

LA RESA DEI CONTI Beh! Sì. Tema migliore per il numero del mese corrente, il nostro beneamato direttore non poteva trovarlo. Perché sono effettivamente convinta che stavolta siamo veramente alla resa dei conti. E cioè se un governo liberamente e democraticamente eletto di uno Stato membro dell'Unione europea abbia ancora la possibilità di esercitare il suo mandato in esito al volere degli elettori o se, invece, tale possibilità debba essere condizionata, fino alla vanificazione, non già da insormontabili vincoli di trattato bensì da personali visioni dei commissari europei. Alludo al Commissario Pierre Moscovici e al Presidente Juncker che hanno lanciato su legittimi rappresentanti di questo Paese infamanti accuse addirittura di razzismo e di illiberalità. Ma la cosa che parimenti sconcerta è che esponenti politici di destra e di sinistra non abbiano sollevato il benché minimo sopracciglio dinanzi a tali offese, peraltro gratuite, rivolte ai rappresentanti legali del Paese dov'essi vivono e operano. Neppure la vessillifera della Fratellanza italica è riuscita a sgranare ancor di più gli occhi rispetto a quello che solitamente fa. Perché, a questo punto, non si tratta più di appartenenza partitica e, quindi, del naturale ruolo delle opposizioni nei confronti della maggioranza quanto del non vedere, del rifiutarsi di vedere la mortificazione che ogni singolo cittadino sta ricevendo per bocca di esponenti puramente amministrativi di un'Unione europea che, a questo punto, non si sa più che veste abbia. Non si sa, cioè, se la Commissione abbia abbandonato la veste amministrativa, burocratica, di norma neutrale, per rivestire quella politica ed allora sarebbe il caso di modificare i trattati e introdurre il voto. Oppure se, in maniera pedestre e strafottente per giunta, abbia deciso di scendere in campo a sostegno di una sola parte, forte della sua impunità. Il paradosso è dato dall'enfasi con la quale sono state accompagnate quelle accuse: neppure nei confronti di Orban e del suo muro si è arrivati a tanto, né c'è stata reprimenda all'invio dell'esercito austriaco al confine con l'Italia, né, tantomeno, sono state sollevate obiezioni di sorta allo sconfinamento francese, in armi, per 'inseguire' emigranti sul territorio italiano o per depositarceli. Né, infine, ha sollevato indignazione la totale disattesa da parte di 26 partners dell'accordo di Dublino. Eppure, l'unico Paese sul quale si sono appuntati gli strali è stata l'Italia, unica fra tutti a rispettarlo fino a tre mesi fa. Poi, come qualunque benpensante, alla lunga, può umilmente chiedere: perché solo e sempre noi, con vasto impiego di risorse, uomini e mezzi, nell'eclatante, consentito, disinteresse altrui? Perché solamente nostre navi nelle operazioni di soccorso? Perché le navi ONG hanno sempre avuto come pressoché unico luogo di destinazione l'Italia? Perché l'unica volta che l'Unione ha


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deciso di intervenire con Frontex ha ridotto, rispetto al nostro impegno, sia il braccio di mare da pattugliare, sia il numero di navi da impiegare destinando le maggiori risorse del programma non già alle coste che affacciano sul Mediterraneo bensì a quelle bagnate, si pensi, dall'Oceano Atlantico? Perché una così assoluta disattenzione da parte della Commissione di fronte ad una così smaccata presa per i fondelli da parte di alcuni Paesi che hanno la sfrontatezza di emettere pagelle di moralità e di umanità quando, in più di un'occasione, il loro menefreghismo è giunto a non considerare neppure persone malate, donne in stato interessante e bambini? E, si pensi, non c'è stato neppure un magistrato in quei Paesi che abbia inquisito il premier o il ministro competente. Le domande potrebbero continuare ma resterebbero, al pari di quelle sopra, senza risposta in un assordante silenzio non solo della Commissione ma anche di forze partitiche nostrane che pure inneggiano all'identità nazionale, alla Patria, alla Nazione nel nome di culture identitarie, sociali e liberali, rimaste, nel tempo del loro governo, espressioni prive di qualsivoglia valenza. Un silenzio rotto solo per criticare, al pari della Commissione europea, la manovra che l'Esecutivo ha recentemente varato; è vero che non compete alle opposizioni fornire un programma alternativo e che la critica fa parte del gioco ma, almeno, le parole usate avrebbero potuto essere meno banali: maggiori attenzioni alla famiglia, alle imprese, ai servizi sociali, allo sviluppo, etc. etc. etc. Tutti obiettivi, questi, rimasti nei due decenni passati autentiche espressioni nominali, buone per la sinistra e per la destra quali ciclostilati argomenti di scambievoli accuse di disattenzione. Mi verrebbe da domandare: ma siamo certi che le nostre forze d'opposizione abbiano davvero letto il Documento di programmazione economica e finanziaria? Siamo sicuri che conoscano il significato delle politiche delle quali oggi non vedono la presenza? Ho fondati dubbi in proposito: addirittura, quando per disgraziati motivi i loro governi, nel ventennio passato, sono stati intervallati da quelli di Tecnici-Soter che hanno finito per aggravare i problemi chiamati a risolvere, esse, come si conviene ai cresimandi, sono rimaste rispettose e silenti. E comunque, a proposito della manovra 2019, ancora una volta l'istituzione comunitaria è intervenuta a gamba tesa senza che qualcuno abbia fischiato il fallo. Non si è limitata a sollevare obiezioni di carattere tecnico sulle quali ci può essere un confronto bensì ha marchiato, ancora una volta con arroganti espressioni gratuite, l'impostazione data da un sempre legittimo governo. Ed ancora una volta i 'baldi' oppositori nostrani hanno fatto orecchie da mercante ed invece di invocare il rispetto per il Paese e per le legittime istituzioni, a prescindere da chi le incarni, hanno preferito continuare la pantomima casereccia. Se proprio la vogliamo mettere giù tutta, paradossalmente non mi meraviglia tanto il silenzio del PD, quando non funge da ripetitore delle accuse di Bruxelles, quanto quello di Forza Italia e compagnia cantando; mi chiedo in chissà in cosa potrà mai consistere il 'sovranismo' da ultimo sbandierato e come si dovrebbe caratterizzare la 'rifondazione' del centro-destra', auspicato da più d'uno di quella parte. Forse, anche qui, tra i famosi 'dire' e 'fare' c'è di mezzo il vasto 'mare'

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della gigioneria, della demagogia, della cecità, della superbia che, in pendant con il PD, ha determinato per questo Paese la ultraventennale camminata nel deserto. Non mi meraviglia molto il PD, dicevo, perché nella sua genetica visione universale ha sempre visto l'Italia come semplice 'base operativa' e non come un luogo al quale essere emotivamente legati da affetti e tradizioni; e, del resto, lo dimostra il fatto che essi non si sono mai peritati, in contesti internazionali, di fare strame di rappresentanti delle istituzioni italiane non appartenenti alla loro parrocchia; salvo, poi, invocare inorriditi quel rispetto quando ad incarnare le istituzioni si sono trovati loro esponenti. Ed il bello e persino ilare è che in questa farsa trovano sodali i quali, labili di memoria e di sentimenti, sono essi stessi incappati in precedenza nel tritacarne. Il materialismo del PD, storico in ambedue i sensi, nonostante la loro trasformazione in socialisti nel lontano '91, non è ancora venuto meno. Almeno avessero inalberato un fiore per ingentilire se non altro l'immagine, rimasta presuntuosa e saccente. E, invece, scomparsa la loro passata ragion d'essere con la caduta del Muro, l'unico atteggiamento praticato nella nuova veste, almeno fino all'arrivo del rottamatore fiorentino, è stato quello di professare, a parole, come una specie di noioso mantra, l'antiberlusconismo. A parole, sottolineo, perché, nell'ultradecennale presenza del PD al governo, il Parlamento non ha visto neppure l'ombra di una proposta di legge circa la regolamentazione del conflitto d'interessi, imputato ad ogni piè sospinto al Cavaliere. Non sto difendendo il Cavaliere; non ci penso proprio. Ma, se non altro, il personaggio nella sua interessata insipienza è tutto sommato divertente. La pietrificazione del PD, invece, è triste. audacia temeraria igiene spirituale Perché fa male (cosa mai sono arrivata a dire) vedere un partito, il cui passato ha contribuito comunque a fare la nostra storia, con passati dirigenti che hanno avuto il fegato (stavo per dire altro) di sfidare la deità sovietica nonostante la dipendenza dottrinaria, politica e, si dice, persino economica, ridotto oggi ad un ectoplasma che non riesce neppure a fare un congresso, come prassi vorrebbe, dopo una consistente fuoriuscita di elementi e una sonora sconfitta elettorale. Nonostante la presenza di un sommesso segretario quale maître à penser, resta prigioniero di un ex premier dalla capricciosa, fatua vivacità e si barcamena tra silenzi e roboanti critiche all'azione del governo neppure notando che alcuni provvedimenti passati in votazione, bollati come iniqui, erano la coda lasciata dal precedente governo Gentiloni. Ci sarebbe da piangere se, nella miseria della situazione, non ci fosse da ridere. Chissà che il futuro non ci riservi la gioia di vedere ufficialmente realizzato il sodalizio PD/Forza Italia o comunque si chiamerà quel partito. Si nota che soprattutto F.I. ha incontrato Kautilya ed approfondito la sua l’Arthaúâstra: eh! Sì, non c'è dubbio: il nemico del nemico vicino è un alleato! E, già che c'erano, perché non sconfinare nella filosofia tanto da scoprire l'immanenza di Hegel e riuscire così a comprendere che per ognuno dei due è essenziale la presenza dell'altro in quanto gli dà realtà e lo configura per quello che è? E quale migliore garanzia reciproca per la perpetuazione di un'esistenza, per quanto ininfluente e fine a sé stessa, darsi scambievole aiuto per evitare la scomparsa?


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Forse, aspettano le europee del prossimo anno quale ultima spes, a mo' di verifica, la quale per giustizia divina non potrà che confermare la tendenza in atto. E, del resto, come si può pensare di lanciare ad una maggioranza eletta in gran parte da ex pidini ed ex forzitalici, accuse di illiberalità, inciviltà e perfino di razzismo, una delle forme più abiette e deprecabili del comportamento umano, e sperare da qui a pochi mesi di recuperare voti di coloro ai quali è stata praticamente data la patente di coglioni ottusi quando non di biechi, pedestri gregari? Non sono una pentastellata e nemmeno una leghista e quindi il mio pensiero non può produrre il men che minimo effetto sul comportamento futuro della Lega; l'unica conseguenza che può generare è sul mio comportamento. Perciò, spero ardentemente che alle prossime consultazioni elettorali non ci sia alleanza alcuna tra presunti appartenenti ad una analogamente presunta area di centro-destra. O, meglio, la facciano. Tra simili: tra i vagheggiatori di una vuota e arida fratellanza e gli amanti di un'istrionica impotenza. Così da dare almeno a me un'ulteriore possibilità di scelta. Perché, a parte l'egoistico desiderio, non c'è dubbio alcuno che al Paese occorra una specie di 'rifondazione' culturale dei concetti di 'destra' e di 'sinistra' o, come si preferirà chiamarle. E, peraltro, non è questo un processo, peraltro lungo e complesso, al quale far partecipare alcuni degli attuali sedicenti rappresentanti dell'una e dell'altra parte: lo inquinerebbero. Occorre tornare, nondimeno, a confezionare una 'speranza', a costruire ideali e a concepire obiettivi finalistici, a rinverdire valori e, in conseguenza, a tracciare un cammino dove gli ostacoli non siano per l'elettore frustranti disattese di un incolore 'programma' bensì contrattempi dovuti a naturali cause atmosferiche. E per far questo occorre riscoprire la bussola che eviti il procedere a tentoni e sconfinamenti in altre corsie, senza che quando questo accade sia qualcosa più di un'azione contingente e non una costante, insipida, ratatouille. Non è di ideologia che c'è bisogno: queste sono state effettivamente cancellate dal quadrante della storia e alle frange oltranziste residue nessuna forza al mondo potrà mai ridar loro l'antico significato. Ciò della quale c'è assoluta necessità, invece, è la politica: e non esito a dire che la Finanziaria, il Def, recentemente varata è quanto di più vicino ad un'azione politica da più di un quarto di secolo a questa parte. Non sto discutendo se sia giusta o sbagliata: sto semplicemente affermando che, finalmente, qualcuno promette una qualunque cosa e la realizza, all'interno di un quadro organico. Forse, si sarebbe potuto aspettare un anno per varare il reddito di cittadinanza; forse nell'ambito della comunicazione si sarebbe dovuto spiegare meglio che lo stesso reddito già c'era da decenni sotto forma di pensione sociale e poi di assegno sociale; forse si sarebbe dovuto dettagliare meglio la composizione del Def e spiegare che quello che 'sfora', pur rimanendo sotto il prescritto 3%, sono solo gli investimenti necessari per dare sostegno all'economia, ma, come affermò Mosca Lamberti nella contesa tra gli Amidei e i de Buondelmonte, cosa fatta capo ha. Rimane certamente sul tappeto il giudizio dei mercati e quello di Bruxelles, al di là delle offese pervenute, ma, sarà che sono un'impenitente ottimista, credo che, in ordine ai mercati la prima a preoccuparsi di nostri eventuali problemi sarebbe la Germania visto che siamo il suo principale

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partener economico. Se la Brexit le ha dato una brutta botta con un differenziale del 20% sulla bilancia commerciale, una nostra non certo auspicabile crisi equivarrebbe all'urto di un treno; il che, in un momento di grossa nebulosità politica non sarebbe un bene per gli attuali reggenti del potere. Ne consegue che ha tutto l'interesse che la nostra economia si consolidi. Resta Bruxelles ma, come è già stato evidenziato da altri, tra sei mesi gli attuali componenti della Commissione saranno solo un ricordo, bello o brutto che sia. E questo non nell'auspicio che l'Europa si affossi bensì che torni a vivere secondo gli ideali dei padri fondatori: Léon Blum, Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi riappropriandosi, rispetto all'unipolarismo statunitense, delle sue multiformi caratteristiche culturali ed economiche; le uniche capaci di dare plausibilità e sostegno all'euro, alla nostra, sottolineo nostra, moneta. E, del resto, per dirla con Habermans, in presenza di società industriali nel capitalismo maturo, in una crisi di legittimità che mina alla base le democrazie contemporanee e i meccanismi di formazione del consenso, non si intravede altra strada se non il ruolo delle istituzioni in una nuova prospettiva dialogico-emancipativa. Dobbiamo credere nell'Europa, molto più del passato, consapevoli che senza di essa c'è la penalizzante emarginazione e, ancor di più dobbiamo credere nel nostro Paese: come recentemente ha ricordato il Presidente Mattarella, "l'immagine del Paese all'estero è migliore che da noi". Il che è davvero paradossale. Perciò, in conclusione, a proposito dell'attaccamento al nostro Paese, mi chiedo: dal momento che siamo i pressoché maggiori risparmiatori al mondo con un gruzzolo al momento di ben 4.290 miliardi diaudacia euro, tendente all'incremento di oltre il 4% di anno in anno, perché le banche, le temeraria igiene spirituale nostre banche, sollecitano investimenti in fondi stranieri, spesso americani, anziché nell'acquisto dei nostri titoli? Il Giappone, la terza economia del mondo con una disoccupazione al 4%, seppur con un debito pubblico di oltre il 230% sul Pil e un deficit ad oltre il 10%, (cifre che farebbero dare di matto agli attuali reggitori comunitari) gode della più alta considerazione dei mercati e, da plurindebitato, può addirittura permettersi di finanziare il debito pubblico americano (facendo carry trade, ovvero pagando interessi inferiori all'1% su propri titoli a 10 anni e ricevendo quasi il 2% dal Tesoro Usa) e quello europeo (il Giappone si è detto pronto ad acquistare titoli emessi dal Fondo salva-Stati Esm). Come è possibile? Semplicemente per due ragioni: la prima è che la Banca of Japan può stampare a suo piacimento carta moneta e la seconda è che la quasi totalità del suo debito pubblico è in mano ai risparmiatori giapponesi. La prima non rientra nella filosofia comunitaria nel timore dello spettro dell'inflazione. Eppure, l'onnipresente FMI, pronto ad emettere pagelle, non ha battuto ciglio quando gli USA, dopo il collasso di Lehman Brothers, per tre volte hanno battuto moneta arrivando a stampare 40 miliardi di dollari al mese per un periodo indefinito. La notazione a margine è che l'inflazione negli States è salita solo a poco più del 3% favorendo peraltro una ristrutturazione gratuita del loro mastodontico debito pubblico, ammontante a oltre 16mila miliardi di dollari. In ogni caso, il sempiterno FMI non ha neppure commentato il


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fatto che il Giappone, peraltro tra i primari importatori, col rischio quindi di una inflazione derivata, ha un tasso medio inflattivo del solo 1%. Comunque, accantonata la prima ragione perché un sodalizio al quale si appartiene ha comunque le sue regole, resta la seconda con tutti i suoi inspiegabili interrogativi. Certo, quest'ultima è una ragione che ha una grossa ombra nel lungo periodo: l'aspetto demografico. Resta, perciò, il fatto che quel percorso, a volerlo intraprendere, avrebbe solo una scelta conseguenziale: il varo di politiche che favoriscano la natalità. Chissà che l'insegnamento pirandelliano dell'Uno, nessuno e centomila non ci sia di conforto. Roberta Forte

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LE RAGIONI DI UNA GUERRA Sulla questione della Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza, il nostro Paese è stato messo sotto stress dalle istituzioni comunitarie. Eppure quello dei guardiani europei dei nostri conti pubblici non sembrerebbe un comportamento razionale, atteso che l'Italia non è la Grecia ma gode di fondamenti economici di assoluta solidità. Nelle analisi di stima l'eccessivo ammontare del debito pubblico, infatti, è controbilanciato da cinque innegabili punti di forza, che sono nell'ordine: una consolidata affidabilità nel pagamento dei propri debiti, che non appartiene ad altri Paesi (leggi Germania e Grecia); un solido apparato produttivo che fa dell'Italia la seconda manifattura in Europa; un risparmio privato che ammonta, al 31 marzo 2018 (fonte: Banca d'Italia), a circa 4.406 miliardi di euro, cioè il doppio del Debito pubblico; un significativo surplus nella bilancia commerciale; un costante avanzo primario nei saldi di finanza pubblica. È quindi lecito domandarsi: perché mai i titoli del debito sovrano dovrebbero valere spazzatura in costanza di un quadro macroeconomico tutt'altro che negativo? La risposta va ricercata nella valenza politica dello spread. Non essendo più all'ordine del giorno l'impiego dei carri armati e delle artiglierie per stabilire i rapporti di forza tra Stati, è invalso l'uso di agire sulla leva finanziaria. E l'Italia giallo-blu, al momento, è nel mirino dell'establishment europeo, condizionato dal potere d'influenza dell'asse carolingio. Per comprendere il perché l'odierno Governo italiano faccia tanto paura ai partner europei bisogna leggere un elaborato del Ministero degli Affari europei, risalente allo scorso settembre, dal titolo "Una politeia per un'Europa diversa, più forte e più equa". Il documento, attribuito al Ministro Paolo Savona, contiene in epigrafe la chiave che spiega la crisi tra Bruxelles e Roma. È una citazione da "Il Principe" di Niccolò Machiavelli: "Non esiste cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire, né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo e introdurre nuovi ordini, perché lo introduttore ha per nimici tutti quelli che degli ordini vecchi fanno bene, e ha tepidi defensori tutti quelli che degli ordini nuovi farebbono bene". Illuminanti parole che suonano profetiche. A spaventare l'establishment eurocratico non sono, dunque, i decimali di deficit in più con i quali il Governo italiano vorrebbe traguardare gli obiettivi programmatici del "Contratto". Tra l'1,9 per cento che la Commissione sarebbe disposta a concedere in deroga alla regola del Fiscal Compact e il 2,4 per cento dichiarato nella Nota di Aggiornamento al Def lo scostamento sarebbe di uno 0,5 per cento che, in moneta sonante, corrisponde a mezzo punto di Pil.


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Niente rispetto ai 365milardi 156milioni di euro di maggior debito accumulati tra il 1 gennaio 2012 e il 31 dicembre 2017 dai Governi Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, proni ai diktat europei. L'establishment di Bruxelles per sette anni non ha fatto una piega di fronte al lievitare del Debito mentre adesso inarca inorridito il sopracciglio per uno score di 8,5milardi di euro? Sarebbe bizzarro se non fosse per il panico che si va diffondendo tra le istituzioni comunitarie con l'approssimarsi della campagna elettorale per le europee. Ciò che spaventa i guardiani del potere a Bruxelles sta in quella pretesa garbata ma potente, messa nera su bianco dall'italiano Paolo Savona, di voler discutere di una nuova "politeia", che si traduce nel ricercare una "visione concordata diversa da quella perseguita finora per il perseguimento del bene comune europeo". Il progetto targato Savona è di "rendere espliciti gli strumenti da attivare per raggiungere gli obiettivi indicati nei Trattati". È il disvelamento di una verità dolosamente taciuta e che riguarda il deragliamento della politica comunitaria dagli obiettivi sanciti nell'articolo 3 del Trattato costitutivo della Ue. È il rovesciamento prospettico dell'interlocuzione tra struttura sovranazionale e un Paese membro per effetto del quale è quest'ultimo a chiamare sul banco degli imputati i manovratori del sistema e non, viceversa, la struttura a impartire lezioni e pagelle. L'Italia, nello scritto del Ministro degli Affari europei, indica la via alternativa al declino economico nel quale rischia di naufragare l'acquis europeo: invertire la funzione della politica fiscale che deve essere al servizio della crescita del reddito e dell'occupazione laddove oggi essa è subordinata all'istanza di stabilità monetaria. E per tale scopo Savona propone l'innalzamento delle competenze della Banca centrale europea, rendendo strutturali le funzioni di prestatore di ultima istanza (Lender of last resort) che la Bce ha finora svolto solo in via straordinaria ed emergenziale. Siamo al paradosso per cui sebbene l'Euro sia la seconda moneta negli scambi reali e finanziari globali non ha alle spalle a sostenerlo una Banca centrale con i medesimi poteri di cui godono tutte le banche centrali del mondo. E se oggi la moneta unica è vissuta dalla maggioranza dei popoli dell'eurozona non come opportunità ma come gabbia opprimente lo si deve al fatto che la sua introduzione è stata sostenuta dalla decisione di orientarla al governo dell'offerta senza che tale scelta venisse bilanciata da sufficienti interventi integrativi sulla domanda aggregata. Perché stupirsi che il nostro Paese provi a fare ciò che i guardiani dell'architettura istituzionale europea non hanno saputo o voluto fare nell'ultimo decennio? Prendersela con l'Italia se il saggio di crescita reale dell'area euro non è minimamente comparabile a quello del resto del mondo è solo una vieta ipocrisia autoconsolatoria. Bruxelles contesta a Roma la volontà di sforare i limiti di deficit programmati, eppure, l'ordine di espandere la domanda interna ai Paesi in avanzo di bilancia corrente estera, anche in deroga ai vincoli fiscali, sarebbe dovuto partire proprio dalle stanze ovattate della governance dell'Unione. Si è preferito, invece, tenere al guinzaglio stretto il tasso d'inflazione. Da qualche parte si è ipotizzato che fosse la volontà tedesca, patologicamente ossessionata dallo spettro di Weimar, a impedire che la struttura europea esercitasse con efficacia i principi di sussidiarietà e

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proporzionalità iscritti nel suo Dna. Può darsi. Ma la verità è che l'abbandono della discrezionalità nelle scelte che è tipica della politica ha lasciato il campo all'egemonia degli indicatori matematico-statistici e alle formule algoritmiche. E si è fatta strada la convinzione che bastasse un pilota automatico per dirigere la vita di uno Stato nazionale che è prima di tutto comunità di destino di un popolo. Non si è valutata a dovere l'impossibilità per un pilota automatico di riconoscere un iceberg quando lo incrocia sulla propria rotta. Ecco, dunque, qual è il portato simbolico di quello Zerovirgola che segna la nuova linea del Piave in una guerra che, una volta iniziata, dovrà essere portata a termine. Comunque, in questa occasione l'Italia potrebbe non essere sola a combattere. Al suo fianco è pronta a schierarsi l'America di Donald Trump. In quale modo e perché? Nel 2019 il Tesoro italiano dovrà collocare sul mercato primario titoli per un controvalore di circa 400milardi di euro, di cui 260 a medio-lungo termine, e Donald Trump non se ne starà alla finestra ad assistere al tracollo italiano e al trionfo dei "nemici" tedeschi e francesi che danzeranno sulle ceneri del nostro sistema produttivo. Perché, nonostante i media nostrani fingano di non saperlo, la guerra dello spread che si preannuncia contro l'Italia pesa sulla geopolitica e sui rapporti di forza tra potenze planetarie ben più che sulla naturale dinamica che muove gli interessi degli investitori sui mercati finanziari. Il nostro non è un Paese qualunque. Il suo ruolo nella composizione e scomposizione delle alleanze sullo scacchiere globale potrebbe risultare decisivo. È noto che l'amministrazione di Washington abbia ingaggiato una lotta al coltello con le grandi potenze manifatturiere, in primis Cina e Germania, che hanno fatto degli Stati Uniti il terreno di caccia favorito per generare plusvalenze commerciali gigantesche. Donald Trump intende invertire la logica che finora ha consegnato gli Stati Uniti al ruolo di compratore di ultima istanza delle produzioni degli altri Paesi, in particolare degli alleati. Ha cominciato dalla guerra dei dazi per rimettere in equilibrio la bilancia commerciale con il resto del mondo. Ma non si fermerà a quella. Trump, prendendo esempio da Mao Tse-tung, vuole colpirne uno per educarne cento. Allo scopo, ha messo nel mirino la Germania. La Casa Bianca vuole spezzare la catena con la quale la Germania tiene legati a sé i partner all'interno dell'Unione europea. Romperne il monopolio della decisione stimolando il bilateralismo nelle relazioni con i singoli Stati europei, comunque interessati alla partnership strategica con gli Usa, è la stella polare della politica transatlantica di Trump. In tale ottica l'Italia giallo-blu che si ribella ai diktat confezionati a Bruxelles su mandato dell'asse carolingio piace moltissimo a Washington. Sottrarre lo "stivale" al tacco franco-tedesco per Trump sarebbe un successo politico di primaria grandezza. Se quindi l'arma del terrorismo psicologico è funzionale a far fuggire gli investitori dai titoli del debito sovrano italiano spaventandoli con apocalittiche previsioni di crollo, preconizzate dalle entità sovrannazionali fortemente influenzate dal potere dell'asse carolingio, la contromossa americana a difesa non può che essere quella di spingere gli investitori "amici" a dichiararsi pronti a fare l'inverso: comprare il debito sovrano italiano.


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Cosa peraltro già annunciata lo scorso luglio dalla banca d'affari J.P. Morgan Chase & Co, per bocca del suo ceo e chairman, Jamie Dimon. Di recente, il premier Giuseppe Conte ha tenuto a far sapere che Steve Mnuchin, segretario al Tesoro Usa, ha dichiarato che "l'Italia non rappresenta un fattore di rischio". Sulla medesima lunghezza d'onda si colloca il faccia-a-faccia a Bali tra il ministro dell'Economia Giovanni Tria e l'omologo statunitense Steve Mnuchin, a margine dell'assemblea annuale del Fondo Monetario internazionale/Banca Mondiale. I due hanno parlato di sostenibilità del debito italiano e di appetibilità di rendimento dei suoi titoli. L'astuto "Donald" gioca sul velluto: sostenere l'Italia gli costerà irrilevanti rischi e gli recherà molti benefici. Il segnale di tranquillità consegnato personalmente da Trump al Governo di Roma, nel corso della visita a Washington di "Giusepi" Conte lo scorso luglio, trova conferma nell'attenzione positiva che l'ambasciatore Usa in Italia, Lewis Eisemberg, riserva al Governo giallo-blu definendolo "la quintessenza della democrazia in azione". Poi, sarà un caso ma Eisemberg è newyorkese e di mestiere, prima di diventare ambasciatore, è stato finanziere. La folta pletora di disfattisti esteri ed autoctoni, che ha scommesso sul declassamento del merito di credito dei titoli italiani ad opera delle agenzie di rating, spera che una bocciatura possa innescare una crisi d'intensità tale da provocare, come nel 2011, la caduta dell'Esecutivo e l'insediamento di un più appropriato "Governo dei tecnici" chiamato dai "vincitori" a rimettere l'Italia al posto che i padroni del vapore vorrebbero occupasse nella scala gerarchica del potere geopolitico europeo: molto al di sotto di Francia e Germania e appena una mezza spanna sopra la Grecia. Tocca allora a Standard & Poors e a Moody's pronunciarsi. Ma si dà il caso che entrambe le Agenzie abbiano sede negli Usa. Sarà una coincidenza ma qualcosa ci dice che i nemici interni ed esterni dell'Italia anche stavolta rimarranno alquanto delusi. Cristofaro Sola

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IL CONDOMINIO (...ALLA RESA DEI CONTI?) Immaginiamo un'ipotetica scena: la notte fredda, piovosa, umida del 17 dicembre 1770. Un modesto alloggio alla periferia della cittadina renana di Bonn. In una camera da letto sommariamente ammobiliata, una donna, Maria Magdalena Keverich in Beethoven, è in travaglio. Sta per dare alla luce uno dei suoi sette figli. L'assiste una vicina di buona volontà. Il marito Johann è assente, forse in qualche osteria. Ad un tratto la tetraggine del luogo viene squarciata da un urlo di neonato. E' venuto al mondo il piccolo Ludwig. La levatrice con gesti secchi afferra la creatura per i piedi, la scuote tenendola sospesa a mezz'aria ed esclama con un tono perentorio che non ammette repliche : "ecco, questo 'è' il più grande compositore di musica sinfonica mai apparso sulla terra!". E' evidente che una tale ipotetica scena sarebbe stata assurda in quanto la levatrice avrebbe affermato un qualcosa in quel momento non vero compiendo nel contempo un errore semantico. Infatti l'ipotetico uso della terza persona singolare del verbo essere (egli è) sarebbe stato qualcosa di irreale date le circostanze di tempo e di luogo. In quel momento il piccolo Ludwig NON ERA ovviamente "il più grande compositore di musica sinfonica mai apparso sulla terra". Egli 'era', forse e auspicabilmente, una mera potenzialità, una speranza (fate voi) di potere un giorno - chissà - diventare tale. Infatti è solo con il trascorrere di qualche decennio che avrebbe potuto cominciare a sostanziarsi, come di fatto poi avvenne, il suo "essere" "il più grande etc. etc.". Ma lasciamo ora al suo deferente riposo l'ottimo Ludwig e trasferiamoci ad altro secolo ed a ben diversa località. In un sontuoso palazzo romano, il primo gennaio 1948, vede la luce la Costituzione della Repubblica italiana. Essa, all'articolo 1 e con tono altrettanto perentorio, recita: "L'Italia 'è' una Repubblica democratica, fondata sul lavoro". E qui, credo, valga il medesimo discorso fatto per il piccolo Ludwig. Il nostro Stato NON "è", alla mezzanotte di quel capodanno, "una Repubblica democratica, etc etc.". "In re ipsa", ed in quel momento, tale tipo di Repubblica è appena una pura potenzialità, una speranza, un auspicio che non avrebbe potuto sostanziarsi in modo percepibile se non che con un inevitabile trascorrere di tempo. Oggi, quel neonato dell'inverno del 1948 venuto alla luce sotto il segno del Capricorno, ha già compiuto 70 anni ed è ormai legittimo iniziare a tracciarne un credibile bilancio esistenziale. Credo sia adesso lecito il potersi domandare: il nostro paese è oggi realmente costituito in una repubblica democratica fondata su lavoro?


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Quanto ci circonda mi porta a dubitarne e quindi tanto vale che io cali subito sul tavolo la carta del mio pensiero: nel pieno ormai della sua sperimentata maturità, l'articolo primo della nostra legge fondante andrebbe ormai, più realisticamente, riscritto nel modo seguente : "L'Italia 'è' un Condominio di Corporazioni basato sulla spesa pubblica". Che si abbia il coraggio di non nascondersi dietro ad un dito! L'italiano medio (naturalmente con tutte le varie eccezioni del caso e con la cortese preghiera al gentile lettore di non impiccarmi subito alle mille possibili, sacrosante, certificate fattispecie di esempio contrario) è inserito - e felicemente vi si accomoda - in una qualche forma di specifica CORPORAZIONE socio-economica. Tali corporazioni si manifestano per cerchi concentrici; al centro le più coesive e tenaci che si allargano poi, diluendosi, in svariate altre di ogni genere. Dalla famiglia (naturalmente al primo posto) al mestiere, alle professioni per giungere infine all'orbita "plutonica" della squadra del cuore. Credo che la cronaca dell'ultimo settantennio di vita pubblica italiana confermi in modo incontrovertibile il fatto che (prego cortesemente il lettore di recepire anche il seguente elenco a titolo di puro esempio) un nostrano tassista, negoziante, farmacista, notaio, docente universitario, primario ospedaliero, magistrato, diplomatico etc. sia, prima di tutto un tassista, un negoziante, un farmacista, un notaio, un docente, un primario, un magistrato, un diplomatico e soltanto, ed a seguire, un "italiano". Mi azzarderei a pensare che le rispettive controparti francesi, inglesi o tedesche possano mostrare un capovolgimento di ruoli. Credo infatti che colà, ad un ipotetica resa dei conti, ci si dichiarerebbe forse, e prima di tutto, appartenenti alla Nazione e soltanto in subordine al gruppo socio-economico di inserimento (anche famiglia di sangue, probabilmente , inclusa). Cosa deriva ineluttabilmente da ciò ? Che l'Italia NON sia uno Stato unitariamente coeso, MA soltanto quello specifico Condominio di eterogenee corporazioni legalmente domiciliato allo stabile detto "La Penisola" e sito in "Largo del Mar Mediterraneo" n° 1. Spero che chi mi legge sia almeno d'accordo sulla seguente constatazione: il condominio è in assoluto la peggiore forma di possibile consorzio umano. Una forzata convivenza tra individui sconosciuti, spesso incompatibili per carattere, uniti dal collante di una sofferta sopportazione reciproca segnata da perenne diffidenza in salsa di finalizzata, farisaica cordialità. Credo risulti evidente che una comunità statuale dal sentire corporativo (ciò detto per evitare, per carità di patria, la nota citazione di Metternich sull'"espressione geografica") può contenere e gestire gli inevitabili attriti di convivenza soltanto se sia presente in essa una sorta di agente LUBRIFICANTE che neutralizzi, o almeno minimizzi, la forzata contiguità di ingranaggi in sofferta relazione tra di loro e che girano a velocità differenti con rischio di pericoloso surriscaldamento, se non addirittura di grippaggio. E questo, in un meccanismo dall'assemblaggio mal progettato sin dall'origine (non dimentichiamo che l'Italia di oggi è nata anche da un'autentica guerra civile di matrice politica e non soltanto da una liberazione ad opera di potenze straniere) ed ancor peggio gestito da governanti settoriali, conflittuali, non sintetici e tanto meno lungimiranti (vedasi, ad esempio, il sofferente sistema regionale).

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Se inoltre tale comunità si è trovata costretta a vivere per un buon mezzo secolo in una sorta di asfissiante morsa geopolitica chiusa tra i due giganti ideologici del capitalismo e del comunismo con l'unica "gentile concessione" da parte della Storia di appena un breve decennio di autentico sviluppo economico / imprenditoriale (1957-67), si può allora comprendere come la SPESA PUBBLICA, nella sua accezione più ampia, sia stata (e continui naturalmente ad esserlo ancora) l'unico "lubrificante" di stretta matrice keynesiana del nostro Condominio e come essa costituisca la stella polare della propria economia, nonché croce e delizia della sua stessa sopravvivenza. In tale asfittica condizione geopolitica costantemente minacciosa per la pace sociale tra le variegate corporazioni del paese (situazione peraltro accettata per decenni dai due contrapposti schieramenti politici italiani, DC e PCI, ciascuno per propri, e spesso inconfessabili, interessi di parte) il governo italiano pro tempore - rectius l'Amministratore pro tempore del Condominio soprattutto dagli inizi degli anni '70 fino al deleterio ingresso, se non altro per la tempistica e le modalità attuative, nella moneta unica europea, non poteva, per la sopravvivenza stessa della sempre precaria pace condominiale, che aggrapparsi alla gestione della finanza pubblica e relativa spesa. Ciò per cercare di assicurare, per quanto possibile, l'equilibrio del nostro fragile patto sociale e di cui al sopra"rivisitato" art. 1 della Costituzione. E bisogna riconoscere che, grazie anche al noto "stellone" italico, egli sembra esservi sostanzialmente riuscito. Tuttavia non va dimenticato che il predetto Amministratore ebbe la fortuna di avere a disposizione, come suole dirsi proprio sotto casa e fino alla soppressione della Lira (gennaio 2002), un magico strumento operativo, panacea per tutti i mali economici e/o di bilancio del Condominio stesso : la Zecca dello Stato. Un cenno dell'Amministratore alle presse monetarie ed ecco docilmente asserviti al proprio volere : 1) DEFICIT, 2) DEBITO PUBBLICO, 3) INFLAZIONE e 4) SVALUTAZIONE MONETARIA COMPETITIVA. Meglio di così?! Evviva ed allegria! Dopotutto, qualcuno non ha forse detto che "la vita è troppo breve per NON essere italiani" o che, come da ineffabile Principe di Salina, "finche c'è patrimonio c'è speranza"? ll gioco era così acriticamente facile, nonché politicamente gratificante, che, anche in quel momento di rivitalizzazione dell'industria manifatturiera e dell'export italiani (i mitici anni '80) invece di approfittare della favorevole congiuntura per compiere atti di lungimirante gestione economica e di investimenti produttivi, il massiccio ricorso al denaro pubblico soprattutto da parte della premiata ditta "CAF & Co" per finanziare in costante deficit soprattutto spese correnti, raggiunse livelli stratosferici creando così le premesse di quel debito pubblico italiano che ammonta oggi, come è noto, al 130 % del Prodotto Interno Lordo. Ma, ahimè, prima o poi tutto finisce! Con lo scavallare nel terzo millennio si estingue, da un lato, il mondo bipolare (nostra garanzia internazionale geopolitica, e quindi economica,) e, dall'altro, la nostra Zecca di Stato, eterna fonte di salvezza nei più cupi momenti socio-economici del Paese, si invola senza ritorno per Francoforte. Da quel momento in poi l'amministrazione finanziaria del "Gattopardo Italia" viene interamente


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affidata ad un arcigno ragioniere contabile mitteleuropeo e da quel momenti in poi : "buonanotte ai suonatori !". Come naturale conseguenza, la cinquantennale assuefazione alla droga del disavanzo pubblico, con costante stato di "overdose", induce ora gli inesperti ed ingenui ragazzi che siedono a Palazzo Chigi a fare scoperto "outing deficitario" (in un modo inconcepibile anche per il peggiore CAF), spostando senza pudore la gestione di tale patologia, da un ambito generalmente ristretto e riservato, addirittura ad un pubblico balcone e per giunta di tipo istituzionale. Sintomo questo di manifesta, acritica dipendenza da ultimo stadio. Ed ora? I giovani vessilliferi dell'autonomia finanziaria del supposto, sovrano Condominio, al grido di: "le peuple d'abord pas la finance", scendono apertamente nell'arena contro le quadrate legioni dei variegati sostenitori, esterni ed interni, del diktat: "che i conti siano in ordine!" per uno scontro frontale che, almeno nella forma, appare senza precedenti. Chi la spunterà? Lo vedremo. Comunque, per quanto concerne chi scrive (giunto egli ormai al tardo pomeriggio della sua permanenza esistenziale nella meravigliosa, amata "Penisola" ed ai cui futuri inquilini non può che augurare sinceramente ogni bene possibile), egli non può che auspicare con tutto il cuore che al termine di detto confronto, forse epocale, risulti vincitore chi tra i due contendenti sia realmente nel GIUSTO e quindi sia, di fatto, il MIGLIORE. Roma, li martedì 9 ottobre 2018 Antonino Provenzano

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I SENTIERI DEL CINABRO Ho riflettuto non poco sul taglio da conferire al tema del mese. La mente suggerisce cose che mi rifiuto di accettare; dare ascolto esclusivamente al cuore, per un'analisi così delicata, costituirebbe un'ingenuità perdonabile a un liceale, non certo a un vecchio cavaliere errante. Parlare dei personaggi, poi - sia di quelli cui si guarda con simpatia, sia di coloro che si lesserebbero a fuoco lento - in un contesto come questo, dopo aver camminato al fianco di qualcuno che si chiama Ernst Jünger, per tacer degli altri, davvero non ha senso. Non se ne esce, pertanto, seguendo un percorso razionale, perché siamo ben lontani dalla resa dei conti, non è detto che si realizzi, almeno in tempi brevi e, quandanche così non fosse, non è detto che si realizzi secondo i propositi sani di chi vorrebbe chiudere un ciclo negativo e aprirne uno positivo. E' tutto in fermento. E' tutto in itinere, in un modo così confuso, approssimativo, labile, friabile, da lasciare aperta ogni prospettiva. Per segnare in modo tangibile "questo tempo", pertanto, non resta che uscire dai soliti sentieri, nei quali si combatte l'eterna lotta tra bene e male, e incunearsi in quelli percorsi da coloro che non hanno bisogno di "combattere", incarnando l'essenza stessa del bene e del male, come non mai facce contrapposte e conniventi di un'unica medaglia. I sentieri del cinabro sono percorsi dagli immortali, che vengono da lontano e sono destinati ad andare ancora più lontano, sorretti da un elemento prezioso, una sorta di pietra filosofale dalla quale non si separano mai e che spiana loro la via, quando ciò si renda necessario. Non vi sono misteri per chi percorre quei sentieri, essendo adusi a cavalcare il tempo in ogni dimensione: all'indietro, per vedere ciò che è successo; in avanti, per vedere cosa accadrà. O accadrebbe, perché nel divenire nulla è definito e ciò che si vede in un viaggio può variare, anche di molto, in quello successivo. Resta immutabile, ovviamente, "ciò che è stato e che non può cambiare": elementi più che sufficienti, per chi percorra quei sentieri, a trarre delle conclusioni su qualsivoglia fenomenologia sociale ed esprimere un "verdetto". Perché ridursi a questo, tuttavia? A cosa servirebbe? A spegnere ogni speranza? A sancire certezze passibili di smentite? Tutte cose labili, e quindi inutili. Cosa è preferibile tra una negazione - sempre preconcetta - e una generosa illusione? Ciò che aiuta a vivere meglio: la generosa illusione. Culliamola, allora, questa generosa illusione, e da essa lasciamoci cullare. Tutto può accadere: anche vedere i sogni trasformarsi in realtà. Tutto dipende da noi e dalla nostra capacità di camminare su un filo sospeso a mezz'aria, sorridendo, senza cadere. Il percorso del funambolo è un altro elemento simbolico che si associa alla pietra filosofale capace di cicatrizzare la materia, di trasformarla, di plasmarla secondo la "visione",


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quasi sempre onirica, di "visionari", a loro volta capaci di cambiare il mondo. Il simbolo, quindi, diventa il rifugio ineluttabile, in un momento di grandi tensioni, per dominare gli eventi e, magari, stabilire cosa debba prevalere. Nell'eterna lotta tra bene e male, infatti - e qui ritorniamo su sentieri terreni - il male ha sempre trionfato negli "scontri diretti", come insegna la storia. Ha soccombuto, invece, quando è stato disorientato dal simbolo, quale che fosse la sua natura. Il male, quello "vero", quello perpetrato con piena volontà di coscienza, può solo muoversi in una dimensione razionale e nulla può contro la forza del simbolo, come ben spiega Bachofen: "Il simbolo desta un presagio, mentre la lingua può solo spiegare. Il simbolo fa vibrare le corde dello spirito tutte insieme, mentre la mente è costretta a darsi a un singolo pensiero per volta. Il simbolo spinge le sue radici fino alle più segrete profondità dell'anima, mentre la lingua giunge a sfiorare, come un lieve alito di vento, la superficie dell'intelletto: quello è orientato verso l'interno, questa verso l'esterno. Solo al simbolo riesce di raccogliere nella sintesi di una impressione unitaria gli elementi più diversi. Le parole fanno finito l'infinito, i simboli conducono invece lo spirito di là delle frontiere del mondo finito e diveniente, verso il mondo infinito e reale". Mondo infinito, quindi, ma anche "reale". Se davvero vogliamo che qualcosa cambi; se davvero vogliamo giungere a un redde rationem soddisfacente, come quello che vide protagonisti simbolici gli Hobbit e gli Elfi di Tolkien, i Cavalieri di Re Artù, e protagonisti "reali" coloro che, senza alcun bisogno di nominarli, rappresentano per ciascuno di noi un elemento simbolico di grande valenza, avendo sacrificato la loro vita per il bene comune, scegliamo i nostri simboli e incarniamoci in loro: la forza che si acquisirà sarà straordinaria e l'insieme di queste forze sarà travolgente. Che la forza sia con noi. Lino Lavorgna

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REDDE RATIONEM A volte, nel linguaggio corrente, al fine di esprimere un concetto senza tante circonvoluzioni, scappa l'uso di una locuzione latina. E, tra quelle alle quali si fa sovente ricorso, ce n'è una che si adatta perfettamente all'argomento centrale di questo numero: redde rationem. Rendi ragione o, se vogliamo, rendi i conti. Penso che a chiedere da dove nasca quest'espressione molti siano propensi ad attribuirla a qualche illustre poeta, filosofo o storico romano. In realtà, essa è contenuta nel Vangelo secondo 1 Luca a proposito della parabola dell'amministratore fedele : "[1] Diceva anche ai discepoli: "C'era un uomo ricco che aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. [2] Lo chiamò e gli disse: Che è questo che sento dire di te? Redde rationem villicationis tuae: iam enim non poteris villicare. Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più amministrare. … […]." La morale che il pensiero teologico di solito trae da tale parabola è quella della imponderabilità della durata della vita: all'improvviso si può perderla, sicut pisces, e la qualità della sua 'gestione' peserà nel giudizio dell'Altissimo. Il che ha un indiscutibile fondamento di verità, per chi crede ma anche per chi è agnostico o addirittura ateo: chi ha tempo, non aspetti tempo, asserisce un aforisma radicato nella saggezza popolare. Su tale scia, peraltro, troviamo il grande Orazio: 2 …carpe diem, quam minimum credula postero …" ; un'affermazione che, di solito, viene liberamente tradotta in 'cogli l'attimo, confidando minimamente nel domani'. E, su tale rotta, se ci volessimo discostare un po' dal pensiero ecclesiale e dalla filosofia spicciola, tralasciando finanche il consiglio del maestro dell'ars vivendi, ecco Lorenzo de Medici e il suo carnascialesco Trionfo di Bacco e Arianna dove le ultime tre strofe immancabilmente concludono "…. Chi vuol esser lieto sia, di doman non c'è certezza.". Beh! Certo. Lì siamo in pieno rinascimento, seppur carnevalesco nel caso di specie, dove il singolo individuo è ormai visto come un soggetto unico in tutto il creato, in grado di autodeterminarsi e di coltivare le proprie doti, con le quali vincere addirittura la sorte e dominare la natura. Ne dà piena attestazione, del resto, l'umanista filosofo Pico della Mirandola dove nell'orazione De hominis dignitate presenta l'uomo come libero e sovrano artefice di sé 3 stesso, con la potenza divina relegata sullo sfondo . Quindi, perché no? Chi vuol esser lieto sia, di doman non c'è certezza. Oh! Bella. Ma allora, tutto sommato, aveva ragione il testo di una vecchia canzone goliardica che iniziava "Fate largo, che passano i giovani, / i seguaci di Bacco e di Venere, …" e concludeva:


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Bimbe belle, facciamo l'amore/che è la cosa più bella del mondo:/chi non ama nel tempo giocondo/quand'è vecchio lo prende nel …!" Liberamente modificata, poi in "quand'è vecchio che c…o farà?". Il che, a voler essere precisi è vero solo in parte perché grazie proprio alle doti dell'uomo e alla sua capacità di modificare la natura e la sorte abbiamo il Viagra (et similia). Ma, si sa, questa canzone goliardica è alquanto datata e i suoi artefici non potevano certo immaginare che, un giorno, ricercatori di una nota casa farmaceutica, peraltro in brutte acque, impegnati nell'uso combinante di vari componenti per la messa a punto di una cura per cardiopatici, si ritrovassero, come dire, eccitati da una ulteriore, favolosa, scoperta. Mi accorgo di stare uscendo dal seminato. Così, mi fermo prima di travalicare l'ultimo solco e mi guardo indietro senza per questo divenire di sale. E ciò che vedo mi mostra lo iato che si è creato tra la dottrina ecclesiale e la vita, non come espressione biologica, bensì come realtà vissuta. Nell'una, il redde rationem è la memoria costante dell'imperscrutabilità del futuro e, quindi, la necessità, all'improvviso passaggio della nera signora con la falce, di presentarsi mondi al cospetto di Dio. Il che presuppone una continua rinuncia, neppure minimamente giustificata dalla possibilità di esser liberi nel rinunciare; una libertà puramente nominalistica, del resto, dato l'incombente verdetto. Nell'altra, invece, in piena consapevolezza di responsabilità, non si tratta di abbandonarsi alle più riprovevoli pulsioni, a danno di sé stessi e di altri, e nemmeno di rivendicare il diritto di farlo, quanto il reclamare per sé stessi la liceità di compiere semplici atti di vita, anche felicitanti, senza per questo temere il redde rationem. Il concetto lo esprime magnificamente il già citato Pico della Mirandola nel capitolo 5 - Il Discorso di Dio all'uomo - della sua De hominis dignitate: […]21. Ti ho posto in mezzo al mondo, perché di qui potessi più facilmente guardare attorno a quanto è nel mondo. 22. Non ti abbiamo fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché come libero, straordinario plasmatore e scultore di te stesso, tu ti possa foggiare da te stesso nella forma che avrai preferito. 23. Potrai degenerare nei esseri inferiori, che sono i bruti; potrai rigenerarti, secondo la tua decisione, negli esseri superiori, che sono divini. […]". Persino Paolo, nella sua prima lettera ai Corinzi, a proposito di scelta, sessuale, si pensi, arriva a giustificare, ad esempio, la difficoltà di vivere in continenza: al fine di eliminare l'ansietà se non 4 sanno vivere in continenza, si sposino; è meglio sposarsi che ardere … . Occorreva l'arrivo di Papa Francesco perché la Chiesa si domandasse per quale ragione un gay non potesse appartenere alla comunità dei fedeli, scavalcando così l'assunto ecclesiale che l'omosessualità fosse una malattia e come tale andasse trattata, cioè senza lasciarla degenerare … in riprovevoli atti 'contro natura'. E, analogamente, soprassedesse ai motivi di esclusione di separati, divorziati, accompagnati. Non voglio addentrarmi in un ragionamento dottrinario di pro e di contra in quanto non ne ho la capacità né gioverebbe all'economia dello scritto: invece, con tutto il rispetto, mi viene meglio pensare che la decisione papale, tutto sommato, da un lato risponda ad interessate ragioni numeriche e, dall'altro, alla concomitante e riflettente evoluzione (??) sociale. Insomma, è lecito pensare che il Papa si sia reso conto che la laicizzazione della società (sono buono nel definirla

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tale) va a detrimento delle dimensioni della comunità e, quindi, 'giocando' sui precedenti motivi di esclusione che per alcuni potevano anche essere psicologicamente gravosi, rimuovendoli ne avrebbe comunque guadagnato sia la ecclesia che l'animo umano. Non arrivo comunque a pensare che il pensiero ecclesiale si stia laicizzando o che sia volto unicamente al proprio tornaconto: sto invece semplicemente dicendo che nelle decisioni papali sembra esserci una sorta di riavvicinamento alla natura che tranquillamente ammette, tranne rari casi, la promiscuità e l'omosessualità (non cambia il termine). Ed infatti, ciò che non è stato rimosso in quanto a divieto è la pratica abortiva che, si guardi il caso, non è presente nel mondo animale. Quindi, nella natura, come oggi nella Chiesa, si può essere gay, separati o divorziati senza che per questo vi sia espulsione, in alternativa ad un macerante pentimento e la rimozione delle libere scelte. E ciò, qualora il mio ragionamento fosse nel vero, sarebbe un bene perché, per quanto possa apparire paradossale, ci riavvicinerebbe a Dio anziché farcelo sentire come un giudice avulso dalle umane vicende, per quanto misericordioso e compassionevole. Cosicché rimarrebbero imperscrutabili solo le vie per la bontà, la misericordia e la compassione al fine di spiegare l'incongruenza della parabola di cui sopra, in quanto la narrazione evangelica di Luca ha un seguito che lascia perplessi: L'amministratore disse tra sé: Che farò ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno. [4] So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua. [5] Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo: [6] Tu quanto devi al mio padrone? Quello rispose: Cento barili d'olio. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta. [7] Poi disse a un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento misure di grano. Gli disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta. Fin qui, sembra che l'amministratore disonesto abbia trovato un escamotage per farsi degli amici ad ulteriore danno del padrone. Neanche a dubitare che gli 'amici' abbiano corretto le loro 'cambiali' e che, in conseguenza, abbiano dato ospitalità all'amministratore infedele. Ma, dopo tanto malaffare, il padrone cosa fa? [8] Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. A questo punto, mi sarei perso se non fosse per l'imperscrutabilità divina, appunto. Infatti, come potrebbe il padrone lodare un collaboratore infido dopo che questi avesse scialacquato le sue sostanze e, a proprio vantaggio, avesse ridotto artatamente le sue future entrate? Peraltro, nella mia umana pochezza non comprendo nemmeno la conclusione della parabola stessa: I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Il che può essere ovvio ma dov'è l'insegnamento, la morale, visto che il giudizio emesso dal 'padrone' è quanto di più terreno possa esistere? Sarebbe come dire che un corpo elettorale sia 'padrone' dei suoi amministratori e che questi, dopo essere stati colti in flagrante e licenziati, si rivolgano ai debitori dello stesso 'padrone' perché mettano in atto un comportamento fraudolento al fine di raggirarlo ulteriormente. Non v'è dubbio che i debitori beneficeranno dei disonesti consigli degli ex amministratori e che, pur disprezzandoli per la loro pochezza, daranno


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ad essi protezione e mezzi di sussistenza. Ma non penso che il 'padrone', 'cornuto e mazziato' avrebbe detto mia nonna, possa arrivare a lodarli per la loro scaltrezza. A meno che il 'padrone' sia all'oscuro da quei magheggi, e quei tali ex amministratori non siano notoriamente 'portatori del verbo' e 'unti dal Signore' per cui l'inconsapevole creditore, ricevendo all'incasso poco o punto, non gioisca del poco, dichiarato per 'vero', ignaro del molto, quasi ravvedendosi del giudizio espresso in precedenza. Ma sarebbe un paradosso, un po' come quello della teiera di Bertrand Russel: infatti, è imperante la paradossale convinzione che non spetti agli assertori di 'verità' dimostrarne la fondatezza bensì che tale obbligo competa agli scettici. Una 'verità', sbattuta nella mente del povero creditore, che non ammette contraddittori, obiezioni, riflessioni; che quasi fa dubitare della valenza dei nuovi amministratori chiamati a sostituire gli 'scaltri'; una 'verità', peraltro, che veicolata tutti i giorni nei e dai banchi delle scuole dove alcuni occupanti, ottusi ascari, si spingessero a dare voce a 'proteste giovanili'; che inserita nei testi di accreditati 'guru' o nelle parole dei 'saggi' dei talkshow di prima serata, farebbe sì che il non credente o lo scettico, in un'epoca illuminata, sarebbe mandato dallo psichiatra o posto al bando di una comunità e, in un'epoca più oscura, al rogo. Eppure, ricorrendo a Richard Dawkins che sostiene Russel ne 'Il Cappellano del diavolo' e cambiando i suoi tempi presenti in condizionali: "… […] Niente dovrebbe obbligare i bambini a trascorrere i propri anni formativi memorizzando folli libri che parlano di teiere. Le scuole sovvenzionate dal governo non dovrebbero escludere bambini i cui genitori preferiscono teiere di forma sbagliata. I credenti nella teiera non dovrebbero lapidare i non credenti nella teiera, gli apostati della teiera, i blasfemi della teiera. Le madri non dovrebbero mettere in guardia i loro figli dallo sposarsi coi pagani, i cui genitori credono in tre teiere invece che in una. Le persone che 5 versano prima il latte non dovrebbero gambizzare quelle che mettono prima il tè. […]" . Tali considerazioni, peraltro Dawkins le fa riprendendo John Locke, il quale, con riferimento alle pratiche autoritarie del cattolicesimo a lui contemporaneo, asserì che "I papisti non devono godere del beneficio della tolleranza, perché, dove hanno il potere, si ritengono obbligati a negare la tolleranza agli altri"6. Sarebbe come dire, se non suonasse da smentita alla parabola dell'evangelista, che una volta 'scoperti', non si dovrebbe avere considerazione alcuna verso ex amministratori, al di là delle loro altisonanti qualifiche e delle loro categoriche affermazioni; nemmeno quella di 'apprezzare' (sic) la loro scaltrezza. Non si dovrebbe farlo specie se si fosse in presenza di gestori catastrofici, incapaci, inconcludenti e pressappochisti quando non di maldestri profittatori; non si dovrebbe farlo soprattutto se a tali desolanti loro condizioni si fosse accompagnata la bollatura di altri candidati amministratori nei peggiori e più offensivi dei modi. Ma, come dicevamo sopra, l'imperscrutabilità divina dovrebbe, alla fine, palesarsi e mostrare la ragione di un controverso insegnamento metaforico. In attesa che questo accada, però, io potrei provare compassione per ex amministratori riprovevoli solo se essi fossero all'angolo di qualche chiesa con il cappello in mano. E la mia bontà misericordiosa giungerebbe al punto di gettarvi

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dentro un soldino. Diversamente, non potrei avere il benché minimo dubbio circa un giudizio espresso e una decisione assunta. Rimarrebbe l'incognita del futuro: certo, ma come illustri pensatori del passato ci hanno consigliato, quasi in uno con l'apparente evoluzione del pensiero papale, occorrerebbe comunque cogliere l'attimo che è quanto di più naturale possa esistere; nel senso di scegliere, di provare, di sperimentare. E, del resto, sono queste le condizioni che consentono ad un essere umano di definirsi tale, a differenza del mero branco animale: la capacità (oltre che il diritto) di scegliere. Come abbiamo fatto nel passato: abbiamo scelto e le nostre scelte possono anche essersi rivelate infelici ma, traendo da ciò insegnamento, dobbiamo continuare a farlo sapendo che, altrimenti, rinunceremmo insensatamente alla nostra sovranità intellettuale. Non voglio tediare alcuno ma mi sovvengono le parole del Grande Fiorentino che nel Canto XXVI dell'Inferno della sua Commedia tratta di consiglieri fraudolenti e di condottieri e politici che agirono con l'acutezza spregiudicata dell'ingegno. E, a proposito di Ulisse, narra di quando egli giunse alla 'foce stretta', alle Colonne d'Ercole, allo stretto di Gibilterra e, per convincere del superamento i suoi alquanto titubanti compagni, pronunciò la famosa 'orazion picciola': "O frati," dissi, "che per cento milia perigli siete giunti a l'occidente, a questa tanto picciola vigilia d'i nostri sensi ch'è del rimanente non vogliate negar l'esperïenza, di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza".7" Massimo Sergenti

Note: 1 Lc 16 2 Odi 1,11,8 3 Op. cit. 5,18-23 4 I Cor 7,8-9 5Op. cit. – Ed. Cortina Raffaello 2004 - p. 103 6 John Locke, Saggio sulla tolleranza, in: Lettera sulla tolleranza, a cura di Carlo Augusto Viano, Laterza, Roma-Bari 2006 - p. 82. 7 Vv 112-120


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UNA SALMA PER SALMAN L'Arabia Saudita ha 32 milioni di abitanti, una superficie di 2,24 milioni di chilometri quadrati (due volte Francia e Germania messe assieme) ed è uno dei maggiori produttori di petrolio al mondo. Si stima che le sue riserve valgano un quarto di quelle planetarie. E' una nazione islamica, di fede sunnita, tra le più importanti del mondo arabo. La sua forza petrolifera la ha resa, giocoforza, un importante interlocutore dell'Occidente, in particolare degli Stati Uniti, con cui intrattiene forti relazioni (a volte imbarazzanti) politiche e militari. Pratica la pena di morte, spesso sotto forma di pubbliche decapitazioni o crocifissioni, la fustigazione è legale, le donne sono discriminate, i diritti umani non sono, di fatto, riconosciuti. Il monopolio del potere politico è nelle mani della dinastia Al Saud fin dalla fondazione dello stato, nel 1932, ad opera del re Abd-al-Aziz che riunì le zone sotto il suo controllo nel Regno dell'Arabia Saudita. Nel 1938 si scoprirono i primi giacimenti di petrolio ad opera della Aramco, una controllata americana e cambiarono le sorti igiene del Paese, dei suoi maggiorenti e persino del popolo. Altri fatti audacia temeraria spirituale salienti: nel 1960 il re fonda l'Opec insieme ad altri Paesi produttori; nel 1973 l'Arabia Saudita boicotta l'occidente per il sostegno ad Israele ed il prezzo del petrolio quadruplica; 15 dei 19 dirottatori che nel 2001 colpirono New York e Washington erano sauditi; nel 2011 truppe saudite partecipano alla repressione in Bahrain e nel 2015 l'aviazione saudita bombarda le postazioni dei ribelli yemeniti. L'attuale re Salman bin Abdulaziz al-Saud salì al trono nel gennaio del 2015, all'età di 79 anni, dopo la morte per polmonite del fratellastro, il novantenne re Abdullah. Ha operato in continuità con i suoi predecessori mantenendo salde relazioni con gli Usa ed occupandosi della stabilità del mercato petrolifero. Con un colpo di mano ha reso suo figlio, Mohammed bin Salman primo nella successione al trono e con il suo aiuto ha consolidato il potere della sua fazione riformando integralmente, accentrandolo, il sistema di governo. Ha portato la guerra nello Yemen ed foraggiato tutte le fazioni, compresa al Quaeda, interessate a destabilizzare la Siria. La sua fortuna personale è stimata in 17 miliardi di dollari, il suo nome era nei cosiddetti "Panama papers" quale detentore di un fondo alle Isole Vergini. La sua famiglia detiene forti partecipazioni nei media e nel settore del marketing. La sua salute è ormai instabile e pare soffra di demenza senile o del morbo di Alzheimer. Ciò facilita ed amplia gli spazi di manovra del principe ereditario (dal 2017) Mohammad che è

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considerato il governante di fatto che controlla le principali leve del governo. Tra i suoi primi atti quelli di annullare eventuali opposizioni interne alla dinastia e quello di accreditarsi come "riformatore" liberale nel regno più conservatore del pianeta. Sua la decisione (2018) di consentire alle donne di guidare (sic!). I media e Internet sono rigidamente controllati. Oggi il principe Mohammed bin Salman è la figura più influente del principale esportatore di petrolio al mondo. E' nato il 31 agosto 1985, il figlio maggiore della terza moglie del principe Salman bin Abdul Aziz Al Saud, Fahdah bint Falah bin Sultan. Dopo aver conseguito una laurea in giurisprudenza presso l'Università King Saud nella capitale Riyadh, ha lavorato per diversi enti statali. Nel 2009 è stato nominato consigliere speciale di suo padre, che all'epoca lavorava come governatore di Riyadh. L'ascesa al potere di Mohammed bin Salman è iniziata nel 2013, quando è stato nominato capo della Crown Prince's Court, con il grado di ministro. L'anno precedente, suo padre era stato nominato principe ereditario dopo la morte di Nayef bin Abdul Aziz - il padre di Mohammed bin Nayef. Nel gennaio 2015, il re Abdullah bin Abdul Aziz è morto e il principe Salman bin Abdul Aziz Al Saud ha aderito al trono all'età di 79 anni. Prese immediatamente due decisioni che sorpresero gli osservatori, nominando suo figlio ministro della difesa e Mohammed bin Nayef vice-principe ereditario. Quest'ultimo divenne il primo dei nipoti di Ibn Saud, il fondatore del regno, a passare alla linea di successione. Uno dei primi atti di Mohammed bin Salman come ministro della difesa fu di lanciare una campagna militare nello Yemen nel marzo 2015 insieme ad altri stati arabi dopo che il presidente Abdrabbuh Mansour Hadi fu costretto all'esilio dal movimento ribelle Houthi. La campagna ha compiuto progressi limitati negli ultimi due anni e mezzo, visto che l'Arabia Saudita e i suoi alleati sono accusati di violazioni dei diritti umani e ha innescato una crisi umanitaria nel paese più povero del mondo arabo. Nell'aprile 2015, il re Salman ha apportato cambiamenti più sorprendenti alla linea di successione, nominando Mohammed bin Nayef come principe ereditario e suo figlio viceprincipe ereditario, secondo vice primo ministro e presidente del Consiglio per gli affari economici e di sviluppo. Un anno dopo, il principe Mohammed bin Salman ha svelato un piano ambizioso e di ampia portata per portare cambiamenti economici e sociali nel regno e porre fine alla sua "dipendenza" dal petrolio. Il piano, denominato "Vision 2030", prevede di quadruplicare le entrate non petrolifere portandole a 600 miliardi di riyal entro il 2030, attraverso la creazione del fondo sovrano più grande del mondo grazie alla dotazione di 3 miliardi di dollari provenienti dalla parziale privatizzazione della Aramco, la compagnia petrolifera statale. Il piano prevede anche di modificare il sistema di istruzione, di aumentare la partecipazione delle donne alla forza lavoro e di investire nel settore dell'intrattenimento per contribuire a creare posti di lavoro per i giovani.


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Conseguenzialmente, nell'aprile 2017, il regno ha annunciato la creazione di una città dell'intrattenimento da 334 kmq, Neom, situata non lontano da Riyadh, in grado di offrire una attività culturali, sportive ed un parco safari. Il principe è stato anche visto come l'artefice del boicottaggio del Qatar, che l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e l'Egitto hanno iniziato all'inizio di giugno 2017 per il presunto sostegno al terrorismo e l'ingerenza negli affari dei suoi vicini. Alla fine di giugno 2017, il re Salman ha sostituito il principe Mohammed bin Nayef come principe ereditario a favore di suo figlio e questo fa comprendere quanto assoluta sia la monarchia di quel Paese. Il principe Mohammed bin Nayef è stato anche rimosso (e, forse, posto agli arresti domiciliari) da capo del ministero degli interni con la conseguenza del controllo della corte anche sulle forze di sicurezza. Da allora, il principe Mohammed bin Salman ha cercato di consolidare il suo potere e ha proseguito con i suoi piani per la "liberalizzazione" economica e sociale. Un primo passo "liberale" è stato quello di annullare le indennità e i benefici finanziari che il re, al suo insediamento, aveva disposto a favore dei dipendenti pubblici e del personale militare. Da settembre, è stato avviato un giro di vite contro i presunti avversari delle politiche del principe ereditario culminato con l'arresto di una ventina di influenti esponenti religiosi ed intellettuali. L'azione "liberalizzatrice" ha visto il suo culmine nel permesso di guida concesso alle donne. Successivamente, il principe Mohammed ha rimosso gli ultimi ostacoli al controllo totale del regno avviando una campagna anti-corruzione che ha portato agli arresti di undici principi, quattro ministri e numerosi uomini d'affari e funzionari. Ha, inoltre, assunto il controllo anche della guardia nazionale rimuovendone i vertici. Nel gennaio 2018, l'opera di "liberalizzazione" ha visto il suo culmine con il permesso dato alle donne di poter assistere alle partite di calcio e persino di arruolarsi nell'esercito. In questa complessa cornice si situa l'assassinio del giornalista Jamal Ahmad Khashoggi, scomparso il 2 ottobre dopo essere entrato nel consolato saudita a Istanbul per ottenere i documenti necessari alle sue nozze. Per alcuni decenni il giornalista saudita Khashoggi era stato vicino alla famiglia reale saudita, ricoprendo ruoli significativi nei media: direttore e redattore capo di Al-Arab News Channel, redattore del quotidiano Al Watan, ma nel 2017, dopo l'avvio della repressione del dissenso nel paese, si era auto-esiliato negli Stati Uniti diventando opinionista del Washington Post. Nei suoi scritti ha denunciato la repressione in atto nel suo Paese e nel mondo arabo in generale. Il suo ultimo articolo pubblicato era un appello alla libertà di stampa in tutto il mondo arabo. Poi quel fatidico 2 ottobre e l'entrata nel consolato da cui non è più uscito. "Qualcuno" in Arabia Saudita, sapendo dell'appuntamento fissato per il rilascio dei documenti, ha inviato a Istanbul due jet privati con a bordo un commando composto da 15 membri con il compito di intercettare Khasoggi all'interno del consolato, ammazzarlo facendo sparire il corpo e rientrare alla base.

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I funzionari turchi hanno creduto, sin dal primo momento, che gli uomini fossero militari sauditi e ufficiali dei servizi segreti. Le autorità saudite, sulle prime, hanno negato ogni coinvolgimento nella scomparsa di Khashoggi insistendo che avesse lasciato il consolato subito dopo aver ricevuto i documenti. Guarda caso quel giorno le telecamere di sorveglianza all'interno del consolato erano spente e tutti i dipendenti di nazionalità turca erano in ferie. Tuttavia i turchi erano in possesso delle registrazioni audio di quanto accaduto.

Il commando era composto da: Salah Muhammed A Tubaigy, 47 anni, patologo forense, professore di medicina legale e capo del Consiglio scientifico saudita di medicina legale. Già tenente colonnello e membro del dipartimento di medicina legale della direzione generale della Pubblica sicurezza del ministero dell'Interno. I funzionari turchi hanno riferito che il dottor Tubaigy stava trasportando una sega per ossa quando è volato all'aeroporto di Istanbul Ataturk da Riyadh alle 3:13 del 2 ottobre su un jet privato con il numero di coda HZSK2 . Il jet è di proprietà di Sky Prime Aviation Services, una società che secondo quanto riferito è stata sequestrata dal governo saudita in un programma anti-corruzione lo scorso anno. Il dottor Tubaigy ha soggiornato presso il Mövenpick Hotel Istanbul, a 0,5 km (0,3 miglia) a ovest del consolato saudita, e ha lasciato l'aeroporto di Istanbul su HZSK2 alle 22:54 del 2 ottobre. Il jet è tornato a Riyadh via Dubai, atterrando il 3 ottobre. Funzionari turchi innominati hanno affermato che il dottor Tubaigy può essere ascoltato in registrazioni audio dal consolato nel giorno della scomparsa di Khashoggi e che credono che il giornalista sia stato torturato, ucciso e smembrato dalla squadra saudita che è volata nel paese.


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Maher Abdulaziz M Mutabasso, 47 anni, probabile colonnello dell'intelligence saudita, ha viaggiato con il principe ereditario bin Salman in almento tre occasioni documentate. Il giornale filogovernativo turco Sabah ha anche pubblicato le immagini dei filmati della CCTV che sembrano mostrarlo entrare nel consolato saudita a Istanbul alle 09:55 del 2 ottobre, tre ore prima dell'arrivo del giornalista e alla residenza del vicino console generale alle 16:53. I media turchi hanno detto che il sig. Mutreb è arrivato a Istanbul sul jet privato HZSK2 insieme al dott. Tubaigy e che ha soggiornato anche all'hotel Mövenpick. Ha volato fuori da Istanbul su un altro jet privato di proprietà di Sky Prime Aviation con il numero di coda HZSK1, alle 18:40 del 2 ottobre, secondo i media turchi. Abdulaziz Mohammed M Alhawsawi, 31 anni, probabile membro del Reggimento della Guardia Reale Saudita e probabile membro della squadra di sicurezza personale del principe bin Salman. Il signor Alhawsawi è volato a Istanbul su un volo commerciale (controllo passaporti alle 01:43 del 2 ottobre). Ha soggiornato presso l'hotel Wyndham Grand Istanbul Levant, a circa 1 km a sud del consolato saudita, e ha lasciato Istanbul su HZSK2 con il dott. Tubaigy. Thaar Ghaleb T Alharbi, 39 anni, probabile tenente della Guardia Reale. Il signor Alharbi è arrivato a Istanbul sul jet privato HZSK2 e ha soggiornato al Mövenpick. Ha anche volato sul jet privato HZSK1. Mohammed Saad H Alzahrani, 30 anni, probabile membro della Guardia Reale, probabile arrivo a Istanbul in volo commerciale. Sarebbe rimasto al Wyndham Grand ed avrebbe volato sul jet privato HZSK2. Khalid Aedh G Alotaibi, 30 anni, probabile membro della Guardia Reale. Ha volato a Istanbul su un volo commerciale ed è rimasto al Wyndham Grand. Ha passato il controllo dei passaporti all'aeroporto di Istanbul alle 20:28 prima di partire. Naif Hassan S Alarifi, 32 anni, probabile membro delle forze speciali saudite. Arrivato a Istanbul con un volo commerciale, ha superato il controllo passaporti alle 16,12. Sarebbe rimasto al Wyndham Grand e ripartito con il jet privato HZSK2. Mustafa Mohammed M Almadani, 57 anni, probabile componente dell'intelligence saudita, è arrivato su HZSK2 e ha soggiornato al Mövenpick. Il 3 ottobre ha passato il controllo dei passaporti all'aeroporto di Istanbul alle 00:18 prima di partire per un volo commerciale. Meshal Saad M Albostani, 31 anni, probabile tenente dell'aeronautica saudita e membro della Guardia Reale. Il 2 ottobre ha passato il controllo dei passaporti all'aeroporto di Istanbul alle 01:45 e si è fermato al Wyndham Grand. È partito con il jet privato HZSK2. Il 18 ottobre, il giornale filogovernativo turco Yeni Safak ha riferito della sua morte in un "incidente d'auto sospetto" a Riyadh , ma non ha fornito dettagli. Waleed Abdullah M Alsehri, 38 anni, probabile capo squadriglia dell'aeronautica saudita. Ha volato su HZSK2 e ha soggiornato al Mövenpick. È partito su HZSK1. Mansour Othman M Abahussain, 46 anni, probabile funzionario dell'intelligence saudita o colonnello della Protezione Civile. E' arrivato all'aeroporto di Istanbul con un volo commerciale e si è fermato al Wyndham Grand. Ha lasciato a bordo HZSK2.

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Fahad Shabib A Albalawi, 33 anni, probabile componente della Guardia reale. Arrivato su uno dei jet privati e rimasto al Mövenpick. Rientrato su HZSK1. Badr Lafi M Alotaibi, 45 anni, probabile maggiore dell'intelligence. E' volato a Istanbul in HZSK2 e ha soggiornato al Mövenpick. E' rientrato su HZSK1. Saif Saad Q Alqahtani, 45 anni, probabilmente al servizio del principe. E' arrivato a Istanbul sul jet privato HZSK2 e ha soggiornato al Mövenpick. Il 3 ottobre ha passato il controllo dei passaporti all'aeroporto di Istanbul alle 00:20 prima di partire con un volo commerciale. Turki Muserref M Alsehri, 36 anni, arrivato su HZSK2, rimasto al Mövenpick. Ripartito su HZSK1. Dopo che la Turchia ha rivelato la verità dell'assassinio, gli Usa hanno inviato il Segretario di Stato, Pompeo, in Arabia Saudita. Dopo il colloquio, l'Arabia Saudita ha ammesso parzialmente la sua responsabilità facendo riferimento ad un'iniziativa non autorizzata di "Servizi deviati". Singolarmente lo stesso giorno il Regno saudita invia 100 milioni di dollari agli Usa quale contributo a suo tempo promesso per la lotta al terrorismo. Tuttavia i numerosi atti di repressione accaduti in quel Paese dal 2017 non assolvono la casa regnante. Piérre Kadosh


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IL PIAVE MORMORAVA PARTE NONA: L'INIZIO DELLA FINE INCIPIT "Fuggivano gli imboscati, i comandi, le clientele, fuggivano gli adoratori dell'eroismo altrui, i fabbricanti di belle parole, i decorati della zona temperata, i generali, i cantinieri, i giornalisti, fuggivano i napoleoni degli Stati Maggiori, gli organizzatori delle difese arretrate, i monopolizzatori del patriottismo degli angoli morti e delle retrovie, decisi a tutto fuorché al sacrificio, fuggivano gli ammiratori del fante, i dispensatori di oleografie di cartoline illustrate, gli snob della guerra, gli imbottitori di crani, gli avvocati e i letterati dei comandi, i preti del Quartier Generale e gli ufficiali d'ordinanza, figli di pochi ma onesti genitori, fuggivano i roditori della guerra, i fornitori di carne andata a male e di paglia putrefatta, i buoni borghesi quarantotteschi che non volevano dare asilo al fante perché portava in casa pidocchi e cenci da lavare e parlavano del Re come del primo soldato d'Italia, fuggivano tutti in una miserabile confusione, in un intrico di paura, di carri, di meschinerie, di fagotti, di egoismi e di suppellettili, tutti fuggivano imprecando ai vigliacchi e ai traditori che non volevano più combattere e farsi ammazzare per loro. Fuggivano le dame della Croce Rossa, le sorelle buone, le madri pietose, le eroine in soggolo che non sapevano fasciare una ferita, che avevano bisogno di un pappino per attendente, le dame inanellate marce di umanitarismo e di decadentismo patriottico che non volevano vuotare i putali e le sputacchiere, aiutare i feriti gravi a defecare, compiere i più umili e perciò i più sacri servizi, (c'erano le suore, per questo!), fuggivano sui camion e sulle automobili dei comandi e degli ospedali, imprecando ai vigliacchi che non sentivano amor di patria e non volevano più farsi ammazzare per il loro umanitarismo sportivo. Fuggivano con i cagnetti, con le borsette, con le valigette, piagnucolando sull'immane sciagura, sul disastro che apriva le porte all'invasione del barbaro nemico di nostra gente civilissima (che esse conoscevano soltanto dai manuali castrati di storia patria), piagnucolavano istericamente sull'altrui vigliaccheria che rovinava l'Italia e che, soprattutto, le costringeva a lasciare il loro comodo ed erotico (non eroico) angolo morto e a soffrire le pene e lo strapazzo di un viaggio in camion. (Curzio Malaparte, "Viva Caporetto, 1921) Il 24 ottobre 1917 è il giorno della grande umiliazione di un intero popolo, almeno così è scritto sui libri di storia: 400.000 soldati italiani fuggono davanti al nemico austro-tedesco.

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Un disastro come non si era mai visto. Resta da chiedersi, tuttavia, se vi sarebbe mai stato Vittorio-Veneto senza quell'immane disastro. UN ESERCITO ALLA DERIVA E UN PAESE STREMATO. Da trenta mesi l'Italia è in guerra, su un fronte lungo più di seicento chilometri, definito da Erich von Falkenhayn strategicamente "ideale per la difesa contro forze preponderanti". L'esercito dei suonatori di mandolino - secondo l'espressione sprezzante dell'imperatore Francesco Giuseppe, dissanguatosi in inutili offensive, ancorché protagonista di atti di puro eroismo, è sfiduciato e demoralizzato, condizione drammatica per chiunque debba impugnare un fucile. Il toccante appello del Papa1 era rimasto lettera morta: Austria e Germania si rifiutavano di dare esplicite garanzie sul futuro del Belgio; Francia e Germania ritenevano (forse a ragione) che l'appello fosse mosso da sentimenti filoasburgici e non risposero nemmeno. In Italia, oramai, si è sempre più convinti che solo una vittoria militare potrà portare alla liberazione dei territori occupati e il Governo guarda con fastidio e diffidenza le iniziative vaticane. Benedetto XV, tuttavia, aveva messo il dito nella piaga: il paese era stremato e bastava poco affinché una scintilla si trasformasse in incendio. A Torino, il 22 agosto, i cittadini trovarono le panetterie chiuse per l'esaurimento delle scorte di farina e la rivolta insorse in modo tumultuoso e spontaneo. Al grido "vogliamo il pane" si associarono gli appelli a favore della pace. Nei giorni successivi gli scioperi e i saccheggi si moltiplicarono a vista d'occhio e il governo non trovò di meglio che chiedere l'intervento dell'esercito. Il 26 agosto era tutto finito, al prezzo di quarantuno morti e centocinquanta feriti. Al fronte, intanto, si celebrava il solito inutile rituale degli attacchi senza costrutto. Il 17 agosto ebbe inizio l'undicesima battaglia dell'Isonzo, con un massiccio attacco sull'altopiano della Bainsizza, teso ad aggirare le forze nemiche e puntare su Trieste. L'offensiva si concluse il 31 agosto con un bagno di sangue sostanzialmente inconclusivo: 30mila morti, 110mila feriti e 20mila dispersi. Nel corso della battaglia emersero aspri i contrasti tra Cadorna e il capo della II Armata, il generale Capello, che aveva modificato gli ordini di attacco, ritenuti inefficaci. Anche le forze austro-ungariche, tuttavia, subirono pesanti perdite e il comandante delle forze imperiali sull'Isonzo, generale Svetozar Borojeviæ von Bojna, non ebbe remore nell'affermare che le sue truppe non avrebbero resistito a un nuovo attacco. L'imperatore Carlo I, succeduto a Francesco Giuseppe nel novembre 2 1916 , chiese aiuto alla Germania, a sua volta preoccupata per l'eventuale crollo dell'Austria, che si sarebbe rivelato esiziale per le sorti della guerra: ben sette divisioni, pertanto, tra le migliori disponibili, furono affiancate alle otto divisioni austriache. Il piano prevedeva di attaccare gli italiani sull'alto Isonzo, in un'area non particolarmente protetta. Venne scelta la zona di Caporetto, punto di giunzione tra i grandi comandi italiani e, come tutti i punti di giunzione, più vulnerabile. L'obiettivo, sostanzialmente, era molto limitato: s'intendeva alleggerire la pressione sul fronte, obbligando gli italiani ad arretrare di qualche chilometro.


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Non si riusciva nemmeno a concepire che, nel giro di pochi giorni, sarebbero penetrati in profondità nel territorio italiano, conquistando l'intero Friuli e buona parte del Veneto, giungendo addirittura alle porte di Venezia. Cadorna è al corrente, già dalla fine di settembre, che una divisione alpina germanica si è collocata nel Tirolo. Grazie a due ufficiali austriaci disertori è stato anche informato dell'imminenza di un attacco a Caporetto e Cividale del Friuli; sempre più frequentemente, poi, volteggiano nel cielo gli aerei da caccia tedeschi. Con il passare dei giorni le avvisaglie di un imminente attacco si fanno più insistenti. Anche l'ufficio informazioni prevede un attacco tra Plezzo e Tolmino (Caporetto è più o meno a metà strada tra i due avamposti, che distano solo trentasette chilometri l'uno dall'altro). Cadorna, però, non era ancora convinto: considerava possibile l'attacco, visto che gli austriaci non erano più impegnati sul fronte russo, ma allo stesso tempo riteneva che le condizioni climatiche avrebbero indotto i nemici a desistere. Pensava, inoltre, che (l'eventuale) attacco si sarebbe sviluppato su due linee del fronte: sull'asse PlezzoTolmino, come diversivo, e dal Trentino con una massiccia offensiva. Da qui la decisione di potenziare le difese sul fronte che riteneva minacciato, senza preoccuparsi della pianura friulana, secondo lui sostanzialmente irraggiungibile. Il 23 ottobre, per il comando italiano, è un giorno come un altro: Cadorna si reca sull'alto Isonzo per ispezionare le linee del IV Corpo d'Armata, non restando particolarmente contento della loro consistenza, pur considerando i soldati comunque in grado di respingere i nemici. Il generale Capello, comandante della II Armata, schierata sull'altopiano della Bainsizza, in ospedale per una nefrite, fu sostituito dal mediocre generale Montuori, con il quale era in perenne disaccordo. Le condizioni climatiche erano pessime: neve in montagna, acquazzoni violenti sugli altipiani, nebbia fitta nelle vallate. Per l'attacco vi è tempo, concludono gli ufficiali dello stato maggiore, a cominciare da Cadorna. I soldati, dal loro canto, pensano esclusivamente a difendersi dal nemico ritenuto più minaccioso: il freddo pungente. L'ATTACCO E LA ROTTA Alle due del mattino, dal Monte Rombon, un infernale volume di fuoco prese di mira l'avamposto di Plezzo e l'area circostante, cogliendo di sorpresa le truppe italiane, colpite sia dalle granate sia dai gas asfissianti. L'artiglieria fu ben presto ridotta al silenzio. Intorno alle sei e trenta l'intero fronte da Plezzo a Tolmino è sotto il massiccio fuoco nemico. I soldati italiani, travolti dai nemici che vedono sbucare all'improvviso dai campi, non ebbero nemmeno il tempo di comprendere cosa stesse accadendo. L'irruzione austro-tedesca generò uno scompiglio pazzesco, aggravato dall'impossibilità di comunicare, essendo fuori uso tutte le linee di collegamento. Gli stessi austriaci restarono sorpresi dalla debole resistenza e conclusero che il grosso delle truppe li attendeva su posizioni arretrate. Alle otto in punto la XIV Armata tedesca si mosse come un rullo compressore, aprendo in pochissimo tempo una breccia di ben venticinque chilometri. Il XXVII corpo d'Armata, comandato da Pietro Badoglio, non sparò un solo colpo: gli ufficiali avevano avuto ordine,

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ovviamente quando non si pensava a un'azione difensiva, di non aprire il fuoco senza espresso ordine del loro comandante, essendo sottinteso che ciò valeva in previsione di un attacco. Non potendo ricevere ordini a causa delle linee telefoniche interrotte, obbedirono ciecamente, finendo uccisi o catturati, lasciando i cannoni intatti nelle mani del nemico. Tra i reparti scelti tedeschi si distinse un giovane tenente che, al comando del suo plotone, nella zona di Tolmino, penetrava alle spalle dei nostri soldati, abituati solo alla difesa frontale, e li eliminava: si chiamava Erwin Rommel. Di ora in ora la situazione diventava più drammatica. Centomila soldati italiani si trovavano in posizione avanzata, sull'altopiano della Bainsizza, a SudEst di Plezzo e Tolmino e quindi tagliati fuori dal resto delle truppe italiane, in rotta sulla riva destra dell'Isonzo. Cadorna, nel suo quartier generale di Udine, non immagina minimamente cosa stesse accadendo a quaranta chilometri da lui. Il colonnello Angelo Gatti, suo biografo e stretto collaboratore, annotò nel diario, nella mattina del 24 ottobre, mentre a frotte morivano i soldati italiani: "Nella giornata, niente di nuovo", per poi aggiungere verso le ore 20: "Vado al 3 cinematografo" . L'ufficio informazioni, finalmente, alle 19 comunica la presenza di nove divisioni tedesche, ma Badoglio reputa la notizia non veritiera. Bisognerà attendere le 22 prima che lo stato maggiore si convinca della drammatica realtà. Il IV corpo d'armata, di fatto, si è dissolto nel giro di un minuto. E' eufemistico parlare d'incertezza e confusione nella sede del comando supremo. Scrive ancora Gatti, nel suo diario: "Sento parlare di Sedan italiana; Cadorna ha detto che ritirerebbe tutto sul Tagliamento: la cosa è mostruosa e inconcepibile". Il giorno 25 s'incomincia ad avere un quadro, se non esaustivo, più realistico. Capello suggerisce a Cadorna di ripiegare Sul Piave, al fine di riorganizzare al meglio le difese. Cadorna, più testardo di un mulo, pensa ancora di resistere sul Tagliamento e dirama un ordine che, però, arriva solo nella serata del giorno dopo. La resistenza sul Tagliamento, mal strutturata per truppe addestrate precipuamente alla guerra d'attacco, si dimostra subito fallace e pertanto il generalissimo ordina un nuovo arretramento tra il Monte Grappa, il Piave e, più a Sud, verso la laguna veneta. Di fatto, il 29 ottobre, si convince di ciò che Capello aveva capito già all'alba del 25. La manovra, tra l'altro, non è tra le più semplici: 1.500mila soldati devono ritirarsi in un territorio per buona parte occupato dal nemico. La rotta di Caporetto non resta senza conseguenze sul fronte politico. Il 26 ottobre, il debole e inadeguato presidente Boselli, a seguito del voto di sfiducia espresso dalla Camera, annunciò le dimissioni ai due rami del Parlamento. Pagò, in tal modo, anche il forte e ingiustificato sostegno assicurato a Cadorna che, nel frattempo, aveva spostato il comando da Udine alla più arretrata Treviso (molto arretrata: circa 130 chilometri) e redatto un bollettino con il quale scaricava tutta la responsabilità della disfatta sulla II Armata e quindi su Capello4. Il bollettino, pubblicato nelle prime edizioni dei giornali, il 29 ottobre, suscitò vivo sconcerto nei palazzi della politica. Il ministro dell'interno ne bloccò la diffusione, diramando una seconda 5 versione con alcune sostanziali correzioni protese a mitigare le accuse . L'operazione, però, riuscì a metà in quanto il bollettino originale fu riportato integralmente dai giornali esteri.


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Cadorna, di fatto, con quel bollettino si era tirato definitivamente la zappa sui piedi, offrendo al Re l'opportunità di conferire il mandato a varare un nuovo governo al suo nemico giurato: Vittorio Emanuele Orlando. Gli austriaci utilizzarono il bollettino per far conoscere ai soldati italiani la condotta infame del loro comandante supremo, lanciando dagli aerei dei volantini sui quali si leggeva testualmente: "Il vostro generalissimo, che insieme a Sonnino è uno dei più colpevoli autori di questa guerra inutile, ha l'audacia di accusare il vostro esercito di viltà, quello stesso esercito che tante volte si è slanciato per ordine suo ad inutili e disperati attacchi. Questa è la ricompensa del vostro valore. Avete sparso il vostro sangue in tanti combattimenti e il vostro generalissimo vi disonora, vi insulta, per discolpare se stesso". Gli eventi assumono in fretta connotazioni surreali, non facilmente descrivibili e, soprattutto, di difficile decantazione. Quattrocentomila alpini, fanti, artiglieri, lasciano il campo e scappano verso le retrovie. In virtù di quegli strani meccanismi della mente, che appassionano tanto gli psicologi, in tutti insorge un analogo pensiero: dopo un diluvio del genere, la guerra, almeno per loro, è finita. Sempre congiuntamente, e apparentemente in modo incomprensibile, addirittura riescono a recuperare un "minimo di calma irrazionale" nella fuga, che rallentano per mangiare, bere e saccheggiare. I civili in fuga non sono meno numerosi e le strade, ben presto, si trasformano in un groviglio disordinato e scomposto di persone, animali e mezzi. Su questo aspetto della vicenda, tuttavia, occorre fare chiarezza: non solo le mendaci dichiarazioni di Cadorna, ma anche quelle di molti storici, tendono ad acclarare il principio di una ribellione di massa dei soldati italiani, attribuita alla loro vigliaccheria e alla consapevolezza di non poter reggere alla pari il confronto con i nemici. Niente di più falso. Violenze e saccheggi, che vi sono stati e rispondono ai dati fisiologici di ogni guerra, non hanno nulla a che vedere con la "fuga", magistralmente caratterizzata nei suoi 6 molteplici e complessi aspetti dalle opere di Curzio Malaparte e Prezzolini , la cui genesi va attribuita alla rottura della catena di comando che, dopo anni di stenti, di privazioni, d'inutili morti scaturite dall'inettitudine di ufficiali e comandanti vari, determina il rifiuto (inevitabile) delle regole, ritenute semplicemente "assurde". Più che di ribellione, quindi, si deve parlare di "disorientamento indotto". Sotto il profilo delle cifre, i giorni di Caporetto offrono riscontri spaventosi: 13mila morti; 30mila feriti; 280mila prigionieri; circa 400mila soldati sbandati, rimasti isolati nel territorio occupato dagli austro-tedeschi. Non meno ingente è il bottino di guerra: 3000 cannoni; 1700 bombarde, 3000 mitragliatrici, campi di aviazione, ospedali da campo, munizioni, 5milioni di scatolette di carne, 700mila scatolette di salmone, 27mila quintali di gallette; 13mila quintali di pasta; 7.200 quintali di riso; 2.53 quintali di caffè; 4.900 ettolitri di vino; 672mila camicie; 637mila mutande; 430mila pantaloni; 823mila paia di calze; 321mila paia di scarpe. In soli tre giorni furono annullate le faticose conquiste di tre anni di guerra e per di più si aveva il nemico in casa, che premeva minaccioso sul Piave, per ricacciare gli italiani oltre l'Adige e puntare verso la Lombardia.

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Una vergognosa pagina di storia, non a caso artatamente dimenticata dalla storiografia ufficiale, riguarda i prigionieri di guerra, lasciati morire di fame nei lontani campi di prigionia, perchÊ ritenuti "codardi e traditori". Francia, Inghilterra e Stati Uniti, di fronte alle angoscianti notizie provenienti dai campi di prigionia, con l'ausilio della Croce Rossa, inviavano vagoni piombati di viveri, coperte e indumenti. L'Italia si rifiutò di adottare provvedimenti analoghi e proibÏ la spedizione di pacchi da parte dei privati e le sottoscrizioni di beneficenza, con il chiaro intento di impedire il convincimento che presso il nemico fosse possibile trovare condizioni di vita almeno 7 tollerabili . VERSO VITTORIO VENETO Il 6 e 7 novembre 1917, a seguito degli eventi di Caporetto, fu organizzata a Rapallo una conferenza interalleata per stabilire le strategie da adottare nei mesi successivi. Per l'Italia parteciparono Vittorio Emanuele Orlando, il ministro egli esteri Sidney Sonnino, il generale Vittorio Alfieri, il sottocapo di Stato Maggiore Carlo Porro, l'onorevole Leonida Bissolati e il diplomatico Luigi Aldovrandi Marescotti, stretto collaboratore di Sonnino. Inglesi e francesi presero atto della relazione di Orlando con aria di sufficienza e, senza tanti giri di parole, espressero il loro punto di vista: massimo rispetto per i soldati italiani, dei quali si lodarono il coraggio e lo spirito di sacrificio; massimo disprezzo, invece, per i comandanti, ritenuti TUTTI INCAPACI, eccezion fatta per il Duca d'Aosta, comandante della III Armata, non a caso passata alla storia come "invitta". Gli aiuti sono pronti, pertanto, e anche consistenti, ma a una sola condizione: sostituzione di Cadorna (e anche di Porro). Vittorio Emanuele Orlando, ovviamente, non si fece pregare due volte. "Magnifichiamo quei soldati", scrive Curzio Malaparte. "Viva i fanti luridi e sudici, strappati e pidocchiosi, magnificati sui giornali e nei discorsi ufficiali, ma dappertutto maltrattati nei fatti, al fronte e nelle retrovie, durante i turni di linea e i quindici giorni d'amarissima licenza; viva i fanti conquistatori del santo, della Bainsizza, delle quote Carsiche, viva i fanti che, dopo tante battaglie e tanti eroismi, ebbero il coraggio di abbandonare le trincee nell'ottobre del 1917". Dopo solo quindici giorni, anche grazie a loro, scocca l'ora di Armando Diaz. E la Storia prende un'altra direzione. Lino Lavorgna


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NOTE 1) Vedere capitolo precedente. 2) Pur essendo il quinto nella linea di successione, la sua ascesa al trono imperiale fu favorita da una serie di eventi imponderabili: Rodolfo, figlio di Francesco Giuseppe, morì suicida A Mayerling; il nonno, Carlo Ludovico, fratello minore dell'Imperatore, morì nel 1896 a causa di una febbre tifoidea contratta durante un viaggio in Egitto e Palestina; il padre, Ottone Francesco, morì nel 1906 a causa di una malattia venerea; il fratello maggiore del padre, l'arciduca Francesco Ferdinando, fu assassinato con la moglie Sofia nel famigerato attentato di Sarajevo, il 28 giugno 1914. Nei primi anni di guerra fu a capo del XX Corpo d'Armata, dimostrando però scarse attitudini al comando che, se da un lato lo resero simpatico a molti soldati, dall'altro furono aspramente criticate dagli osservatori, non solo austriaci. Da imperatore favorì senz'altro l'iniziativa di pace di Papa Benedetto XV, senza, per altro, ostacolare in alcun modo le iniziative dello Stato Maggiore, ivi compreso l'utilizzo del gas nervino nella Battaglia di Caporetto. Nondimeno fu considerato dalla Chiesa cattolica "un esempio per noi tutti, soprattutto per quelli che oggi hanno in Europa la responsabilità politica" e pertanto, il 3 ottobre 2004, fu beatificato da Papa Giovanni Paolo II. La beatificazione è stata fortemente contestata sia nella sostanza (non se ne ravvisavano i presupposti) sia nella forma (la Gebestliga, Pia Unione di Preghiera che l'aveva fortemente perorata, è composta di simpatici soggetti in massima parte coinvolti in oltre 2000 casi di pedofilia e violenze sessuali, considerati però delle "ragazzate" dal vescovo Kurt Krenn, che all'epoca ne era il presidente). 3) "Caporetto, diario di guerra - maggio dicembre 1917, Il Mulino, 2014. 4) "La mancata resistenza di riparti della II Armata vilmente ritiratisi senza combattere, o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austro germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia. Gli sforzi valorosi delle altre truppe non sono riusciti a impedire all'avversario di penetrare nel sacro suolo della Patria. La nostra linea si ripiega secondo il piano stabilito. I magazzini e i depositi dei paesi sgombrati sono stati distrutti. Il valore dimostrato dai nostri soldati in tante memorabili battaglie combattute e vinte durante due anni e mezzo di guerra, dà affidamento al Comando Supremo che anche questa volta l'esercito, al quale sono affidati l'onore e la salvezza del Paese, saprà compiere il suo dovere". 5) La prima frase fu sostituita con la seguente: "La violenza dell'attacco e la deficiente resistenza di alcuni reparti della II Armata hanno permesso… etc. etc." 6) Curzio Malaparte (op. cit.); Giuseppe Prezzolini, "Dopo Caporetto-Vittorio Veneto, Editore Storia e Letteratura, 2015. 7) Giovanna Procacci, "Soldati e prigionieri italiani nella guerra", Bollati Boringhieri, 2016. Camillo Pavan, I prigionieri italiani dopo Caporetto, Editore Pavan, 2001.

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DA LEGGERE

ANTEPRIMA Offriamo in anteprima un capitolo tratto dal libro di Alessandro Montanari “Euroinmani - Come l'euro ha ucciso l'Europa - Il risveglio dei popoli contro le élite” per scoprire quali sono le conseguenze di scelte economiche del tutto sbagliate. Dieci anni di crisi economica sembrano aver distrutto il mito positivo dell'Europa, alimentando l'insofferenza verso Bruxelles, la rigidità dei trattati e la soffocante leadership tedesca. Ma com'è stato possibile? In due recenti rapporti l'Istat e la nostra Banca Centrale ci hanno spiegato che l'Italia è un Paese lacerato, nel quale le diseguaglianze, nonostante i segnali di risveglio del Pii, tendono ad aumentare anziché a ridursi. Dieci anni di crisi hanno prodotto macerie che i reggenti del Potere si sono a lungo ostinati a ignorare, salvo poi cadere nello sconcerto più profondo quando il popolo, stracciando la retorica fasulla della ripresa, ha votato in massa per le forze di rottura. Ci sono tante motivazioni inascoltate dentro all'esito elettorale del 4 marzo e questo libro le ripercorrerà una a una, raccontando anche la curiosa parabola di chi, avendole intuite anzitempo, ha dovuto scontare l'imperdonabile torto di avere ragione. Qui però vorrei ridurre la questione ai suoi termini essenziali. Il modello che stiamo seguendo ha fatto bene a pochi mentre sta facendo del male a troppi: la classe media combatte per non essere risucchiata nel proletariato, il proletariato si accapiglia col sotto-proletariato per un po' di lavoro e un po' di welfare mentre una piccola schiera di privilegiati scivola dietro la curva e scompare dall'orizzonte. Di fronte a questo scenario, di solito, i sociologi dicono che "l'ascensore sociale si è rotto". Ma io non credo che le cose stiano così. L'ascensore sociale non si è rotto, semmai è stato manomesso da questa selvaggia impostazione economica che regge l'impianto della globalizzazione e impronta l'Europa e che va sotto il nome di neoliberismo. Per spiegarmi sceglierò di essere del tutto anti-scientifico. Non ricorrerò cioè alle medie di Trilussa che soccorrono gli stregoni della statistica quando vogliono dirci che tutto va bene anche quando sembra che tutto vada male. No. Per convincervi che tutto andava bene quando sembrava che tutto andasse male, io ricorrerò ai miei ricordi di gioventù. Niente di più soggettivo ma, in fondo, niente di più vero. Erano i primi anni Ottanta e le nostre abitudini erano molto diverse da ora. I blue jeans si portavano ancora sopra al livello delle mutande, il fitness si chiamava ginnastica e anziani e nonvedenti potevano tranquillamente essere definiti "vecchi" e "ciechi" senza che alcuno se ne


DA LEGGERE

sentisse offeso. Nessuno, o se non altro nessuno di mia conoscenza, avrebbe mai rischiato un'intossicazione per mangiare pesce crudo e decongelato in un ristorante cinese di cucina giapponese e se qualcuno, sedendosi a tavola, ci avesse avvertito di essere un "vegano" avremmo pensato a un marziano proveniente dal pianeta Vega. Il politicamente corretto non sapevamo cosa fosse: potevamo mangiare e dire tutto ciò che ci pareva. Del resto anche allora, se si desiderava insultare qualcuno, non mancavano certo i modi per farlo. E certamente si stava meglio così: meno equivoci, meno giustificazioni, meno perbenismo. In una parola: meno ipocrisia. Le ideologie resistevano, ma erano moribonde. Noi ragazzi, fratelli minori di chi aveva vissuto gli anni Settanta nelle aule perennemente "okkupate" dei licei e delle università, non ne sentivamo alcun bisogno e forse per questo fummo subito marchiati come "la generazione X", dove "X" stava per "incomprensibile" ma anche, direi, per "incompresa". La politica era un teatrino distante, dotato di un linguaggio tutto suo e di riti stantii. A breve, però, Mani Pulite avrebbe travolto i grandi partiti del dopoguerra, liberandoci per sempre da una classe dirigente che aveva il vizietto delle mazzette ma anche il merito, riconosciuto solo a posteriori, di porsi in modo ostile contro gli estremismi e le invadenze del capitalismo liberista. Dai grandi sentivo dire che avevamo un sacco di guai, che poi ho scoperto essere gli stessi di sempre. Anzi, gli stessi di tutti i Paesi del mondo: malavita, corruzione, clientelismo, burocrazia, evasione fiscale e tasse. Soprattutto, "troppe tasse". Se ne lamentavano tutti, probabilmente anche quelli che non avevano ancora preso la buona abitudine di pagarle. Del debito pubblico, invece, parlavano in pochi, anche perché avevamo ancora una moneta di Stato che potevamo manovrare a piacimento. Pagando qualche dazio, ovviamente, ma senza dover chiedere l'autorizzazione a nessuno. In quell'Italia, però, tutti avevano una speranza. L'ascensore sociale, come direbbero i sociologi, non era rotto: funzionava. Coi suoi tempi, scalino dopo scalino, ma funzionava. Ricordo che in classe l'appello contava una trentina di nomi. Le famiglie infatti erano più numerose di oggi e a scuola ci mescolavamo: i figli dei ricchi coi figli dei poveri coi figli della classe media. Al di là di qualche accessorio più scintillante, tuttavia, lo stile di vita non era poi così differente. Con diecimila lire potevamo trascorrere, tutti insieme, una serata in pizzeria. Non ricordo problemi di disoccupazione. Chi non aveva voglia di studiare, veniva spedito a fare il muratore, l'operaio o il garzone dell'artigiano e a diciotto anni riuscivi persino a invidiarlo perché si era già potuto comperare una macchina burina che piaceva alle ragazze burine. Solo che allora nessuno sembrava burino. Forse perché lo eravamo tutti. Una cosa che proprio non esisteva era Equitalia. Fatta eccezione per l'acquisto della casa e dell'automobile, in effetti, non ci si indebitava per i beni voluttuari. Nessuno era così matto da fare un finanziamento per andare in vacanza, acquistare un motorino e men che meno un televisore da 42 pollici. Nemmeno c'era chi glielo proponesse. Le cose, molto semplicemente, si comperavano quando si avevano i soldi per comperarle. Altrimenti, si aspettava. Con pazienza. E in fondo era molto meglio così. Meno beni, ma zero debiti in banca.

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DA LEGGERE

In famiglia, ma più in generale nella società, c'era una cultura condivisa del risparmio. Il denaro infatti non era il presente: il denaro era il futuro. Lo insegnavano i nonni, dotando noi nipoti di piccoli salvadanai nei quali accumulare gli spiccioli delle mance oppure regalandoci buoni postali che avremmo potuto riscuotere solo una volta divenuti maggiorenni, toccando con mano, anche se con anni di ritardo, tutta la concreta lungimiranza del loro affetto. Insieme al risparmio, l'altro grande valore era lo studio. Ricordo padri e madri fieri di poter mandare i propri figli - miei compagni - al liceo anziché alla scuola professionale e poi commossi fino alle lacrime per il primo laureato della casa. Nessuno allora parlava in modo sprezzante del "pezzo di carta". La laurea infatti era la garanzia di una promozione sociale che nessuno avrebbe più retrocesso e che diventava una conquista collettiva dell'intera famiglia. Non solo dello studente; anche di chi, col sudore del lavoro e il sacrificio del risparmio, gli aveva consentito di studiare. L'istruzione, tuttavia, non era l'unico trampolino sociale. Tanti operai, dopo qualche anno di apprendistato e specializzazione, riuscivano a coronare il sogno di "mettersi in proprio". Si diceva così e lo si diceva con orgoglio perché aprire una partita IVA, allora, era ancora una libera scelta. Andavi in banca, spiegavi il tuo progetto, ti concedevano un prestito e cominciava l'avventura che segnava la vita: da operaio a padrone. Quelli però erano padroni assai diversi sia dai grandi industriali di ieri sia dai piccoli manager di oggi. Quelli erano padroni che, in fondo al cuore, continuavano a sentirsi operai. Padroni che usavano le mani, forti come ganasce, che parlavano in dialetto e che conservavano un'intima diffidenza per quei saputelli anglofili, ebbri di finanza e di libero mercato, che poi avrebbero rovinato tutto. Com'era bella quell'Italia. Provinciale, ombelicale, modesta, persino furbacchiona; eppure cosi solida, generosa e vitale. Scrivere, dice qualcuno, è terapeutico. Così mi accorgo solo ora del motivo profondo per cui mi sono messo a scrivere questo libro. L'ho scritto perché amavo quel Paese e perché non riesco a perdonare chi ce lo ha portato via. Non perdono chi ci ha abituato a fare debiti per TV ultrapiatte, chi ci ha venduto come modernità i co.co.co, i co.co.pro e i voucher e chi ha inchiodato i giovani a un telefonino per distrarli da un oggi senza domani. Più di tutto, però, io non riesco a perdonare chi non ha soccorso quei piccoli eroi dalle mani callose che, piuttosto di abbassare la saracinesca di una fabbrica, hanno preferito abbassare la saracinesca di una vita. Andandosene via per sempre; Padroni perché padroni di loro stessi. Operai perché operosi.


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ARTISSIMA Torino, 2-4 novembre 2018. Artissima, la prima fiera d'arte contemporanea in Italia rinomata per la sua attenzione alle pratiche sperimentali, festeggia il suo 25 ° anniversario! La fiera si articolerà in otto sezioni, quattro delle quali curate, tra cui una nuova sezione dedicata al suono, sette importanti premi, un programma allettante di collezionisti e curatori, tour guidati e conferenze, nuovi sviluppi digitali e nuovi progetti in uscita. Progetti educativi Artissima Experimental Academy è un nuovo progetto educativo in collaborazione con COMBO che si estende oltre i quattro giorni della fiera e presenta una serie di incontri ed eventi per professionisti dell'arte. Artissima Junior, ideata e realizzata in collaborazione con la Juventus, coinvolge i giovani visitatori in un'esperienza artistica coinvolgente di partecipazione. Disegnare l'invisibile, in collaborazione con Moleskine, propone lezioni di disegno itinerante e performativo guidate dall'artista Marzia Migliora per coinvolgere gli studenti amanti dell'arte in una nuova esperienza, in bilico tra creazione e contemplazione dell'arte contemporanea. Progetti digitali Artissima Digital, la piattaforma digitale di Artissima, implementata nel 2017 per offrire momenti di approfondimento e offrire un'esperienza virtuale della fiera 365 giorni all'anno, ha ora ottimizzato i suoi processi, per il secondo anno con il supporto della Compagnia di San Paolo. All'interno di questo progetto e per celebrare il suo 25 ° anniversario, la fiera ha lanciato Artissima Stories. 25 Years of Art, un programma esclusivo di interviste in blog e formati video, coordinato da Edoardo Bonaspetti e Stefano Cernuschi con Anna Bergamasco: 25 storie su Artissima, 25 punti di vista sulla principale fiera d'arte contemporanea in Italia e le sue trasformazioni, su Torino e sull’arte contemporanea. Giny

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RUBRICHE/ARTE

Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

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