Confini 67

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Web-magazine di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

Raccolta n. 67 Settembre 2018

BEL SUOL D’AMORE


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Confini Webmagazine di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Raccolta n. 67 - Settembre 2018 Anno XX

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti - Cristofaro Sola +

Hanno collaborato: Gianni Falcone Roberta Forte Giny Pièrre Kadosh Lino Lavorgna Gustavo Peri Antonino Provenzano Angelo Romano Gabriele Sardo Cristofaro Sola +

Contatti: confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

AMOR PATRIO Ciò che, nei secoli, ha abbellito borghi e città italiane, al di là della clemenza della natura, è stato l'amor di sé, il narcisismo, la vanagloria, il desiderio di lasciar traccia del loro passaggio di Nobili, Principi, Re, Papi e Prelati. Ciascuno ha voluto il proprio palazzo, reggia, castello, giardino, parco, casino di caccia, abbellito, ornato, impreziosito dall'opera di architetti, artisti ed abili artigiani. Il resto dei territori è stato lasciato alle cure ed allo sfruttamento, non sempre amorevoli, dei sudditi, salvo farne campi di battaglia o luoghi di razzia all'occorrenza. Solo in rari casi, come nella Roma imperiale o durante il Fascismo, la molla del fare è stata diversa dalla volontà di sottolineare la gloria dei singoli, ma è stata amore, spinta alla grandezza civile di un popolo, anelito collettivo alimentato dalla fierezza, dalla collettiva volontà di emergere dall'ordinario per farsi forza e spinta di civiltà. In questi rari casi il territorio tutto è stato oggetto di particolari ed amorevoli cure, è stato infrastrutturato, abbellito, bonificato. Sono state fondate città e nuovi insediamenti, eretti opifici, edifici e monumenti, accresciuto il territorio, per la gloria ed il maggior benessere dell'intero popolo. Persino nelle colonie, nell’Africa Orientale Italiana come in Libia dove, cosa unica nell’intera storia del colonialismo, alla popolazione autoctona fu riconosciuta la cittadinanza italiana e, nel rispetto della loro cultura e tradizioni, furono fondati moderni insediamenti, uguali a quelli dei “colonizzatori” italiani, dotati anche di moschee. Amor proprio ed amore collettivo, queste le due polarità, le due forze che hanno reso l'Italia quel che è oggi nelle vestigia della sua passata grandezza. Poi, finita l'ultima guerra, è calato il velo dell'oblio, della negazione, dell'alterazione della verità, della negazione della memoria. La luminosa, per tanti versi, parentesi fascista - almeno sul piano civile e dell’efficienza dello stato - è stata rinnegata e rimossa e dell'antica Roma si è preferito ricordare le follie di Nerone, le persecuzioni religiose, la distruzione di Gerusalemme, il valore dei ribelli di Petra, la "grandezza" di Spartaco o de "Il Gradiatore", fino all'irridenza di Asterix. Le testimonianze di amore collettivo fucina di civiltà non facevano comodo alla democrazia liberale che ha preferito esaltare l'individuo umanista e rinascimentale. E da allora non si è più eretto un monumento e non si è fondata città. I potenti di turno, "figli della Resistenza", emuli di quelli del passato, hanno agito per la loro effimera gloria, per accrescere il loro personale potere e ricchezza senza neanche avvalersi dell'opera di artisti e di abili artigiani.


EDITORIALE

Hanno costellato la penisola di brutture, di abusi, di scempi, di edifici rozzi, di orribili palazzi e ancor piĂš orribili case popolari. Hanno violentato sistematicamente la natura. Hanno omesso di manutenere, di curare e abbellire il territorio, hanno voluto ignorare che ogni opera pubblica realizzata accende un centro di costo che si chiama manutenzione e cosĂŹ le stazioni, gli edifici pubblici, le case popolari, i beni demaniali sono andati e vanno in malora. E poi ci si meraviglia se crollano i ponti. Ci fossero davvero "tanti piccoli Mussolini" in questa disastrata Italia. Angelo Romano

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SCENARI

BEL SUOL D’AMORE 'Bel suol d'amore', senza Tripoli ovviamente, visto quello che sta succedendo da quelle parti, è una di quelle espressioni che il lessico comune usa in contesti diametralmente opposti; quale apprezzamento, oppure con sarcasmo. Cambia il tono della voce e la mimica facciale: ridente il primo, accompagnato spesso dagli occhi sgranati e amaro il secondo, con le labbra tirate. Rende l'idea in ambedue i casi. Comunque, ne è passato di tempo da quando Giovanni Corvetto e Colombino Arona, nel 1911, scrissero e musicarono 'A Tripoli', conosciuta poi come 'Tripoli, bel suol d'amore', composta per propagandare l'imminente impegno bellico italiano contro l'impero ottomano, finalizzato alla conquista della Libia. In verità, 'd'amore' nel testo ce n'è poco perché, dopo le prime strofe accattivanti: "Sai dove s'annida - più florido il suol/ Sai dove sorrida - più magico il sol/ Sul mar che ci lega - coll'Africa d'or/ La stella d'Italia - ci addita un tesor…", ciò che domina è il 'rombo del cannon'. Beh! In qualche modo andavano rinfrancati i fanti e, al tempo stesso, infusi di spirito guerriero. Forse da qui la duplice, antitetica valenza: nel primo caso, la trepidazione nel conoscere le bellezze africane e, nel secondo, l'orgoglio di poter far 'beneficiare' quei popoli (quelle tribù), sotto il gioco ottomano, della 'democrazia' e della 'cultura' italica, sia pur con l'uso delle armi. Sventoli il Tricolore/sulle tue torri/al rombo del cannon. Senza ironia, non sembra un'operazione di peacekeeping ante litteram? In realtà, l'intervento venne giudicato necessario a seguito dell'occupazione francese della Tunisia (con l'avallo inglese che da tempo spaziava nel mondo) e delle successive possibili riverberazioni sullo scenario del Mediterraneo e non solo. Infatti, quel conflitto si allargò, poi, fino al Mar Rosso da un lato e al Dodecaneso dall'altro. Ma questi aspetti sono ignorati dai più. Il fulcro, rimasto nei cuori e nelle menti, nonostante il fluire del tempo, resta la Libia dove le operazioni militari, sin d'allora, suscitarono accesi entusiasmi e forti dubbi. Quest'ultimi, a caricarli di sarcasmo, ci pensò Gabriele Galantara con la sua celebre vignetta "Domani a conti fatti - Pantalone: Valeva proprio la pena?", pubblicata sulla rivista satirica L'Asino, piuttosto diffusa a quel tempo. Già, Pantalone. In sostanza, noi. Non so se la posizione assunta allora dalla rivista socialista fu oggettivamente fondata o se essa, nonostante il ripetuto sostegno della sinistra al pragmatico governo giolittiano, si schierò contro l'intervento per partito preso. Dico questo perché, quattro anni dopo, allo scoppio della Grande Guerra, l'ala oltranzista del movimento socialista, il sindacalismo rivoluzionario, quello che addirittura arrivò a definire Turati la 'guardia bianca del regime', si divise tra interventisti e non.


SCENARI

Chissà, valli a capire con i loro ragionamenti contorti, contraddittori ma, ovviamente, illuminati. E, per fortuna, era di là da venire la luce che la Stella Rossa moscovita avrebbe riverberato sul mondo. Beh! In ogni caso, non è che, successivamente, le cose si siano chiarite. All'impero ottomano, inglese, francese, austro-ungarico, tedesco e alla parvenza di quello italiano, si aggiunse la monopolizzazione delle istanze e delle risposte, in sostanza la totalizzazione delle idee, che si sostituì al 'normale' impero russo. In ogni caso, è comprensibile che ognuno di quegli imperi definisse, in sostanza, 'bel suol d'amore' il proprio, dopo aver prima magnificato e poi annesso (anche con le armi) quello altrui. E se l'Italia non ha fatto difetto in tale percorso ciò che la distingue dai restanti non è solo il fatto di aver vinto la I e perso la II guerra mondiale. Non voglio con questo giustificare (neppure lontanamente, anzi stigmatizzo) la guerra ma certo è che le condizioni alla cessazione di un conflitto le dettano i vincitori, al di là della qualificazione degli sconfitti. Wilson, a Versailles nel '19, dopo un solo anno di partecipazione alle operazioni belliche, in nome della 'democrazia' e della 'libera espressione' dei popoli dettò all'impero tedesco condizioni talmente oppressive da generare la Repubblica di Weimar e creare così l'humus per il nazismo. Ad un 'bel suol d'amore' se ne sostituiva un altro: l'imperialismo americano, per la prima volta sullo scenario internazionale, che prometteva il bene supremo di ogni persona, la libertà, cancellando gli imperi sconfitti, ovviamente oppressivi. Ma, si sa, al di là dell'oppressione, non tutti gli 'imperi', sono uguali: il colonialismo francese e inglese verrà meno tra la fine degli anni '40 e gli anni '70. Forse, perché quei due paesi potevano annoverarsi tra i vincitori e, quindi, il loro 'bel suol' era migliore di altri. In quanto alla 'libertà', poi, dobbiamo convenire che il suo concetto, da quei momenti, travalicò i confini nazionali dove conviveva col casareccio e a volte cinico opportunismo (nella patria della 'libertà' occorrerà aspettare gli anni '60 per il varo del Civil Rights Act e del Voting Rights Act) e sposò le esigenze del mercato e dell'economia, apolidi per antonomasia. In pratica, si svincolò platealmente e universalmente dalla giustizia. Non stiamo neppure a discutere, infine, sull'allora nuovo imperialismo russo dove la 'libertà' personale, la libera espressione, fu sostituita dall'interesse superiore dello Stato, in un palese iato con il popolo (i popoli) che rappresentava. Del resto, il 'bel suol' delle repubbliche socialiste sovietiche, inondato dal 'sol dell'avvenire', era tra i vincitori, guardato certo a vista dagli interlocutori ma apprezzato e ossequiato. Eppure, in ognuno di quegli imperiali paesi, sconfitti o vincitori, non è mai venuto meno l'orgoglio e non c'è mai stato senso di colpa o come vogliamo chiamarlo. Questo, per ritornare all'Italia, a denotare la differenza. È indubitabile che la nostra presenza in Libia (arrivata al 13% della popolazione) abbia apportato beneficio a quel Paese, a prescindere dal nostro diritto di essere là; un beneficio fatto di strutture, reti viarie, tecniche produttive, reti commerciali, occupazione, ecc. Un beneficio, peraltro, pienamente condiviso tra italiani e 'cittadini italiani libici' così da determinare nella prima generazione italo-libica una sorta di amor di nuova patria, sia pur legata ad interessi. E del resto, nel '43, quando gli Alleati occuparono la Libia, la gran parte degli italiani non pensò minimamente di rientrare in Italia. E nulla significò per quella comunità

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SCENARI

che il trattato di Parigi del '47 assegnasse la Tripolitania e la Cirenaica alla Gran Bretagna, il Fezzan alla Francia e la striscia di Aozou alla colonia francese del Ciad; né, tantomeno, lo significò il fatto che dal dicembre '51 la Libia, a seguito della risoluzione ONU dell'anno prima, divenisse monarchia costituzionale sotto il re Idris al-Sanusi, il quale accettò di buon grado la permanenza di basi inglesi e americane per il controllo strategico del Mediterraneo. E se, a seguito di quegli eventi, a qualcuno sorsero delle perplessità circa l'opportunità di permanere in Libia, bastò a fugarle il trattato bilaterale del '56 dove l'Italia, accanto ad un impegno di collaborazione economica, trasferiva allo Stato libico tutti i beni demaniali nonché la somma di 5 milioni di sterline (di quel tempo) a saldo di qualunque pretesa. Un trattato che, peraltro, assicurava la continuità della permanenza della comunità italiana residente nel paese, garantendone i diritti previdenziali ed il libero godimento dei beni. Tuttavia, i fatti, a poco più di dieci anni di distanza, hanno sconfessato quelle fiduciose attese perché i fiduciosi non hanno considerato né le intemperanze locali né l'insipienza italiana; il colpo di Stato del settembre 1969, e l'ascesa di Gheddafi al potere portò all'adozione di misure via via più restrittive nei confronti della collettività italiana, fino al decreto di confisca del luglio '70, emanato per "restituire al popolo libico le ricchezze dei suoi figli e dei suoi avi usurpate dagli oppressori". Non si salvarono neppure i contributi previdenziali. In risposta, ciò che l'Italia seppe fare è varare tre leggi, nell'arco di venticinque anni, "in attesa di accordi internazionali", che previdero la erogazione di acconti sugli indennizzi per i beni perduti; acconti che, nella loro totalità, sono stati ben lontani dal puro valore nominale delle perdite al 1970. Non so se la Francia, l'Inghilterra o gli Stati Uniti, in presenza di fatti simili occorsi a loro cittadini, audacia temeraria igiene spirituale avrebbero tenuto lo stesso comportamento. Quando Fidel Castro conquistò il potere varò una politica di nazionalizzazione di tutte le proprietà straniere sull'isola, così che gli Stati Uniti con l'allora presidente Eisenhower, risposero intanto con un embargo commerciale. Le proprietà e gli interessi di cittadini americani in Cuba erano ingenti; tra l'altro, le raffinerie della Esso di John D. Rockefeller e della Shell di Marcus Samuel, nonché della Texaco di Joseph S. Cullinan, Thomas J. Donoghue, Walter Benona Sharp e Arnold Schlaet. E, ancora, tra le altre, la First National City Bank of New York di James Stillman Rockefeller, la First National Bank di Boston, e Chase Manhattan Bank, di David Rockefeller. E, infine, casinò e catene di alberghi come il Riviera e Capri, di Meyer Lansky, di Lucky Luciano, di Santo Trafficante Sr. e di Frank Costello. A tanto, seguì poi una ulteriore risposta, sembra non dall'esercito bensì dalla CIA, che si concretizzò con l'operazione 'Baia dei Porci' il cui nome vero, in realtà, era 'operazione Zapata', dalla denominazione geografica della zona da conquistare, Ciénaga de Zapata, della società finanziaria Zapata di proprietà di George Bush Sr. Come sappiamo, quell'operazione, a prescindere da chi l'abbia ideata e condotta, si risolse in un fantasmagorico flop i cui effetti perdurarono nei decenni solo per inasprire, strumentalmente, i rapporti tra gli USA e l'URSS nonché per dare fiato ai partiti comunisti europei. A prescindere dai titolari degli interessi che si cercò di difendere.


SCENARI

E non fa difetto la Francia: nella cosiddetta guerra franco-algerina, tra il '54 e il '62, non ci fu più di qualche sopracciglio sollevato di fronte ai morti che fra i civili assommarono tra i trecentomila e il milione e a invii nei campi di raggruppamento di ben tre milioni di persone. Non parliamo dell'Inghilterra che ha sempre difeso con unghie e denti le sue prerogative colonialiste fino a che, di sua sponte, non ha deciso di abbandonarle. Di contro l'Italia, almeno dal suo comportamento, ha sempre avvertito una sorta di sudditanza verso chicchessia. Nel '15/18, dopo aver fatto sì che "… I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo" risalissero "in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza.", dopo aver 'liberato' Trento e Trieste, anche qui con l'accompagno di patriottiche canzoncine, ha concesso a quelle terre il bilinguismo, gli statuti e le leggi speciali senza arrivare minimamente a scalfire l'insofferenza nutrita nei suoi confronti. Chissà se verrà meno ora che il neo cancelliere austriaco Sebastian Kurz, nel disinteresse più totale, ha promesso la concessione della cittadinanza austriaca ai gruppi etnici di lingua tedesca e ladina di quelle terre. Beh! Almeno quell'operazione non ci costerebbe. La nostra supinazione, dieci anni fa, è giunta a 'riaprire' la questione Libia: come tempo addietro ci ha ricordato Massimo Sergenti nel suo 'Pesi e misure', il 30 agosto 2008, Gheddafi e l'allora Presidente del Consiglio Berlusconi siglarono a Bengasi un Trattato internazionale, definito 'storico', che previde, tra l'altro, la fine del contenzioso (sic) a fronte di uno stanziamento di ben 5 miliardi di (nostri) dollari in favore della Libia come saldo dei presunti danni coloniali, senza attribuire alcun rilievo ai beni persi da nostri connazionali per 400 miliardi di lire valore 1970, pari oggi a oltre 3 miliardi di euro. L'unica concessione che l'Italia ebbe fu la fine della 'discriminazione' nel rilascio dei visti turistici a cittadini italiani nati a Tripoli. Almeno la nota umoristica non è mancata. Lo so. Non sono totalmente ingenua. C'erano in ballo i contratti per il petrolio e il gas ma dovevamo arrivare fino a quel punto? Fino ad accettare che il colonnello Gheddafi, dopo tanto 'risarcimento', arrivasse in Italia con tanto di foto -in bella vista sulla divisa- di Omar al-Mukhtar, un eroe della resistenza libica contro gli italiani? Qualcuno dice che i servizi francesi, nonostante simili interessi, siano stati meno accomodanti. Ora, mi chiedo, dovrà pur esserci una ragione se la nostra posizione preferita nel tempo è stata quella dell'appecoronamento, della ricerca costante del compromesso fino allo svilimento, dell'inseguimento incessante dell'opportunità a scapito della coerenza. È possibile che quella sinistra, divenuta nelle more la più consistente d'Europa, con la sua capacità di conciliare l'inconciliabile e giustificare l'ingiustificabile, abbia prodotto effetto su un'azione di governo che per cinquant'anni è stato all'insegna dello scudo crociato e per i restanti venticinque, alternativamente, sotto l'egida di un biscione e della stessa sinistra divenuta nel frattempo, quasi in un ritorno alle origini, 'socialismo riformato' dopo aver buttato il garofano? Sì, penso sia possibile ma da sola non sarebbe stata sufficiente per depotenziare, svilire, altalenare la politica governativa. Penso, quindi, che un'altra forza, contrapposta diciamo, abbia aggravato l'effetto pendolo a scapito della proiezione e dell'incisività.

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Nel più profondo rispetto per l'istituzione, ritengo che quest'ultima forza possa configurarsi nella 'sede sociale' della cattolicità ubicata nel nostro Paese. L'aspetto, se vogliamo, anche qui umoristico è stato dato certamente dalla 'cortese' contrapposizione tra le due forze, ambedue dotate, tuttavia, di quel sano (si fa per dire) pragmatismo, di quella visione universalista delle cose più che nazionale, che ha portato entrambe a sposare scambievolmente la croce e il diabolico forcone. E così, per cinquant'anni, abbiamo avuto fior di governanti che si sono accontentati di piazzare uscieri e autisti nella giovane Unione Europea e, per i restanti venticinque, fior di artisti il cui fine principale è stato quello di realizzare, nella stessa Europa e in Italia, un falso quadro cubista. E tutto questo non ha potuto non riverberarsi sulla politica estera (e non solo), a volte ambigua o, in ogni caso, eterogenea, a seconda delle sensibilità di chi la interpretava: filo-vaticana tout court al pari di uno Stato teocratico, europeista, filo-francese, filo-atlantica, direttamente filo-americana, filorussa, pro Israele, pro-Palestina, in assoluto disinteresse per i Paesi balcani. Inoltre, la presenza di una notevole forza comunista non poteva non produrre effetto anche su altre politiche: quella ambientale, ad esempio. Così, mentre l'URSS avviava una corsa all'armamento nucleare per eguagliare gli USA, le forze di 'sinistra' nei vari Paesi strumentalmente intraprendevano iniziative atte a scoraggiare l'impiego del nucleare anche a scopi benefici. Col risultato che in Italia, in nome di un ambientalismo d'accatto, a differenza di altri Paesi, è stato decretato il 'No' alle centrali nucleari e il 'Sì' alle centrali a carbone, a olio combustibile, idroelettriche e, in seguito, la messa al bando delle prime due per inseguire, a suon di miliardi di euro, l'eolico, iligiene fotovoltaico, il geotermico, la mareomotrice col risultato, di lì a audacia temeraria spirituale breve in molti casi, di pale contorte, pannelli sfondati e progetti faraonici sulla carta. Occorrerà attendere, dal lontano 1987, il 2013 per vedere apprezzabili rese dalle fonti rinnovabili di energia: il superamento del 15% del fabbisogno energetico. Certo, l'aria, l'acqua e la terra più pulite e vivibili è un obiettivo oltremodo apprezzabile e condiviso ma la dogmatica sinistra, trasformata nelle more in un 'socialismo riformato,' nella sua visione pragmatica e universalista potenziata dal suo amore per il cubismo, non ha battuto ciglio quando nel '95 l'ILVA di Taranto, dopo la messa in liquidazione di Italsider e Finsider, passò nelle mani del gruppo Riva. La cosiddetta I Repubblica era caduta da poco; lo scudo crociato, perduto il 'grande' cetaceo, passava di mano in mano tra minutaglie mentre la 'ecclesia', nonostante il protagonismo del Papa polacco, avviava lentamente il suo ottenebramento; i partiti si riconvertivano, spesso adottando sul territorio liste civiche. Eeeh! Segno del rinnovato legame tra mandanti e mandatari. Inoltre, nuovi attori entravano ufficialmente, prepotentemente, nella vita politica italiana: i mercati e la finanza. A Taranto, nel '95, era insediata una maggioranza derivata da una lista civica di centro-destra, seguita da una giunta dichiaratamente di centro-destra, a sua volta seguita di lì a breve da un commissario prefettizio, seguita da una del Polo delle Libertà, seguita di lì a breve da un altro commissario prefettizio, a sua volta seguito da una amministrazione di 'sinistra non riformata, dichiaratamente ecologista' che dal 2007 al 2012 ha governato la città e la Regione.


SCENARI

Dovevano essere ben camuffate le attività altamente inquinanti dell'ILVA se c'è voluto un magistrato, Patrizia Todisco, dopo la pubblicazione di due incontestabili indagini, per bloccare la 'fabbrica' dei tumori e delle più invalidanti patologie, operante per quasi un ventennio nell'indifferenza generale, salvo poi vedere la sollevazione di esponenti pubblici, silenti fino ad allora, per 'bollare' il suddetto magistrato come colei che decretava la fine della 'politica' (???) siderurgica italiana. Aaah! Quel 'robusto' realismo di destra che si coniuga col 'sano' pragmatismo della 'sinistra', casualmente sostenuti dalla disattenzione ministeriale, di destra e di 'sinistra riformata', dove centocinquanta autorizzazioni integrate ambientali - tra cui quella per l'ILVA - sono rimaste in attesa di rilascio, in barba alla pericolosità degli impianti, diciotto dei quali dichiarati addirittura 'fuorilegge' dall'Europa. C'è qualcuno che afferma (ma io non ci credo) che è stato proprio il connubio di questi due soggetti che negli ultimi venticinque anni hanno ridotto il Paese, il nostro 'bel suol d'amore', ad un caso clinico. Nonostante le quasi duecento 'comunità montane' ancora esistenti sul territorio, il dissesto idrogeologico è da bollino rosso, né è possibile prevedere interventi riparatori per mancanza di fondi. La cementificazione ha cavalcato vette parossistiche fino a dieci anni fa e, senza alcuna considerazione per la morfologia e l'orografia del territorio, ha persino chiuso canali naturali di sfogo delle acque che, in piena, irrompono nell'abitato devastandolo. E, a proposito di acque, nonostante i magistrati preposti, i risultati dei monitoraggi dei maggiori corsi idrici prospettano discariche chimiche e metallurgiche. I mari, fortunatamente monitorati da Goletta Verde, sono le nuove poste per il lotto: ogni anno, la pagella ci dice dove è opportuno balneare per evitare coli et similia. L'accortezza sarebbe far uscire prima la pagella in modo che si possano programmare per tempo le vacanze ma tant'è, non si possono fare controlli di fretta e distruggere reputazioni. Un momento … non dimentichiamo la plastica, il nuovo satanasso del III millennio. Chissà perché quella piccola isola di plastica che galleggia nell'Oceano Pacifico dovrebbe riguardare il Mediterraneo e l'Italia. Forse andrebbero bacchettati quei Paesi rivieraschi sui quali, però, probabilmente, non ha influenza l'Assocarta. Va a capire le associazioni… Per l'aria non preoccupiamoci: ci sono le domeniche ecologiche a targhe alterne per scongiurare il pericolo delle polveri sottili. Orbene, alla fine dei giochi, resta la triste realtà che le associazioni ambientaliste stanno vivendo una nuova primavera di autoreferenzialismo. Il cane è arrivato a mordersi la coda. Le nostre infrastrutture cadono a pezzi: varate da quei 'fior di governanti' degli anni '60, senza particolari slanci internazionali che non fossero approvati dall'altare d'oltreatlantico, limitati quanto si vuole alla cura del solo Brescello come i loro alter ego Don Camillo e Peppone, hanno comunque saputo dotare il Paese delle basilari infrastrutture compiendo miracoli: l'Autosole, ad esempio, con un percorso di ben 759,4 Km costati 15 milioni complessivi di giornate lavorative, 52 milioni di metri cubi di terra scavata all'aperto, 1,8 milioni di metri cubi di terra scavata in galleria, 5 milioni di metri cubi di murature e calcestruzzo, 16 milioni di metri quadrati di pavimentazioni, 853 ponti, viadotti e opere simili, 2500 tombini, 572 cavalcavia, 35 gallerie su

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due carreggiate, 3 gallerie su una sola carreggiata; l'Autosole, dicevo, è stata realizzata in soli otto anni: iniziata il 19 maggio del '56, era stata inaugurata il 4 ottobre del '64. Sarebbe opportuno farlo presente alle maestranze che stanno lavorando sull'Autosole all'altezza di Firenze e dintorni sin dal 2006, o a quelle che hanno operato sulla Salerno/Reggio C. per ammodernamenti dal 1997 al 2016, o a quelle che hanno realizzato gli ultimi 22 Km di III corsia sul GRA di Roma dal 2003 al 2012. Potrei continuare ma è di tutta evidenza che le ardite tecniche costruttive adottate allora risultano incomprensibili agli odierni tecnici; un po' come le piramidi di Cheope, Chefren e Micerino a Giza per l'elevazione delle quali non c'è ancor oggi una spiegazione plausibile. E, al pari delle piramidi di Giza, c'è difficoltà di manutenzione. Già la manutenzione… Atteso che in presenza di ipotesi di reato è d'uopo che la Magistratura indaghi e formalizzi ipotesi di responsabilità; da lì l'indiscutibile necessità che le inchieste facciano il loro corso, senza interferenze, per attribuire colpe e comminare punizioni. C'è comunque un interessante articolo 'Autostrade: la convenzione. Rendimento garantito sopra il 7% e investimenti sempre sotto il previsto (Corriere della Sera) a firma Francesca Secci del 28 1 agosto scorso, pubblicato su 'Soldi on line' che riporto per la sua stesura tecnicistica, invitando chi volesse di andare a leggerselo: “Il Corriere della Sera di oggi rende noti alcuni dati relativi al contratto di concessione tra Aspi e governo sottoscritta nel 2017 dal Ministero dei Trasporti e valido fino al 2038. Il documento, come scrive il giornale, è colmo di informazioni e dati sensibili per i mercati finanziari. Alcuni dati rilevanti si possono rinvenire nell'Allegato E, dove si calcola che Autostrade per l'Italia avrà ogni anno un rialzo delle tariffe pari al 70% dell'inflazione reale. Uno di questi dati è rappresentato dal "parametro K", definito nell'allegato B, attraverso il quale si evince "il calcolo di costo medio ponderato del capitale", cioè la rendita dell'azienda. Nel medesimo allegato, prosegue l'articolo, è stabilita la formula (X) degli investimenti, principale variabile del piano economico-finanziario. Gli investimenti sono calcolati "sulla base di un tasso di remunerazione pari al 7,18 attraverso la predisposizione di piani di convalida economica per ogni singolo investimento utilizzando il metodo dell'attualizzazione dei flussi di cassa". “Gli investimenti in manutenzione, tra l'altro, risultano inferiori al programma iniziale di circa il 70%, mentre i numeri relativi ai flussi del traffico sottostimano le entrate da pedaggio, che risultano crescenti rispetto a quanto previsto dal piano, grazie all'aumento costante delle tariffe al casello.' Basta. La verità è che, dopo aver prima gioito, ci siamo macerati nella colpa quando ci siamo impadroniti del 'bel suol d'amore' altrui al pari di altri Stati coloniali ma, a differenza di quest'ultimi, vi abbiamo profuso risorse e ingegno e, per giunta, ci siamo fatti carico riparatore (sic) addirittura di azioni dei nostri bisnonni e trisavoli. Però, non abbiamo avvertito alcuna colpa quando abbiamo assistito a scempi del nostro 'bel suol d'amore', del nostro patrimonio naturale e strutturale. Almeno i nostri padri e i nostri nonni, nell'immaginario internazionale, facevano i suonatori di mandolino e cantavano 'O sole mio dinanzi all'americano che chiedeva folklore; il che poteva anche starci: c'era il Piano Marshal che portava soldi. Oggi, senza neppure i soldi a rallegrarci, nell'immaginario d'oltralpe c'è la vignetta di Charlie Hebdo che rappresenta i tronconi del Ponte Morandi in alto con le macerie abbasso e la scritta: fatto da italiani e pulito da migranti.


SCENARI

Sarebbe da ricordare ai francesi le loro estemporanee e disinvolte azioni del passato e del presente, che tra l'altro hanno coinvolto e coinvolgono la Libia, così come ci sarebbe da sottolineare le spigliate dichiarazioni del loro Presidente, addirittura volte a dare agli altri lezioni di morale quando non a trovare soluzioni per la Libia, tipo le elezioni in piena guerra tra tribù, derise certo dalla politica internazionale ma miranti, a quanto pare, ad estromettere l'Eni dal suolo libico. E, però … non vale la pena di gridare: di problemi interni Macron e il suo governo ne hanno già abbastanza. Sì, tacciamo, è meglio. Ma in questo nostro continuo, strenuo, essere silenti, ritroviamo la voce, alta e imperiosa, quando di fronte ad effetti di calamità naturali che potevano essere evitati, a catastrofi che potevano essere scongiurate, chiediamo l'intervento dello Stato. Un po' come accaduto nella cosiddetta Terra dei fuochi dove ettari di terreno sono stati scavati fino ad una considerevole profondità per seppellirci centinaia di fusti di materiali tossici, senza che alcuno si accorgesse del via vai dei camion e del rumore delle ruspe. Pur comprendendo il motivo vero, resta il fatto che se la situazione non fosse drammatica, sarebbe esilarante col fatto di ricercare l'intervento dello Stato per la bonifica e per il sostegno all'agricoltura, visto il divieto di colture in quelle zone. Concludeva il Leopardi nel suo Sabato del villaggio riferito ai giovani: … Altro dirti non vò; ma la tua festa/ Ch'anco tardi a venir non ti sia grave.'. Già, i giovani, allevati oggi come polli in batteria, senza il benché minimo attaccamento alla loro terra, si specializzano all'inverosimile per essere in grado di lasciarla. Non è da ridere anche questo? Il motivo lo trovo nel ricordo delle parole di un mio maestro che, a proposito di morale e di disaffezione, affermava che esse decadono quando si predilige il sapere alla conoscenza e la filosofia becera all'intuizione costruttiva. Ma, purtroppo, il ricordo non mi è di aiuto. Roberta Forte

NOTE: 1. https://www.soldionline.it/notizie/azioni-italia/autostrade-la-convenzione-rendimento-garantito-sopra-il-7-einvestimenti-sempre-sotto-il-previsto

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GENOVA PER NOI "Quella espressione un po' così che abbiamo noi che abbiamo visto Genova… E ogni volta ci chiediamo / Se quel posto dove andiamo / Non c'inghiotte, e non torniamo più". Le parole in musica di Paolo Conte (che non è il Premier ma un raffinato cantautore) potrebbero essere la perfetta rappresentazione del vuoto che ha scavato nelle nostre coscienze quel ponte che è crollato d'improvviso sopra la nostra distratta quotidianità ferragostana. E ha fatto vittime. Vere, ostensibili, quelle dei morti che ci insegnano a piangere. Ma anche nascoste, che non appaiono, non si mostrano ma fanno male, quelle delle nostre mediocri certezze di uomini comuni, consumati da una routine che sta stretta ma non si rinnega. Storie aggrappate al disperante ottimismo consolatorio che racconta un Paese reale che è avanti a molti altri, e che se guardiamo indietro non è che poi si stia tanto male. È il nostro mondo piccolo che si tiene con gli spilli nell'illusione che non crolli, che sia eternamente uguale a se stesso, anche quando minacciamo facili sfracelli o gattopardesche rivoluzioni. Ma quando poi il cielo, travestito da ponte, ci casca sulla testa non sappiamo più chi siamo. L'universale passepartout dell'io-speriamo-che-me-la-cavo non ci salva, non questa volta. Come potrebbe? Si va giù da un ponte in infradito e la tavola del surf rizzata sul tettuccio dell'auto, si resta schiantati sotto il ponte con in tasca un contratto da stagionale all'isola ecologica. Cileni, francesi, albanesi, italiani del Nord e del Sud, nessuno ti chiede da dove vieni quando precipiti. Si dirà: è il destino cinico e baro a dare le carte. Mai sospettiamo che possa essere il nostro turno al tavolo della roulette russa della vita e della morte. Non lo pensavano di certo quei 43 che alle ore 11,36 della mattina del 14 agosto sul ponte "Morandi", il Brooklyn de' noantri, che allaccia, come una bretella che tiene su un paio di brache, il levante al ponente genovese, hanno pescato dal mazzo tarocco lo scheletro che impugna la falce. Sono volati via come angeli a reclutamento coatto. Di loro, non avrebbero voluto. Non volevano mettere le ali ma solo continuare a essere umani. Come le altre anime sbalzate fuori dai corpi schiacciati dai pezzi di cemento venuti giù. Se c'è un Dio da qualche parte si vede che quel giorno ha chiuso bottega, perché non c'è niente di giusto e di sensato nel finire così, a vent'anni e con una chitarra nel portabagagli o a nove, come la piccola Crystal diretta in vacanza con i genitori all'Isola d'Elba, con paletta e secchiello a farle da fidati compagni di viaggio, l'ultimo, arrivato troppo presto, ancor prima di cominciare. “Eppur parenti siamo un po' / Di quella gente che c'è lì" che è rimasta sotto le macerie a Genova e ha preso commiato dalla vita in una cassa di legno, omaggiata da tutti: amici e parenti, autorità e


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popolino, laici e beghine, colpevoli e innocenti, guardie e ladri, vittime e carnefici. Come a dire: siamo tutti eguali davanti alla morte… degli altri. Sarebbe potuta andare diversamente. Quel ponte non doveva collassare. Era stanco, e lo aveva fatto capire. Ma nessuno, tra chi avrebbe dovuto, gli ha dato retta. Si è preferito far finta di niente e lui l'ha fatta pagare. Se n'è andato per il troppo stress a 51 anni, portandosi dietro un bel po' di gente che con la sua salute non c'entrava niente. Ora che la frittata è fatta si cercano i responsabili. Ma non sarebbe stato meglio farlo prima di rompere le uova? Sarebbe stato bene dire ai padroni delle autostrade italiane: ehi, amici, prima di spartirvi il malloppo fate qualcosa per tenere in salute chi vi dà da vivere da principi e regine. Lo sa anche il contadino che se vuole essere ricco deve badare a ingrassare il cavallo. Non s'è mai visto un ronzino che fa la fortuna del suo padrone. Sarebbe bastato semplicemente essere meno famelici e Crystal e Samuele quel castello di sabbia sul bagnasciuga l'avrebbero tirato su. E sarebbe stato bellissimo. E Marta e Biagio la torta nuziale tanto attesa l'avrebbero finalmente tagliata, magari tra gli sfottò degli invitati che una barzelletta sporca sul medico e l'infermiera non si nega a nessuno. Figurarsi ora che medico (Alberto Fanfani) e infermeria (Marta Danisi) c'erano davvero e facevano sul serio. Invece, un requiem gli ha fatto da marcia nuziale. Che c'è di giusto in tutto questo? Niente, proprio niente. Certe volte la vita fa talmente schifo che sa farsi odiare per quanto è traditrice. Vatti a fidare di lei, in un'assolata giornata d'agosto, sospesi in aria su un ponte che dovrebbe portare lontano. Invece cade e trascina giù. E ti catapulta, con un biglietto di sola andata che nessun casellante dovrà obliterare, in un altrove che non è quello progettato, desiderato, voluto, richiesto. Con quella faccia un po' così / Quell'espressione un po' così / Che abbiamo noi / Mentre guardiamo Genova. Cristofaro Sola

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QUEL MAL D’AFRICA EREDITATO DA MIO PADRE PREMESSA Caserta, primavera 1971. Papà Lorenzo nota che sulla mia scrivania vi sono molti libri, riviste, giornali, due volumi delle enciclopedie "UTET" e "MOTTA" aperti alla voce Libia e tre volumi "dell'Enciclopedia del Ragazzo Italiano" (Edizioni Labor, 1943, ereditata dalla biblioteca materna, come la "Motta") ancora chiusi. "Che stai studiando?" "Lunedì dobbiamo portare una ricerca sulla Libia e sulle recenti espulsioni degli italiani". "Ah, capisco. Ma penso che questo materiale non ti basti. Mi sa che dobbiamo fare un salto a casa (si riferiva alla casa avita, in provincia di Benevento) dove ho qualcosa che potrebbe esserti utile. E poi ti racconto io un po' di storie". La casa avita dista una quarantina di chilometri da Caserta e così, in men che non si dica, ci mettemmo in auto. Ivi giunti aprì un vecchio baule e tirò fuori cimeli di cui ignoravo l'esistenza, tra i quali: un volume degli annali dell'Africa italiana, alcuni numeri della rivista "Africa italiana" e alcuni fascicoli dell'opera "Le cento città d'Italia illustrate", una delle quali dedicata a Tripoli e Bengàsi. Papà parlava spesso della sua esperienza bellica in Libia e i suoi racconti, cesellati da una voce calda e incantevole, facevano sognare. Il mal d'Africa, nel linguaggio comune, indica una sensazione di nostalgia che pervade coloro che l'abbiano visitata e poi avvertano il desiderio, forte e irrefrenabile, di tornarci. L'asserzione è corretta ma insufficiente a definire il concetto nella sua essenza più completa: anche oggi si può cadere preda del "mal d'Africa", nonostante le tristi vicende degli ultimi anni abbiano stravolto, massicciamente, quella serena dimensione dell'essere riscontrabile nei viaggiatori ed esploratori del XIX e XX secolo, tipo Karen Blixen, Ryszard Kapu?ci?ski, John Reader, James Augustus Grant, Ugo Ferrandi, per intenderci. Il mal d'Africa contratto dai soldati italiani nelle varie guerre coloniali e dai tanti ex coloni, che in Africa restarono anche dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, è tutta un'altra cosa perché trascende il semplice desiderio di ritornare a vedere un paese "straniero" del quale si fosse rimasti incantati. Per quelle persone, infatti, l'Africa non era un paese straniero. Altri, in questo numero, parleranno dei problemi contingenti legati alle vicende attuali. Io vi parlerò della "mia Africa", quella che porto nel cuore "per contagio", grazie ai racconti di un


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Grande Uomo: Lorenzo Lavorgna, mio Padre. Il mio pensiero in merito alle attuali vicende, ancorché fuori da ogni contesto realizzabile (e per questa ragione non espresso) è la diretta conseguenza di quel "contagio". So bene, altresì, che chiunque lo avesse subito in forma analoga, non potrebbe che pensare la stessa cosa. C'ERA UNA VOLTA L'AFRICA ITALIANA La Tripoli che accolse mio padre era molto diversa dalla vecchia Tarabulos e dall'antica Pea e, naturalmente, era molto diversa dalla convulsa metropoli odierna, accreditata di circa 1.300.000 abitanti, ai quali ne vanno aggiunti almeno altri 6-700mila che sfuggono a ogni possibile censimento. Negli anni quaranta del secolo scorso la cittadina ne contava poco più di 70mila e appariva "modernissima" grazie alle radicali trasformazioni urbanistiche intercorse dal 1911 e all'imponente Via Balbia, realizzata nel 1937, che passa proprio per il suo centro e unisce la Tunisia all'Egitto coprendo una distanza di oltre 1800 chilometri. La città si stende tutta in piano, tra il mare e l'oasi, ricca di moderne costruzioni, fantasiosamente realizzate da ingegneri e architetti che si sono sbizzarriti ad applicare tutti gli stili, creando zone piacevoli e armoniose. Le strade principali partono dal porto e s'irradiano verso il centro della città; il Lungomare dei Bastioni sfocia verso il Castello, "severa e maestosa sede del Governo", oltre il quale ha inizio il meraviglioso Lungomare Conte Volpi, modernissima arteria che trasporta di colpo la memoria alle migliori riviere liguri e napoletane e sulla quale si affacciano il Teatro Municipale Miramare, la sede della Banca d'Italia, quella dell'Ufficio Studi e Propaganda del Governatorato e il Grand Hotel, superba costruzione in stile moresco. Proseguendo, il lungomare sfocia in un largo dove sorgono gli edifici delle Società di Navigazione e delle Agenzie di viaggi, per poi riprendere la sua ampiezza naturale fino a Piazza IV Novembre. Nel mezzo, lo stupendo Albergo Excelsior. La più movimentata arteria cittadina è la bellissima Via Vittorio Emanuele, che taglia la città dal castello al nuovo palazzo del Governatore, ricca di negozi, ristoranti, locali alla moda come "Le Venete" e il "Caffè Mazzocca". Con la tipica enfasi del regime, nella rivista consegnatami da papà è scritto che, dal porto, un'altra strada conduce a Piazza Maggiore Brighenti, ove sorge il fabbricato dei Monopoli, e al Tempio votivo ai Caduti "posto con felicissima scelta sopra un'altura al cospetto del mare dal quale giunsero gli Eroi che nel Sacello dormono il glorioso sonno". Papà mi mostra le foto della città, sulla rivista, fornendo per ciascuna di esse descrizioni e aneddoti; lo stesso fa con Bengàsi, dove tra l'altro ha trascorso più tempo rispetto a Tripoli: la stazione centrale con le tipiche arcate, il circolo coloniale, il Largo della Regina col Palazzo Prosdocimo, il Grand Hotel Italia, gli edifici pubblici, la Via dei Calzolai, la Via dei Tintori, la Via degli Avorai. Le differenze sostanziali fra Tripolitania e Cirenaica sono ben descritte. Nella costituzione etnica

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della popolazione tripolitana, l'elemento berbero, ancorché numericamente minore rispetto agli arabi, ha l'assoluta prevalenza in quanto rafforzato da una consistente presenza dei Cologhli, ossia i discendenti dei giannizzeri ottomani e delle donne indigene, la cui origine risale al tempo degli stati barbareschi formatisi durante il XVI secolo in tutta l'Africa del Nord, beneficiari di particolari privilegi durante la dominazione ottomana. Elementi importanti della massa araboberbera sono gli sceriffi (discendenti del Profeta o presunti tali) e i Marabutti, discendenti di qualche santone. La minoranza israelita deriva da quella già stabilitasi in Africa al tempo delle persecuzioni di Antioco, ai quali si aggiungono quelli giunti dalla Spagna in conseguenza delle persecuzioni subite tra il XVI e il XVII secolo, che colpirono anche i "mori". La lingua parlata in Tripolitania è un arabo corrotto, detto arabo-tripolino, mentre è abbastanza diffuso il berbero. Gli israeliti si esprimono nella loro lingua. Dal punto di vista religioso è comune tra gli abitanti la "Credenza Islamica" (sic); gli arabi propriamente detti seguono il rito malechita, i pochi turchi quello hanafita, i berberi l'abadita. La confraternita senussita ha molti aderenti. Circa ventimila i cattolici battezzati. In Cirenaica, invece, la popolazione si divide in cinque categorie "d'ineguale importanza" (sic): "negri" (sic), ebrei, berberi, arabo-berberi, arabi. I ne(g)ri sono i discendenti degli antichi schiavi portati sul mercato di Bengàsi dalle carovane negriere che razziavano i villaggi del centro dell'Africa fino a pochi lustri or sono. Costituiscono un ventesimo dell'intera popolazione e sono quasi tutti concentrati a Bengàsi. Gli ebrei, che alla pari di quanto avvenne in Tripolitania si stabilirono in Cirenaica sin dal tempo di Antioco Epifano, crebbero sensibilmente di numero durante l'impero di Augusto e riuscirono a dominare il territorio per molto tempo, costringendo i romani a dure repressioni per la riconquista. E' scritto testualmente: "La razza ebraica presenta notevoli campioni di purezza avendo come ovunque evitato con gran cura gli incroci specialmente in linea maschile. Le donne sono generalmente piacenti e fra gli uomini stessi si nota un che di dignitoso nel portamento che non è frequente rilevare in altre contrade dell'Africa". L'elemento berbero, totalmente assorbito dagli arabi, a differenza di quello tripolino, ha perduto con la lingua anche ogni concetto della propria origine e per trovare "gli ultimi esemplari puri di questa razza" (sic) occorre recarsi nell'oasi di Augila (350 km a sud di Bengasi, in pieno deserto, ndr). Le tribù più numerose che appartengono alle due grandi categorie dei Saàdi e dei Marabtin sono le seguenti: el-Abeidàt, el-Dòrsa, el Mogàrba, el-Auaghìr, el-Brahasa, el-Orfa, el-Abid. Come in Tripolitania, ogni tribù o gruppo etnico si divide in sotto-tribù o in "cabile" (raggruppamenti di popoli islamizzati; ndr) aventi ciascuno un nome proprio e costituenti un vero nucleo omogeneo. Questi gruppi si dividono in "Ailet", riunioni di più famiglie che hanno origine da un ceppo comune, a loro volta suddivise in "Bet", riunioni di individui legati da vincoli di stretta parentela. La lingua parlata in Cirenaica differisce dal dialetto arabo utilizzato in Tripolitania e nelle città quasi tutti parlano italiano. Dal punto di vista religioso la maggioranza della popolazione segue il rito musulmano malechita ed è abbastanza consistente anche la componente senussita.


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LA CONOSCENZA FONTE PRIMARIA DI SAPIENZA Perché ho scritto queste cose? Perché non vi è problema attuale, a qualsiasi latitudine, che non affondi le radici in tempi lontani o addirittura remoti. Solo la perfetta, completa e reale conoscenza di tutti gli intrecci, dei grovigli, delle complesse realtà sociali dipanatesi nel corso dei secoli, ci consentono (o per meglio dire: ci consentirebbero) di avere un quadro sufficientemente chiaro per assumere le giuste decisioni sulle varie problematiche. La storia dell'umanità, invece, in particolare negli ultimi due secoli, non è altro che un susseguirsi di eventi scaturiti dalla profonda "ignoranza" di coloro che li hanno determinati. Oggi tutti parlano dei problemi dell'immigrazione dall'Africa e dal Medio-Oriente, per lo più a vanvera, senza avere un minimo di conoscenza di ciò che realmente accada da quelle parti, presumendo di sapere tutto grazie ai media. Magari i più attenti riescono anche a mettere in ordine i fatti, cosa di per sé già complicata, ma senza un'adeguata conoscenza del passato, non potranno mai inquadrarli nella loro giusta ottica. Al di là delle cose scritte e delle tante non scritte solo perché non è possibile per ragioni di spazio, il mio papà, che era un attento osservatore, me ne ha spiegate tante altre che mantengo riservate per tre semplici ragioni: non voglio che siano strumentalizzate; non voglio che siano messe in discussione; soprattutto non voglio che si possa dubitare che mi siano state effettivamente riferite. Sono le deduzioni di un uomo straordinario, che sapeva cogliere le sfumature dei dettagli e sapeva capire la natura umana come pochi. E' grazie a lui se ho imparato a non fidarmi delle apparenze. Ed è grazie a lui se, sull'Africa, ho idee così chiare da poter giungere a conclusioni difficilmente condivisibili in modo razionale. Sono ben riferibili, invece, le tante cose che mi ha fatto scoprire con dati di fatto tangibili, anche se è complesso riportarle nella loro interezza. Nel mastodontico testo "Gli annali dell'Africa Italiana", per esempio, (595 pagine ricche di documenti e foto, edito nel 1940) vi è un articolo di Riccardo Astuto intitolato: "Soluzione del problema dell'Africa". La sua lettura è illuminante e forse sarebbe il caso di pubblicare il testo, integralmente, in un prossimo numero di "CONFINI". In un articolo di settantotto anni fa vi sono risposte a problemi attuali, perché ne vengono scandagliate le cause recondite. Senza alcun merito e solo perché il caso ha voluto farmi nascere da due persone meravigliose che si chiamano Lorenzo Lavorgna e Giuseppina Federico, ho avuto modo di perfezionare un percorso di conoscenza che mi ha spalancato le porte su scenari nebulosi, ovviamente non solo afferenti all'argomento di cui parlo in questo articolo, dandomi la possibilità di navigare in essi senza perdermi. Alla luce di questa conoscenza ho maturato il convincimento che tutto ciò che oggi si stia facendo per fronteggiare l'esodo dalle zone martoriate dell'Africa sia sbagliato. E' sbagliato, però, anche pensare di poter risolvere il problema "aiutandoli a casa loro", perché ciò è impossibile.

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E' sbagliato, soprattutto, ciò che si pensi della Libia e ciò che si faccia con i suoi governanti, o peggio, con altri soggetti. L'unica alternativa, pertanto, è quella che mi suggerì il mio papà, tanti anni fa, quando dopo una bella lezione di storia discutemmo anche di Gheddafi che aveva cacciato via gli italiani. In quella circostanza previde, con straordinaria lucidità analitica, tutto quello che sarebbe successo dopo, mentre le lacrime gli roteavano negli occhi, pensando alla "sua bella Libia", finita nelle mani di un tiranno. Non chiedetemi cosa disse. Non è ancora giunto il momento per certe verità e una verità che giunga prima che il tempo sia pronto ad accoglierla si trasforma solo in un ballon d'essai, destinato nel tempo a perdersi, come le famose lacrime nella pioggia. Lino Lavorgna


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LO “SCATOLONE” DI GAS E PETROLIO Francia, Italia, Regno Unito, Russia, Cina, Usa, Egitto, Turchia sono i principali Paesi "attenti" alla Libia, in particolare al suo petrolio ed al suo gas. Petrolio e gas presenti in varie proporzioni nelle tre regioni libiche: Cirenaica, Tripolitania e Fezzan. La prima e parte della seconda, sotto il rigido controllo del maresciallo, ora generale per autopromozione, Khalifa Haftar, la seconda sotto il fragile controllo del primo ministro Faiez Serraj, il cui governo fu riconosciuto dall'Onu, la terza sotto l'alternante e conflittivo controllo di tribù rivali: tra le più importanti Tuareg e Tebu e di carovanieri dediti ai più svariati traffici, a partire da quello di esseri umani. In tale quadro, di per sé complesso, si aggiungono le strategie dei Paesi "attenti" e dei loro servizi segreti. Va rilevato che la Libia confina con Egitto, Sudan, Ciad, Niger, Algeria e Tunisia. L'Egitto ambisce ad un ruolo di potenza regionale. ll Sudan è molto legato alla Cina cui fornisce il petrolio. Il Ciad, ex francese, possiede petrolio sfruttato da Exxon ed Elf e giacimenti di uranio non ancora attivi. Cina e Taiwan sono interessati al petrolio e all'uranio. Il Niger, ex colonia francese, possiede miniere di Uranio sfruttate stabilmente dalla Francia, petrolio, carbone e oro. E' da tempo in corso un contenzioso con l'Areva, la società pubblica francese che si occupa di centrali nucleari e concessionaria delle miniere di uranio al fine di ottenere maggiori benefici economici, Cina e Russia sono altamente interessante ad entrare nella partita. L'Algeria, ex colonia francese, è ricca di gas e petrolio venduti a usa, Italia, Spagna e resto dei Paesi Ue. La Tunisia, ex francese, ha strette relazioni con la UE ed, in particolare, con Francia e Italia, possiede 12 campi petroliferi. Come si comprende l'intera area ha un grande appeal energetico e la cosa fa gola a molti. Di recente la Russia, che in un primo tempo sembrava appoggiare Haftar, ha assunto una posizione equidistante ed ha proposto un piano per la stabilizzazione della Libia a partire dalla pacificazione del Fezzan anche con aiuti umanitari ed economici. Motivazione ufficiale contenere i flussi migratori verso l'Europa ed in particolare l'Italia. In realtà il suo interesse è quello di accrescere il suo ruolo nell'area. Allo scopo ha nominato un suo delegato per la Libia: Lev Dengov. Frattanto nelle ultime settimane è iniziato un tentativo armato di destabilizzazione del governo di Tripoli da parte delle milizie che detengono il controllo della parte meridionale della città.

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Tale tentativo, culminato con la chiusura dell'aeroporto di Tripoli, ha fatto traballare il governo ed aumentare le ambizioni di Haftar ad essere il riunificatore della Libia. Difficile fare previsioni, alla luce dei fatti si può solo rimpiangere Gheddafi e la sua capacità di tenere insieme, sia pure da dittatore e col pugno di ferro, la miriade di tribÚ, etnie e sette religiose che popolano la Libia e maledire la Francia e l'Inghilterra che lo vollero morto. Pierre Kadosh


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MANIE DI GRANDEZZA Recep Tayyip Erdogan non è solo il capo assoluto della Turchia è anche il capo di stato con l'aereo presidenziale più grande e lussuoso che sia mai stato prodotto. Ufficialmente glielo avrebbe regalato l'emiro del Qatar, Tamim al Zani, per gratitudine verso il suo più stretto alleato, un "presente" da 400 milioni di euro. Le malelingue turche dicono invece che si sarebbe trattato di un acquisto sotto mentite spoglie, comunque un ghiotto argomento per le opposizioni. Di Boeing 747-8i ce ne sono solo una decina al mondo, tutti lussuosamente personalizzati. L'emiro del Quatar, formalmente prima del regalo, ne possedeva 2. Ma i colori di bandiera ora sono turchi. Ora Erdogan potrà presentarsi alle riunioni Nato mostrando a Trump che il suo aereo è più lungo e più bello, almeno fin quando al Presidente Usa non saranno consegnati i due nuovi aerei che ha ordinato, stessa marca e modello. L'aereo, difatti, che sarebbe il più costoso del mondo, ha diverse camere da letto, bagni con idromassaggio, sale riunioni, salotti, bar e persino un piccolo ospedale. Può portare 70 passeggeri - invece dei 500 di un 747 di linea - oltre a 18 membri di equipaggio. Ne posseggono uno simile i capi di stato del Kuwait, del Brunei, dell'Oman e del Marocco. Certo con la crisi della lira turca la storia dell'aereo appare stridente, tuttavia il buon emiro del Quatar ha già annunciato che investirà - per solidarietà - 15 miliardi di dollari in imprese turche. Nel frattempo, a Istanbul, di sta costruendo l'aeroporto più grande del mondo. Gustavo Peri

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L’INTERNAZIONALE DELLE TOGHE ROSSE Questa è davvero indecente ed evoca i metodi peggiori del comunismo sovietico e cinese. Ricorda Aleksandr Solzhenitsyn ed il gulag quale rimedio contro la dissidenza. Il tribunale francese di Nanterre, cittadina poco lontana da Parigi, lo scorso 11 settembre, ha ordinato a Marine Le Pen, leader della destra francese, di sottoporsi ad un esame psichiatrico. Il reato contestato? Aver pubblicato su Twitter, nel 2015, foto di esecuzioni jihadiste da parte del sedicente Stato islamico (Is o Isis). Sempre su Twitter la Le Pen ha pubblicato l'avviso giudiziario con il seguente commento: "Per aver denunciato gli orrori di Daesh la giustizia mi sottopone ad un esame psichiatrico!". La leader di Agrupación Nacional, nel dicembre 2015 aveva pubblicato sul suo account Twitter le immagini delle esecuzioni praticate dall'Is in risposta a un giornalista francese che aveva equiparato quel gruppo terroristico con il Front National, il precedente nome della sua formazione politica. In risposta la Le Pen aveva pubblicato 3 foto di decapitazioni con il commento: "Questo è l'Is". Nella notifica del tribunale si richiede al medico designato di stabilire se l'infrazione che si imputa è in relazione a "elementi fattuali o biografici della parte interessata". La corte chiede anche al medico di stabilire se al momento in cui ha pubblicato quelle foto avesse un problema psichico che poteva influenzare il "controllo delle sue azioni" e se l'esponente politica della destra "è in grado di comprendere le domande poste o soffre di "anomalie mentali o psichiche. " Marine Le Pen ha reagito opponendosi legalmente al provvedimento. "È assolutamente incredibile. Questo regime comincia davvero ad essere spaventoso ", ha denunciato la Le Pen, la cui eventuale condanna per "diffusione di un messaggio violento" potrebbe significare fino a tre anni di carcere e una multa fino a 75.000 euro. P.K.


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SERGIO MARCHIONNE, UN GRANDE ITALIANO? Il 26 luglio scorso La Stampa dava l'annuncio del decesso di Sergio Marchionne con il titolo in gran rilievo "Sergio Marchionne - Addio a un grande italiano"; un sottotitolo parlava delle sue grandi qualità di innovatore. Sul momento il titolo mi parve scontato: innovatore certamente lo fu; quanto al "grande italiano" mi suonò come il classico riconoscimento a personalità eminente del Paese nel momento di consegnarla, già mummificata, all'immaginario museo delle glorie patrie (tipo Marconi o Toscanini). Dopo qualche istante compresi che qualcosa non andava: quel titolo era semplicemente sbagliato, ed era la prova di quanto poco questo paese avesse compreso la personalità di Sergio Marchionne. Marchionne non fu mai - nel senso che intendeva La Stampa - un "italiano", perché non fu solo né principalmente italiano: fu altrettanto o di più canadese / americano. Fu quello l'ambiente che lo formò e attraverso il quale prese conoscenza della modernità, fu quella la palestra mentale e professionale che lo attrezzò a diventare "grande" come manager: in realtà non solo "grande" bensì, per la FIAT e l'Italia, un manager con una marcia in più in ragione delle sue origini, perché capace di capire, in un mondo globale in cui era chiamato ad innovare, anche altre società che da tempo avevano smesso di farlo. Incontrai Marchionne una sola volta a Toronto, nella mia veste di ambasciatore d'Italia in Canada. Eravamo presenti entrambi a una di quelle convenzioni di associazioni italo-canadesi per le quali la presenza di S.E. l'Ambasciatore venuto espressamente da Ottawa non significava praticamente nulla. Quella di Marchionne, all'epoca già in predicato per diventare quel che poi diventò, significava tutto: se lui è qui noi siamo importanti; se uno come lui ci riconosce vuol dire che la nostra identità ancora esiste. Così manifestamente la audience interpretava la sua presenza e quel che diceva. Io assistevo, quidam de populo, tra i 1500 convenuti e guardavo l'oratore Marchionne che intratteneva il pubblico non da dietro la "lectern" come avrebbe fatto qualunque oratore canadese ma direttamente dal palco, come un padrone della scena. Parlò per una trentina di minuti, ovviamente a braccio. Ciò che mi colpì subito fu che parlava alternativamente in italiano (perfetto) e in inglese (altrettanto perfetto) a seconda del settore del pubblico a cui si dirigeva e dell'argomento che toccava. L'unica parte di lui che mutava posizione nella performance era lo sguardo. Lo switch avveniva nel cambiare la direzione degli occhi. Marchionne parlava -e pensava- in inglese o in italiano in funzione dell'interlocutore, della capacità di comprendere che quello aveva e del suo interesse per il tema. Era un Giano bifronte, raro ed affascinante.

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Finito il suo intervento, lo avvicinai. Mi parve un po' sorpreso (e non particolarmente interessato) a essere contattato da un diplomatico italiano. Tagliando corto gli dissi che lo vedevo perfetto come sponsor per un programma di formazione di quadri pubblici e privati italiani da realizzare in Canada. Mi chiese che tipo di quadri avessi in mente. Non fu difficile rispondergli: "Li vorrei esattamente come lei, non solo perfettamente bilingui ma sintonizzabili alternativamente sulla realtà italiana e su quella mondiale". "Vediamo", mi rispose. "Mi faccia sapere." Restammo in contatto per un po'. Poi lui diventò Sergio Marchionne. Con molta urbanità mi fece sapere sei mesi dopo che si ricordava perfettamente del progetto, ma che ormai non aveva più il tempo materiale per seguirlo. Designò a farlo un quadro Fiat - persona gentile ma un po' spaesata con l'idea. Inutile dire che il progetto non vide mai la luce . A differenza di tutto quel che ho sentito nei necrologi prima e dopo la sua morte, Sergio Marchionne era tutt'altro che un "italiano", se per italiano si intende il tipo umano ambiguo e vigliacchetto che da tre generazioni si è defilato dalla Storia e campa ignorato dal e ignorante del mondo globale in cui (per fortuna) riesce ancora a sopravvivere come un topo nel formaggio. Aveva un grande affetto per la madre, che viveva a Toronto e che regolarmente visitava, ma ricordare alcune sue radici abruzzesi non significava sentirsi legato all'Italia - sicuramente non all'Italia che ha ritrovato tornando per capitanare la FIAT. Avrei voluto chiederglielo, quando, ormai in pensione, vivevo a Torino a un centinaio di metri dalla sua residenza alla Crocetta: Ma ne è sicuro, Dottor Marchionne, ora che ha visto bene l'Italia, che quel progetto di formazione di quadri nuovi di cui le accennai a Toronto non sia veramente da mettere in piedi? Cinquecento, mille unità, per iniziare basterebbero, sotto la sponsorship di una FIAT guidata da lei, vincente. Tutti come lei: senza timore di analisi crude e giuste, senza esitazioni sui valori che, come quelli della società americana che lei ben conosce, un tempo - mutatis mutandis - furono anche quelli dei nostri padri, senza burocrazie e regole pletoriche (le due cose si tengono). Dei quadri, insomma, fatti per un paese di cittadini operosi ed onesti, che gli italiani ancora in maggioranza sono, e non solo per gli azzeccagarbugli. Gabriele Sardo


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L’OSTERIA DELLA STORIA Di sicuro c'è che tutto stia accadendo sotto i nostri occhi. Purtroppo, il tormentone politico/mediatico relativo al fenomeno in parola riguarda SOLTANTO la dialettica sulla GESTIONE di tale imprevedibile patologia con la conseguenza che, almeno per il momento, i responsabili deputati a tale incombenza producano unicamente velleitarie proposte terapeutiche sicuramente inefficaci nel medio/lungo periodo. E null'altro. Mi spiego : il dibattito pubblico italiano sull'emigrazione dall'Africa nera verso l'Europa è caratterizzato: 1) da una sconcertante confusione - appunto, democratica (!) - in merito alla lettura degli accadimenti, 2) da una mancata, sia pure elementare, analisi dell'evento alla luce di una prospettiva storica di più ampio respiro (almeno manifesta) e 3) da lunari proposte "profilattiche" del tutto prive di qualsiasi seria diagnosi della "patologia" e degli essenziali dati anamnestici caso. spirituale audacia temeraria del igiene In parole povere: l' "Oste della Storia" sta presentando il conto, ma non si capisce ancora bene cosa stia effettivamente succedendo. Il sadico ristoratore infatti non consegna, purtroppo come tutti i suoi umani colleghi, il foglietto dell' "addition" ben ripiegato sotto l'ultimo bicchierino di ammazzacaffè. No; al termine del pranzo egli finge di distrarsi, guarda altrove, consente all'incredulo avventore di sgusciare via dalla taverna indisturbato, di dileguarsi e di vivere poi sereno e del tutto dimentico del debito contratto. Passano due o tre secoli, ed almeno una dozzina di generazioni, ed ecco che il fatidico pezzetto di carta viene improvvisamente recapitato (non di certo all'originario consumatore della bella abbuffata, ormai defunto da lunghissima pezza), ma bensì ad un ignaro e distratto pronipote immerso - come egli si trova oggi - nella frustrante gestione di un incolto e consumistico "perenne presente", orbato da qualsivoglia memoria storica. L'"addition" in parola provoca quindi sgomenta sorpresa, angoscia e rabbia in quanto essa viene vista come frutto di un gratuito ed inesplicabile sadismo della Storia (perchè proprio a me, a noi ?!). E si, cari contemporanei della nostra bella Europa! Proprio a voi che, mancando di qualsivoglia cultura di tipo comparativo, potreste considerarvi con qualche legittima ragione (poveri voi!), vittime di un'apparente ingiustizia perpetrata da un cinico fato oppure, se non altro, da una stramaledetta sfiga. Ma rassegnatevi, in ciò che vi sta capitando non vi è nulla di non dovuto e

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niente che, da parte vostra, possiate fare. Il conto è certamente corposo e salato, ma onesto. Mettetevi quindi il cuore in pace e riflettete con calma sul vostro debito verso la Storia. Fuor di metafora I barconi che, carichi di neri, attraversano il Mediterraneo verso le coste del nostro continente (con tutto ciò che ne consegue per le parti in causa, sia in termini attivi che passivi) sono un assaggio di ciò che l'Occidente europeo di matrice cristiana verrà chiamato a pagare nei prossimi decenni, come forma di doveroso contrappasso (ieri, NOI da LORO, oggi LORO da NOI). Ciò a cagione di tre imperdonabili DELITTI o, peggio, ERRORI (Talleyrand dixit) perpetrati nei confronti dell'Africa nera nel corso degli ultimi tre secoli di storia : ERRORE: a) MORALE il primo, b) di MIOPIA il secondo, c) di STUPIDITA' il terzo. Quali? Eccoli : a) Errore MORALE e cioè il FEROCE SCHIAVISMO b) Errore CULTURALE e cioè il MIOPE COLONIALISMO c) Errore TECNICO e cioè la STUPIDA COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO. E cominciamo : Lo SCHIAVISMO E si, era estremamente facile razziare branchi di umani (considerati senz'anima in quanto ignoranti del nostro cristianesimo), che si muovevano nomadicamente da cacciatori e pastori (ma non ancora stanziali agricoltori e quindi fondatori di città - cioè di Civis, cioè di "Civiltà") nell'immenso territorio dell'Africa nera. Null'altro che un bene economico, potenziale bestiame da catturare ed addestrare alla soma nei paesi degli schiavisti. Il danno all'identità individuale ed al tessuto di relazioni sociali con la conseguente frattura di ancestrali, consolidati equilibri tra umanità, territorio, risorse animali e vegetali che consentivano a quel continente un saldo perennemente paritario tra esigenze esistenziali e risorse disponibili, fu in brevissimo tempo, tragico ed irreversibile. Naturalmente a chi più ebbe beneficio dai proventi del "delitto/errore", e cioè gli Stati Uniti d'America, più sottile, perfido e quindi doloroso fu il "conticino " presentato loro dal nostro amico OSTE. In effetti il mondo non si è mai fatto mancare nei millenni forme di feroce asservimento dell'uomo sull'uomo, ma nel caso dello schiavismo africano, soprattutto in America (il peggiore di tutti) la situazione fu molto differente. Gli schiavi, ad esempio, dell'impero cinese, dei regni indiani, dell'impero romano, frutto anch'essi si spietate conquiste e sopraffazioni, avevano tuttavia una caratteristica comune. In tali contesti padroni e servi appartenevano generalmente alla stessa "razza" o almeno ad una simile coloritura di pelle. Ad esempio lo schiavo romano (ma analogamente, pur nelle loro rispettive diversità, il cinese o l'indiano) di provenienza soprattutto europea o almeno euroasiatica, diventava, all'indomani del decreto dell'imperatore che lo rendeva liberto e "civis romanus", del tutto indistinguibile dalla maggioranza degli altri abitanti della stessa città. Abramo Lincoln purtroppo non tenne presente, a suo tempo, tale particolare


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aspetto del fenomeno per cui "once black, always black" e, nonostante la liberazione, i diritti civili e pesino l'elezione di un Presidente federale nero, il problema razziale negli USA è ancora, e purtroppo, presente anche se talvolta sottotraccia. Il nostro perverso "ristoratore" ha, in questa occasione, non soltanto presentato il suo conto, ma versato altresì nella minestra un dose di veleno sociale ad effetto immediato e sicuramente più sottile e micidiale (la colpa MORALE americana è stato infatti più grave delle altre due soprattutto europee). Il dovuto richiesto è stato quindi tempestivo, particolarmente salato ed intrinsecamente dirompente. All'Africa nera fu inferto in tal modo un primo, durissimo colpo. Il COLONIALISMO Il delitto di miopia del colonialismo, se mai fosse stato possibile, fu ancora più dirompente del precedente misfatto schiavistico. Imperdonabile errore, il colonialismo, frutto di carenza culturale, di egocentrico solipsismo, di totale mancanza di considerazione del "diverso". Sotto i padroni bianchi, i cacciatori/pastori neri sono stati fatti diventare, udite, udite, superbi giocatori di ... ..cricket ... e cultori del tè alle 5 del pomeriggio(!). Da perfetti gestori millenari del proprio ambiente correlato ad adeguata cultura e relative tecniche, essi sono stati trasformati forzatamente in eredi (di facciata) di incomprensibili "Stati di Diritto" (Platone, chi era costui ?), in formali imitatori di una sorta di (per loro, inconcepibile/incomprensibile) democrazia in quanto basata su una, ai loro occhi, innaturale parità tra gli esseri umani. Sorta di eguaglianza questa che, nella legge della savana imperante fino a qualche decennio prima, sarebbe stata inimmaginabile, deleteria, pericolosa, inutile e foriera di sicuri disastri. Un esercizio quindi sterile e dannoso. Concorderete inoltre con me, gentili lettori, come non vi sia traccia alcuna negli archivi delle Cancellerie europee di qualsivoglia documento che faccia stato di una richiesta dei popoli neri dell'Africa di venire "civilizzati" dai bianchi o pallidi che dir si voglia. Al contrario vi è ampia testimonianza di come detti portatori di "civiltà" (di tipo economico, sociale o religioso che sia) siano stati accolti con la più manifesta ostilità. Una prova di tutto ciò ? L'ignominiosa fuga del "tutti via, di corsa a casa" con cui, dopo il secondo conflitto mondiale, l'insieme delle potenze coloniali - tutte, dico tutte - imperanti in contesti, diciamo etnici, si sono dileguate dai loro possedimenti lasciando soltanto in piedi forse la pudibonda foglia di fico del Commonwealth britannico (naturalmente escludendo da ciò stati occidentali e bianchi come il Canada, l'Australia o qualche altro stato prettamente di contorno, tanto per gradire). L'elenco dell'eredità degli orrori? Il conflitto indo-pakistano, quello Biafra- Nigeria, le guerre civili in Angola e Mozambico, il conflitto arabo-israeliano, la guerra d'Algeria, il conflitto etiopicoeritreo, la guerriglia in Mauritania, lo sfascio della Somalia, le tragedie del Sudan e dell'Uganda, la patologia del Sud Africa dell'apartheid... e mi fermo qui per mancanza di fiato. Tale "cura" cristiano-occidentale ha inferto all'Africa un irreversibile colpo mortale distruggendo la millenaria, perfetta dialettica tra popolazioni e territorio che funzionava impeccabilmente sin

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dal primo apparire dell'"homo sapiens" qualche milione di anni fa, appunto in Africa. La sconvolgente conseguenza che ne è derivata è stata che gli autoctoni abitanti di quella che fu la PRIMA dimora dell'essere umano si siano ritrovati, in meno di due secoli, del tutto "stranieri" nella loro terra. Essi non sono stati più in grado (nel tempo storico di un "fiat") di relazionarsi con la loro patria stravolta da culture importate, incomprensibili nei valori e del tutto inadatte alla consolidata realtà di quello che fu, una volta, lo splendido Continente nero. E colui che non si ritrova più in casa propria quando la terra madre diventa matrigna, non può fare altro che andare VIA. Gli africani quindi NON fuggono - come la vulgata politico / giornalistica vorrebbe farci credere - da guerre e povertà. Essi SCAPPANO dalla STORIA e tale fuga non può assolutamente essere arrestata La COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO E veniamo infine, e questo è davvero imperdonabile, alla CONSAPEVOLE STUPIDITA' (no, non è un ossimoro!) che ha guidato - ed ancora si auspica di realizzare - la Cooperazione internazionale per lo Sviluppo dell'Africa nera, bilaterale o multilaterale che essa sia. Facendo pervicacemente finta di aver dimenticato - per non doverne fare onestamente i relativi conti e considerandoli per come mai verificatisi - i due misfatti di schiavismo e colonialismo si è voluto sadicamente perpetrare l'ultimo e tombale delitto nei confronti di quelle popolazioni con la FINTA carità pelosa della cosi detta Cooperazione allo Sviluppo. Somme enormi allocate, scaturenti unicamente dall'insopprimibile senso di colpa (di facciata) dell'Occidente cristiano e presentate come lavacro, prettamente formale, dei trascorsi "peccati" nei confronti dei neri (mi concentro soltanto sull'Africa sub-Sahariana, tralasciando volutamente altri scacchieri, ma è a quelle popolazioni che guarda, soprattutto, la preoccupata Italia vacanziera). Alleviarne la povertà, favorirne lo sviluppo? Ma per carità! I veri beneficiari di tutte le iniziative di "cooperazione" sono stati, nell'ordine: 1) Le imprese appaltatrici, sia nazionali che internazionali, dei vari programmi/servizi, 2) I vertici dei governi africani in barba alle più essenziali esigenze della rispettive popolazioni, 3) I funzionari nazionali ed internazionali gestenti le varie iniziative di intervento, 4) I politici "politicanti", ma all'unico scopo di poter sbandierare ai quattro venti i loro presunti meriti "solidaristici". E non mi si venga a dire che alcuni programmi sanitari e/o agricoli di massa abbiano fatto il bene delle popolazioni. Lo spostare ogni volta di poco più in là la soglia del ripetitivo, tragico ma ineludibile appuntamento dell'Africa con il DOLORE non ha fatto altro che posticipare di qualche anno l'avvento e le dimensione delle crisi. Crisi vere, anche se manifeste in forme del tutto differenti ed al tempo imprevedibili. Ad esempio, la sottrazione di poveri bambini a decessi neonatali (impresa certamente "spot" e, date le circostanze, assolutamente del tutto giusta e sacrosanta). Ma, mi domando: prima del colonialismo, qual'era colà il vero rapporto nascita/morte nel primo anno di vita? Onestamente non lo so, (ma temo che il problema non fosse così drammatico).


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Temo però che il miope entusiasmo interventista di tante anime belle precipitatesi a salvare gli africani animate dalle migliori intenzioni - ma non hanno essi riflettuto sul fatto che la cosiddetta via dell'inferno sia spesso lastricata dalle migliori di esse? - ha creato, al contrario, le forse involontarie, ma evidenti, precondizioni di una crescita senza speranza di giovani leve frustrate, disperate e sulla via di fuga. Avrebbero dovuto riflettere gli (forse) ingenui entusiasti e (stranamente) generosi europei sul fatto che nella loro cultura storica esiste ancora memoria di un qualcuno che disse : " non di solo pane vive l'uomo" e mi permetto, sommessamente, di aggiungere "anche di sogni" e quindi di ineludibili, adeguate esigenze di vita di tipo spirituale, morale e socio-economiche. Chi scrive è siciliano e quindi ben consapevole di cosa sia una storica, tragica necessità/esigenza di emigrazione. Gli africani invece, e sin dai tempi dello schiavismo, non sono mai stati considerati da noi europei veramente degli umani alla nostra pari, ma soltanto individui bisognosi di mera sopravvivenza fisica. Ci si è limitati unicamente a pensare: "aiutiamoli a sopravvivere OGGI con il minimo indispensabile (vaccinazioni di massa ed aiuti alimentari d'emergenza su base episodica)". Poi, per il loro futuro, "inshallah". *** Guardiamo quindi la realtà in faccia senza ipocrisie e/o paure. Sui barconi (o navi delle ONG che siano) in rotta nel Mediterraneo verso l'Europa naviga il colpo definitivo e mortale alla nostra bimillenaria civiltà greco-romano-cristiana. La partita infatti, comunque vada a finire, si concluderà, per noi europei con una epocale e cocente SCONFITTA MORALE. Qualora infatti si dovesse decidere di contrastare tale flusso con una qualsiasi forma di opposizione "violenta", di "forza" con le relative, inevitabili perdite di vite umane, dirette o indirette e con le sofferenze ed ingiustizie che ciò comunque comporterebbe, la coscienza giuridica, umanitaria, morale e storica di noi europei ne uscirebbe irrimediabilmente distrutta e, con essa, la fine della nostra bimillenaria identità. Non saremmo più in grado, come suol dirsi, di guardarci allo specchio. Se al contrario si consentisse l'inarrestabile flusso di nuove genti inconciliabili per mentalità, costumi e lettura del mondo con quanto noi si è andato costruendo nei secoli, diluiremmo allora a tal punto la nostra identità "nazionale europea" da non sapere più - ed il tutto purtroppo in tempi relativamente brevi - chi siamo, da dove veniamo e quindi dove potremmo pensare di andare. Sarebbe il colpo finale - ma attenzione, in modo subdolo, impalpabile e senza l'uso di alcuna violenza percepibile - alla definitiva dissoluzione della civiltà occidentale attraverso un'invasione di gente "straniera" che avrà più a che vedere con l'inconciliabilità delle culture piuttosto che di quella concernente il colore della pelle. Ciò segnerà il termine di un galoppante processo di destrutturazione endogena europea iniziatosi ad accelerare in modo travolgente a partire dall'immediato, secondo dopoguerra. A questo punto l'Africa nera - scardinandoci, senza colpo ferire, dalla nostra radice socio/culturale - ci avrà allora reso identica pariglia ovvero, come suole dirsi, " pan per focaccia".

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Il nostro conto con l'Oste della Storia sarà allora stato definitivamente saldato e questi non avrà piÚ nulla a pretendere da noi. P.S. Prego infine il gentile lettore di darmi un'ulteriore prova di pazienza oltre a quella fin'ora riservatami: Se dovessi aver dato l'impressione che chi scrive abbia mostrato posizioni riconducibili ad una qualche forma di "razzismo", invito cortesemente a ricredersi. Il sottoscritto si ritiene del tutto impossibilitato, quasi per ragioni "genetiche", ad essere razzista, essendo egli convintamente un "classista", cioè uso a valutare le persone dai rispettivi caratteri e comportamenti e non certamente dal colore della pelle o, men che meno, da inesistenti morfologie di presunta "razza". Come credo sia abbastanza evidente, le due forme di lettura del sociale sono assolutamente antitetiche e del tutto inconciliabili tra loro. Grazie. Antonino Provenzano


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IL PIAVE MORMORAVA PARTE VIII - I nodi al pettine e le amare verità INCIPIT "La propaganda disfattista è fatta dagli stessi combattenti" era solito ripetere il Generale Di Robilant, comandante del IV Corpo d'armata, famoso per il suo spirito arguto. "Perché?" - gli fu chiesto un giorno. "Perché dicono la verità: dire la verità è fare del disfattismo". UN ANNO TERRIBILE Il 1917 inizia con le ennesime spigolature tra le forze alleate, emerse nella "Quinta Conferenza Interalleata" che ebbe luogo a Roma dal 5 al 7 gennaio. Ufficialmente fu diffuso un comunicato finale che sanciva il perfetto accordo sulle strategie da seguire; in realtà i dissensi erano profondi e riguardavano sia l'ambito militare sia quello politico e diplomatico. Cadorna propose di sferrare un'offensiva congiunta in primavera, da tutti bocciata, eccezion fatta per il Primo Ministro inglese Lloyd George. Cinque conferenze interalleate non erano servite a saldare i rapporti in modo armonioso e a stabilire una linea condivisa. La responsabilità maggiore dei marcati dissensi va attribuita proprio ai governanti italiani, che privilegiavano gli interessi nazionalistici rispetto alle esigenze di una guerra di coalizione. Si ritorna in guerra con le idee confuse e in un clima d'incertezza, particolarmente sentito dai soldati, che non mancavano di lasciare trasparire il "disgusto" sia per come erano trattati al fronte sia per le notizie che giungevano dal resto del Paese, pregne di critiche da parte di coloro che la guerra la leggevano sui giornali e la discutevano nei salotti. Le ingenti perdite richiedevano continui rimpiazzi e pertanto anche i quarantenni furono richiamati, ancorché impegnati solo nelle retrovie, senza peraltro che ciò alleviasse il dolore e le preoccupazioni delle famiglie, in massima parte private del principale sostegno. Sul fronte avverso si registrava l'intensificazione della guerra sottomarina da parte della Germania, che già nel 1915 aveva turbato il mondo con l'affondamento del "Lusitania". Il 15 febbraio ne fa le spese anche il piroscafo italiano "Minas", che trasportava un migliaio di soldati italiani e francesi a Salonicco: 870 le vittime. In Russia, intanto, un popolo stremato da una guerra che non comprende, disegna una controversa pagina di storia con una rivoluzione antitetica rispetto a quella auspicata da Carlo Marx, per il quale le premesse avrebbero dovuto

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essere il capitalismo industriale giunto al suo massimo sviluppo e un forte proletariato urbano. La grande massa di contadini ridotta alla fame, invece, pur nella limitatezza dello sviluppo industriale, chiuse la partita con una dinastia fallace sotto tutti i punti di vista, illudendosi di soppiantarla con un governo capace di alleviare le pene. Illusione che s'infranse quasi subito: già alla fine di marzo fu sancito il monopolio del grano e la vendita a prezzi controllati effettuabile solo dai rappresentati governativi (con quali nefaste conseguenze per i ceti poveri è facilmente immaginabile) e subito dopo, cedendo alle pressioni degli alleati, il governo accettò di continuare la guerra. Ad Aprile, finalmente, entrarono in gioco anche gli USA. Sui libri di storia è scritto, con reboante enfasi non scevra di reboante retorica, che Wilson riuscì a ottenere il voto favorevole toccando il cuore dei connazionali con il richiamo alle navi mercantili affondate dai sottomarini, a cominciare dal Lusitania (colpito però nel maggio del 1915 e in circostanze, come emergerà molto tempo dopo, che ribaltano completamente la tesi di un attacco contro inermi civili, considerato che la nave trasportava "anche" un consistente carico di armi destinato agli inglesi), per finire col "Vigilantia", colato a picco solo poche settimane prima (19 marzo). La verità, come sempre, ha un sapore più amaro e, al di là del toccante discorso pronunciato da 1 Wilson quando chiese il voto al Congresso , l'insensibilità politica durata ben tre anni fu scossa precipuamente da due fattori: la paura di perdere la riscossione dei crediti maturati grazie alle massicce forniture ai paesi belligeranti amici, in caso di sconfitta; la paura di vedere saldata un'alleanza tra Germania e Messico, che avrebbe consentito al paese sudamericano di riconquistare Nuovo Mexico, Texas e Arizona. L'entrata in guerra degli USA rinvigorì gli alleati e determinò un importante "fenomeno sociale interno" che condizionerà la vita degli americani nei decenni successivi. Prima del 1917 negli Stati Uniti era tutt'altro che ininfluente il partito socialista, che alle elezioni del 1912 ottenne quasi 1milione di voti, pari al 6% del totale. La decisione di schierarsi contro la guerra fu fatale: giornali sequestrati, dirigenti arrestati e l'associazione del termine "socialista" a tutto ciò che potesse configurarsi come "tradimento" e "non americano". Il partito socialista cessò di esistere e senza un partito socialista vero non si crearono le condizioni per lo sviluppo di una vera destra, sociale e democratica, capace di contrapporsi all'illusione marxista. Da qui la nascita di quella distorsione tutta americana che vede alternarsi al potere due partiti farlocchi, che costituiscono una ridicola parodia dei concetti di "destra" e "sinistra" " e si assomigliano non poco nel privilegiare quanto di peggio vi possa essere nella gestione del potere, riuscendo a reprimere con sfrontato cinismo (e ferocia) anche quel poco di buono che, occasionalmente e casualmente, dovesse riuscire ad affermarsi, come nei casi di Kennedy e Obama. DECIMA BATTAGLIA DELL'ISONZO Il sostegno americano alimentò di nuovo la speranza che la guerra potesse terminare presto e con esito favorevole. Dal 9 aprile al 16 maggio un contingente composto da inglesi, canadesi,


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australiani, neozelandesi e soldati del dominio britannico di Terranova attaccò i tedeschi presso Arras, nel nord della Francia, riuscendo a conquistare importanti punti strategici, anche se a costo di numerose perdite: 160mila, più o meno le stesse subite dai tedeschi. Sul fronte italiano, intanto, continua lo stillicidio dei nostri soldati grazie alla dissennata condotta bellica di Cadorna che, nonostante il mancato appoggio degli alleati, decise comunque di sferrare un nuovo attacco nella zona di Gorizia. La battaglia ebbe luogo dal 12 al 26 maggio con esito non dissimile da quelle precedenti: un inconsistente vantaggio territoriale a fronte di 36mila morti e 124mila tra feriti e dispersi. Gli austro-ungarici, dal canto loro, ebbero 17mila morti e 104mila tra feriti e dispersi. La battaglia ebbe un'appendice rappresentata dalla controffensiva austriaca, dal 3 al 6 giugno, che culminò con la disfatta di Flondar e la vigliacca repressione ordita da Cadorna, che proprio non ne voleva sapere di comprendere lo stato di difficoltà oggettiva delle sue truppe e propose al Governo di sciogliere tre reggimenti, composti di soldati siciliani, che a suo dire si erano resi responsabile della pesante sconfitta. Si replicò all'Ortigara, dal 10 al 29 giugno: altra inutile battaglia con un ingente numero di perdite (4500 tra morti e dispersi; 12mila i feriti, ma il balletto delle cifre su questa battaglia perdura ancora oggi e vi sono storici che parlano addirittura di 25mila perdite) e l'ennesima sfuriata isterica di Cadorna, che se la prese prima con "le avverse condizioni metereologiche" (come se fossero valse solo per lui) per poi ripetere la solita cantilena del "diminuito spirito combattivo di una parte delle truppe per effetto della propaganda sovversiva che aveva prodotto le sue tristi conseguenze sul Carso nei primi giorni di quello stesso mese". In realtà i soldati italiani combatterono con ardore, cozzando contro le formidabili difese austro-ungariche e riscuotendo l'ammirazione stessa degli avversari, a riprova che Cadorna era pregno di pregiudizi e assolutamente non in grado di produrre analisi serie e concrete dalle quali trarre insegnamento. I SOLDATI SONO STANCHI Nei capitoli precedenti si è fatto riferimento alla dura repressione inferta ai disertori e a coloro che si rifiutavano di attaccare il nemico, consapevoli di andare incontro a morte sicura. Sul fronte italiano in molti casi si trattava di scegliere tra il morire in combattimento subito dopo aver messo il naso fuori dalla trincea o essere fucilati per codardia. Non vi è guerra, in effetti, che non registri atti di diserzione e di codardia, che però si configurano "pienamente" come tali e incarnano le debolezze di taluni soggetti. Nel caso della Prima Guerra Mondiale, però, l'analisi è più complessa perché investe un numero massiccio di soldati, su tutti i fronti, e in massima parte non si può parlare né di codardia né di diserzione, ma del rifiuto convinto a obbedire agli ordini che si ritenevano impartiti da ufficiali ritenuti non all'altezza del ruolo. Questo comportamento, spesso culminato con una condanna a morte, presuppone una presa di coscienza razionale da parte dei soldati, non scevra di coraggio. In Italia i soldati percepivano pienamente due "scollamenti": quello con il Paese e quello con gli ufficiali, attenti alla carriera, a

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pararsi il sedere e, salvo casi eccezionali, che proprio perché tali non fanno testo, cinicamente disponibili a passare sui loro cadaveri rispettando in pieno il principio del "mors tua vita mea". A tal proposito val la pena di citare quanto argutamente osserva Curzio Malaparte2: "La nazione non aveva ancora capito che la guerra che si stava combattendo era un'agonia terribile, senza uno sventolio di entusiasmo, senza un momento di bellezza eroica: era rimasta affondata nella vecchia concezione della "bella morte" e dell'atto eroico. Quando i fanti scesero dalle trincee per la prima licenza invernale, nessuno quasi si accorse di quegli uomini seri, sudici, logori, che passavano in silenzio senza sventolare bandiere e cantare inni di guerra. Lo spettacolo di quelle interminabili tradotte piene di popolo sbrindellato e grave, faceva pena e noia. Quei soldati avevano l'aria di uscire da una prigione. Non dovevano avere molto coraggio, pensavano i pacifici borghesi, se la guerra li aveva ridotti in quel pietoso stato di abbattimento. La guerra, invece, nell'immaginazione di quelli che erano rimasti lontani dalle trincee, era sempre la bella lotta in campo aperto, nel sole, con le bandiere spiegate e i colonnelli a cavallo alla testa dei reggimenti bene allineati e ben vestiti, con zaino e scarpe nuove. E sole e sole e sole. E la gioia di morire per l'Italia bella, giardino del mondo, madre di civiltà, imitando le gesta degli antichi romani e dei nostri eroi del risorgimento! E i morti col sorriso sulle labbra, pietosamente raccolti sul campo dalle dame della Croce Rossa, sorelle buone tergenti il sudore dalle fronti eroiche: " muoio contento per la patria mia!" E fiori! Fiori agli eroi!" […] Il fante ritornava in linea disgustato della nazione. Vi ritornava profondamente mutato: qualcosa germinava nel fondo della sua coscienza. Perché battersi? Perché soffrire? Perché morire? Per chi, dunque? Per la nazione. Per il suo bene, per la sua grandezza, per la sua gloria. Ma che faceva la nazione per rendersi degna di lui, per dimostrargli la sua gratitudine, per fargli sentire il battito del grande cuore accanto al suo povero scheletro condannato a sacrificarsi? Niente. Anzi: faceva di tutto per fargli capire che il suo sacrificio, in fondo, aveva qualche cosa di grottesco. [Continua con il tributo ai francesi e ai tedeschi, che lo scrittore vedeva partecipi delle sofferenze dei propri soldati. Ndr]. Ma il fante dell'Italia, l'umilissimo e cristianissimo fante analfabeta, sentiva salire fino a lui, dal paese, il tanfo di marcio e di vigliaccheria, l'insulto di una nazione che si ostinava a non capire, a non soffrire, a non benedire il suo spasimo. Sacrificarsi è necessario, quando la patria lo vuole e lo ordina. Ma sacrificarsi per la patria, quando questa continua a vivere la sua grassa vita, insultando, per idiozia o per vigliaccheria, chi muore e chi dolora per lei, è ridicolo e stupido". Al di là del tributo al popolo francese, senz'altro poggiato su basi veritiere, la stanchezza per la dura guerra e il suo rifiuto s'incunearono prepotentemente anche nelle truppe d'oltralpe, ingigantendosi smisuratamente rispetto ai pur numerosi episodi registrati negli anni precedenti. Il primo giugno un reggimento di fanteria s'impadronì della città di Missy-aux- Bois e nominò un governo pacifista. In totale furono 27mila che si diedero alla macchia nel corso del 1917, spaventati dalle ingenti perdite registrate dall'inizio della guerra, quassi un milione di morti, e incoraggiati dalle notizie provenienti dalla Russia, diffuse dai giornali socialisti.


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La repressione fu massiccia e furono istituite ben 3400 corti marziali, anche se molte condanne a morte furono commutate in pene detentive. La rivolta rientrò quasi totalmente con la sostituzione dell'inetto generale Robert Nivelle, che aveva sfiancato le truppe nell'inutile 3 "Offensiva Nivelle" : Philippe Petain, che prese il suo posto, dimostrò subito maggiore attenzione alle esigenze dei soldati, concedendo un numero maggiore di licenze, rispetto al passato, aumentandone anche i giorni di fruizione; fu anche disposta l'immediata sospensione delle "grandi offensive" fino all'arrivo degli americani e dei più moderni carri armati, prodotti dalla Renault. Anche in Russia il vento della stanchezza, alimentato dalla tempesta rivoluzionaria, incomincia a farsi sentire in modo massiccio. Kerenskij, ai primi di luglio, era ancora ministro della guerra, anche si di fatto rappresentava la voce più autorevole e carismatica del governo provvisorio, presieduto dall'opaco e inconsistente principe Georgij Evgen'evi? L'vov. Non ebbe difficoltà alcuna, quindi, nel convincere il Gabinetto a sostenere la sua idea di sferrare un'offensiva contro i tedeschi, che secondo lui si sarebbe rivelata salutare per il futuro del paese, nonostante il forte anelito di pace che giungeva dal fronte e dalla maggioranza della popolazione. Il primo luglio ben quattro armate attaccarono i tedeschi nell'antica regione della Galizia, obbligandole a ritirarsi verso Leopoli. L'avanzata russa, però, fu arrestata il 18 luglio e i tedeschi ben presto riconquistarono tutto il terreno perduto obbligando a loro volta i russi a una disastrosa ritirata, che costò oltre 60mila morti. Il morale delle truppe crollò e si moltiplicarono gli episodi di diserzione. In Italia non si reggono più gli stenti e le privazioni: il 16 luglio, nei presi di Udine, scoppia una rivolta nell'accampamento della Brigata Catanzaro, culminata con la morte di due ufficiali e nove soldati. Il comandante della Brigata, senza nemmeno disporre un processo o accertare le cause della rivolta, dispose la fucilazione immediata di ventotto soldati, più quella di altri dieci che gettarono le munizioni durante il trasferimento in prima linea. Le circolari del Comando supremo prescrivevano di "passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi" e di ricorrere 4 alla "decimazione" nel caso in cui non fosse stato possibile individuare i responsabili. Il Duca D'Aosta, comandante della III armata, pur essendo consapevole che i soldati erano stressati per il prolungato (e infruttuoso) impegno sul Carso e per la disparità di trattamento rispetto ad altre brigate, approvò i severissimi provvedimenti, ivi compresa la decimazione, che costituisce un'aberrazione giuridica in quanto viola il principio della responsabilità personale, oltre a configurarsi come aberrazione etica, essendo evidente l'assoluta incapacità di chi la sostenga di comprendere la natura umana e risolvere in modo fruttuoso e intelligente le gravi crisi esistenziali che, inevitabilmente, possono insorgere in contesti drammatici come quelli bellici. Durante tutto l'arco della guerra furono circa 1100 i soldati che persero la vita a seguito di fucilazione o decimazione; a loro, però, vanno aggiunte le tantissime vittime delle "esecuzioni sommarie", effettuate in trincea per i capricci e le psicopatologie degli ufficiali, il cui computo non è semplice, anche perché artatamente occultato dalle alte sfere dell'esercito e dai governi.

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LA VIGILIA DEL TRAGICO AUTUNNO Il 29 luglio è una data storica per l'esercito italiano: nascono gli "Arditi", corpo speciale d'assalto addestrato per la totale conquista delle linee nemiche, in piena autonomia. Come tutti i reparti speciali era riservato ai soldati capaci di superare severi test psico-attitudinali e di reggere un addestramento estremo, al limite delle umane capacità di sopportazione. Li vedremo in azione sia a Caporetto sia nella battaglia di Vittorio Veneto. Il primo agosto si leva alta la voce del Sommo Pontefice5 contro l'inutile strage. I paesi belligeranti sono invitati a cessare la lotta tremenda e a sottoscrivere un piano di pace composto di sette punti: evacuazione delle zone occupate, disarmo reciproco, libertà di navigazione, rinuncia reciproca agli indennizzi di guerra, esame delle questioni territoriali irrisolte, negoziati che tengano conto "per quanto possibile, delle aspirazioni dei popoli", istituzione dell'arbitraggio internazionale. Parole al vento di una calda e drammatica estate, che si appresta a lasciare le consegne belliche a un autunno ancora più tragico. Lino Lavorgna NOTE 1) Il 3 febbraio scorso vi presentai ufficialmente lo straordinario annuncio del governo imperiale tedesco che, a partire dal 1° febbraio avrebbe utilizzato i sottomarini per affondare ogni nave che cercava di avvicinarsi ai porti della Gran Bretagna, dell'Irlanda o alle coste occidentali dell'Europa o a uno qualsiasi dei porti controllati dai nemici della Germania nel Mediterraneo. […] Dall'aprile dello scorso anno il governo imperiale aveva in qualche modo limitato l'attività dei sottomarini, conformemente alla promessa di non affondare le navi passeggeri […] La nuova politica ha spazzato via ogni restrizione. Navi di ogni tipo, qualunque sia la loro bandiera, il loro carattere, il loro carico, la loro destinazione, la loro commissione, sono stati spietatamente affondate senza preavviso e senza alcun aiuto per i superstiti. Persino le navi ospedaliere […] sono state affondate con la stessa mancanza di compassione. Non riuscivo a credere che cose del genere sarebbero state fatte da un governo iscritto alle pratiche umane delle nazioni civili. […] Non sto pensando ora alla perdita di beni materiali, ma solo alla sfrenata e totale distruzione della vita di non combattenti: uomini, donne e bambini, impegnati in attività che da sempre, anche nei periodi più oscuri della storia moderna, sono stati ritenuti innocenti e legittimati nelle loro azioni. L'attuale guerra sottomarina tedesca contro il commercio è una guerra contro l'umanità. È una guerra contro tutte le nazioni. Le navi americane sono state affondate, le vite americane sono state prese […]le navi di altre nazioni neutrali sono state affondate nello stesso modo. Non c'è stata alcuna discriminazione. La sfida è per tutta l'umanità. Ogni nazione deve decidere da sola come fronteggiarla. La scelta deve essere fatta con una moderazione e una temperanza di giudizio che si addicano al nostro carattere e ai nostri motivi di nazione. Dobbiamo accantonare i sentimenti di eccitazione. La nostra ragione non sarà la vendetta o l'affermazione vittoriosa della forza fisica della nazione, ma solo la rivendicazione del diritto, del diritto umano, di cui siamo solo un leale difensore. Quando mi sono rivolto al Congresso il 26 febbraio scorso, ho pensato che sarebbe stato sufficiente affermare i nostri diritti di neutralità con le armi, il nostro diritto di usare i mari contro le interferenze illecite, il nostro diritto a proteggere il nostro popolo dalla violenza illegale. Ma la neutralità armata, ora, è impraticabile. Poiché i sottomarini sono in effetti fuorilegge quando vengono usati contro la navigazione mercantile, è impossibile difendere le navi contro i loro attacchi […]Il governo tedesco nega il diritto dei neutrali di usare le armi, in tutte le aree del mare da esso indicato, per difendere quei diritti che nessuno ha mai messo in discussione. Sostengono che le navi mercantili protette da personale armato saranno trattate come se fossero navi dei pirati. La neutralità armata è nel migliore dei casi inefficace; in tali circostanze e di fronte a tali pretese è peggio che inefficiente: è probabile che produca solo ciò che doveva impedire; è praticamente certo che ci


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trascinino in guerra senza i diritti o l'efficacia dei belligeranti. C'è una scelta che non possiamo fare, che siamo incapaci di fare: non sceglieremo la via della sottomissione. […] Consiglio al Congresso di accettare formalmente la condizione di belligeranti impostaci e di prendere misure immediate per costringere la Germania ad accettare le nostre condizioni e porre fine alla Guerra. Ciò che questo implicherà è chiaro. Comporterà la massima cooperazione possibile nel consiglio e nell'azione con i governi ora in guerra con la Germania e, come conseguenza, l'estensione a quei governi dei crediti finanziari affinché le nostre risorse possano essere aggiunte alle loro. Implicherà l'organizzazione e la mobilitazione di tutte le risorse materiali del paese per fornire i materiali di guerra e servire i bisogni della nazione in modo "abbondante" (sic) e allo stesso tempo nel modo più economico ed efficiente possibile. 2) "Viva Caporetto - La rivolta dei Santi maledetti", Prato, Stabilimento Lito-Tipografico Martini, 1921 (Pubblicato con il suo vero nome: Curzio Erich Suchert) 3) Causa primaria delle massicce diserzioni, l'offensiva Nivelle ebbe luogo dal 16 aprile al 9maggio, con l'intento di costringere la Germania alla resa entro quarantotto ore. Furono impegnati 1.200mila soldati e 7.000 pezzi di artiglieria su un fronte che andava da Roye a Reims. Venne meno anche l'effetto sorpresa perché Nivelle non seppe resistere alla tentazione di parlare del piano con tutti, giornalisti compresi. La disfatta fu totale e la morte di circa 350mila soldati gli valse l'appellativo di "macellaio". 4) Estrema pratica di disciplina militare mutuata dall'antica Roma: si sceglieva un soldato a caso ogni dieci e lo si giustiziava in assenza di colpevoli certi. 5) Fino dagli inizi del Nostro Pontificato, fra gli orrori della terribile bufera che si era abbattuta sull'Europa, tre cose sopra le altre Noi ci proponemmo: una perfetta imparzialità verso tutti i belligeranti, quale si conviene a chi è Padre comune e tutti ama con pari affetto i suoi figli; uno sforzo continuo di fare a tutti il maggior bene che da Noi si potesse, e ciò senza accettazione di persone, senza distinzione di nazionalità o di religione, come Ci detta e la legge universale della carità e il supremo ufficio spirituale a Noi affidato da Cristo; infine la cura assidua, richiesta del pari dalla Nostra missione pacificatrice, di nulla omettere, per quanto era in poter Nostro, che giovasse ad affrettare la fine di questa calamità, inducendo i popoli e i loro Capi a più miti consigli, alle serene deliberazioni della pace, di una "pace giusta e duratura". Chi ha seguito l'opera Nostra per tutto il doloroso triennio che ora si chiude, ha potuto riconoscere che come Noi fummo sempre fedeli al proposito di assoluta imparzialità e di beneficenza, così non cessammo dall'esortare e popoli e Governi belligeranti a tornare fratelli, quantunque non sempre sia stato reso pubblico ciò che Noi facemmo a questo nobilissimo intento. Sul tramontare del primo anno di guerra Noi, rivolgendo ad Essi le più vive esortazioni, indicammo anche la via da seguire per giungere ad una pace stabile e dignitosa per tutti. Purtroppo, l'appello Nostro non fu ascoltato: la guerra proseguì accanita per altri due anni con tutti i suoi orrori: si inasprì e si estese anzi per terra, per mare, e perfino nell'aria; donde sulle città inermi, sui quieti villaggi, sui loro abitatori innocenti scesero la desolazione e la morte. Ed ora nessuno può immaginare quanto si moltiplicherebbero e quanto si aggraverebbero i comuni mali, se altri mesi ancora, o peggio se altri anni si aggiungessero al triennio sanguinoso. Il mondo civile dovrà dunque ridursi a un campo di morte? E l'Europa, così gloriosa e fiorente, correrà, quasi travolta da una follia universale, all'abisso, incontro ad un vero e proprio suicidio? In sì angoscioso stato di cose, dinanzi a così grave minaccia, Noi, non per mire politiche particolari, né per suggerimento od interesse di alcuna delle parti belligeranti, ma mossi unicamente dalla coscienza del supremo dovere di Padre comune dei fedeli, dal sospiro dei figli che invocano l'opera Nostra e la Nostra parola pacificatrice, dalla voce stessa dell'umanità e della ragione, alziamo nuovamente il grido di pace, e rinnoviamo un caldo appello a chi tiene in mano le sorti delle Nazioni. Ma per non contenerci sulle generali, come le circostanze ci suggerirono in passato, vogliamo ora discendere a proposte più concrete e pratiche ed invitare i Governi dei popoli belligeranti ad accordarsi sopra i seguenti punti, che sembrano dover essere i capisaldi di una pace giusta e duratura, lasciando ai medesimi Governanti di precisarli e completarli. E primieramente, il punto fondamentale deve essere che sottentri alla forza materiale delle armi la forza morale del diritto. Quindi un giusto accordo di tutti nella diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti secondo norme e garanzie da stabilire, nella misura necessaria e sufficiente

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al mantenimento dell'ordine pubblico nei singoli Stati; e, in sostituzione delle armi, l'istituto dell'arbitrato con la sua alta funzione pacificatrice, secondo e norme da concertare e la sanzione da convenire contro lo Stato che ricusasse o di sottoporre le questioni internazionali all'arbitro o di accettarne la decisione. Stabilito così l'impero del diritto, si tolga ogni ostacolo alle vie di comunicazione dei popoli con la vera libertà e comunanza dei mari: il che, mentre eliminerebbe molteplici cause di conflitto, aprirebbe a tutti nuove fonti di prosperità e di progresso. Quanto ai danni e spese di guerra, non scorgiamo altro scampo che nella norma generale di una intera e reciproca condonazione, giustificata del resto dai beneficai immensi del disarmo; tanto più che non si comprenderebbe la continuazione di tanta carneficina unicamente per ragioni di ordine economico. Che se in qualche caso vi si oppongano ragioni particolari, queste si ponderino con giustizia ed equità. Ma questi accordi pacifici, con gli immensi vantaggi che ne derivano, non sono possibili senza la reciproca restituzione dei territori attualmente occupati. Quindi da parte della Germania evacuazione totale sia del Belgio, con la garanzia della sua piena indipendenza politica, militare ed economica di fronte a qualsiasi Potenza, sia del territorio francese: dalla parte avversaria pari restituzione delle colonie tedesche. Per ciò che riguarda le questioni territoriali, come quelle ad esempio che si agitano fra l'Italia e l'Austria, fra la Germania e la Francia, giova sperare che, di fronte ai vantaggi immensi di una pace duratura con disarmo, le Parti contendenti vorranno esaminarle con spirito conciliante, tenendo conto, nella misura del giusto e del possibile, come abbiamo detto altre volte, delle aspirazioni dei popoli, e coordinando, ove occorra, i propri interessi a quelli comuni del grande consorzio umano. Lo stesso spirito di equità e di giustizia dovrà dirigere l'esame di tutte le altre questioni territoriali e politiche, nominatamente quelle relative all'assetto dell'Armenia, degli Stati Balcanici e dei paesi formanti parte dell'antico Regno di Polonia, al quale in particolare le sue nobili tradizioni storiche e le sofferenze sopportate, specialmente durante l'attuale guerra, debbono giustamente conciliare le simpatie delle nazioni. Sono queste le precipue basi sulle quali crediamo debba posare il futuro assetto dei popoli. Esse sono tali da rendere impossibile il ripetersi di simili conflitti e preparano la soluzione della questione economica, così importante per l'avvenire e pel benessere materiale di tutti gli stati belligeranti. Nel presentarle pertanto a Voi, che reggete in questa tragica ora le sorti dei popoli belligeranti, siamo animati dalla cara e soave speranza di vederle accettate e di giungere così quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno più, apparisce inutile strage. Tutti riconoscono, d'altra parte, che è salvo, nell'uno e nell'altro campo, l'onore delle armi; ascoltate dunque là Nostra preghiera, accogliete l'invito paterno che vi rivolgiamo in nome del Redentore divino, Principe della pace. Riflettete alla vostra gravissima responsabilità dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini; dalle vostre risoluzioni dipendono la quiete e la gioia di innumerevoli famiglie, la vita di migliaia di giovani, la felicità stessa dei popoli, che Voi avete l'assoluto dovere di procurare. Vi inspiri il Signore decisioni conformi alla Sua santissima volontà, e faccia che Voi, meritandovi il plauso dell'età presente, vi assicuriate altresì presso le venture generazioni il nome di pacificatori. Noi intanto, fervidamente unendoci nella preghiera e nella penitenza con tutte le anime fedeli che sospirano la pace, vi imploriamo dal Divino Spirito lume e consiglio. Dal Vaticano, 1° Agosto 1917. BENEDICTUS PP. XV


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UNO SPIRAGLIO SULL’ALZHEIMER La ricerca di un trattamento efficace che previene il declino cognitivo associato alla malattia di Alzheimer è costantemente fallita negli studi clinici umani, ma un nuovo studio di un team internazionale di scienziati, capofila l’Università di Exeter, può finalmente spiegare la ragione di questi fallimenti e offrire una soluzione nella forma di un farmaco attualmente usato per il trattamento dell'ictus. A partire dagli anni '80 l'ipotesi dominante dietro la causa del morbo di Alzheimer ha suggerito che l'accumulo di una proteina chiamata beta-amiloide causasse i sintomi neurodegenerativi associati alla patologia. Ma, praticamente tutti i farmaci sviluppati per colpire questi accumuli di amiloide sono falliti negli studi clinici sull'uomo . Il nuovo studio potrebbe aiutare a spiegare questa serie di fallimenti di farmaci, ossia quando una sinapsi nel cervello viene distrutta dalla beta-amiloide, si innesca nelle cellule nervose vicine una maggior produzione di beta-amiloide. Ciò innesca un ciclo di feedback che determina un'ulteriore neurodegenerazione. "Dimostriamo che esiste un circolo vizioso di feedback positivo in cui la beta-amiloide guida la propria produzione", afferma Richard Killick, autore senior del nuovo studio. "Pensiamo che una volta che questo ciclo di feedback sfugga al controllo, è troppo tardi per i farmaci che hanno come bersaglio la beta-amiloide per essere efficace, e questo potrebbe spiegare perché così tanti test di droga dell'Alzheimer hanno fallito". La ricerca rivela che una proteina chiamata Dkk1 è fondamentale per questo anello di feedback dannoso. La proteina stimola significativamente la produzione di beta-amiloide e appare in aumento di volume nel cervello con l'età. Lo studio ipotizza che l'inibizione del Dkk1 possa interrompere il dannoso ciclo di feedback della produzione di beta-amiloide e prevenire il declino cognitivo associato alla malattia. Forse la cosa più promettente sono gli esperimenti con un farmaco chiamato Fasudil, un nuovo composto usato per trattare i pazienti colpiti da ictus. In un modello che era stato progettato per sviluppare beta-amiloide, i ricercatori hanno scoperto che un minimo di due settimane di trattamento con Fasudil riduceva significativamente questi accumuli di proteine nel cervello e ha effettivamente distrutto questo ciclo di feedback negativo. "È importante sottolineare che il nostro lavoro ha dimostrato che potremmo già essere in grado di bloccare il ciclo di feedback con un farmaco chiamato Fasudil che è già utilizzato in Giappone e in Cina per l'ictus", afferma Killick. "Abbiamo dimostrato in modo convincente che il Fasudil può

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proteggere sinapsi e memoria nei modelli animali dell'Alzheimer, e allo stesso tempo riduce la quantità di beta-amiloide nel cervello". I ricercatori della demenza non affiliati a questo nuovo studio sono cautamente ottimisti riguardo alla scoperta, ma desiderosi di ribadire che un enorme divario è spesso visto tra i risultati di laboratorio e gli studi sull'uomo nella ricerca sull'Alzheimer. "Mentre questo studio fornisce solide prove molecolari su un importante meccanismo molecolare che guida il danno nell'Alzheimer, si basa sulla ricerca su cellule e topi", spiega Carol Rutledge di Alzheimer's Research UK. "Fasudil è un farmaco approvato per altre condizioni di salute, ma è attualmente utilizzato in un contesto di terapia intensiva e avrebbe bisogno di passare attraverso solidi test di sicurezza nelle prove di persone con malattia di Alzheimer". Diego Gomez-Nicola, dell'Università di Southampton, osserva inoltre che alcune ricerche hanno suggerito che la compensazione dei depositi di beta-amiloide non sempre è correlata con i miglioramenti della cognizione, il che significa che sebbene questa nuova ricerca sia interessante, non significa necessariamente che corrisponderà con miglioramenti cognitivi nell'uomo. "Per dirla in altre parole", dice Gomez-Nicola , "il declino cognitivo è ancora in grado di progredire nonostante una clearance dell'amiloide, che contraddirebbe le affermazioni degli autori sul fatto che il processo di produzione dell'amiloide si arrestava autonomamente". Tuttavia, il team dietro il nuovo studio è desideroso di andare avanti con studi clinici sull'uomo. Il profilo di sicurezza prestabilito di Fasudil significa che può essere rapidamente accelerato nelle prove di fase 2, e i ricercatori stanno attualmente raccogliendo fondi per iniziare a lavorare con chi soffre di Alzheimer nella fase iniziale della malattia. "Ora dobbiamo portare avanti questo studio clinico in persone con malattia di Alzheimer il più presto possibile", spiega Clive Ballard, coautore del nuovo studio. "Lo faremo attraverso la nostra innovativa piattaforma sperimentale di fase 2 progettata per accelerare la scoperta di un trattamento efficace nella demenza". Fonte: Translational Psychiatry


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RITRATTI E LA LORO ANIMA All'interno della festa della Madonna del sudore, Marianne Wild - Arte Contemporanea Unica, propone una collettiva, di giovani artisti che si confronterà con il tema del ritratto nelle sue più variegate rappresentazioni o visioni attraverso tecniche e materiali diversi. Pensiamo al "ritratto" come alla riproduzione delle fattezze di una persona. Ma l'Arte non è la riproduzione fedele: altrimenti sarebbero i migliori ritratti le immagini riflesse allo specchio o le fototessere degli automatici. Un ritratto integra fattezze del soggetto e tratti della sua anima, intercettati dal pittore o dal fotografo in modo eccelso, e tutta la magia dei ritratti si esprime proprio nella triangolazione degli sguardi (concessi, negati, sbiechi, indiscreti o clementi…) dell'autore, del soggetto e di noi che osserviamo l'opera La mostra, con il patrocinio del Comune di Ripa Teatina, la provincia di Chieti, la Regione e l'Accademia di belle Arti di Firenze sarà un momento di incontro, di scambio, di ricerca e di condivisione delle ultime tendenze dell'arte contemporanea, in un'atmosfera magica e accogliente. Il luogo perfetto per scoprire artisti emergenti e opere che esprimono la cultura di diversi paesi. Artisti presenti della scuola di Decorazione dell'Accademie di Belle Arti di Firenze: Ludovica Emme Andrea Lisa Papini Antonio Vivona Claudia Tita Dal 23 settembre 2018 - Torre di porta Gabella - 66010- Ripa Teatina Giny

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Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

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