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Web-magazine di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

1968

Raccolta n. 64 Maggio 2018


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Confini Webmagazine di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Raccolta n. 64 - Maggio 2018 Anno XXI

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti - Cristofaro Sola +

Hanno collaborato:

Gianni Falcone Roberta Forte Pièrre Kadosh Lino Lavorgna Antonino Provenzano Angelo Romano +

Contatti: confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

AMARCORD Era il 1968. Anche i giovani di destra furono presi dall'onda lunga del maggio francese. In molti seguirono le direttive del Msi che imponevano una ferma chiusura a qualunque apertura nei confronti del Movimento studentesco, monopolizzato dalla sinistra e dalla sua ala "maoista". Altri, in particolare appartenenti al Fuan, tra cui chi scrive, convinti della necessità di aprire un dialogo ed un confronto col Movimento, decisero di assumere una posizione "eretica" rispetto alle rigide direttive del Partito. A tale scopo a Napoli nacque "Università Europea". In altre città sorsero iniziative analoghe. “Università Europea”, pur essendo distinta e distante dal Movimento studentesco, il cui vangelo era il "Libretto rosso" di Mao, professava il recupero a destra dello spirito futurista: rottura con il passato, coraggio di osare, vitalismo. Ciò su solidi presupposti culturali. Per queste ragioni non temeva il confronto con il Movimento con il quale vi erano punti di affinità, in particolare su alcune ragioni del "contestare". Giuseppe Fruguglietti, Antonietta Romano, Romano Cavallo, Giuseppe Mandato, Marcello Cappitti, Nando Schettino, Eugenio Ciancimino, Massimo Scalfati ed altri furono i promotori dell'iniziativa, cui aderirono quasi tutti gli aderenti al Fuan e molti studenti della Giovane Italia. L'iniziativa fu guardata con sospetto, se non con avversione, dal Msi, allora "partito d'ordine", un'avversione ben maggiore vi fu a sinistra in quanto, per la vivacità culturale, l’iniziativa contraddiceva gli stereotipi della Sinistra contro una Destra dipinta come barbara e incolta. I media e gli ambienti culturali furono attenti al fenomeno. Nel gennaio del 1969, a causa della morte di Jan Palach e contro la repressione sovietica, Università Europea occupa la Facoltà di Legge, il Movimento studentesco, per ripicca, occupa quella di Lettere, posta, nello stesso edificio, di fronte a quella di Legge. Grande consenso viene mostrato dagli studenti per le ragioni di Università Europea che, tra l'altro, comunica in maniera innovativa realizzando poster di denuncia contro le azioni liberticide dell'Urss. Ma una destra "modernista" e libertaria faceva paura. A fine gennaio, intorno alle 18, arrivarono i metalmeccanici della Cgil per dare manforte al Movimento studentesco per "liberare" la facoltà di Legge e fu dura battaglia. Con un carro-scala gli assalitori, in numero fortemente preponderante, cercarono di sfondare il cancello d'ingresso a Legge. Gli assaliti, non più di 15, si difesero come leoni: alle molotov degli assalitori risposero facendo detonare le bombolette Camping-gaz da mezzo chilo. Diffusasi la notizia dell'assalto, all'esterno si radunarono alcuni giovani di destra che effettuarono qualche carica di "alleggerimento" che impedì lo sfondamento del cancello.


EDITORIALE

Dopo circa un'ora di scontri furiosi intervenne la Polizia che consentì ai giovani assediati di Università Europea di uscire in sicurezza dalle finestre. L’idomani mattina, giusta nemesi, presero fuoco le "riserve di benzina" del Movimento studentesco e l'edificio cominciò a bruciare. Dopo tale episodio si incrinarono i rapporti tra i promotori di Università Europea, quasi tutti dirigenti del Fuan a livello locale e nazionale, ed il Movimento Sociale Italiano. Solo la Cisnal, all'epoca guidata da Gianni Roberti e localmente da Domenico Manno, sostenne le ragioni di quanti volevano una Destra capace di guardare al futuro senza nostalgie. Ma i tempi non erano maturi... Angelo Romano Le foto a corredo di questo articolo e che danno conto degli avvenimenti descritti sono state concesse dal dr. Massimo Scalfati.

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SCENARI

1968 Avevo già fatto cinquant'anni fa i conti con le speranze e le delusioni della mia gioventù e con il '68 in particolare, con le scelte giuste e con quelle sbagliate, con le esultanze e gli abbattimenti. E, a decenni di distanza, con la tinta che copriva il bianco, mi ero già sobbarcata un analogo patteggiamento con quelle azioni e con quegli stati d'animo, riuscendo persino ad osservare con un po' di candida meraviglia. E, quindi, non pensavo di ripetere coram populo quest'ultima esperienza. Non che faccia fatica a farlo ma, si sa, nella solitaria introspezione ci può essere indulgenza, verso sé stessi prima che verso terzi, mentre in una pubblica meditazione c'è intanto la remora psicologica di scrivere cazzate senza considerare gli oggettivi riscontri che ciascuno può trovare in fatti e situazioni ai quali abbinare i personali stati d'animo. È un po' mettersi a nudo davanti ad un pubblico; il che, alla mia veneranda età, non presuppone uno spettacolo edificante. Ma tant'è. Comunque, prima di andare avanti con l'esperienza e la conoscenza di oggi, un occhio credo si debba buttare sulla società di mezzo secolo fa. Gli italiani, allora, erano poco più di 50 milioni e l'età media si aggirava attorno ai 70 anni. Quasi 300.000 persone all'anno espatriavano ma oltre 200.000 mila di esse rimpatriavano. C'era ancora la voglia di tornare. La disoccupazione era poco meno del 6% e lo stipendio medio mensile di un operaio oscillava tra le ottanta e le centoventimila lire. L'industria era il settore trainante del PIL con il lavoro scandito dai metodi fordisti-tayloristi: la catena di montaggio e i tempi di esecuzione. La donna non lavorava: stava a casa a provvedere alle necessità della famiglia. Nelle case c'erano meno di 4 milioni di televisori in bianco e nero e il telefono era ancora a disco combinatore, spesso dalla linea duplex ai fini del risparmio. Nonostante il boom economico, le vacanze, per chi poteva permettersele, andavano da visite giornaliere nella spiaggia più vicina alle pensioni della riviera adriatica per una settimana o poco più: mete, in buona parte dei casi, da raggiungere in treno. Una Fiat costava tra le 400 e le 600 mila lire e un litro di super superava di poco le 100 lire. Infatti, non c'era molto traffico: circolavano poco più di 9 milioni di autoveicoli (in un rapporto di oltre 5 persone per auto). Il matrimonio era ancora considerato un sacramento indissolubile e per l'avvenire dei figli era ammesso qualunque sacrificio, con l'unica differenza che quelli di famiglie 'proletarie' o piccolo borghesi spesso si fermavano alle scuole superiori di primo grado, a volte in quelle di secondo grado con indirizzo tecnico. Solo una minoranza s'indirizzava verso una formazione universitaria. Infatti, se gli studenti delle scuole superiori erano poco più di tre milioni all'anno, quelli


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universitari erano il 10%, a stragrande maggioranza maschile. L'università, dunque, era nella maggior parte dei casi frequentata da figli di famiglie borghesi. Lo so. A ben vedere la nostra era un'Italietta, quasi ultima ruota del carro tra i Paesi europei in termini di infrastrutture, di ricerca scientifica e tecnologica, di formazione e, ovviamente, di retribuzione. Ma, soprattutto nei borghi e nei quartieri popolari, la solidarietà aveva un significato. E, inoltre, si poteva sognare e credere che con la dedizione e la volontà era possibile costruire il proprio futuro. La politica suscitava passione sia a destra che a sinistra, con le caratteristiche di una simile distinzione ben evidenti. Il centro, con la pratica dei due forni, era al potere da poco più di vent'anni e ed era sostenuto da quella larga pletora di moderati, ammansiti alla domenica dai pulpiti delle chiese, disseminate fino all'inverosimile nelle città e nelle campagne. I liberali, di qualche unità percentuale, cercavano sempre di smarcarsi dalla collocazione a destra e i repubblicani, di analogo peso, si adoperavano con magniloquenza per colorare con le vestigia del passato la loro altrimenti scialba immagine. In ogni caso, i leaders degli schieramenti erano persone che, insieme alla cultura, denotavano autorevolezza e i giovani li approcciavano con rispetto. Neppure paragonabili a quelli attuali, nonostante il '92 e la fine della cosiddetta I Repubblica. Eppure, tra quei leaders, con la loro cultura e il loro coraggio (messo alla prova in varie occasioni), nessuno riuscì a percepire in tempo le inquietudini che serpeggiavano nell'ambiente universitario e che sfociarono nel '68 italiano e nessuno si adoperò per canalizzarle ed interpretarle legalitariamente. Il centro rimase silente e distante mentre la sinistra e la destra addirittura si adoperarono per far cessare le rivendicazioni giovanili; con la risultanza che a dissacrare e a distruggere restarono i cosiddetti extra parlamentari e i fuoriusciti la cui azione si è protratta negli anni, spesso fino a conseguenze estreme. Non posso, quindi, accettare che, a distanza di cinquant'anni, non dico la destra che è arrivata ad essere un semplice ricordo neppure nostalgico, ma la sinistra di oggi, ammantata da 'progressismo', si appropri 'culturalmente' (sic) di quei lontani eventi per affermare che a quel corso è dovuta la liberazione della donna, le conquiste civili e sociali e una maggiore diffusione di benessere. Non posso accettarlo perché è una grossa baggianata. Dallo scorso ottobre, per dodici settimane di fila, RAI 3, forte della sua connotazione 'progressista' ('sinistra' è un termine che sta velocemente divenendo desueto), ci ha ammannito in prima serata 'Le ragazze del '68'; la storia di dodici donne che in quell'anno avevano circa vent'anni anni e che vissero, a quel tempo, 'una vera e propria rivoluzione del ruolo femminile nella nostra società' almeno a detta degli artefici della cosiddetta inchiesta, i Pesci Combattenti. Ignoro le ragioni del nome della società di produzione ma, si sa, il 'progressismo' presuppone fantasia, evoluzione e trasformazione; almeno nelle sue genetiche mire universalistiche, le quali annoverano, senza peritarsi, la nobilitazione di ogni azione, l'esaltazione di ogni pensiero, l'innalzamento di ogni soggetto che provenga dalle sue fila, spacciando per 'verità' e per 'importante conquista' la qualità di un fatto, anche se generalmente discutibile. E, anche se non gli appartiene, come nel caso del '68.

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Così, in tale ottica, i moti di quell'anno, propinati all'opinione pubblica in una prima serata di domenica, divengono 'Una rivoluzione, all'interno di un più vasto sovvertimento politico, ideologico e sociale, che ha cambiato sostanzialmente l'immagine e il ruolo della donna, dalla moda, al lavoro fino ai costumi sessuali'. Una 'rivoluzione' di 'liberazione' che nell'ottica della 'sinistra progressista' ha toccato praticamente tutto il mondo. Il fatto è che di rivoluzioni, dal dopoguerra ad oggi, ne ho osservate ben poche: qualcuna nell'America Latina e qualcun'altra in Africa, a volte con risultati peggiori dell'assetto precedente. Non mi risulta che l'Occidente ne sia stato scenario (men che meno, la Francia e l'Italia) dove, tutt'al più, si può parlare di rivolte, peraltro nate per motivi completamente diversi gli uni dagli altri, che sono durate in alcuni casi persino qualche anno per essere, poi, riassorbite nel vortice del conformismo perbenista, in più beneficiato dall'assennata parola degli ex rivoltosi, nuovi incravattati guru. In ogni caso, la maggior parte di quei movimenti non ebbe il potere, almeno per ciò che mi riguarda, di suscitare particolari attenzioni. Del resto, l'università californiana di Berkeley, l'antesignana sul piano della contestazione, era molto lontana e i movimenti al suo interno, soprattutto il 'free speech movement', rivendicavano, giustamente è il caso di dire, la libertà d'espressione politica contro la guerra del Vietnam e contro la segregazione razziale. Due argomenti che, per quanto condivisi, non toccavano da vicino le italiche sensibilità. Peraltro, gli eventi americani datano 1964; si era ai prodromi della guerra nel Vietnam e i 'neri' non avevano ancora gli stessi diritti dei 'bianchi' e, peraltro, nei loro confronti gli argomenti si sommavano: da un lato, erano discriminati e, dall'altro, erano quelli che maggiormente audacia temeraria igiene spirituale infoltivano le truppe combattenti nel Sud/Est asiatico. Il movimento insurrezionalista di Malcom X, infatti, era nato ben prima del '68 e, a quella data, la famosa marcia pacifista di Martin Luther King era stata già avviata: due leaders che prima di preoccuparsi dei diritti civili e sociali dei 'bianchi' avevano a cuore l'integrazione dei 'neri'. E, difatti, fu a causa di quei movimenti piuttosto che di quelli studenteschi che il governo federale varò nel '64 il Civil Rights Act e, nell'anno successivo, il Voting Rights Act mentre la guerra nel Vietnam, nonostante i moti studenteschi e le marce di protesta, avviò il suo drammatico crescendo che si protrarrà, inutilmente, per otto anni, fino al '73, lasciando sul campo ben 60.000 morti tra la truppa americana, insieme a oltre 300.000 feriti e quasi 2.000 dispersi, ai quali si aggiungeranno quasi 200.000 morti tra le truppe vietnamite del Sud e circa 2.000.000 di vittime tra i civili. La lotta contro la discriminazione razziale, invece, andò via via attenuandosi per trasformarsi, negli anni a seguire, addirittura nella difesa della diversità e della specificità culturale e sociale nera. Né, in quegli anni, sollevò particolari considerazioni la New Left, la Nuova Sinistra, che sotto la guida di Charles Wright Mills, dette molta attenzione alle lotte dei popoli del Terzo mondo e alle rivoluzioni del mondo arabo, dell'Asia e di Cuba. Per quella formazione, l'Unione Sovietica era ritenuta, insieme con gli Stati Uniti, un ordine da abbattere e, peraltro, essa rifiutava la convinzione, comune alla sinistra politica tradizionale, che l'evoluzione storica lavorasse


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necessariamente in favore dell'emancipazione del proletario; anzi, temeva (da non credere) che una razionalizzazione capitalistica che integrasse i ceti proletari dei paesi avanzati sopprimesse ogni spazio reale di dissenso e di libertà personale. Oggettivamente, non andò oltre accese proteste di gruppi isolati. Come detto, non mi sono sentita particolarmente coinvolta dai movimenti americani: né politicamente, né emotivamente. Al più, qualche considerazione culturale in ordine alla discriminazione raziale. Eppure, già frequentavo la politica e forti pulsioni intellettuali mi animavano. E, sempre in verità, neppure la morte di Che Guevara, nell'ottobre del '67 in Bolivia, mi toccò più di tanto, nonostante l'enfasi di stampa che l'accompagnò. Le considerazioni che allora feci, giuste o sbagliate che fossero, fu che quella morte era stata determinata proprio da quelle forze comuniste rivoluzionarie cubane che il Che aveva aiutato a vincere, divenendo uno scomodo mito da allontanare. Ero già convinta dell'ipocrisia comunista e quella morte servì a rafforzarla. Però, stranamente, quella figura mi tornò alla mente negli anni successivi dove, in piena attività, mi ritrovai a pensare il Che come romantico simbolo della lotta contro ogni forma di oppressione e in difesa della sovranità di ogni Patria. Ma si sa, il romanticismo è donna. Comunque, se i moti americani non mi smossero più di tanto, analogo effetto mi suscitarono quelli nella Repubblica Popolare Cinese dove, proprio il '68 rappresentò il momento più acuto della cosiddetta 'rivoluzione culturale' avviata due anni prima. Il movimento rivendicativo, partito da gruppi di studenti universitari che protestavano contro i privilegi culturali presenti nella società cinese, fu subito appoggiato da Mao Zedong e dai suoi sostenitori, che lo radicalizzarono come strumento di pressione contro l'opposizione interna. Tuttavia, dopo aver scavallato il '68 e rischiato la guerra civile, la tensione si allenterà: Mao vincerà e i suoi avversari saranno messi alle corde. Al che, lo dico con sarcasmo, numerosi dirigenti giovanili verranno allontanati dalle città e confinati nelle zone rurali. E, a quel punto, s'imporrano ovunque i 'Comitati rivoluzionari' che recupereranno il vecchio management. E se la Cina era 'lontana', lo era parimenti il Giappone dove gli unici moti, avviati peraltro dal '65, avvennero a cura dell'organizzazione giovanile di sinistra 'Zengakuren' che agitava un forte sentimento antiamericano e l'avversione della guerra in Vietnam (anche loro), arrivando a scontrarsi più volte con la polizia. Nel '68, comunque, quel movimento si ammantò di cultura lanciando la parola d'ordine: "Trasformiamo il Kanda (un distretto accademico di Tokio) in Quartiere latino". Non c'è che dire: un ottimo intento ma molto meno cruento e, se vogliamo, meno emotivo della manifestazione sessantottina messicana contro le drammatiche contraddizioni sociali del Paese e per la democratizzazione del sistema politico, che vedeva al potere dal 1929 il Partito Rivoluzionario Istituzionale. Una manifestazione che, il 2 ottobre di quell'anno, venne repressa nel sangue: oltre cento studenti rimasero sul selciato nella disattenzione non solo mia, una semplice giovane di famiglia, ma anche dell'ispirata opinione pubblica internazionale e della 'sinistra' mondiale. Ciò che, nella sostanza, colpisce dei moti di allora nel mondo è che essi, al di là della curiosa contestualità, in parte furono animati non da spirito di giustizia sociale bensì

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dall'antiamericanismo e, in altra parte, contestarono situazioni sociali tipicamente locali, non identificabili né ripetibili in altre parti del mondo. E, va detto, l'Europa, in quanto a questa considerazione, non fa difetto. In Inghilterra, l'effervescenza, che contagiò alcune università, cominciò fin dalla fine del 1967 nella rispettabilissima 'London School of Economics', la massima espressione del pensiero economico borghese, dove gli studenti protestarono contro la nomina a presidente di Walter Adams, contestato per il suo passato come direttore dello University College nella razzista Rhodesia. La protesta continuò fino all'inizio del '68 sempre sull'onda dell'antirazzismo e anticolonialismo e poi virò in manifestazioni di massa contro gli Stati Uniti per la guerra in Vietnam, promosse dalla Vietnam Solidarity Campaign, una organizzazione fondata nel '66 da esponenti di vari gruppi della sinistra (laburisti di sinistra e trotzkisti sostenuti dalla Fondazione Bertrand Russell); manifestazioni, quelle, che ebbero nuova linfa con la denuncia delle armi batteriologiche e la messa sotto accusa del Centro di ricerche microbiologiche di Porton Down, controllato dal Ministero della difesa, ritenuto responsabile di aver fornito agli americani il mortale gas CS, usato nel Vietnam. E il 'Vietnam' fu di casa anche nell'università di Madrid, chiusa 'indefinitamente' nel marzo '68 a causa dell'agitazione studentesca contro la guerra e, già che c'erano, il regime franchista. E identico argomento, la guerra nel sudest asiatico, la ritroviamo in Germania dove i moti, avviati già nel '67, videro alla guida Rudi Dutschke, leader della sinistra estrema, la SDS, nata dalla scissione della gioventù socialdemocratica. Una forza, quella, che non avrebbe riscosso particolare successotemeraria se non fosse stato spirituale per l'attentato a Berlino nel '68, commesso contro audacia igiene Dutschke da un giovane imbianchino esaltato, Joseph Bachmann, notoriamente influenzato dalle campagne isteriche scatenate dalla stampa del magnate Axel Springer. Il paradosso fu che quel leader proveniva dall'allora Repubblica Democratica tedesca dalla quale si era allontanato, nel '61, prima della costruzione del Muro, a seguito di un conflitto con le autorità locali dovuto al suo rifiuto della leva militare che, in conseguenza, aveva portato all'interdizione del suo ingresso all'università. Così, la capitalistica Germania dell'Ovest gli consentì di protestare contro 'le fabbriche di Francoforte, di Monaco, di Amburgo o di Berlino Ovest, che riforniscono gl'impianti chimici ed elettronici all'esercito statunitense nel Vietnam, direttamente e senza intermediari.' L'attentato, comunque, lo indurrà a trasmigrare in Inghilterra dove sarà ammesso all'Università di Cambridge per completare gli studi, ma nel '71 il governo Tory di Edward Heath lo espellerà con la sua famiglia come 'persona non gradita' accusandolo di aver intrapreso 'attività sovversive' e di essere responsabile di sommovimenti politici a Londra. Si trasferirà, quindi, a Aarhus in Danimarca. Rientrerà in Germania per tessere singolari rapporti con i dissidenti dei governi comunisti della Germania Orientale, della Polonia, dell'Ungheria e dell'allora Cecoslovacchia e per convertirsi definitivamente al 'verde'. Già. I Paesi del Patto di Varsavia. Anch'essi furono toccati dal '68 ma ciò che, oggi, lascia in parte perplessi e in altra parte afflitti, è la causa di quelle manifestazioni. In Polonia, l'8 marzo, una


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massiccia agitazione studentesca portò ad una manifestazione all'Università di Varsavia, dove gli studenti protestavano contro l'espulsione dei compagni ebrei Adam Michnik ed Henryk Szlajfer per aver rilasciato un'intervista a Le Monde dove raccontavano di una precedente marcia di protesta. Per inciso, il padre di Michmik era il primo segretario del Partito comunista dell'Ucraina occidentale e la madre era una storica nonché valente attivista. La manifestazione in difesa dei due studenti fu duramente repressa dalla polizia in borghese e molti dimostranti furono arrestati. I dipartimenti vennero chiusi e si vietò agli studenti di proseguire gli studi. Paradossalmente, la situazione si risolse con una violenta campagna antisemita che portò ad una cospicua ondata di emigrazioni. Furono tra venti e trentamila i cittadini polacchi di origine ebraica che emigrarono, rifiutando la propria cittadinanza polacca per ottenere in cambio un biglietto di sola andata per Tel Aviv. Situazione ben diversa nella allora Cecoslovacchia, che condusse alla svolta politica chiamata 'Primavera di Praga' dovuta all'azione riformatrice di Alexander Dubèek, tra il gennaio e l'agosto del '68, mirata a concedere ampi diritti ai cittadini al seguito di un decentramento parziale dell'economia e della democratizzazione. Le libertà concesse inclusero persino un allentamento delle restrizioni alla libertà di stampa e di movimento. Ma l'avvento al potere a Mosca di Leonid Il'iè Brežnev significò la fine di ogni spinta riformatrice. Tuttavia, nel timore che quel processo di democratizzazione contagiasse anche gli altri Paesi del blocco sovietico, l'URSS decise di soffocare con la forza il movimento di riforma. E, per quella scelta così violentemente autoritaria, alcuni partiti nazional-comunisti sparsi nel resto del mondo si dichiararono in disaccordo. Certo, sarebbe stato difficile, anche ai fini elettorali e proselitistici, accettare in silenzio senza neppure timide rimostranze, il libero scorrazzare nelle strade cittadine di carrarmati sovietici, pronti a sedare con la presa dei loro cingoli aneliti di libertà di un popolo. In ogni caso, quel movimento e la sua triste fine riuscì a suscitare nel mondo una grande trepidazione che sconfinò anche in perplessità di fronte alla sorprendente presa di posizione di Tito nell'allora Jugoslavia il quale, nel giugno del '68, non solo accolse molte richieste di democratizzazione propugnate soprattutto dagli studenti dell'università di Belgrado ma addirittura si dichiarò favorevole all'espressione critica e persino alla mobilitazione di massa, laddove occorresse. Ora, se nel mondo, la 'sinistra ufficiale' fu silente, se non avversa alle evidenze sessantottine, il 'progressismo di sinistra' con quelle stesse evidenze c'entra come il famoso cavolo a merenda o, come si direbbe a Firenze, come il culo con le quarant'ore. È lungo spiegare le ragioni di quest'ultima similitudine ma ciò che emerge con immediatezza è la totale estraneità dell'uno nei confronti delle altre. Comunque è evidente che laddove il 'progressismo' cercò un suo protagonismo, fu tacitato con immediatezza, soprattutto dalla stessa 'sinistra ufficiale'. E questo è anche il caso dei due Paesi che ho lasciato per ultimi: la Francia e l'Italia. Ultimi perché, a mio avviso, essi sono intimamente connessi in quanto i moti del primo hanno motivato e sospinto quelli del secondo; ma, cosa non da poco, le conclusioni e i riverberi negli anni successivi

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di quei moti sono profondamente diversi gli uni dagli altr1, nonostante l'intellettualismo sinistroide si sia affannato e s'impegni tutt'ora ad affermare una continuità ideale e culturale. L'allora repubblica gollista attraversava una fase di stanchezza che durava ormai da 10 anni. Nel 1965, al momento delle prime elezioni presidenziali a suffragio universale diretto tenutesi nella storia repubblicana del dopoguerra, il generale de Gaulle si era ritrovato, a sorpresa, in ballottaggio con François Mitterrand. E, alle elezioni legislative del 1967 la maggioranza gollista all'Assemblea nazionale si era ridotta ad un solo seggio. I centristi come Valéry Giscard d'Estaing condivano di riserve critiche il loro sostegno al governo e i democratici cristiani di Jean Lecanuet rimanevano ostili. Infine, se tutta la destra non perdonava al generale il processo di Vichy e l'abbandono dell'Algeria francese, i gollisti di sinistra erano irritati con Georges Pompidou, ritenuto troppo conservatore. Quanto a quest'ultimo, una sorda rivalità l'opponeva al suo presidente, nell'attesa della successione. Così, la stanchezza dell'opinione pubblica di fronte a quella situazione fu ben sintetizzata da uno slogan che risuonò per tutta la durata delle proteste: 'Dix ans, ça suffit!' (Dieci anni, può bastare!). La scintilla del maggio '68 scaturì da un progetto governativo di razionalizzazione delle strutture scolastiche mirante a renderle più rispondenti alle esigenze dell'industria: cosa che significava, per i dimostranti, favorire i settori tecnologicamente più avanzati, facendo pesare l'incremento della produttività sulla 'classe operaia'. Il piano di riforma scolastica prevedeva, al termine degli studi secondari, una severa selezione da effettuarsi attraverso un esame supplementare che avrebbe ridotto considerevolmente il numero degli studenti universitari e consentito l'accesso solo agli studenti più dotati. In questo modo, secondo gli artefici del piano, l'Università avrebbe corrisposto meglio alle esigenze di alta qualificazione e specializzazione tecnica previste per i quadri dirigenziali. L'approvazione di quel progetto, chiamato 'Piano Fouchet', provocò un'immediata risposta da parte delle masse studentesche. Contro lo spirito tecnocratico di quel Piano, gli studenti e i professori 'progressisti' dell'università di Nanterre decisero di scioperare. La protesta si allargò rapidamente e, il 22 marzo, prese il via il movimento più noto tra quelli sorti nella primavera del '68: in rispetto della data, l'M22, capeggiato da un giovane anarchico, Daniel Cohn-Bendit, che denunciava l'esistenza di un'unica condizione di oppressione di studenti e operai. Ad inizio del maggio, l'agitazione studentesca diventò acuta anche alla Sorbona dove, con un andamento quasi insurrezionale, sfociò in barricate e scontri con la polizia al quartiere latino, inglobando, tra i motivi di fondo, l'inadeguatezza delle istituzioni, la richiesta di una maggior partecipazione studentesca alla gestione degli atenei e la cessazione della dittatura 'baronale'. La sinistra francese, manco a dirlo, prese le distanze dalle proteste studentesche, con Georges Marchais che arrivò ad esprimere in merito un giudizio sprezzante: "I gruppuscoli gauchisti, unificati in quello che chiamano il movimento del 22 marzo diretto dall'anarchico tedesco CohnBendit, potrebbero solo far ridere. Tanto più che in generale sono figli di grandi borghesi che metteranno presto a riposo la loro fiamma rivoluzionaria per andare a dirigere l'impresa di papà e sfruttare i lavoratori"1 .


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Il 6 maggio, manifestarono a Parigi 15.000 persone e il giorno dopo 50.000. I loro propositi scanditi erano 'l'immaginazione al potere', 'siamo tutti indesiderabili', 'proibito proibire', 'siate ragionevoli, chiedete l'impossibile', accompagnati da un'intensa produzione letteraria e iconografica. Era una continua improvvisazione, paradossalmente coerente, che rifiutava la 'logica in quanto borghese'. Da quel momento, iniziarono a scendere in piazza anche gli operai, sebbene i sindacati fossero incerti e la sinistra 'ufficiale' fosse, al tempo stesso, affascinata e impaurita dalla deflagrazione improvvisa e largamente spontanea. Poco dopo, il 13 maggio, le manifestazioni acquistarono un tono particolare perché alle imponenti dimostrazioni studentesche si aggiunse il più importante sciopero generale della V Repubblica; un'immensa manifestazione di circa un milione di persone attraversò Parigi, con una vasta eco in tutta la Francia. Con quello sciopero, i sindacati dei lavoratori cercarono una saldatura con le lotte degli studenti pur portando avanti rivendicazioni sostanzialmente di tipo tradizionale, senza stretti legami con le problematiche studentesche né con le parole d'ordine dei gruppuscoli trotzkisti, maoisti e anarchici. Il governo Pompidou, con gli accordi di Grenelle, provò a dividere il fronte della protesta accogliendo le richieste sindacali ma, nonostante ciò, la protesta operaia e studentesca continuò mettendo in gravi difficoltà il governo e offrendo alle 'sinistre' (Partito comunista escluso) l'occasione di protagonismo. Il presidente De Gaulle, di fronte ad un tale stato di cose, reagì con estrema decisione: sciolse l'Assemblea nazionale e, come già aveva fatto nel 1940 e nel 1958, due momenti drammatici della storia della Francia, si rivolse con un appello direttamente alla nazione, riguadagnandone il consenso. Infatti, alle elezioni di giugno di quell'anno, il partito gollista ottenne la maggioranza. Benché sconfitto, il movimento aveva però rivelato punti di debolezza del regime gollista ed era riuscito ad influenzare la collettività, con l'affermazione di nuovi valori che anticipavano aspetti della società postindustriale: creatività e immaginazione, il diritto alla differenza, il rifiuto di gerarchie troppo rigide. In sostanza, pur vivendo solo poche settimane, il Maggio francese fu un formidabile 'produttore' di cultura. Un aspetto, quest'ultimo, che insieme agli altri inerenti il contesto e la meccanica, è la ciliegina sulla torta della differenza con il Maggio sessantottino italiano del quale non starò a ripercorrere le tappe perché i vecchi come me ne hanno contezza, al di là dell'ottica di osservazione e di partecipazione, e i giovani non saprebbero immaginare un clima da 'rivoluzione', presi come sono dalle contingenze, spesso effimere, della loro vita e di quella familiare. Ciò che invece tengo a sottolineare è che il '68 italiano, avviato due anni prima a Trento, si è concluso ben dodici anni dopo con l'uccisione dello statista democristiano Aldo Moro e l'esaurimento del fenomeno BR, in una continua, tragica ventata di follia senza senso. Perciò, non mi soffermerò sull'occupazione dell'Università di Trento a cura degli studenti della Facoltà di Sociologia, durata ben due anni; né mi dilungherò sugli effetti degli scritti a sfondo sessuale de 'La Zanzara', giornale studentesco del liceo Parini di Milano. Né mi metterò ad esaminare le occupazioni, gli sgomberi e le rioccupazioni della Statale di Pisa, di Palazzo

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Campana a Torino, della Cattolica di Milano, dell'università di Padova e della facoltà di Architettura della Sapienza di Roma e della Federico II di Napoli. Non starò nemmeno a descrivere lo stato pietoso nel quale gli occupanti ridussero quei locali. E neppure menzionerò, seppure provando una forte compassione e un sentito dispiacere, i tanti feriti, anche tra le forze dell'ordine, e i morti. Né, infine, starò ad elencare il nome dei vari gruppi, che per comodità potremmo definire di sinistra extra-parlamentare per le tematiche, i richiami e gli slogan, i quali accesero, svilupparono e articolarono la 'protesta'; una 'protesta' che, in termini di risultati, alla fine, non andò molto al di là, purtroppo, della violenza manifesta, dell'intimidazione e del sopruso. In ogni caso, vero è che l'Università, stanti le richieste, necessitava di una ventata rinnovatrice: nell'arco di dieci anni gli iscritti ai corsi di laurea erano raddoppiati, anche per effetto del boom economico, mentre tutta l'organizzazione e la meccanica dell'insegnamento rimaneva ai livelli ottocenteschi: i docenti dei corsi importanti si rivolgevano a una calca di allievi che a stento ne percepivano la voce, l'esigenza di laboratori e seminari che preparassero gli studenti all'attività professionale era sottovalutata o ignorata, e molti professori erano 'ferroviari' nel senso che comparivano solo per le lezioni e con i ragazzi non avevano nessun rapporto umano. Per non parlare, poi, dei 'baroni, le cui 'apparizioni' stupivano persino gli assistenti ai quali era demandata la stragrande parte del lavoro. Inoltre, una larga fascia di giovani era esclusa dall'insegnamento universitario, anche per ristrettezze economiche. Per la soluzione di quei problemi, la politica e, al seguito, le università avrebbero dovuto provvedere laboratori, aule decenti, collegi ordinati e una revisione delle modalità dell'insegnamento, nonché forme di facilitazione d'accesso ai meritevoli. Invece, i governi scelsero la strada meno utile, quella del 'facilismo': intanto, gli esami di maturità delle scuole superiori furono svuotati di contenuti al punto che la quasi totalità dei candidati prese ad essere promossa aggravando a dismisura la situazione universitaria. Un solo ministro di allora, Luigi Gui, provò a varare una riforma universitaria: il progetto di legge 2314, respinto ab initio sulla sola scorta degli insegnamenti di Herbert Marcuse e della teorizzazione del 'gran rifiuto' di quel filosofo, in totale dispregio di studenti che, seppur di sinistra, avrebbero voluto approfondirla. Marcuse, comunque, non fu il solo a ricoprire il ruolo di mito nelle schiere contestatrici ad oltranza: si ritrovò in ottima compagnia con Mao Zedong, Ho Chi Minh, il generale Võ Nguyên Giáp, Yasser Arafat, Che Guevara, Karl Marx, Jean-Paul Sartre e Rudi Dutschke. Alcuni 'servizi d'ordine' (sic), armati costantemente di chiavi inglesi e spranghe, si definirono 'katanghesi', in ricordo dello smacco subito qualche anno prima dalle forze mercenarie occidentali in Congo, appunto da parte di forze del Katanga. Come nei momenti della storia di profondo oscurantismo, si compirono pubblicamente 'atti liberatori' nei confronti del 'Dio-Libro' arrivando a squartarlo e a distribuirne i quinterni. Ai professori, inoltre, venne negato il diritto di valutare gli studenti: così divenne prassi l'esame di gruppo, l'autovalutazione e il '27' garantito. La cultura, per conseguenza, fu talmente disprezzata da arrivare a scriverla con la K. E, a proposito di cultura, nel maggio 1968, un centinaio di artisti, alcuni dai prestigiosi nomi nella


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scultura, nella pittura e nell'architettura post-sessantottina, forse ignorando la sconfessione delle schiere giovanili protestatarie, occuparono per quindici giorni il Palazzo della Triennale, ove era stata appena inaugurata l'esposizione, chiedendo "la gestione democratica diretta delle istituzioni culturali e dei pubblici luoghi di cultura". Anche l'arte figurativa, come la musica poco dopo, volle i suoi momenti di prima pagina. Ciò che, in sostanza, si determinò fu la monopolizzazione della protesta da parte di gruppi; una monopolizzazione violenta, forte di un assoluto senso d'impunità, con le blandizie della 'sinistra progressista' e da parte di quella 'ufficiale' l'assoluto silenzio se non il rovesciamento della ragione. Per dare uno spaccato della situazione basterà ricordare i 'sequestri' di due professori, divenuti simbolica dimostrazione della follia. Nel marzo del '69, il prof. Pietro Trimarchi fu tenuto sotto sequestro, per quattro ore e mezza, nell'aula 208 dell'Università statale di Milano, da un gruppo di studenti della facoltà. Il docente era colpevole di aver trattenuto (come la legge gli imponeva di fare) lo statino a uno studente che si era presentato impreparato all'esame. La mancata restituzione dello statino comportava che lo studente non avrebbe potuto ripetere l'esame nell'appello immediatamente successivo. Trimarchi fu dunque sequestrato e 'processato' e fu liberato solo in seguito all'intervento della polizia. Pochi giorni prima, di un episodio analogo era rimasto vittima un altro docente della Statale, il professor Antonio Amorth, ordinario di diritto amministrativo. E dieci giorni dopo, lo stesso prof. Trimarchi fu aggredito e preso a sputi e insulti in via Albricci, nei pressi dell'Università. Per questi tre fatti, la magistratura milanese ordinò tredici arresti, la maggior parte dei quali fu eseguita all'inizio di giugno. Immediata la reazione del movimento, con una manifestazione di millecinquecento giovani davanti a palazzo Marino, sede del Comune. La Camera del Lavoro, con un indignato comunicato, denunciò: "La mano pesante della giustizia si è abbattuta su un gruppo di studenti, colpevoli di avere lottato e manifestato per fare diversa la scuola e diversa la società"2. Quale nota umoristica, dalla cronaca degli arresti apparsa sul 'Corriere della Sera' del 10 giugno 1969, si legge: "Bussando alle porte di alcuni dei ricercati, gli agenti si sono trovati davanti austeri maggiordomi che chiedevano se era proprio il caso di disturbare, a quell'ora, 'il signorino'". Anni dopo quei fatti, uno dei capi della devastante contestazione di allora, in ricordo delle miti condanne giudiziarie comminate ai giovani che avevano eseguito i sequestri, arrivò a scrivere: "Tutta la vicenda Trimarchi ebbe una certa rilevanza per le lotte studentesche … Per gli studenti determinò uno spostamento dei rapporti di forza a proprio vantaggio: da allora, in tutta Italia, anche i docenti più reazionari si mostrarono più duttili."3 . Non solo. Dinanzi ad assalti a testate giornalistiche, come il Corriere, con relative guerriglie urbane, barricate, incendi e vetrine infrante, illuminati intellettuali progressisti presero a scrivere dalle pagine delle loro prestigiose riviste: "…. Può essere un ammonimento per tutte quelle grandi catene giornalistiche abituate ormai da lunghissimo tempo a nascondere le informazioni e a manipolare l'opinione pubblica …. Chi ama la libertà ricca e piena non può che rallegrarsene e trarne felici presagi per l'avvenire."4.

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Si 'ribellarono' persino i detenuti, che presero a chiedere "diritto di assemblea, di commissioni di controllo su tutta l'attività che si svolge nel carcere, apertura all'esterno con possibilità di colloqui senza limitazioni, abolizione della censura, diritto ai rapporti sessuali... possibilità di commissioni esterne d'indagine sulla funzione di funzionari, magistrati e direttori fascisti". Già. I 'fascisti'. I quali, però, in università, erano giovani democristiani, liberali e missini che tentavano di introdurre un ragionamento razionale sulle riforme da attuare e sulle posizioni da tenere. Inutilmente. I contestatori, per la maggior parte provenienti paradossalmente da famiglie borghesi, giravano urlando "Fascisti, borghesi, ancora pochi mesi", "Fascista, basco nero, il tuo posto è al cimitero" e "Uccidere un fascista non è reato", spaccando vetrine e a volte anche crani5 . Negli anni '70, in pieni anni di piombo, Lotta Continua, nata sulla scia di quei moti e in dichiarato ma non meglio precisato retaggio di quelli francesi, arriverà a pubblicare le foto, i nomi, gli indirizzi, i percorsi e le abitudini dei 'nemici del popolo' o presunti tali, alcuni dei quali 6 aggrediti sotto casa finirono sulla sedia a rotelle . Comunque, mentre la sinistra ufficiale, con una rete di circoli politici e culturali, almeno nelle quattro mura, agitò 'tutta una serie di temi rivoluzionari', la gioventù di destra fu 'castigata" a 'montar la guardia al 'dio-patria-famiglia' come scrisse due anni dopo quei fatti, Adriano Romualdi. Infatti, negli ambienti di destra, lo scoppio della contestazione studentesca produsse un momento di disorientamento, dando luogo ad opinioni differenti verso il movimento di protesta. E, fatto curioso, il disorientamento fu dato dalla presenza di un fenomeno nuovo: la crisi del modello di sviluppo e la conseguente entrata in gioco delle questioni generazionali e sociali. Se da un lato il MSI era convinto che le inadeguatezze dell'università italiana fossero tali da renderla solo una mera e vuota 'fabbrica del sapere' e ammetteva l'esistenza della 'sclerosi congenita' dell''organismo', fornendo così legittimità alle ribellioni degli studenti, dall'altro, sosteneva che alla base di quei mali vi era un 'malcostume anacronistico e immorale', ereditato da un sistema politico nel quale non si riconosceva. In sostanza, gli studenti avevano ragione di protestare ma ciò che non andava erano i loro metodi, da 'agit prop' comunisti, da 'docenti del tumulto', miranti unicamente a creare un clima di anarchia e di terrore. Insomma, ciò che la dirigenza missina volle, sin dai primi momenti della contestazione, fu presentarsi come il baluardo dell'ordine e della tradizione, volutamente ignorando che alcune sue componenti, specie giovanili, condividevano in qualche modo le richieste dei contestatori. Intanto, per analoghi disagi generazionali. D'altro canto, la percezione dell'esistenza di un'anima non necessariamente di sinistra della contestazione giovanile era già emersa all'interno dell'ambiente culturale di destra. Basti pensare che nel febbraio del 1968 uscì nelle librerie una nuova opera di Julius Evola 'L'arco e la clava' dove l'autore sviluppava una chiara analisi dei disagi della gioventù e, nel mentre citava i beats, parlava anche degli anarchici di destra; il libro, che tra l'altro si esaurì nell'arco di pochi mesi, segnalò che quelle rivolte giovanili, almeno all'inizio, non erano politicamente orientate ma rispondevano a veri e propri motivi generazionali. E ciò senza considerare le questioni sociali. L'Italia era arrivata al boom economico ma, come


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detto, la sua struttura era ingessata, distante dal progresso europeo e la ricchezza mal distribuita. Per cui, da un partito che si definiva 'sociale' c'era da aspettarsi una più ferma e decisa presa di posizione che, peraltro, paradossalmente, la sinistra non prendeva. Infine, ultimo ma non ultimo aspetto di perplessità, fu la decisione di caratterizzare la posizione presa solo con un saldo anticomunismo, ignorando l'occasione di 'attaccare' quel partito, la DC, al governo da oltre vent'anni che implicitamente lo escludeva dalla legittimazione dell''arco parlamentare', pur mantenendo ufficiosi, discreti rapporti. Insomma, nell'universo di destra emerse una forte contrapposizione tra la decisione di 'ordine' della dirigenza e lo spirito ribellistico di gran parte dei militanti delle organizzazioni giovanili che li spingeva, invece, ad affiancarsi ai portavoce della lotta al sistema e, contravvenendo agli ordini, a prendere cautamente parte alle assemblee del movimento studentesco. Tali divergenze emersero anche sulla stampa dell'area, con in testa 'Il Secolo d'Italia' che prese a criticare aspramente quelle agitazioni. La stampa comunista non fu da meno: Rinascita in testa, manifestò un sentimento diffuso all'interno del Partito comunista sostenendo che il movimento rappresentava un "rigurgito di infantilismo estremista e di vecchie posizioni anarchiche", di fronte al quale occorreva valorizzare il "patrimonio ideale che il PCI aveva accumulato in decenni di dure esperienze" ed auspicare una "battaglia su due fronti", contro il potere capitalista e contro l'estremismo studentesco7 . Nel corso del mese di febbraio, all'interno del MSI ciò che dominava era l'incertezza che si accresceva e saliva di tono ogni volta che emergeva la partecipazione di giovani di destra alle riunioni e alle manifestazioni. In quei frangenti, intervennero anche gli scritti dei vertici delle organizzazioni studentesche di destra per cercare una posizione mediana, dove se da un lato si riconosceva che la contestazione giovanile era "spontanea e generalizzata" e che era determinata sia dall'insofferenza degli universitari per un ""sistema" palesemente iniquo" dall'altro si criticava che tale contestazione, della quale comunque si denunciavano gli errori e gli eccessi, avrebbe dovuto rappresentare anche la "lotta per una società migliore". Sic! Non è il caso di andare oltre. Il 2 febbraio venne occupata l'università di Roma. Alla fine del mese, il rettore D'Avack fece intervenire la polizia. Il giorno dopo, 1° marzo, un corteo di protesta, composto da giovani di destra e di sinistra, arrivò a Valle Giulia, sede della facoltà di architettura, e forzò i blocchi della polizia. Gli scontri durarono per ore. L'eco fu enorme. I giornali, in edizione straordinaria, parlarono di 'battaglia' perché lo scontro fu senza precedenti, con centinaia di feriti, 228 fermi e 10 arresti. A sinistra, la stigmatizzazione di quei fatti venne affidata alla penna di Pier Paolo Pasolini che scrisse: "Avete facce di figli di papà. Vi odio, come odio i vostri papà: buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo, siete pavidi, incerti, disperati. Benissimo; ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: prerogative piccolo-borghesi, cari. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte con i poliziotti io simpatizzavo con i poliziotti, perché i poliziotti sono figli di poveri, hanno vent'anni, la vostra età, cari e care. Siamo ovviamente d'accordo contro l'istituzione della polizia, ma prendetevela con la magistratura e vedrete! I ragazzi

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poliziotti che voi, per sacro teppismo, di eletta tradizione risorgimentale di figli di papà, avete bastonato, appartengono all'altra classe sociale. A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento di lotta di classe e voi, cari, benché dalla parte della ragione, eravate i ricchi; mentre i poliziotti, che erano dalla parte del torto, erano i poveri."8. A destra, invece, venne scelta un'altra strada. Dopo i ripetuti richiami all'ordine lanciati dalla segreteria del MSI, come aut aut in nome della fedeltà al partito, e diretti ai giovani militanti, i vertici del MSI decisero di porre fine a quella che ritenevano essere la 'marcia rossa' all'università. La mattina del 16 marzo del 1968, con la cosiddetta 'spedizione punitiva' all'università di Roma, guidata dai vertici del MSI, alla testa di oltre duecento militanti intenzionati a cacciare gli 'stracci rossi' dall'ateneo e i giovani eretici di destra, venne ripristinato l'ordine. Così, indisturbati e impuniti, restarono solo i gruppi oltranzisti ed extraparlamentari, lasciando ai giovani di destra il solo 'scontro', anziché il dialogo. Come ho già scritto in precedenza, due anni dopo, nel 1970, uno fra i più lucidi intellettuali di destra, Adriano Romualdi, propose un'analisi approfondita della contestazione studentesca. Attraverso le sue riflessioni cercò di chiarire le cause per le quali la rivolta giovanile, oltre che per motivi contingenti, si era orientata definitivamente a sinistra. "Come mai una 'rivoluzione' scriveva - così sfacciatamente inautentica è riuscita a imporsi alla gioventù, e non solo a quella più conformista, ma anche a quella più energica e fantasiosa? La risposta è semplice: perché dall'altra parte non esisteva più nulla. Seppellita sotto un cumulo di qualunquismo borghese e patriottardo […] la destra non aveva più una parola d'ordine da dare alla gioventù […]. In un'epoca di crescente eccitazione dei giovani, essa diceva loro "statevi buoni" […]. Fossilizzata nelle trincee di retroguardia del patriottismo borghese, le organizzazioni giovanili ufficiali vegetavano senza più contatto alcuno col mondo delle idee, della cultura, della storia. È bastato un soffio di vento a spazzare questo immobilismo che voleva esser furbesco, ma era soltanto cretino. Bastarono le prime occupazioni per comprendere che dall'altra parte - quella della destra - non c'era più nulla […]. Quando le bandiere rosse sventolarono in quelle università […] molti guardarono a destra, attesero un segno. Ma il segno non venne […]. Maturata nei corridoi di partito, in un clima furbesco e procacciatore, la cosiddetta classe dirigente giovanile non aveva assolutamente niente da dire di fronte alla formidabile offensiva ideologica delle sinistre. Ne era 9 semplicemente spazzata via. […]. In molti hanno scritto che il terrorismo degli anni di piombo, di sinistra e di destra, si deve alla mancata attenzione delle centrali di partito, alla loro abulia, al timore di sconfinare dagli steccati, senza neppure tentare di ricondurre ad unum la vertenza: chi per interesse, chi per offesa alla dogmaticità dottrinaria e chi per oltraggio all'autorità e all'ordine. Ebbene, in buona parte, sono propensa a crederci. Non ho parlato del movimento sindacale perché questo, all'atto pratico, iniziò la sua entrata in scena nell'autunno di quell'anno. La sua azione e la sua presenza nei successivi vent'anni conseguì comunque importanti risultati per il mondo del lavoro e, cosa non da poco, impedì che la cosiddetta 'lotta armata' degli anni di piombo attecchisse nelle fabbriche; un compito,


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quest'ultimo, portato avanti con particolare impegno soprattutto dalla CGIL. Sono passati cinquant'anni da quei fatti e, di fronte all'impudenza di taluni 'intellettuali' di spacciare il '68 come una sorta di prodromo di 'liberazione' di 'conquista' e di 'crescita' mi sento rabbrividire: non discuto sul 'divorzio' e sull''aborto' (che pure andrebbe fatto) come conseguenze degli stati d'animo d'allora; anche perché, a sinistra, iniziò una sorta di gara a chi fosse più 'progressista' (una sorta di riscatto) e, in ogni caso, un discreto numero di personaggi di centro e di destra erano 'separati' e 'correvano la cavallina'. In ogni caso, che ne è delle cosiddette 'liberazioni', 'conquiste' e dov'è la 'crescita'? La donna, ufficialmente, è divenuta 'oggetto': sebbene dotata di un notevole cervello e di indiscusse capacità, i suoi successi sovente sono dovuti a quotidiani, degradanti logorii fisici e psichici, se non alla sua avvenenza. E, del resto, le umoristiche 'quote rosa' stanno a significare la distanza che ancora intercorre in termini di parità e di agibilità tra i due generi. Le conquiste sociali, particolarmente degli anni '60 e '70, sono state spazzate via proprio dal 'progressismo di maniera', da una corsa forsennata verso una 'modernità' senza senso e senza obiettivi e la 'crescita' ha portato questo Paese ad essere, secondo i rilievi Eurostat, quello che annovera più poveri tra i suoi cittadini e la più larga fascia di popolazione a rischio di diventarlo. La famiglia è divenuta un'accezione nominalistica e la società è disgregata nei suoi assi portanti, cancellando solidarietà e speranza per lasciare il posto alla 'competizione' e all'angoscia. E la scuola che dovrebbe formare i 'cittadini' del domani? Penso che, insieme alle pensioni, sia stato il settore più 'riformato' di quest'ultimo mezzo secolo. Il suo declino è cominciato con gli ultimi riflessi del '68 che è stato, in fondo, l'ultima epoca dove la scuola ha avuto una qual sorta di 'centralità' nella società: si può affermare che la sua dichiarazione di morte fu sottoscritta proprio in quegli anni. Per cui, la defiance culturale e civile della scuola odierna è figlia dell'abbuffata ideologica e politica di quegli anni. Infatti, tra la scuola accalorata e concitata di allora e la scuola assonnata e afflitta di oggi c'è più di un anello di continuità: la crisi del sapere umanistico è figlia della dichiarazione di morte del 'pensare' e del 'ricordare', pronunciata proprio in quegli anni; la morte della filosofia e il trionfo della prassi furono consentiti proprio negli anni della contestazione; analogamente, la fine della scuola come luogo di integrazione nella vita civile di una collettività nazionale, fu decretata in quei tempi nel nome di una scuola senza frontiere, liberata da referenti nazionali. Ma il legame più intenso di continuità tra le due scuole è l'idea che la scuola debba aprirsi il più possibile alla società che cambia. Si tratta di un'affermazione che, assunta nella sua astratta superficialità, non può che raccogliere generali quanto generici consensi. Ma cosa significa esattamente? Negli anni della contestazione, la scuola aperta alla società significava una scuola che subordinava il suo sapere, le sue cattedre, i suoi processi educativi al sapere pratico-politico, alle discipline ideologiche, al processo necessario della rivoluzione mondiale. Oggi, aprire la scuola al sociale significa rendere il sapere, le sue discipline, i suoi processi educativi subalterni al sapere pratico dell'utilitarismo tecnologico, agli insegnamenti, evasivi o merceologici della televisione, al processo necessario della omologazione mondiale.

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Ora, quest'idea della scuola appiattita sulla società, al rimorchio dei suoi cambiamenti, neutra, agnostica e in definitiva remissiva rispetto ai 'valori' della società (ieri la rivoluzione, oggi il profitto), ha inevitabilmente reso inutile la scuola stessa. L'ha devitalizzata, impoverita, privata di una sua specifica consistenza; fotocopia sbiadita, e oltretutto inefficace, della società che cambia; affannosa e frustrata inseguitrice del mutamento, del modello-azienda. Esattamente il contrario di quel che dovrebbe essere. La sua funzione, infatti, non dovrebbe essere quella di inseguire solo il sapere pratico e variabile della società dei consumi, ma di interpretarlo e di trascenderlo. Perché ad una scuola si deve chiedere, soprattutto in una società in continuo mutamento, un sapere di ancoraggio. La scuola che insegna (solo) a 'funzionare' nella società, non solo fallisce nel suo scopo, ma genera giovani incomunicanti, frustrati, solitari, lontani da ogni senso pubblico, comunitario, etico, facili prede della decomposizione sociale e dei suoi infelici santuari. E che n'è dei guru della 'rivoluzione' di allora? Non ce n'è uno che non abbia trovato un suo buon 'posto' nell'attuale, disgregata, società. Ecco. Ho fatto nuovamente i 'conti' con me stessa e, rispetto al precedente esame introspettivo, effettuato in epoca dove ancora vigevano convenzioni sociali, la somma di ora la trovo più vera e più drammatica. Ho finito: il topolino ha cercato di partorire la montagna. Come mi sento? Dolorante e incazzata. Roberta Forte

Note: 1. Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia degli anni di piombo, Milano, Rizzoli, 1991. 2. http://cumasch.org/storia/storiasessantotto.htm 3. Vladimiro Satta – I nemici della Repubblica – Storia degli anni di piombo – Rizzoli 2016 4. Antonio Giangrande – Comunisti e post comunisti – Parte II Se li conosci li eviti - p. 67 – Eugenio Scalfari – Articoli: L'Espresso dal 1955 al 1968 – p. 1295 5. Massimo Fini, Una vita, Venezia, Marsilio, 2015 6. Massimo Fini, Sofri e Calabresi, vi racconto la storia - Il Fatto Quotidiano, 16 gennaio 2014. 7. G. Amendola, Necessità della lotta su due fronti, «Rinascita», n. 23, 7 giugno 1968, p. 3-4. 8.L'Espresso – 16 giugno 1968 - Scriverà poi Pasolini, a proposito della notorietà che quelle parole raggiunsero: "quei miei versi, che avevo scritto per una rivista per pochi, Nuovi Argomenti, erano stati proditoriamente pubblicati da un rotocalco, L'Espresso (io avevo dato il mio consenso solo per qualche estratto): il titolo dato dal rotocalco non era il mio, ma era uno slogan inventato dal rotocalco stesso, slogan (Vi odio, cari studenti) che si è impresso nella testa vuota della massa consumatrice come se fosse cosa mia." Enzo Siciliano, che di Pasolini fu biografo, ne riporta la sintesi di "fascismo di sinistra" e l'individuazione di "una cifrata rivolta della borghesia contro sé stessa".


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IL RAGAZZO CON LA PISTOLA Mi telefona il mio amico Franco, il tono è concitato: "I compagni stanno assaltando i nostri che occupano l'università, ci sono pure i metalmeccanici, sarà un massacro..." Penso subito ai miei colleghi ed amici di "Università Europea" che ho lasciato poche ore prima, dopo aver finito il mio turno di "occupazione" a Scienze Politiche, mia sorella è tra loro... Senza un attimo di esitazione prendo la pistola - una Beretta calibro 9 - che poche settimane prima un camerata, Sergio, oggi sindacalista di spicco nella Triplice, mi aveva prestato per il solo fatto che glielo avevo chiesto (io 18 anni, lui qualcuno di più) e mi precipito fuori, verso l'università sotto assedio. Misi le ali ai piedi quella sera, correndo come mai avevo fatto, in tasca quella strana, pesante e insolita presenza... Arrivo all'angolo di via Mezzocannone (una traversa dove si apre un ingresso laterale dell’università Federico II ndr) trafelato ma deciso, lì trovo un gruppetto di amici intenti ad osservare il campo di battaglia: fuori l'Università Centrale centinaia di operai, adulti ed armati di spranghe e catene spingono dentro un enorme carro scala che useranno poco dopo, a mo' di ariete per cercare di sfondare i cancelli di Scienze Politiche in cui sono asserragliati i nostri. Clamore e fragore. Ad un tratto, dall'ingresso laterale vedo una marea umana inondare il cortile della Minerva ed i viali laterali per impedire che qualcuno dei nostri potesse sfuggire da qualche finestra. Non ci vidi più, estratta la pistola mi lanciai, solo e urlante, contro quel muro umano, qualche coraggioso mi seguì. Al primo colpo in aria la moltitudine tentennò, al secondo se la diede a gambe, mi sentii un eroe. I compagni chiesero subito l'intervento della polizia, mi dileguai ma i nostri poterono uscire, sia pure sotto scorta. Negli anni mi son chiesto più volte: ma quella pistola, che avrebbe potuto segnare per sempre la mia esistenza, di chi era davvero? Pierre Kadosh

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UN TRADITORE DEL ‘68

Io potrei essere ritenuto a prima vista, e forse a ragione, un traditore della mia generazione. Nato in Sicilia, a guerra colà terminata (1944) - e pertanto a tutti gli effetti un "baby boomer" post bellico - nel maggio del 1968, ventiquattrenne, mi trovavo nel fiore di quella pensosa, ma altresì gioiosa e dinamica giovinezza della quale i coetanei di Berkley, della Sorbona, di Praga della "Sapienza" di Roma, della Statale di Milano e di quant'altro "contestando e/o rivoluzionando", davano prorompente sfoggio nelle assemblee, nelle strade e sulle barricate del tempo. Ma, come già detto, ero soltanto un siciliano di Palermo. La primavera del '68 giunse infatti nell'Isola come una sorta di eco lontana, di pertinenza altrui la cui unica manifestazione percettibile fu lo sprezzante appellativo di "capelloni" congiuntamente assegnato, sia dalla borghesia che dal popolino, a chiunque osasse manifestare, fosse anche in forma strettamente tricologica, un sia pur timido cenno di vaghe simpatie contestatrici e/o rivoluzionarie. Con tali premesse era dunque inevitabile che il fatidico maggio del '68 mi cogliesse in un luogo del tutto antitetico, sia per tipologia che per logistica, ai viali della "rive gauche", ai campus universitari della California o alle barricate di Valle Giulia; mi riferisco a quel tetro palazzo per esami di Stato sito in Roma alla Via Girolamo Induno, 4 . Scopo della circostanza era il tentare di vincere il concorso per una trentina di posti nella Carriera diplomatica della Repubblica italiana. Quindi non soltanto non stavo con i miei coetanei a contestare pubblicamente il sistema, ma al contrario aspiravo addirittura a diventare un dirigente di quello Stato borghese che coloro i quali, almeno per età, avrebbero dovuto essere i miei naturali compagni di avventura tentavano invece (in forme abbastanza amatoriali, questo bisogna ammetterlo) di buttar giù. Per anni, questo intimo "vulnus" nella storia personale ha fatto capolino in qualche remoto angolo della mia mente contrapponendo, all'intima soddisfazione di aver superato un selettivo esame pubblico, l'amarezza di essermi lasciato sfuggire per sempre una irripetibile stagione di avventure giovanili. E' pur vero che nella seconda metà dei cupi anni '70, circostanze del tutto fortuite ed imprevedibili mi indussero ad una esplicita forma di contestazione "politica" nei confronti di un superiore potere gerarchico proprio in ragione della mancato riscontro in esso, da parte mia, di una qualsiasi forma di Autorevolezza da me ritenuta ormai condizione imprescindibile per il riconoscimento di una qualsivoglia Autorità. Ma questa è comunque un'altra storia, anche se ritornerò su tale riflessione alla fine di questo mio breve scritto. La predetta dicotomia del non essere stato quindi un sessantottino militante al momento giusto ed essere stato poi costretto, dieci anni dopo, ad essere in qualche modo un pubblico


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contestatore, mi ha posto comunque nella felice situazione di poter leggere il fenomeno della "rivoluzione" giovanile degli anni '60 dall'ottica bivalente sia di chi ne aveva comunque respirato l'atmosfera ( metabolizzandola, si direbbe oggi , per condizionamento ambientale) sia del distaccato osservatore esterno e neutrale in quanto non direttamente coinvolto nella cronaca dell'evento. Tutto sommato, un buon angolo di osservazione. E' peraltro ormai condiviso ampiamente il fatto di come le liturgie, i miti, i contenuti, gli atteggiamenti, i presunti insegnamenti e anche il lessico della contestazione sessantottesca (e soprattutto i suoi tragici strascichi terroristici del successivo decennio) abbiano, già da tempo, mostrato definitivamente la corda e di come la maggior parte di essi abbiano preso la irreversibile via del cassonetto della spazzatura. Cartina di tornasole di quanto affermo, sta inoltre nel fatto che i suoi leader (o presunti tali, in quanto il fenomeno ebbe chiari aspetti di spontaneità) mostrano di aver "saggiamente" risposto da lunghissima pezza con un entusiastico ed incondizionato "sì!" (andando quindi ad occupare i più alti livelli del management, della politica, del sindacato, del giornalismo, dell' amministrazione) alla provocatoria domanda che Antonello Venditti pone nella sua splendida canzone "Compagno di scuola" : "dimmi, ti sei salvato dal fumo delle barricate e sei entrato in banca pure tu ? " Dal punto di vista antropologico sono tuttavia convinto che sarebbe ingiusto continuare ad INFIERIRE su tale generazione di ex giovani (ormai settantenni), nonostante essi siano stati senza dubbio i principali responsabili di quel generale appiattimento culturale, con relativa ignoranza di massa e connessa deriva materialistico/consumista, della nostra attuale società, avendo essi gestito con cinico potere gli ultimi cinquant'anni della nostra storia. Perché mai faccio allora una tale affermazione che attenua di molto le premesse di cui sopra ? Provo a rispondere : Confermo che l'immondizia sessantottesca sia stata enorme e che il suo percolato abbia tracimato per lunghi anni ben oltre il '68. Ricordate ? : l''immaginazione al potere', 'l'utero è mio', 'bruciamo i reggi seni', 'la chiave di casa è un diritto', il '18 politico', l''okkupazione', 'assemblea, assemblea!', Marcuse, autogestione, gli angeli del ciclostile, le canne, il sesso libero, 'una risata vi seppellirà!' e, soprattutto, 'vietato vietare'. E potrei continuare per ore. Le sue nefaste conseguenze sono ancora diffuse e ben visibili. I "rivoluzionari" di ieri che contestarono soprattutto l'autorità del "Padre" sono diventati oggi genitori (e nonni) del tutto deboli, molli e permissivi, le mitiche ancelle del ciclostile, virago assertive con assoluto potere dittatoriale su maschi per altro del tutto inadeguati, i loro nipotini una massa di pecore apparentemente anarchiche (Montanelli dixit), ma al contempo del tutto etero dirette da un cinico potere materialista volto soltanto a promuovere un acritico consumismo di inutili prodotti industriali il cui ineludibile espandersi - la cosiddetta "crescita" - è ormai l'imperante, unica fede del mondo contemporaneo. Eppure .… eppure… eppure, in tutta onestà, una cosa va riconosciuta: l'ottimo Fabrizio De Andrè nella sua "Via del Campo" (avrete ormai capito che adoro la buona musica leggera italiana) afferma : "dal letame nascono i fiori" ed infatti dal grande, confuso e disordinato "letamaio"

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concettuale del '68 e dalla sua sostanzialmente distruttiva eredità, un fiore è sbocciato: tanto bello e prezioso quanto spontaneo, imprevedibile ed ancor meno coscientemente voluto. La sua prorompente bellezza ha sgretolato con un beffardo sorriso il millenario muro di un ottuso e spesso violento autoritarismo dogmatico e solipsistico. Dal maggio di cinquant'anni fa infatti i sia pur improponibili rivoluzionari di quella spensierata primavera ci hanno trasmesso un unica, forse involontaria ma per molti versi ormai granitica, testimonianza: da quelle giornate l'AUTORITA', per essere riconosciuta come tale e cioè legittimamente accettata con convinzione in quanto vera, non potrà più fare a meno di nutrirsi di un'intrinseca linfa di AUTOREVOLEZZA. Va da se che il mondo mostra ancora innumerevoli esempi - e forse non cesserà mai di riproporli di autoritarismo non autorevole basato sulla forza, sul condizionamento psicologico, sul ricatto morale e/o materiale e sulla coercizione di ogni ordine e grado, ma la differenza sta tutta nel fatto che tale "autorità" (sarebbe meglio ormai dire soltanto "potere") sarà subìta dai sottoposti con sofferta consapevolezza e non più acriticamente accettata come valore assoluto di per se stesso. Un'Autorità non riconosciuta come intrinsecamente "autorevole", e quindi basata soltanto sulla forza/violenza, poggerà su piedistalli precari ed instabili da doversi costantemente puntellare e non più in grado, come invece accedeva in passato, di costruirvi sopra imperi millenari basati sull'acritica accettazione di una sua supposta legittimazione "per volere divino" e la cui intrinseca violenza veniva accettata come fisiologica al suo stesso mantenimento. Come il '68 ha infatti manifestato in modo irreversibile, tale sua presunta sacralità dogmatica altro non era che un paravento volto a mascherare un' inconfessabile mancanza di autentica autorevolezza. E' molto delicata e scomoda, ahimè (!), l'autorevolezza. Essa va infatti acquisita con tenacia e sacrificio, intelligenza e tempismo, ma, una volta raggiunta e consolidata, tende di solito a permanere stabile nel tempo. Per quanto mi concerne, ho coscienza di averne almeno metabolizzato il concetto, pur con tutte le mie personali limitazioni, anche se non mi sfugge il fatto che, per dirla con Woody Allen, anch'essa al momento sembra purtroppo "non sentirsi troppo bene". Infatti così come il '68 ha dato un colpo mortale all'autoritarismo di principio, l'abuso indiscriminato della Rete Internet (se non altro in ottica politica, sociale e culturale) sembra voler dare analogo colpo di grazia a molte forme di presunta autorevolezza (in tale medium, dal momento che TUTTI si manifestano ormai come "competenti" di quanto vanno affermando, ne consegue che NESSUNO è "competente") lasciando intravedere, anche se per ora soltanto in filigrana una qualche paradossale ma non imprevedibile, nostalgia di un certo "autoritarismo". Ad ogni modo ritengo che il concetto della contrapposizione tra Autorevolezza e Autoritarismo regga ancora e goda di ampia condivisione. E per il futuro ? Naturalmente, solo chi vivrà vedrà. Allora è forse giunto il momento di potermi chiedere: con tale mia ormai radicata coscienza dell'insostituibile valore dell'Autorevolezza, debbo ancora continuare a considerarmi un traditore dello storico '68 barricadiero che fù, ovvero posso, al contrario, cominciare a sentirmi soltanto un fortunato erede di quell'UNICO risultato di autentico valore culturale che gli scontri della primavera di cinquant'anni fa abbiano mai prodotto ? Antonino Provenzano


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DUE STRADE DIVERGEVANO NEL BOSCO Il 1968, per me, non fu l'anno della rivolta, delle manifestazioni di piazza, delle occupazioni e delle barricate: fu l'anno della "consapevolezza". Iniziai a comprendere, infatti, di essere "diverso". Una diversità che nei primi tempi generò problemi relazionali, incomprensioni e forti dubbi. Avevo tredici anni, dopo tutto, e non ero certo culturalmente attrezzato per spiegarmi fenomenologie dell'essere che mi avvolgevano in modo frustrante. Sono sbagliato io o loro? Ho ragione io o loro? La "consapevolezza" della diversità, fievolmente e progressivamente incuneatasi nella mente tra i banchi di scuola, fu scandita dalle conseguenze di un evento ben preciso, che avvenne il 6 gennaio 1968. Come ogni sabato, il pomeriggio era dedicato alla visione del programma televisivo "Chissà chi lo sa", presentato dall'indimenticato Febo Conti. Il programma prevedeva una sfida di cultura generale tra alunni delle scuole medie. La squadra vincente si portava nella propria scuola una enciclopedia e ritornava nella puntata successiva. I vari quiz erano intervallati dalle esibizioni di ospiti, per lo più cantanti o attori. Quel sabato furono invitati due giovani artisti del tutto sconosciuti in Italia: il ventenne inglese Barry Ryan e il ventunenne svedese Peter Holm. Il primo cantò una canzone stupenda, "Eloise", caratterizzata da una ritmica incalzante e accattivante, che entrava dentro sin dalle prime note per la straordinaria musicalità. Non parlavo ancora un buon inglese, a quel tempo, e quindi non comprendevo il significato del testo. Nondimeno la canzone mi piacque subito. Peter Holm cantò una canzone dolcissima, "Monya", in italiano, che non si discostava dalle classiche melodie romantiche tanto di moda. Compravo tanti dischi, in quegli anni, e decisi subito che anche quelle due canzoni avrebbero fatto parte della mia collezione. Il negozio di riferimento era "Ricordi", ubicato nella Galleria Umberto I di Napoli. Papà Lorenzo e Mamma Giuseppina non si fecero pregare per esaudire il mio desiderio e così, il mercoledì successivo, con lo spontaneo e ingenuo entusiasmo che solo un tredicenne può avere, ci recammo a Napoli - abitavamo a Caserta - per comprare i dischi e degustare un'ottima pizza nella solita pizzeria preferita dal mio Papà: "Pizzicato", in Piazza Municipio. Ritornai a casa felice, pregustando la gioia di condividere con tutti i miei amici i nuovi acquisti, in particolare lo stupendo brano di Barry Ryan. Da non molto tempo il vecchio giradischi "Geloso" era stato sostituito dallo "Stereorama 2000 De Luxe", pubblicizzato dalla rivista "Selezione del Rider's Digest" e venduto per corrispondenza. (Occorrerà aspettare il 1972 per avere il piacere di tuffarmi nel mondo della stereofonia "seria", con un impianto che sarà progressivamente modificato fino alla metà degli anni novanta). Con somma sorpresa, però, il mio entusiasmo fu repentinamente smorzato dalle reazioni degli

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amici. Il pezzo forte era "Eloise", del quale magnificavo la qualità, sicuro che sarebbe stato lo stesso per loro. Avvenne l'esatto contrario: il brano non piacque a nessuno e io fui letteralmente sommerso di sberleffi, anche pesanti, per un entusiasmo evidentemente giudicato non solo eccessivo ma addirittura fuori luogo. "E' un brano che fa letteralmente schifo"; "Ma come può piacerti?"; "Certo che ne capisci di musica tu…" sono solo alcune delle frasi che mi dovetti sorbire, frammiste ai risolini di commiserazione, generalmente tributati a coloro che venivano presi in giro per le loro deficienze. Eppure nel gruppo avevo il mio "peso", che non mi veniva certo disconosciuto. Su quell'evento musicale, però, furono spietati: per tutti avevo preso un granchio. La cosa mi stupì non poco, generando in me forti dubbi. Vuoi vedere che hanno ragione loro? Dubbi che si amplificarono a dismisura settimana dopo settimana: aspettavo con ansia che Lelio Luttazzi, nel programma radiofonico settimanale "Hit Parade", annunciasse l'ingresso in classifica del brano, in modo da dimostrare agli amici che il granchio lo avevano preso loro. E invece nulla. L'Italia intera mi dava torto perché non riuscì a entrare in classifica nemmeno nelle ultime posizioni. I mesi si succedevano l'uno dietro l'altro e di "Eloise", che io continuavo ad ascoltare con immutato piacere, nessuno parlò più. Nel gruppo dei miei amici ero l'unico che leggesse il settimanale "Giovani", che nella sezione dedicata alla musica pubblicava le classifiche dei dischi più venduti in tutto il mondo. "Eloise", di fatto, era prima in classifica dappertutto, tranne che in Italia. Il dato, però, non è che fosse tanto confortante per me. Quelli erano gli anni della prima "formazione", condizionata dagli studi scolastici, dagli insegnamenti dei miei fantastici Genitori, dai consigli sulle letture che la Mamma, maestra elementare, mi propinava con l'amore che solo una mamma sa dare. Nella ricca biblioteca di famiglia troneggiavano i classici della letteratura italiana e, manco a dirlo, il libro "Cuore" di Edmondo de Amicis. Alla pari di tanti miei coetanei fui educato "all'italianità" e alla pari di tanti miei coetanei ritenevo che noi italiani fossimo il migliore popolo al mondo: il più civile, il più evoluto, il più intelligente, il più colto e chi più ne ha più ne metta. A scuola ci avevano insegnato che Muzio Scevola era stato capace di mettere la mano sul fuoco fino a farla bruciare del tutto, per punirsi dell'errore commesso quando decise di assassinare Porsenna; che Costantino era un grande imperatore e che Dio addirittura gli aveva fatto intendere che era dalla sua parte nella battaglia di Ponte Milvio; ci avevano insegnato la storia romana nella sua essenza più idilliaca, celando tutte le verità scomode; ci avevano fatto credere che Garibaldi fosse l'eroe dei due mondi e che ritornò a Caprera con un sacco di patate sulle spalle (e io fesso, alle elementari, piansi a dirotto pensando che nella sua isola e nella vicina Sardegna non vi fossero patate e i bambini come me non potevano mangiare le patatine fritte che mi piacevano tanto); ci avevano fatto credere che Silvio Pellico fosse un grande "patriota" che trascorse "mesi terribili" nello Spielberg; ci avevano fatto credere un sacco di cose. Come mettere in dubbio la nostra superiorità? Gli americani erano i più stupidi: a loro si poteva addirittura vendere la Fontana di Trevi! Il dubbio incominciò a incunearsi, tormentando i miei pensieri. Se il migliore popolo al mondo aveva giudicato negativamente quel brano musicale, molto probabilmente ero caduto io in un grossolano errore. Durante l'estate, però, accadde un fatto curioso. Barry Rayan fu invitato di nuovo in un programma televisivo. Non


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alla "TV dei Ragazzi", ma in uno di quei programmi del sabato sera, seguitissimi da oltre dieci milioni di spettatori. (Per i più giovani è bene ricordare che in quegli anni vi erano solo due canali: Rai 1 e Rai 2). Nei giorni successivi fu ospite di altri programmi e i conduttori, tutti, ripetevano fino alla nausea quanto fosse bella quella canzone, che da mesi figurava al primo posto nelle classifiche dei dischi più venduti in tutto il mondo. Magicamente, nel giro di pochi giorni, "Eloise" entrò in classifica anche nella "Hit Parade" italiana e Lelio Luttazzi, con quella sua calda ed entusiastica voce, ne lodava i continui avanzamenti, fino al primo posto, che se non ricordo male mantenne ben oltre la fine dell'anno. I miei amici? Nessuno disse nulla. Continuavamo a vederci come avevamo sempre fatto e, tutti, ascoltando "Eloise", manifestavano lo stesso compiacimento da me manifestato sin da gennaio. Nessun riferimento ai pesanti sfottò tributatimi quando a loro la canzone non piaceva. Fu allora che incominciai a comprendere alcune importanti dinamiche "dell'essere". I discografici che avevano lanciato "Eloise" a gennaio si erano resi conto che il lancio non era stato fatto bene e che la semplice presentazione della canzone, ancorché bellissima, non funzionava. Occorreva "orientare" il pubblico affinché fosse 1 accettata, cosa che avvenne con il secondo lancio, nel corso dell'estate . Il sessantotto, analizzato con il senno del poi, ci appare in tutte le sue sfumature che ci consentono di inquadrarlo nell'ottica che scaturisce dalle rispettive visioni del mondo. Seppur ancorato a un'epoca già "storicizzata", è ancora relativamente vicino nel tempo per poterlo analizzare con la serena obiettività che merita qualsiasi epoca storica, senza considerare che, come spesso scrivo, l'obiettività è qualcosa di difficile a prescindere dall'epoca storica di cui si parli. I protagonisti diretti sonoigiene i peggiori analisti di ciò che hanno vissuto, proprio perché audacia temeraria spirituale tendono a offrire una visione partigiana dell'evento. E' indubitabile che il sessantotto abbia favorito l'irresponsabilità; l'appiattimento verso il basso; il ripudio del merito; l'affermazione di ideologie fuorvianti, che via via hanno messo in evidenza i propri limiti, dopo aver prodotto però immani guasti in milioni di persone. Nondimeno lo scossone era inevitabile, perché, in qualche modo, bisognava rompere con un "passato" che stentava a evolversi in un mondo che iniziava a trasformarsi radicalmente. Non vi sono responsabilità oggettive nella nascita del sessantotto perché a nessuno può essere chiesto di andare oltre i propri limiti e i genitori dei ventenni di allora non avevano alcuno strumento per "arginare" la ribellione. Vi sono stati i cattivi maestri della scuola di Francoforte, certo. Ma quelli non sono mai mancati, in ogni epoca, e quindi non possono essere responsabilizzati più di tanto. Non certo tutti i milioni di giovani che hanno alimentato i fermenti di quegli anni avevano letto i loro libri! Le cose, talvolta, accadono perché sono inevitabili. Questo insegna la storia e per quanto attiene il comportamento delle masse, come sempre, si può far riferimento a quanto scritto nelle pregevoli opere di Freud (Psicologia delle masse), di Gustave Le Bon (Psicologia delle folle), di Elias Canetti (Massa e potere) e, soprattutto, nel saggio di José Ortega (La ribellione delle masse). A questo elenco specifico va anche aggiunto il saggio di George L. Mosse: "La nazionalizzazione delle masse" che, seppur riferito precipuamente alle radici del nazismo, presenta riflessioni e parallelismi che possono essere mutuati in qualsiasi contesto epocale. Oltre le masse, ovviamente, vi sono coloro che

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sanno resistere ai condizionamenti del Tempo, alle pressioni della cultura dominante, riuscendo sempre a vedere "oltre" e a discernere il grano dal loglio. Sono i rari nantes in gurgite vasto che, in genere, in un momento particolare della loro vita, mentre passeggiavano nel bosco, si sono trovati al cospetto di due strade che divergevano, proprio come accadde a un grande poeta. Scelsero di percorrere la meno battuta e questo ha fatto tutta la differenza. Orgoglioso e fiero di far parte di questa categoria e di poter raccontare, sorridendo, il mio sessantotto. Lino Lavorgna

NOTE 1) L'episodio citato ebbe una replica più o meno analoga esattamente venti anni dopo. Collaboravo con una importante società partenopea, la "Joint Venture", che racchiudeva tre gruppi operativi: "Cinenova", proprietaria del Cinema Fiorentini e del vecchio Cinema-Teatro Acacia, rilevato e ristrutturato dopo un lungo periodo di chiusura; "City-Congress"; la catena dei ristoranti "Chopin". La sede era all'interno dell'Hotel Santa Lucia, che faceva parte del gruppo. Ero molto legato all'amministratore, un affascinante architetto, marito di una delle donne più importanti di Napoli, figlia di un imprenditore proprietario di molti alberghi, non solo a Napoli. Mi piaceva molto quella struttura, nella quale vedevo proiettato un futuro brillante come direttore artistico del Cinema-Teatro "Acacia", con annesse diramazioni nel campo cinematografico e dello showbiz, che non mi stancavo mai di "sollecitare" ai dirigenti. Purtroppo, a seguito del divorzio della coppia, si sfasciò tutto e l'Acacia non fu più gestito dall'Architetto mio amico, ma dalla ex moglie, che affidò la direzione artistica a Geppy Gleijeses. Fu proprio al Cinema "Fiorentini" che venne presentato, in anteprima nazionale, il capolavoro di Giuseppe Tornatore "Nuovo Cinema Paradiso" e io ebbi l'onore di essere tra gli invitati. Inutile dire che il film mi piacque molto e non mancai di esternare il mio apprezzamento al regista, tra lo stupore di molti amici e colleghi del Gruppo, i quali, senza tanti giri di parole e con il sorrisino sulle labbra, mi fecero intendere che avevo formulato i complimenti per mera "captatio benevolentiae" nei confonti del regista. Alla mia replica seguirono i classici "ma dai", "a chi vuoi farla bere", essendo tutti convinti che il film, non essendo piaciuto a loro, di sicuro non fosse piaciuto nemmeno a me. "E' una cagata pazzesca", mi disse uno dei massimi dirigenti della CINENOVA, ovviamente "espertissimo" di cinema e teatro, aggiungendo, con aria sorniona "…e tu lo sai benissimo", lasciando intendere che aveva ben compreso lo scopo recondito del mio gesto. Capii che non vi era partita, che non vi era verso di far comprendere la mia ritrosia a ogni forma di leccaculismo e mi godetti la serata senza insistere. Il film fu un vero flop al botteghino: non piacque a nessuno, gettando nel profondo sconcerto il regista e soprattutto Franco Cristaldi, che in compartecipazione con una società francese aveva prodotto il film, investendo una barca di soldi. Che il film fosse valido era chiaro a un numero ristretto di persone e a qualche critico, ma quando ci sono di mezzo i soldi, i complimenti dei pochi non contano. Bisognava intervenire in qualche modo. Il film "bellissimo" non era piaciuto e allora Tornatore lo ripropose in modo meno bello, togliendo circa trenta minuti di eccellente girato. Nonostante anche questa versione fosse stroncata dalla critica e dal pubblico in Italia, nel 1989 (forse con un piccolo aiutino assicurato dai produttori francesi), ottenne il Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes, cui fecero seguito il premio Oscar e il Golden Globe nel 1990. In Italia tornò nelle sale e ottenne il grande successo di cui tutti siamo a conoscenza, con incassi stratosferici. I miei amici che mi avevano sbeffeggiato alla prima? Come se nulla fosse stato. Con molti di loro ritornai a vedere il film, che a me ovviamente piacque di meno perché preferivo la prima versione. "Davvero stupendo", dissero tutti, dimentichi di ciò che avevano affermato solo due anni prima


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IL PIAVE MORMORAVA PARTE V: IL LATO OSCURO DELLA GUERRA PREMESSA Questo capitolo del saggio dedicato alla Grande Guerra non sarà né bello né piacevole da leggere, alla pari degli altri che seguiranno. La storia d'Italia, in effetti, resa spuria delle tante mistificazioni, non è mai una bella storia, anche quando celebra gli eroi e i puri, che non sono certo mancati, perché costoro hanno sempre dovuto fare i conti con la cinica scellerataggine di altri, spesso pagando con la vita il loro idealismo. Scandagliare gli eventi per proporli nella loro cruda essenza, tuttavia, è l'unico modo per iniziare a scrivere pagine di storia che ci consentano di fare, seriamente, i conti con il nostro passato. Non è facile e si corre il rischio di urtare molte sensibilità, abituate da sempre a preferire una generosa illusione alla reale consistenza di fatti e personaggi che, a loro volta, presentano molti lati oscuri di difficile decantazione. Provare a districare questa intricata matassa è davvero una grande sfida. Le grandi sfide non ci hanno mai spaventato e ciò, ovviamente, vale per tutte le epoche storiche. Qui parliamo di Grande Guerra. IRREDENTISMO: NOBILE PRESUPPOSTO O FALSO SCOPO? Quarta guerra d'indipendenza. Così è stata definita la Prima Guerra Mondiale, assecondando l'enfasi mazziniana sui confini da lui concepiti: "Le Alpi Giulie sono nostre, come le Carniche. Il litorale istriano è il compimento del litorale veneto. Nostro è l'alto Friuli; nostra è l'Istria e nostra è Trieste. Lì sta la porta dell'Italia: il ponte che unisce noi e gli ungheresi. Abbandonandola, quei popoli rimangono ostili. Avendola, sono sottratti all'esercito nemico e alleati al nostro". Bella descrizione, che ancora oggi, in quelle terre, fa storcere il naso a molte persone. Figuriamoci allora. Nell'accordo di Londa del 1915, che sancì l'alleanza dell'Italia con le forze dell'Intesa, ai territori idealmente considerati parte integrante dell'Italia sotto il giogo straniero, furono aggiunti, tanto per arricchire un po' il banchetto con nuove pietanze, pezzi di Slovenia e di Croazia, un pizzico di Albania e un pugno di isole greche. Non si vuole arrivare a sostenere che l'irredentismo fosse solo un "pretesto" per allargare i confini territoriali, ma è cosa buona e giusta da un lato "allargare i confini speculativi sui reali intenti" e dall'altro analizzare con attenzione gli umori e i sentimenti di coloro che abitavano in quei territori. Sui libri di storia è scritto che furono molti i soldati che disertarono l'esercito austro-ungarico per congiungersi con i fratelli italiani; su personaggi come Cesare Battisti, Damiano Chiesa, Fabio Filzi sono stati

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consumati fiumi d'inchiostro. In realtà, nel 1914, si registrò la fuga di 400 cittadini, che diventarono poco più di 3000 alla fine della guerra. Oltre sessantamila, invece, i trentini che combatterono regolarmente nell'esercito austriaco, servendo il loro Stato alla pari dei soldati di tante altre nazioni. Non ebbero alcuna percezione di combattere contro i propri fratelli perché, da generazioni, si sentivano cittadini dell'Impero Austro-Ungarico, che si chiamava "impero" proprio perché inglobava popoli di varie etnie. Quei cittadini si trovarono italiani al termine della guerra e, come tutti ben sappiamo, i loro nipoti, ancora oggi, hanno difficoltà a parlare italiano correttamente. CHERCHEZ L'ARGENT. Quale che sia la considerazione che si abbia della guerra, è chiaro a tutti che essa richieda alti costi per la produzione di armi, munizioni, vestiario, vettovagliamento, etc. Si possono senz'altro confinare nell'alveo della retorica da quattro soldi, pertanto, le reboanti filippiche di coloro che "rinnegano" la guerra in considerazione dello sperpero di denaro pubblico perché, come spesso accade, vuol dire guardare il dito anziché la luna. Altra cosa, invece, è parlare del ruolo di chi fomenta le guerre per mero interesse personale, in particolare i produttori di armi, che con cinica spietatezza sono capaci di tutto, anche di usare come burattini degli ignari idealisti. Non sempre ignari, a onor del vero e quindi non sempre "idealisti" tout-court. Ciò premesso, pur essendo ben radicato il convincimento che i mestatori adusi a predicar bene e a razzolar male non siano mai mancati, non è corretto annoverare tra costoro, come ha fatto qualcuno, anche quel tal Gaetano Rapagnetto che ha conquistato fama planetaria con il più aulico nome di Gabriele d'Annunzio (con la "d" minuscola, volendo rispettare il certificato anagrafico). Se anche lui abbia preso un po' di soldi dagli industriali produttori di armi, in effetti, è oggi irrilevante, perché la vocazione bellica sarebbe rimasta analoga anche in assenza di prebende. Lo stesso dicasi per Giovanni Papini, animoso guerrafondaio che già da giovinetto aveva manifestato chiari segni del suo essere un po' fuori di testa, distruggendo in un colpo solo tutta la filosofia e affermando che Kant, Hegel, Shopenhauer, Comte, Spencer e Nietzsche, messi sullo stesso piano a prescindere dalle sostanziali differenze, dovevano essere gettati via come "inutili carogne". Un articolo pubblicato il 1° ottobre 1914 su "Lacerba", la rivista fondata con Ardengo Soffici, è molto eloquente: "Finalmente è arrivato il giorno dell'ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando la decima dell'anime per la ripulitura della terra. Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue per l'arsura dell'agosto; e una rossa svinatura per le vendemmie di settembre; e una muraglia di svampate per i freschi di settembre. (...) E' finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell'ipocrisia e della pacioseria. Siamo troppi. La guerra è una operazione malthusiana. C'è un di troppo di qua e un di troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un'infinità di uomini che vivevano perché erano


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nati; che mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il coraggio di rifiutar la vita. (...) Fra le tante migliaia di carogne abbracciate nella morte e non più diverse che nel colore dei panni, quanti saranno, non dico da piangere, ma da rammentare? (…) Chi odia l'umanità - e come si può non odiarla, anche compiangendola? - si trova, in questi tempi, nel suo centro di felicità. La guerra, colla sua ferocia, nello stesso tempo giustifica l'odio e lo consola. Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è spaventosa - e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi". Oggi gli psicologi andrebbero a nozze nel cercare di decriptare le turbe psichiche alla base di una propensione alla distruzione dell'altro, magari rifacendosi alle teorie di John Dollard sull'aggressività come principale reazione alla frustrazione. In quei tempi, però, le parole reboanti - d'Annunzio docet - avevano facile presa su masse sostanzialmente analfabete o poco colte, che subivano il fascino degli oratori d'alto rango, in special modo se nessuno osava contestarli o le contestazioni, ancorché ben articolate, non riuscivano a imporsi con pari peso: 1 l'apparire che sconfigge l'essere è una costante nella storia dell'umanità . Fatto sta che con questi superbi supporti, adeguatamente prezzolati o meno che fossero, gli industriali italiani fecero bingo, aiutati anche dalla Francia, circa la quale è oramai acclarato il sostegno economico assicurato agli interventisti, a cominciare dal cospicuo contributo offerto a 2 Benito Mussolini quando fondò "Il Popolo d'Italia" . Prima dell'entrata in guerra, tra l'altro, le industrie nostrane spaziarono su "tutti i fronti", vendendo armi in egual misura sia alle forze dell'Intesa sia all'Austria e alla Germania, salvo poi votarsi in blocco alla causa interventista quando gli ordini incominciarono a scemare in virtù del costante incremento delle produzioni interne. Aziende di non grandi dimensioni come la FIAT, la BREDA, la FRANCO TOSI, l'ANSALDO, grazie alla guerra diventarono dei colossi. Emblematico il caso della BORLETTI, che quando si chiamava "Industrie Femminili Lombarde" operava nel settore tessile e nella produzione di sveglie. Il patriarca Senatore Borletti (Senatore è il nome di battesimo; poi senatore lo divenne davvero durante il Fascismo) riconvertì gran parte della linea industriale al fine di produrre spolette per proiettili, guadagnando una montagna di soldi. Al termine della guerra pensò di investire nella distribuzione organizzata e comprò i magazzini Bocconi, specializzati nella vendita di abiti confezionati. Non contento dei risultati, decise di imitare "La Galèrie Lafayette", vendendo un po' di tutto. Doveva trovare un nome per la catena dei negozi e cercò di reperirlo, invano, nelle pagine di "Au bonheur des Dames" di Emile Zola. Si affidò allora a Gabriele d'Annunzio, che non impiegò molto tempo per individuare quello più adatto: "La Rinascente". Milioni di spolette avevano generato milioni di morti, ma anche milioni di lire che, a loro volta, contribuirono alla diffusione di tanti negozi nei quali, milioni di italiani, hanno gioito spendendo i loro quattrini. "Succhionisti" e "pescecani" furono chiamati coloro che si arricchirono sulla pelle dei poveri soldati che marcirono nelle trincee e persero la vita in tante inutili battaglie.

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L'ESERCITO ITALIANO L'esercito italiano non era preparato a una guerra di quella portata, sotto qualsivoglia punto di vista. Psicologicamente l'italiano ripudia la guerra e la fa sempre controvoglia, solo perché vi è costretto. I più furbi cercano di evitarla con ogni mezzo e chi non vi riesce avverte la triste condizione della duplice sventura: essere vittima di scelte non condivise e non avere la forza di impedirne le conseguenze. Gli armamenti erano insufficienti e scadenti. Il fucile in dotazione alle truppe era il vecchio Carcano adottato nel 1891 (fu sostituito solo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale), che non reggeva il confronto con i Mannlicher utilizzati da tedeschi e austriaci. L'abbigliamento fornito ai militari era inadeguato e ingombrante. Sono davvero tante le testimonianze dei soldati che denunciarono la confusione registrata durante la distribuzione delle divise e delle scarpe. In particolare l'abbigliamento non era adatto al clima rigido e ciò determinò un grande numero di morti. Il vettovagliamento era insufficiente e lo diventò ancor di più a mano a mano che le risorse si esaurirono, determinando drastiche riduzioni delle porzioni giornaliere, con quali effetti sul morale e sulla resistenza fisica delle truppe è facilmente immaginabile. Gli ufficiali italiani, in particolare quelli di alto rango, avevano una visione arcaica e obsoleta della guerra e si resero responsabili della morte (evitabile) di centinaia di miglia di soldati. Pervasi da un cinismo becero pregno di autoreferenzialità, pensavano solo alla propria carriera, senza alcun riguardo per la vita dei sottoposti, considerati alla stregua di "oggetti" sacrificabili per soddisfare le proprie ambizioni. Non provavano nessuna pietà per le condizioni impossibili in cui operavano i soldati, nelle trincee trasformate in latrine. Ordinavano attacchi impossibili, per i quali era chiaro a tutti che si andava "solo" incontro a morte certa, pur di assecondare, con il classico italico leccaculismo, gli ordini pazzeschi diramati dai loro comandanti, ancora più cinici e spietati. Coloro che cercavano di far comprendere "l'assurdità" di certi ordini venivano trattati come traditori vigliacchi e fucilati senza indugio. Quando si usciva dalle trincee i soldati sapevano che alle loro spalle vi erano i carabinieri pronti a far fuoco in caso di ritirata o mancata avanzata: potevano solo scegliere, pertanto, se morire per mano nemica, falcidiati dalle micidiali mitragliatrici, o per mano amica. Inettitudine, inefficienza, mancanza assoluta di sensibilità, bramosia di potere e imbecillità furono le caratteristiche peculiari di coloro che avevano nelle loro mani la vita di milioni di persone. Su tutti loro, però, emerse e si distinse un uomo che, a pieno titolo, può essere considerato la più grande carogna che l'esercito italiano abbia mai potuto vantare: Luigi Cadorna. I CAPI COMBATTONO PER LA VITTORIA, IL SEGUITO PER IL CAPO Il titolo del paragrafo è tratto dal capitolo XIV dell'opera di Tacito "Germania", che nel testo in mio possesso, edito da Einaudi nel 1968, riporta la traduzione di Camillo Giussani, con il termine


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"compagni" al posto di "seguito". Grande rispetto per l'insigne umanista-banchiere (fu presidente della Banca Commerciale Italiana), ma preferisco tradurre "comites" con "seguito" anziché con "compagni", specialmente in questo contesto. Il titolo, infatti, calza a pennello per introdurre la figura di uno psicopatico che ebbe nelle proprie mani la sorte di milioni di individui fino alla rotta di Caporetto. Luigi Cadorna nacque a Pallanza il 4 settembre del 1850. Il padre Raffaele, anch'egli generale, fu l'artefice della conquista di Roma nel 1870. Con siffatto lignaggio gli fu facile scalare velocemente i gradini della carriera militare, fino a raggiungere il grado di Capo di Stato Maggiore dell'esercito, nel 1914, senza però mai aver svolto ruoli di comando nelle varie guerre coloniali combattute dal 1884 al 1912. In realtà la scelta del nuovo Capo di Stato Maggiore avvenne nel 1908, quando si dovette sostituire il generale Tancredi Scaletta per raggiunti limiti di età. In ballo vi erano il generale Alberto Pollio, che si era ricoperto di gloria e aveva un curriculum impeccabile e Luigi Cadorna, di due anni più vecchio, ma un vero nano al cospetto del collega. La frase con la quale Giolitti spiegò la scelta di Pollio non necessita di commenti: "Ho scelto Pollio, che non conosco, perché Cadorna lo conosco". Sarebbe stato il generale casertano, pertanto, a guidare le truppe nel corso della Grande Guerra, se la "malasanità" non lo avesse ucciso. Il 30 giugno 1914, mentre a Torino assisteva ad alcune prove militari, accusò un malore. Gli fu diagnosticata una banale indigestione dallo stesso medico che, in passato, gli aveva riscontrato gravi disturbi al cuore. Nonostante il paziente fosse pallido, sudasse freddo e accusasse forti dolori al petto, il medico non ebbe alcun sospetto: indigestione. Gli praticarono un'iniezione di caffeina, una seconda iniezione di olio canforato e gli consigliarono di riposarsi. Lui dovette capir male perché si lasciò sopraffare dall'infarto e si avviò verso il riposo eterno, spianando la strada a colui che fu artefice di tanti disastri. L'esercito che gli fu affidato era scarsamente addestrato e, come scritto in precedenza, privo di quegli elementi primari che consentano di combattere con piena efficienza. L'inesperienza bellica era pari alla testardaggine. Autoritario e ostinato, non consentiva obiezioni alle sue idee. Non nutriva alcun rispetto per i soldati, il cui sacrificio non gli era mai sufficiente. L'autoreferenzialità non aveva limiti e non gli mancavano quei presupposti comuni a tanti uomini di potere, adusi a sfruttare la propria posizione anche per arricchirsi, non importa con quale mezzo. Subito dopo aver assunto il comando dello Stato Maggiore si preoccupò di alcune azioni delle Acciaierie Ansaldo, acquistate in precedenza. Il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, in pratica, era azionista dell'azienda produttrice di armi cui si sarebbe rivolto per potenziare l'esercito, con inevitabile incremento del valore delle azioni e quindi degli utili. (Il conflitto di interessi non è certo nato oggi). A tutela personale preciso che queste notizie sono riportate con la formula "relata refero", citando la fonte, ossia il "brillantissimo" testo di Lorenzo del Boca: "Grande Guerra, piccoli generali", edito da UTET nel 2008. Scrivo a "tutela personale" perché, nel 2009, il nipote di Luigi Cadorna, il colonnello in pensione Carlo, citò in giudizio Lorenzo del Boca per quanto scritto nel libro. Il Tribunale archiviò

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la querela dal momento che il testo non rivela fatti inventati a scopo diffamatorio e si configura come normale critica storica. Siccome prevenire è meglio che curare, è bene che ciò sia ampiamente spiegato. Tanto più che, presto, su queste colonne saranno affrontate anche le tematiche legate alla Seconda Guerra Mondiale, di sicuro anch'esse spiacevoli per l'ex colonnello Carlo, in virtù delle bordate ad alzo zero che saranno dedicate al padre, il generale Raffaele. L'ipocrisia della storiografia ufficiale ha offerto un'immagine edulcorata del generale Cadorna, mascherando le tante colpe ed enfatizzando tutto ciò che poteva servire a ridimensionare la pessima condotta della guerra, soprattutto in occasione della disfatta di Caporetto. I dati ufficiali, però, parlano da soli e ancor meglio parlano coloro che sono stati sotto il suo comando. Molte centinaia di ufficiali furono "silurati" (termine che ricorre spesso nella cronaca storica di quegli anni) anche per futili motivi o per mera antipatia. Stessa sorte fu riservata ai generali, in particolare se gli facevano ombra con la loro maggiore esperienza. L'elenco è lungo e per amor di sintesi si cita solo l'episodio che riguardò il generale Giuseppe Venturi, il conquistatore del Sabotino e del Passo della Sentinella, che si oppose al solito insulso ordine dell'attacco frontale, asserendo che non aveva alcuna intenzione di massacrare migliaia di uomini per rispettare una teoria nella quale non credeva, quando sarebbe stato possibile sfruttare i fianchi del nemico. Non l'avesse mai detto! La destituzione fu immediata. Ancor più numerosi furono i soldati condannati a morte con processi sommari o senza alcun processo, perché in tal modo presumeva di mantenere la disciplina tra le truppe e assicurarsi obbedienza cieca. Una frase che ripeteva spesso ai generali era la seguente: "Le sole munizioni che non mi mancano sono gli uomini". La morte degli altri non lo impressionava. Quando il colonnello Asclepia Gandolfo tentò di opporsi a un ordine, spiegando che era impossibile superare l'ostacolo rappresentato dai reticolati protetti da una micidiale batteria di mitragliatrici, replicò freddamente: "Superateli facendo materassi di cadaveri". La concezione dell'attacco frontale, del resto, racchiusa in un libricino di pochi capitoli, non lasciava adito a equivoci sulla considerazione che nutriva per la vita umana. Teorizzava due tipi di attacco: quello brillante e quello lento. "Per attacco brillante si calcola quanti uomini la mitragliatrice può abbattere e si lancia all'attacco un numero di uomini superiore: qualcuno giungerà alla mitragliatrice". In buona sostanza non esitava a sacrificare 8-900 soldati per conquistare una batteria composta da due soldati. "Per attacco lento si procede verso la mitragliatrice mediante camminamenti coperti, in modo da subire meno perdite, finché, giunti vicino, si assalta". Peccato che i "camminamenti coperti" terminassero dove iniziava "la terra di nessuno", lastricata dai morti che la sua follia generava. A conclusione di questo capitolo ritorna l'eterno dilemma del "se", già ampiamente discusso in questo magazine. Cosa sarebbe successo "se" il generale Pollio fosse stato ben curato e avesse comandato lui l'esercito? Non lo sapremo mai con certezza e possiamo solo ipotizzare che, quanto meno, si sarebbe dimezzato il numero dei soldati morti. L'avventura bellica, invece, iniziò con il peggior figuro che si potesse sperare alla guida


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dell'esercito. Pur risultando imbattibile nella condotta ignobile, ebbe numerosi emuli, tra i quali emerse e si distinse in modo particolare un certo Pietro Badoglio. Lino Lavorgna

NOTE 1) So bene che tra i lettori di questo magazine abbondano i fan di Papini e che tutti loro fanno parte di una più corposa schiera che guarda con affetto e simpatia agli esponenti del "Futurismo", anch'essi attivamente impegnati a glorificare la guerra come unica igiene del mondo. E' proprio a loro che si chiede lo sforzo maggiore per offrire un contributo sostanziale a quella svolta, necessaria e ineludibile, per una reale riscrittura della storia italiana e, perché no, della storia europea. Li "conosco" tutti anche se molti di loro non li ho mai incontrati. Li "conosco" perché fanno parte del mio mondo; quel mondo che, lo sostengo con orgoglio e fierezza, raccoglie il meglio della società italiana. Per retaggio generazionale, però, siamo tutti in una fascia di età che ci obbliga a guardarci allo specchio e a chiederci se non vi siano ancora delle increspature da eliminare, dei fardelli di cui liberarci. E' uno sforzo da compiere, anche se faticoso. Ne vale la pena, tuttavia, perché dopo averlo compiuto ci sente davvero liberi, con la mente fresca, con le idee chiare e soprattutto con la facoltà di poter sempre avere l'ultima parola, in qualsiasi contesto, dimostrando agli altri quanto siano ancora schiavi dei propri pregiudizi. Io l'ho compiuto da tempo questo sforzo e posso testimoniare in tal senso. 2) Molto interessante quanto emerse, in tal senso, in occasione del XLI Congresso di Storia del Risorgimento italiano, tenutosi a Trento dal 9 al 13 ottobre 1963. Al convegno, che ebbe scarsa eco perché surclassato dalla tragedia del Vajont, parteciparono molti storici italiani, austriaci e francesi che avevano combattuto nella Grande Guerra. Testimoni diretti di un evento che avevano ben decantato da studiosi nei successivi decenni e quindi testimoni "speciali". Fu in quella occasione che venne mostrato il diario del Conte Robert de Billy, segretario dell'ambasciata francese a Roma negli anni 1914-1915, che scrisse testualmente: "Non si deve dimenticare il ruolo importante giocato dai giornali per l'entrata in guerra dell'Italia. Ad un certo momento era parso che, senza il fervente sostegno che la stampa aveva assicurato ai protagonisti della rottura con l'Austria, poteva avvenire un'esitazione e, chissà, un ritorno al passato. L'aspetto più rimarchevole, mi pare essere il contenuto del primo incontro con Mussolini. Questi, avendo rotto con i socialisti, aveva fondato il "Popolo d'Italia". Fu proprio il Conte Billy che si fece carico di convincere l'ambasciatore Camille Barrère a finanziare Mussolini. De Felice conferma il dato nella sua imponente opera sul Fascismo, avendo cura di precisare che Barrére in un primo momento si dimostrò riluttante perché non gli era chiara la posizione di Mussolini, considerato un sovversivo, e che il finanziamento fu favorito dai socialisti francesi presenti nel governo, passati anche loro dal pacifismo delle origini all'interventismo per difendere il sacro suolo della patria.

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POLITICA

Confini

ACCENSIONE SPONTANEA ANCHE PER I MOTORI A BENZINA CARO KURT VOLKER, CHE FAI, CI CACCI? MAMMA! TURCHI IdeeLI & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

www.confini.org


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