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Web-magazine di prospezione sul futuro

Confini

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ELIGERE

Raccolta n. 61 Febbraio 2018


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Confini Webmagazine di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Raccolta n. 61 - Febbraio 2018 Anno XXI

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti - Cristofaro Sola +

Hanno collaborato: Francesco Diacceto Gianni Falcone Roberta Forte Piérre Kadosh Alfredo Lancellotti Lino Lavorgna Antonino Provenzano Angelo Romano Gianfredo Ruggiero Massimo Sergenti Cristofaro Sola +

Contatti: confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

LIBERO ARBITRIO Nella dinamica tra i poteri italiani la politica, - o meglio i poteri da questa incarnati - nell'ultimo quarto di secolo, è risultata perdente nei confronti del potere giudiziario. Perdente per la scarsa qualità della classe politica e per la sua cattiva coscienza ed anche per la sua incapacità di legiferare in maniera chiara e, quindi, in grado di concedere scarsi margini all'arbitraria interpretazione dei singoli magistrati. Un'arbitraria interpretazione che tende sempre più a farsi legge. Due esempi tratti dalla cronaca degli ultimi tempi: un omicida rumeno viene scarcerato dopo soli quattro anni di detenzione, Marcello dell'Utri, condannato a sette anni per un reato davvero dubbio, nato non dal codice ma dall'arbitrio interpretativo dei giudici: il concorso esterno all'associazione mafiosa, cui viene negata la possibilità di curarsi nonostante un tumore maligno, una cardiopatia, un diabete, ben 76 anni di età e nonostante abbia scontato quasi interamente la sua pena. Ma di esempi se ne potrebbero fare tanti altri, a partire dai tantissimi processi il cui esito viene ribaltato integralmente nei tre gradi di giudizio. Da ultima l'eclatante assoluzione piena e completa di Guido Bertolaso dopo otto anni di calvario giudiziario e mediatico. Ma anche a questo i cittadini si sono, colpevolmente, assuefatti. Eppure più ampi si fanno i margini alla libera interpretazione delle leggi da parte dei magistrati, meno la legge è uguale per tutti. Tant'è che per alcuni colpevoli di omicidio il fine pena è mai, per altri bastano pochi anni di carcere. Emblematica l'asimmetria di trattamento riservata agli stragisti degli anni di piombo: alcuni se la sono cavata a buon mercato ed oggi sono professionisti affermati, per altri - a parità di colpe giudiziarie - la libertà è ancora un miraggio. E di “asimmetrie” se ne potrebbero citare tante a partire dalla mancata separazione delle carriere che pone su piani differenti i pubblici accusatori ed i privati difensori. Una separazione tante volte promessa da più parti e mai realizzata proprio per la intrinseca debolezza della politica. Per non parlare delle evidenti falle del sistema giudiziario, della assurda durata dei processi, dell’eccessivo ricorso alla carcerazione preventiva, dell’arbitrio assoluto cui sono esposti i detenuti in carceri insufficienti e largamente fatiscenti tanto che da più parti ci si riferisce alla “tortura” connessa, spesso, al trattamento detentivo in barba ai diritti umani ed alle reiterate rampogne dell’Unione Europea e della sua Corte di Giustizia


EDITORIALE

Sempre in tema di “asimmetrie” tra poteri: per un giudice è facile passare al potere legislativo grazie ai diritti di cittadinanza, tant’è che sempre più numerosi sono e sono stati i magistrati divenuti parlamentari per poi, quasi sempre, rientrare nel loro ordine di appartenenza, la stessa cosa non è possibile per un parlamentare a causa delle alte mura poste a protezione dell’Ordine giudiziario. Eppure in altre democrazie avanzate i giudici li eleggono i cittadini. Non resta che sperare. Sperare che la politica sappia e voglia riprendere a fare buone leggi, chiare e ben scritte, dettagliate fino a delimitare con pignoleria i margini di interpretazione. Sperare che si proceda ad una revisione profonda della legislazione vigente. Solo così si potrà ristabilire un giusto equilibrio tra poteri e fare in modo che la legge sia il più possibile e per davvero uguale per tutti. I nuovi eletti ne saranno capaci? Questo dovrebbe essere il tratto principale del mandato di rappresentanza tra cittadini ed eletti. Purtroppo, invece, un giustizialismo ottuso si fa strada in Italia. Angelo Romano

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SCENARI

ELIGERE Risum teneatis amici? (Potete, o amici, trattenere il riso?) - Orazio, Ars poetica, 5

Lo so. Il contributo per questo mese l'avevo già dato. Infatti, avevo scritto il pezzo 'Gli alieni sono tra noi' subito dopo la Befana, ormai prostrata dalle stroboscopiche luminarie urbane, dall'alienante musica techno dei clacson, dalle frotte di allucinati alla caccia del 'regalino' e dalla cascata di cadeau che, sin dall'avvio della campagna elettorale, faccioni sorridenti, dai toni a volte melensi e a volte sarcastici, hanno preso a riversare nelle case degli italiani come novelli Babbi di Natale, senza che neppure uno sbaffo di fuliggine imbruttisca le loro sembianze. Così, ho pensato di ricorrere al più classico dei processi psicoterapici e di esternare il mio malessere (e i suoi motivi) prima che sedimentasse. Ma troppi sono i fatti che nel restante mese di gennaio e in questo scorcio di febbraio si sono accavallati. Oddio! Non che questi siano accadimenti degni di rilievo per il bene del Paese ma, nell'ambito del cabaret che sta allietando gli spettatori e che sarà in cartellone fino al 4 marzo p.v., sono sicuramenti degni di miglior nota: le più esilaranti gags che paroliere abbia mai potuto scrivere. E, tra gli accadimenti più eclatanti e, paradossalmente più spassosi, non poteva mancare l'apparire in scena del pilastro fondamentale della Repubblica. Tra rullare di tamburi e squilli trombe: "Ecco a voi, signore e signori, reduce dei successi internazionali mietuti nella Guinea, nella Repubblica Centrafricana, nel Malawi e nel Burundi, il LAVORO!!!!". Il grande assente della prima tornata delle 'offerte' natalizie ha finalmente fatto la sua comparsa sul palcoscenico dove la politica sta dando il meglio di sé stessa per non demeritare nell'applausometro. Ora, il 'lavoro' è divenuto l'imperativo categorico, il 'must' d'eccellenza. Non c'è coalizione, fazione, movimento che non ne parli, promettendo mirabolanti risultati se, al prossimo 4 di marzo, l'asticella dei consensi supererà il fatidico 40%. Renzi è arrivato persino a emulare il Cavaliere d'altri tempi nel promettere ben 'un milione di posti di lavoro'. Ma, a tal proposito, non c'è coalizione, fazione o movimento che si azzardi a dire con quali strumenti e attraverso quali processi giungerà a così mirabolanti risultati. E, però … Voglio essere buona. Non si può pretendere che il prestidigitatore sveli il segreto del trucco della 'donna tagliata in due' o della 'liberazione dalla camicia di forza in una vasca chiusa piena d'acqua': sono i segreti del mestiere. Tanto, non c'è rischio e il pubblico pagante è contento.


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E, però … Voglio essere cattiva. Mi viene in mente un famoso comico del passato, Petrolini, e una sua famosa 'macchietta': quella della comparsa cinematografica. “Stia lì, stia lì. Erano sett'anni che stavo lì e nun m'ero mai mosso quando, a un certo punto, arriva un regista che me fa: "Signorino, si tenga pronto perché c'è da girare la famosa scena del pranzo luculliano e dell'orgia.". Capirai … più pronto de così …. È na' settimana che nun magno e tutte le sere 'n cucchiaino de magnesia. Perciò, al 'si gira', m'avvicino ar tavolo e addento 'na coscia de pollo …. Ma, la miseria! So' stracci pressati, anche la carne è cartone pressato e er vino è acqua e caffè. E, mentre pensavo alla sfortuna, ecco che arriva 'na vestaja (vestale), 'na fioraia, 'na cosa così, che me fa: "Signorino, facciamo l'orgia?". "L'orgia?!?! Ma è na' settimana che nun magno …". "Beh! Si fa per finta". "Pure questo?!?". Così, mentre me ne sto co' 'na coscia de qua e 'na gamba dellà, ecco che me s'avvicina 'n Ursus e me molla 'na cinquina che me se stampa 'n faccia e 'n cazzottone che me rompe 'n dente. "Basta … basta. Va be' er pollo de stracci, la carne de cartone, er vino de acqua e caffè. Va be' pure er sesso finto ma qui le botte so' vere. E, pe' du' lire ar giorno, mavamoriammazzato.". Recentemente, un bravo tecnico che casualmente si trova a fare il ministro, Carlo Calenda, ha affermato che se potessero essere tassate le 'boutade' che stanno allietando questa campagna elettorale, il ripianamento del deficit statale sarebbe garantito. Sì, non c'è dubbio, un grande spettacolo quello che sta andando in scena, dove in quest'ultimo mese non sono mancate strepitose apparizioni di attori e pure di 'spalle' con le gags incentrate sui nervi scoperti degli italiani: il ripristino dei dazi e della leva nonché la chiusura delle moschee illegali (???) di Salvini, e le smentite di Berlusconi che, addirittura, lo definisce 'pirotecnico'; l'innalzamento della pensione minima di Berlusconi e la derisione di Renzi; l'abbattimento delle tasse di Renzi e le smentite dello stesso Calenda e, sommessamente, di Padoan. E la tournée a Londra dell'ingessato Di Maio? Si pensi, per 'rassicurare' i mercati (sob): 'Non siamo populisti' ha tuonato dalla City. Oh! Bene. E, allora, cosa? In ogni caso, sono indubitabilmente pronta a credere che di fronte ad una tale, categorica rassicurazione, espressa da un così autorevole personaggio, tutti gli operatori finanziari ed economici abbiano tirato un gran sospiro di sollievo. Ma la gag più grottesca è quella dei Guerrieri del Destino italico, i Tedofori della Fiamma della Fratellanza che hanno tappezzato i muri delle città con manifesti che a caratteri cubitali riportano: ‘Qui si fa l'Italia'. Voglio spiegarmi: il ricorso alla celebre frase che Garibaldi pronunciò a Calatafimi in risposta alle sollecitazioni di Bixio suscita tre distinte, alternative interpretazioni: sostituendosi (sob) al condottiero, ignorano cosa l'Italia sia divenuta da quel celebre giorno. Per cui, ripetere il cammino già percorso non mi entusiasma. Ovvero, sono poco acculturati sul piano sintattico e ortografico: il prefisso ri- avrebbe potuto toglierli dalle peste. Oppure, ignorano che sul piano storico la frase si completa con "…. o si muore.". Già. Meglio non sfottere 'a seccia’. Comunque, con una frase sciacquata in Arno si direbbe: sono raffermi. Il bello è che persino attori internazionali sono intervenuti nell'italica rappresentazione: dalle società di rating all'Ue. 'Bene così. La revisione in rialzo del PIL è la dimostrazione che la via delle riforme funziona'. Quali riforme? Perché, in verità, in quest'ultimi venticinque anni di riforme

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serie non ne ho vista neppure una. Men che meno in questi ultimi cinque anni. Ma il gran frastuono assorbe e annulla ogni voce dissenziente. Fortunatamente, i social-network suppliscono alla carenza. C'è una spiritosaggine che gira su quei circuiti e che sintetizza al meglio la situazione: "Dopo il 4 marzo mi alzerò tardi e non avendo impegni incombenti guarderò la televisione (senza pagare il canone: me lo ha promesso Renzi). Nel pomeriggio prenderò l'auto, senza pagare il bollo (me lo ha promesso Berlusconi) e farò un giro verso l'Università dove potrò vedere i tanti studenti che la frequentano (senza pagare le tasse: me lo ha promesso Grasso). E, siccome ci sarà un reddito minimo per tutti da 750 euro al mese (me lo ha assicurato Di Maio), credo che si possa anche fare a meno di andare a lavorare. Se poi per noia o per curiosità mi facessi assumere da qualcuno (perché il lavoro non mancherà: me lo hanno garantito tutti) mal che vada sarò pagato con almeno 10 euro all'ora (parola di Renzi). Non verrò licenziato, anzi il Jobs Act verrà abolito e i soldi che guadagnerò saranno tassati al 15% (me lo ha giurato Salvini). Si potrà andare in pensione a 60 anni, non più a 67, almeno con una pensione minima garantita di 1.000 euro al mese (come assicura Berlusconi).” Eh! Sì. La morale è che non bisogna credere alle lusinghe. Ne sa qualcosa Claudia Koll, a proposito dell'industria cinematografica e, in epoche più recenti, Guido Bertolaso in merito al caleidoscopio della politica. Con tutto il rispetto nei loro confronti, la prima pensava con ogni probabilità che mostrare apertamente il suo fondoschiena nel film 'Così fan tutte', sia pur sotto l''illuminata' (si fa per dire) regia di Tinto Brass, fosse un modo per sfondare in quel mondo ed arrivare a farsi apprezzare per le sue doti artistiche. Invece, il ruolo svolto in quel film l'ha condannata a vita. Fortunatamente, o sfortunatamente, (dipende dai punti di vista), dopo un po' audacia temeraria igiene spirituale ha incontrato Gesù, è divenuta suora laica e si è dedicata all'Africa. Il secondo, invece, ha ricoperto in quest'ultimo ventennio prestigiose cariche nel campo ambientale: direttore della Protezione Civile, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all'Emergenza rifiuti in Campania, commissario straordinario per il terremoto di L'Aquila, per la crisi dei rifiuti in Campania, per i vulcani nelle Eolie, per le aree marittime di Lampedusa, per la bonifica del relitto della Haven, per il rischio bionucleare, per i Mondiali di ciclismo di Varese del 2008, per l'area archeologica romana, per la prevenzione da rischi SARS, per la frana a Cavallerizzo, per l'emergenza incendi boschivi, nonché per i lavori in occasione del G8 della Maddalena, spostato poi a L'Aquila. Ed è proprio per i contratti del G8 che è stato indagato, rinviato a giudizio e processato. C'è chi pensa che non si possa non scontare il fatto di aver (ben) operato sotto tre governi Berlusconi, sia pur intervallati dal governo Prodi. Ovviamente, ciò significherebbe che la magistratura sia al di sopra della legge, che si presti per intenti politici. Io, però, non ci credo. Cosa pensare allora del tribunale mediatico, notoriamente libero e indipendente, che, sin dall'avvio ufficiale dell'inchiesta nel 2010, l'ha messo al muro e fucilato? Ed ora che è stato pienamente assolto perché il fatto a lui attribuito non sussiste dov'è il mea culpa per aver distrutto la vita civile e professionale di un uomo? Dove sono, ora, tutti i monolitici fustigatori di costumi sociali, gl'integerrimi custodi della morale


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nazionale, i vigili guardiani del senso civico, i compassionevoli operatori di coscienza misericordiosa, gli inflessibili protettori della memoria? Forse, Bertolaso riteneva di essere al riparo per la sua preparazione tecnica ma, indubbiamente, ha scoperto troppo le terga che, come noto, sono i bersagli prediletti da una sorta di proietti che l'ornitologia da tempo ha chiamato 'paduli'. Peraltro, Bertolaso, sebbene riabilitato pienamente, l'abbiamo perso: siccome, tra l'altro, è un medico altamente formato, ha deciso di andare in Africa e là dedicarsi alla medicina. E due. Umorismo (amaro) a parte, questo mi porta a riflettere su un altro campo: è questo che dovremo intendere, soprattutto nell'ottica di sinistra, per democrazia dell'alternanza? In caso di loro vittoria, l'annientamento civile e professionale di tutti coloro che hanno operato per il governo avverso? Dico 'sinistra' perché, si sa, la 'destra' è pronta a 'perdonare'. Anzi, fa di più: come i pregressi insegnano, si avvale, anche per alte mansioni, di soggetti che hanno proficuamente operato per gli avversari, forse ritenendo di accaparrarseli, spesso lasciando a spasso valenti operatori politicamente vicini. In realtà, così facendo, facilita ogni volta la denudazione del proprio posteriore. Ma che ci vogliamo fare? È un indice di fanciullesca ingenuità. Questo, tuttavia, mi porta a chiedermi se le puerili avventatezze, coniugate con le mirabolanti promesse, possano generare fiducia elettorale. C'è da perderci il capo in un tal tempestoso marasma ma la morale resta sempre la stessa: non scoprire le terga. Nel senso di non cedere alle lusinghe e valutare, attentamente e profondamente perché, come diceva tempo fa un famoso comico, "Se la vita è una tempesta, prenderlo nel culo è un lampo.". Roberta Forte

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COSA FARE IL 4 MARZO? TURARSI IL NASO

La campagna elettorale che si avvia al termine ci ha regalato molti, troppi, falsi bersagli sui quali dirottare il dibattito politico e, conseguentemente, l'attenzione dell'opinione pubblica. Non è stato un bene. Al contrario, ha nuociuto grandemente agli interessi del popolo italiano che, nel momento storico di maggiore travaglio e d'incertezza per il futuro, avrebbe avuto il diritto alla massima chiarezza da parte della classe politica. Piuttosto che affrontare i nodi decisivi dello sviluppo economico e dei rapporti di forza nel contesto europeo si è preferito puntare sull'irrealtà. Lo ha fatto la sinistra tirando fuori dalla naftalina il frusto argomento del ritorno del fascismo. Ma la destra non ha resisto alla tentazione di inseguire l'avversario sullo stesso terreno trascurando di tenere la barra dritta sui problemi reali degli italiani. Cosicché ci siamo ritrovati per giorni ad assistere agli scontri sul nulla a proposito di improbabili derive autoritarie mosse dal gesto disperato di uno squilibrato che, pistola alla mano, in quel di Macerata decide di affrontare il problema della presenza insostenibile d'immigrati clandestini sul suolo nazionale sparando all'impazzata controtemeraria alcuni malcapitati Intendiamoci, non è che la questione migratoria audacia igiene"neri". spirituale non esista o non sia, come da tempo sosteniamo, un problema di primaria grandezza per la tenuta della coesione sociale. Ma affrontarlo alla maniera imposta dalla sinistra, cioè risuscitando il fantasma del fascismo, è sembrata un'operazione quanto meno sospetta. Se così non fosse essa sarebbe semplicemente demenziale. Avremmo preferito che in luogo delle lunari discussioni sul grado di antifascismo dell'odierna comunità italiana, da misurare facendo l'analisi del sangue ai rappresentanti politici, si fossero affrontati nodi ben più spinosi dei quali si stenta a parlare. Non per eccesso di pudore ma, verosimilmente, per mancanza di chiarezza d'idee. Per restare sul piano della concretezza ne solleviamo uno che a noi sembra tra i più problematici. Riguarda l'offerta politica del centrodestra. Perché questa attenzione? Non è soltanto questione di naturale inclinazione verso quella parte politica. Il fatto è che, stando ai sondaggi, la coalizione guidata da una diarchia composta da Silvio Berlusconi e Matteo Salvini si prepara a vincere la partita elettorale. Se ciò dovesse avvenire le rose che stanno trapuntando il tappeto dei potenziali trionfatori si tramuterebbero, dal 5 marzo in poi, in altrettante spine pungenti. Perché cosa è lanciare proclami infarciti di buoni propositi e di promesse mirabolanti, altro è materializzarli nell'azione di governo. Il timore, giustificato dai precedenti storici, è che il necessario passaggio dalla teoria alla prassi non dia i frutti sperati e che l'ennesima apertura di credito che l'elettorato sarebbe disposta a concedere al centrodestra si vanifichi nel'ennesimo fallimento. È accaduto in passato per cui è legittimo nutrire qualche dubbio in proposito. A


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smentire il pessimismo dei "gufi" di renziana memoria, i protagonisti di questa nuova pagina della coalizione tengono a sottolineare che non vi saranno problemi perché prima degli accordi sulle composizioni delle liste è stato svolto un puntuale lavoro di costruzione di un programma politico unitario da implementare una volta al governo del Paese. La notizia non può che compiacerci. Ma non cancella i dubbi che continuiamo a nutrire. Benché sia vero che la formula del centrodestra unito non sia una novità ma risalga all'alba della Seconda Repubblica, bisogna ammettere che l'amalgama prodotto in questa fase è un'assoluta novità e deve passare per il vaglio della realtà prima che si possa affermare che funzioni. Segnatamente, se Berlusconi è sempre lo stesso: inossidabile, indistruttibile, inguaribile ottimista con la convinzione mai abbandonata di sentirsi uomo della Provvidenza, in grado da solo di risolvere tutti i problemi della quotidianità degli italiani al punto da neutralizzare l'elemento della complessità nella gestione della cosa pubblica, chi è profondamente cambiata rispetto alle origini è la Lega. Non solo nel nome e nelle facce dei suoi dirigenti. Matteo Salvini non è Umberto Bossi. Non è questione squisitamente caratteriale. Non si è nel gabinetto dello psicanalista. La differenza tra i due personaggi viene evocata per dare dimensione plastica, elementarmente intuibile, a una differenziazione sul piano del progetto strategico tra il vecchio corso ed il nuovo del partito della Padania. Non è questa la sede per enumerare i punti di divergenza tra i due progetti. Ciò che rileva nell'ambito dell'odierna riflessione è la circostanza per la quale mentre la Lega disegnata da Bossi nel formato sindacato territoriale era totalmente complementare alle esigenze del Berlusconi leader di avere le mani libere nell'amministrare a proprio piacimento la dote elettorale dell'intero centrodestra in sede nazionale, la Lega 2.0, nata dalle ceneri della vecchia, non concede all'alleato forzista la medesima disponibilità. Anzi, da partner che ha riposizionato il suo movimento conquistando la dimensione nazionale, Matteo Salvini si prepara a un confronto politico e programmatico con l'alleato moderato che si preannuncia molto complicato. A Umberto Bossi interessava avere nelle mani il governo delle regioni del Lombardo-Veneto. I palazzi romani non lo hanno mai entusiasmato. Berlusconi, che aveva compreso l'esigenza del suo sodale, gli ha accordato lo spazio richiesto in cambio del mandato a disporre della pattuglia parlamentare leghista in funzione dei propri obiettivi e dei propri interessi. Oggi Salvini non fa mistero di perseguire la "conquista di Roma" perché, a suo giudizio, essere al governo del Paese è la chiave di volta per cambiare i destini di quei territori del Nord dai quali non si è affatto distaccato. Ne consegue che anche in caso di prevalenza numerica del fronte moderato rispetto a quello radicale, all'interno della coalizione, Salvini non avrebbe intenzione di rilasciare deleghe in bianco ad alcuno dei suoi alleati riguardo all'azione di governo. Ciò determinerà una costante tensione nell'ambito del centrodestra che dovrà trovare continui momenti di sintesi per non scadere nel fallimento. Non sarà facile, perché a fronte di una serie di argomenti che possono agevolmente trovare mutuo consenso, ve ne sono altri che facciamo difficoltà a immaginare che possano essere ricondotti a sintesi unitaria. Uno in particolare: la decisione se restare o uscire dalla moneta unica. La Lega ha fatto dell'abbandono dell'euro il suo cavallo di battaglia. Al contrario,

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Berlusconi si è recato in Europa dai colleghi del Partito Popolare che governano le istituzioni di Bruxelles a rassicurarli del fatto che l'Italia del centrodestra non romperà gli equilibri instauratisi all'interno dell'Unione. Men che mai si presterà a scatenare terremoti finanziari anche solo annunciando la volontà di distaccarsi dall'area della moneta unica. Chi la spunterà? Non è un capriccio decidere di restare o di uscire dall'euro. Entrambe le posizioni reggono su analisi molto serie e motivate del quadro complessivo del sistema socio-economico dell'Italia. A differenza delle altrui bagattelle propagandistiche, un'eventuale disputa sulla sorte della moneta unica nobiliterebbe non poco il livello del dibattito politico. Dietro l'interesse di bottega elettorale si nasconde una contrapposizione tra visioni del futuro, di alto pregio. Decidere se accettare o negare l'euro significa vivificare il dilemma novecentesco sulla praticabilità dell'economia liberale in alternativa all'affermazione statalista dell'interventismo della mano pubblica nella regolazione esclusiva delle dinamiche sociali. Significa dichiarare la propria appartenenza ideologica: si sta con Friedrich August von Hayek che teorizza che il denaro sia il prodotto di una cooperazione sociale volontaria o si sta con Georg Friedrich Knapp, autore del saggio "La Teoria Statale della Moneta" e John Maynard Keynes e del suo "Trattato sulla moneta" per i quali la moneta è peculiarmente una creazione dello Stato? Nella prospettiva di von Hayek che scrive: "Non dubito che l'impresa privata, se non le fosse stato impedito dal governo, da molto tempo avrebbe potuto e voluto offrire al pubblico la possibilità di scegliere tra più valute. E quelle, fra tali valute, che fossero prevalse nella competizione sarebbero state essenzialmente stabili e avrebbero impedito sia l'eccessiva stimolazione degli investimenti, sia i conseguenti periodi di contrazione", l'ipotesi della denazionalizzazione della moneta è un passaggio fondamentale verso la piena realizzazione dell'economia di mercato. Concetto che non vale per i fautori della statalizzazione della moneta che si riconoscono nelle parole di keynes a proposito del fatto che: "Lo Stato […] entra anzitutto in gioco come l'autorità legale che obbliga al pagamento della cosa corrispondente al nome o alla descrizione di cui al contratto. Ma entra doppiamente in gioco quando inoltre avoca a sé il diritto di determinare e dichiarare quale cosa corrisponda al nome e di variare la sua dichiarazione di tempo in tempo; quando, cioè avoca a sé il diritto di riformare il dizionario. Questo diritto è reclamato da tutti gli stati moderni, così come è stato per quattromila anni almeno". Alle spalle di questa solo apparente disputa teorica si profila la sagoma del principio cardine della sovranità, attualmente vulnerato, nell'ambito dello non-Stato dell'Unione europea, dal progressivo trasferimento di poteri dal livello tradizionalmente statuale a quello sovraordinato di un'entità sopranazionale che non assicura, nelle meccaniche della sua governance, la forma democratica del controllo popolare sull'azione di governo delle classi dirigenti. Problema al momento irrisolto che rimanda alla più spinosa questione del grado di democrazia che una struttura complessa super-statuale possa consentire. Nella visione del pensiero liberale prevale l'idea che, negata ogni possibilità di confusione della democrazia con l'oclocrazia, l'espressione della volontà popolare non possa mai tradursi in dittatura della maggioranza e che all'arbitrio della volontà prevalente debba contrapporsi il governo delle leggi. Concetto condivisibile in via di principio ma di pericolosa traduzione sul piano della prassi. Se,


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per ipotesi, Matteo Salvini dovesse riuscire nell'intento di avere la maggioranza dei voti anche rispetto agli alleati di coalizione, ciò basterebbe per conferirgli il mandato a rescindere dai patti sottoscritti dai precedenti governi in sede europea? O piuttosto non si azionerebbero le contromisure di quei poteri che, pur privati della legittimazione del voto popolare, incidono nella sfera della decisione politica con maggiore efficacia di quanto sia concessa a un governo legittimamente eletto dai cittadini? La risposta a questi interrogativi scioglierebbe tutti i dubbi sull'effettiva capacità dell'attuale coalizione di centrodestra di interpretare fedelmente la volontà della maggioranza del popolo italiano. Comunque, si porrebbero le condizioni per portare definitivamente alla luce la contraddizione che si trascina da anni sui rapporti di forza che devono contemperarsi tra i singoli Paesi membri e la struttura di governo dell'Unione europea. Molto più banalmente, soltanto calando sul tappeto del confronto politico la questione si capirà se l'Italia è ancora una nazione sovrana oppure la sua autonomia è ridotta a un guscio vuoto. Il controllo sulla moneta è uno dei pilastri fondanti la sovranità di uno Stato. L'altro è la Difesa. Le indicazioni che giungono da Bruxelles segnalano che anche su questo argomento si prepara un'accelerazione dei piani per unificare sotto la giurisdizione della Commissione Ue gli apparati militari dei singoli Stati membri. Cosa farà il centrodestra nel giorno in cui sarà chiamato a pronunciarsi su quest'ulteriore cessione di sovranità? Non è questo il momento giusto per indagare le intenzioni dei leader della coalizione. Tuttavia, si converrà che, anche in caso di schiacciante vittoria, per il centrodestra tenere il governo per l'intero arco della legislatura non sarà una passeggiata di salute. Ciononostante si deve ugualmente guardare con fiducia all'avvenire pensando che senza il centrodestra l'Italia, che sia di sinistra o a Cinque Stelle, sarebbe condannata a una sorte ben peggiore. Valga allora il mai tramontato consiglio che Indro Montanelli diede agli italiani invitandoli a votare per quello che all'epoca si configurava come il male minore: la Democrazia Cristiana. Allo stesso modo, viene di consigliare ai nostri affezionati lettori, turatevi il naso e votate per il centrodestra! Cristofaro Sola

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ELEZIONI E BROGLI: UNA STORIA ANTICA La delega di qualsivoglia potere costituisce il momento topico di ogni sistema democratico: che si tratti di eleggere il capo di un condominio o un parlamentare, un insieme di persone esprime le proprie valutazioni su soggetti designati ad assumere importanti decisioni per favorire il bene comune. Almeno così dovrebbe essere e quando ci rendiamo conto che così non è, secondo una consolidata fenomenologia dell'essere, scarichiamo rabbia e delusione sugli altri: in primis sui soggetti agenti e poi su chi abbia consentito loro di agire, accusandoli di complicità o dabbenaggine. Le nostre scelte e decisioni, invece, sono sempre ritenute le migliori. Magari qualche volta è anche vero e sicuramente vi sono tanti cittadini in grado di discernere il grano dal loglio e le lucciole dalle lanterne, ma tutto ciò che traspare dalla storia dell'umanità relega davvero in una posizione molto defilata siffatte persone che, sostanzialmente, "non fanno storia" e solo in circostanze rare riescono a emergere dall'anonimato, per lo più quando pagano a caro prezzo la ribellione al sistema dominante. Il connubio tra l'esercizio della rappresentanza delegata e il male, infatti, ha radici antiche. Conoscere ciò che accadeva ieri è importante per comprendere la realtà odierna; quanto poi questo serva realmente a "migliorare le cose", è tutto da dimostrare. Nelle scuole si esalta la grandezza di Pericle, ricordando che Tucidide lo considerava "primo cittadino di Atene" e ne magnificava le gesta, omettendo però la propensione a corrompere e a spendere denaro pubblico per guadagnarsi il consenso. Nondimeno fu l'istitutore della "mistoforìa", il salario riconosciuto a chi ricopriva incarichi pubblici, concepito per consentire anche ai poveri di partecipare attivamente alla vita politica. Una buona idea, tutto sommato, che però servì solo a favorire l'estensione della corruzione, grazie alla compra-vendita dei voti. Nell'antica Roma, tanto in epoca repubblicana quanto in quella imperiale, i potentati, ancorché in contrasto tra loro, trovavano sempre un'intesa quando si trattava di "imbrogliare" per spartirsi il potere. Cesare, Pompeo e Crasso prima; Ottaviano, Antonio e Lepido in seguito, con i loro triumvirati non realizzarono nulla di dissimile, nella sostanza, dai tanti accordi che siamo abituati a registrare nella società contemporanea, come il famoso CAF (Craxi, Andreotti, Forlani). Un dato significativo della corruzione e dei brogli elettorali che caratterizzavano l'antica Roma è il "supporto legittimante" scaturito da autorevoli personaggi. Cicerone, per esempio, dispensava consigli preziosi sulla gestione di una campagna elettorale: "Non rifiutare qualsiasi richiesta


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venga fatta in cambio di voti. Rifiutare è tipico dell'uomo onesto, promettere del buon candidato". Spiega anche che la moglie di un candidato aveva scritto e firmato 18mila lettere di raccomandazione. Non meno significativo l'invito a frequentare, durante la campagna elettorale, "persone che in circostanze diverse non ti sogneresti di frequentare". Di particolare importanza, sotto questo profilo, la precisa analisi di Tacito, che negli "Annali" descrive la decadenza istituzionale, etica e morale e l'assoluta mancanza di fiducia nel popolo come soggetto capace di invertire la rotta. "Elezione" ha fatto sempre rima con "corruzione", in ogni parte del mondo, e spesso anche con altri termini, ancora più terribili, tra i quali "intimidazione". Occorre grande fantasia, ovviamente, per considerare le vittorie bulgare di molti tiranni, a qualsiasi latitudine, l'espressione del reale consenso dei cittadini, democraticamente e volontariamente espresso. Nessun paese può dirsi immune dalle distonie connesse alla delega della rappresentanza e non vi è elezione priva di strascichi polemici, e talvolta anche giudiziari, a causa degli illeciti evinti. Al Gore sarebbe diventato presidente degli USA senza "il particolare sostegno" assicurato a Bush dal fratello, governatore della Florida1. Al di là di ogni considerazione legittimamente negativa sulla dinastia sabauda, poi, è appena il caso di ricordare che ricorrono molti dubbi anche sul risultato che sancì la nascita della repubblica. Le prove sui presunti imbrogli, per chi abbia studiato attentamente i documenti sul referendum istituzionale del 1946, acquisiscono un valore probatorio difficilmente confutabile2. Dai brogli all'elaborazione di sistemi elettorali concepiti ad arte per favorire chi li emani, il passo è breve, salvo poi rendersi conto di aver sbagliato i calcoli, la qualcosa non assolve certo chi operi nel dispregio più assoluto dei legittimi diritti dei cittadini. In Italia generò profondo sconcerto la "legge truffa" del 1953, che prevedeva l'assegnazione del 3 65% dei seggi alla lista o alla coalizione che avesse raggiunto il 50%+1 dei voti validi . Per raggiungere il quorum si allearono DC, PSDI, PLI, PRI, Südtiroler Volkspartei e Partito Sardo d'Azione. Lo sdegno popolare, però, fu massiccio, grazie anche alla feroce campagna delle opposizioni, e la coalizione non raggiunse l'obiettivo per soli 54mila voti, fermandosi al 49,8%. Le opposizioni, di converso, registrarono un sensibile incremento di voti e seggi rispetto alle elezioni precedenti. La palese distonia del premio di maggioranza riaffiorerà dopo mezzo secolo, con l'approvazione di una legge non a caso definita "porcellum" dal suo stesso ideatore4. Ogni riforma elettorale, tuttavia, ha sempre risentito della propensione a elaborare formule ad hoc per favorire gli uni e penalizzare gli altri, senza alcun rispetto per la volontà degli elettori. Generalmente si confuta tale assunto asserendo che non esiste una legge elettorale perfetta e che, senza adeguati accorgimenti, il risultato delle urne potrebbe determinare la "non governabilità". Una bufala grande come una montagna, smentita quotidianamente dai fatti. La legge elettorale "perfetta" esiste ed è quella che consente di assegnare i seggi "proporzionalmente" al risultato conseguito da ciascuna lista, senza soglia di sbarramento.

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Vi è senz'altro il problema della "natura umana", poco propensa a tutelare il bene comune e più orientata a un (mal)sano egoismo, che va tenuto comunque in debita considerazione: una legge elettorale "perfetta" indurrebbe partiti con scarsa rappresentanza parlamentare, ma decisivi per la formazione di un governo, a "ricattare" quelli maggiori. Chi fosse causa del suo mal, però, poi è giusto che pianga se stesso: se i cittadini dovessero premiare candidati senza qualità, pur potendo scegliere i migliori con il voto di preferenza, sarebbero i principali responsabili dei propri guai. Volendo comunque arginare (per quanto possibile) questa deprecabile propensione, si può prendere in considerazione una legge che preveda il maggioritario puro, anche in questo caso senza sbarramenti. In ogni singolo collegio vince chi prende più voti. Tutto il resto è fuffa da cestinare senza indugio, come la legge elettorale vigente, un vero abominio che non consente di scegliere i rappresentanti ma di legittimare esclusivamente la volontà dei capi partito. Assurda anche la cosiddetta "quota rosa", in virtù della quale in un listino bloccato ciascuno dei due sessi non può rappresentare più del 60% dei candidati. Di fatto, in un collegio con due soli candidati, necessariamente si dovranno avere un uomo e una donna; con tre candidati due uomini e una donna o viceversa e con quattro candidati fino a tre uomini e una donna o viceversa. Regola offensiva soprattutto per le donne, in quanto, dietro una parvenza di "tutela", ne sancisce la candidabilità in forza di un atto d'imperio e non del libero arbitrio. Se in un collegio con due soli candidati, per esempio, un partito disponesse di due persone eccellenti dello stesso sesso, se ne dovrebbe privare di uno, a vantaggio di qualcuno con minore talento, solo in ossequio alla legge. Per quanto possa apparire paradossale, poi, sotto il profilo giuridico sarebbe ineccepibile un partito che si definisse "Donne al potere per un mondo migliore", composto di sole donne. All'atto delle elezioni questo partito sarebbe costretto a "contraddirsi" nei propositi e nel programma, dovendo inserire almeno un 40% di uomini! Resta da chiedersi, pertanto, se sarà mai possibile vedere varata una legge elettorale che possa rappresentare realmente la volontà degli elettori. La domanda, almeno per ora, è destinata a restare senza risposta e il "politically correct" non consente di prendere in considerazione altre soluzioni. Lino Lavorgna

Note: 1) Le falle del sistema elettorale statunitense, al netto degli imbrogli, consentono a chi raccolga meno voti di vincere comunque le elezioni in virtù delle decisioni dei grandi elettori. Gore nel 2000 ebbe la bellezza di 539.947 voti in più di Bush, comunque bastevoli a portarlo alla Casa Bianca sol che in Florida non si fosse verificato un pastrocchio pacchiano che reclama ancora giustizia, visto tutto quello che è successo dopo, condizionando la vita dell'intera umanità. Nello stato governato dal fratello dell'aspirante presidente repubblicano si fece di tutto per "taroccare" il risultato, che vedeva Gore in netto e consistente vantaggio a mamo a mano che lo spoglio andava avanti. La bislacca scheda prevedeva la punzonatura di un pezzo di carta grande come la puntura di uno spillo: i compiacenti scrutatori


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la consideravano "bianca" quando il voto era attribuibile a Gore, qualora il pezzettino di carta non si fosse staccato completamente. In caso opposto, ovviamente, il voto era valido. Alcune migliaia di neri, tutti di fede democratica, furono artatamente iscritti nella lista delle persone che avevano perso il diritto di voto: "Irreparabile involontario errore", si giustificarono i funzionari, ridendo sotto i baffi e fieri di aver contribuito alla sconfitta di uno dei più grandi uomini al mondo, a vantaggio del babbeo che tutti abbiamo avuto modo di conoscere. Nonostante ciò, comunque, Gore era ancora in vantaggio! Con una spudoratezza che avrebbe fatto impallidire Erdogan e Putin, alle 20,48 fu annunciata la vittoria di GORE e la falsa notizia della chiusura dei seggi! Molti elettori di Gore, pertanto, acclarata la vittoria, non andarono a votare. Alla fine riuscirono ad attribuire a Bush 537 voti in più e naturalmente il governatore impedì di ricontare le schede al cospetto di una commissione meno partigiana. Altro imbroglio fu perpetrato con i voti provenienti dall'estero, la stragrande maggioranza dei quali a favore di Gore: per sopperire al forte distacco ne furono impropriamente annullati 180mila. 2) Il conteggio delle schede sancì nettamente la vittoria della monarchia e la notizia fu comunicata al Re Umberto II da De Gasperi, nella mattinata del 5 giugno. Nella notte tra il 5 e il 6 giugno, però, accade il miracolo della "moltiplicazione delle schede repubblicane". Apparvero dal nulla decine di migliaia di voti che ribaltarono il risultato. A nulla servirono i ricorsi, che non furono nemmeno presi in considerazione. 3) La legge Acerbo del 1923 era ancora più mortificante in quanto prevedeva i 2/3 dei seggi alla lista che avesse raggiunto il 25% dei consensi. Vi è, però, una sostanziale differenza etica tra una legge varata in regime dittatoriale e una in regime democratico. 4) Il riferimento riguarda le sole elezioni politiche, in quanto le amministrative prevedono in molti casi, sin dagli anni novanta del secolo scorso, il premio di maggioranza.

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A TOCCHI, A TOCCHI LA CAMPANA SONA Il Presidente della Corte dei Conti, Angelo Buscema, all'inaugurazione dell'Anno giudiziario 2018, ha fatto presente che non è più possibile ricorrere all'indebitamento per assicurare i necessari livelli di servizi alla collettività. Si tratta di "una via preclusa - ha aggiunto Buscema - non tanto dagli obblighi che ci provengono dall'esterno, dagli accordi europei, quanto piuttosto dal rispetto di un maggior equilibrio intergenerazionale nella ripartizione degli oneri". Nello stesso evento, il presidente Gentiloni ha affermato che la congiuntura favorevole dell'economia "non induca a rallentare il percorso sulle riforme, la serietà sui conti pubblici e non faccia allentare la presa sul debito pubblico". Ha, inoltre, aggiunto, che "All'incoraggiante situazione della crescita corrisponde un andamento positivo dell'avanzo primario: è dell'1,7% nel 2017 e potrebbe ulteriormente migliorare superando il 2% nel 2018" Ora, non è per voler fare i pignoli, ma quali riforme sono state varate dal 2013 ad oggi? La scuola? Non voglio discutere sulla bontà di quel provvedimento anche perché non ha alcuna attinenza con l'economia se non nel lungo periodo. E, allora, quali? Il pacchetto contenente la riforma del Senato, anche qui al di là della sua bontà, non ha superato lo scoglio referendario. La legge elettorale? Anche in questo caso, prescindendo da un giudizio sulle modalità della sua costruzione, non c'è riflesso sull'economia. La riforma della Pubblica Amministrazione? Varata dal Governo Renzi, è bloccata e langue in attesa dei provvedimenti attuativi e regolamentari. In ogni caso, anche se fosse stata a regime avrebbe richiesto un tempo medio-lungo per produrre effetti sul sistema. Nella sostanza, in cinque anni di legislatura e due governi, non c'è traccia di riforme. Non voglio dare del bugiardo al Presidente del Consiglio che, a differenza del suo predecessore, almeno ha il garbo di esporre le sue deboli argomentazioni senza la supponenza e il sarcasmo. E del resto, la classe non è acqua: la sua famiglia appartiene ai conti Gentiloni Silveri, nobili di Filottrano, Cingoli e Macerata, imparentati con Vincenzo Ottorino Gentiloni, noto per l'omonimo patto che all'inizio del Novecento segnò l'ingresso dei cattolici nella vita politica italiana. Non ha nulla a che vedere con la bassa dell'Arno. Tuttavia, sebbene capisca, per intero, la sua posizione sia verso il suo passato mentore, sia nei confronti del partito e, last but not least, nei riguardi del Presidente della Repubblica, dovrebbe meglio argomentare le sue affermazioni. Secondo l'Osservatorio MECSPE, per le PMI della meccanica e subfornitura, il 2016 si è chiuso con fatturati in crescita per quasi la metà e con una


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situazione occupazionale positiva: se per una parte delle aziende il numero di addetti non è variato, ben il 46,8% hanno assunto nuovo personale. E, qui, il Jobs Act ci potrebbe anche stare. Positivi anche i risultati per il 2017: il 56,6% aveva previsto un incremento del proprio fatturato e una situazione occupazionale stabile, se non in crescita. Una situazione che soddisfa gli imprenditori, con solo un 5% insoddisfatto e ben sei su dieci ampiamente appagati dall'andamento attuale della propria azienda. "Per oltre la metà degli imprenditori il mercato è tornato a essere solido e continuerà a offrire nuove opportunità di business. Le imprese sono chiamate a rivedere il proprio paradigma produttivo, a fronte di una trasformazione che sta interessando il settore ed è orientata verso la digitalizzazione e l'integrazione di tecnologie sempre più evolute nei processi produttivi, per renderli snelli, efficienti e altamente performanti. Forti di un ritrovato slancio economico, gli imprenditori non sono per nulla spaventati da questa evoluzione: continuano a investire in R&D e sono sempre più quelli che si orientano verso il modello della Fabbrica Digitale 4.0" ha affermato Emilio Bianchi, Direttore di Senaf, l'organismo di settore che dà vita alle più efficaci manifestazioni legate all'impiantistica, alla meccanica specializzata, alla logistica, alle tecnologie della moda, alla salute, alla sanità, al noleggio e all'edilizia. Per raggiungere questi risultati, le PMI hanno investito una quota variabile dei propri ricavi. Ad oggi, un buon 36,6% di aziende ha superato la quota del 10% di investimenti, e sembra possa andare meglio nei prossimi anni, con quasi la metà delle imprese italiane che prevede di superare questa quota in tecnologie 4.0: quasi quattro su dieci investiranno tra l'11 e il 25% dei propri ricavi e un decimo andrà oltre questa soglia. Un incremento di budget che si spiega anche alla luce del maxi piano di ammortamenti del 250% previsto dal Governo per l'introduzione di macchinari e soluzioni 4.0, il quale sarà ampiamente sfruttato da buona parte delle aziende italiane. Se oltre un quinto delle imprese vi farà ricorso, oltre un quarto lo farà dopo aver già beneficiato di quello del 140% per nuovi macchinari previsto dalla Legge di Stabilità 2016. Un numero destinato ad aumentare dopo i chiarimenti della circolare direttoriale del 15 febbraio 2017 su quali beni rientrano tra gli investimenti 4.0, che aiuteranno il 25,8% delle imprese in dubbio a capire se effettivamente ne potranno usufruire. Ora, semmai ci fosse da ringraziare qualcuno questo dovrebbe essere il ministro Calenda e il suo Piano. In ogni caso, non si può certo parlare di riforme. La verità è che, a tirar fuori il Paese dalle secche della crisi, ancora una volta rischia di essere la Piccola e Media Impresa. Vecchi e giovani imprenditori che, stanchi della paralizzante crisi, tornano a competere sui mercati dall'Italia, nonostante le sirene fiscali olandesi e irlandesi e le normative austriache. Tutto questo con un unico aiuto: il Piano Calenda. Almeno lui non ha demeritato. Chissà cosa potrebbero fare se uscissero dal loro guscio e capissero che per affrontare i mercati globali ciò che conta è la dimensione, che la via del consorzio è obbligatoria se non voglio lasciare campo alle sole multinazionali, sempre più enormi, e poi sparire. Il presidente Gentiloni, di contro, dal momento che anch'esso è in campagna elettorale, avrebbe fatto molto meglio a dire

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se nel 2018 e seguenti i sostegni all'imprenditoria, almeno nella sua ottica, dovrebbero continuare a permanere e se ve ne potrebbero essere di nuovi. Altro aspetto che avrebbe potuto toccare è quello della precarietà dilagante del rapporto di lavoro: una piaga dovuta in massima parte al 'progressismo' della sinistra. Mi rendo conto che questa è una materia di più ampia portata: eppure, sempre Calenda, all'incontro recente con Amazon che avrebbe voluto mettere il braccialetto elettronico ai propri dipendenti, ha affermato di ringraziare l'azienda per gli investimenti che farà in Italia ma l'ha anche invitata a produrre posti di lavoro di qualità e a tempo indeterminato. In ogni caso, ha escluso l'introduzione del famigerato braccialetto precisando che l'unico braccialetto concepito in Italia è il monile. Mi chiedo dove fosse il ministro del Lavoro. Ma, tale domanda investirebbe tutti i ministri che in quest'ultimo anno e mezzo sono spariti dalla comunicazione e dalla scena. Almeno, con il governo Renzi, ogni tanto c'era qualche forma avvenente. Comunque, non vale la pena interrogarsi dal momento che dal 4. p.v. le carte dovrebbero essere mescolate e una nuova mano si dovrebbe giocare. Certo, il condizionale. Perché se dovessimo basarci sui temi e sui toni della campagna elettorale, allora poveri noi. Tralascio le rimbombanti promesse fatte da ogni schieramento; manco fossero imbonitori di provincia. Promesse che, con ogni probabilità, non potranno essere soddisfatte o per motivi strettamente legati al bilancio, o per vincoli comunitari oppure per disaccordo con i compagni di viaggio. Eppure, non ce n'è uno tra i competitors che non ricorra all'imbonimento. Il bilancio, peraltro, è il grande vincolo, come ricordava il presidente Buscema, senza che su di esso, con la copertura delle spese attraverso l'indebitamento, si lasci l'immane problema alle generazioni future. Poi, qualcuno si domanda perché non si fanno figli. Così come tralascio i 'mostri', creati ad hoc sia dalla sinistra che dalla destra per distogliere da problemi più significativi l'opinione pubblica: le 'pensioni d'oro', l''evasione fiscale', lo spauracchio del riaffacciarsi del comunismo, l'antisemitismo e lo spauracchio del riaffacciarsi del 'fascismo'. Li tralascio anche perché il primo è un falso problema: ogni pensione, giuridicamente configurabile come tale, è frutto di versamenti effettuati nell'intera vita lavorativa: più alti i versamenti, più alta la pensione. L'evasione fiscale è un problema che risale alle calende greche e ho l'impressione che non si voglia veramente combattere visto che, con gli attuali sistemi informatici, non manca modo di incrociare i dati e scoprire gli evasori senza la caccia alle streghe. Gli altri tre, invece, sono problemi di una tale serietà e di un tale gravame nella storia e della storia dell'umanità da risultare offensivo lasciarli alla contingenza di una campagna elettorale. Basterebbe 'promettere', una volta scelti, eletti, di tagliare la spesa improduttiva: sinecure personali, società partecipate, pseudo organismi di controllo del territorio, pseudo organismi di controllo civile e sociale, istituzioni collaterali a quelle ufficiali di dubbia utilità, razionalizzazione delle decisioni in campo sanitario (acquisti, posti letto, strutture, specializzazioni, ecc.) al di là degli ambiti regionali. Si potrebbero certamente aggiungere altri obiettivi che, in ogni caso, non farebbero che meglio consentire, senza ricorso a ulteriori indebitamenti, la corresponsione delle pensioni e il loro adeguamento al costo della vita, il rinnovo dei contratti dell'intero pubblico e un'adeguata copertura sanitaria.


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Premesso che alla data odierna non ho ancora scelto per chi votare, a me sembra che la campagna stia assumendo contorni alienanti: in questi giorni, ad esempio, pare che le omissioni di versamento al fondo per il micro credito di parte delle indennità di alcuni tra gli eletti grillini comporti chissà quale disdoro per l'intero movimento. È soprattutto la sinistra a cavalcare questo tema, 'demonizzando' con veemenza Di Maio e facendone un'etichetta da appiccicare a tutto quello stesso movimento. La domanda è: quello non è un fatto, interno, che riguarda in via esaustiva il solo Movimento? Perché se dovessimo adottare un tale metodo per giudicare i partiti e movimenti, cioè dal comportamento di pochi bocciare l'intero soggetto collettivo, non ci sarebbe un solo schieramento, partito o movimento a salvarsi. E, peraltro, non per fatti interni bensì per danni all'erario. A mo' di ulteriore esempio, mi viene da citare Fratelli d'Italia e la sua leader Giorgia Meloni. Se lei è 'fascista' io sono Carlo Magno: eppure, recentemente a Livorno è stata accolta da lanci di oggetti, sputi e volantini i quali affermavano che la città rifiuta l'ingresso ai 'fascisti'. Ragazzi, lo dico per voi, la politica aggressiva nei confronti dell'avversario e la sua demonizzazione non ha mai pagato ed ha consentito alla Grande Balena Bianca di governare cinquant'anni. Vogliamo davvero invertire il corso della storia? Di contro, mi sento di dire alla stessa Meloni e al suo partito che anche il vittimismo non ha mai pagato: mi riferisco ai fatti di Pontedera dove, di primo acchito, sembrava che le fosse stata negata la piazza per il solo fatto di aver apposto sui propri manifesti una frase di Giorgio Almirante di trent'anni prima 'Noi possiamo guardarti negli occhi'. Dal che, gli alti lai. In realtà, la piazza le è stata negata solo perché aveva 'sbianchettato' sull'ordinario, regolamentare modulo di richiesta della stessa piazza la parte in cui si richiama al rispetto delle 'norme nazionali in vigore che vietano sia la ricostituzione del partito fascista che la propaganda di istigazione all'odio razziale'. Lei è troppo giovane per ricordarsi che cinquant'anni fa nell'MSI era un 'titolo di merito' si pensi, poter affermare di essere stati aggrediti dai 'rossi'. Anche se, per qualcuno, i lividi erano dovuti ad un capitombolo domestico. Davvero il mondo della destra è tornato a questo? L'ultimo esempio riguarda la satira politica. E questo, in fondo mi spiace dirlo, riguarda ancora la sinistra. M'è capitato recentemente di fare lo zapping e di ritrovarmi, per puro caso, su una trasmissione condotta da Fabio Fazio. Non do giudizi sulla trasmissione e sul conduttore né sul suo principesco stipendio: questo da un lato compete ai sistemi di rilevazione di audience e share e, dall'altro, agli organismi di controllo della RAI e della spesa pubblica. Ma vedere in quella trasmissione Crozza mi ha incuriosito e mi sono soffermato. Ebbene, nel passato ho apprezzato molto Crozza quando, distante da campagne elettorali, fustigava tutti con i suoi strali, a destra come a sinistra. Ma, evidentemente, anche lui 'tiene famiglia' perché ciò che mi è veramente dispiaciuto è vederlo, in quella trasmissione, in piena campagna elettorale, nelle vesti del giullare di corte che si dilungava nel rifare il verso biascicato a Berlusconi. Ebbene, non mi capiterà più di ridere con Crozza. Ma questo non interessa ad alcuno. Ciò che invece dovrebbe interessare tutti è l'atteggiamento di questa sinistra che non risparmia professionalità e dignità da gettare a piene mani nella fornace che alimenta la macchina

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elettorale, insieme a supponenza culturale, fallace progressismo, sbrindellata memoria e calcolata solidarietà. Lo ripeto. Non so veramente per chi votare. Chissà che, alla fine, non mi decida a votare quello che mi promette di più senza dover penare. Già, perché anche altri promettono ma occorre essere 'responsabili', 'sensibili', 'ragionevoli', 'coscienziosi'. D'accordo, tanto è un gioco. Ma ciò che sicuramente mi rattrista, lo dico senza infingimenti, è che la politica, tutta, tratti gli elettori come minus habens, come bambini ai quali si promette una caterva di dolci se faranno i buoni, se si laveranno i denti, se andranno a letto presto, se non faranno arrabbiare il babbo e la mamma, se faranno i compiti, se porteranno buoni voti nella pagella ma, al dunque, non ci sono i soldi per comprarli e, comunque, il pediatra li ha proibiti. In ogni caso, la pasticceria ha chiuso per crisi. E se il bambino deluso frigna, una sculacciata e a letto. Comunque, non potendo fare altro, scherziamoci su e fughiamo la malinconia che sento assalirmi perché nella testa, da stamani, mi torna prepotentemente una canzone romanesca, A tocchi, a tocchi, la campana sona, li turchi so' sbarcati alla marina … È una canzone, questa, del periodo delle cd. rivoluzioni borghesi del XIX secolo che, peraltro, si innestano nei moti risorgimentali. Un periodo dove, tra l'altro, iniziano a presentarsi i movimenti operai organizzati, che poi irromperanno nella storia nel secolo seguente. Chissà che non si rivoltino nelle tombe tanti patrioti e tanti sindacalisti di allora. Francesco Diacceto


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QUANDO IN ALTO... Non sono un antropologo né un filosofo e nemmeno un sociologo ma, chissà per quale astruso motivo, mi è sovvenuto da ultimo una sorta di parallelismo tra la religione e la politica che, nel corso dei secoli, ha pure avuto un andamento discontinuo ed eterogeneo ma comunque reciprocamente influenzato. Innanzi tutto, credo che la religione nasca per il bisogno dell'uomo di sconfiggere l'angoscia esistenziale. E questa costatazione la possiamo considerare a valenza generale. So bene che taluni studiosi la vedono come un prodotto storico-ambientale, un accidente sociale che si produrrebbe in circostanze particolari, in luoghi particolari ed in tempi particolari, assumendo forme diverse a seconda delle condizioni. Una tesi, del genere, ad esempio, fu espressa da Marx, anche se il filosofo di Treviri trascurò il fatto che sistemi religiosi prodottisi in tempi, luoghi e circostanze diverse (ed a volte remote) concordano nelle loro linee-guida, al di là degli epifenomeni culturali e delle nomenclature a loro proprie. In sostanza, l'uomo era capace di lottare contro i predatori carnivori evolvendo sempre più e sempre meglio le tecniche di caccia e di protezione familiare ma era impotente di fronte a catastrofi naturali, a disastrosi eventi climatici. Per cui, cominciò ad immaginare la causa di tali eventi come l'opera di un predatore invisibile al quale rivolgersi, attraverso sacrifici, per cercare di rabbonirlo. Sacrifici perché il 'predatore' immaginato doveva essere necessariamente cattivo e, in quanto tale, non si sarebbe ammansito con una semplice richiesta: andava placato con un contributo di sangue. Esseri umani in taluni periodi, o animali in altri, furono uccisi in 'sacrificio' perché il 'predatore' lenisse la sua 'fame' e risparmiasse la comunità: in sostanza, la cosiddetta pars pro toto. Se queste furono le basi, l'evoluzione culturale portò ad attribuire al 'predatore' invisibile sempre più nuove e complesse caratteristiche, modificando in uno anche l'atteggiamento del 'predatore' stesso: non più solo 'cattivo' ma anche 'buono' e, addirittura, 'specializzato' su aspetti pratici di vita; inoltre, non più un 'essere', indubbiamente superiore, indistinto ma persino sessuato: femmina prima e, successivamente, maschio. Così, cominciò nell'uomo la necessità di stabilire con l''essere superiore' un rapporto; di dedicarsi, di concretizzare un'unione, di 'religere': di unirsi scegliendo. Già. Di 'religere' o 'relegere', che dir si voglia: "qui autem omnia quae ad cultum deorum pertinerent diligenter retractarent et tamquam relegerent, sunt dicti religiosi ex relegendo, ut elegantes ex eligendo, diligendo diligentes, ex intelligendo intelligentes; his enim in verbis

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omnibus inest vis legendi eadem quae in religioso." . Così scriveva Cicerone: "… coloro, invece, che diligentemente riesaminassero e, tanto quanto, osservassero tutto ciò che fosse pertinente il culto degli dei sono detti religiosi (che deriva) da relegere, come eleganti (deriva) da eligere, diligenti (deriva) da diligere, intelligenti (deriva) da intelligere; infatti, in tutte queste parole è contenuto il valore di legere, lo stesso che in religioso." Lattanzio, invece, sembra essere di parere diverso: "Hoc vinculo pietatis obstricti Deo et religati 2 sumus; unde ipsa religio nomen accepit, non ut Cicero interpretatus est, a relegendo." . E, cioè: "… Per questo vincolo di pietà siamo stretti e legati a Dio: onde (ossia: dall'essere legati) prese il nome la stessa religione, e non come Cicerone ha interpretato, da relegere.". Agostino, poi, ha ancora un'altra tesi: "Hunc eligentes vel potius religentes (amiseramus enim 3 neglegentes)- hunc ergo religentes, unde et religio dicta perhibetur.." . "Sceglienti Questi (ossia: Dio), anzi sceglienti di nuovo, - avevamo perduto (Dio) perché negligenti - dunque sceglienti di nuovo Questi (ossia: Dio), onde (ossia: dallo scegliere di nuovo) pure religione è detta derivata...". Come si evince, il primo, Cicerone, fa derivare 'religione' da relegere, composto dal prefisso reche indica frequenza + legere; scegliere ed in senso lato, cercare, guardare con attenzione, avere riguardo, avere cura. Lattanzio, invece preferisce il verbo religâre, composto dal prefisso re-, intensivo + ligâre; unire insieme, legare. In ultimo, Agostino propende per il verbo religere composto dal prefisso re-, intensivo + çl?g?re; scegliere. In ogni caso, le tre tesi non risultano essere incompatibili tra loro; anzi, sembrano completarsi a vicenda, essendo la religione un insieme di sentimenti e di atteggiamenti di riguardo e di cura verso la divinità, ed insieme, un legame, un rapporto tra la divinità ed i religiosi, ed infine una scelta personale di fede, cioè di fiducia, di affidamento alla divinità. Tra i tanti credi e confessioni, il cristianesimo e, ancor meglio, il cattolicesimo è senz'altro quello che risponde meglio all'angoscia data dal 'predatore' invisibile: promette la vita eterna e, quindi, in sostanza, la sconfitta della morte. Infatti, Paolo di Tarso nella delineazione del 'nuovo' credo, soprattutto attraverso le sue note 'lettere', pose soltanto una condizione a mo' di 'sacrificio' acciocché l'adepto potesse acquisire l'immortalità (dell'anima): l'astinenza sessuale. Del resto, serviva un credo unificante, rispetto agli oltre 30 credi praticati nel bacino del Mediterraneo: un credo che, peraltro, avesse a base l'amore universale. Porgi l'altra guancia. Si perdoni l'inciso: ho detto 'Serviva' intanto perché erano le comunità della diaspora (l'allocazione delle sette chiese), più che la collettività gerosolimitana, quelle che maggiormente finanziavano il movimento zelota. Era un po' mettersi in pace la coscienza. Con l'innesto di un 'nuovo' credo e di 'nuovi' sentimenti, l'aiuto ai rivoluzionari poteva cessare. E, peraltro, un credo unificante le tante diversità religiose non poteva che arrecare benefici all'impero. Chiuso l'inciso che, comunque, riguarda un'altra storia, i padri fondatori però si resero conto ben presto dell'insorgenza di un problema: nonostante l'astinenza, l'uomo continuava ad essere tormentato dalle avversità e, quindi, avrebbe potuto porre seriamente in dubbio la fondatezza del 'nuovo' credo.


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Così, ricorrendo tra l'altro ad antiche scritture, si rispose che l'Eterno non era adeguatamente 'retribuito'. Ad esempio, Giobbe, nel racconto biblico, secondo il modello classico del Giusto sofferente, colpito continuamente da sciagure malgrado la sua rettitudine, chiede agli amici se conoscano la ragione delle sue disgrazie; uno di questi gli dà una risposta che apparentemente può sembrare oscura ma in realtà è molto illuminante. L'amico, infatti, fa osservare a Giobbe che se lui non conosce il motivo delle sue disgrazie, se ignora il motivo della sua persecuzione, l'Eterno certamente lo conosce. L'afflitto, cioè, non ha adeguatamente sacrificato a Dio. Ossia, non si è totalmente auto-sacrificato, non crede pienamente, non si dedica totalmente: la sua non è una totale e convinta 'elezione'. Deve, in pratica, avvertire in ogni momento il timor di Dio e in ogni momento compiacerlo. Per aprire un altro inciso, ai tempi della scrittura del Libro di Giobbe (VI sec. A.C.), il concetto aveva una ragion d'essere: la gratificazione di Dio avveniva durante la vita terrena. Infatti, sebbene i modi di definire e di analizzare la morte possano variare diametralmente, di cultura in cultura, la credenza in una vita dopo la morte è estremamente antica e molto diffusa. L'unica eccezione era e resta l'ebraismo dove una volta raggiunto lo Sheol, il Grande Vuoto, là si resta. E, peraltro, il dilemma posto, al quale le religioni si sono affannale a rispondere, è un motivo che la tradizione sapienziale del Vicino Oriente, ed in special modo quella mesopotamica, aveva affrontato più volte prima che, in tempi postesilici, venisse redatta la versione ebraica del tema, derivata da fonti babilonesi, quale il poema ‘Ludlul bçl nçmeqi''4, conosciuto già dalla seconda metà del secondo millennio, che già aveva per protagonista un uomo giusto sul quale cadono numerose sventure senza che le divinità intervengano in suo soccorso. Chiuso l'inciso, il 'cristianesimo' dei primordi attraverso la promessa di una vita dopo la morte e la giustificante risposta alle comunque persistenti avversità, chiudeva il cerchio delle attese escatologiche e della problematica contingenza e, quindi, per le notevoli peculiarità aveva molte probabilità di essere 'scelto', di essere 'eletto'. La capillarizzazione in strutture fisiche (chiese, conventi, abazie, monasteri, cenobi) assicurò sul territorio un costante ammonimento e un permanente richiamo. A questo punto, qualcuno si chiederà cosa c'entri la religione. Il fatto è che la religione ha una forte similitudine con la politica e, più precisamente, con i meccanismi che regolano la vita dei partiti, le loro connotazioni e le motivazioni delle scelte dei cittadini circa i loro rappresentanti. Si pensi a quando le comunità itineranti erano guidate da soggetti le cui caratteristiche più evidenti erano la forza e l'astuzia. Poi, con l'agricoltura, divennero stanziali e, accanto alla forza e all'astuzia, la caratteristica del capo fu la saggezza per dirimere le controversie tribali: una saggezza che, spesso strumentalmente, si accompagnò, prima a soggetti sciamanici e poi a rappresentanti della religione organizzata. Da quel momento, il potere si ampliò: non più il solo capo ma il consiglio degli anziani et similia, in carica fino alla morte. L'uomo poteva anche essere fallace ma la ramificazione del potere sul territorio attraverso strutture e soggetti delegati, gratificati dalla volontà divina, assicurava la tenuta sociale. E il rifiuto di quel potere o l'avversione ad esso comportava la morte.

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L'evoluzione sociale, la crescente complessità delle problematiche comunitarie portò, poi, all'emersione sempre più evidente di civiltà e, quindi, di una cultura; aspetti, questi, che nei secoli produssero la configurazione di una sorta di 'democrazia': il potere poteva essere gestito per un lasso di tempo, alla scadenza del quale una nuova compagine poteva sostituirsi nella gestione. Ed è chiaro che, accanto alla forza, all'astuzia e alla saggezza, ciò che fece la differenza fu la promessa di soluzione di bisogni sociali. Da quel momento, il potere temporale se da un lato si discostò concettualmente dai meccanismi di gestione ecclesiali dall'altro prese a considerarli ai fini politici attraverso l'adesione ad essi e la loro traduzione nell'azione di governo o il loro totale rifiuto. L'assunzione del potere temporale, comunque, comportò nella stragrande maggioranza dei casi, la consacrazione attraverso l'opera o la presenza di un intermediario ecclesiale. Il che indusse la Chiesa ad operare per una sua sempre maggiore considerazione nell'azione temporale: una pressione che arrivò a contemplare l'uso del potere di comminare il bando dalla comunità ecclesiale (la scomunica). In ogni caso, la morte (spirituale e fisica) rimaneva il castigo per l'inosservanza dei precetti dei due poteri: una pena, la seconda, che comunque nell'evoluzione civile fu sostituita dalla privazione della libertà. In sostanza, i due pilastri della comunità, il potere temporale e quello spirituale, hanno attraversato i secoli tra stretti connubi, profonde avversioni e riconciliazioni eclatanti, comunque consapevoli della reciproca necessità ai fini della tenuta sociale. Ma una nuova religione e, al tempo stesso, un nuovo potere secolare presero a sorgere all'orizzonte: i mercati. Una realtà che racchiude in sé i crismi di una chiesa, con i suoi riti estemporanei, senza codificazioni né regole, ai quali sottostare se si vuole partecipare alla 'funzione', e di una 'dittatura' la quale, basandosi sulla sola forza, cura esclusivamente il proprio interesse. Tra gli economisti e sociologi contemporanei, uno, in particolare, emerge per la sua chiara e 5 cruda analisi: Karl Polanyi , ungherese di nascita e insegnante prima a Vienna e a Londra e, infine, a New York presso la Columbia University. Tra le tante, la sua opera maggiore è stata certamente 6 'La Grande Trasformazione' , scritto nel '44 dove l'economista, già allora, parlava di una 'società di mercato', una società in cui 'tutto è mercato', contraddistinta dalla presenza di una 'Alta Finanza', consistente proprio nella riduzione di tutto - natura, lavoro, denaro - a merce, di modo che la dimensione mercantile, che in altre epoche e società era solo una componente spesso marginale dell'attività economica, diventa predominante, fino al punto di piegare tutte le attività sociali, la forma stessa della società, alle esigenze dei mercati; un sistema complesso nel quale tutto subisce continue fluttuazioni e regole mutevoli. In sostanza, ciò che Polanyi, tra l'altro, evidenzia è la subordinazione della politica alla 'logica' dei mercati: una subordinazione che contraddice, totalmente e profondamente, la natura stessa della politica la quale avalla non solo le indiscriminate fluttuazioni ma anche l'assenza di regole nel 'gioco' del mercato, a esclusivo discapito dell'intera società. Una politica che è giunta, sposando paradossalmente la logica ecclesiale, ad attribuire alla stessa società le colpe delle sue disgrazie: profittatrice di eccessivo benessere o di 'tempi di vacche grasse' (in un'economia drogata dal sistema di corruttele politiche), fruitrice di eccessive protezioni sociali (automatismi


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per la salvaguardia del potere d'acquisto delle retribuzioni, rapporti di lavoro a tempo indeterminato, tempi e carichi di lavoro umani, riconoscimento dello svolgimento di una funzione superiore, certezza nella protezione previdenziale a fronte di corrispettivi versati per una vita), stupidamente chiusa all'avvento della 'modernità', di uno 'sviluppo sostenibile' (la fantasiosa, altalenante determinazione di quanto è 'possibile' inquinare e stravolgere), esageratamente radicata nei luoghi di nascita di fronte alle possibilità addirittura 'mondiali' di occupazione (una mobilità priva di ogni supporto conoscitivo, fisico e logico), evasora per eccellenza (in presenza di una sofferenza bancaria di oltre 60 miliardi di euro per disinvolta gestione del credito, di un'evasione -nota- per oltre 100 miliardi di euro, di una spigliata, inefficace, spesa pubblica, purtroppo, per svariati miliardi destinata a consorterie), spropositatamente pagata (oggi, si può esser poveri lavorando). Così, gravata da 'colpe', privata di risorse, di ogni certezza e persino della speranza, orba di cultura e tradizioni, la società ha (ri)conosciuto l'angoscia esistenziale. Tutto è già stato immolato sull'altare dell'effimero e dell'evanescente, dell'illusorio: persino Dio. Il 'predatore invisibile' è ormai noto: a questo ha provveduto la scienza e si chiama terremoto, esondazione, fulmine, slavina, epidemia, ecc. La tigre dai denti a sciabola, invece, è stata sostituita dagli spread, dai derivati, dalle riconversioni industriali, dalle dislocazioni degli impianti, dall'automazione, dalla mobilità e dalla flessibilità, dall'inflazione, dal rispetto dei parametri di Maastricht, ecc.; 'avversari', questi, che non si possono eliminare: neppure se alla lancia di selce si abbina l'ingegno. E, peraltro, non si possono cacciare nemmeno altre specie animali meno pericolosi per sfamare audacia la famiglia. A questo,igiene nella civiltà, dovrebbe bastare un salario perché, senza temeraria spirituale considerare il costo delle cartucce e del fucile, per cacciare occorre la licenza; analogamente, per acquistare un'arma; la caccia, inoltre, è limitata a periodi dell'anno, in taluni luoghi occorre il permesso e talune specie sono protette. In sostanza, per cacciare, occorrono soldi che non si hanno se non si lavora. Non è un paradosso moderno? Ma sì, ridiamoci sopra. Allora, a che cosa dovrebbe servire Dio se i mali sono noti e l'unico rimedio sarebbero cure (fisiche, geologiche, architettoniche) che costano ed alle quali non si provvede o non si può provvedere? Si dovrebbe sperare che, non colpiti dalla legge degli uomini, amministratori disonesti saranno colpiti dalla Legge di Dio? Che imprenditori cinici andranno all'inferno non avendo praticato la misericordia? No. Per questo occorrerebbe un impianto valoriale e la speranza ma, purtroppo, ambedue sono stati cancellati dalla 'cultura' presentista dell'apparire; oggi e subito, il telefonino, il pantalone, il giubbino, la scarpa, lo zainetto, la t-shirt, l'utilitaria che fa il caffè, la vacanza esotica: basta il credito al consumo, 50 o 100 euro al mese e si è alla pari con gli altri, non si è diversi. Già, perché è anche una questione d'identità. Le peculiarità di una persona non hanno più senso se non si identificano con una super-specializzazione, peraltro conseguita a notevoli costi presso una prestigiosa Università. Siamo all'annichilimento; dei criceti sulla ruota. E, in tutto questo, la religione, la Chiesa nel caso di specie, mi spiace dirlo, un po' ha latitato. Dopo la forte denuncia (per quei tempi, poi) di Leone XIII del 1891 nella Questione Operaia sull'aberrazione nel definire 'merce' il lavoro, caduta

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proprio all'avvio del sodalizio mondiale dell'acciaio, precedente di qualche decennio di quello del petrolio, nell'ultimo secolo, la Chiesa si è barcamenata tra la Quadragesimo Anno di Pio XI nel '31, più che altro tesa a giustificare la Camera delle Corporazioni, la Mater et Magistra del '61 e la Pacem in Terris del '63 di Giovanni XXIII, l'artefice del Concilio Ecumenico Vaticano II; quel concilio che, prendendo a prestito le parole di Benedetto XVI, teso a recepire la 'modernità', ha invece realizzato un''inaudita' rottura con la tradizione millenaria, fino al punto di banalizzarsi e banalizzare la stessa liturgia, la dottrina e persino l'esistenza dell'istituzione. E, ancora, tra la Populorum progressio del '67 e la Octogesima Adveniens del '71 di Paolo VI; un Papa di levatura eccelsa (lo dimostra il contenuto delle due encicliche) ma scarsamente comunicativo e, inoltre, artefice della chiusura del Concilio suddetto, inalterata rispetto all'impostazione iniziale. E, infine, tra la Laborem Exercens dell'81, la Sollicitudo rei socialis dell'87 e la Centesimus Annus del '91, emanate da un Papa, Giovanni Paolo II, gran comunicatore, capace di realizzare adunate oceaniche, ma alle prese con le questioni civili e sociali sempre più gravose e manifeste: l'AIDS con la problematicità dottrinaria circa il preservativo, l'entrata a regime della legge sul divorzio e subito dopo sull'aborto, le coppie di fatto, la sopravvenienza manifesta della condizione gay, la disoccupazione per l'avvio della III rivoluzione industriale, per l'emigrazione delle imprese alla ricerca di norme più permissive e più favorevoli costi del lavoro, per la cancellazione di fatto delle relazioni industriali nonché la pedofilia e comportamenti sessuali inappropriati nel clero. E se le piazze con Giovanni Paolo II si sono riempite, grazie anche ai giovani cammellati, le chiese hanno cominciato a vuotarsi e le parrocchie a chiudere per mancanza di conversioni. Una situazione alla quale non poteva rispondere Benedetto XVI nei suoi otto anni di pontificato. Grande mente sul piano dottrinario, ma molto (troppo) fiducioso nel richiamo ai canoni del cristianesimo come risposta ai problemi odierni: infatti, le sue tre encicliche sono lì a dimostrarlo: Deus caritas est, Dio è Amore, del 2006, Spe Salvi, Salvati nella speranza, del 2007, e Caritas in veritate, L'amore nella verità, del 2009. Francesco (I), di contro, sembra essere tornato ai duri richiami di Leone XIII da un lato e, dall'altro, all'atteggiamento mite del Poverello d'Assisi. In compenso, sembra tessere vaste reti a livello internazionale. In ogni caso, delle due sue encicliche una, Lumen fidei, è il completamento della trilogia iniziata da Benedetto XVI e dedicata alle tre virtù teologali, l'altra, Laudato si', è dedicata all'ambiente. Le aperture più eclatanti, tuttavia, restano quelle ai gay, ai divorziati, agli accompagnati, anche nell'ovvio tentativo di rimpolpare le messe. Ma, con dispiacere, occorre rilevare che è indubbia una crisi spirituale nel mondo occidentale. O, per meglio dire, è indubbia una disaffezione nei confronti delle grandi chiese europee a cominciare dalla cattolica. Ma, siccome l'essere umano, se opportunamente sollecitato, può ancora tornare a 'credere' nell'esistenza di un'entità superiore, soprattutto l'America ci dà la dimostrazione di come sia possibile confezionarsi in casa una deità: Chiesa dell'Alba radiosa, della Fratellanza Universale, della Bontà Infinita, dell'Amore Perfetto, sono alcuni tra la miriade di nomi fantasiosi che sedicenti, illuminati, predicatori scelgono, con tanto di spot pubblicitari e di prediche on line, per far colpo su una platea di 300


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milioni di persone che, nella patria del neo-capitalismo ultraliberista, sono alle prese con i suoi effetti. In sostanza, particolarmente negli USA, la spiritualità è divenuta ufficialmente un business ma almeno i predicatori illuminati, consapevoli del loro seguito, (portatori di voti) intervengono sulla politica perché questa recepisca il loro punto di vista. Anche negli USA, ovviamente, la politica non ha più la supremazia sull'economia: per rendersene conto è bastato seguire i recenti lavori di Davos dove il Presidente ha apertamente dichiarato di essere lì per gli affari. Ma, se non altro, funzionano gruppi di pressione non solo economici ma anche civili e sociali che attenuano e correggono gli effetti della sempiterna, sfrenata corsa verso il Far West. In Europa, di contro, non sono le chiese ad essersi polverizzate bensì la politica. Così, in piena crisi spirituale, alle prese con l'angoscia esistenziale, l'europeo e, in particolare l'italiano, oltre che dalla Chiesa per disaffezione, si allontana dalla politica per sfiducia. In sostanza, le due istituzioni che avrebbero dovuto tutelare la sua integrità spirituale e fisica non sono in grado di rispondere agli odierni problemi. Non c'è che dire: si è rotto il binomio tra potere spirituale e quello temporale, tra il Papa e il Principe; quel binomio che attraverso i secoli, con andamento sia pur discontinuo e a volte controverso, ha comunque consentito all'umanità di progredire. Inoltre, se negli USA la frammentazione 'religiosa' produce un qualche effetto, in Europa la frammentazione politica è ad effetto variabile. Non entro nel merito delle evoluzioni politiche dei Paesi dell'Est dopo la caduta dell'URSS che pure ci sono state, così come non lo faccio per la Grecia dopo i Colonnelli né per il Portogallo del dopo Salazar e della Rivoluzione dei Garofani e nemmeno per la Spagna del dopo Franco. Evoluzioni, quelle, tutto sommato comprensibili e possiamo dire 'logiche' che, dove più e dove meno, hanno cercato di portare fuori il Paese da situazioni di ingessamento nelle quali i precedenti governi e regimi l'aveva relegato. È l'Italia, invece, che dal '92, dopo il crollo dei vecchi partiti sotto i colpi di Mani Pulite e a seguito dello sgretolamento della sensibilità della Chiesa verso la politica, vive ininterrottamente una situazione di transizione. Devo confessare a me stesso che, almeno agli inizi, ho veramente creduto che Silvio Berlusconi fosse l'uomo capace di attuare una necessaria, improcrastinabile rivoluzione liberale in questo Paese. Ma i fatti successivi mi hanno indotto a ricredermi. Ho anche prestato attenzione (ma non più di tanto) verso governi di centro-sinistra e le loro azioni tese a 'liberalizzare' l'economia. Anche qui sono stato costretto a distogliere l'attenzione visto che quelle azioni in un caso si sono tradotte in maggior carico di lavoro per gli occupati senza remunerazione e, nell'altro, in perdita dei nostri gioielli economici con disoccupazione al seguito. E, infine, da ultimo, per un attimo ho sperato che Renzi, oltre a definirsi 'rottamatore', fosse in grado di ammodernare il Paese. Ma, in breve tempo, non ho potuto far altro che ridere amaramente, anche sulla scorta delle parodie di Crozza. Fatto sì è che il Paese, nel corso di un quarto di secolo, si è trascinato tra centri-destra, centrisinistra, sinistra-centro, destra-centro, destra-sinistra, sinistra destra, con una varietà di 'offerte' tale da far invidia ad Amazon. Peraltro, i Masaniello sin dall'inizio non mi sono piaciuti, la

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Fratellanza che si richiama nominalmente a valori unitari mi deprime e i Guerrieri di Pontida non mi entusiasmano. Per un attimo, quest'ultimi, sono diventati interessanti quando è stata manifesta la volontà di farne una forza nazionale ma, visti i sostegni che hanno reperito nel centro-sud ritengo che, in caso di vittoria, mezzo Paese tornerà nella Prima Repubblica. Non parliamo, poi, delle prossime consultazioni. Ben 98 loghi di partiti e movimenti sono state depositati cosicché la scheda elettorale sarà un lenzuolo a due piazze. Tra quelli più pittoreschi, si va dall'L'Italia dei diritti', al 'Maie' (Movimento associativo Italiano all'estero), dal 'Movimento mamme del mondo' a 'W la fisica', dal 'Movimento dei Poeti d'azione' al 'Sacro Romano impero cattolico', dal 'M.T.N.P.P.' (Mov. Tec. Naz. Pop. Pace) alla 'Confederazione Grande Nord'. Allora, qualcuno potrebbe chiedersi chi çl?g?re: onestamente, non lo so. Siccome, però, non ho mai votato scheda bianca e non vorrei cominciare ora, proverò a chiedere al portiere che nella sua saggezza ha sempre operato per il bene del condominio, oltreché per il suo: chissà che non mi dia qualche dritta. Per il futuro? Visto che secondo due delle sette leggi universali di Ermete Trismegisto "Ogni causa ha un effetto - Ogni effetto ha una causa. Ogni azione genera un'energia stabilita, che con la stessa intensità ritorna al punto d'origine" (2.a) e "Come sopra - così sotto, come sotto - così sopra. Come dentro - così fuori, come fuori - così dentro. Come nel grande - così nel piccolo." (3.a), 7 non ci resta che vedere se l'Enûma Eliš babilonese abbia una qualche ragione e sperare che ad opera di Ea, il figlio di Anu, e della sua paredra Damkina, "Nella cella dei destini, nella stanza degli 8 archetipi, (venga) generato il più saggio dei saggi, il più intelligente degli dei, Bel." . Che altri non è se non Marduk. Chissà che un nuovo ciclo non abbia inizio. Massimo Sergenti

Note: 1 Cicerone, De natura deorum ad M. Brutum liber secundus 28,72 2 Lattanzio, Divinarum Institutionum liber IV 28,2. 3 Agostino, De Civitate Dei contra paganos libri viginti duo X,3,2 4 Poema religioso babilonese in quattro tavole per complessivi 480 versi risalente al II millennio a.C. (periodo cassita) comunemente conosciuto anche come il poema babilonese del "Giusto sofferente". 5 Karl Paul Polanyi (Vienna, 25 ottobre 1886 – Pickering, 23 aprile 1964) è stato un sociologo, filosofo, economista e antropologo ungherese. È noto per la sua critica della società di mercato espressa nel suo lavoro principale, La grande trasformazione. Viene inoltre ricordato per l'importante contributo dato all'antropologia economica e alla filosofia della condivisione. 6 Karl Polanyi – La grande trasformazione – Einaudi, Torino 1974 7 Enûma Eliš, in italiano "Quando in alto" è un poema teogonico e cosmogonico del XII secolo a.C., in lingua accadica, appartenente alla tradizione religiosa babilonese, che tratta in particolar modo del mito della creazione e le imprese del dio Marduk, divinità poliade della città di Babilonia 8 Enûma Eliš - Tavola I, vv. 79,80


PUNTO DI VISTA

GLI ALIENI SONO TRA NOI Sto (??) diventando una vecchia bisbetica. Scherzando e ridendo, cominciano a dirmelo in parecchi, ormai. Ma che ci volete fare? L'età mi permette di abbandonare le convenzioni sociali e dire ciò che di razionale mi passa per la mente. Se poi sia politically correct, questo è un altro discorso. In ogni caso, quell'aspetto riguarda i giovani, i carrieristi sociali, i poveri di spirito e di scienza. Ad esempio, le feste di fine e del nuovo anno: una kermesse che inizia il 24 dicembre e si conclude il 6 gennaio. Un momento: non è che io non avverta sentimenti di concordia e di bontà ma quelli li pratico tutto l'anno e non attendo i quindici giorni a cavallo tra Natale e la Befana per manifestarli per poi ricacciarli in soffitta per 350 giorni. Rispetto e stimo (fino a prova contraria) il mio prossimo e, in ogni caso, non mi sognerei mai di aggredirlo (neppure verbalmente) nemmeno se ascoltassi palesi castronerie e costatassi lampanti ottusità. Puntualmente, mi commuovo se vedo un fiammeggiante tramonto e un bambino che si stupisce e ride. E un manto di neve (se non interrompe il traffico in autostrada, se non si trasforma in mortale valanga, se non isola paesi e impedisce soccorsi) ha la capacità di intenerirmi per il clima ovattato e pacato che genera, senza che vi sia bisogno di vispi vecchioni vestiti di rosso e di animali cornuti. Peraltro, considero la famiglia e l'amicizia una ricchezza e non perdo occasione, anzi la creo, perché all'inesauribile affetto si coniughi la compagnia: un convivio che se è allietato da un ricco desco e da buoni vini, beh! tanto meglio. E non mi sottraggo nel sostenere, senza distinzioni e senza aspettarmi un ritorno. Possono capitare anche a me momenti di sconforto ma, di solito, non li riverso su altri; cerco di ritrovare me stessa in luoghi di culto o di sentita spiritualità senza bisogno di attendere una mezzanotte. D'altra parte, non ho mai innalzato e vestito un albero natalizio né la mia casa ha mai ospitato un presepe. Considero troppo la simbologia della Natività e dell'Epifania per rappresentarla con palle dorate o con pupazzetti, muschio (in Palestina?!?), carta argentata a mo' di ruscelletti (sempre in Palestina?!?) e pezzetti di legno accroccati a significare una stalla, con vialetti che s'intersecano e staccionate che si snodano tra colline e dirupi verdeggianti (ancora una volta in Palestina ?!?). In sostanza, il Natale per me è tutto l'anno perché non me ne frega nulla di promozioni, facilitazioni, agevolazioni (i supermercati, se parliamo di prodotti, li praticano in continuazione), non mi interessano i pre-saldi, il panettone lo mangio da ottobre e il torrone non mi piace. Quindi, per dodici mesi sono permeata da quei sentimenti che la scatenata pubblicità della carta

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stampata, dell'audio e del video si affannano a strombazzare, ovviamente affiancati dall'invito all'acquisto di articoli della più disparata specie. È Natale se si compra perché sembra essere l'oggetto, e solo esso, che 'testimonia' il 'pensiero' per la persona cara, che rallegra una casa, che facilita la comunicazione, che completa il look, che determina la gradevolezza di un soggetto umano o animale; naturalmente, in un falso clima di bontà e di concordia. Basta addentrarsi nei luoghi di liturgia dell'acquisto (outlet e centri commerciali) per vedere umanità a frotte che punta al 'pensierino'; una gran quantità di paccottiglia, infatti, sommerge i banchi di questi tempi e tutta a pochissimi euro; un suk dell'improbabile dove tuffare le mani: da una stampella dalla foggia astrusa alla quale si possono appendere anche cravatte, al posacenere portatile o illuminato, dal led per il water (passa per spiritoso) all'amuleto di pezza, dal ciondolo di simil-argento all'analogo anellino e orecchino, dalla pashmina para-indiana alla pochette para-francese. Insomma, una abnorme quantità e varietà di inutilità che si riversa nelle mani di un popolo, contento di 'portare' il 'pacchettino', senza alcuna considerazione per chi lo riceve, il quale deve pure 'mostrare' gratitudine. Non sto criticando quegli acquirenti: provo pena per loro perché sono i residui del barile dopo tanto raschiare. Tanta gente mal pagata, ulteriormente impoverita dal II acconto fiscale, da quello dell'IMU, dall'aumento delle utenze, delle tariffe e dei trasporti, dai costi delle influenze che, puntualmente, anno dopo anno, si presentano con il ceppo virato, accompagnate da complicanze che comportano l'acquisto di farmaci da banco o non mutuabili, dalla scadenza della polizza auto, dal pagamento delle tasse scolastiche, dalla retta per il nido e per la mensa, dal cappotto per il figlio maggiore, gravata dalla disoccupazione di un componente familiare neppure mitigata dal lavoro a tempo determinato di altri componenti, reputa necessario ricorrere alle cianfrusaglie per testimoniare a terzi il loro affettuoso pensiero natalizio. A parer mio, basterebbe un abbraccio, una stretta di mano, un fiore, un biglietto d'auguri … Ma tant'è. Il fatto ulteriore è che intasano le strade all'inverosimile e lì il clima di bontà e di concordia si dissipa come neve al sole. Una fiumana di persone, indigeni con bimbi al seguito e 'pellegrini', vagano alla ricerca dell''occasione', tutti motorizzati a due e quattro ruote, accompagnati da stucchevoli canzoni natalizie che escono a pompa dai luoghi di 'acquisto' e accrescono a dismisura la schizofrenica cacofonia. Non basta: all'improvviso ecco i 'lavori in corso'. Da non credere: è trascorso un anno con le buche in bella vista, con i marciapiedi sgarrupati, con le righe pedonali sbiadite, con le perdite d'acqua nelle condutture risalenti ai Romani, con linee telefoniche dell'epoca coloniale, ma un dirigente 'illuminato' ha deciso che a tutto ciò andasse posto fine durante il periodo natalizio. Non solo: poiché tra gestori di utenze non si 'parlano', i dirigenti 'illuminati' sono più d'uno. Due giorni dopo la riparazione della linea telefonica, cinque metri più in là si riscava per la riparazione della conduttura dell'acqua o del gas. Perciò, le strade si restringono, il traffico impazzisce e clacson stizziti percuotono l'aria come tsunami che s'infrangono sulle orecchie. Non c'è scampo. Ma anche se non vuoi unirti al delirante concerto, se cerchi di 'fuggire' dalla bolgia infernale estraniandoti, vieni ugualmente


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coinvolta: un ottuso furbetto, sfruttando uno spazio di 0,5 millimetri, cerca di incastrare la sua auto tra la tua e le transenne cosicché, quando il traffico si muoverà, potrà superarti di 1 centimetro. Nel contempo, il conducente dietro di te, vista la manovra, ti rimprovera con rabbiose strombazzate e sprezzanti gesti di aver concesso il centimetro allo stolto che ti affianca. Di vigili urbani neppure l'ombra e gli ausiliari del traffico, abilitati anche ad elevare contravvenzioni, con ogni probabilità hanno finito i blocchetti. In compenso, controllano il perfetto allineamento delle macchine in doppia fila. Ma non disperiamo: in compenso, il DevotoOli, lo Zingarelli, la Garzanti e altri, hanno potuto rendere al meglio la definizione di attimo: il tempo che intercorre tra il semaforo che passa al verde e la strombazzata dell'auto dietro. Se questo è il clima di passione che caratterizza ogni fine anno e, di anno in anno, con sempre maggiore intensificazione, questa volta, la fine del 2017 e l'inizio del 2018, le condizioni di prostrazione si sono aggravate da una sequenza impressionante di eventi che lasciano sbigottiti. Mentre ero a prepararmi una parca cena, in maniera distratta ho prestato orecchio all'anchorman del TG: il neoeletto trentunenne Cancelliere austriaco, Sebastian Kurz, leader del Partito Popolare, ha dichiarato la sua volontà di concedere la cittadinanza austriaca ai gruppi etnici di lingua tedesca e ladina in provincia di Bolzano?!? Non potevo che aver sentito male. Mi sono alzata e ho cominciato a smanettare sul computer. Porca puttana, è vero. La questione del doppio passaporto, peraltro, non è caduta dal cielo ma, apprendo, è anche frutto di una lettera inviata nelle scorse settimane a Kurz da diciannove consiglieri provinciali altoatesini: sette della Svp e dodici delle opposizioni, tra cui gli indipendentisti dei Die Freiheitlichen e il Movimento 5 Stelle. Il Movimento 5 Stelle?!? Ma cosa caso (con due zeta) passa per la mente a quella gente? Forse, avranno deciso di esportare, cominciano dall'Austria, la loro vacuità. E il Svp? Favorito da tutte le leggi elettorali degli ultimi cinquant'anni per portare nel Parlamento italiano un numero spropositato di rappresentanti. Per cosa? Non credo che il PD, da sempre sostenitore anche nelle sue precedenti versioni di una tale partigianeria, arrivi a percuotersi il petto. Improvvisamente, mi sono chiesta dove fossero i difensori dell'identità e della cultura nazionale. Ma è stato inutile. Mi sono sentita depressa. Mio nonno mi sfiniva con i racconti della Grande Guerra, con il Piave, con il Carso, con i generali Cadorna e Diaz, con la 'liberazione' (sic) di Trento e Trieste. Chi mai avrebbe potuto credere, a quei tempi, che quei fatti, cento anni dopo, erano da buttare nel cesso? Che le Campane di San Giusto non erano altro che una melensa canzone di guerra? E che dire dei 650.000 soldati italiani che, a forza o a ragione, hanno perso la vita su quei fronti in nome di uno pseudo (visti gli eventi successivi) ideale? La RAI, forse, avrebbe potuto risparmiare e risparmiarci le decine di ore di intrattenimento che da ultimo ci ha riservato nel centenario della Grande Guerra. Una commemorazione? Di cosa? Una selva di politici avrebbero potuto conservare nei loro antri mentali stomachevoli dichiarazioni su Caporetto. Un momento. Sicuramente, mi sono detta, esponenti del governo italiano avranno fatto le loro rimostranze, si saranno adontati, avranno sollevato proteste. Torno al computer e smanetta, smanetta, alla fine sono riuscita a trovare una dichiarazione del nostro ministro degli Esteri il

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quale, laconicamente, ha dichiarato: "Vigileremo". Su cosa? Non mi sono neppure chiesta cosa potesse pensare (non sia mai, dire) la Mogherini sulla vicenda. Sarebbe stato tempo perso. Perciò, scoraggiata, sono tornata alle incombenze domestiche con la mente affranta, che turbinava a più non posso. Poi, ha prevalso la speranza: ci dormirò sopra. Domani è un altro giorno, mi sono detta, al pari di Rossella O'Hara, a Tara, guardando l'orizzonte. Ma l'alba del nuovo giorno non è stata foriera di solare radiosità. Il solito TG annuncia che la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per due ufficiali superiori della Marina militare a seguito del naufragio di un barcone di migranti l'11 ottobre 2013; un fatto che ha comportato la morte di 268 persone, tra cui 60 bambini e che, a detta della Procura stessa, avrebbe potuto essere evitato con un intervento più celere e non dilatorio della Marina italiana. Non sono entrata, ovviamente, nel merito della vicenda che, peraltro, si è rimpallata tra l'Italia e Malta; né ho voluto (né voglio) introdurre della captatio benevolentiae col ricordare gli innumerevoli salvataggi operati dalla Marina italiana. Tuttavia, resta il fatto che qualcosa mi sfugge, mi sono detta. Quasi in contemporanea, Amnesty International ha denunciato l'operato del Ministro Minniti per l'accordo fatto con la Libia, atto a contenere il flusso di migranti che transitano e partono da quel Paese. L'ha fatto perché, secondo Amnesty, quell'accordo, che implica aiuti, dotazioni, formazione soprattutto alla Marina libica, comporterebbe il soggiorno presso campi di internamento di quel Paese di decine di migliaia di profughi, esponendoli alla violenza e, addirittura, alla tortura dei sorveglianti. Non sono in grado, ovviamente, di confutare quelle affermazioni ma, mi sono chiesta, la Libia non è uno Stato sovrano, una Repubblica parlamentare, riconosciuta persino dall'Onu? Posso capire che il governo è conteso ma ciò non toglie che i suoi attuali rappresentanti siano legittimati ad agire dalla società delle nazioni. Quella Società delle Nazioni, l'ONU, alla quale il presidente Trump ha tolto il finanziamento perché, a suo giudizio, effettua, in sostanza, spese dissennate. C'è chi dice che lo abbia fatto perché la maggioranza dei rappresentanti non ha votato a favore della sua decisione di spostare la capitale di Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, ma io non ci credo. In ogni caso, se le affermazioni di Amnesty International sono vere, perché non denunciare quel Paese all'Onu? Perché non documentare le presunte atrocità commesse? Perché, nel caso di fondatezza, non lottare al fine di porre al bando quel Paese dal club degli Stati civili e arrivare ad adottare nei suoi confronti anche una sorta d'embargo per indurlo al rispetto dei diritti umani? C'è, anche qui, chi afferma che tali 'disattenzioni' risiederebbero da un lato nel petrolio e nel gas e, dall'altro, nei presunti interessi delle ONG ma anche stavolta io non ci credo. Comunque, a latere, perché non denunciare i Governi di tutti quegli Stati che hanno posto l'esercito alle ritrovate frontiere, hanno alzato muri, hanno schierato forze pubbliche per impedire l'accesso a frotte di immigrati, la stragrande maggioranza delle quali salvate dalla Marina italiana? E, già che ci siamo, perché non denunciare la 'rilassatezza' dell'Unione europea sulla vicenda immigrati la quale, dopo aver fissato 'quote' ignora bellamente la loro disattesa? Perché non evidenziare che Frontex, il programma europeo in massima parte incentrato sulla questione 'immigrati', destina


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ampie risorse per il controllo delle coste atlantiche? Forse si teme un'invasione di migranti caraibici? Meno male che il nostro Presidente del Consiglio ha una mente più pragmatica. I mass-media, tra Silent Night, O oly Night e Jingle Bells, ci informano che ha inviato in Niger 500 soldati al fine di perseguire due dichiarati importanti obiettivi. Il primo è la lotta contro il jihadismo islamista, che nelle aree di frontiera tra Niger, Libia e Algeria, a Ovest, e Niger, Libia e Ciad, a Est, ha assorbito i reduci delle battaglie algerine e ha sfruttato la frammentazione della Libia per rafforzarsi e diventare sempre più insidioso. Il secondo è "per la stabilità del Mediterraneo e il contrasto ai flussi irregolari dei migranti gestiti dai trafficanti di esseri umani". Ora, è dato il caso che nel Niger siano presenti già da tempo importanti contingenti americani e francesi (oltre un migliaio di uomini, i primi, e oltre 4.000 i secondi). Certo, accantonando il problema dell'Isis africano verso il quale i militari italiani non credo possano fare molto, si può comunque pensare che occorre essere presenti in loco per rendersi conto della situazione dei flussi. E il Niger, in quanto a questo, è uno snodo determinante per i provenienti dalla Nigeria, dal Ciad e dal Mali. Perciò, in attesa delle determinazioni europee circa lo stanziamento di 500 milioni di dollari per il nascente G5 Sahel (Niger, Mauritania, Mali, Ciad e Burkina Faso), speriamo che i campi profughi là istallati a seguito dell'accordo dello scorso maggio producano effetti e rallentino le partenze e gli sbarchi. Del resto, si può davvero ritenere che qualche nave italiana (i francesi e i maltesi sembrano un po' disattenti), ammesso che arrivi in tempo, possa fare la differenza? O che la Turchia, possa davvero intercettare i 'barconi' nonostante fruisca di ingenti somme erogate dalla UE a tale scopo? Quindi, non restano che i 'campi', anche se, come qualcuno dice, il trattamento là riservato ai profughi sembra non essere dei migliori. Ma, mi sono chiesta e continuo a farlo, Amnesty International non ha controllato i campi nigerini oltre ai libici? Non ha denunciato le autorità locali, quelle americane, quelle francesi, quelle africane della coalizione, oltre alle autorità italiane? Boh! Vallo a sapere… In compenso, l'avvedutezza del nostro ministro degli Esteri è stata proverbiale: ha aperto un'ambasciata a Niamey, la capitale nigerina. Da scarsamente provveduta, ho cercato di sapere quanti italiani, oltre ai militari, siano presenti in Niger e, onestamente, non sono riuscita ad appurarlo. In compenso, ho accertato che il Niger presente nella programmazione triennale degli indirizzi strategici 2016 - 2018 della Cooperazione Italiana, dal dicembre 2017 è improvvisamente, diventato il Paese prioritario in assoluto; talmente strategico da dirottare il 40% dei fondi di assistenza per l'Africa. Peraltro, i nuovi fondi promessi si aggiungono ai 50 milioni di euro stanziati nell'aprile 2016 e inseriti in un accordo siglato dal Governo italiano con il Presidente Mahamadou Issoufou. Ho visto dal web che molti si interrogano sulle ragioni che hanno spinto il Governo italiano a trasformare il Niger nel Paese prioritario, considerando che Paesi ben più ricchi e strategici per l'economia italiana sono stati abbandonati, privando agli imprenditori italiani di importanti e ricchissimi mercati. L'esempio tipico è la Repubblica Democratica del Congo, dove, fino al 2015, l'Italia godeva di una buona reputazione grazie a mirati interventi umanitari a forte impatto

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sociale, apprezzati dalle autorità locali. Con il declassamento del Congo, gli interventi sono divenuti di basso profilo, affidati a ONG locali e l'ENI (di rimando?) sembra essere stata esclusa dallo sfruttamento del gas metano nel Lago Kivu. Beh! Forse punteremo all'uranio, del quale il Niger sembra essere ricco, ma chissà se la Francia ci lascerà uno spazio, un pertugio, o se invece saremo noi a lasciargli un orifizio… No, no, queste considerazioni non sono natalizie, mi sono detta. Sempre più affranta, mi sono trascinata stancamente per la casa con la mente affollata di dubbi e di interrogativi. Sono questioni troppo grandi per la mia povera mente. E, mentre me ne stavo a divagare sui massimi sistemi, ecco una voce stentorea femminile che prorompe dalla radio e afferma: "Adesso basta!". Ma chi è costei che dà voce e dignità al genere femminile, dopo tante poverine insidiate e molestate che per ben 25 anni hanno sopportato in silenzio? Presto l'orecchio e capisco che è Maria Elena Boschi. Vegas, il presidente della Consob, nella sua audizione presso la commissione d'inchiesta sulle banche presieduta dal sempiterno Pierferdinando Casini, ha lasciato intendere che la Boschi gli avrebbe manifestato un preoccupato interesse per le vicende dell'Etruria. Dal ché, la canizza politica si era scatenata. Così, la diamantina Sottosegretario di Stato alla Presidenza non ha voluto prestarsi al ruolo della volpe ed ha preferito porre immediatamente fine alla strumentale speculazione, sostenuta in questo da Casini il quale, in riferimento a Vegas, fuori dalla sede ha borbottato un qualcosa del tipo che 'non si possono fare dichiarazioni dal sapore politico'. Il presidente della Consob, interpellato formalmente da un senatore, risponde alla domanda e fa dichiarazioni politiche? Mah! Forse, il presidente Casini ha scelto anticipatamente la parte … In ogni caso, la Boschi ha tuonato: Adesso basta! Eeeh! Sì. Poverina. Non merita tali accuse, si deprime. Ma col sostegno del suo mentore Renzi, il quale ha già dichiarato che la candiderà in più collegi nelle prossime elezioni, continuerà nella sua preziosa opera di parlamentare e, se del caso, di amministratrice. Non perché il Cavaliere lo meriti ma mi è venuto in mente che egli in quanto a strumentale speculazione ne sa qualcosa. In ogni caso, la ventennale scatenata avversione nei suoi confronti poteva forse essere tacitata da un 'Adesso basta'? No. Non ha la stessa armonia nelle forme di comunicazione. Comunque, in alto i cuori (sursum corda), avrebbe detto il sacerdote all'inizio del Prefactio, se si praticasse ancora il rito latino perché, poco dopo, ho appreso dai puntuali mezzi d'informazione, che gli ex grillini, oggi dimaini, hanno presentato un mirabolante programma elettorale. Tutto lo scibile umano vi è racchiuso: Energia, esteri, lavoro, trasporti, agricoltura, difesa, turismo, scuola, sicurezza, salute, banche, ambiente, fisco, telecomunicazioni, immigrazione, giustizia, università e ricerca, affari costituzionali, beni culturali, sviluppo economico, animali, sport. Ed il bello è che non è la rappresentazione di un'Italia ideale seguita, poi, da un elenco di priorità. No. È un impegno di lavoro per la prossima legislatura. Un impegno talmente vasto che, a detta dei soliti detrattori, solo esseri di una civiltà superiore potrebbero realizzarlo, sia pur nell'arco di un secolo. Purtroppo, pochi lo leggeranno ma tutti (spero) ricorderanno che il loro candidato premier,


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praticamente ingessato, a proposito di risorse per realizzare quel programma, ha fatto sapere che le reperirà drenandole (gradualmente, è ovvio) dalle pensioni. Ma sì, riduciamo alla fame questa categoria di mangiapane a ufo, questi cinque milioni di battifiacca che superano il minimo pensionistico e insegniamo loro a vivere come il resto d'Italia: in un mare di stenti. E ciò, nonostante le recentissime politiche per la famiglia composte dal premio alla nascita, dal bonus asilo nido e dall'assegno di natalità. Qualcuno ha fatto presente al Governo che tali politiche, bene che vada, produrranno rilevabile effetto tra nove mesi? Cioè, sette mesi dopo l'esito elettorale? Un po' come gli 80 euro. Sicuramente no perché le mie, mi sono detta, sono gratuite detrazioni e a Natale non si possono avere tali gravosi pensieri. Comunque, tra tanta depressione, non ho potuto non sorridere mestamente: il programma dei grillini mi ha richiamato alla mente sia l'Unto, il Cavaliere prima maniera, dove Benigni, nel fargli il verso, dopo la promessa di tanti benefici agli elettori e agli elettrauti, li rassicurava che avrebbe tolto loro le tasse e trombato la nonna, e sia Renzi che, nella parodia di Cetto La Qualunque, oltre all'abolizione del canone RAI, avrebbe donato agli elettori un carico di 'pilo'. Chiù pilo pi' tutti. Per i maschietti non è male. A tanta munificenza, come si sa, si è recentemente aggiunta l'ennesima nuova formazione: Liberi e Uguali, approdo degli ex presidenti di Camera e Senato. Il loro leader, il senatore Grasso, all'avvio della campagna, in concomitanza delle feste ha voluto proporre un cadeau: l'abolizione delle tasse scolastiche. Il ché, indubbiamente, non è poco per essere una formazione di sinistra 'radicale' (?!?). Un po' di sano egualitarismo non guasta: tutti hanno diritto allo studio. Per farne cosa, poi, non è dato di sapere. Nel senso che mancava il richiamo al lavoro: una carenza che hanno genericamente e nominalmente ripianato poco dopo. Eppure, che siano di sinistra lo dimostra il fatto che abbiano gioito insieme ai fratelli maggiori al varo della legge sul biotestamento. Ora, io non voglio stare a discutere se sia un bene che un cittadino, a suo insindacabile giudizio, possa disporre totalmente del proprio corpo. Personalmente, lo ritengo un bene ma ciò che non capisco sono le dichiarazioni successive: "Un atto di buona politica". Ah! Bene. Il biotestamento è un atto di buona politica e tutti i sinistrorsi, con il volto atteggiato alla solennità del momento, lo hanno affermato ma, si domanda, quella non sarebbe stata più una battaglia alla Pannella? E, comunque, per rimanere a sinistra, le battaglie per il lavoro dove sono? Dove sono gli accordi di programma? E le sollecitazioni verso le Regioni, soprattutto meridionali, perché i POR non rimangano libri dei sogni? Dov'è una politica industriale? Dov'è la semplificazione burocratica, la riforma del fisco e quella delle strutture che dovrebbero interconnettere domanda e offerta di braccia e di menti? Dov'è l'e-governance? Affermazioni natalizie dell'Istat ci hanno detto che la disoccupazione è scesa all'11 e rotti percento La sinistra, invero, ha esultato. Eeh! Merito del jobs act. Sarà che sono una ragazzaccia ma quella percentuale non è un punto e mezzo oltre la Francia e ben sei punti oltre la Germania? E il jobs act della poca crescita occupazionale non ha prodotto, forse, per oltre il 50%, posti di lavoro a tempo determinato? Almeno gli altri, i moderati sussiegosi, i galli civilizzati e i

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moschettieri in nuce, il tema 'lavoro' lo toccano poco: così ci risparmiano delle boutade, mi sono detta passandomi la mano sul viso con gli occhi al cielo. Ma si sa: al periodo natalizio si sposano bene le favole. Insieme alle favole, naturalmente, ci sono le strenne. Infatti, non potevano mancare a Natale, sostanziosi aumenti di gas, luce e trasporti. Ma la miseria! Ce ne fosse stato uno, tra così tanti umanitari rappresentanti del popolo, che si sia fatto sentire sull'inopportunità di tali aumenti: l'energia elettrica del 5,3%, il gas del 5% e le autostrade, addirittura, in un range che va dal 2,7% al 54% con il petrolio in rialzo. A quel punto, sono crollata strabuzzando gli occhi: Costoro, che si professano rappresentanti, chi rappresentano? I rinnovi dei contratti di lavoro sono fermi da anni e gli unici recentemente rinnovati sono quelli statali. Ovviamente, gli aumenti corrisposti a meno di quattro milioni di lavoratori non coprono neppure gli ultimi aumenti. Figuriamoci quelli prenatalizi: l'aumento ISTAT del fitto, il rincaro sia pur moderato dei prodotti al dettaglio e il recente rialzo delle tasse scolastiche. E se questa è la condizione di buona parte dei lavoratori statali mi immagino quella dei privati, ho rimuginato perplessa. Ma una spiegazione a tutta questa noncuranza deve pur esserci: che siano in procinto di scoprire il pozzo di San Patrizio? Non si può pensare altrimenti visto che da una parte le feste sono state caratterizzate dall'atroce dilemma sulla candidatura o meno di Maroni, dall'altra da grande afflizione per la mancata conclusione dell'iter parlamentare per lo ius soli e, dall'altra ancora, mi riferisco agli abitanti di Cassiopea, la costellazione dalle 5 più raggianti stelle, dall'intento di cancellare oltre 400 leggi dichiarate desuete: ovviamente con l'aiuto del popolo del web. La mia prostrazione stava avvitandosi per un'erta china: che cosa abbiamo fatto per meritare tanto? Meno male che il nuovo anno è entrato e con esso un vento di speranza accarezza i cuori. Purtroppo, però, dimenticavo la Befana. Ed ecco che i regali della vecchia bitorzoluta si profilano all'orizzonte: l'Alitalia torna improvvisamente ad occupare le pagine virtuali e cartacee dei notiziari. In meno di tre anni, ha fatto il botto. E questo, nell'arco di dieci anni, è il terzo. Eppure, alla consolle di comando c'erano persone di grande esperienza: insieme a Luca Cordero di Montezemolo e James Hogan, Giovanni Bisignani, già amministratore delegato Alitalia - Linee Aeree Italiane - dal 1989 al 1994, Antonella Mansi, ex presidente della Fondazione Monte dei Paschi di Siena, e Roberto Colaninno, presidente di Alitalia - CAI nei suoi solo sei anni di vita. Come si è visto, tutta gente di provata esperienza. Evidentemente, una maledizione accompagna quella Compagnia: se non fosse per le ingenti risorse impiegate negli inutili salvataggi precedenti, ci sarebbe da ridere: tra i possibili acquirenti c'è la Lufthansa la quale ha fatto sapere che gradirebbe una cura dimagrante (forse relativa al personale) e la WizzAir, la compagnia low cost ungherese. La prima, un simbolo di continuativa efficienza e la seconda un esempio di valida imprenditorialità, visto che, in quattordici anni dalla sua nascita, ha potuto mettere il suo nome a fianco di big del trasporto aereo. Mi viene il dubbio che la leggenda degli Anunnaki sia vera. Esseri che nella notte dei tempi sono sbarcati sulla Terra per lasciarci nozioni scientifiche e civiltà. Ebbene, se così fosse, alzo una prece al cielo, ai naviganti del cosmo, perché tornino a riprendersi i discendenti dei loro pionieri.


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Forse il clima, i batteri, l'acqua o chissà cos'altro ancora, devono aver compromesso il loro funzionamento facendoli divenire degli esseri totalmente avulsi dalle realtà terrestri. Date un segno e fiumane di umanità si dirigeranno verso la Torre del Diavolo nel Wyoming. L'apparato di amplificazione è già pronto per lanciare nell'aria il messaggio sonoro: Sol(4) - La(4) - Fa(4) - Fa(3) Do(4), Vi prego, venite. Roberta Forte

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BIZZARRE TENTAZIONI Forse nella polis greca era realmente possibile l'esercizio della democrazia diretta. Piccole città dove tutti, in qualche misura, si conoscevano e dove la percezione del valore delle persone era diretta e non distorta dai mezzi di comunicazione e, soprattutto, era sottolineata dalle gesta di ciascuno. Nelle società attuali, affollate e complesse, la democrazia diretta può essere al più esercitata - sul modello svizzero - attraverso appositi istituti di consultazione popolare su questioni di cruciale importanza. E' pur vero che esiste la rete che, a certe condizioni e garanzie, potrebbe facilitare, semplificandolo, il ricorso alla partecipazione popolare. Ma un click, allo stato delle cose, difficilmente può credibilmente sostituire le funzioni dei corpi sociali organizzati e partecipati. Ciò implica che la rappresentanza resta ancora oggi, in democrazia, la via maestra da percorrere. Eppure la crisi della rappresentanza è ormai endemica e si aggrava col passare del tempo e col succedersi delle legislature, in particolare in Italia. I rappresentanti rappresentano sempre meno e peggio i rappresentati, la frattura tra elettori ed eletti, tra cittadini e politica si fa ogni giorno più profonda, amplificata da una crisi di fiducia e di credibilità delle istituzioni e dello Stato nel suo complesso, che non ha precedenti. Nel vuoto della faglia crescono e trovano spazio i personalismi e le individuali ambizioni elevati a politica, allignano e crescono la demagogia, l'imbonimento, la circonvenzione dei cittadini che ancora si recano, stancamente, alle urne, straripano le promesse mirabolanti, le mance elettorali, le balle "programmatiche". E la legge si fa strumento degli interessi partigiani. Persino le riforme costituzionali e le leggi elettorali. Nell'avvilente quadro di una democrazia corrotta e corruttrice trova sempre più spazio la cieca protesta, la pulsione al "muoia Sansone con tutti i Filistei", la tentazione per la salvifica e sanificatrice opera del "demiurgo" di turno, sia esso un re, un tiranno, un oligarca o, peggio, un Masaniello. Di pari passo, per effetto della crescente accumulazione di ricchezza nelle mani di pochi, si consolida un oligarchico potere parallelo che si fa feroce, se e quando un provvedimento o una tendenza osi o comporti il calpestare un qualche intoccabile interesse. In tali evenienze si muovono le pedine giuste sulla scacchiera del potere i cui "pezzi" sono il potere economico e la capacità di corrompere, i mezzi di informazione, la pressione, il ricatto, le lobby, i clientes e la cieca "gratitudine" comprata a poco prezzo.


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Arduo cambiare le cose. Ancora piÚ arduo resistere alla tentazione di votare, tanto per sparigliare, uno dei Cinquestelle o di restare a casa a rimpinzarsi di Internet e televisione. Ma è tentazione tanto intensa quanto passeggera quella di dar credito ai piccoli Savonarola dei nostri giorni. Il piacere dello "spariglio" non vale il rischio di vedere "la bestia trionfante" ed il riaccendersi dei roghi che arsero Giordano Bruno. Nonostante tutte le pregresse delusioni non resta che un'ennesima apertura di credito verso il Centrodestra, sperando che un Salvini rafforzato sia in grado di arginare le intemperanze del Cavaliere. Pierre Kadosh

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ELIGERE O NON ELIGERE: QUESTO E’ IL PROBLEMA Or suvvia mio povero caro fratello elettore, preparati all'ormai imminente appuntamento "democratico" del 4 marzo in quello stato di "trepida rassegnazione" che è ossimoro riscontrabile soltanto nell'inanità eccitata, ma sterile, del tifo sportivo! Cos'altro è infatti, nella sostanza, la scheda elettorale che riceverai al seggio se non che la riformulazione, sotto altra forma, della schedina del Totocalcio che l'amico barista di quel "Caffè Sport" che frequenti regolarmente sotto casa, ti allunga dal bancone ogni settimana? Eppure - e qui sta nascosto l'inghippo - il ferreo complotto ordito dai veri ed unici beneficiari dell'inganno liturgico di tipo elettorale, i politicanti di professione, farà si che, fatta la croce su detto foglietto di carta e sul quale per un breve istante i disegnini del partito del cuore tenderanno, con identica partecipazione psico-emotiva da parte tua, a sovrapporsi alle adorate maglie del football, tu, caro cittadino elettore ti sentirai, per dirla col Poeta, "quieto e contento". La gratificazione di quel breve attimo di presunta onnipotenza nella solitaria intimità della cabina elettorale è tutto ciò che il sistema ti concede a scadenza quinquennale, poi null'altro. O meglio, mi correggo, c'è una qualche cosina in più: infatti quando, a risultati acquisiti, il tifoso controllerà la schedina del Totocalcio e l'elettore i risultati della votazione e vedranno che, rispettivamente, la propria squadra ha vinto la partita e guadagnato qualche punticino in classifica ed il partito del cuore qualche aggiuntivo seggio in Parlamento, essi godranno entrambi di alcune gradevoli ma effimere sensazioni di brevissima durata: si potrà infatti dire la propria opinione al bar con accresciuta autorevolezza, commentare con maggior credito il guizzo vincente del "proprio" centravanti o del "proprio" capopartito e finanche qualcun'altro si vedrà costretto a pagare un caffè per la scommessa persa. Ma nel solitario risveglio della mattina successiva non si potranno cancellare dalla mente l'immutabile consapevolezza di - che so? - possedere forse poco denaro, che la propria moglie sia fedifraga ovvero di come la stanzetta del proprio ufficio sia davvero molto squallida etc. etc.. Si realizzerà quindi, con triste rassegnazione, come, sia la vittoria settimanale della propria squadra che eventualmente quella quinquennale del proprio partito, appartengano entrambe ad un mondo del tutto estraneo che concede, come fruibile ed unica gratificazione personale, soltanto quella di poterne in qualche modo divagare nella propria mente, ma in modi del tutto ininfluenti per l'esterno. I tuoi presunti rappresentanti quindi, mio povero caro fratello elettore, stanno per gabbarti ancora una volta : sanno molto bene che per tutta la legislatura essi sono, nei confronti di te, illuso tracciatore di quinquennali crocette, del tutto indipendenti e sovrani avendo dinnanzi a se


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cinque lunghi anni di assoluta libertà di azione insindacabile per fare e disfare tutto ciò che loro maggiormente aggradi. Poi negli ultimi sei mesi della successiva campagna elettorale avranno modo e maniera per rabberciare tutto il loro trascorso operato e, con innegabile abilità prestigitatoria (gioco facile questo, dato il modesto livello di capacità critica del gregge elettorale, peraltro estremamente frazionato), ripresentarsi del tutto rigenerati al cospetto della massa dei loro fedeli elettori, pronti a riproporre, per l'ennesima volta, il trito copione della illusoria comparsata. Tale sconsolata considerazione vale anche e soprattutto per coloro che, in modo ingenuamente antagonistico, credano invece di affermare la propria indipendenza con la scelta del "non voto". A questi si applica (data l'assoluta mancanza di qualsiasi efficacia costituzionale della loro astensione) la nota storiella del famoso marito che, per far dispetto alla moglie ……. etc. etc.. Infatti qualora il politicante di turno, con un eventuale sussulto di quanto ancora rimastogli di residua coscienza etica, dovesse occasionalmente porsi la domanda: ma cosa pensano i cittadini che mi hanno votato di quello che sto attualmente facendo e/o dicendo (?), nulla di ciò potrebbe comunque applicarsi all'astenuto (prego, al riguardo di risparmiarmi l'aborrita difesa d'ufficio dei "sondaggi", veri e definitivi chiodi piantati sulla bara del primigenio principio fondante della democrazia rappresentativa basata, come è noto, sulla delega EPISODICA e non sulla SETTIMANALE consultazione dell'elettorato). Infatti con una rappresentatività mandataria consacrata soltanto dal voto, chi non si esprime semplicemente NON ESISTE e conta pertanto meno di nulla. Fu infatti affermato correttamente come gli assenti abbiano sempre torto, e ciò proprio per il motivo che essi non forniscono una esplicita ragione su alcunché, risultando anche di comodo alla politica operante in quanto non forieri di eventuali scomode opinioni con le quali ci si debba confrontare. Un ultima breve considerazione sul suffragio universale. Che esso fosse faccenda da maneggiarsi con cura è sempre stato presente, per decenni, nella mente delle varie classi dirigenti europee. Non va infatti dimenticato che soltanto nel recentissimo 1948 la civile Italia decise finalmente di concedere per la prima volta il voto alle donne: ciò, sia per l'incalzare dei tempi sia per un, anche se tardivo, riconoscimento al mondo femminile dei contributi dati dalle nostre compagne al paese durante il mezzo secolo appena trascorso, incluse le due terribili guerre mondiali, e così consentendo all'altra metà del cielo di potersi esprimere in merito alla rappresentanza politica nazionale. Ciò fu però possibile per una serie di motivi: innanzitutto per il nostro forte radicamento, al tempo ancora ben vivo nel paese, nel ceppo del bi-millenario umanesimo della civiltà greco-romana-cristiana che poteva ben estendersi fino a considerare uomini e donne entrambi meritevoli di pari dignità nell' ottica di un armonico sviluppo della società. Inoltre i modelli di riferimento socio-economici erano ancora essenzialmente di tipo ottocentesco e si poteva quindi azzardare un significativo esperimento di rilevante caratura sociale. A tale riguardo mi permetto avanzare la seguente considerazione: nell'aprile del 1948 chi scrive era già ben vivo e vegeto e quindi testimone diretto e, per mia fortuna ancora oggi qui presente, di un determinato momento storico in cui, fino a qualche giorno prima di quel fatidico aprile, le donne (dico le donne, cioè tutta la metà del popolo

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italiano) non erano ancora ritenute degne, per stato e caratteristiche, di contribuire in alcun modo al dibattito politico del paese (!). In sostanza il suffragio universale del '48 fu considerato essere ormai sintonico ad un generale e consolidato apprezzamento della democrazia in quanto tale la quale, benché considerata oggettivamente una "pessima" forma di governo, era da ritenersi comunque migliore di qualsiasi altra formula costituzionale umanamente concepibile. Tale linea di pensiero tuttavia è stata possibile, e sostenibile, fino al momento in cui (come sta invece sempre più avvenendo ai nostri giorni) il mondo NON aveva ancora iniziato ad essere governato da infallibili algoritmi, gestori di un immenso numero di dati e monopolisticamente ben saldi nelle mani di un potente, insindacabile ed al contempo evanescente potere sovranazionale. In tali condizioni, che continueranno a svilupparsi sempre di più in futuro, pensare di poter pretendere dalle masse un consapevole parere su alcunché di strategicamente sensato è una colossale presa in giro. Tale situazione risulta invece essere perfettamente finalizzata al cinico scopo di perpetuare - occultandone il vero fine dietro una presunta, e quindi ingannevole, "autentica" volontà popolare - la gestione di un presente ormai del tutto statico ed un immobilismo voglioso soltanto di una sterile e mortale ipertrofia consumistica. Qualora, e come sembra,"l'intelligenza" universale desideri questo, allora la nostra cosiddetta democrazia "pecorile" continuerà ad andare più che bene in quanto essa costituisce la formula perfetta per poter perpetuare, per dirla con Aldous Huxley, "un sistema di schiavitù dove, grazie al consumo ed al divertimento, gli schiavi ameranno la loro schiavitù". Qualora si auspichi invece che l'umanità debba porsi su un percorso di dinamica propensione al futuro e non limitato soltanto ad una perenne crescita di super tecnologie auto fecondanti, allora bisognerà avere il coraggio e l'onestà mentale di dire come stiano realmente le cose. Non potrà infatti più negarsi il fatto che il sistema di una "democrazia di massa" basato su una superficiale auscultazione quinquennale (i sondaggi, lo ripeto, non contano essendo essi fuorvianti perché strettamente tattici e niente affatto strategici) dei più disparati egoismi individuali di immense masse incolte su ciò che esse credono possa servir loro - e comunque unicamente nel breve periodo - metterebbe i popoli delle cosiddette democrazie elettive nell'infelice condizione di quegli animali d'allevamento che, costretti, per ragioni industriali in un'asfittica immobilità fisica, non possono trovare altra consolazione al loro miserrimo stato che nel lenimento offerto da una perenne, forzata alimentazione materiale volta comunque ad una ineluttabile, ebete morte. Soluzioni, sbocchi ? Non ne conosco e sarebbe follia da parte mia ogni eventuale elucubrazione in merito. Posso soltanto affermare che - in palese, totale contraddizione con tutto quanto da me sopra scritto, essendo io ben consapevole di essere ancora figlio di una radicata, anche se (ahimè !) ormai residuale, cultura umanistica, ed di essere altresì un sincero innamorato dello spettacolo offerto da una bella competizione sportiva - io non nutro alcun dubbio sul fatto che la mattina del 4 di marzo mi vedrà al seggio elettorale. Antonino Provenzano


PUNTO DI VISTA

NELLA PIENA DI QUIRINALISMO E LEADERISMO Sovente si è voluta indicare come "Prima Repubblica" quel sistema politico che si è avuto in Italia dal 1948 fino agli scandali di tangentopoli contraddistinto dall'egemonia politica della Democrazia Cristiana contrapposta al Partito Comunista Italiano e caratterizzato da una legge elettorale di stampo proporzionale. Già da allora non possiamo immaginare la politica italiana come un fenomeno di esclusiva pertinenza nazionale, indipendente cioè da ciò che avveniva oltre i nostri confini, i due grandi partiti italiani erano infatti filoamericano e filorusso ed è difficile immaginare in definitiva che la politica di questi due partiti non subisse influenze esterne. Non è un caso quindi che si giungesse alla "Seconda Repubblica" negli anni successivi alla Caduta del Muro. Mani Pulite è l'innesco di un cambiamento di prospettive che avveniva già a livello mondiale: la caduta delle ideologie doveva portare ad un rinnovamento anche sul piano nazionale. E' quindi stato inevitabile che alla politica dei grandi partiti si sostituisse la politica dei grandi cartelli elettorali, ciascuno strutturato sostanzialmente sull'intenzione di dar voce ad una proposta di respiro nazionale in grado di offrire soluzioni ai problemi dei cittadini. Nasce quindi il bipolarismo, agevolato dalla nuova legge elettorale prodotta allo scopo e che in qualche modo doveva consegnare all'Italia un modello di successo già sperimentato altrove. Si è parlato ancora di confronto fra destra e sinistra (nota: centrodestra e centrosinistra) ma a ben vedere il confronto c'è stato esclusivamente fra 2 interpretazioni diverse del capitalismo che non ha prodotto risultati rilevanti sia quanto a soluzioni prospettiche sia quanto al tipo di proposta che non si è mai discostata troppo da ciò che si era già adottato in altri paesi. I motivi vanno ricercati sia nelle difficoltà di Berlusconi a poter coniugare gli interessi personali con gli interessi della nazione, sia nelle difficoltà da parte del centrosinistra di sganciarsi da politiche in buona sostanza stataliste ed assistenzialiste che hanno frenato lo sviluppo dell'Italia. Di concerto c'è da sottolineare che il fenomeno della corruzione non solo non è stato veramente intaccato ma ha incancrenito i gangli vitali del paese. Con buona pace del nostro amor patrio si è verificato che il nostro paese ha continuato a viaggiare a traino di ciò che accadeva fuori dai nostri confini non potendo inoltre mai incidere significativamente, nelle vesti dei nostri rappresentanti, sulle decisioni importanti che sono state prese in questa delicata fase storica. Se nel progetto dei padri fondatori dell'Europa vi era la buona intenzione di procedere ad una condivisione delle risorse strategiche, ad una difesa comune, ad una comune Costituzione, a medesime Leggi, ad un'unica fiscalità, in sostanza a pari opportunità e pari dignità fra tutte le nazioni e genti europee, se ciò non è avvenuto, una grande responsabilità è ascrivibile alla

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politica italiana (ricordiamo tra l'altro che l'Italia è una delle nazioni fondatrici del progetto europeo) per non aver saputo incidere nei fatti a quel fenomeno di "deriva europea" che ci ha consegnato nel presente un'Europa iniqua, distante dal progetto iniziale ed in mano a burocrati ed Istituzioni non veramente riconosciute come proprie dai cittadini. Possiamo tranquillamente immaginare infatti che tanto più l'Italia sul piano politico si fosse mossa attivamente nella stesura dei Trattati europei nell'interesse dei popoli, tanto più saremmo stati messi al riparo, come cittadini, dai guasti che la crisi economica del 2008 ha recato. Tutto questo ha inoltre portato ad un ennesimo cambiamento di fondo della politica nazionale; sebbene a tutt'oggi alcune testate giornalistiche parlino ancora di "Seconda Repubblica", alla riprova dei fatti con la caduta dell'ultimo Governo Berlusconi del 2011 cessa anche questa fase della nostra storia repubblicana. In concreto il bipolarismo si è interrotto allora e si è passato ad una serie di Governi apparentemente necessari, dovuti alle contingenze di ciò che accadeva in Europa e nel mondo. In concreto da allora tutte le politiche nazionali sono fortemente influenzate dalle politiche di Bruxelles. Ma non è stato un processo spontaneo: a ben vedere il vuoto di offerta politica che si è manifestato da un certo momento in poi ha permesso a chi occupava la più alta carica dello Stato di incidere profondamente sulla storia del nostro paese; possiamo tranquillamente ritenere, non a torto e senza immaginarci come dei reazionari, che tutti gli ultimi Premier siano l'emanazione diretta di quello che auspicava il Quirinale, cosa resasi possibile dall'espletamento della sua funzione di nomina del Presidente del Consiglio: i Governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni lo sono stati e con buona pace di quello che accadrà nel prossimo voto di marzo, anche il prossimo Governo probabilmente avrà questa impronta. E tutti tali Governi subiscono pesantemente le indicazioni delle Istituzioni europee di cui il nostro Capo dello Stato per scelta arbitraria si è fatto Garante. Si è giunti quindi dopo il bipolarismo a questa nuova fase (che esiste già da oltre 6 anni) che potremmo definire come quella del "Quirinalismo" o della "Terza Repubblica", fase che si è di fatto consegnata alla nostra storia repubblicana con la recente stesura ed approvazione della nuova legge elettorale Rosatellum Bis che ne fa da corredo (nota: spesso si tenta di dare poca importanza alla legge elettorale ma come abbiamo visto è proprio attraverso tale legge che la nostra Repubblica si esplica in un particolare modus). In buona sostanza il Quirinalismo è quanto di più si può avvicinare ad un europeismo di maniera, che volge l'orecchio prima a ciò che viene richiesto fuori dai nostri confini e poi si rivolge ai cittadini imponendo le decisioni finali attraverso un esecutivo ed una classe politica accondiscendente, e nascondendosi dietro la leva del senso di responsabilità che sia la classe politica che i cittadini devono fare propri. Se dal ruolo di Garante delle Istituzioni il potere del Capo dello Stato travalica in altri ambiti ecco che diventa davvero difficile comprendere di chi o di cosa si fa garante il Presidente della Repubblica. Da qui pure nasce l'argomentazione secondo la quale il nostro paese sia in mano ai cosiddetti "poteri forti": se il programma politico e di governo di un qualunque partito è soffocato da ciò che si decide soltanto nel dopo-voto ecco che si


PUNTO DI VISTA

innesca un meccanismo di sudditanza da parte della politica nei confronti di altro, ad un qualcosa che sfugge al controllo del popolo e che può vedere proprio nel Capo dello Stato il garanteresponsabile del perpetuarsi di voleri che non sono specificatamente quelli dei cittadini. Non voglio entrare nel merito delle decisioni adottate dagli ultimi Governi e quindi dal Capo dello Stato ma mi appare doveroso sottolineare che una democrazia compiuta non può sottrarsi a quella che è la voce del popolo, a ciò che si ritiene essere l'indicazione schietta del cittadino quando va a votare. Anche in questa campagna elettorale, come nelle ultime, assistiamo alla proposta da parte delle principali forze politiche di chi si vuole designare come Premier, ma come negli ultimi anni ciò che appare più verosimile e che si giungerà ad un Premier voluto dal Capo dello Stato, "unico" capace di trovare convergenze fra forze politiche avversarie e facendo leva sul senso di responsabilità nazionale a cui prima facevamo accenno. Tutto ciò nasconde una grande ipocrisia di fondo perché l'elemento assente in tutta questa dinamica è proprio la volontà del popolo che attraverso il proprio voto non decide ma agevola soltanto decisioni prese in altri luoghi. Come uscirne? Per rispondere a questa domanda è opportuno fare un passo indietro. Prima la caduta delle ideologie e poi la perdita diffusa di consenso dei grandi partiti di massa ha introdotto un elemento nuovo sullo scenario politico: il leaderismo. Il leader 2.0 è colui che riesce a calamitare su di sé l'attenzione delle masse, quindi a spostare fette di consenso popolare più sulla propria figura che sul tipo di azione politica che si vuole intraprendere. In conseguenza di ciò più l'azione politica dei partiti è evanescente tanto più la figura del leader è funzionale e necessaria. Il leader "serve" a nascondere questo deficit, nonché a rendere possibile l'adozione di misure decise in altri luoghi e che sfuggono all'attenzione della masse. In altri termini il leaderismo è complementare al quirinalismo: senza la figura di leader carismatici di facciata non sarebbe neanche possibile concentrare il potere in altri luoghi, o meglio adottare decisioni che sfuggono alla volontà popolare. Oggi in Italia ed in Europa sostanzialmente si parla di contrapposizione fra forze europeiste e forze anti-sistema, in realtà ci stiamo incardinando ad un modello di democrazia antidemocratico in cui le stesse forze che si definiscono antisistema sono funzionali al mantenimento del sistema attuale in quanto incapaci di proporre un modello alternativo (le recenti sconfitte delle forze antisistema in diversi paesi europei ha come significato principale proprio questo). Accertato tutto ciò si può anche giungere ad una risposta alla nostra domanda. Se l'elezione del nostro Presidente avvenisse con suffragio diretto ecco che quest'ultimo dovrebbe giustificare meglio certe scelte. Tanto più se questo avvenisse all'interno di un piano di Riforma di stampo Presidenziale (ad esempio sulla falsariga del modello francese) in cui i poteri del Capo dello Stato sono maggiori ma dove c'è pure un maggior controllo delle Istituzioni da parte dei cittadini. Tutto ciò sarebbe inoltre necessario proprio per tracciare un orientamento diverso all'attuale Europa. Al Consiglio Europeo credo che tutti preferirebbero vedere un

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Presidente eletto direttamente dai cittadini anziché Gentiloni (senza nulla togliere al politico Gentiloni). Almeno fintanto che l'Europa voglia continuare ancora ad esistere come confederazione di stati e non come un'unica nazione federale europea così come ipotizzata dei padri fondatori e gradita dalla maggioranza degli stessi cittadini europei. E' infatti l'Europa nazione la risposta che va ricercata. Ma tutto ciò potrà avvenire, è indubbio, quando il primato della politica ritroverà una sua nuova dimensione e si sia stabilita una nuova architettura per il nostro stato. Una "Quarta Repubblica" potrà prendere le mosse solo quando i partiti politici avranno ritrovato il proprio spazio in mezzo alla gente. Quando i cittadini potranno appunto scegliere direttamente chi avrà maggiori responsabilità in seno alle Istituzioni e quando la più alta carica dello stato non potrà sottrarsi ad un'interlocuzione diretta col popolo per le scelte adottate. In conclusione voglio traslare tutto questo in quello che è il nostro orientamento politico. Qui a destra qualcosa che viene spesso richiesto negli ultimi tempi, che si è già manifestato a tratti con urgenza, è quello che venga creata una nuova "piattaforma" di destra. In effetti stanno già avvenendo tentativi di federare attraverso vecchi personaggi del nostro mondo realtà eterogenee ma il solo scopo, detta con franchezza, sembra quello di strappare consenso a buon mercato col solo fine di ottenere posti in Parlamento. Tra l'altro questi tentativi si muovono attorno a realtà politiche, forse attigue, ma di certo diverse culturalmente dalla nostra. Se sopravviveremo al leaderismo ed al quirinalismo ci sarà quindi bisogno di una rifondazione della destra e sarebbe auspicabile che si ricominciasse con metodo. Per quanto detto, la base concettuale dalla quale partire sarebbe (per ciò che concerne il nostro paese) di farsi portavoce di una proposta politica attraverso la quale si possa giungere ad una riforma di stampo Presidenziale, e per ciò che riguarda i nostri rapporti con l'Europa spingere per un europeismo meno di maniera e più di sostanza: in soldoni farsi portabandiera di un nuovo progetto federale europeo attraverso il quale si possa giungere in tempi certi, dopo un'interlocuzione pressante con i partner europei, ad un'unica grande nazione europea. Su questi due pilastri incorporare poi una base programmatica che tenga conto dei bisogni dei cittadini e che venga sviscerata solo dopo aver sentito e fatte proprie le competenze del nostro mondo (e non solo). Tutto in sintonia poi con i nostri principi che vedono nei valori cristiani e nell'humanitas dei caratteri distintivi, così come quelli che riguardano il rispetto della legalità e quelli molto sottovalutati oggi della meritocrazia. "Uscirne si può", ma si dovrà trovare gente disposta a lavorare seriamente su quello che sarebbe comunque un progetto di medio termine e che potrebbe non venire immediatamente compreso all'inizio. Ma ne varrà la pena se tutto sarà mosso dall'amore per la nostra patria e per garantire un futuro diverso alle prossime generazioni. Alfredo Lancellotti


CULTURA

IL PIAVE MORMORAVA Parte seconda: "Le radiose giornate di maggio” Gli storici si sono accapigliati a lungo, e continuano a farlo, sulle responsabilità della guerra. "E' responsabile chi ha sparato il primo colpo" resta sempre l'ipotesi più logica, ancorché da molti rifiutata: la complessità delle vicende prebelliche non consente analisi semplicistiche. Alle teorie di chi punta il dito contro Austria e Germania, per non aver saputo gestire la crisi successiva all'assassinio dell'Arciduca Francesco Ferdinando, fanno da contraltare le tesi di coloro che imputano a Francia e Russia la colpa maggiore, avendo trasformato la già solida alleanza da difensiva in offensiva. Il dibattito continuerà a lungo e forse non si giungerà mai a una soluzione armonicamente condivisa fin quando non si sposterà l'attenzione dai "fatti" alle "persone", coinvolgendo anche quelle che, nelle pagine di storia, occupano solo pochi righi. E' solo dipanando l'intricata matassa composta da europei che si odiano vicendevolmente, da inetti in posti di comando, da narcisi psicopatici e da un caravanserraglio umano aduso a pensare oggi il contrario di ciò che pensava ieri e penserà domani, infatti, che si può trovare un barlume di verità e magari acquisire consapevolezza, caso mai ve ne fosse ancora bisogno, della "banalità del male". Il nazionalismo esacerbato, presente in tutte le nazioni, è il principale responsabile della guerra: questo va detto con chiarezza e senza fronzoli dialettici. Il nazionalismo è il male. Ciò premesso, come già scritto nella prima parte, dobbiamo fare i conti con uno scenario umano poco edificante, in grado però di determinare le sorti d'interi popoli. Studiare la personalità di siffatti soggetti, il modo di pensare e di vivere, risulta di fondamentale importanza per inquadrare gli eventi in un contesto che rifugga dalle errate interpretazioni e consenta di confutare adeguatamente quelle strumentali e volutamente menzognere. L'inconsistenza dello Zar di Russia è acclarata e da tutti condivisa, ma l'accusa di aver innescato "l'escalation", precedendo Austria e Germania nella mobilitazione totale dell'esercito, non regge. La Russia non era in grado di effettuare una mobilitazione parziale e ciò fu chiaramente spiegato dal ministro degli esteri Sazonov all'ambasciatore tedesco Pourtalès, che ricevette anche ampie assicurazioni circa la volontà di Nicola II e delle alte sfere militari di continuare con i negoziati affinché si evitasse la guerra. La mobilitazione del 29 luglio, pertanto, non aveva alcun peso effettivo, essendo una diretta conseguenza dell'attacco austriaco alla Serbia, perpetrato il giorno precedente.

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Caso mai era Sazanov che si preoccupava della mobilitazione tedesca, sempre propedeutica a una guerra. E' importante scandire bene la dinamica dei fatti, perché, in quelle ore convulse, non furono poche le persone che giocarono sporco. Il cancelliere tedesco Bethmann, la sera del 29 luglio fu raggiunto da due notizie sconfortanti: la mobilitazione dell'esercito russo e l'impegno della Gran Bretagna a entrare in guerra a sostegno della Francia. Guglielmo II "non" desiderava l'estensione del conflitto e il suo cancelliere, pertanto, inviò un telegramma all'ambasciatore tedesco in Austria: "Noi siamo pronti ad adempiere ai nostri obblighi di alleanza, ma dobbiamo rifiutare di lasciarci trascinare da Vienna, con leggerezza e senza che i nostri consigli siano ascoltati, in una conflagrazione generale". Se le parole hanno un senso, il testo non lascia adito a equivoci circa la volontà di produrre ogni sforzo per evitare la guerra. Il 30 luglio, però, il capo di stato maggiore, Von Moltke, dialogando con l'imperatore, ne colse il disappunto per la mobilitazione ordinata dal cugino Nicola II. Si trattava di un semplice sfogo, espresso in un conciliabolo non ufficiale con una persona di assoluta fiducia. Von Moltke, non certo in buona fede, ne approfittò per imputare a Guglielmo II il cambio di strategia che invece aveva lui in testa; senza nemmeno preavvertirlo, infatti, inviò un telegramma a Franz Conrad von Hötzendorf, suo omologo austriaco, con "esortazioni" diametralmente opposte agli "ordini" impartiti da Bethmann: "Tener fermo contro la mobilitazione russa. L'Austria-Ungheria deve essere preservata. Quindi mobilitare subito contro la Russia. La Germania mobiliterà. Costringere con compensi l'Italia al suo dovere di alleata"1. Il telegramma, manco a dirlo, fece saltare dalla sedia il ministro degli esteri austriaco, Leopold Berchtold von und zu Ungarish, l'uomo forte della corte asburgica e guerrafondaio impenitente. Ebbro di gioia e pienamente convinto che in Germania fosse Von Moltke a comandare, anche perché gli faceva comodo credere questo, tranquillizzò i colleghi ministri sugli imminenti sviluppi e sottopose all'imperatore l'ordine di mobilitazione, che fu firmato il 31 luglio. Se proprio vogliamo individuare dei colpevoli, pertanto, dobbiamo citare Von Moltke e Leopold Berchtold, acclarando le tesi di coloro che sostengono la responsabilità oggettiva austro-tedesca. Tutto ciò, comunque, non assolve certo gli altri protagonisti, in quanto, lasciandosi dominare dagli eventi, dimostrarono di non essere all'altezza del ruolo esercitato. I FERMENTI IN ITALIA L'Italia era una giovane monarchia che cercava di trovare un ruolo, non senza fatica, nello scacchiere europeo, dove appariva come il classico vaso di coccio tra i vasi di ferro. Sul fronte interno si acuiva il divario tra Nord e Sud e prendeva corpo la famigerata "questione meridionale" che, decennio dopo decennio, non avrebbe mai fatto intravedere una possibile soluzione. Il colonialismo, che la società contemporanea giustamente considera una pratica oscena, in quegli anni era percepito ancora come un fatto assolutamente normale, alla pari dello sfruttamento di altri esseri umani. (Con questo non si vuol dire che oggi certe cose non accadano, ma semplicemente che fino a buona parte del XX secolo non erano considerate dei crimini contro l'umanità, se non da una sparuta minoranza della società, particolarmente evoluta).


CULTURA

La Francia, che già possedeva Algeria e altri territori africani, nel 1881 occupò la Tunisia, paese che ospitava molti emigranti italiani, soprattutto siciliani. La Germania possedeva vasti territori in Africa Occidentale, Africa Orientale e nel Sud-Ovest (l'attuale Namibia); altri possedimenti erano raggruppati nella cosiddetta Nuova Guinea Tedesca. L'impero inglese si dipanava nei cinque continenti con una superficie complessiva di oltre 37milioni di km2 e circa 500milioni di sudditi. La povera Italia poteva vantare la sola Eritrea, conquistata un po' commercialmente e un po' militarmente tra il 1882 e il 1890. I protagonisti della vita politica erano Agostino De Pretis e Benedetto Cairoli, che si alternarono alla guida del governo dal 1876 al 1887. Entrambi esponenti della Sinistra storica, inglobavano tutti i tratti caratteriali e comportamentali tipici "dell'italianità al potere": cerchiobottismo, mancanza di lungimiranza, titubanza, massima attenzione al "particulare" di guicciardiniana memoria e una buona dose di altre distonie, facilmente intuibili, perché ampiamente reiterate e "affinate" dai loro successori. De Pretis fu l'artefice del "trasformismo", un progetto proteso a superare la dicotomia destrasinistra grazie all'appoggio assicurato al governo dai singoli deputati di tutti i partiti. Le conseguenze furono il caos parlamentare, l'aumento delle spese statali, l'abiura di ogni presupposto "ideale" e lo sviluppo delle clientele che favorirono le industrie del Nord a discapito di quelle del Sud. Benedetto Croce ne individuò correttamente la fonte nella crisi della Destra storica e nel ceto parlamentare composto precipuamente dall'alta borghesia e dalla nobiltà, senza però comprenderne le conseguenze nefaste, dal momento che conferì al "pragmatismo", che del trasformismo fu la logica conseguenza, una luce positiva drammaticamente smentita dai fatti. Benedetto Cairoli era animato da ferventi sentimenti antiaustriaci e filo irredentisti. Giovanissimo, nel 1848, partecipò all'insurrezione di Milano e nel 1860 prese parte alla spedizione dei Mille, saldando il sodalizio garibaldino già avviato l'anno precedente, nel corso della Seconda Guerra d'Indipendenza. Il suo patriottismo fu alimentato anche dalle tristi vicende familiari: quattro fratelli, tutti garibaldini, persero la vita tra il 1859 e il 18672. Non gli si può disconoscere un sano idealismo negli anni giovanili e prima della vita parlamentare, fonte delle solite delusioni allorquando dovette fare i conti con il cinismo del potere: l'iniziale entusiasmo per Carlo Alberto subì un duro colpo per il modo sconclusionato con il quale le truppe sabaude sostennero la rivolta milanese del 1848, per la mancata vittoria nonostante le forze 3 predominanti e per il ritorno degli austriaci a Milano dopo l'armistizio di Salasco . La delusione lo spinse verso il mazzinianesimo, che abbracciò con rinnovato vigore e dedizione, salvo poi 4 staccarsene quando lo giudicò "un sistema omeopatico d'insurrezione" . Trovò maggiore appagamento nelle idee di Daniele Manin e nelle azioni di Giuseppe Garibaldi, che nel 1864 lo nominò Presidente del Comitato Centrale Unitario, fondato con lo scopo di raccogliere fondi e volontari per il completamento dell'unità5. La naturale ritrosia nei confronti dell'Austria lo portò a simpatizzare per la Francia e tale sentimento perdurò anche dopo la batosta subita dai francesi a Sedan, nonostante il mutato assetto europeo avrebbe dovuto far

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prevalere la mente sul cuore e indurlo a non perpetuare una politica estera che, inevitabilmente, si trasformò nell'ennesima delusione a causa dell'occupazione francese della Tunisia. Molti storici lo hanno giustificato attribuendo alla vocazione antimilitarista la rinuncia a ogni velleità colonialista. Sia lui sia Depretis, in realtà, tergiversavano sperando che fossero altri a togliere le castagne dal fuoco, secondo una consolidata propensione della politica italiana. Nella fattispecie ritenevano che la Gran Bretagna non avrebbe consentito all'antica rivale di espandersi in modo massiccio nel Mediterraneo, senza considerare, invece, che agli inglesi interessava solo impedire il controllo del canale di Sicilia a una singola potenza. Del Cairoli, però, è corretto porne in risalto i limiti di statista, senza intaccarne la buona fede, come invece fece Carlo Dossi, che oltre a definirlo "incompetente" lo accusò di "disonestà". Se è lecito ritenere, infatti, che una volta conquistate alte posizioni di potere anche lui abbia badato un po' ai fatti suoi, di certo non può essere giudicato alla stregua di molti suoi predecessori e successori. Dossi, vulcanico esponente della "scapigliatura", era aduso a giudicare frettolosamente e a fidarsi del suo intuito senza approfondire o verificare ciò di cui era venuto a conoscenza. A prescindere da ogni considerazione "etica", la mancata espansione coloniale accrebbe i già gravi problemi che attanagliavano il Paese, con la stragrande maggioranza della popolazione che moriva di fame, in particolare i contadini e gli operai, sfruttati in modo criminale dai latifondisti e 6 dagli industriali . "Lo schiaffo di Tunisi" segnò la fine politica di Cairoli, cui successe di nuovo De Pretis, con i sei anni di "agonia governativa", caratterizzati dal primo trattato della Triplice alleanza, sottoscritto nel 1882 e successivamente ratificato e perfezionato quattro volte, nel 1887, nel 189, nel 1902 e nel 1912. L'alleanza con l'Austria determinò il forte risentimento delle classi sociali che aspiravano all'unità italiana e dei sudditi italiani sotto il giogo asburgico. Nel settembre del 1882, in occasione di una visita a Trieste di Francesco Giuseppe, il 24enne Guglielmo Oberdan progettò di assassinare l'imperatore: tradito da una spia fu arrestato e condannato a morte. In sintesi si può dire che, dopo l'unità d'Italia, ai disastri della Destra storica, con le massicce vessazioni, la feroce repressione e le famigerate tasse, fecero seguito i disastri della Sinistra storica, dovuti tanto alla scarsa qualità di chi la incarnava quanto alla malsana gestione degli affari pubblici. Siccome al peggio non vi è mai fine, dopo la morte di De Pretis apparvero sulla scena politica due nuovi personaggi: Francesco Crispi e Giovanni Giolitti, anche loro espressione della Sinistra storica. Crispi fu il primo personaggio della politica italiana per il quale può valere un'espressione molto in uso ai giorni nostri: "A sua insaputa". La prima elezione al parlamento, infatti, avvenne nel collegio di Castelvetrano, grazie alla provvidenziale candidatura presentata da un ricco proprietario terriero, che aveva previsto vita dura nel collegio di Palermo, dove era candidato "ufficialmente" e dove, di fatto, fu sconfitto. Contrariamente a Cairoli detestava i francesi e strinse solidi legami con la Germania. Autoritario e decisionista, concentrò nelle sue mani tutti i poteri, reprimendo con la forza le proteste che montavano in ogni angolo del paese per le conseguenze del "protezionismo doganale" che, bloccando le importazioni, determinò l'aumento dei prodotti, a cominciare da quelli di prima


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necessità. La vocazione all'espansione coloniale costò caro all'Italia, con la disfatta di Adua, nel 1896, e segnò anche la fine della sua carriera politica7. Giolitti era molto diverso da Crispi nei modi, ma sostanzialmente gli assomigliava nella volontà di dominio. Provò senz'altro a conciliare gli interessi della borghesia con quelli delle classi meno agiate, attuando una politica più tollerante nei confronti di chi manifestava con lo sciopero il proprio disagio sociale, senza rinunciare, però, a mantenere saldo il potere personale, ricorrendo a ogni mezzo, ivi compresi i rapporti con la peggiore feccia della società. Non a caso Salvemini lo definì "il ministro della malavita". Del patto Gentiloni abbiamo parlato nella prima parte e qui basti ricordare il coinvolgimento nello scandalo della Banca Romana e l'espansione coloniale in Libia, della quale fu il principale artefice, rimandando per gli approfondimenti alla 8 corposa pubblicistica a lui dedicata . Nonostante gli auspici di "Von Moltke", tuttavia, l'Italia non si lasciò coinvolgere dallo scoppio della guerra, dal momento che il trattato sottoscritto era di carattere difensivo e le lasciava campo libero in caso di guerra offensiva. La proclamata neutralità fu ben accolta dalla maggioranza della popolazione che, se per indole era contraria alla guerra, proprio non sopportava di farla avendo l'Austria come alleata. Non era facile, però, mantenersi neutrali, sia per i rapporti commerciali con molte nazioni belligeranti sia per i futuri assetti, che avrebbero comunque penalizzato un'Italia assente dallo scenario bellico, quali che fossero stati i vincitori. I corteggiamenti provenivano da entrambe le parti ma, soprattutto all'inizio delle ostilità, era opinione diffusa che la guerra sarebbe stata breve e avrebbe visto prevalere Austria e Germania. Guglielmo II, nel salutare i soldati che si avviavano a invadere il Belgio, disse loro che sarebbero ritornati prima "del cader delle foglie". Il secondo semestre del 1914 fu caratterizzato dalle complesse trattative, su tutti i fronti, per ottenere risultati concreti in termini di concessioni territoriali. L'obiettivo era quello di raggiungere l'unità d'Italia e pertanto non furono prese in considerazione le proposte della Russia, che voleva l'entrata in guerra dell'Italia in modo da indebolire l'esercito austriaco con l'apertura di un nuovo fronte. Sazanov promise Tirolo, Trieste e Valona: una proposta irricevibile perché lasciava ancora sotto il dominio austriaco una fetta consistente di territorio italiano, precludendo il dominio dell'Adriatico, cui l'Italia mirava senza indugio. Vi è da considerare, poi, che Salandra era preoccupato anche per la consistenza dell'esercito, non ancora pronto a sostenere una guerra di quella portata e reduce dal duro impegno in Libia. Di fatto occorreva soprattutto guadagnare tempo e pertanto Salandra iniziò una complessa trattativa con l'Austria, connessa al mantenimento della neutralità in cambio della restituzione dei territori assoggettati, una correzione dei confini sull'Isonzo e mano libera in Albania. Se l'Austria avesse accettato, si sarebbe evitata la guerra e l'Italia avrebbe ottenuto una schiacciante vittoria senza spargimento di sangue. L'Austria acconsentì a tutte le richieste, eccezion fatta per Bolzano e Trieste, impantanando in tal modo la trattativa, proprio come desiderava Salandra, che guardava con crescente attenzione alle forze dell'Intesa. I presupposti della triplice alleanza, a ben guardare, erano saltati tutti. Francia e Inghilterra

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avevano dato il via libera alla conquista della Libia: perché entrare in contrasto con due potenze bene armate, senza alcun motivo effettivo, partendo pure da una posizione di grande debolezza? La guerra, tra l'altro, contrariamente alle aspettative, andava assumendo ben altre caratterizzazioni grazie al fallimento dello sfondamento tedesco in Francia: non solo appariva sempre più chiaro che sarebbe durata a lungo, ma prendeva corpo anche una possibile sconfitta di Austria e Germania. Sulla Marna si era infranto il sogno tedesco della vittoria in sei settimane. L'opinione pubblica, intanto, incominciò a dividersi e, dall'autunno del 1914, si delineò chiaramente lo scontro tra "neutralisti" e "interventisti". Tra i primi figuravano i socialisti, ivi compreso Benito Mussolini che dirigeva l'Avanti (sul quale scrisse un editoriale intitolandolo: "Abbasso la guerra"), i cattolici e la corrente liberale che faceva capo a Giolitti. Tra gli interventisti figuravano sia i nazionalisti, che vedevano nella guerra lo strumento principale per fermare il socialismo, sia i repubblicani, che vedevano nella sconfitta dell'impero austro-ungarico il presupposto per la creazione di un'Europa composta da stati sovrani. I socialisti riformisti di Bissolati, inizialmente cauti, sposarono la causa interventista, alla quale aderì poi anche Benito Mussolini, dopo l'espulsione dal PSI. Sul fronte della società civile fecero sentire la loro voce il direttore del "Corriere della Sera" Luigi Albertini, Gabriele D'Annunzio, i futuristi, i sindacalisti rivoluzionari. Abile a giocare su due tavoli, Salandra, in tutta segretezza, grazie anche all'abilità diplomatica di Sidney Sonnino, il 26 aprile 1915 sottoscrisse il famoso "Patto di Londra" con Francia, Inghilterra e Russia. L'Italia s'impegnava a entrare in guerra entro un mese e in caso di vittoria avrebbe avuto la restituzione di tutti i territori sotto il dominio austriaco, gli altopiani carsico-isontini; l'Istria, 9 esclusa Fiume ; le isole di Cherso, Lussino e altre minori; un terzo della Dalmazia con Zara, Sebenico e la stupenda Traù con le isole a nord e a ovest del litorale; la neutralizzazione del resto della Dalmazia in modo da garantire l'egemonia italiana sull'Adriatico; Valona e Saseno in Albania; il bacino carbonifero di Adalia in Turchia; la conferma della sovranità su Libia e Dodecaneso. In caso di spartizione delle colonie tedesche in Africa, l'Italia avrebbe avuto compensi territoriali in Libia, Eritrea e Somalia. Lo scontro tra interventisti e neutralisti, intanto, all'oscuro del trattato, diventava sempre più acceso. Il cinque maggio a Quarto vi fu il famoso discorso di Gabriele D'Annunzio, che infiammò il pubblico. In tutto il paese, l'ago della bilancia si spostava velocemente verso la guerra al fianco della "Triplice intesa" e Giolitti, che nonostante non fosse al governo poteva contare ancora su un cospicuo manipolo di fedelissimi parlamentari, si giocò l'ultima carta per cercare di convincere il Re a non dichiarare la guerra. Mussolini, Prezzolini, D'Annunzio, Ardegno Soffici, iniziarono a sparare ad alzo zero contro il combattivo vegliardo, tributandogli epiteti terribili: "Canaglia di Dronero"; "Mestatore per il quale la lapidazione, l'arsione, subito deliberate e attuate, sarebbe assai lieve castigo"; "Ignobile, losco, vomitativo". Il 12 maggio, tuttavia, Salandra rassegnò le dimissioni, preoccupato di una possibile sfiducia parlamentare che avrebbe compromesso la Corona. In tutta Italia si levò la protesta degli interventisti e s'intensificarono gli scontri, a tratti violentissimi.


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D'Annunzio ebbe un ruolo fondamentale e non risparmiò energie nell'arringare la folla, invitandola a far giustizia sommaria di "quel vecchio boia labbrone le cui calcagna di fuggiasco sanno la via di Berlino, che tenta di strangolare la Patria con un capestro prussiano". La situazione era davvero confusa, con un parlamento esautorato di ogni potere che non rifletteva gli umori della piazza, sempre più in mano agli interventisti. D'Annunzio arringava la folla a Roma; Mussolini e Corridoni controllavano Milano, ma tutta l'Italia era in fermento. Il Re si rese conto che la crisi andava risolta e in fretta. Giolitti, seppur controvoglia, abbandonò la partita, restando fuori gioco fino al termine della guerra. D'Annunzio continuava imperterrito a mantenere alta la tensione e al Re non restò che respingere le dimissioni di Salandra, ratificando, di fatto, l'intervento. Il 20 maggio Salandra chiese pieni poteri al Parlamento, ottenendoli con una maggioranza schiacciante. Solo Filippo Turati, tra gli oppositori, ebbe il coraggio di prendere la parola per manifestare il suo dissenso. Il 23 maggio 1915, il Duca Giuseppe Avarna, ambasciatore d'Italia a Vienna, si recò dal Ministro degli Esteri austroungarico e gli consegnò il messaggio a nome del Re, con cuore cupo, essendo intimamente contrario all'entrata in guerra. "Secondo le istruzioni ricevute da S.M. il re suo augusto sovrano, il sottoscritto ha l'onore di partecipare a S.E. il Ministro degli Esteri d'Austria-Ungheria la seguente dichiarazione: già il 4 del mese di maggio vennero comunicati al Governo Imperiale e Reale i motivi per i quali l'Italia, fiduciose del suo buon diritto, ha considerato decaduto il trattato d'Alleanza con l'AustriaUngheria, che fu violato dal Governo Imperiale e Reale, lo ha dichiarato per l'avvenire nullo e senza effetto ed ha ripreso la sua libertà d'azione. Il Governo del Re, fermamente deciso di assicurare con tutti i mezzi a sua disposizione la difesa dei diritti e degli interessi italiani, non trascurerà il suo dovere di prendere contro qualunque minaccia presente e futura quelle misure che vengano imposte dagli avvenimenti per realizzare le aspirazioni nazionali. S.M. il Re dichiara che l'Italia si considera in istato di guerra con l'Austria-Ungheria da domani. Il sottoscritto ha l'onore di comunicare nello stesso tempo a S.E. il Ministro degli Esteri AustroUngarico che i passaporti saranno oggi consegnati all'Ambasciatore Imperiale e Reale a Roma. Sarà grato se vorrà provvedere a fargli consegnare i suoi". Il giorno dopo, Vittorio Emanuele si rivolge alle truppe combattenti: "Soldati di terra e di mare! L'ora solenne delle rivendicazioni nazionali è suonata. Seguendo l'esempio del mio Grande Avo, assumo oggi il comando supremo delle forze di terra e di mare, con sicura fede nella vittoria, che il vostro valore, la vostra abnegazione, la vostra disciplina sapranno conseguire. Il nemico che vi accingete a combattere è agguerrito e degno di voi. Favorito dal terreno e dai sapienti apprestamenti dell'arte, egli vi opporrà tenace resistenza; ma il vostro indomito slancio saprà di certo superarla. Soldati ! A voi la gloria di piantare il tricolore d'Italia sui termini sacri che la natura pose ai confini della Patria nostra. A voi la gloria di compiere, finalmente, l'opera con tanto eroismo iniziata dai nostri padri. Dal Gran Quartiere Generale, 24 maggio 1915. VITTORIO EMANUELE

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Dalle colonne del Popolo d'Italia, anche Benito Mussolini lanciò il suo grido di battaglia. L’Italia ha dichiarato guerra all’Austria-Ungheria.Lo stato di guerra comincia oggi - La mobilitazione generale avviene con entusiasmo. Popolo, il dado è tratto: Bisogna vincere! …e guerra sia. Lino Lavorgna (Continua nel prossimo numero). NOTE 1) I termini "esortazioni" e "ordini" sono importanti per comprendere lo spirito con il quale ci si muoveva a certi livelli. Bethmann è il cancelliere dell'impero e scrive al suo ambasciatore: è evidente, pertanto, che il testo del telegramma si configura come "un ordine", trasmesso, ovviamente, con il pieno assenso dell'imperatore. Nondimeno, leggendolo, appare evidente lo stile raffinato e scevro di qualsivoglia tono autoritario. E' pur sempre un ordine trasmesso da un superiore a un subalterno, ma molto più assimilabile a una "esortazione" a ragionare attentamente sugli eventi, per evitare errori decisionali. Von Moltke scrive a un pari grado di un paese alleato. Non può certo dargli "ordini", ma solo "esortarlo" a comportarsi in un modo anziché in un altro. Il testo del telegramma, invece, tradisce un tono diverso, autoritario: sembra quasi (ed è sicuramente così) che Von Moltke si senta autorizzato a stabilire e ordinare la linea di condotta che dovrà assumere l'Austria. Questa vicenda, mai presa in considerazione dagli storici, merita una pacata riflessione e opportuni approfondimenti anche in "funzione" di tragici eventi futuri, legati alla debolezza dei governanti, incapaci di tenere a freno "scalpitanti uomini forti". 2) Ernesto nel 1859 tra i Cacciatori delle Alpi; Luigi durante la spedizione dei Mille; Enrico e Giovanni a seguito degli scontri avvenuti a Villa Glori, nel 1867, tra le truppe garibaldine e quelle dell'esercito pontificio. 3) In realtà la colpa principale del mancato successo va imputata a Pio IX che, dopo aver inviato ben 16mila soldati, a fine aprile si rese conto che la guerra all'Austria gli alienava le simpatie dei cattolici conservatori in tutta Europa. Il richiamo delle truppe pontificie indusse ad analoga decisione anche il Granduca Leopoldo II di Toscana, che aveva inviato 6mila uomini, e Ferdinando II delle Due Sicilie, che ne aveva inviati ben 11mila, al comando di Guglielmo Pepe. Carlo Alberto forse avrebbe potuto vincere lo stesso, con le sue sole truppe, se si fosse mosso diversamente e soprattutto in fretta. Rimasto con pochi uomini, poche munizioni e poco denaro decise di capitolare, essendosi nel frattempo l'esercito austriaco ben riorganizzato con adeguati rinforzi, anche se restano molti dubbi sui reali motivi della capitolazione, mai sopiti. Nota di colore: in Italia sono molti coloro che si esaltano ascoltando la celebre e bellissima "Marcia di Radetzky", composta da Johann Strauss padre. Non vi è nulla di male, ovviamente, ma sarebbe il caso che tutti sapessero che essa fu dedicata proprio al Feldmaresciallo austriaco che riconquistò Milano, tra l'altro senza eccessiva fatica e soprattutto dopo aver seriamente temuto il peggio, famoso per la ferocia e per le modalità poco ortodosse con le quali trattava i civili, vessati da truppe esortate a utilizzare le maniere forti in ogni circostanza. 4) Michele Rosi, "I Cairoli", Editore Cappelli, Bologna, 1929 (Di difficile reperibilità in commercio). Vedere anche Azzurra Tafuro, "Madre e Patriota - Adelaide Bono Cairoli", Firenze University Press, 2011. 5) Azzurra Tafuro - opera citata. 6) Un significativo ritratto dell'Italia postunitaria, non manchevole però di eccessi e inesattezze, è offerto da Leone Carpi nell'opera "L'Italia vivente", edita da "Studi Sociali", Milano, 1878. 7) Impossibile tratteggiare in questo contesto le vicende connesse alla bigamia, ai rapporti con la mafia, alle trame con i baroni siciliani, alle promesse non mantenute (tra le quali la terra ai contadini) e difficile suggerire testi specifici scevri di "contaminazioni" partigiane, eccessi in un senso o nell'altro, palesi menzogne. Nella corposa pubblicistica si distingue il saggio di Francesco Bonini, "Francesco Crispi e l'unità. Da un progetto di governo un ambiguo mito politico", Bulzoni, Roma, 1997. 8) Di particolare rilievo i testi di Giampiero Carocci: "Giolitti e l'età giolittiana", Einaudi, Torino, 1961; "Il trasformismo dall'unità ad oggi", Unicopli, Milano, 1992. Di fondamentale importanza, ovviamente, il saggio di Gaetano Salvemini "Il ministro della mala vita: notizie e documenti sulle elezioni giolittiane nell'Italia meridionale", pubblicato nel 1910 e oggi disponibile nell'edizione curata da Sergio Bucci nel 2000 per la casa editrice Bollati Boringhieri, Torino. Di tono sfacciatamente apologetico, ma meritevole di essere letto, sia pure con le dovute cautele e solo dopo aver esaurientemente assimilato le complesse contraddizioni di un'epoca e degli uomini che l'hanno segnata, il testo di Giovanni Ansaldo, "Il ministro della buona vita. Giovanni Giolitti e i suoi tempi", Editore Le Lettere, 2002. 9) Fiume fu esclusa dal trattato in quanto avrebbe dovuto costituire l'unico porto di ciò che sarebbe rimasto dell'impero austroungarico, del quale nessune previde la totale dissoluzione.


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LA PERSECUZIONE EBRAICA E LE COLPE DELL’OCCIDENTE DEMOCRATICO La discriminazione razziale della Germania nazista rappresenta un'infamia che rimarrà per sempre impressa nella memoria dell'Umanità, anche se la persecuzione degli ebrei viene da molto prima di Hitler, da quando il cristianesimo si è imposto come ideologia durante il Medio Evo. E' da lì che è iniziato il dramma del popolo ebraico. Con l'accusa di aver voluto la morte di Gesù, la Chiesa cattolica ha emarginano gli ebrei obbligando a portare un segno distintivo di colore giallo sugli abiti e rinchiudendoli nei ghetti. Nella Spagna cristianizzata gli ebrei, sono stati prima costretti a convertirsi, e poi cacciati dalle loro terre dall'Inquisizione di Torquemada. Alla partenza della prima crociata, al grido di "Dio lo vuole", sono stati compiuti orrendi crimini ai loro danni (solo in Renania sono stati depredati e uccisi dai Crociati circa 50.000 ebrei). La Chiesa protestante ha rigettato tutto del cattolicesimo, ma non l'antiebraismo. Il suo principale ispiratore Martin Lutero, nel 1543 scrive un trattato dal titolo eloquente "Degli Ebrei e delle loro menzogne" in cui si scaglia con veemenza contro gli israeliti definendoli: "serpi velenose e piccoli demoni, ossia i peggiori nemici di Cristo Signore nostro", meritevoli di finire "nell'eterno fuoco dell'inferno!". Con l'avvento dell'Illuminismo anticlericale di fine settecento la situazione per gli ebrei non cambia. Voltaire, universalmente riconosciuto come il padre della democrazia (suo è il famoso assioma "detesto le tue idee, ma darei la vita affinché tu le possa esprimere"), oltre a considerare normale la schiavitù definendo i negri "per natura gli schiavi degli altri uomini" ("Saggio sui costumi e spirito delle nazioni"), nel suo "Dizionario Filosofico", scriveva queste parole di fuoco a proposito del popolo ebraico: "Non troverete in loro che un popolo ignorante e barbaro, che unisce da tempo la più sordida avarizia alla più detestabile superstizione e al più invincibile odio per tutti i popoli che li tollerano e li arricchiscono" Il clima di avversione verso il mondo ebraico, oramai radicato nella mentalità occidentale, costituisce il terreno fertile per lo sviluppo di politiche radicali. Giunto al potere, Hitler adotta fin da subito nei confronti degli ebrei una politica di restrizione dei diritti civili per spingerli a lasciare la Germania (Judeifrey), anche attraverso il sostegno all'emigrazione che però trovò forti resistenze da parte della comunità internazionale e sfociò nel fallimento della conferenza di Evian del 1938. Convocata da Roosevelt, i trentadue stati

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partecipanti avrebbero dovuto ognuno farsi carico di un numero di ebrei provenienti da Germania e Austria proporzionale alle loro dimensioni. L'unica nazione che si propose di accogliere rifugiati fu la Repubblica Dominicana che ne accettò circa 700 tutte le altre, con motivazioni più o meno plausibili, rifiutarono ogni forma di accoglienza. Per liberarsi della presenza ebraica favorendo l'emigrazione in Palestina, il governo tedesco stipulò con le organizzazioni ebraiche sioniste il cosiddetto "Accordo di Trasferimento" noto anche come Haavara, in virtù del quale gli ebrei emigranti depositavano il denaro ricavato dalla vendita dei loro beni in un conto speciale destinato all'acquisto di attrezzi per l'agricoltura prodotti in Germania ed esportati in Palestina dalla compagnia ebraica Haavara di Tel Aviv. A opporsi alla politica emigratoria del governo tedesco furono sempre, spesso in modo violento, le nazioni cosiddette democratiche. Roosevelt fece intervenire la marina da guerra per impedire l'approdo sulle coste statunitensi di un piroscafo carico di ebrei partiti da Amburgo e Churchill minacciò di silurare a Sulina, nel Mar Nero, un altro carico di ebrei in navigazione verso la Palestina dove gli inglesi fucilavano e impiccavano gli ebrei riottosi per scoraggiare gli sbarchi. Un altro episodio che testimonia il rifiuto dell'America ad accogliere gli ebrei riguarda la vicenda della nave St. Louis. Partita da Amburgo il 13 maggio 1939 con 937 profughi ebrei, la nave era diretta a Cuba dove i migranti erano convinti di ottenere il visto per gli Stati Uniti. Sia Cuba, sia gli Stati Uniti rifiuteranno però il permesso d'accesso ai rifugiati, obbligando così la nave a tornare in Europa. Nel febbraio del 1942 lo "Struma", una nave di profughi ebrei proveniente dalla Romania, si vide rifiutare dagli inglesi il permesso di sbarcare in Palestina e, respinta anche dai turchi, affondò nel Mar Nero silurata da un sottomarino sovietico: 770 persone annegarono. Poco nota è anche la vicenda della famiglia di Anna Frank che cercò inutilmente rifugio negli Stati Uniti. Fra il 30 aprile e l'11 dicembre 1941 Otto Frank, il padre di Anna, scrisse ripetutamente a parenti, amici e alti funzionari americani spiegando che era pronto a "ogni sacrificio" pur di riuscire a superare l'oceano Atlantico, ma in ogni occasione la risposta fu negativa. Durante la guerra gli alleati sapevano fin dagli inizi del 1942 dell'esistenza dei campi di concentramento eppure, nonostante i massicci bombardamenti che ridussero in macerie la Germania, le linee ferroviarie utilizzate dai tedeschi per trasferire gli ebrei nei campi di lavoro, tra cui il tristemente noto binario 21, non furono mai attaccate, se non come effetto collaterale come avvenne il 24 agosto del 1944 con il bombardamento della fabbrica di armamenti di Mittelbau-Dora che coinvolse il vicino campo di Buchenwald dove morì, per effetto delle bombe alleate, Mafalda di Savoia. Gli alleati sapevano tutto. Tra l'inizio di aprile del 1944 e il 27 gennaio del 1945 il campo di concentramento di Auschwitz fu fotografato dai ricognitori alleati non meno di 30 volte. Eppure l'ordine di bombardare le vie ferroviarie e d'accesso ad Auschwitz e agli altri campi di concentramento, azione che avrebbe evitato la morte di moltissimi altri esseri umani, non fu mai dato. Evidentemente la salvezza degli ebrei non era nelle priorità degli alleati.


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Perfino la neutrale Svizzera, nell'agosto del 1942, decise di chiudere le frontiere agli ebrei in fuga. Ben sapendo che "sui profughi respinti gravava la minaccia della deportazione nell'Europa orientale e quindi della morte" (Commissione Bergier, parlamento Elvetico, 2002). Dopo la fine della guerra i "liberatori" decretarono la nascita dello stato di Israele, scaricando di fatto sui palestinesi il peso delle loro responsabilitĂ per non aver fatto nulla per evitare la persecuzione nazista del popolo ebraico e per aver rifiutato con la forza di accettare i profughi ebrei in fuga dalla Germania. Gianfredo Ruggiero presidente Circolo Culturale Excalibur

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DIBATTITO SU CONFINI

Confini

PAURA DELLE OMBRE: E’ STRUMENTALE O PSICOPATOLOGICA

Idee & oltre

VITTORIO MUSSOLINI: QUANDO Penetrare nel cuore del millennio IL COGNOME CONDIZIONA e presagirne gli assetti. LA VITA

Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

www.confini.org


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