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Web-magazine di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

Raccolta n. 59 Novembre 2017

AUTONOMIA

PRIMO PIANO: AUTONOMIA: METASTASI DEL REGIONALISMO DI LINO LAVORGNA (A PAG. 4)


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Confini Webmagazine di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Raccolta n. 59 - Novembre 2017 Anno XX

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti - Cristofaro Sola +

Hanno collaborato:

Gianni Falcone Roberta Forte Lino Lavorgna Giulio Meotti Pericle Antonio Provenzano Angelo Romano Massimo Sergenti

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Contatti: confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Nuovi poveri

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

AUTONOMIA E COESIONE SOCIALE C'é qualche contraddizione tra le accezioni del termine "autonomia" in politica, in diritto e nella teoria dei sistemi. Nella prima si intende la facoltà concessa da un organo superiore ad uno inferiore di avere funzioni proprie per specifiche esigenze, é il caso dei recenti referendum di Lombardia e Veneto. Nella seconda è la possibilità per un organo di svolgere funzioni e/o incarichi senza ingerenze o condizionamenti, é il caso delle regioni a statuto speciale, come la Sicilia. Per la terza ci si riferisce alle proprietà di un sistema di determinare da sé le interazioni che lo definiscono, è il caso del tentativo indipendentista catalano. Tali contraddizioni si riflettono puntualmente nella realtà. Per le persone l'autonomia sottende il concetto di crescere per differenziarsi al fine dispiegare la propria specifica individualità nei limiti di una necessaria socialità, anche se, in alcuni casi patologici alcuni pensano di poteri realizzare nell'autarchia. Gli individui si aggregano in nuclei familiari, in cerchie, in comunità, in popoli e nazioni e le dinamiche, in ciascun aggregato, si fondano essenzialmente sulla dialettica binomiale tra collaborazione ed autonomia. Ciascun aggregato, difatti, punta ad ottenere il massimo grado autonomia che, quasi sempre, è frutto del più alto grado di coesione sociale. Ma quest'ultimo tende, generalmente, ad affievolirsi in proporzione diretta all'ampiezza dell'aggregato: la coesione della Polis greca era incomparabilmente più forte di quella che esiste oggi in una grande metropoli. E' di tutta evidenza che l'autonomia implica la capacità di decidere positivamente, ossia in modo tale gli effetti della decisione comportino, o possano comportare, un vantaggio individuale e/o collettivo. Coloro che esercitano la funzione di governo di un qualunque aggregato sociale, nei limiti della particolare autonomia connessa alla specifica funzione esercitata, dovrebbero essere dotati della più alta capacità decisionale, con particolare orientamento al vantaggio collettivo o sociale, in buona parte corrispondente all'ideale modello del "buon padre di famiglia". Quindi comunità e grado di coesione sociale, autonomia e capacità decisionale sono intimamente e circolarmente connessi. Una comunità è tanto più coesa quanto più alto è il grado di coesione sociale (o quanto più alto è il suo capitale sociale che è determinato dai flussi fiduciari, per dirla con Fukujama), più alta è la coesione più ampia sarà l'autonomia esercitabile che dipenderà, come il grado di coesione, dalla capacità decisionale di chi esercita la leadership.


EDITORIALE

Sulla base di tale criterio occorrerebbe rimeditare i concetti di partito e di rappresentanza, altro che "tweet", blog e "primarie". Non a caso uno dei sistemi sociali più complessi ed efficienti oggi esistenti, quello cinese, funziona secondo i criteri sopradescritti e che, a ben guardare, sono strettamente meritocratici. Difatti in Cina il partito comunista seleziona le sue classi dirigenti in base alla loro capacità decisionale ed al grado di coesione sociale che le decisioni determinano. E questo vale sempre, sia per coloro che guidano una cellula del partito, sia per quanti, facendosi strada, ascendono alla guida di aggregati, via via, più ampi e complessi come le città, le province, le articolazioni dello stato. Certo con un solo partito è più facile, ma non è il pluralismo ad essere in discussione, solo il criterio di merito adottato. Da noi vale, invece, il criterio di demerito. Ad oltre un anno dal terremoto che ha colpito l'Italia centrale è stato consegnato solo il 27% degli alloggi provvisori previsti, non è stata varata alcuna misura legislativa in deroga temporanea e quindi non si tocca pietra e neanche maceria per ragioni burocratiche, gli abitanti che "resistono" sono costretti ad enormi disagi e vengono offesi nella loro dignità con l'aggravante che viene chiesto loro di pagare anche le tasse (per servizi non ricevuti, sic!) contraendo un mutuo con qualche banca convenzionata allo scopo. E quei territori, privi anche di un De Mita e di una Nusco, rischiano la desertificazione. E' solo un triste esempio di quello che mai andrebbe fatto, di come la coesione sociale non interessi a nessuno dei cosiddetti leader che ascendono solo “per fedeltà”, giustamente di recente condannati, sia pure simbolicamente, dal Tribunale della Libertà "Marco Pannella". D'altro canto neanche in casa sua, l'ex Presidente del Consiglio e Segretario del PD, è particolarmente attento alla "coesione sociale". In Cina non potrebbe accadere... Angelo Romano

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AUTONOMIA “Guarderò tutte le terre come fossero mie, le mie come se fossero di tutti. Io vivrò come se sapessi di essere nato per altri e a motivo di ciò ringrazierò la natura: in qual modo, infatti, essa avrebbe potuto curare i miei interessi? Me solo ha donato a tutti, a me solo ha donato tutti". Seneca inizia il paragrafo del "De vita Beata" che contiene l'incipit con le seguenti frasi: "I filosofi non fanno quel che dicono. Pur tuttavia fanno già molto a dire ciò che dicono e pensano onestamente. Se poi il comportamento fosse all'altezza delle parole, chi sarebbe più felice di loro? Intanto non sono da disprezzare le parole buone e l'animo colmo di buone intenzioni". Sicuramente pensava anche a se stesso quando le ha scritte; non era certo uno stinco di santo e anche per lui si può dire, sia pure in modo molto ridotto rispetto a tanti altri: "Predicava bene e razzolava male". Nondimeno, il suo lascito culturale, come ben noto, è di altissima valenza. Le sue riflessioni, pertanto, consentono di affrontare le tematiche sulla voglia di autonomia con un approccio più sereno di quello generalmente inferto da chi privilegia le spinte emotive, nella migliore delle ipotesi semplicemente irrazionali e spesso retaggio esclusivo di quelle sub-culture intrise d'ignoranza che tanti guasti producono in ogni contesto sociale, specialmente quando gli annaspamenti della storia consentono loro di ottenere largo consenso popolare. Suona retorico l'incipit, certo, alla pari di tutti i pensieri profondi che anelano al bene e si scontrano con una realtà che, sistematicamente, li riduce a frasi da incorniciare in qualche polverosa sala di attesa, ché ovviamente il predicare bene e razzolare male è un vizio diffuso. Non vi è scelta, tuttavia: se non si parte da un concetto "positivo" e si dà per scontato che i buoni princìpi sono tanto più irrealizzabili quanto più si elevano nella scala del bene, si lascia campo libero a chi, non essendo attrezzato per entrare in modo congruo nella complessità dell'essere, tende a gestire semplicisticamente problematiche vitali, che richiedono in primis l'impegno esclusivo di menti eccelse e poi, cosa ancor più complicata, la traduzione sul piano pratico delle loro decisioni. LA QUESTIONE TERMINOLOGICA: AUTONOMIA NON VUOL DIRE INDIPENDENZA. Come sempre, la questione terminologica assume fondamentale importanza. La confusione generata dal potere politico inadeguato e dalla stampa distratta, essendo tutti più attenti ai giochi di bottega che a comprendere i veloci mutamenti epocali, è una causa primaria del diffuso e ben percepibile disorientamento che attanaglia l'opinione pubblica. En passant è appena il caso di ricordare che tale presupposto riguarda anche il concetto di "ius soli", entrato


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prepotentemente nel lessico quotidiano, per definire qualcosa che con lo "ius soli" nulla ha a che vedere. La definizione di "autonomia" ricalca analogo scenario quando viene confusa con l'indipendenza o la secessione, che sono ben altre cose. Le supposte analogie tra le vicende catalane e il referendum in Lombardia e Veneto, per esempio, ne sono una prova evidente. E' opportuno chiarire, pertanto, che l'autonomia riguarda la capacità di un dato territorio, all'interno di un singolo stato, di perseguire interessi propri, con norme che riguardano precipuamente la materia economica. L'attuale normativa già contempla siffatti presupposti, ma alcune regioni, soprattutto nell'Italia del Nord, ne chiedono una più marcata estensione perché, ritenendosi virtuose, non sono disposte a finanziare, con il proprio gettito fiscale, gli sprechi notoriamente registrati in quelle con "gestione allegra". L'indipendenza, invece, presuppone il distacco radicale di un territorio dallo stato in cui è inserito. Di fatto nasce un "nuovo stato", che necessita del riconoscimento internazionale, alla pari di quanto avvenuto con la dissoluzione dell'URSS e della Jugoslavia. In Catalogna non si chiede "autonomia" ma "l'indipendenza dalla Spagna". L'Irlanda del Nord (o almeno buona parte di quel territorio) non vuole "autonomia"; vuole staccarsi dal Regno Unito, visto come stato occupante, e ricongiungersi con l'Éire, per formare lo Stato d'Irlanda e realizzare l'antico sogno di: "A Nation once again". Lombardia e Veneto, con il recente referendum promosso dalla Lega, non chiedono "indipendenza" dalla Repubblica Italiana ma di avere nuove competenze, oltre a quelle già previste per tutte le regioni. Chiedono maggiore "autonomia", la qualcosa, è bene sottolinearlo, non necessitava di un referendum, essendo già possibile ottenerla su determinate materie tramite l'articolo 116 della Costituzione. L'Emilia Romagna, per esempio, ha avviato tale procedura agli inizi di ottobre. Che poi nel Nord, di là dai proclami ufficiali, la stragrande maggioranza della popolazione sarebbe ben felice di staccarsi dal Sud e costituire uno stato indipendente, è un dato di fatto incontrovertibile che nessuno può negare. IL FALLIMENTO DEL REGIONALISMO Sistemata la questione terminologica è possibile inquadrare la voglia di autonomia nel suo alveo più naturale, alimentato da controversi affluenti, che vanno ben definiti per comprendere la portata del fenomeno. Prima, però, è necessario spendere qualche parola sulle regioni ordinarie che, secondo i padri costituenti, avrebbero creato i presupposti per avvicinare maggiormente il cittadino allo Stato e favorito lo sviluppo economico dell'intero Paese. Il dibattito tenne banco per lunghissimo tempo, producendo uno stallo sull'applicazione della norma che prevedeva le elezioni dei Consigli regionali entro un anno dall'entrata in vigore della Costituzione. L'indifferenza dell'opinione pubblica si sommava alla paura della DC di vedere un'occupazione territoriale da parte del PCI e così, di rimando in rimando, il nodo si sciolse solo nel 1970. Mentre il larvato antiregionalismo della DC (o almeno di buona parte di essa) era di carattere puramente strumentale, l'unico partito che intuì il baratro nel quale stava precipitando l'Italia fu il

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Movimento Sociale Italiano. La storia di quegli anni è generalmente narrata in modo artatamente distorto e del MSI si dice che fosse precipuamente preoccupato per la tenuta dello Stato unitario. Niente di più falso. E' indubitabile che nell'elettorato missino, e ovviamente anche nella classe dirigente, il sentimento unitario fosse molto marcato, ma nessuno temeva la "dissoluzione" della Patria perché, in quegli anni, non esistevano forze che agissero apertamente in tal senso e i sentimenti antinazionali riguardavano gruppi sparuti di scarsa importanza e quei singoli individui che troveranno nella Lega Nord, solo a partire dal 1989, il terreno fertile per dare sfogo alle proprie frustrazioni. Ciò che si temeva, sostanzialmente, era la "disgregazione" politica, economica e sociale del Paese. Giorgio Almirante, che ben conosceva la natura e i limiti del popolo italiano, intuì con largo anticipo ciò che sarebbe accaduto e lo disse più volte nei suoi numerosi e memorabili discorsi, come quello del 26 gennaio 1970, quando affermò che: "Le regioni tanto più costeranno quanto più saranno politicizzate; tanto meno costeranno quanto più rappresenteranno o potranno rappresentare o potrebbero rappresentare (poiché la mia credo sia oramai una vana illusione) degli organismi meramente amministrativi. […] Nel momento stesso, infatti, in cui si attribuisce alle regioni una potestà legislativa praticamente indiscriminata […] nessun ragionevole contenimento di spesa sarà pensabile, il che potrà andare benissimo per i sostenitori di un federalismo tra l'altro piuttosto spinto e incontrollato, potrà andare ancora meglio per i sostenitori del caos e dell'anarchia che siedono all'estrema sinistra, ma non so quanto andrà bene per il cittadino, per il contribuente e per quella larga parte tra voi che, in buona fede, continua a essere regionalista in senso pluralista e disaccentratore, in senso articolato, e audacia temeraria igiene spirituale non si rende conto che la legge è stata portata via di mano alla vecchia maggioranza democristiana regionalista nell'antico senso, ed è stata presa nelle mani dell'estrema sinistra della Democrazia cristiana e dei socialisti di entrambe le specie". La lungimiranza di Giorgio Almirante, purtroppo, è stata confermata dai fatti ben oltre le sue pur drammatiche previsioni. Il fallimento dello stato regionale è cronaca quotidiana sin dai suoi albori. Siamo tutti vittime dello sfascio sanitario grazie alle ruberie senza ritegno perpetrate dai politici senza scrupolo. A nessuno sfugge il clientelismo indiscriminato che ha riempito gli uffici di scaldasedie nullafacenti ed è diventata una barzelletta planetaria la storia dei 24mila forestali in Sicilia, regione di 25.711 Km2, mentre il Canada, con i suoi 9.984.670 Km2, dei quali ben 400mila costituiti da foreste, ne ha solo quattromila! Anche la Calabria non scherza, in tal senso, con i suoi 10.500 forestali. Finiamo qui, perché del tutto inutile ribadire fatti arcinoti.

L'AMARA REALTÀ E QUALCHE BUONA RICETTA. Rebus sic standibus si possono individuare i profili psicologici dei fautori delle autonomie. 1) Autonomisti duri e puri. Sono coloro che, seppur caratterizzati da alta scolarizzazione, si convincono della bontà di alcuni princìpi e li difendono con argomentazioni articolate e ben


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strutturate. La buona fede è fuori discussione e traspare evidente, nei discorsi, alla pari della loro visionaria percezione della realtà. Un tipico esempio di siffatto profilo psicologico è quello di un giovanissimo e affascinante filosofo, dotato di eccelsa proprietà di linguaggio, spesso ospite di programmi televisivi nei quali sostiene la giusta critica al capitalismo e alla sua degenerazione con le anacronistiche e irrealizzabili teorie marxiste. 2) Gli strateghi ipocriti. Sono per lo più i politici, che guardano all'autonomia come manna dal cielo per incrementare la propensione truffaldina, ovviamente mascherando le reali intenzioni con fiumi di argomentazioni farlocche. 3) I furbetti. Parlano di autonomia, ma pensano alla secessione perché, soprattutto al Nord, proprio non ce la fanno a sentirsi connazionali dei meridionali. 4) Gli arrabbiati. Per lo più residenti nel Nord, sono presenti in tutte le categorie succitate. Sono ben consapevoli di alimentare, con le loro tasse, gli sprechi e le ruberie nelle regioni meridionali e ciò li manda in bestia. Con questi presupposti, è possibile parlare seriamente di autonomia? Domanda retorica, ovviamente, perché una maggiore autonomia delle regioni significherebbe solo aumentare gli sprechi e il divario tra Nord e Sud. Gli italiani sono quel che sono ed è inutile girarci intorno: fatte le debite e sporadiche eccezioni, se si trovano nella possibilità di "frodare", lo fanno senza ritegno e in modo "patologico", comportandosi alla stregua di quei crocieristi che vanno al buffet con due piatti tra le mani, anziché uno nel quale inserire "tutto" ciò che si desidera mangiare, per poi fare bis e ter fino a scoppiare. I politici che inseriscono nella rendicontazione delle spese mutande, caramelle, ricariche telefoniche, gratta e vinci, pupazzi di peluche, piatti di cristallo, pandoro, panettoni, spumanti, le multe prese con le auto private, cravatte, foulard, biglietti di autobus, parcelle di estetiste e barbieri, piante, vasi, candele, i fumetti "Diabolik", la retta dell'asilo, le maniglie delle porte, le cene con gli amici ivi compreso il cenone di capodanno, prima di essere dei ladri sono dei malati (delirio di onnipotenza e disturbo ossessivo compulsivo generato dal potere acquisito) ai quali va comminata l'interdizione perpetua dai pubblici uffici per palese incapacità nella gestione di qualsivoglia potere, anche minimo. L'istituzione delle regioni ordinarie, proprio come aveva previsto Giorgio Almirante, ha esaltato questa deprecabile propensione, che via via ha dato forma a un inestricabile caleidoscopio di elementi umani nel quale, molto spesso, "carnefici" e "vittime" coincidono. La malasanità, per esempio, ha colpito chiunque e si è potuto sottrarre a essa, in particolare nel Sud, solo chi sia stato in grado, economicamente, di fuggire dalle deficienze locali. La cattiva gestione dei servizi, le strade dissestate, le opere incompiute, penalizzano tutti. I 24mila forestali della Sicilia saranno ben felici di percepire uno stipendio senza fare nulla, ma di certo imprecheranno contro i loro stessi benefattori per la criticità dei trasporti pubblici e le strade senza illuminazione e senza segnaletica, con manto deformato e ponti che cadono per mancanza di manutenzione.

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Cosa fare quindi? Anche questa è una domanda retorica perché dietro ogni azione si cela la qualità di chi la pone in essere: uomini di qualità potranno risolvere i problemi, anche più gravi; uomini senza qualità, che dei problemi fanno il loro "core business", non potranno che perpetuare quanto di più negativo da decenni si registra nel nostro paese. Se le regioni ordinarie, pertanto, costituiscono il "cancro" del sistema, si possono solo eliminare per evitare che minino ancor più il "corpo" nel quale sono inserite, ossia lo Stato. Altro che parlare di autonomia! Occorre rivedere l'impianto costituzionale per riparare i guasti prodotti tanto dai padri costituenti quanto dalle successive riforme del 1999 e 2001. Ovviamente vanno abrogate anche le regioni a statuto speciale, salvaguardando i diritti delle minoranze linguistiche con apposite leggi nazionali. Insieme con le regioni vanno abolite le amministrazioni provinciali e va ridefinita la geografia dei comuni, con accorpamenti che prevedano non meno di 12-15 mila abitanti. In pratica si tratta di ridurre drasticamente il numero di persone che, grazie agli enti locali, vive di politica, soprattutto clientelare. Da qui, però, a celebrare il rito di uno stato completamente centralizzato ce ne corre, perché senza il filtro delle province e delle regioni il rapporto tra comuni e potere centrale sarebbe complicato e fonte sicura di ben altri problemi. Bisogna tenere in considerazione, inoltre, che l'Italia veramente unita è tale solo quando gioca la nazionale di calcio e, per quanto amaro possa apparire, fatte le doverose tare che riguardano il razzismo (sempre deprecabile) e l'ignoranza (che va sì combattuta a tutte le latitudini, ma richiede tempi lunghi), il divario "culturale" ed "economico" tra Nord e Sud non puòspirituale essere gestito accademicamente e va inquadrato audacia temeraria igiene nell'ottica più realistica possibile. Amore e rispetto non possono essere imposti: vanno conquistati. Una riforma dello Stato che possa essere funzionale alla reale consistenza della classe sociale italiana, pertanto, dovrebbe prevedere un vero federalismo e dar vita a quattro o cinque macroregioni (o stati, che dir si voglia) con poteri ben definiti e limitati rispetto a quelli che caratterizzano oggi le attuali regioni. Sanità, Trasporti e Istruzione devono ritornare a essere gestiti a livello centrale con norme univoche che valgano sull'intero territorio nazionale. Le Ferrovie devono recuperare "anche" una funzione sociale, senza per altro cadere nei tipici "errori" del passato, ed essere modernizzate lì dove ancora, proprio per la malsana gestione, vigono in stato pietoso, come nemmeno nel terzo mondo. La liberalizzazione del mercato energetico e telefonico, con annessi servizi scaturiti dall'avvento della rete, lungi dal determinare un contenimento dei costi, ha solo creato caos, sprechi, disservizi, truffe e malcostume. Non è un mistero per nessuno che molte società "insegnano" ai giovani collaboratori come "truffare" i clienti ed estorcere loro i contratti in modo fraudolento. Non serve sprecare troppo spazio per spiegare quanto ciò risulti deleterio per la società, perché non siamo lontani dal lavaggio di cervello che gli integralisti religiosi fanno ai bambini per trasformarli in futuri terroristi.


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Rinazionalizzare tali servizi, pertanto, gestendoli con mentalità raziocinante, anche qui senza reiterare gli sprechi del dopoguerra, sarebbe quanto mai opportuno e contribuirebbe a risolvere l'annoso problema del digital divide, che è una vera vergogna. E' evidente, altresì, che una riforma del genere si configura meglio con l'elezione diretta del Capo dello Stato, che fungerebbe anche da capo dell'esecutivo, con un Parlamento monocamerale, perché l'attuale Senato è solo una palla al piede dell'impianto costituzionale. Il tema di questo articolo prevede la trattazione della sola "autonomia" e quindi non è il caso di scendere articolatamente nei dettagli di una radicale e sostanziale riforma dello Stato, argomento che può essere compiutamente trattato in altra occasione. Quanto detto, tuttavia, basterebbe e avanzerebbe per risolvere annosi problemi e fornire, se non in toto per buona parte, l'unica "autonomia" che davvero serve al Paese: quella dai farabutti al potere, che sono davvero tanti. Lino Lavorgna

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IL VOLO DEL BRUTTO ANATROCCOLO Pur riconoscendogli una certa, velata, simpatia, sicuramente maggiore di quella che posso nutrire per i suoi altalenanti compagni di viaggio, io direi che è giunto il momento di spiegare a Salvini che non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca e che la comunicazione di un politico, a meno che non lo sia da operetta, non deve essere contradittoria al suo interno. Un po' come il cavallo bianco di Napoleone che, nella notte, a causa del suo manto nero, non si distingueva. Capisco bene i motivi che, finalmente, lo hanno indotto a togliere quel 'Nord' dalla denominazione della Lega così da potersi presentare al Sud senza ambiguità iniziali; ne consegue che se saprà suscitare emozioni e consensi queste non proverranno solo dalle clack di discutibili personaggi di 'destra' in cerca di nuovo accasamento per indisponibilità della vecchia 'dimora'. E capisco anche i dissensi di Bossi che avverte lo snaturamento della Lega. E, del resto, ha ragione. La Lega, Nord appunto, è nata in quel contesto trent'anni fa e da quell'ambiente non si è mai sradicata. Là, mischiando in maniera raffazzonata un po' di misticismo celtico e un po' di gallismo italico, ha cominciato incarnando gli egoismi dei padroncini brianzoli e, senza offesa, la loro grettezza, dando fiato a quell'urlato mugugno casareccio che identificava Roma, ovviamente 'ladrona', col Sciur padrun da li beli braghi bianchi, di grossa empatia tra le mondine, il quale, secondo l'anonimo compositore di oltre un secolo fa, doveva giustamente tirar fora li palanchi. E, sull'onda del folklore, si è impadronita dell'immagine del 'Guerriero di Legnano', cioè di quella della statua bronzea dedicata ad un anonimo combattente dell'omonima battaglia medioevale, confuso con Alberto da Giussano il quale, peraltro, secondo i più recenti studi storici, non sembra essere mai esistito. Tra l'altro, l'effettivo capo militare della Lega Lombarda nel celebre scontro militare con Federico Barbarossa fu Guido da Landriano. Da lì, il via ai raduni di Pontida, in annuale commemorazione di quel luogo che la tradizione vede depositario del giuramento di riscossa dei comuni lombardi contro il Barbarossa. In realtà, nemmeno quel giuramento sembra essere mai esistito. Nelle cronache dell'epoca non ve ne è traccia e la sua prima, ambigua menzione, peraltro priva di sostegni di riscontro, è di circa quattrocento anni dopo la presunta data di quel giuramento. In ogni caso, pur ammettendo per un attimo la fondatezza di quel giuramento alla dichiarata data del 7 aprile 1167, esso non fu costituzione della Lega Lombarda, dato che sui documenti storici sono citati almeno due giuramenti precedenti con il medesimo scopo: quello di Bergamo e l'altro di Milano. Il terzo, appena successivo alla presunta data, fu firmato a Lodi.


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Comunque, sull'onda della roboante passione folkloristica, la Lega bossiana aveva anche ventilato, in abbinamento con quelle 'denunce di ladrocinii', la larvata possibilità di una secessione di un indistinto Settentrione al punto da suscitare nell'allora Presidente della Repubblica Cossiga durissime parole, pronunciate il 1° maggio 1990: "se poi vi fosse qualche farneticamento che, al di là del sentimento confuso, del risentimento oscuro, della forzatura folkloristica, al di qua del calendario della storia e della cultura, e al di là di quello del possibile futuro, pensasse a più avventurosi tentativi di divisione, sarà bene ricordare che dovere fondamentale del presidente della Repubblica, ….., è quello di tutelare l'integrità territoriale, l'indipendenza e la sovranità dello Stato ….e di difendere …..l'unità nazionale.". In effetti, dato il folklore, la 'farneticazione', il 'sentimento confuso' e un 'risentimento oscuro' sembravano esserci tutti. Va anche detto, tuttavia, che la Lega Nord non ha mai spinto la sua azione fino al punto di incappare nei rigori penali ma ha cavalcato per trent'anni un confuso 'riscatto' del 'Nord', inglobando nella corsa veneti e emiliani, divenuti improvvisamente consapevoli della loro appartenenza alla terra delle nebbie; a quell'Avalon, traslata in Padania, senza che alcuno spiegasse alla bassa forza che quella terra esiste solo nella penna di Goffredo di Monmouth. E, su quest'onda, grazie (si fa per dire) alla 'discesa in campo' del Cavaliere, è riuscita ad approdare nella 'stanza dei bottoni' di originaria enunciazione nenniana, forse in una inconsapevole affinità col leader socialista che, sempre per primo, usò l'espressione 'vento del Nord'. E, a proposito di socialismo, quella rattoppata politica della Lega fece presa anche nelle maestranze operaie. Il che è altresì comprensibile ma non tanto sul piano di una trovata affinità culturale e politica quanto su quello del mero interesse. Era il tempo della III rivoluzione industriale e l'elettronica era entrata trionfante nella produzione falcidiando posti di lavoro. In più, l'economia era in una fase di riconversione e l'industria stava cedendo sempre più spazio alla trionfante marcia del terziario. Una situazione di disagio sociale, quella che si determinò, in assenza di percorsi di riconversione e di ricollocazione; una situazione alla quale da un lato i governi democristiani prima e socialista poi e, dall'altro, le confederazioni sindacali non seppero porre rimedio, sostanzialmente affidandosi alla 'mano invisibile' del mercato di concezione smithiana e agli egoismi che presagiva. Non conosco specificatamente i motivi che indussero la Lega Nord, nel '94, a determinare la crisi del primo governo Berlusconi ma posso ritenere che il Cavaliere, tycoon nostrano fattosi da solo, non fosse un uomo che potesse consentire ad una Lega Nord, seduta negli scranni del potere, di essere 'soggetto di lotta e di governo', forse inconsapevolmente cercando di incarnare il pregnante significato che Berlinguer seppe dare a quell'espressione, prima ancora che se ne appropriasse, con accenti pseudo culturali, la cosiddetta 'destra sociale'. O, forse, il Cavaliere, ossessionato dal comunismo, avvertì in quell'essere' della Lega Nord un che di sinistrorso. O, meglio, forse la Lega Nord, di fronte all'inconcludenza governativa, preferì prestare orecchio proprio a quelle sirene di sinistra che avevano preso a vaticinare di autonomia territoriale. Con ogni probabilità, ne ha saputo qualcosa il Prof. Miglio incappato nel furore ruspante

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bossiano nel 1993, quando i punti salienti del cosiddetto 'Decalogo di Assago' vennero fatti propri dalla Lega Nord solo marginalmente perché la segreteria federale preferì seguire una politica di contrattazione con lo Stato centrale che mirasse, appunto, al rafforzamento delle autonomie regionali, piuttosto che coltivare e far crescere un progetto politico. È pur vero che prima di veder realizzate quelle 'promesse' la Lega Nord dovette aspettare sette anni; mercé l'impegno di D'Alema, quelle 'promesse' si tradussero nel peggior disastro economico-finanziario del Paese con valenza addirittura costituzionale attraverso la modifica del Titolo V. Ma di quest'ultimo dramma la Lega Nord non sembrò essere toccata; eppure, avrebbe potuto cominciare ad additare i presunti 'ladrocini' operati dalle Regioni ma preferì considerare quegli Enti solamente come possibili obiettivi di conquista; decise, così, di adottare una strategia, stranamente ancora una volta di sinistra: quella dell'incruenta rivoluzione gramsciana. Puntò soprattutto al suo consolidamento sul territorio, vista anche la scarsa rilevanza che ebbe nei successivi governi: due ministri senza portafoglio prima, un ministro di giustizia, poi e, infine, un ministro per l'Interno e due ministri senza portafoglio. A proposito di giustizia, chissà se l'ingegner Castelli è soddisfatto di svolgere il compito di vice presidente del Parlamento della Padania; un fantasioso ruolo in un fantasioso organismo al quale è stato nominato dal presidente Calderoli, dopo le traversie della famiglia Bossi. Fatto si è che a seguito di quelle traversie necessitò un cambio di guida nella squadra federale e fu la volta di Maroni il quale, lo dico senza alcuna offesa, ciò che seppe innovare, con la benedizione bossiana, fu solamente l'enfasi del suo linguaggio, senza alcun seguito concreto. Poi, dopo la vittoria alle primarie contro Bossi redivivo, toccò a Salvini. E, da quattro anni, indubbiamente la Lega sta cambiando. Niente più misticismo celtico e gallismo italico. Niente più 'Roma ladrona', ma l'intento di provare a dimostrare di non essere isolati. Addirittura il pittoresco viaggio in Corea del Nord col senatore Razzi e il più serio abboccamento con il Front National di Marine Le Pen. Ed è proprio a seguito di quell'abboccamento che la Lega Nord, in Europa, per la prima volta, appartiene ad un gruppo politico. Certo, non sarà facile la permanenza in quella coalizione, data la presenza anche di quattro membri del Partito per la Libertà olandese, di quattro dell'austriaco Fpo, di uno del partito fiammingo per l'indipendenza delle Fiandre, di due del Congresso della Nuova destra polacco e di una fuoriuscita dallo Ukip britannico, tra i quali gli argomenti dominanti sembrano essere quelli contro l'euro, contro l'immigrazione, contro l'evoluzione femminile e quelli a favore dell'introduzione della pena di morte. Non sarà facile perché ciò potrebbe contrastare con il nuovo volto della Lega che, intanto, ha deciso di cancellare la dizione 'Nord' dal suo appellativo, così da porsi, a distanza di un trentennio dalla sua nascita, formalmente come forza nazionale. Peraltro, la cancellazione del 'Nord' sicuramente farà venir meno il ricorso a quella trovata, un po' ipocrita in verità, del solo 'Salvini al Sud' e, nel contempo, potrà più attentamente misurare le attese meridionali interessate ad un nuovo accasamento. Certo è che la nuova Lega, come forza nazionale, avrà necessità di sviluppare una politica coerente. Per ora, sta provando a prevalere la logica dei numeri, gettati a raffica dal segretario


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con sfrontata sicurezza, quasi a dimostrare la lucidità del progetto leghista. Ma certo è che, da qui a breve, un progetto complessivo avrà bisogno di emergere. Un progetto che inglobi certamente il Sud, dopo tanto bizzarro biasimo, e fornisca una visione complessiva per questo Paese. E che vi sia bisogno di questo è nell'ordine delle cose. Specie se, come sembra, essa intende proporsi come guida di un'ipotetica coalizione di centro-destra. Non sarà facile, dicevo, perché intanto dovrà conciliare, agli occhi del suo elettorato tradizionale, le sue origini nordiste e le relative aspettative con i disagi del Mezzogiorno e le possibili cure. Inoltre, data la possibile presenza di componenti cattoliche nella eventuale coalizione, dovrà armonizzare le sue idee di una immigrazione più restrittiva con quelle più liberali e umanitarie. E, ancora, data la possibile presenza di Forza Italia, sarà costretta a rivedere la sua posizione antieuro per sposare quella della validità di un'unione continentale, sia pur su basi e con percorsi differenti. In più, dovrà esternare una sua concezione economica e sociale, soprattutto in presenza ancora perdurante della decennale crisi, possibilmente conciliandola con le taccagne voglie della piccola imprenditoria lombardo-veneta. In sostanza, ciò che serve, a personale avviso, è l'emersione di un progetto complessivo che esca dall'ambito della critica spot. Un progetto, infine, che faccia definitiva chiarezza, dopo una trentennale attesa, a favore di quale impianto federale essa intenda svolgere la sua azione, delineandone il tipo e le attribuzioni così da far venir meno quelle immeritevoli sceneggiate rappresentate, da ultimo, dai presunti referendum consultivi, inesistenti nel nostro impianto costituzionale, promossi dai governatori leghisti di Veneto e Lombardia con notevole dispendio di risorse pubbliche quando avrebbero potuto, in esito agli artt. 116 e 117 della Costituzione e senza vagheggiamenti fiscali, avviare una trattativa col Governo ai fini di una maggiore autonomia, come nel caso dell'Emilia. In ogni caso, mi rifiuto di pensare che i governatori di importanti regioni come la Lombardia e il Veneto non fossero a conoscenza di una tale possibilità. Penso, invece, che Zaia, surrettiziamente, abbia voluto misurare le sue forze; un intento al quale si è associato ingenuamente (?) Maroni. E la statura tra i due può essere misurata anche dai risultati della pseudo consultazione: il quorum pieno e la maggioranza dei Sì nel Veneto, poco oltre il 30% degli aventi diritto nell'affluenza al voto in Lombardia. Comunque, a prescindere da come andranno le alleanze per la competizione politica di primavera, anche alla luce dei recenti sondaggi che danno FI in leggera crescita e la Lega in leggera flessione, che la stessa Lega abbia assoluta necessità di rivedere la sua colorita storia non c'è dubbio, soprattutto se vuole porsi come forza nazionale. Come non penso ci sia dubbio sul fatto che, se intenderà portare avanti la sua revisione, dovrà ragionare con Zaia. Non è mia intenzione riflettere, peraltro in maniera ininfluente, sulle eventuali vicende interne di un partito ma, come uomo della strada penso che uno sforzo di coerenza, organicità, trasparenza e prospettiva serva al Paese. E se Salvini lo vorrà fare, ben venga dopo tanta generale incoerenza, eterogeneità, opacità e cecità. Massimo Sergenti

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DISCORSO AGLI ATENIESI Un grazie a Michele Falcone per l’attualissima segnalazione: "Qui ad Atene noi facciamo così. Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia. Qui ad Atene noi facciamo così. Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell'eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento. Qui ad Atene noi facciamo così. La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l'uno dell'altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo. Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private. Qui ad Atene noi facciamo così. Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa. E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell'universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso. Qui ad Atene noi facciamo così. Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benchè in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore. Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell'Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero. Qui ad Atene noi facciamo così." Pericle, Discorso agli Ateniesi, 421 a.C. (tratto da Tucidide, Storie, II, 34-36)


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UN FUTURO CHIAMATO MUHAMMAD L'estate scorsa, il presidente francese Emmanuel Macron è finito al centro di una bufera mediatica, con tanto di accuse di "razzismo"1, per aver detto che le donne "con sette-otto figli" sarebbero responsabili dell'attuale condizione del continente africano, creando così una sfida, stando a Macron, di "civiltà". E le Nazioni Unite gli hanno dato ragione. Secondo il "World 2 Population Prospects" , l'annuale rapporto dell'Onu sulla demografia, oggi un sesto della popolazione mondiale vive in Africa. Nel 2050, la proporzione sarà di un quarto, e alla fine del secolo - quando gli africani saranno quattro miliardi - sarà di un terzo. In Africa, oggi le nascite superano di quattro volte le morti. Secondo i dati del 2017, il tasso di fertilità è di 4,5 figli per donna, contro 1,6 in Europa. Nei prossimi trent'anni, la popolazione 3 africana aumenterà di un miliardo . Non è difficile immaginare come l'immigrazione illegale di massa inciderà sull'Europa attraverso questa pressione demografica senza precedenti. La demografia africana preme già sul "vecchio continente". Quando la Germania ha aperto di recente le porte a più di un milione di persone provenienti dal Medio Oriente, Asia e Africa, sostenitrici delle frontiere aperte, hanno affermato ripetutamente che un milione di migranti non sono nulla in una popolazione europea di 500 milioni di persone. Questo, però, era un paragone sbagliato. L'esatto paragone è tra i recenti arrivi e le nuove nascite. Nel 2015 e nel 2016, in Europa sono nati 5.1 milioni di bambini4. Nello stesso periodo, 5 secondo un rapporto del Pew Research Center , sono arrivati in Europa circa 2,5 milioni di migranti. E poiché molti paesi, come la Francia, si rifiutano di fornire i dati sulle nuove nascite in base all'origine etnica, non c'è modo di sapere quante nascite avvenute in Europa possano essere attribuite alle comunità musulmane. Altri studi delle Nazioni Unite parlano anche delle prospettive europee, dove per "Europa" si intende l'area allargata a est della Ue. Nel 1950, gli europei erano 549 milioni6. Nel 2017 sono 742 milioni. Nel 2050 saranno 715. Nel 2100 scenderanno a 653 milioni. Dunque, in trent'anni, a causa del crollo demografico, la popolazione europea perderà 30 milioni di abitanti e quasi 100 milioni entro la fine del secolo. Il "controllo delle nascite" ha funzionato in modo più efficace in Europa, che demograficamente non ne aveva bisogno, e malissimo in Africa. All'interno dell'Europa, ci saranno paesi che si contrarranno spaventosamente e altri che avranno una crescita molto forte. I paesi in crescita ci diranno che tipo di continente sarà. L'Europa, con l'aggiunta della pressione demografica africana, sarà dominata dalle maggioranze islamiche.

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Il Vecchio continente sta commettendo eutanasia sociale. La Germania è destinata a perdere undici milioni di persone; la Bulgaria passerà da sette a quattro milioni; l'Estonia da 1,3 milioni a 890 mila; la Grecia da undici a sette; l'Italia da 59 a 47 milioni; il Portogallo da dieci a sei milioni; la Polonia da 38 a 21 milioni; la Romania da 19 a 12 e la Spagna da 46 a 36 milioni. La Russia perderà venti milioni di abitanti, da 143 a 124 milioni. Fra i paesi in cui si prevede un aumento della popolazione spiccano la Francia, che passerà da 64 a 74 milioni di abitanti, e il Regno Unito da 66 a 80. Anche Svezia e Norvegia cresceranno: da nove a tredici milioni la prima, da cinque a otto la seconda. Il Belgio, che conta 11 milioni di abitanti, dovrebbe guadagnarne due milioni. Questi cinque paesi europei sono anche tra quelli con la più alta percentuale di musulmani. Inoltre, secondo un nuovo rapporto Eurostat7, diffuso la scorsa settimana, il numero di morti nel "vecchio continente" è salito del 5,7 per cento in un anno, a causa dell'invecchiamento della popolazione, ma nelle zone ad alta densità islamica si registra un'ingente crescita demografica: "I tassi più alti sono registrati nei distretti che si trovano nella parte orientale di Londra, come Hackney e Newham (14 per 1000 abitanti) e Tower Hamlets (12 per 1000 abitanti), e nei sobborghi parigini nord-orientali di Seine-Saint-Denis (13 per 1000 abitanti)". L'economista francese Charles Gave8 ha recentemente pronosticato che la Francia avrà una maggioranza islamica nel 2057, e questa stima non ha nemmeno preso in considerazione il numero dei nuovi migranti attesi. La scorsa settimana, nel Regno Unito, l'Office of National Statistics ha annunciato9 che quest'anno Muhammad è diventato il nome più popolare nel paese fra i nuovi nati ed è "senza dubbio il più diffuso se si considerano le sue variazioni". Idem dicasi per le quattro città più 10 11 grandi dei Paesi Bassi. A Oslo , la capitale della Norvegia, Mohammed è il nome più diffuso non solo tra i nuovi nati, ma anche tra gli uomini della città. Bisognerebbe essere ciechi per non capire la tendenza: "È la demografia, idiota". Senza dubbio la popolazione africana in crescita esplosiva cercherà di raggiungere le coste di un'Europa ricca e senile, che sta già subendo una rivoluzione demografica interna. Il Vecchio continente, per mantenere la propria cultura, dovrà prendere decisioni pragmatiche, non solo stupirsi a oltranza. La domanda da porsi è: l'Europa proteggerà i suoi confini e la sua civiltà, prima che venga sommersa? Giulio Meotti redattore culturale del quotidiano Il Foglio, è un giornalista e scrittore italiano. Tratto da: https://it.gatestoneinstitute.org/


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Note: 1 http://www.independent.co.uk/news/world/europe/emmanuel-macron-africa-development-civilisation-problems-womenseven-eight-children-colonialism-a7835586.html 2 https://esa.un.org/unpd/wpp/ 3 http://www.lefigaro.fr/actualite-france/2017/09/27/01016-20170927ARTFIG00336-en-afrique-une-demographieexponentielle.php 4 http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Fertility_statistics 5 http://www.pewglobal.org/2017/09/20/a-million-asylum-seekers-await-word-on-whether-they-can-call-europehome/?utm_content=buffer9aded&utm_medium=social&utm_source=twitter.com&utm_campaign=buffer#location-of-asmall-number-of-rejected-asylum-seeker 6 https://esa.un.org/unpd/wpp/Publications/Files/WPP2017_KeyFindings.pdf 7 http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Population_statistics_at_regional_level 8 https://www.gatestoneinstitute.org/11044/europe-white-death 9 http://www.independent.co.uk/news/uk/home-news/muhammad-boys-names-uk-list-william-replaced-a7958221.html 10 http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/europe/netherlands/6022588/Mohammed-is-most-popular-boys-name-infour-biggest-Dutch-cities.html 11 http://www.bbc.com/news/blogs-news-from-elsewhere-28982803

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LA SCARPETTA VA STRETTA

Ho molto riflettuto sul saggio di Antonino Provenzano e sulle successive considerazioni che la lettrice Alice Balei ha voluto svolgere su quello stesso saggio e, in merito, devo confessare di aver tratto nel tempo due distinte opinioni, peraltro date da due distinte modalità di approccio. La prima volta, infatti, lessi gli scritti alla luce delle mie conoscenze antropologiche, sociologiche e storiche. La seconda volta, invece, tornai a quegli scritti osservando l'attualità sulla quale non avevo sufficientemente riflettuto. Mea culpa. Comunque, poiché ritengo che quanto sopra dica poco o nulla, vedrò di spiegarmi meglio. Da una prima lettura del saggio di Provenzano anch'io ho avuto delle perplessità; non certo di natura finalistica quanto procedurale. È indiscutibile che il 'presente' e, soprattutto, il 'futuro' è donna. Si può ragionare se il riscatto femminile sia avvenuto per 'imbecillità' dell'uomo o se la donna abbia 'approfittato' di una serie di circostanze per 'carpire' lo scettro al maschio. Inoltre, si può congetturare se il fenomeno in atto sia niente altro che il ritorno in un alveo naturale millenario della supremazia femminile (in sostanza, la natura riprende il suo corso) o se vi siano delle forzature perché ciò si realizzi. Si possono, in definitiva, ipotizzare tutta una serie di eventi, certamente condivisibili o meno, che hanno condotto allo stato attuale: la marcia vittoriosa della donna sull'uomo. Per cui, dalla lettura dei due scritti, l'impressione che inizialmente ho tratto è che i due redattori dicessero le stesse cose muovendo da punti di vista differenti, neppure di tanto. Dello scritto di Provenzano, infatti, ciò che la Balei ha soprattutto rilevato è stato più che altro l'uso di talune espressioni 'forti': 'ha carpito', 'si è approfittata', ecc. Non entro nel merito dei concetti di 'circolarità' e 'linearità' del tempo e delle filosofie, religiose o meno, che ne sono 'artefici', né intendo addentrarmi nella disamina di materie 'di pertinenza maschile' o 'femminile', ma, nella sostanza, la Balei stessa ha dovuto alla fin fine riconoscere che, a prescindere dalle cause, oggi la società è coniugata esclusivamente al femminile. Peraltro, la Balei, pur senza esplicitarle, sembra aver ravvisato una serie di problematiche che una tale evoluzione comporta; dal ché, ha concluso il suo scritto con una frase che sembra rimettere all'intelligenza delle parti (dei generi) la soluzione. Infatti, ha concluso: "Credo, in conclusione, che di fronte a tali e tante problematiche, chi ha più cervello è il momento che lo adopri.". Certo, il 'cervello' …. ma, a volte, non basta. Comunque, anche lo scritto di Provenzano non accenna alle singole problematiche ma racchiude il tutto in una 'crisi dell'Occidente' e sollecita interventi praticamente attraverso il solo occhiello


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del titolo: una frase a firma del saggista britannico Niall Ferguson: "Fintanto che non avremo capito la vera natura del nostro declino, sprecheremo soltanto il nostro tempo, applicando finti rimedi a quelli che sono semplici sintomi". In sostanza, Provenzano ha fatto una fotografia, a prescindere dalla condivisione o meno dei percorsi attraverso i quali ha definito il quadro e dall'enfasi adoperata nel colorarla. Nessuno dei due, però, si è avventurato più in là. Ecco, avevo tratto un giudizio dai due scritti e avrei potuto pure fermarmi lì, anche perché in un recente passato, prima dello scorso ottobre, mi ero già trovata a scrivere sull'argomento. Ma, alla luce di una recente ventata che non esito a definire folle, ho ripensato al tutto ed ecco la seconda opinione. Non sono una femminista esagitata ma a me sembra che lo scenario che abbiamo di fronte sia quello di una rivoluzione delle oppresse, con i pochi conservatori in fuga. Tuttavia …. sarebbe stato preferibile che tale sovvertimento avvenisse senza spargimenti di sangue. Ma, a quanto vedo, si è scelta la strada di non dar tregua ai fuggitivi…. Come dicevo, è incontestabile che la donna, biologicamente, sia più attrezzata dell'uomo ed è innegabile che la ella, finalmente, stia trovando il suo riscatto sulla secolare oppressione maschile. L'uomo, infatti, ha perso la sua identità, venendo meno tutti quei capisaldi che per poco più di due millenni l'hanno visto prevalere, fino al sopruso. Così sta battendo in ritirata, con il fiato sempre più corto, cercando di adattarsi, sbigottito, al nuovo ruolo della donna, sposando tematiche che ritiene a lei congeniali, cercando di mantenersi all'altezza almeno nel rapporto sessuale, divenendo più realista del re nell'inventare spazi nei quali collocare d'ufficio rappresentanti del gentil sesso. Non sa più come approcciare la sua compagna e non sa gestire una situazione di rottura e, in un eccesso d'ira o di consapevole deprimente impotenza, arriva ad uccidere pur di prevalere. Non voglio fare la psicologa di turno ma, pur mancandomi le basi, il processo mi sembra chiaro. Meno chiara, o almeno paradossale, mi appare la risposta della società che si è limitata a forgiare giuridicamente il reato di femminicidio. Eppure, quando vent'anni fa Marcela Legarde, da antropologa, scrisse attorno alla configurazione di tale reato, il pensiero che ne era alla origine apparve molto chiaro: "Il femminicidio implica norme coercitive, politiche predatorie e modi di convivenza alienanti che, nel loro insieme, costituiscono l'oppressione di genere, e nella loro realizzazione radicale conducono alla eliminazione materiale e simbolica delle donne e al controllo del resto. Per fare in modo che il femminicidio si compia nonostante venga riconosciuto socialmente e senza perciò provocare l'ira sociale, fosse anche della sola maggioranza delle donne, esso richiede una complicità ed un consenso che accetti come validi molteplici principi concatenati tra loro: interpretare i danni subiti dalle donne come se non fossero tali, distorcerne le cause e motivazioni, negarne le conseguenze. Tutto ciò avviene per sottrarre la violenza contro le donne alle sanzioni etiche, giuridiche e giudiziali che invece colpiscono altre forme di violenza, per esonerare chi esegue materialmente la violenza e per lasciare le donne senza ragioni, senza parola, e senza gli strumenti per rimuovere tale violenza. Nel femminicidio c'è volontà, ci sono 1 decisioni e ci sono responsabilità sociali e individuali." .

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In un femminicidio ci sono responsabilità sociali ed individuali. Ora, se quelle individuali vengono giustamente sanzionate, che ne è di quelle sociali? L'unica risposta finora data si può considerare come quella di rimediare ad una disattenzione. L'Europa, infatti, nel 2011, ha varato la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, recepita dall'Italia nel 2013. Il nostro Paese, fino ad allora, si era limitato all'attenzione mediatica, con trasmissioni televisive, seminari e spettacoli teatrali, in particolare in occasione della giornata mondiale contro la violenza alle donne e la giornata internazionale della donna, ma con quel recepimento, aspetto curioso, ha varato norme penali che aggravano le ipotesi di atti persecutori od omicidio (doloso o preterintenzionale) contro il coniuge o il convivente, sia quando l'omicida è donna sia quando è uomo, tramite specifiche aggravanti dei reati. Forse, sarà stato perché i due relatori appartengono a due generi diversi ma il testo emerso a me pare equanime, nonostante il gravame psicologico che lo ha accompagnato. Infatti, nel 2012, l'avvocata femminista di origine sudafricana Rashida Manjoo, ex Special Rapporteur delle Nazioni Unite, nel rapporto sulla visita effettuata in Italia per verificare l'applicazione CEDAW (Committee on the Elimination of Discrimination against Women) rilevò ben 127 'femminicidi' nel 2010. E, secondo la Manjoo, fino a quel momento vi era stato uno sforzo limitato da parte del governo e della società civile nel raccogliere dati sulla violenza contro le donne, incluso il 'femminicidio'. Certo, come dicevo, il decreto e la successiva conversione non è la risposta esaustiva al fenomeno ma, quantomeno, visto l'odierno intento iconoclastico della donna nei confronti dell'uomo, prova a porre sullo stesso piano i reati a seguito di forme coercitive, di atti predatori e di modi di convivenza alienanti che, nel loro insieme, hanno costituito l'oppressione di genere. Si può dire, però, che rimaniamo, l'Italia e l'Occidente in generale, ancora nell'ottica di rimediare ad una disattenzione. Così, si sposano studi redatti da psicologi americani e inglesi (l'ultimo è di Anna Costanza Baldry, londinese ma psicologa e criminologa, nonché professore associato presso il Dipartimento di Psicologia della Seconda Università degli Studi di Napoli) sugli orfani di vittime di femminicidio e si sta lavorando per il varo di una legge di tutela particolare. Oppure, si formano commissioni come quella al Senato per indagare sul fenomeno e per trovare soluzioni al fine di arginare un 'problema grave e strutturale'. Per inciso, al momento non ci sono riscontri. È concepibile che una manifestazione di così elevato disagio non trovi immediati rimedi ma resta inconcepibile che non vi sia alcuno che, dopo tanto parlare a favore della donna, si ponga il problema di rimuovere le nuove cause della sua insoddisfazione, del suo risentimento, della sua insicurezza, della sua rabbia. In sostanza, l'ottica che sta emergendo è solo quella di 'punire finalmente' il secolare oppressore senza minimamente considerare in quali condizioni opererà la donna, una volta definitivamente annientato il suo 'nemico'. Anche perché, dopo la ventata iconoclastica e la soppressione dei despoti, dopo la raffica adulatrice mass-mediatica e politica non lontana dall'audience, dalle vendite o dai voti, è lecito


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pensare che tutte le cause che hanno determinato il passaggio dello scettro dall'uomo alla donna, comunque permarranno. E se quelle cause sono state la causa dell'angoscia maschile e, quindi, dello scadimento dell'identità dell'uomo, lo saranno anche di quella femminile, anche perché si può essere donna quanto si vuole, libera, priva di condizionamenti, unica proprietaria del proprio corpo e del proprio futuro e poi non avere modo di esercitare appieno il nuovo stato. L'ho già scritto e, quindi, mi ripeto. Che dire della proprietà del proprio corpo e poi non essere propensa, pur volendo, a concepire un figlio visto il dilagante disagio sociale che tramuterebbe il nato in un aggravio delle condizioni economiche, in un problema da gestire in presenza di un'occupazione, in un'incognita circa il suo futuro? E come concepire la libertà economica quando il lavoro scarseggia? O cosa dire della libertà quando essa si volgarizza sovente in una sterile contestazione familiare (genitori e compagno) oppure in un uso indiscriminato ed avvilente della propria sessualità, ben prima dell'età della ragione? Ma tutte queste problematiche restano in mente Dei, senza alcuna riflessione su quali saranno gli assetti futuri di un popolo, privato della speranza, spogliato dai valori e senza alcun anelito ideale. Quello che si preferisce è 'dimostrare' di ovviare ad una 'disattenzione', ostentando addirittura disgusto quando il passato vessatorio dell'uomo sulla donna emerge in tutta la sua terribile crudezza rappresentata da tanti episodi, nonostante il 'sistema' opprimente fosse sotto gli occhi di tutti, che lo hanno consentito, come pure i singoli episodi che lo hanno determinato. Così, in questa comoda indignazione collettiva, può partire, in tutta evidenza, la crociata liberatoria. In un articolo apparso sul Corriere della Sera lo scorso 17 ottobre, la sua redattrice, Annalisa Grandi, ha fatto un pezzo su Weinstein, il grande 'satana'. E, nel testo, ha riportato ampi brani di un recente post apparso su Facebook dello sceneggiatore-produttore Scott Rosenberg. "Io c'ero. C'ero dal 1994 agli anni 2000. L'età dell'oro. Gli anni di "Pulp Fiction", "Will Hunting", "La vita è bella". Harvey e Bob (i fratelli Weinstein) hanno prodotto i miei primi due film. Avrebbero pubblicato il mio romanzo. Mi hanno consacrato, mi hanno dato la mia carriera. Avevo a malapena trent'anni". "E quei giorni gloriosi a Tribeca?2 - ricorda lo sceneggiatore - Le riunioni diventavano programmi che poi diventavano notti folli in giro per la città. … Quindi sì io c'ero. E lasciatemi essere chiaro su una cosa: tutti sapevano". "… sapevamo dei suoi comportamenti aggressivi. Sapevamo della fame di quell'uomo, come un orco insaziabile uscito dalle favole dei fratelli Grimm. Tutto avvolto in promesse vaghe di ruoli nei film. E sapete perché sono sicuro che sia così? Perché io c'ero. Vi ho visti. Ne abbiamo parlato insieme. Voi, i grandi produttori; voi, i grandi registi; voi, i grandi agenti; voi, i grandi finanzieri. E voi, i capi dei grandi studios rivali; voi, i grandi attori; voi, le grandi attrici; voi, le grandi modelle. Voi, i grandi giornalisti; voi, i grandi sceneggiatori; voi, le grandi rockstar; voi, i grandi ristoratori; voi, i grandi politici. Io ero lì con voi". "Ma che avremmo dovuto fare? A chi avremmo dovuto dirlo? Harvey aveva la stampa in pugno. Avremmo dovuto chiamare la polizia? Per dire cosa. Le vittime hanno scelto di non parlare ma se ne avessero parlato con i loro agenti gli avrebbero consigliato di tacere".

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"Tutti conoscevamo qualcuno che aveva ricevuto le sue avances. Ma in qualche modo ridevamo della sua arroganza, la vedevamo come una grottesca esibizione di potere. Era molto più facile per noi crederci. Perché... e qui lo schifo incontra la melma: con Harvey abbiamo passato i momenti migliori. Ci portava ai Golden Globe organizzava feste pazzesche. Cannes, Berlino, Venezia, jet privati, limousine. Una volta mi ha portato ai Caraibi per dodici giorni. Non sapevo neanche che quel posto esistesse. Lui dava, dava, e dava. E i suoi soldati dovevano ripagarlo con una fedeltà degna di un padrino mafioso. Era glorioso, tutto. Che sarà mai se era un po' prepotente con qualche giovane modella? Perché avremmo dovuto noi fermare il gioco? La gallina dalle uova d'oro non capita molte volte nella vita di un uomo. Ci servivano le uova. Okay, forse non ci servivano ma ci piacevano davvero davvero molto" "Per questo sarò eternamente dispiaciuto, per tutte le donne che hanno dovuto subire. … "Mi dispiace … Mi scuso e mi vergogno, perché alla fine sono stato complice, non ho detto niente. Harvey con me è stato meraviglioso quindi mi sono preso i benefici e ho tenuto la bocca chiusa. Ma anche tutti voi dovete scusarvi. Voi sapete chi siete. Sapevate tutto e sapete che io so che ne eravate al corrente perché ero lì con voi. E perché tutti, tutti sapevano". Già. Tutti sapevano. Onestamente, non so cos'abbia indotto, lo scorso 6 ottobre, il New York Times e le due giornaliste Jodi Kantor e Megan Twohey a pubblicare una loro inchiesta su Weinstein, 'Harvey Weinstein Paid Off Sexual Harassment Accusers for Decades' ma fatto sì è che da quell'inchiesta, tre giorni dopo, è scaturito il licenziamento del produttore dalla società che aveva co-fondato e l'avvio del tribunale mediatico, con le 'denunce' di stars di prima grandezza, di stelline e di ragazze pon pon. Premesso che è in corso l'inchiesta della Magistratura, non voglio ergermi a giudice dei tempi di risposta della morale altrui ma che pensare di 'denunce' effettuate dopo venticinque, venti, quindici e dieci anni dai soprusi subiti? Mi chiedo: se le 'vittime', a quel tempo, non avessero voluto sottostare ai brutali voleri, pur avendo meriti avrebbero potuto avviare la loro carriera per divenire oggi le note, apprezzate attrici? Non so rispondermi ma, stando alle parole di Rosenberg, certamente no. E, di contro. Cosa pensare di tutte le ragazze pon pon che, allettate dalle promesse, hanno inutilmente subito brutture per sfondare nel mondo dello spettacolo? Interpretando le parole di Rosenberg, le possiamo considerare prive di talento artistico e compatire per essere state semplice 'materiale di consumo' nell'indifferenza generale. Dopo Harvey Weinstein, un altro personaggio di Hollywood è stato accusato di molestie sessuali. Il caso è stato denunciato da ben trentotto donne al Los Angeles Times per abusi di vent'anni fa e vede coinvolto il regista-sceneggiatore James Toback. Anche lui, come Weinstein, avrebbe avuto un riprovevole modus operandi. Tristemente chiaro è il commento dell'attrice Echo Danon in un tweet: "Se hai fatto parte del mondo del cinema degli anni Novanta sapevi che Harvey Weinstein era un predatore sessuale. Un altro era James Tobak". Che dire di più? Insomma, ciò che sta emergendo a me pare una generale, dilatata, ipocrisia che sta investendo tutto l'Occidente, dopo tanto disinteresse e tanti compromessi morali. Dall'America, alla Francia, all'Inghilterra, all'Italia con la recente caccia all'anonimo regista televisivo che, secondo non


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meglio specificate accuse, sembrerebbe essere un prepotente gallo. Ciò che sta emergendo, insomma, è un grande lavacro dove la società trova occasione per riscattare le sue annose 'disattenzioni' e le oppresse la loro pigra morale, ridando così candore alle coscienze. Per inciso, un po' come sta accadendo col reato d'opinione. Inquadrato giuridicamente al meglio con l'ultima legge del 2006, essa indica una categoria di reati che comprende gran parte dei delitti contro la personalità dello Stato, con particolare riferimento ai reati di propaganda e apologia sovversiva, nonché di vilipendio della Repubblica e delle istituzioni costituzionali. Peraltro, tale denominazione deriva dalla circostanza che la condotta integratrice del reato consista nella manifestazione di un'opinione aggressiva dell'altrui sfera morale, ovvero non rispettosa dei parametri costituzionali previsti in tema di libertà di pensiero. Ora, atteso il chiaro quadro giuridico del reato d'opinione, può sorgere il dubbio che l'unico motivo per rivederlo sia proprio quello sottostante alla libertà di pensiero, ovvero al superamento di quel limite per poterlo configurare. Se così fosse, ciò porterebbe a ritenere che il sotteso scopo della riforma sia proprio quello di limitare la libertà di pensiero. E se, e qualora, i dubbi si concretizzassero, saremmo tutti un po' meno liberi, nella 'disattenzione' generale, pronti tuttavia a riscattare con veemenza la nostra 'libertà' e la nostra coscienza al primo cambio di rotta. Mi accorgo di aver scantonato dal tema ma, se fossi affetta dal morbo del complottismo, potrei aggiungere che la riflessione di cui sopra mi sembrerebbe fare il paio con lo scardinamento dell'attuale società occidentale, peraltro in piena decadenza; privato l'uomo del suo centralistico ruolo tri-millenario, la donna potrebbe attendere invano il suo subentro. Tutt'al più, in forma virtuale, accompagnata da pomposi rétori, squilli di buccine e percussioni di cembali. Così, invece di una nuova età dell'oro, potremmo trovarci in un nuovo oscurantismo, senza neppure la libertà di culto a consolarci, dal momento che Dio è morto. Ma sono solo pensieri in libertà. Per tornare al tema, e concludere, sono proprio le considerazioni sopra espresse che mi hanno indotto a riconsiderare il pregevole scritto di Provenzano e a vederci non una veemenza espositiva a danno o contro la donna bensì una impetuosa denuncia verso una 'disattenta' società e i suoi dichiarati corifei, che la osannano e la adulano, illudendola. Roberta Forte

Note: 1 Marcela Lagarde, Identidades de género y derechos humanos. La construcción de las humanas. - VII curso de verano, Educación, democracia y nueva ciudadanía, Universidad Autónoma de Aguascalientes, 1997, dal sito della Cátedra UNESCO de Derechos Humanos de la UNAM. 2 Il quartiere triangolare newyorkese, sotto Canal Street

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SI FA PRESTO A DIRE GERMANIA

Era da tanto che mancavo da Berlino. C'ero stata nel lontano 1984 per un convegno e mi ero intristita molto, già dal metrò del primo giorno, a bordo di un 'treno fantasma' definito così nella parte Est perché non si fermava nelle stazioni in territorio DDR, presidiate dai Vopos. E, neppure a dirlo, faceva un effetto deprimente 'sorvolare' la Berlino oltrecortina, nei tratti allo scoperto; osservare in quei tratti rassegnazione e tristezza e, al rientro nella parte occidentale, confrontarle con un'apparente normalità. Ne emergeva una città con due distinti stili di vita, separati da un Muro lungo 43 Km che aveva reso il vecchio centro città, rappresentato da Postdamer Platz e dal mitico hotel Esplanade della bella époque, una desolata landa di estrema periferia per ambedue le parti. A quel tempo, al confine del parco del Tiergarten, nel settore britannico, mi ero issata con qualche titubanza su una piattaforma di legno e avevo intravisto, al di là, la malinconia della Porta di Brandeburgo, il simbolo dell'orgoglio tedesco abbattuto. Tuttavia, dopo una avvilita occhiata, ero subito scesa, inquieta. Dall'altra parte, accigliati militi, con tanto di stella rossa sul berretto, erano usciti dalle vicine garitte, mitra in braccio, richiamati da un sottufficiale. Neanche a parlarne, quindi, di scorgere, oltre la Porta, il famoso Unter der Linden che, prima della guerra, aveva visto tra filari interminabili di rigogliosi tigli, le statue di tanti generali tedeschi del passato. Una tristezza che si era aggravata alla vista del Reichstag, il vecchio imponente parlamento, quasi contornato dal Muro che gli correva addosso, già sospeso dal nazismo nel '33 e, allora, definitivamente accantonato a favore della periferica Bonn. E, a tirarmi su di morale, non era bastata neppure una passeggiata nel distretto di Charlottenburg, sempre nel settore britannico, dove i negozi e i grandi magazzini del Kurfürstendamm e della Tauentzienstraße erano divenuti un ostentato emblema, senza garbo né grazia, della superiorità e dell'opulenza del sistema capitalistico occidentale. Quello che si respirava, insieme alla superficiale normalità, era un misto di inquietudine: uno stato d'animo che si era ingigantito davanti al Checkpoint Charlie, il posto di blocco tanto celebrato dalla filmografia delle spy stories, che collegava, quasi ad avvilente paradosso, il popoloso e popolare quartiere di Kreuzberg, di competenza americana, con lo storico, ricco quartiere di Mitte, in area sovietica. Per lenire la mia tristezza non ho potuto neppure far ricorso allo spirituale. Il grandioso settecentesco Duomo, di culto luterano, agibile solamente nella cripta a causa dei bombardamenti di trent'anni prima, era nel settore Est e così la vicina duecentesca


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Marienkirche, di confessione cattolica, uscita indenne dalle distruzioni belliche, quasi contrapposta alla celebre fontana di Nettuno, altro simbolo appannato della grandezza tedesca, rappresentante i quattro più importanti fiumi della Germania: il Reno, la Vistola, l'Oder e l'Elba. Ciò invece che ho potuto fare, nella mia ricerca del trascendente, è stato osservare, dalla parte occidentale, la svettante Torre della Televisione, capolavoro d'ingegneria, fatta costruire negli anni '60 dal governo tedesco orientale a dimostrazione della forza e dell'efficienza del sistema socialista. Alta 365 metri (un intero anno), prima in Europa e seconda solo a quella di Mosca, a guardarla nei giorni di sole, per uno strano gioco di riflessi (e del destino), verso la metà superiore si creava chiaramente una grande croce di luce. Sembrava svettare quasi a protezione dei due interdetti luoghi di culto e del sottostante centro del dissenso intellettuale in territorio orientale: Alexanderplatz, divenuto un altro simbolo noto in tutto il mondo. A quel punto, avrei voluto fare un giro sulla vicina Sprea ma venni sconsigliata perché anche il fiume era intervallato da sbarramenti dissuasori e controllato in armi. Così, non mi era restato altro che dirigermi verso i distretti di Reinickendorf e di Wedding, sotto il controllo francese, per ammirare il fantastico complesso residenziale del Siedlung Schillerpark, costruito tra il '24 e il '30 dall'architetto Bruno Taut. Sia pur indirettamente, era il motivo della mia presenza in Berlino. Ma ci ero rimasta davvero male nel costatare quanta poca cura, dalla fine della guerra, l'Occidente aveva riservata a quel meraviglioso impianto, destinato a divenire un quarto di secolo dopo patrimonio dell'umanità dell'Unesco. Insomma, la visita di allora fu all'insegna della tristezza alla vista di com'era ridotta la capitale della Marca di Brandeburgo, deligiene Regno spirituale di Prussia, dell'Impero tedesco, della Repubblica di audacia temeraria Weimar e del Terzo Reich. Oh! Intendiamoci. Il mio abbattimento non era dato dalla caduta miseranda della sola capitale del Terzo Reich, regime mai sufficientemente stigmatizzato, quanto invece da tanta storica bellezza che, proprio a causa di quello stesso regime, la Germania, ma anche l'umanità, tutta aveva perso. Me ne ripartii qualche giorno dopo, veramente affranta. E dovettero passare oltre trent'anni prima di rimetterci piede; anni durante i quali avevo letto e visto, attraverso i vari sistemi d'informazione, la sempre più impetuosa avanzata economica. Certo, in quei tempi, non nascondo di averla osservata con simpatia ma, più che altro, per l'impianto sociale che era riuscita a porre in essere. La Mitbestimmung mi affascinava e, visti gli opportunismi italiani, mi suscitava un certo stupore pensare che in importanti aziende, già allora note nel mondo per le dimensioni e per la tipologia di prodotti, si praticasse la cogestione: allo stesso tavolo decisionale datori di lavoro e lavoratori, senza pianti datoriali sugli elevati costi del lavoro e senza minacce di licenziamenti a raffica in assenza di aiuti di Stato. Un singolare impianto, definito 'capitalismo dal volto buono' dall'economista Michel Albert, che non aveva impedito alla Germania (con metà Paese) di diventare in Europa il primo partner commerciale, considerato che, da sola, ha visto (e vede) oltre il 36% degli scambi comunitari passare nel suo territorio. Alla fine dell'89, alla caduta del Muro, avevo naturalmente gioito ma, devo confessare, più per la

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sconfessione del regime sovietico attraverso la distruzione di un simbolo che per la riunificazione tedesca. Del resto, erano passati solo cinque anni dalla mia visita e avevo ancora negli occhi le amare immagini. Al più, in quei tempi, ciò che avvertii per il popolo tedesco fu come la fine di una penitenza per un soggetto che conosci appena. Sai che quello che hai davanti è un povero disgraziato che ha sbagliato; privato della libertà, ha visto la famiglia disunita dai servizi sociali e ha saputo che i figli, con la famiglia affidataria, sono cresciuti, hanno studiato e si sono fatti strada nella vita. Un giorno, il disgraziato esce di galera e, dopo ventotto anni, li rincontra. Alla fine della penitenza, tutti gioiscono della riunione familiare. Ecco. Al di là della caduta del simbolo, mi ero quindi rallegrata per sentimento meramente umano. Certo, qualche perplessità me la suscitarono i meccanismi finanziari posti in essere per sopperire ai costi della riunificazione: un'emissione grandiosa di titoli pubblici, a bassissimo rendimento, che il mondo intero si affrettò ad accaparrarsi. In sostanza, mi dicevo, i costi della riunificazione li hanno pagati cash soprattutto investitori stranieri mentre alla Germania era rimasta una lunghissima rateazione di un debito, alla fine della fiera pochissimo al di sopra del suo valore nominale. Beh! Per onestà, mi devo correggere. Non tanto perplessità quanto invidia: non era certo una colpa essere beneficiari di tanta fiducia da vedersi affidati i soldi ad un irrisorio tasso d'interesse da una folla insistente. Un fatto, quello, che comunque accrebbe la mia simpatia che galleggiava su due, distinti, atteggiamenti mentali: c'è da essere veramente 'dritti' nel concepire un meccanismo del genere, era la considerazione da bar. Quella da salotto, invece, era molto più ponderata: veder considerati i propri titoli addirittura come un bene rifugio era un segno di forte solidità e di orgoglio. Certo. Ma insieme all'invidia, la simpatia cominciò a retrocedere lasciando campo all'antipatia: quella che si può provare per i primi della classe, per i 'secchioni', che sembra non facciano alcun sforzo per apparire ad ogni costo boriosi e saccenti. Persino i tassisti, ricordo: alla mia richiesta di essere condotta al Museo Egizio (pronunciato in inglese 'Egyptian museum') il guidatore di turno mi fece capire di non capire. Così, dopo vari tentativi, stavo per rinunciare, quando mi venne in mente di mimare una classica immagine di divinità egizia. Ah! Ägyptisches Museum, fu finalmente la supponente risposta del tassista. Il che deponeva per una scarsa propensione verso il turismo, dal momento che non c'era stato alcuno sforzo di capire l'ospite che non conosceva la lingua, è vero, ma che non ignorava che, dal 1945, inglesi e, soprattutto, americani interagivano quotidianamente con la popolazione e la vita locale. E fu a favore di quest'ultime sensazioni che la mia simpatia s'incrinò definitivamente appena due anni dopo, con il varo del Trattato di Maastricht dove la Germania, senza sentire ragione alcuna, impose ferree condizioni per la nascita dell'Unione Europea. Là, cominciai a sentirmi indispettita da un atteggiamento che giudicai fortemente arrogante. Va bene la vitalità imprenditoriale, la forza economica, la solidità finanziaria, la capacità organizzativa ma avrebbe dovuto esserci anche la consapevolezza che i restanti undici Paesi firmatari, per tutta una serie di ragioni che non giova qui elencare, erano a distanze piuttosto variegate dalla situazione tedesca.


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Per cui, mi dissi, un'unione tra diversi avrebbe dovuto comportare non uno ma una serie di compromessi, sia pur con intenti di coesione, senza che inflessibili obblighi creassero disagi sociali o aggravassero quelli esistenti. Capivo l'intento tedesco di stimolare al meglio i partners ma il cammino europeo era stato talmente lungo, e così originariamente possibilista, da non giustificare ineludibili vincoli e il fondato rischio di gap sociali. Un'irritazione, la mia, puntualmente rinnovata dalle posizioni tedesche su ogni argomento di interesse economicofinanziario comunitario: dalla composizione dei bilanci, all'attività della BCE, alle azioni salvaStati, ai meccanismi di stabilità, al varo del quantitative easing. E non nego di aver giudicato la Germania opportunista, in occasione della Brexit. Dopo tanto risoluto atteggiamento, arrivare a cercare di conciliare le richieste di Cameron, volte ad ampliare le possibilità dell'opting out, peraltro codificate nei Trattati, mi aveva destato un notevole risentimento neppure mitigato dall'indiscutibile danno economico che i tedeschi avrebbero potuto avere dall'uscita della Gran Bretagna, vista l'entità delle loro esportazioni verso quel Paese. Così, ho vissuto trentatré anni sull'onda verso quel Paese della simpatia e del bonario apprezzamento prima e dell'antipatia, dopo. Oddio! Non che la Germania fosse in cima ai miei pensieri o che in fondo al mio essere covasse un rancore profondo. Assolutamente no ma confesso di essere arrivata addirittura a pensare che, senza la Germania, forse l'Europa avrebbe potuto avere maggiori possibilità di divenire una 'comune, serena, casa', comunque per oltre quattrocento milioni di persone. Tutto questo, fino al mio recentissimo ritorno in quel Paese in veste, stavolta, di semplice turista. Ero un po' titubante prima di partire perché, pur conoscendo per le grandi linee i giganteschi passi compiuti negli ultimi tre decenni, ignoravo quale fosse l'ambiente che mi avrebbe ricevuto. Ma, appena arrivata, sono stata subito colta da un clima di affabilità e gaiezza che lì per lì mi ha piacevolmente stupito. I tassisti, sorridenti, parlano inglese e così pure il concierge, il facchino ai piani e il cameriere al bar e al ristorante. Anzi, è abbastanza facile che conoscano persino qualche parola d'italiano. E parlano, altresì, inglese frotte di indiani, turchi, bengladesi, insieme ad un correttissimo e compunto tedesco, tutti al lavoro con atteggiamento (non mi viene altra parola) gioioso. Peraltro, parlano tedesco e inglese anche tanti ragazzi italiani che, dopo un Erasmus, un master, una specializzazione, un dottorato, hanno deciso di fermarsi là perché hanno trovato lavoro, confidando di non tornare più in Italia se non in veste di turisti. E la cosa che mi ha colpito come una folgore è che autoctoni e immigrati dell'uso dell'inglese ne fanno un semplice fatto strumentale senza alcuna contaminazione dell'impianto culturale che fonda il suo essere solo ed esclusivamente sulla lingua tedesca. Subito, mi sono immersa nella città, completamente rinnovata da come la ricordavo, facendo un po' di fatica a ritrovare punti di riferimento. Postdamerplatz è divenuta uno dei centri della rinnovata Berlino sul quale incombono il Sony Center con la sua spettacolare cupola di vetro, la Torre Atrium, la Torre Kollhoff, il Forum Tower, il Beisheim Center e la Bahntower; una serie di costruzioni dalle forme avveniristiche, edificate dall'amministrazione berlinese e vendute a

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grandi gruppi, che ospitano bar, ristoranti, cinema, musei, negozi, punti d'intrattenimento, sedi d'aziende e di forum, siti di associazioni, banche, abitazioni nonché la più importante fermata di metrò di Berlino. Un sito affidato per la realizzazione a diversi architetti, tra i quali il nostro (si fa per dire) Renzo Piano, che ne hanno saputo fare un che di unico il quale, oltre a divenire uno dei maggiori punti di ritrovo dei berlinesi, attira centinaia di migliaia di turisti ogni anno. Ad evidenziare dove correva il Muro, è rimasto qualche lastrone a bella posta e una doppia fila di blocchetti di porfido, inserita nel manto stradale e sui marciapiedi. Un segno, questo, che ripercorre nella città tutto il vecchio tracciato. Poco oltre, davanti al rinato parco del Tiergarten, il Memoriale della Shoah: 2.711 stele, poste in una vasta piazza di quasi 2 ettari, in grado di attirare da ogni parte del mondo oltre 500.000 visitatori ogni anno. Quasi attaccata, la Porta di Brandeburgo, ritornata ai vecchi splendori, contornata da nuovi straordinari edifici, che rende accesso al fantastico viale Unter der Linden. Ed appresso, il rinnovato, prestigioso Reichstag, tornato al suo ruolo originario, dove sul fronte dell'ingresso principale, incisa nella pietra, campeggia la scritta 'Dem Deutshen Volke', Il popolo tedesco. Un popolo che, simbolicamente, addirittura sovrasta il Parlamento potendo accedere alla nuova spettacolare cupola in vetro, posta volutamente sull'aula. Dietro, la magnificenza degli uffici dei parlamentari, adiacenti la biblioteca del Parlamento, tutto religiosamente in vetro per testimoniare la trasparenza. Appena a fianco, il Cancellierato, la sede di Angela Merkel. Un'ampia area, quella del Parlamento e del Governo che, volendo, può essere completamente isolata per ragioni di security. In caso di meeting internazionali e similia, il transito automobilistico nell'area comporterebbe notevoli problemi di sicurezza. Così, è stato realizzato un tunnel, su progetto di Renzo Piano, che, all'occorrenza, viene aperto e vi defluisce il traffico senza intasare le aree circostanti. Ma il nostro architetto non si è limitato a quello: l'Atrium Tower, una delle più belle costruzioni del quartiere Daimler, è evidenziato da un immenso campanile di evacuazione dei gas del tunnel di Tiergarten. La sua funzione pratica è stata tradotta in una mirabile alleanza tra terracotta e vetro che svetta per oltre 60 metri. Il vecchio Checkpoint Charlie, lungo la Friedrichstraße, insieme al vicino Museo del Muro, è divenuto un'attrazione turistica. E, così, il luogo del vecchio dissenso, Alexanderplatz, contornato da edifici storici e da nuove costruzioni sedi di alberghi e di istituzioni culturali, sul quale svetta la singolare Torre della Televisione che, ai due terzi, ospita un ristorante girevole a 360°. I luoghi di culto sono stati completamente ristrutturati e tutti aperti all'incessante flusso turistico: anzi, per la sua magnificenza, forse è il Duomo, di culto luterano, ad intercettarne la maggior parte, a prescindere dal credo praticato. La vicina Sprea è ovviamente tutta praticabile nel tratto cittadino e un gran numero di battelli la percorrono, pieni di turisti che, dopo aver visitato il vicino Museo della DDR, desiderano vedere Berlino dal fiume. E, dopo la gita sull'acqua, poco oltre l'approdo, ecco l'Isola dei Musei: a partire dagli anni '90 e su


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iniziativa del consiglio di amministrazione della Fondazione del patrimonio culturale prussiano (si pensi), è stato varato il cosiddetto 'Masterplan Museumsinsel' che ha previsto il risanamento degli edifici museali e, insieme alla aggregazione dei cinque principali in un insieme museale unico, il riordino delle collezioni divise prima del 1990. Oggi, l'Altes Museum, Il Neues Museum, il Pergamonmuseums, l'Alte Nationalgalerie e il Bode-Museum, posti sull'Isola, dichiarata patrimonio dell'umanità dall'UNESCO, attraggono quasi tre milioni di visitatori all'anno. Analogo riconoscimento che, come accennato all'inizio, è stato attribuito al centro residenziale Siedlung Schillerpark, tornato ai vecchi splendori dopo la quarantennale incuria occidentale. Naturalmente, la Berlino del III millennio ha moltissime altre attrazioni, fatte da grandiose e architettonicamente strabilianti istituzioni museali, culturali e filantropiche, sorprendenti acquari, viali dove si accendono le insegne delle più prestigiose marche internazionali dell'abbigliamento, dell'accessoristica, della cosmesi, della gioielleria, dell'hi-tech dell'arredamento. Ma, ciò che più impressiona è il fatto che, ancor oggi, Berlino è un cantiere a cielo aperto, irto di gru. Dappertutto, si ampliano, si ristrutturano, si ricostruiscono, si erigono cose non da poco. La Berlin Hauptbahnhof, l'avveniristica stazione centrale, aperta nel 2006, ha sostituito altre stazioni della città. I suoi lavori, durati dieci anni a causa di un'infinità di problemi di natura strutturale, architettonica, urbanistica e paesaggistica, hanno visto la positiva sperimentazione di strabilianti tecniche e, tra l'altro, hanno comportato persino la deviazione della Sprea. E, sempre a proposito della Sprea, tutte le zone prospicenti il fiume sono attraversate da una tubazione, giuntata a tratti con grossi bulloni in evidenza: passa rasente i marciapiedi, s'innalza per attraversare strade e ridiscende perdendosi nella città. Dipinta a tratti di giallo, verde, blu e rosso, è un piacevole motivo estetico che non guasta nelle strutture architettoniche attorno. Incuriosita dalla stranezza, ho chiesto informazioni e mi è stato risposto che trattasi di un'idrovora. In sostanza, tutti i lavori su o per fondamenta di costruzioni in prossimità della Sprea hanno problemi di infiltrazione. Così, chi ha bisogno, si attacca all'idrovora che asporta acqua, pietrisco e terrisco. L'acqua rifluisce nel fiume e il pietrisco e il terrisco sono depositati a parte. Una volta ultimati i lavori, la stessa idrovora li rispara nel luogo originario così da evitare eventuali avvallamenti o cedimenti futuri. Basta! Ho visto e narrato abbastanza, sia pur sinteticamente. Comunque, non mi sembra poco per una città che, nel 1945, era stata distrutta per oltre il 75% e che, fino al 1989, ha vissuto tra angosciata rassegnazione e vigile, ordinaria, normalità. In poco più di vent'anni, è nata la nuova Berlino fatta di puntigliose ricostruzioni del vecchio su disegni dell'epoca, gelosamente custoditi, e il nuovo, articolato su ampi viali, spettacolare, fantasmagorico, mirabile, al quale hanno concorso i maggiori architetti di tutto il mondo. Ora, premesso che non sono affetta da relativismo culturale e che considero ogni dittatura obbrobriosa, un delitto contro l'umanità, due aspetti mi sento ancora di menzionare. Nella frenetica Berlino, la domenica è sacra: tutti i negozi di qualsiasi tipo, tutti i centri commerciali, tutti gli outlet sono chiusi. I supermercati aprono solo dalle otto alle dieci. E, alla domanda: Come mai? La domenica si passa in famiglia, mi è stato risposto.

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Il secondo aspetto è il pragmatismo. Accanto al Martin-Gropius-Bau, il museo di arti applicate della casa reale, il cui nome richiama quello del fondatore della notissima Bauhaus, c'è un'area chiamata, senza infingimenti, 'Topografia del Terrore' dove avevano sede le centrali del terrore, appunto, nazionalsocialista: la prigione della Geheime Staatspolizei, la Gestapo, gli uffici del comando delle SS, la dimora del servizio di sicurezza delle SE (SD) e la cancelleria del Reich. Per quanto possa suscitare perplessità, i tedeschi hanno fatto delle aberrazioni del nazismo un punto d'interesse turistico: i milioni di turisti che annualmente visitano Berlino, per oltre l'80%, inglobano nei loro tour anche quel luogo. Non ci sono aggiunte da fare. Anzi, mi correggo. Premesso che Berlino non rappresenta l'intera Germania e che questa, a distanza di ventisette anni, ancora manifesta delle sia pur minime differenze di sviluppo tra le vecchie parti dell'Est e quelle dell'Ovest, non mi risulta che tra i Länder, orgogliosi territori di antica ed accertata origine storica, ci siano spinte secessionistiche o autonomistiche. E, tra l'altro, non ho contezza di vertici della Mercedes, della Volkswagen o della BMW che stiano pensando di trasferire le loro sedi sociali per evitare gravami fiscali. Sono ripartita piacevolmente sorpresa e un tantino depressa. RF


PUNTO DI VISTA/REPLICA

PERCHE’ “CRISI DELL’OCCIDENTE”? Ritengo opportuno ritornare, con un'ultima breve chiosa chiarificatrice, sul contenuto del mio recente scritto "La Crisi dell'Occidente" che "CONFINI" mi ha gentilmente pubblicato nella sua edizione dello scorso settembre. Noto infatti come, in questi ultimi tempi, il tema di tale "crisi" sia spesso ricorrente su vari mezzi di informazione. Crisi geopolitica, finanziaria, demografica, climatica, sociologica, religiosa e così via. Tra di esse spicca con evidenza la constatazione di una vera e propria "crisi" dell'Occidente in quanto tale intesa essa sia in senso onnicomprensivo di patologia generale del sistema, sia in quello delle singole sofferenze che si riscontrano nell'ambito della sue varie componenti le quali concorrono poi, nel loro reciproco relazionarsi, a costituirne un'unità. Lungi da me fare alcun commento sulle diversificate crisi mondiali di aspetto settoriale e sulle relative, eventuali cause e/o concause. Non ne avrei assolutamente competenza di sorta. Ma di una - e di una soltanto di esse - sento di poterne parlare con cognizione di causa dato che in tale crisi ci vivo dentro da anni, la sento "sulla mia pelle", ne sono testimone e, a causa della mia età, sono in grado di registrarne un certo percorso storico in relazione alla mia diretta esperienza esistenziale. Intendo quindi sottolineare con vigore come, nelle mie riflessioni, io abbia inteso far riferimento unicamente alla sopra menzionata crisi dell'Occidente, inteso quest'ultimo come fenomeno chiaramente collocabile in ambito storico e ricompreso nei 25 secoli trascorsi all'incirca dal V secolo a. C. all'appena trascorso XX secolo d.C. e null'altro; ciò pertanto senza alcun riferimento sia a periodi storici, o addirittura preistorici, ad esso antecedenti che a qualsivoglia sorta di eventuali, astratte speculazioni di tipo "futuristico". Dunque una semplice fotografia "spot" e qualche sofferta, relativa dubbiosità sullo "stato dell'arte" della crisi dell'Occidente: in tanti ne parlano, la analizzano, la vivisezionano, cercano di interpretarla, di darle un senso intelligibile ammesso che tale senso possa essere colto da comuni mortali che si confrontano con tale tema data l'intrinseca limitazione determinata dal fatto che gli osservatori medesimi vivano all' interno del fenomeno stesso e che da tale asfittico angolo di visuale tentino l'ardua impresa di darne una qualche lettura di sintesi. Pur tuttavia, allo stato attuale di tali tentativi, le varie cause della crisi fin'ora individuate mi sembrano sì aderenti e/o compatibili col tema in esame, ma tutte quante attribuite a motivazioni di tipi ESOGENO al fenomeno stesso. La Civiltà dell' Occidente è, come è evidente, un fenomeno attuariale che, come tutti i fenomeni di questo mondo, ha avuto una genesi, uno sviluppo e non potrà che avere una ineluttabile fine.

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PUNTO DI VISTA/REPLICA

Tutte le civiltà studiate storicamente hanno seguito tale percorso e credo che la loro estinzione non abbia avuto - fortunatamente almeno fin'ora! - ripercussioni sensibili sul più generale equilibrio del Creato. Pertanto, mettiamoci l'animo in pace su un elemento assodato: l'Occidente è nato, si è sviluppato e purtroppo, come noi anziani ben constatiamo quotidianamente con malinconia, sta ormai avviandosi verso la sua fine. Ma ciò - secondo me e fatte comunque salve le numerose concause che contribuiscono, chi più chi meno, al formarsi del fenomeno - tale estinzione si sta verificando per una causa prettamente ENDOGENA derivante da una patologia di tipo AUTOIMMUNE. E' infatti soltanto al proprio interno e per una improvvisa (e per molti versi abbastanza imprevedibile), tumultuosa modifica genetica della sua essenziale componente di fondo che va ricercata la causa di tale attuale crisi. Intendo con ciò riferirmi all'inesorabile dissolversi di quell'impronta prettamente MASCHILE ( o, se si preferisce, MASCHILISTA) che tale patto esistenziale umano si era dato dalla sua origine ad almeno la prima metà dello scorso XX secolo. L'Occidente si è infatti formato, sin dal suo apparire, con una struttura che, piaccia o meno, è stata di natura prettamente maschilista, fatta da maschi e per i maschi. Come ho già avuto modo di illustrare più ampiamente nel sopra citato numero di "CONFINI", l'attuale fenomeno di FEMMINILIZZAZIONE della società occidentale ne mina dall'interno la struttura di fondo e ne favorisce la dissoluzione (quest'ultima intesa, soltanto ed ovviamente, come estinzione di uno specifico "patto sociale" di tipi storico e strutturalmente intrinseco alla - ma non monopolizzato unicamente dalla - civiltà occidentale senza che, da parte mia, se ne voglia suggerire, Dio me ne guardi (!), ALCUNA VALUTAZIONE di "merito", sia esso esistenziale, sociologico, etico o morale che dir si voglia). Nella mia precedente, e per forza di cose sintetica disamina, sono partito dalla constatazione di alcuni specifici elementi di fatto, ed ho elaborato un ragionamento, mi auguro sostenibile, che però, come tutte le disamine che abbiano per oggetto una materia vivente e soprattutto in costante divenire, non può non interrompersi - concludendosi altresì nello stesso istante in cui tali riflessioni vengono elaborate - che con una serie di DOMANDE specifiche per le quali non esiste comunque alcuna possibilità di RISPOSTA dimostrabile. Nel primo millennio di vita della così detta civiltà Greco-Romano- Cristiana (diciamo dal 500 a.C. al 500 d.C. circa), i GRECI di Atene (da Atena, dea della Sapienza nata dalla mente, cioè dal pensiero stesso, di Giove) "concepiscono" e "narrano", i ROMANI "strutturano" e "codificano" e la CHIESA CATTOLICA "spiritualizza" e "fideizza" dando vita a quella nostra civiltà, la GrecoRomana-Cristiana appunto, sulle cui caratteristiche non credo sia il caso di dilungarsi essendo noi contemporanei occidentali ben consapevoli di essere ancora corpo vivo di tale fenomeno storico, anche se, purtroppo, in modi molto più affievoliti e sempre meno attenti alla sue delicate ed insopprimibili esigenze di mera sopravvivenza. La recente FEMMINILIZZAZIONE di detta nostra civiltà con la relativa ed evidente "morte" del Padre (facilmente constatabile in quanto quotidianamente sotto i nostri occhi), ha soffocato la sua essenziale linfa vitale data da quel maschile patto generazionale di tra-dizione socio-


PUNTO DI VISTA/REPLICA

culturale di tipo paternalistico che implica necessariamente una visione prospettica FUTURISTICA concreta e gestibile. In buona sostanza il nostro Padre storico ha allevato fin'ora il figlio nell'ottica che, successivamente ed entro consolidate linee guida di tipo moralmente e sociologicamente condivise, tale figlio provveda a sua volta alle esigenze di continuità della società di appartenenza pur sviluppandosi naturalmente in modo autonomo. Tendendo invece la DONNA/MADRE (caratterizzata da notevoli capacità di analisi "spot", ma carente di visione di sintesi universalistica di più lungo periodo) a riferirsi piuttosto all'immediato episodico, ella tende a curarsi principalmente dei bisogni contingenti del figlio, con limitate prospettive temporali e poco propensa in genere a forme di "privazione" nell'attimo presente mirate ad un "risparmio" ed ad un "investimento" (nel senso più ampio dei due termini) in vista di attesi, più onnicomprensivi , vantaggi futuri. In tal modo si impedisce al giovane di ereditare e consolidare quella struttura mentale rivolta verso un futuro che ha costantemente forgiato il nostro Occidente e che è stata da sempre caratteristica peculiare dell'ormai moribondo, platonico genitore. Dalla madre la figliolanza viene instradata a gestire al meglio le varie sfaccettature di quell'ETERNO PRESENTE nel quale l'attuale società mondano-consumistica di tipo monadicoautistico auspica (o meglio, pretende) che essa sia formata affinché possa felicemente accomodarsi (in psiche e cultura) in quel beota gregge etero-diretto ed acriticamente recipiente che costituirà la planetaria società di massa del prevedibile futuro. Di conseguenza, con il subentro della genitrice al genitore si indeboliscono e decompongono le Istituzioni sociali ed economiche che sono state, in sostanza, tutte figlie di quel modo platonico/euclideo di guardare alla - e gestire la - realtà circostante ed in cui l'umanità dell'Occidente si è trovata a vivere negli ultimi due millenni e mezzo. Progettarne e costruirne una nuova è l'ineludibile, sofferta ed al momento conflittuale e contraddittoria sfida globale della contemporaneità con le relative incertezze esistenziali, dubbi, confusioni e paure. Domanda: Ci si riuscirà ? Sarà capace l'Occidente, ormai immerso nel tramonto di quel suo modo di essere con il quale più di 125 generazioni sostanzialmente maschiliste si sono fino ad oggi rapportate, di trasmettere ad un qualcosa sostanzialmente "altro" (come di fatto sono, e peraltro sono sempre state almeno in tempi STORICI, le sue Eva), in un ahimè (!) non lontano futuro, una testimonianza culturale di se sufficientemente stimolante e feconda da poter costituire la base per un NUOVO patto di convivenza sociale che sia degna dell'esigenze di armonico sviluppo di quel superiore "animale", fantasioso e pensante, quale è appunto l'essere umano strutturalmente composto (non dimentichiamolo mai !) non solo da maschi e da femmine, ma soprattutto da UOMINI (veri) e DONNE (vere)? Me lo auguro sinceramente per le future generazioni (certamente non più per me, considerandomi io, ormai, in "lista d'attesa" per l'Aldilà) purché tale PASSAGGIO DI TESTIMONE, già tumultuosamente in corso, non si cristallizzi alla fine in un'amorfa società dedita unicamente alla fruizione di costanti, e sempre inappaganti consumi materiali ed alla divinizzazione di sterili forme di fredde iper-tecnologie auto fecondanti. Antonino Provenzano

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EUROPA

Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

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