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Web-magazine di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

IL TEMPO

Raccolta n. 57 Ottobre 2017


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Confini Webmagazine di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Raccolta n. 58 - Ottobre 2017 Anno XX

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti - Cristofaro Sola +

Hanno collaborato: Alice Balei Gianni Falcone Roberta Forte Pierre Kadosh Lino Lavorgna Giulio Meotti Antonio Provenzano Angelo Romano Cristofaro Sola Massimo Sergenti

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Contatti: confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

DOVE VA IL TEMPO CHE PASSA? Si insinua nelle cose viventi come nella materia e le pervade per consumarle, per invecchiarle, per spegnerle. Esso si nutre di energia senza mai riposare e spegne le stelle come le vite e non potendo crescere, ma solo distorcersi, alimenta lo spazio freddo e vuoto tendendo al nulla. Che sia il tempo la materia oscura? Quando tutte le galassie e le stelle saranno spente - ed è solo questione di tempo - sarà solo l'oscurità in uno spazio senza più senso come la morte. Il tempo è la morte che avanza, che accompagna ogni cosa al suo nascere: cenere alla cenere, polvere alla polvere. E' Crono che divora i suoi figli o è il Chronos orfico? Eppure esso è il presupposto della vita, della germinazione, del crescere, della maturazione, dell'accumulo di esperienze, dell'evolvere del tutto, forse per questo Francesco d'Assisi lo chiamava "sora nostra Morte", perché tempo e morte sono quasi sinonimi: la morte che avanza e quella che si compie. Per la scienza, che sia l'elettrodinamica, la relatività o la quantistica, il verso del tempo è indifferente, ma i suoi effetti sono sempre "chao ab ordo", ossia entropia, e non viceversa. Anche se qualcuno sostiene che se fosse la gravità la causa dell'espansione vi sarebbero due futuri possibili. Tuttavia per l'umana esperienza la vita è paragonabile ad una bobina di tempo trascinata dal destino e la velocità angolare della bobina si fa più alta man mano che questa raggiunge la fine. E', difatti, esperienza comune delle persone mature, come degli anziani, che il tempo diventi sempre più veloce col passare degli anni. Da ragazzi un pomeriggio era spesso interminabile, ci si poteva giocare, studiare e annoiarsi. Da adulti lo stesso pomeriggio è solo un attimo fugace. Certo sono solo individuali percezioni, come tali relative, ma cosa non è relativo nello spaziotempo? Potremmo davvero vivere in uno degli infiniti "universi e mondi" che, a getto continuo, vanno ad accrescere la massa di un inconoscibile "multiverso". Due soli concetti hanno sconfitto il tempo: il “motore immobile” di Aristotele ed il buco nero. Eppure il tempo è la sola cosa che ci appartiene che tutti cercano, con crescente insistenza, di portarci via. Quasi tutto nella nostra civiltà punta alla nostra attenzione, ossia al nostro tempo. Libri, giornali, televisione, radio, cinema, Internet, pubblicità, la cosiddetta industria del tempo libero, ma anche le relazioni, la religione, la socialità, l'impegno civile presuppongono dedizione e tempo. L'accerchiamento è tanto serrato che il tempo per noi stessi, per produrre idee, pensieri, sogni e auto-consapevolezza, si riduce sempre di più. Angelo Romano


SCENARI

IL TEMPO

Non c'è che dire: il tema di questo numero è uno di quelli tosti che ti portano a spaziare nei campi più disparati e a chiederti come agganciare alla realtà che ti circonda fantastici concetti sul tempo che, però, s'infilano in riflessioni tra le più disparate discipline con le quali hai poca dimestichezza. Beh! Qualcosa ti ricordi: prima del Big Bang, almeno per quanto se ne sa, il tempo non c'era. Poi, con il Grande Botto, è cominciata la conta. E … quindi? Quasi, quasi ti verrebbe da chiederti chi sia stato l'artefice dello scoppio e, in conseguenza, del tempo. Vuoi vedere che sia Dio? Quale Dio? No … non corriamo. Il concetto del tempo risale a ben prima dell'anno Ø. Gli Egiziani avevano Toth, dio della sapienza e, tra l'altro, della misura del tempo. Ma non è lui l'artefice. Un dio, quello, che fa il paio con l'induista Indra e con la romana Carmenta. Un momento … I greci, però, ce l'avevano un dio 'creatore'. Beh! Almeno del Tempo. Crono, il divoratore dei figli, il tempo che distrugge ogni cosa, almeno secondo la Teogonia di Esiodo. Dopo un momento di riflessione, tuttavia, non ti sembra il caso di sposarlo. E che diamine … lo vogliamo ridurre ad una semplice forma e sintetizzare il tutto in un elementare atto? Anche perché il grande padre dell'Olimpo non era Zeus, scampato al cannibalismo del genitore grazie ad un artifizio della madre? Il tempo, quindi, in quella forma, compirebbe atti disattenti e parziali che mal si adatterebbero al generale, inevitabile, suo scorrere. No… no. Non va bene. Ma, allora, ti chiedi con affanno, se non è Crono, chi possiamo individuare come deità rispondente alla bisogna? Vuoi vedere che aveva ragione Aristotele e la sua Metafisica nell'individuare nel Motore Immobile la causa prima del divenire dell'Universo, in sostanza dello scorrere del tempo in un rincorrersi di cause ed effetti? Però … non l'aveva vista male. Se la vita non è altro che una cadenza temporale di cause ed effetti, procedendo a ritroso necessariamente si deve trovare la causa nativa, priva di moto, l'origine immobile del tutto, Dio, un qualcosa di forma e di atto allo stato puro. Già. Stai tirando quasi un sospiro di sollievo pensando che è l'amore di Dio a far muovere il mondo nel suo imperscrutabile disegno ma, un attimo dopo, cadi nella più profonda prostrazione: come è possibile, ti chiedi affranto, che un Dio possa permettere alla sua ultima creazione, l'uomo, di rendere la Terra nel tempo un persistente campo di battaglia, un continuo frantumarsi di scontri, di contrapposizioni: come può l'uomo commettere atrocità contro i suoi simili?

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SCENARI

Nel successivo momento, però, ti fermi perché ti rendi conto che la tua riflessione risente della concezione cristiana di Dio. Ma, allora, ti interroghi in conseguenza, Dio non ama la sua creazione? In verità, è una bella domanda alla quale, però, non ti senti di rispondere ponendo sul piatto in via tombale il 'libero arbitrio' perché ti addentreresti in una ridda di concetti che ti lascerebbero esterrefatto. Infatti, saresti alle prese con le implicazioni che un tale concetto ha in campo religioso, etico e scientifico: la divinità, in quanto onnipotente e onnisciente, può scegliere di non utilizzare il proprio potere per condizionare le scelte degli individui? E qualora se ne negasse l'esistenza, su cosa si baserebbe la responsabilità nel rispondere delle azioni compiute? Ma, ammettendone la sussistenza non si affermerebbe l'indipendenza del pensiero, e quindi della mente, dalla pura causalità delle leggi scientifiche? Per risolvere il busillis, Agostino d'Ippona distinse la libertà propriamente detta, ossia la capacità di dare realizzazione ai nostri propositi, dal 'libero arbitrio', inteso invece come la facoltà di scegliere, in linea teorica, tra opzioni contrapposte, ossia tra il bene e il male. Mentre cioè il 'libero arbitrio' entrerebbe in gioco solo nel momento della scelta, rivolgendosi ad esempio al bene, la libertà sarebbe incapace di realizzarla a causa del peccato originale. Oh! Mamma … Alla faccia della soluzione …. E ciò senza scomodare Lutero, Erasmo da Rotterdam e Calvino. Ma tu guarda cosa vai a scatenare appena accenni all'amore. E però, a questo punto, potresti chiederti: il Tempo con l'amore che c'entra? Eeeh! C'entra, c'entra o, almeno, c'entra nella concezione aristotelica perché Il Motore Immobile, in quanto immobile, è amato e, pertanto, l'umanità scandisce le sue azioni e i suoi ritmi sulla spinta di quell'amore; da lì il fluire del tempo. Mentre il Dio cristiano ama, quindi è attivo. Ha dato corso al Tempo con il Grande Botto, ha posto l'amato essere umano sulla Terra, gli ha dato l'intelligenza per fabbricarsi un orologio al fine di evitare ritardi sul lavoro e negli appuntamenti, poi gli ha dato la possibilità di scelta tra bene e male e, infine, gli ha promesso la vita eterna, se farà bene, dove il Tempo non avrà più scopo. Oh! Beh! Tante corse per niente … o tante corse per il tutto. Dipende dai punti di vista. Ma quando arrivi a questo punto, la prima cosa che ti viene in mente è se all'attuale classe politica Dio abbia dato un senso del Tempo comune a tutti gli altri. Perché, ti domandi, attesa la libertà di scegliere, dovrà pur esserci una ragione al fatto che questo Paese viva in una fase di transizione da ben venticinque anni, dimostrando in maniera inequivocabile la relatività del Tempo, con grande soddisfazione di Einstein. E, poiché la velocità influisce sull'andamento del Tempo stesso, trovi almeno consolazione nel fatto che tale influenza agisca sia in un senso che nell'altro; cioè, sia andando avanti che indietro. E già … il Tempo, con la velocità, rallenta e questo è ciò che deve essere avvenuto in Italia per imperscrutabili motivi fisici. Il fatto, però, è che per questo Paese non solo il Tempo è rallentato ma è anche la sua direzione che ha un che di ambiguo. Ben sedici Governi in venticinque anni, con gli assetti del mondo che cambiano senza che sia nata una linea programmatica, senza il concepimento di un progetto prospettico. Da venticinque anni, le riforme rincorrono riforme senza che venga riformato alcunché.


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Da un quarto di secolo, la politica si frantuma, prova a ricomporsi per frantumarsi nuovamente, dando ragione alla teoria della 'freccia del tempo' formulata per la prima volta nel 1927 dall'astrofisico Arthur Eddington. Sì, hai ben compreso. La 'freccia del tempo'. In sostanza, secondo quella teoria, quando i liquidi si mescolano, la sigaretta si consuma, un uovo si rompe, la radioattività di un atomo decade, ecc. ecc. non è più possibile ripristinare lo stato originario. E questo ci dà il senso del passato e quello del futuro, la 'freccia' appunto. Opps! … passato e futuro. Sicuramente, non volevi arrivare a tanto. Non certo a 'Quando c'era Lui, caro lei', quando i treni arrivavano in orario e le porte di casa si potevano lasciare aperte. Discorsi senza senso persino in quel contesto storico. Figuriamoci in questo … Ma, se avanzi (o retrocedi?) nel tempo ad un passato più prossimo, puoi trovare una politica fondata sulla cultura che, sebbene connotata, aveva comunque in sé la dote di un passato e il senso del futuro e di una progettualità confacente. Ed il bello è, te lo tolgo subito dalla mente, che non è questione di tempo di sinistra e tempo di destra. Ambedue queste …. non so come chiamarle … diciamo 'dichiarate odierne connotazioni', se da un lato, in via generale, non rispecchiano più l'accezione originaria, dall'altro non hanno più radici in un passato e non hanno alcuna propensione ramifica circa il futuro. E non ti venga il dubbio che tutti gli operatori della politica siano divenuti dei seguaci del pensiero di Agostino d'Ippona. Per il santo vescovo, infatti, è plausibile che il tempo non scorra e che sia reversibile. Nel suo pensiero, noi non ci spostiamo mai dal presente e viviamo il passato solo nel presente del ricordo e il futuro solo nel presente dell'attesa. Il tempo, presente tridimensionale, misurato dall'animo nella sua distensione, sarebbe dunque elastico: si restringe e si concentra quasi in un punto solo nell'attenzione, si allarga 'all'indietro' nel rammentare e si prolunga 'in avanti' nell'attendere o nel progettare. Inoltre, secondo il sant'uomo d'Ippona, l'impressione del passato e quella del futuro si possono modificare: nel senso di rendere il passato più leggero col perdono, concesso o ricevuto, e l'incertezza del futuro meno gravosa con la fiducia nella grazia di Dio, alimentata dalla speranza o dalla fede laica nel progresso. Ora … dimmi. Che un politico oggi viva in un continuo presente è un fatto assodato ma ce lo vedi a 'rammentare' e a 'progettare', a 'perdonare' e ad attendere la grazia? Figuriamoci ad avere fede nel 'progresso' No. Non credo. Lo so che a questo punto sei frastornato e potresti chiederti come sia possibile che il tempo scorra anche per loro se non si allontanano mai dal presente. E, del resto, se tutto è immobile, nonostante l'apparente odierno agitarsi, se come nel caso attuale mancano i punti di riferimento che ti diano la percezione del movimento, chi potrebbe sentirsi di affermare che il tempo scorra? Non so darti pienamente torto ma, non ti paia strano, è ancora una vota Sant'Agostino a salvare la situazione e a fornire per il 'loro essere' una spiegazione. Per lui, è il nostro animo, e non il movimento degli astri, a misurare il Tempo. Ti vedo con il viso perplesso: ebbene, 1700 anni fa, il vescovo d'Ippona anticipò le scienze moderne e, nella sostanza, scoprì anzitempo il ritmo circadiano spontaneo. Significa che uomini, animali e piante possiedono un orologio interiore che da loro un ritmo di vita di circa 25 ore (ossia di quasi un giorno, circa dies).

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Una simile regolarità, peraltro, è stata rinvenuta in certe cicale americane che si mettono fragorosamente a cantare ogni diciassette anni. Un momento … non voglio dirti che il 'ritmo circadiano' degli attuali politici potrebbe essere superiore a venticinque anni per cui, una prossima mattina, potremmo sentire alla radio, vedere in televisione o leggere sui giornali una qualche presa di posizione, una qualche idea, un qualche proponimento che superi in prospettiva la durata di un giorno. No. Voglio più semplicemente dirti che Dio con loro è stato 'matrigna' perché, con ogni evidenza, o non li ha amati all'atto della creazione oppure ha nascosto loro le istruzioni per la costruzione dell'orologio. No. Non temere. Non voglio essere blasfemo né irrispettoso: ho preferito le due suddette ipotesi a quella di pensare che non abbia dato loro l'intelligenza. In ogni caso, non voglio scantonare dalle mie, dalle nostre responsabilità: siamo stati noi a consentire la mutazione della politica, il suo imbarbarimento, il suo scadimento a brodo primordiale, ad uno stato culturale da australopiteco. Nostra è la responsabilità come quella di un genitore disattento all'insorgenza di handicaps nella sua amata prole. Ci siamo lasciati distogliere da imbonitori di provincia, da futuristiche smaglianti signorine con gambe nude e seni svettanti da un lato e, dall'altro, da futuristiche, sofferte inchieste sul senso della vita … nel gambero. Ci siamo lasciati persuadere, in nome di un vanesio progresso, dell'esigenza di partiti leggeri che hanno finito per scollarsi dal territorio e, per dare percezione all'insostenibile leggerezza del loro essere, abbiamo accettato l'imposizione di liste bloccate che hanno permesso la vasta imposizione di igieniste dentali, di studenti progressisti, di massaie annoiate, di giovani audacia temeraria igiene spirituale professionisti in praticantato, che nulla avevano a che fare, fino ad un attimo prima, con la politica e che, nella stragrande maggioranza dei casi, continueranno ad averci poco a che fare. Individui che ignoravano le più basilari conoscenze sulla vita delle istituzioni repubblicane, accompagnati da nani e ballerine che poco tempo prima allietavano il desinare dei potenti, sono stati sbalzati dalla sera alla mattina nel prestigioso palazzo di Montecitorio e hanno varcato la soglia dell'aula con lo sguardo tra l'atterrito, il trasognato e lo strafottente, in ogni caso incosciente dell'alto compito che ci si sarebbe atteso da loro. E, già che c'eravamo, abbiamo persino sposato, entusiasti, l'idea che un soggetto collettivo intermedio, forse il maggiore tra i pilastri di una democrazia, fosse identificato unicamente con il suo leader, frantumando in tal modo la sua ragione istitutiva. Così, in nome di una modernità senza senso, abbiamo privato di senso sia il nostro futuro sia quello dei nostri cari. Ed ora, purtroppo, non possiamo pretendere che i nostri rappresentanti, del resto simili a noi ma inebriati dal potere della rappresentanza che paradossalmente li porta ad allontanarsi dai rappresentati, abbiano contezza della tutela che dovrebbero esercitare, abbiano chiaro il percorso che dovremmo intraprendere. Così, senza senso, continuano a vorticare, agitati da pochissimi pupari. Lo so, a questo punto, cosa stai pensando. E ti dico subito: NO. Non si può fare, gli attuali artefici della politica non possono tornare indietro, sono in un processo irreversibile.


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Del resto, l'Universo è pieno di processi irreversibili, nel senso che ciò che è fatto è fatto: possiamo trasformare un uovo in frittata, il latte e il caffè in un cappuccino, trasportare il calore da un corpo caldo ad uno freddo, osservare le persone nascere, invecchiare e morire, ma non viceversa. Ed il curioso sai qual è? È che tutto questo è un mistero perché, per quanto possa apparire strano, non lo ritroviamo nelle leggi fondamentali della fisica. Mi rendo conto di averti un po' ingarbugliato le idee ma hai mai provato a filmare una palla da bigliardo che, scorrendo, cozza contro un'altra palla e poi a proiettare il filmato al contrario? Prova. Nessuno sarebbe in grado, sul piano fisico, di dire se il video, e quindi il tempo, stia scorrendo in avanti o indietro. Quindi, in ciò vediamo una riversibilità e, quindi, l'assenza della 'freccia'. Calma. Non sto contraddicendo me stesso. Ora, immagina una situazione più complessa, con molte particelle, come accade a livello macroscopico, con una palla che scontra un insieme di palle ordinate: vedrai che queste si sparpaglieranno casualmente sul biliardo. Allora, e solo allora, emergerà la 'freccia del tempo', dal passato verso il futuro, in quanto siamo passati, in maniera irreversibile, da una coppia di particelle ad un grande numero di particelle. E a questo fenomeno, sappi, non presiede la fisica bensì la termodinamica. Immagino che, a questo punto, tu ti stia domandando come tutto questo c'entri con la politica. Ebbene, c'entra perché questo processo disperde energia e, così facendo, non solo riduce l'energia disponibile ma dall'ordine del passato ci proietta in un disordine persistente nel futuro. E, del resto, come non vedere che la disordinata frantumazione e dispersione della politica stia bruciando inutilmente energie e che alberghi sostanzialmente il caos? Non voglio infierire, ma le ultime vicende ne sono una chiara conferma: dallo ius soli, ai migranti, alla legge elettorale. Peraltro, non sono il solo a pensarla così: recentemente, la società di rating Moody's ha confermato per l'Italia la valutazione di Baa2 con outlook negativo, giustificandola con la 'considerevole incertezza' politica, pur ammettendo la crescita. Che garbo. Ma, del resto, come dargli torto? In Italia il calo del Pil è stato più forte della media Ue e la ripresa è più lenta: nel 2016 si pone ancora sotto (-7%) il livello pre-crisi (2007). Invece per Francia e Germania nel 2016 il valore del Pil supera, rispettivamente, del 5,2% e del 9,4% quello del 2007. Anche la Spagna, che pure ha sofferto, nel 2016 ha recuperato quasi completamente (-0,5% sul 2007). Peraltro, le proiezioni indicano il Pil italiano nel 2018 ancora cinque punti sotto il valore 2007. Ti vedo affranto. Non esserlo. La speranza dev'essere l'ultima a morire perché abbiamo di fronte due ipotesi risolutive della situazione: una, altamente scientifica, di recente concezione e l'altra, altamente umanistica, sopita dal tempo e nel tempo. La prima riguarda il lavoro di tre ricercatori (Barbour di Oxford, Koslowski del New Brunswick e Mercati del Perimeter Institute for Theoretical Physics) secondo i quali la 'freccia del tempo' potrebbe non partire dall'arco della termodinamica bensì da quello della gravità. In sostanza, per effetto di quest'ultima, al momento dell'impatto, il sistema di particelle si espanderebbe verso l'esterno almeno in due direzioni temporali, creando due 'frecce del tempo' distinte, simmetriche e opposte.

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Lungo ciascuno dei due percorsi temporali, la gravità attrarrebbe le particelle in strutture più grandi, ordinate e complesse, equivalenti nel modello ad ammassi di galassie, stelle e sistemi planetari. Da qui, il trascorrere del tempo termodinamicamente standard può manifestarsi e distendersi su ciascuno dei due percorsi divergenti. In altre parole, il modello, muovendo da un singolo, caotico passato, darebbe vita a due distinti universi: un passato e due futuri. E ciò in quanto, come è suggerito dall'indifferenza al tempo delle leggi della fisica, la 'freccia del tempo' in un certo senso può muoversi in due direzioni, anche se qualsiasi osservatore può vederne e sperimentarne solo una. Aspetta un attimo … vedo già il tuo viso assumere un'espressione tra l'incerto e il furbetto. Stai pensando, in un caso del genere, a come entrare nel futuro universo giusto, non dico privo ma almeno contenuto in quanto a presenze di politici attuali. Sei il solito opportunista, sai solo rendere presente il futuro: io speriamo che me la cavo. In realtà, così facendo, compiresti solo errori, ortografici nel caso di specie. Fortunatamente, c'è la seconda, sopita ipotesi, piuttosto impegnativa in realtà ma salvifica. E, per trovarla, dobbiamo rileggerci le riflessioni del filosofo tedesco Martin Heidegger, espresse nella sua, sia pur incompiuta, opera Sein und Zeit, Essere e Tempo, e particolarmente le sue ponderazioni circa il modo di essere della verità. "[…] C'è verità solo perché e finché l'Esserci è. L'ente è scoperto solo quando, ed aperto solo finché, in generale, l'Esserci è. […]"'. In sostanza, noi 'siamo' perché ci interroghiamo. E non sul sesso degli angeli. Anche attraverso la lettura di Kant, infatti, possiamo dire che non sarebbe sensato interrogarci su un qualcosa che in sé abbia un valore d'esistenza indipendentemente da noi. Del resto, non c'è scoprimento, non c'èspirituale verità, non c'è nulla fino a che non c'è colui attraverso audacia temeraria igiene il quale avviene lo scoprimento, la verità si manifesta. Peraltro, le cose 'diventano' per opera di colui per il quale esse hanno un senso; tutto ciò che ancora non si è disvelato - reso evidente - non esiste (non è neppure il caso di aggiungere 'per noi': per chi altri dovrebbe esistere?). In sostanza, "[…] In virtù del suo essenziale modo di essere, conforme all'Esserci, ogni verità è relativa all'essere dell'Esserci. […]". Un attimo. Questo non vuol dire che ogni verità sia soggettiva se per 'soggettivo' s'intende arbitrario. Scoprire qualcosa significa renderlo evidente, portarlo in cospetto dell'esistenza sottraendolo al condizionamento. Nondimeno, questo non significa che la verità sia qualcosa di 'oggettivo': la verità 'c'è' perché l'uomo (l'Esserci) è nella verità. Noi non dobbiamo presupporre la verità come se fosse il fondamento dell'essere (l'essenza) di un altro ente; la verità ci è data nel momento stesso in cui 'siamo'. Essa non è una decisione, un atto di volontà, così come non è stata una decisione - un libero atto di volontà - il nostro 'essere-nel-mondo', il nostro stesso Esserci (esistere). Noi siamo nella verità anche nel momento in cui siamo nell'oscurità del nascondimento, della fuga dalla verità. In sostanza, 'Il re è nudo', come affermò il bambino, reso immortale dalla magistrale penna di Hans Christian Andersen, di fronte alla dabbenaggine del sovrano al quale era stato fatto credere, nella sua ricerca dell'effimero, d'indossare il più strepitoso abito, invisibile ai suoi occhi


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ma palese agli occhi di altri i quali, nella più grande ipocrisia, ricoprivano di complimenti lo stesso sovrano, in realtà nudo, appunto. Il 'bambino', e non per coincidenza. È il caos, infatti, l'unica, esatta essenza in grado di partorire le 'stelle danzanti' care a Nietzsche. Il bambino, come ha riportato Roberta Forte in un suo passato articolo, è una 'stella danzante' perché, inconsapevole della sua grandezza interiore, unica e irripetibile è colui che insegue la verità, ma lo è anche il viandante, il coraggioso, e colui che va oltre le convenzioni, le tradizioni, la morale i dogmi precostituiti, i pregiudizi. In sostanza, ognuno di noi ha la possibilità di divenire 'stella danzante'. Cosicché la sommatoria delle 'stelle' possa dare il 'firmamento'. Diversamente, l'unica alternativa non auspicabile è quella di sederti davanti alla TV e guardarti una puntata di 'Che tempo che fa', oppure sperare che 'col tempo e con la paglia' arrivino finalmente a maturazione 'le sorbe e la canaglia'. È un'attesa vana perché il tempo non è vero che sia un gran dottore: è la nostra mente che metabolizza i dolori e induce a sopravvivere. E non è nemmeno un gran maestro: solo le 'stelle danzanti' apprendono dai loro errori. In sostanza, non se ne esce con la TV di Stato e neppure con gli adagi: il ricorso alla prima, nel tempo, abbrutisce; il ricorso ai secondi, da subito, è indice di rincoglionimento. Ah! Dimenticavo. Non aggiungere alla beffa il danno. Non stare a perder (ulteriore) tempo nel chiederti, recriminando, che fine abbia fatto il tempo trascorso. La domanda stessa la pose Einstein al matematico Kurt Gödel ma sembra che non abbia avuto confacente risposta. E se non lo sanno loro … Massimo Sergenti

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IL TEMPO DELLA TRADIZIONE E IL TEMPO DEL PROGRESSO "Che accadrebbe se un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: "Questa vita, come tu ora la vivi e l'hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione [...]. L'eterna clessidra dell'esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!". Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: "Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina"?". In questo aforisma tratto dalla "Gaia Scienza" di Friedrich Nietzsche può racchiudersi il senso ultimo del rapporto che lega l'uomo al tempo. Tempo che è carico di contenuto e d'implicazioni necessarie. Che, diversamente da quanto sostenuto da Hegel in Jenenser Logik, Metaphysik und Naturphilosofhie non è "un processo interamente vuoto" nel quale "la strutturazione delle formazioni porta solo all'apparenza del comprendere". Il tempo si muove seguendo un percorso circolare, per alcuni ellittico, che collega ogni essere umano alla ripetizione di eventi già verificatisi innumerevoli volte prima del presente e destinati a replicarsi in una serie infinita di déjà vu da cui, a ogni passaggio, la sua natura spirituale esce rafforzata. La rappresentazione più fedele del moto circolare del tempo è quella fornita dalla struttura concettuale di fonte tradizionale dei cicli. Un tempo che si rinnova, che nulla concede a quella linea retta proiettata verso l'universo finito del divenire della Storia che è l'espressione grafica più amata dai fautori di una concezione meccanicisticamente evolutiva. Tale visione comporta la determinabilità di una qualità temporale che non appartiene al regno della misura e della quantità, ma può invece essere qualificata. Sono forse tutte uguali le giornate che viviamo? Ve ne sono alcune memorabili la cui durata per il portato significativo degli eventi che in esse si sono prodotti, sembra amplificarsi oltre i limiti oggettivi di durata del ciclo temporale convenzionale. Per intenderci: è la giornata dilatata dell'"eroe" borghese Leopold Bloom, protagonista dell'Ulysses di James Joyce, novello inconsapevole re di ritorno nella sua personalissima, anonima, a tratti squallida Itaca/Dublino, rappresentazione iconica sublime della giornata "eroica" di un uomo qualunque. Mentre ve ne sono altre che per la loro disperante insignificanza potrebbero non essere mai esistite.


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Eppure la loro durata resta ugualmente, ineluttabilmente compresa nell'arco delle ventiquattro ore. Lo stesso dicasi dei tempi storici delle civiltà: a parità di durata le molte civiltà che hanno attraversato il genere umano differenziandolo significativamente, hanno sfruttato l'uguale durata in maniera affatto diversa. Proprio tale difformità sostanziale nella qualificazione dell'elemento temporale consente di classificare le civiltà in un preciso ordine gerarchico che costituisce il fondamento culturale (di kultur nella sua accezione tedesca) sul quale si radica l'incontrovertibile dato di disuguaglianza dei gruppi umani. Fuori da ogni astrazione, scegliere a quale categoria concettuale di tempo appartenere segna la differenza, ontologica, tra opposte visioni del mondo non conciliabili perché non assoggettabili ad alcun processo dialettico di sintesi. Una, dunque, tradizionale e un'altra progressista. Nei rispettivi risvolti concreti, la prima si potrebbe definire di conservazione e trasmissione inalterata, attraverso la Storia, dei valori fondanti l'antico ordine del “?í ? ñ÷Þ"; la seconda potrebbe assumersi a principale cifra identitaria di un pensiero rivolto esclusivamente al divenire evolutivo della mezza scimmia del Pleistocene nel sofisticato professore di Harvard dei giorni nostri. L'una rivendica interazioni nel piano superiore della metafisica, l'altra è ancorata saldamente ai nessi tentacolari di un determinismo causale tra legge di natura e catene evoluzionistiche ineluttabili. Sullo sviluppo di questa linea di faglia sono distinguibili ictu oculi i due profili antitetici della frattura antropologica dalla quale trae scaturigine la molteplicità delle nature umane destinate a confliggere tra loro non potendosi piegare alla diminutio di un processo dialettico che conduca a un'utopica pacificazione del genere umano sotto il segno di un tirannico egualitarismo, soppressore di ogni diversità. *** Per l'uomo della Tradizione che mira, nella vita quotidiana, a conservare il complesso dei valori guida, degli archetipi sui quali fonda la sua civiltà, esistono due distinte composizioni del tempo. C'è un tempo sacro che è diverso dal tempo storico. Il primo, che potremmo definire parmenideo, sempre uguale a se stesso, possiede una qualità ignota al secondo: esso è reversibile. Nel senso che, grazie all'andamento circolare, eventi già verificatisi nel "illo tempore" possono essere riattualizzati interrompendo la scansione cronologica del tempo storico. Ciò che dà impulso al tempo sacro è l'elemento mitico, del tutto mancante nell'altro ordine temporale. Ai fini della definizione del tempo sacro l'individuazione della componente mitica ha il medesimo valore costitutivo che ha il "Big bang" per i fisici e gli astronomi. Il mito primordiale scaturisce improvvisamente e prorompe nella Storia senza che debba, a sua giustificazione, essere preceduto da alcun altro fattore evolutivo. L'accadimento mitico interviene a sancire una tautologia per la quale esso è vero in sé e non necessita di alcun riscontro scientifico o fisico. L'uomo della Tradizione beneficia di questa particolare condizione che gli consente, attraverso la fase della attualizzazione del mito, di poter riassumere nella sua sfera percettiva, collocata sul

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piano metafisico, allo stesso tempo la "fine del mondo" e la sua ricorrente palingenesi nel ciclo continuo di morte-nascita. Cosa desidera sopra ogni cosa l'uomo della Tradizione se non ritrovare, per usare le parole di Mircea Eliade, la presenza degli dei nel mondo fresco, puro e forte che era uscito dalle mani del Creatore? Non si tratta, come sostiene Emil Cioran, di rifugiarsi in una comoda "età dell'oro", versione edulcorata e consolatrice di un mondo statico in cui "l'identità non cessa di contemplare se stessa" e dove l'irrealtà non è mai in sé drammatica. Sarebbe agevole ma riduttivo appellarsi all'alienazione liberatoria delle svariate versioni di paradiso terrestre che le religioni non hanno mancato di propugnare. All'uomo della Tradizione non sfugge il peso che discende dalla responsabilità di accettare la sfida prometeica dell'assalto al cielo. La visione edenica viene rinviata alla dimensione escatologica nel mentre si fa spazio la consapevolezza del combattimento quale fattore propulsivo della dinamica propria del tempo sacro. Se la lotta tra il Bene e il Male, tra la luce e le tenebre fonda ogni ricostruzione cosmogonica ciò non significa che l'apprendimento degli insegnamenti in essa contenuti si limiti all'esclusiva rappresentazione simbolica degli eventi. Anche la proiezione archetipica sulla realtà produce effetti destinati a condizionare, sebbene a differenti livelli di percezione e di risposta, il vivere quotidiano di ogni individuo. Il primo di essi riguarda una questione propria della modernità. Il fautore di progresso "si sa e si vuole creatore di storia". All'opposto l'uomo della Tradizione assume rispetto alla necessità storica un atteggiamento distaccato, quando non palesemente negativo, non riconoscendo ad essa il valore di struttura portante della propria architettura esistenziale. Il problema, come osserva acutamente Mircea Eliade, sta nel diverso approccio alla sostenibilità del processo storico nel quale è immerso l'individuo, suo malgrado. L'appellarsi dell'uomo della Tradizione, per comprendere e giustificare il presente, alla ripetizione della cosmogonia e alla rigenerazione periodica del tempo, gli consente di percorrere una via alternativa rispetto a quella tracciata dalla prospettiva storicistica "per permettere all'uomo moderno di sopportare la pressione sempre più potente della storia contemporanea". È rinvenibile un discrimine nel diverso grado di libertà che le due visioni contrapposte consentono. L'uomo della Tradizione è libero di scegliere la propria collocazione nello sviluppo degli eventi che sono ricomposti a un diverso piano, metastorico, rispetto a quello fisico caratterizzato dall'interazione dei destini umani chiamati a metabolizzarli. Per intenderci, nella eterna lotta del Bene contro il Male che sostanzia ogni cosmogonia, il singolo può scegliere come schierarsi. È l'uomo che possiede la somma prerogativa, manifestazione della sua natura divina, di stare alternativamente dalla parte di Dio o da quella degli angeli ribelli, come anche di decidere se e quando cambiare campo senza per questo alterare o pregiudicare il flusso che invera l'eterno ritorno. Può farlo nella consapevolezza dell'esistenza "necessaria" del male in quanto funzione del bene, che non potrebbe sopravvivere alla definitiva estinzione dell'altro. Come, ugualmente, non sarebbe esistito un Cristo redentore se non vi fosse stato un Giuda disposto a tradirlo, a incarnare


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il male, per liberare la potenza salvifica/provvidenziale del gesto sacrificale, riparatorio di una sincope cosmica. Viceversa, nella concezione storicista la fede nel linearismo del divenire annichilisce la volontà dell'individuo di partecipazione attiva al processo di successione che si produce in forza dell'interazione di paradigmi ideali aprioristicamente individuati in vitro sulla falsariga dei modelli astratti propri delle scienze naturali. Prendendo a prestito la formula di Oswald Spengler, la successione storica si produce autonomamente sia che si tratti di fasi organiche (di Kultur) o che siano fasi meccaniche (di Zivilisation) dell'umanità. In concreto, l'uomo della Tradizione può essere definito, con un'espressione propria di Julius Evola, divoratore del tempo. Con ciò distinguendosi dall'uomo della civiltà moderna considerata, sulla scorta della comparazione evoliana, divoratrice dello spazio. D'altro canto, furono proprio le civiltà tradizionali a distinguersi per la loro stabilità e immutabilità nella temperie della Storia. Furono isole, baluardi che solo l'effetto rifrattivo del raggio di luce artificiale della modernità può far apparire lontane, tramontate, sepolte sotto la polvere della storia, ruderi appetiti dagli archeologi. In realtà, tali civiltà che la modernità considera erroneamente morte non furono ma sono, se le si guarda secondo la "doppia prospettiva" data da un antico insegnamento tradizionale richiamato da Evola in "L'arco e la clava": "le terre immobili fuggono e si muovono per chi va con le acque, le acque si muovono e fuggono per chi risiede saldamente nelle terre immobili". Bisognerà attendere migliaia di anni e le riflessioni di Zygmunt Bauman sugli effetti degenerativi della "società liquida", dissolutori di ogni forma solida di valore archetipico, per comprendere ciò che era chiaro, sul piano spirituale, agli uomini della Tradizione già all'alba del presente ciclo temporale della nostra civiltà. In sintesi, il richiamo alla Tradizione consente ancora oggi, nell'Era che può dirsi di maggiore decadenza della civiltà dell'Occidente, di svelare l'ultimo, crudele inganno della modernità: la conquista dell'Uomo che entra nella Storia. Questa è l'illusoria alterazione di verità alla quale resta aggrappato, come naufrago a un legno marcio, l'uomo crepuscolare dei nostri giorni. L'uomo della Tradizione, al contrario, non cade nella trappola ben consapevole del fatto che l'umanità nel suo complesso non sia entrata nella Storia ma più drammaticamente sia caduta nella temporalità. *** L'aspirazione del tipo umano conservatore non è quella di piegarsi a un regressivo nostalgismo e neanche procedere avanzando con lo sguardo rivolto all'indietro. La ricerca delle origini per lui è solo il naturale disporsi verso la fonte d'emanazione energetica della forza vitale. È come il volgersi dei girasoli all'astro luminoso. A differenza dell'uomo della modernità progressista, divoratrice implacabile di spazi e distanze, bisognosa compulsiva di possesso, patologicamente atterrita da tutto ciò che si presenta distaccato, lontano, oltre l'orizzonte finito della pura materialità, l'uomo della Tradizione, il conservatore, è fautore del "tempo vivente".

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Del tempo che si rigenera a ogni passaggio di ciclo. Del tempo che, come direbbe lo Zarathustra di Nietzsche, sa risorgere perché sa tramontare. Tale condizione pone in capo all'uomo della Tradizione la consapevolezza del suo essere non padrone del mondo reale ma depositario e custode di un tempo che racchiude in sé passato, presente e futuro. Egli è tenuto a trasmetterlo alle generazioni successive curando di preservare l'integrità dell'impianto. Ecco dunque spiegata la ragione dell'opporsi del "conservatore" agli assalti demolitori che sono nella natura evoluzionista del "progressista". Suolo patrio, identità di stirpe e di genere sessuale, lingua, religione, costumi non sono elementi sovrastrutturali di una cultura della cittadinanza, suscettiva di cambiamenti in ragione dell'evoluzione delle dinamiche sociali innescate all'interno di un gruppo umano omogeneo, ma pilastri di fondazione di una civiltà. Come tali essi non sono sopprimibili se non a prezzo di una sconfitta che determina la decadenza, fino all'estinzione, di quella civiltà che si è posta, più o meno consapevolmente, sul piano inclinato del relativismo morale e spirituale. D'altro canto, sarebbe sufficiente osservare la natura per comprendere il senso delle cose. È, ad esempio, emozionante assistere allo spettacolo dei salmoni che risalgono la corrente per tornare, sul finire del loro ciclo vitale, a deporre le uova nei luoghi dove sono stati generati. I salmoni che nasceranno, a loro volta, ripercorreranno il medesimo percorso : si allontaneranno dalle sorgenti per farvi ritorno da salmoni, non da trote. Ugualmente l'uomo che risale il ciclo delle sue età per ricongiungersi al principio nel "illo tempore" del fattore primordiale deve consegnare ciò che gli è stato trasmesso. Non altro. Non un mondo rovesciato, contaminato dai falsi idoli del relativismo culturale. È questo dunque il suo passaporto per l'eternità, non la folle corsa lungo una linea che si perde nell'oscurità delle utopie di questo tempo storico della decadenza che associa nella fallacia di una frusta equazione del pensiero razionale il sommo bene al progresso illusorio dell'umanità. Cristofaro Sola


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AS TIME GOES BY! AS TIME GOES BY? PROLOGO: TEMPO TERRESTRE. TEMPO SPAZIALE. Da giovane amavo trascorrere molte ore a rimirar le stelle, assiso sulla sponda del mare, in quel luogo ameno della costa campana già caro a Ibsen, Nietzsche e Wagner. Proiettavo lo sguardo verso l'Infinito e raggiungevo fette di Spazio inesplorato. Lì, dall'altra parte, scorgevo qualcuno che mi guardava proprio come io guardavo lui e riconoscevo me stesso, bambino. Mi affascinava quel gioco "irreale", che dava significanza "reale" a un sogno antico: viaggiare nel "Tempo". Furono queste suggestioni che mi suggerirono di far nascere il protagonista di "Prigioniero del Sogno" in una galassia lontana milioni di anni luce dalla nostra, per poi farlo arrivare sulla Terra in pochi attimi, grazie a quelle crepe spazio-temporali che si formano in prossimità dei buchi neri. E' su questo mondo, poi, che l'extraterrestre dovrà misurare il suo "essere" con un tempo diverso da quello che conosceva: il "tempo" degli uomini. ESISTE DAVVERO IL TEMPO? Per i fisici, ovviamente, la domanda è meramente retorica. Il tempo, così come concepito nel linguaggio comune dalla maggioranza delle persone, non esiste. Non serve certo ribadire qui la progressiva evoluzione del concetto da Aristotele ad Einstein, passando per Newton e chiedo venia, tanto al direttore quanto ai lettori, se non mi dilungherò nemmeno sul concetto di "motore immobile", come espressamente richiesto nel tema proposto: non riuscirei a sviluppare l'analisi senza offendere i lettori sensibili alle tematiche di coloro che il pensiero aristotelico hanno strumentalizzato a proprio uso e consumo, trattandolo come una fisarmonica dalla quale fare uscire solo le note gradite. Nessuna volontà, sia ben chiaro, di privilegiare il "politically correct" nei confronti di un'importante struttura secolare, ma solo la consapevolezza che si tratterebbe di "tempo perso": le mie parole, su siffatte tematiche, sarebbero inevitabilmente destinate a rimbalzare contro un muro granitico senza nemmeno scalfirlo. Occorreranno ancora molti secoli prima che quel muro si disintegrerà per un processo naturale di consunzione, pari a quella che determina il degrado del cemento armato. Le stesse parole risulterebbero del tutto superflue, invece, per coloro che non hanno bisogno di muri protettivi, da molti dei quali potrei io imparare qualcosa.

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Qui basti ribadire, perché ciò è sempre giusto, l'importanza di "abbandonarci" ancora e sempre alla "meraviglia" di Aristotele e sforzarci di farla nostra, non solo nello studio, che ci eleva e ci consente di essere migliori, ma anche nella vita quotidiana, fonte di continui spunti "meravigliosi" che spesso ci sfuggono a causa di inutili distrazioni. Quanto più saremo capaci di "cercare il sapere al solo fine di sapere e non per trarne un utile"1 tanto più si accorcerà il tempo necessario a buttare giù quel terribile muro sul quale rimbalzano le idee più possenti, contribuendo sensibilmente allo smarrimento che angustia una buona fetta dell'umanità. Rimandiamo ad altri contesti, pertanto, le complesse disquisizioni dottrinarie che, per quanto interessanti, poco possono aggiungere al tanto già detto e scritto e soffermiamoci su argomenti più intriganti. Il tempo non esiste, quindi, e la separazione tra passato, presente e futuro è un'illusione. Per quale ragione, però, non riusciamo a staccarci da questa illusione e ci lasciamo condizionare da essa in ogni momento della nostra esistenza? E' la natura umana, rispondono gli scienziati, precisando che gli uomini non sono in grado di emanciparsi dalla "complessità del mondo" e vivere a livello elementare, la qualcosa consentirebbe di "accettare tutto", serenamente. La risposta dei filosofi è solo apparentemente simile, ma l'aggiunta di un termine ne sancisce la sostanziale differenza: "Sono i limiti della natura umana" che non ci consentono di staccarci dall'illusione temporale. E su quei limiti si gioca tutta l'essenza della nostra esistenza, rapportata al tempo. "Limite", in questo caso, va inteso nella sua accezione etimologica più pregnante: il confine ideale al di là del quale si verifica un determinato fenomeno. Nella fattispecie la trasformazione dell'essere umano in qualcosa di sostanzialmente diverso, capace di nascere, vivere e morire senza provare emozioni. Si sconfiggerebbe il dolore, certo, perché anche il dolore, atomisticamente parlando, è un'illusione. Cionondimeno nessuno è disposto a varcare quel limite e resta caparbiamente attaccato alla propria illusione, tenendosi tutte le palpitazioni che la vita gli offre, nel bene e nel male. L'ESSERE RAPPORTATO AL TEMPO: IL DILEMMA INSOLUTO E' un vero peccato che Heidegger non abbia ultimato il suo capolavoro, manchevole della seconda parte, di carattere storico, ma soprattutto della terza sezione della prima parte, quella destinata a sviluppare il pensiero espresso nelle prime due parti e chiudere il cerchio sul problema del senso dell'essere in generale. Pietro Chiodi2 ha giustamente osservato che l'opera del grande pensatore si può paragonare a un edificio interrotto dopo lo scavo delle fondamenta e prende per buona la spiegazione fornita dallo stesso Heidegger: il linguaggio disponibile non consentiva di passare dalla discussione sull'esistenza e del suo senso, ossia la temporalità, al problema del senso dell'essere in generale. La disquisizione non consente una facile decantazione, anche perché qui non si tratta di


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un'interpretazione soggettiva effettuata a posteriori, ma dell'esplicazione di un concetto espresso direttamente dall'autore, che ovviamente può solo essere accettato tout-court o confutato con argomentazioni poco digeribili, perché potrebbero solo evidenziare una resa di Heidegger, strumentalmente giustificata con i limiti del linguaggio. Nessuno oserebbe tanto. Fra qualche secolo, però, dalle ceneri del decadentismo contemporaneo dovrà necessariamente svilupparsi la fiammella che impedirà al genere umano di autodistruggersi prima del "Tempo" (due miliardi di anni più o meno, secondo gli scienziati); avremo nuovi grandi filosofi e sarà possibile cesellare il pensiero di Heidegger. Oggi, necessariamente, occorre spostarsi dal campo speculativo dell'essere visto come "ente" rapportato al tempo, a quello più arabile dell'essenza dell'essere umano, costituita dalla relazione con se stesso e con gli altri. Non tragga in inganno, tuttavia, l'espressione "campo più arabile". Essa vuole solo sancire la possibilità di costruire un discorso di senso compiuto sull'essenza dell'essere, sia pure nell'esteso ambito delle diverse teorie e interpretazioni propugnate da scienziati, teologi e filosofi, la cui trattazione è possibile in saggi specifici e non certo in un articolo. Ci limiteremo, pertanto, a una veloce rimembranza di "cogito ergo sum", che vede il concetto di essere in una posizione subalterna a quella del pensiero, ed "essere o non essere", che spalanca le porte tanto sulla debolezza dell'uomo quanto sulla possibilità che egli possa dare un senso al proprio tempo (e quindi alla propria vita) levandosi in armi in un mare di triboli e, combattendo, disperderli. Sorvolando su Shakespeare per amor di sintesi, è appena il caso di spendere qualche parola sia sui numerosi e "ingiusti" strali tributati a Cartesio, a partire da Giambattista Vico3, sia sulle testimonianze di affetto troppo sfacciate, che proprio in virtù della loro "assolutezza", paradossalmente, si trasformano in una "negazione" dei presupposti razionalistici propugnati dal pensatore. Fa scuola, a tal proposito, l'enfatica espressione di Hegel: "Qui possiamo dire che siamo a casa e, come il navigante dopo una lunga peripezia su un mare tumultuoso, possiamo gridare "Terra". Magari fosse così facile! Un corretto e onesto approccio al pensiero, del resto, è uno dei grandi dilemmi dell'umanità, da sempre. L'uomo si è sempre sforzato di "dissacrare" ciò che non riteneva funzionale al proprio essere e "impossessarsi", anche impropriamente, di ciò che riteneva plasmabile. Emblematica, a tal proposito, l'analisi di Hume. Nell'antichità, personaggi come Anassagora e Socrate, che sostenevano la liceità del teismo e negavano il valore religioso delle stelle, dei pianeti e delle divinità mitologiche, venivano accusati di ateismo. Viceversa, chi ateo lo era davvero, come Talete, Anassimandro, Eraclito, ma evitava di negare il valore religioso condiviso dalla 4 maggioranza della popolazione, non fu mai perseguitato . Il paradosso più grande è che sono trascorsi circa tre millenni da quei tempi e non siamo stati ancora capaci di affrancarci dalla volontà di "piegare" il pensiero dei grandi, che a prescindere dal campo in cui hanno pascolato è stato sempre espresso "in buona fede", alle nostre miserabili esigenze, per lo più gestite in "cattiva fede".

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NON ESISTE UN TEMPO PER TUTTE LE COSE Mi si perdoni la dissacrazione di un concetto ben radicato nella cultura occidentale, che alcuni attribuiscono addirittura a Salomone, altri si manifestano scettici su tale ipotesi e altri ancora, tra i quali chi scrive, non hanno difficoltà a negarla senza eccezioni. I capisaldi dell'Ecclesiaste sono suggestivi e di rapida presa per l'immaginifico della moltitudine, che predilige ciò che ben si predispone all'anima, senza sforzarsi di comprenderne la reale essenza. Evitando a piè pari inutili disquisizioni, quindi, per passare agevolmente oltre basti e avanzi quanto affermato da Voltaire: " […]Quel che sbalordisce è che quest'opera empia sia stata consacrata fra i libri canonici. Se si dovesse stabilire oggi il canone della Bibbia, non ci si includerebbe certo l'Ecclesiaste; ma esso vi fu inserito in un tempo in cui i libri erano molto rari, ed erano più ammirati che letti. Tutto quel che si può fare oggi è mascherare il più possibile l'epicureismo che prevale in quest'opera. Si è fatto per l'Ecclesiaste come per tante altre cose ben più rivoltanti; esse furono accettate in tempi d'ignoranza; e si è costretti, ad onta della ragione, a difenderle in tempi illuminati, e a mascherare l'assurdità o l'errore con allegorie"5. Se non esiste il Tempo e non esiste un tempo per tutte le cose, dall'Ecclesiaste possiamo secernere l'unica intuizione che meriti una certa attenzione: "vanitas vanitatum et omnia vanitas". La frase consente di meglio sostenere il più celebre detto "sic transit gloria mundi" e porre in risalto l'insipienza del genere umano. Comprendere bene quanto siano fatue le cose del mondo, del resto, aiuta molto a dare un senso al proprio tempo, ma anche in questo caso si combatte una battaglia persa in partenza (ancora tempo perso, quindi) perché la stragrande maggioranza degli uomini non pensa in quale cimitero vuole essere sepolto ma in quale piazza vorrebbe la propria statua. O TEMPORA O MORES Duemila anni fa Cicerone si arrabbiava tantissimo costatando la corruzione che dilagava in ogni ambito. Non riusciva proprio a digerire che quel farabutto di Catilina vivesse impunemente e impunemente continuasse a tessere le sue trame, senza che il Senato lo condannasse a morte, come sarebbe stato giusto, visto che per la sua congiura a morte erano stati condannati dei suoi collaboratori. Spassoso vero? Mi ricorda "tizio" condannato a una severa pena per essere stato presente all'omicidio compiuto da "caio e sempronia", che però girano impuniti perché giudicati "innocenti" e quindi meritevoli anche di essere corteggiati da editori e registi, per raccontare le proprie gesta, lautamente retribuiti. Oppure mi ricorda un mattacchione che si lasciò corrompere (con una somma di tutto riguardo, a onor del vero) per raccontare minchiate ai giudici e preservare il corruttore da sicure pesanti condanne per le sue attività fraudolente. Smascherato, si beccò la giusta pena, che ovviamente sarebbe dovuta servire come prova per quella ancora più severa da infliggere al corruttore.


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Aspetta tu! Devo continuare? Non serve. "O Tempora o Mores", diceva Cicerone, pensando al suo Tempo e senza prevedere che sarebbe stato sempre così. I TEMPI BELLI DI UNA VOLTA Quali sono? Non so rispondere a questa domanda: proprio non li conosco. Non so nemmeno se vi siano stati. Penso che ogni tempo abbia avuto il bello e il brutto contemporaneamente e poi, l'uomo, invecchiando, ha imparato a cullarsi nell'illusione dei tempi belli di una volta. La mente modifica i ricordi in funzione dello stato d'animo del presente. Agli uomini piace illudersi! In realtà, qualsiasi cosa dovessimo fare nella nostra vita, arriva sempre il momento in cui, realmente o metaforicamente non importa, ci ritroveremo a strimpellare le note di "Come passa il tempo", con un pizzico di malinconia, anche se circondati da pareti ricche di trofei. E a quel punto davvero diremo, semplicemente: "Come passa il tempo!", con il punto esclamativo, perché proprio non avremo più né la voglia né la forza di chiederci: "Come passa il tempo?" Lino Lavorgna

NOTE 1) Il concetto di meraviglia, come ispirazione per la sapienza, è sviluppato nel primo libro della "Metafisica" (982 b, 10) "Basta guardare a quelli che per primi hanno esercitato la filosofia, perché risulti chiaramente che la sapienza non è un sapere produttivo. Gli uomini, infatti, sia da principio sia ora, hanno cominciato a esercitare la filosofia attraverso la meraviglia […]. Chi si pone problemi e si meraviglia crede di non sapere, perciò anche colui che ama i miti è in certa misura filosofo, perché il mito è costituito da cose che destano meraviglia". 2) Martin Heidegger, Essere e Tempo, Introduzione. Classici UTET su licenza Longanesi, 1978 3) Per Vico la natura è opera di Dio e quindi, secondo lui, l'uomo non può conoscerla e deve solo far riferimento alla storiografia, che consente di analizzare fatti realmente accaduti. 4) David Hume, Storia naturale della religione, Editore Laterza, 2007 5) Voltaire, voce "Salomone" del Dizionario filosofico

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I TEMPI DELLE MELE Il 'Tempo delle mele' è stato un bellissimo film francese, uscito trentasei anni fa sui nostri circuiti cinematografici, che riscosse un notevole successo di pubblico. Non conosco la distribuzione generazionale degli spettatori ma, oggi, mi piace credere che la maggiore affluenza l'abbiano determinata i giovani. La storia, infatti, riguarda una ragazza di 13 anni, Vic Berreton, studentessa delle superiori, che un giorno conosce il suo primo grande amore, Mathieu. Ma, insieme alle prime emozioni e alle prime gelosie, arrivano anche i primi conflitti generazionali con i genitori François, dentista, e Françoise, illustratrice, i quali, di lì a breve, attraversano un periodo di crisi, anche a causa di un tradimento reciproco. Sentendosi distante dai due e dalle loro problematiche, Vic si affida alle attenzioni della bisnonna Poupette, arzilla ottantacinquenne prodiga di consigli ed esempi. Alla fine, i genitori di Vic si riconciliano, mentre la ragazza si allontana da Mathieu. Il finale, forse, lasciò un po' di amaro in bocca nel pubblico che vide sacrificate dalla storia le prime pulsioni giovanili sull'altare del ritrovato rapporto tra due adulti. Così, per non deludere le aspettative, e fors'anche per motivi di cassa visti i brillanti risultati, l'anno successivo uscì il seguito: il Tempo delle Mele 2. Sono passati due anni da quando Vic ha lasciato Mathieu. La ragazza, ora quasi sedicenne, incontra casualmente Philippe, un ragazzo mezzo tedesco, e tra i due è subito amore. Nel frattempo, i genitori di Vic, alle prese con un altro figlio nato nelle more, attraversano nuovamente una crisi causata dal trasferimento fuori città del padre, deciso ad accettare un'allettante offerta di lavoro. Ma i due, alla fine, riescono a riappacificarsi. Nel frattempo, Poupette, l'arzilla bisnonna di Vic, alla sua veneranda età, decide di convolare a nozze con il suo coetaneo Jean-Louis, appena rimasto vedovo, ma cambia idea all'ultimo momento. Nel corso della storia, Vic e Philippe litigano molte volte e rompono il rapporto per nuove storie ma, alla fine, i due tornano insieme. Poco tempo dopo l'uscita dei film, già adulta, mi capitò di vedere il primo quasi per caso, in DVD, e, devo confessare che, lì per lì, non riuscii ad immedesimarmi nella storia e nel ruolo degli interpreti. Forse perché avevo già metabolizzato la mia gioventù e i relativi turbamenti, avevo già razionalizzato la mia vita, anche sul piano professionale, e non ero più una naufraga affranta e sperduta nel mare grosso delle emozioni. Per cui, lo avevo visto asetticamente e, sperando in un momento di evasione, mi ero ritrovata invece ad assistere ad una storia che, al momento, giudicai banale e persino noiosa.


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Dovettero passare oltre venti anni, in una serata tra amici, prima di sentir rispondere, ad una mia affermazione sulle impressioni giovanili: 'Seeee … sei rimasta al tempo delle mele.' Rimasi per un attimo a pensare: Cosa vuoi dire? 'Voglio dire - fece il mio interlocutore - che ciò che hai appena detto neppure una ragazza di tredici anni lo penserebbe.' Significa che sono un'ingenua? ribattei tra il seccato e il curioso. 'Anche. Ma, soprattutto, voglio dire che sei fuori dal tempo.' E mi spiegò il perché. Già. Fuori dal tempo. L'affermazione mi aveva colpito, anche perché aveva richiamato alla mia mente il film che, svogliatamente, avevo visto più di vent'anni prima. Così, rimasi a rimuginare tutta la serata sulla portata di quell'asserzione, non solo e non tanto perché riferita al mio modo di pensare quanto perché significava che oltre vent'anni della mia vita erano trascorsi senza che avessi avvertito la profondità del cambiamento giovanile. Certo, avevo registrato delle stranezze nel corso del tempo; atteggiamenti sgarbati, eccessiva disinvoltura nelle manifestazioni del loro 'essere', insofferenza, ma le avevo attribuite ad aspetti caratteriali del singolo giovane e, in ogni caso, non avevo dato loro alcun peso se non un repentino fastidio, subito dimenticato. Perciò, l'indomani, mi recai in un negozio di DVD per acquistare il film (avevo perduto il mio) e là scoprii l'esistenza del seguito: il numero 2. Li acquistai entrambi e cominciai a pregustare la serata, davanti al televisore e con le sigarette a portata di mano. E, nell'attesa, presi a chiedermi il perché del titolo. Perché 'Il tempo delle mele'? Che c'entra la 'mela' con la storia amorosa di una ragazza, una famiglia un po' tribolata e un'anziana eccentrica? Nulla, se non, mi sovvenne all'improvviso, un indefinito richiamo alla 'mela' di Eva, donatale dal 'serpente', nella consumazione della quale aveva associato Adamo. Un attimo: Eva, morso, consumazione … La fanciulla che fino ad un attimo prima, insieme ad Adamo, aveva vissuto nella beatitudine del Paradiso, priva di affanni, a causa dell'insidiosa insistenza del 'serpente', dopo vari tentennamenti aveva morso la 'mela' e aveva associato Adamo nel contravvenire alle prescrizioni divine. Così, dalla beatitudine iniziale, si era ritrovata ad essere scacciata dal Paradiso, accompagnata dalla punizione di 'partorire con gran dolore'. L'allusione al primo rapporto è chiara; un rapporto preceduto, certo, dalla titubanza iniziale ma cancellata subito dopo dalla forza dei turbamenti amorosi e delle prime pulsioni sessuali. Così come è chiaro il riferimento alla fine della rosea pubertà per approdare nelle vicende dell'età adulta. Beh! Se ero nel vero, che modo garbato di porre la questione. Sicuramente, eravamo molto lontani dal bigottismo delle vicende del luglio del '50, accadute nel ristorante romano 'da Chiarina', quando Scalfaro, il futuro presidente allora giovane parlamentare, ebbe un vivace alterco con una giovane signora, Edith Mingoni in Toussan, da lui pubblicamente ripresa con veemenza, arrivando a schiaffeggiarla, in quanto il suo abbigliamento, a parere del giovane onorevole, era sconveniente poiché ne mostrava le spalle nude. Sì. Eravamo sicuramente lontani ma negli anni '80 ancora permaneva una pudicizia espositiva (e comportamentale) anche se diversa da quella severamente vittoriana, in essere fino agli anni '70. Il '68, infatti, annacquando semplici sogni e speranze, aveva dato la prima scossa al mondo

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giovanile e aveva fornito loro degli embrioni per nuovi indirizzi politici, sociali ed economici, ma la 'rigidità' della 'classe' allora dirigente aveva considerato dirompenti quegli indirizzi per gli assetti societari e li aveva tarpati. Gli anni '70, poi, sulla scorta della guerra del Vietnam, avevano detto ai ragazzi che, se erano buoni per combattere e morire, il loro 'essere' avrebbe dovuto avere una nuova 'diversa' considerazione. Ma, ancora una volta, le attese e le aspettative vennero spuntate. Così, cominciò a manifestarsi nel mondo giovanile una voglia di 'dimostrare' il proprio diverso pensiero da quello usuale, consueto, usando le forme più manifeste di una tale diversità: la musica e l'abbigliamento, oltre al comportamento. È ovvio che nella contestazione della società, i primi a farne le spese furono i genitori e gli insegnanti i quali, in ogni caso, cercavano di trasmettere i crismi del vivere almeno civile nel modo usuale. Ma la sola contestazione, comunque, non bastava: occorreva che ad essa si abbinasse un'evasione dalla realtà ritenuta stantia, bigotta, ipocrita e decadente. Così, sfortunatamente, ciò che fino agli anni '50 era riservato ai ricchi giovani (e meno giovani), annoiati e viziosi, ebbe una diffusione tale, in ogni ceto, da divenire una problematica sociale a livello mondiale: la droga. Ma negli anni '80 la cosiddetta 'contestazione' giovanile si era esaurita e i giovani cominciavano a ritornare nell'alveo di un consueto sia pur più evoluto: si potevano mostrare le nude spalle, e la minigonna, lanciata provocatoriamente da Mary Quant negli anni '60, era divenuta abbigliamento usuale nelle giovani. Il bikini imperava, qualche monokini cominciava ad apparire sebbene in spiagge riservate e si cominciava a pubblicizzare in TV persino il preservativo, sia pur con la giustificazione dell'AIDS. Stavano venendo meno alcuni aspetti, tra i più beceri, del perbenismo bigotto. Lo 'yuppismo', manifestazione passiva, cominciò così ad essere soppiantato da quell'aspirazione e tendenza a farsi rapidamente strada, anche con metodi talora discutibili, nella carriera, nella professione, nella posizione sociale: il 'rampantismo'. I giovani, infatti, avevano preso a cavalcarlo, in ogni ceto e in ogni livello di responsabilità, intendendolo come un modo attivo, dinamico, di dimostrare alla società le loro capacità, senza le remore di un moralismo elevato a sistema. Ovviamente, non tutti i giovani avevano recepito e praticato un tale atteggiamento: 'ragazzi di famiglia', come si sarebbe detto sino a non molto tempo fa, continuavano il loro 'modus vivendi' secondo quei principi che avevano caratterizzato la famiglia nei pochi decenni appena trascorsi: certamente il rispetto delle convenzioni sociali ma con l'introduzione sempre più accentuata del dialogo interno, senza il vincolo della subordinazione o supremazia del ruolo. E Vic, emerse dal film che stavo guardando, era una di quest'ultimi giovani che, per via mediatica, parlava a tanti suoi simili. Uno spaccato della società di allora, che presentava un nucleo familiare 'moderno': dentista il padre, illustratrice la madre, studentessa lei. Una famiglia benestante dove entrambi i genitori sono conclamati fedifraghi e di questa loro situazione, impensabile fino a poco tempo prima, è resa edotta la figlia la quale, certamente confusa, non si sente di parteggiare per l'uno o per l'altra e cerca conforto e indicazioni nella saggezza e avvedutezza dell'età: l'eccentrica bisnonna Poupette.


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Una 'modernità' che sostiene i primi turbamenti e le prime pulsioni della giovane tredicenne, anche come rivalsa degli scompigli casalinghi e che la induce, oltre all'affetto dell'anziana signora, a sperimentare il conforto di un altro giovane. Ma per i genitori adulti, poi, collaudati professionisti, interviene il momento della ragione e, in nome del passato e dell'opportuno bene odierno, ritrovano i motivi dell'unione e si riconciliano. Vic, a quel punto, si trova di fronte al dilemma: continuare nel suo tenero amore giovanile o troncarlo per l'acquisita maturità e la sperimentata consapevolezza che le avversità si possono superare. Opta per quest'ultima scelta e lascia Mathieu, il simbolo della confusa fanciullezza. Quella seconda visione del film, a distanza di più di due decenni dalla prima, la trovai molto interessante perché foriera di una memoria che il tempo trascorso aveva un po' sfilacciato. Una specie di dejà vu del quale, tuttavia, fino a quel momento non avevo piena contezza. Certo, il tempo era trascorso modificando, poco alla volta ma in maniera significativa, usi, costumi e comportamenti. Lì per lì, rimasi interdetta di fronte a tale scoperta ma, presa dal soggetto, decisi di vedere anche il 'Tempo delle mele 2'. Qui, la faccio breve perché il seguito, il '2', lo trovai, a mio avviso, come una doppia rappresentazione dello stesso soggetto: le nuove traversie dei genitori e le prime traversie di Vic, di fatto nell'età adulta nonostante i sedici anni. In nulla interessante. Perciò, con una sigaretta in una mano e un whisky torbato nell'altra, mi sdraiai sulla chaise-longue e mi misi a pensare alla distanza ormai consapevolmente smisurata che ci (mi) separava dagli 'anni '80. Certo. Lo iato tra quegli anni e quelli del III millennio sono abissali, mi dissi con sgomento. Lo strappo definitivo lo si è avuto negli anni '90 quando cominciarono a cadere, uno dopo l'altro, tutti i pilastri che fino ad allora avevano sorretto la società, al di là dell'ipocrita perbenismo bigotto. Il Muro di Berlino era crollato sotto i colpi della Coca Cola e di McDonald cancellando di colpo i presupposti che mitigavano l'incondizionato dispiegarsi di una visione capitalistica, universalista e apolide, lontana da ogni interesse sociale. Con la caduta di quel Muro, vennero così meno quelle che la storia aveva bollato come 'ideologie', cancellando anche, nella furia iconoclasta, anche consolidati assetti sociali che seppur scaturiti da una cultura socialista, questa era comunque di natura riformista, liberale e legalitaria. Ogni valore, o sembianza ritenuta tale, doveva essere cancellato, in nome della 'modernità' e della crescita, perché si sarebbe ripercosso sul cammino capitalista e si sarebbe tradotto in rivendicazioni. Per cui, in Italia, il primo a venir meno fu il partito che incarnava l'auspicio di un socialismo realizzato. Ciò che rimase furono (e sono) delle amebe. Quasi in contemporanea, seguì la cancellazione degli automatismi retributivi. Di lì a breve, fu la volta dell'indeterminazione del rapporto di lavoro. Tutto questo, insieme ad una più sospinta introduzione di tecnologia nei processi produttivi, contribuì notevolmente a creare un'insicurezza sociale dove l'unica speranza risiedeva nell'azione sindacale che tanto bene aveva fatto dal dopoguerra in avanti. Ma l'economia era cambiata. L'industria, punto di forza sino ad allora del sindacato confederale,

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da un lato si avviava verso un evidente tramonto, dall'altro si decentrava per cominciare ad inseguire costi del lavoro sempre più bassi e più permissive condizioni di produzione, mercé lo stimolo all'internazionalizzazione che comportava l'allora sottoscritto Trattato di Maastricht, l'accordo di Schengen e l'allora futura moneta unica. Inoltre, cominciava ad emergere prepotentemente il terziario, non più fatto di solo commercio al dettaglio: i servizi alle aziende e alla persona si stavano affacciando prepotentemente all'orizzonte. Con la crescita del terziario, peraltro, i consolidati rapporti di lavoro a tempo indeterminato cominciarono ad essere soppiantati da un ingigantirsi delle partite IVA, da lavori eterodiretti o eterorganizzati. I rapporti di lavoro subordinati, d'altro canto, presero a trasformarsi in collaborazioni coordinate continuative frantumando la prassi dello schema contrattuale tipico del lavoro dipendente. Tutti contesti, quelli emersi, dove la sindacalizzazione era di fatto poca o nulla. In più, il sindacato fu ingabbiato in un sistema, la concertazione, che, acclamato come partecipativo alle politiche di governo, lo costrinse ad accettare eclatanti riforme peggiorative del rapporto di lavoro, della sua retribuzione, della sua durata, dei suoi diritti, trasformando quel mondo in un ché di aleatorio, in cambio di 'future' riduzioni di tasse e utenze, di lotta al caporalato (N.d.A. a distanza di oltre vent'anni si continua a parlarne), di sostegno alla famiglia (sic) e ai giovani (doppio sic). Infatti, l'ulteriore giustificazione fu che, attesa la riduzione delle disponibilità e l'obbligo di rispettare i parametri imposti dal trattato di Maastricht, le risorse residue dovevano essere sapientemente distribuite non più 'solo a vantaggio delle categorie protette', i lavoratori dipendenti, ma anche in appoggio a categorie 'deboli', la famiglia, gli anziani, i giovani. Per inciso, a distanza di più di vent'anni, mi ritrovo oggi con gli stessi vacui argomenti. La scuola pubblica che, in via generale, avrebbe dovuto sostenere sul piano formativo una tale trasformazione, a prescindere per un attimo dalla sua bontà, si trasformò in selettiva non solo per l'introduzione di esami di ammissione alle facoltà ma anche per l'elevazione delle tasse scolastiche: per cui, tralasciando un momento la qualità del suo insegnamento, si cominciò a delineare una selezione nella società tra chi 'poteva' e aveva figli intelligenti, e chi 'non poteva' a prescindere dall'intelligenza dei suoi figli. In ogni caso, la qualità didattica della scuola pubblica, scarsamente valida sul piano dell'approccio alle nuove 'opportunità', cominciò ad essere soppiantata dalla scuola privata, più attenta e tempestiva sul piano didattico a cogliere e ad utilizzare tali trasformazioni. Un fatto, questo, che accentuò il gap formativo in esito alla sola disponibilità economica. In più, la scuola pubblica (a pagamento) cominciò ad essere disarticolata dal suo asse portante: un'uniforme modalità formativa dal Nord al Sud che, in ogni caso, ammetteva specifiche facoltà che rispondessero a caratteristiche produttive locali. Con l'introduzione della 'competizione' tra scuole pubbliche e la possibilità di finanziamento privato venne di fatto meno tale uniformità non solo sul piano formativo ma anche su quello territoriale. Così, il gap formativo, inizialmente dato dalle indisponibilità economiche delle famiglie, si accentuò per le differenze economiche tra territori. Ma ciò che sconcerta fu (è) che i servizi pubblici all'impiego, i vetusti uffici del lavoro e della


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massima occupazione (non desta un po' di dolorosa ilarità?), nonostante le annose promesse di riforma in uno con la generale riforma della Pubblica Amministrazione, proseguirono a gestire il 'cartellino rosa' e a timbrarlo periodicamente. In tal modo, al 'fortunato' laureato di una famiglia piccolo-borghese non restò altro che iniziare l'annosa trafila di stampare il proprio curriculum e di inviarlo a innumerevoli aziende sperando per il meglio. Fu a questo punto che si innestarono nella disgregazione degli assi portanti della società tre ulteriori eventi: le aziende, giustificandosi con l'avvio di una competizione sempre più serrata (e, a volte, sleale), non intesero più assolvere a quella fase di apprendistato, estremamente utile per la formazione professionale del giovane; così, iniziarono a pretendere che gli aspiranti dipendenti avessero già esperienze lavorative. In tal modo, si innescò quella corsa al 'ribasso' che portò un ingegnere a fare il portantino, un chimico a divenire 'uomo di fatica', un architetto a dedicarsi al trasporto delle petunie del fiorista. Questo primo evento, peraltro, ne generò altri due sottostanti: nelle famiglie piccolo-borghesi cominciò a prendere forma e a radicarsi l'idea che una laurea non era necessaria per fare un lavoro che, in effetti, ne poteva fare a meno. Così, le ambizioni e i sacrifici, utili al progresso di una società, furono cancellati dal pronto impiego nei call-center, a bassa ma certa remunerazione. Di contro, la formazione pubblica si indirizzò verso la concezione e la istituzione di una 'laurea breve', ampollosamente concepita per dare 'dignità' professionale ad un'occupazione di medio livello o di bypassare lo scoglio dell'apprendistato. Il risultato fu che i 'laureati' in quel contesto presero a seguire la stessa trafila dei possessori di una 'laurea lunga' con l'aggravante che una laurea 'breve' non fornì quella formazione umanistica, utile al vivere civile e sociale, che una audacia temeraria igiene spirituale laurea 'lunga' comunque consente anche in discipline scientifiche. Il secondo, dirompente evento fu la connotazione della mobilità quale fattore salvifico. Ne conseguì che giovani laureati, difficoltati a trovare un'occupazione, vuoi per le ristrettezze economiche della ricerca pubblica, vuoi per le problematicità del 'primo impiego' nel settore privato, cominciarono a prendere la via dell'estero, indisponibili verso un'occupazione di ripiego o sottopagata. Perciò, insieme alla fuga di 'cervelli' e al loro sradicamento da un contesto affettivo-familiare, sempre più arido, cominciò a determinarsi l'impoverimento culturaleconoscitivo del Paese, tutt'ora in atto. Il terzo evento fu l'indotto calo dell'andamento demografico. Le famiglie, intimorite dalle incertezze del futuro, cominciarono ad essere meno prolifiche a causa di due distinti sub-fattori: non solo e non tanto per le sempre più sospinte perplessità circa il futuro della loro prole, quanto per l'indisponibilità economica sempre più accentuata della famiglia stessa, non bastante a sopperire alle tante necessità di un figlio dalla nascita all'ingresso (???) nel mondo del lavoro. Si cominciò, in conseguenza, a delineare un sempre maggiore invecchiamento del Paese. Gli anziani, perciò, in netta crescita, sempre più svincolati da una tutela pubblica, vennero di fatto posti a carico della famiglia che, comunque, prese a beneficiare del loro modesto apporto pensionistico. Un tale stato di cose, tuttavia, creò un surrettizio nucleo familiare forzato all'obbligo della

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convivenza: il giovane, che nella fase del 'rampantismo' ambiva ad una sua indipendenza anche abitativa, fu obbligato da indisponibilità economica a prolungare sine die la sua permanenza nella casa paterna, e l'anziano, con una pensione irrisoria, fu costretto a dimorare nella casa dei figli, utile ma mal sopportato. Ne venne quasi di conseguenza, per i giovani, cercare comunque delle vie di fuga da realtà che cominciavano a divenire opprimenti e snervanti: perciò, alla precarietà del lavoro o alla disoccupazione, abbinarono una precarietà di unione. Erano interessati ad uscire dalla realtà familiare ma non a costo di vincoli, anche onerosi, immediati e potenzialmente futuri: quindi, scelsero la strada della 'convivenza'. Due retribuzioni, seppur modeste, davano almeno la possibilità di una vita al limite della decenza. In ogni caso, la scelta non precludeva (ne preclude) la possibilità di un ritorno all'ovile, nonostante potesse comportare un aggravio al nucleo originario. Fu in tal modo che i giovani, privati del sogno di un futuro, e in seguito disabituati a sognare, presero a rincorrere, quale affermazione di 'essere', il possesso dell'effimero. In conseguenza, ai distrutti valori e ideali, si sostituì uno pseudo-status symbol, fatto di 'ultima' versione dello smartphone, della griffe del jeans, della t-shirt e delle scarpe, omologando in tal modo differenze di capacità. Il credito al consumo fece il resto, incentivando e consolidando la nuova frontiera del potere che trova i suoi punti di forza nel controllo del debito. La 'libertà' di spendere, spesso a credito, e di consumare divenne, così, il conclamato sostituto della vera libertà dell'esistere. La famiglia, a quel punto, alle prese con angoscianti problemi del vivere quotidiano, non fu più in grado di trasmettere un modello alternativo, valoriale e ideale. Né lo fu la scuola, meramente nozionistica, sempre più permissiva e disattenta, al più tesa a trasmettere, a pagamento, un insegnamento sempre più specialistico per inseguire le opportunità delle concessioni capitalistiche. Per cui, ottenebrati dal presente, speranza, rispetto, ubbidienza, disciplina, considerazione, divennero delle semplici, desuete accezioni da recepire nei vocabolari ma dall'oscuro significato. E anche il sesso fece la sua parte. Volutamente privato del suo aspetto misterico, della trepidazione dell'attesa, dell'affanno della scoperta e della radiosità della rivelazione, defraudato cioè da tutto quel contorno che, senza tornare ai vecchi merletti, ne faceva comunque il seguito di una ponderazione soggettiva, nella dilagante omologazione divenne lo sfizio di un attimo, senza precedenti ne seguiti. Al pari di un video gioco o di un film in termini di evasione. Ma tale trasformazione non ebbe eguali effetti sui due generi: nella giovane divenne un ninnolo alla sua costante manifestazione d'indipendenza mentre nel giovane divenne il solo, inconsapevole, momento della manifestazione della sua esistenza. Anzi. Fu il giovane che scontò i maggiori riverberi di una tale mutazione perché, privato del suo tradizionale ruolo di maschio in quanto spogliato di quelle 'decorazioni' che lo facevano 'uomo' (famiglia, lavoro, protezione, decisione, giudizio, punizione, ecc.) cominciò a non sapere più di fosse, a differenza della giovane che, di contro, acquisì la consapevolezza di una 'parità', non certo legata alle precedenti 'decorazioni' del maschio ma alla sola manifestazione (esasperata, a


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volte) di libertà e d'indipendenza. Il sesso, per la giovane, rientrò nel novero di queste nuove manifestazioni mentre nel giovane rimase la sola manifestazione legata al passato ruolo. Per cui, crebbe talmente d'importanza da generare, nel giovane, addirittura ansia da prestazione e i medici cominciarono a registrare, sempre più frequentemente, giovani maschi che chiedevano la prescrizione di un 'aiutino'. Fu in quel momento che prese ad imperare la solitudine. I giovani divennero soli, al pari dei loro genitori, sempre più incapaci di intrecciare stabili relazioni interpersonali, se non fugaci accoppiamenti, non oggetti né soggetti di comunicazione per incapacità di trovare argomenti e termini di comune comprensione, racchiusi in un 'branco' alla ricerca di una effimera 'forza' e 'solidarietà' o dietro il recinto del video di un computer, tesi alla spasmodica ricerca del maggior numero possibile di amici virtuali. A quel punto, la società era scardinata. Fu allora, come si suol dire, che alla beffa si aggiunse il danno: nonostante un'elevata disoccupazione giovanile, emerse, quasi contestualmente, l'inconfessata necessità di braccia a bassissimo costo, sia nella residuale agricoltura, ma ora adeguatamente dimensionata nell'estensione aziendale per affrontare i mercati internazionali, che nella residuale industria o, meglio, nelle sedi periferiche nazionali di un'industria internazionalizzata. A quel punto, molto provvidenzialmente, cominciarono ad acquisire sempre maggiore consistenza i flussi migratori provenienti in massima parte dall'Africa del Nord, data la vicinanza. Quel fenomeno, peraltro, ebbe il pregio di cominciare a sfumare i segni identitari di una comunità, che qualcuno avrebbe potuto assumere come valore e, grazie ad un progressismo di maniera, anziché tendere ad una doverosa ospitalità ed integrazione dei migranti nel rispetto reciproco dei segni identitari dell'ospite e dell'ospitante, si ebbe la paradossale capacità di cominciare a porre in dubbio l'opportunità di mantenere i segni, gli usi e i costumi che contraddistinguono l'identità del solo ospitante. Un fenomeno, questo, che fece il paio con spinte secessioniste e indipendentiste locali, spesso in assenza di un qualsivoglia fondamento storico, etnico, o giuridico. E, insieme, investirono nell'Occidente le realtà statali, quelle figlie del Rinascimento più che dell'Illuminismo. A tanto, si aggiunse l'anelito di una Unione continentale che ben presto, però, sostituì all'ampiezza del respiro che avrebbe dovuto raggiungere la determinazione delle ampiezze delle rotonde stradali e delle valve delle vongole. E non seppe andare oltre privando, però, le singole realtà statali del loro potere di auto-determinazione. Aaaah! Basta. Mi sentivo sufficientemente depressa. Avevo finito l'whisky e non era il caso di berne dell'altro. Poveri ragazzi … mi dissi. Ignorano persino l'esistenza nel passato di un mondo diverso e credono che la vita si sostanzi solamente nell'oggi, senza radici per sostenere né speranze per innalzare. Già, mi resi conto di conseguenza, il futuro era stato cancellato in favore dell'oggi, della sola, sempre pressante contingenza così da non creare aneliti di cambiamento; un'alterazione che ha investito soggetti individuali, sociali e istituzionali. Aveva ragione il mio interlocutore: ero rimasta al 'Tempo delle mele', senza rendermi conto che, con le involuzioni dell'ultimo quarto di secolo, siamo giunti alla Fine della Storia.

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Mi venne il dubbio, preparandomi per la notte, che dietro tutto questo ci potesse essere una regia perché, non volendo, mi ero ricordata di una frase di Padre Pio che, in risposta alla domanda di una sua figlia spirituale che chiedeva come potesse accadere una nutrita serie di coincidenze, rispose: "Eeeh! Figlia mia, accade perché qualcuno fa coincidere le coincidenze.". Ma cancellai quel pensiero con un gesto di fastidio: non mi andava proprio di imbarcarmi in una fanta-riflessione sul mondialismo. Un attimo prima di coricarmi, tuttavia, mi chiesi se almeno il simbolo, la 'mela', avesse mantenuto nel tempo quel suo insito significato, il senso della sua metafora. Così, mi diressi velocemente al computer, lo accesi e avviai una ricerca. E dopo aver velocemente visionato numerose pagine mi resi conto che, in un certo senso, aveva mantenuto un ché di originario ma aveva perso il garbo della metafora per sposare la velocità della 'modernità: era divenuta il gusto (sic) di un preservativo e, addirittura, una delle icone pubblicitarie di un preservativo hi-tech; in sostanza, un accessorio in grado di monitorare tutti i dettagli dell'attività sessuale e anche il numero di posizioni praticate. Beh! Non stiamo a “sottilettizzare”, come disse Federico Salvatore nel suo celebre 'Incidente telefonico'. Ero già sotto le coltri quando mi chiesi se se ne poteva uscire … se era pensabile configurare un cammino a ritroso. Beh! Si potrebbe … si potrebbe … oh! certo. Come canta il grande Vasco?!? C'è qualcuno Che non sa più cos'è un uomo / C'è qualcuno Che non ha rispetto per nessuno / C'è chi dice NO … Ecco. Si potrebbe cominciare così. Altrimenti … Buona notte. Roberta Forte


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IL PERENNE PRESENTE E' ormai scientificamente assodato che nell'universo cosmico parlare di tempo in senso umano non abbia alcuna sostenibilità (con forse l'unica eccezione della Seconda Legge della Termodinamica) e ciò è altrettanto vero anche nel mondo delle infinitesimali particelle subatomiche. Pertanto il tempo come lo concepiamo noi è mero appannaggio degli abitanti del minuscolo pianeta azzurro che ci ospita e la cui modestia, con conseguente irrilevanza, è stata definitivamente consacrata dalle fantastiche fotografie che ci pervengono tramite i più recenti telescopi spaziali. Ma anche sulla Terra ed in particolare entro le singole teste dei miliardi di suoi umani inquilini, il tempo non è affatto uguale per tutti, in quanto ciascuno individuo si crea il suo, con proprie caratteristiche, durata , rilevanza ed intensità . Appare evidente infatti che il "tempo" di un primitivo abitante della selva, disteso sotto un albero, con i frutti commestibili appesi al ramo che lo sovrasta e senza alcuna percezione del variare delle stagioni essendo la temperatura del luogo praticamente costante nel corso dell'intero anno, non può che essere del tutto differente da quello di un suo contemporaneo "broker" di borsa di Manhattan per cui ogni minuto di orologio ha una rilevanza ed un valore intrinseco rispetto a quello appena trascorso. Ed altresì il tempo passato in piacevole compagnia è ben diverso da quello di pari durata di una seduta dal dentista. Pertanto il Tempo è prettamente umano, creato dal singolo individuo - e quindi ad esso connesso strettamente - ovvero , su scala più generale, da suoi simili contemporanei di luogo e di epoca. Il tempo dunque, qui giù, è semplicemente Cultura, individuale e/o collettiva, e null'altro. Nel nostro Occidente di natura greco-romano-cristiana, il Tempo è stato la sua somma fascinazione, il suo idolo, la sua dannazione. Si sapeva che esso era il dio Kronos che divorava i propri figli, ma per due millenni e mezzo siamo stati in sua perenne adorazione sfruttando le sue attraenti potenzialità, volgendo altrove lo sguardo alla vista della effimera, dolorante polvere che fuoriusciva costantemente dalle sue fauci e restando comunque in non rassegnata attesa del nostro ineludibile turno. Ma anche qui da noi Kronos sta ora irreversibilmente invecchiando e trasformandosi. Il suo mortale avversario in quanto sua assoluta antitesi, anche se diretto discendente, lo statico "Perenne Presente", lo sta, oggi, lentamente scalzando del suo solido trono che, per qualche millennio, sembrò a noi umani essere graniticamente stabile, certo ed immodificabile. Infatti il "Futuro", testardo ineludibile ed indistruttibile primogenito del Tempo (l'unico che il

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padre non sia mai stato capace di divorare) in quanto necessario alimento alla prosecuzione della di lui opera, sarebbe stato comunque il solo in grado di dare la vita - pagando però tale innaturale genitorialità con la propria stessa morte - al suo inimmaginabile, in quanto del tutto fuori razza, ultimo e definitivo erede: quell'inatteso, "Perenne Presente" che oggi tutti ci avvolge, nutre e condiziona. Casa ci è pertanto consentito di poter fare ? Assolutamente nulla, se non che accordarci tutti sul fatto che il tempo non esista, che i così detti "passato" e "futuro" altro non siano che focalizzazioni della mente su due particolari aspetti di una misteriosa, unica, universale e "self containig" realtà : il Perenne Presente; filtrato, questo sì, da qualche miliardo di singole percezioni individuali degli esseri umani che guardando, dall'oggi, in modo bifronte, allo Ieri ed al Domani, dovrebbero pirandellianamente, ma correttamente, interloquire tra loro sull'unica base di un accettato assunto: "cosi è (e, naturalmente, così è stato e così sarà ) se vi pare". Antonino Provenzano


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TEMPO ECONOMICO Vi sono strani effetti dello scorrere del tempo sull'economia. Proviamo ad analizzarne alcuni. Cinquant'anni fa, 1967, le entrate dello Stato italiano erano pari a 7786 miliardi di £ (circa 389 miliardi di Euro). La spesa corrente assorbiva il 93,7% delle entrate. La retribuzione media era di circa 90.000 Lire al mese, l'oro valeva poco meno di 900 £ al grammo, la benzina costava 120 £ al litro, il pane 170 £ al chilo e per comprare un'utilitaria come la '500 (poco più di 500.000 £) occorrevano circa 6 stipendi medi. Oggi per comprare un'utilitaria occorrono, più o meno, gli stessi 6 stipendi medi (1500 Euro di media) per raggranellare i circa 9.000 Euro necessari. Cambia solo la massa monetaria necessaria: ieri 500.000 £ (250 Euro), oggi 18.000.000 di vecchie lire (9.000 Euro), ben 36 volte di più, ma il potere d'acquisto è rimasto apparentemente invariato. Tuttavia cinquant'anni fa con uno stipendio medio si potevano acquistare 100 grammi d'oro, oggi soltanto 42. Attualmente il bilancio dello Stato italiano sfiora i 600 miliardi di Euro (567 in Entrata, 605 in uscita nel 2016) e questo significa che il potere di spesa o di acquisto dello stato è cresciuto di circa il 55%. In relazione al valore dell'oro il cittadini hanno perduto - singolare simmetria - il 58% del loro potere d'acquisto pur con masse monetarie sensibilmente accresciute: 77 volte per l'oro, 36 volte per un'autovettura, 26 volte per la benzina e 23 per il pane. Un interessante raffronto con la Germania: nel 1967 lo stipendio medio tedesco era di 178.000 £ mese (al cambio 156 £ per marco) che valeva 198 gr/oro, oggi lo stipendio medio è di circa 3000 Euro e vale 85 gr/oro. Come si osserva nulla è cambiato, nonostante l'Europa, nei differenti poteri di acquisto: l'uno sempre il doppio dell'altro. Tuttavia anche i tedeschi hanno più che dimezzato il loro potere di acquisto in oro. Probabilmente sono stati gli Stati ad avvantaggiarsene. Nei prossimi numeri chiederemo il parere di alcuni economisti sul tema, per capire meglio, se e chi, ha sottratto potere d’acquisto ai cittadini. Pierre Kadosh

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EUROPA

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MORIRE DI MULTICULTURALISMO 1

Le statistiche ufficiali dell'Unione Europea sul terrorismo sono drammatiche: "Nel 2016, sono stati 142 gli attacchi falliti, sventati o portati a segno in otto Paesi membri dell'UE. Più della metà (76) di essi sono stati segnalati dal Regno Unito. In Francia sono stati registrati 23 attacchi; 17 in Italia; 10 in Spagna; 6 in Grecia, 5 in Germania, 4 in Belgio e un attacco nei Paesi Bassi. Sono state 142 le vittime degli attentati terroristici e 379 le persone rimaste ferite. Nel 2016, sono stati arrestati 1002 individui per reati connessi al terrorismo". Tutti questi paesi hanno cercato di integrare le comunità musulmane, ma sono giunti allo stesso punto morto. "Finché ciò continuerà, il fallimento dell'integrazione costituirà una minaccia 2 3 mortale per l'Europa", ha scritto il Wall Street Journal dopo un attacco suicida in cui sono rimaste uccise 22 persone a Manchester. Secondo un nuovo libro del reporter francese Alexandre Mendel, Partition: Chronique de la sécession islamiste en France, il multiculturalismo sta portando alla frattura delle società europee. Sta inoltre portando a costanti ondate di attentati terroristici. Lo scorso agosto, in un solo giorno, gli islamisti hanno ucciso 20 europei a Barcellona4 e in Finlandia5. Un mese dopo, hanno trucidato 6 7 due ragazze a Marsiglia e a Birmingham un ragazzo sciita è stato brutalmente ferito. Questa è stata la messe letale del multiculturalismo europeo. È l'ideologia europea più idilliaca e seducente dopo il crollo del comunismo. C'è "una catena sempre più permanente di 'comunità sospese' che si annidano nelle nazioni 8 dell'Occidente", ha scritto di recente lo storico americanon Adrew Michta . "L'emergere di queste énclave, rafforzate dalle politiche dell'élite del multiculturalismo e dalla decostruzione del patrimonio occidentale, ha contribuito alla frattura delle nazioni dell'Europa occidentale". A soli venti minuti dal Marais, l'elegante quartiere parigino in cui si trovavano gli uffici di Charlie 9 Hebdo, c'è Gennevilliers , un sobborgo che ospita diecimila musulmani dove i fratelli Kouachi, gli uccisori dei vignettisti di Charlie Hebdo, sono nati e cresciuti. A Birmingham, c'è un quartiere, 10 Sparkbrook , da dove viene un decimo dei jihadisti del Regno Unito. Tutte le più grandi città europee hanno énclave separate dove prolifera l'apartheid islamico. Lì, i burqa e le barbe significano qualcosa. Il costume ha sempre simboleggiato la fedeltà a uno stile di vita, a una civiltà. Quando Mustafa Kemal Atatürk abolì il Califfato in Turchia, vietò le barbe per gli uomini e i veli per le donne. La proliferazione dei simboli islamici nei ghetti europei ora demarca la separazione di questi sobborghi. Henry Bolton11, il nuovo leader del Partito per


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l'Indipendenza del Regno Unito (UKIP), di recente ha dichiarato che la Gran Bretagna è "sepolta" dall'Islam e "sommersa" dal multiculturalismo. 12 Il "multiculturalismo", secondo l'ex arcivescovo di Canterbury, Lord Carey of Clifton , "ha provocato delitti d'onore, mutilazioni genitali femminili e legge della sharia, nelle sacche dei quartieri poveri in tutto il Regno Unito". Nel multiculturalismo europeo, le donne musulmane hanno perduto molti dei diritti che avrebbero avuto in Europa. Esse sono vittime di "delitti d'onore". Le colpe? Il rifiuto di indossare il velo islamico; vestire all'occidentale; frequentare amici cristiani; convertirsi a un'altra fede; cercare il divorzio; opporre resistenza alle violenze familiari ed essere troppo "indipendenti". È uno dei grandi paradossi del multiculturalismo: cinque paesi membri europei della NATO stanno combattendo in Afghanistan contro i talebani, che riducono in schiavitù le donne, mentre in Europa accade lo stesso nei nostri ghetti. 13 Nel multiculturalismo la poligamia è aumentata, insieme alla mutilazione genitale femminile (500 mila casi in tutta Europa14). Di fatto, il multiculturalismo si basa sulla legalizzazione di una società parallela governata dalla sharia15, che è fondata sul rifiuto dei valori occidentali, soprattutto dei valori di uguaglianza e libertà. Inoltre, la paura di "offendere" le minoranze islamiche ha portato alla cecità. Questo è ciò che è 16 accaduto a Rotherham , una città di 117 mila abitanti nel nord dell'Inghilterra, dove per molti anni è stato consentito a "bande di stupratori di origine pakistana" di adescare e abusare di 17 almeno 1400 bambini . Nel multiculturalismo, l'antisemitismo è aumentato vertiginosamente, soprattutto in Francia. Il settimanale francese L'Express ha appena dedicato un intero numero al "nuovo malessere degli ebrei francesi"18. I recenti terremoti politici che hanno sconvolto l'Europa sono una conseguenza del fallimento 19 del multiculturalismo. Come ha dichiarato lo storico britannico Niall Ferguson , la ragione principale della Brexit è stata l'immigrazione. "Molta gente nel Regno Unito guardava alla crisi dei rifugiati in Europa e pensava: se questi prendono il passaporto tedesco verranno in Gran Bretagna e non saremo in grado di fermarli. Questo era un tema fondamentale per gli elettori, e legittimamente, perché i tedeschi avevano aperto le porte a un vasto afflusso dal mondo musulmano. Se guardavi queste cose dal Regno Unito la reazione era: aspetta un attimo, che succede se arrivano qui?" Nei Paesi Bassi, l'ascesa di Geert Wilders20 è il diretto risultato dell'assassinio del regista Theo van Gogh da parte di un islamista olandese e del rigurgito di anti-multiculturalismo che ne è seguito. In Francia, l'ascesa politica di Marine Le Pen è coincisa con due anni di grandi attacchi terroristici, 21 in cui 230 cittadini francesi sono stati assassinati . Inoltre, il successo straordinario nelle recenti elezioni politiche in Germania del partito Alternativa per la Germania (AfD) è la conseguenza della fatale decisione della cancelliera Angela Merkel di aprire le porte a più di un milione di rifugiati e migranti. Beatrix von Storch, una 22 dirigente della AfD, ha appena detto alla BBC che "l'Islam non appartiene alla Germania" .

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La leader di Alternativa per la Germania ha spiegato che una cosa è consentire ai musulmani di predicare in privato la loro fede islamica, ma un'altra cosa è rabbonire l'Islam politico, che cerca di cambiare la democrazia e la società tedesca. L'establishment europeo ha chiuso gli occhi mentre i suprematisti musulmani violavano i diritti del proprio popolo. Molti islamisti hanno poi bussato alle porte dell'Europa con ancor più determinazione. Il multiculturalismo sta uccidendo e destabilizzando l'Europa come solo il nazismo e il comunismo hanno fatto prima. Giulio Meotti Tratto da https://www.gatestoneinstitute.org/

Note: 1 https://www.europol.europa.eu/newsroom/news/2017-eu-terrorism-report-142-failed-foiled-and-completed-attacks1002-arrests-and-142-victims-died 2 https://www.wsj.com/articles/jihad-in-manchester-1495580931 3 http://www.telegraph.co.uk/news/2017/05/23/victims-manchester-terror-attack/ 4 https://www.theguardian.com/world/2017/aug/27/death-toll-spain-terror-attacks-rises-barcelona 5 http://edition.cnn.com/2017/08/21/europe/finland-terror-attack-suspect-named-in-court/index.html 6 http://www.france24.com/en/20171002-marseille-train-station-attacker-alias-tunisian-passport-not-terror-list 7 https://www.theguardian.com/uk-news/2017/sep/30/two-men-killed-series-stabbings-london-manchester-birminghamsheffield 8 https://www.the-american-interest.com/2017/06/06/europes-suspended-communities/ 9 http://www.lefigaro.fr/actualite-france/2015/01/08/01016-20150108ARTFIG00325-les-voisins-de-cherif-kouachidecrivent-un-homme-affable-et-poli.php 10 http://www.dailymail.co.uk/news/article-4344300/How-DID-Birmingham-jihadi-capital-Britain.html 11 http://www.independent.co.uk/news/uk/politics/ukip-henry-bolton-new-leader-islam-multiculturalism-anne-mariewaters-a7976006.html 12 http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/middleeast/syria/11053646/Multiculturalism-has-brought-us-honourkillings-and-Sharia-law-says-Archbishop.html 13 http://www.dailymail.co.uk/news/article-3414264/Want-higher-benefits-marry-one-wife-New-welfare-rules-hand-extrataxpayer-cash-polygamists.html 14 http://europa.eu/rapid/press-release_STATEMENT-17-214_en.htm 15 http://www.theweek.co.uk/law/57863/sharia-law-creating-parallel-uk-legal-system 16 http://www.independent.co.uk/voices/comment/rotherhams-doctrine-of-multiculturalism-was-fundamentally-flawed-its-time-for-inter-culturalism-10027850.html 17 http://www.bbc.com/news/uk-28953549 18 http://www.lexpress.fr/actualite/l-express-du-27-septembre-2017-le-grand-malaise-des-francais-juifs_1946834.html 19 http://www.corriere.it/esteri/17_settembre_06/ferguson-c-ancora-voglia-brexit-primo-motivo-migranti-dd734af8-933a11e7-a8ea-58c09844946a.shtml 20 https://www.theatlantic.com/international/archive/2017/03/how-geert-wilders-became-possible-in-tolerantnetherlands/518892/ 21 https://www.theguardian.com/world/2017/oct/01/french-police-operation-under-way-at-marseille-train-station 22 http://www.bbc.com/news/av/world-europe-41488722/afd-s-beatrix-von-storch-islam-does-not-belong-to-germany


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IL SESSO MALATO: STUPRI, MOLESTIE, ACCONDISCENDENZA PREMESSA So bene che mi tirerò addosso gli strali delle femministe incallite e degli pseudo intellettuali che vorrebbero un mondo perfetto e pretendono di vivere come se davvero lo fosse, ma non me ne frega niente. Ciò che scrivo in questo articolo, del resto, lo ripeto da decenni. Nihil novi sub sol, quindi, ma la recrudescenza delle violenze sessuali impone il ribadimento di concetti che, per quanto duri e poco gradevoli, sfondino la barriera dell'ipocrisia sociologica che a nulla serve se non a riempire pagine di giornali, mentre la lista delle vittime cresce a dismisura. I FATTI Partiamo da un recente episodio assurto alla ribalta della cronaca. Una venticinquenne di Catania si reca in discoteca con una persona conosciuta su un social network. Nel corso della serata, secondo prassi ben consolidate negli ambienti giovanili, beve abbondantemente e fa amicizia con un altro uomo, che si offre di accompagnarla a casa. (Non ho reperito notizie su che fine abbia fatto il primo tipo). Lei accetta e l'uomo la fa accomodare in auto, nella quale entrano anche due suoi amici. I tre, lungi dall'accompagnare la ragazza a casa, la conducono in una zona isolata dell'entroterra etneo e la violentano ripetutamente, con immancabile videoripresa dello stupro. Appagati i sensi, si dileguano abbandonando la sventurata nel cuore della notte, in una zona isolata. Un passante, alle cinque del mattino, la soccorre e chiama i Carabinieri. Seppure in stato di shock, la ragazza riesce a fornire elementi utili per l'identificazione degli stupratori, che vengono arrestati nel giro di poche ore. LIBERTA' NON VUOL DIRE FARE SEMPRE CIO' CHE SI VUOLE. La vicenda non necessita di commenti. E' ben chiaro che ciascuno è libero di vivere la propria vita come meglio ritenga opportuno. Il discorso, quindi, necessariamente va improntato sulle modalità comportamentali attuate in talune circostanze, perché nessuno agisce volontariamente per farsi del male o vivere esperienze terribili e mortificanti. Si tratta di stabilire una dimensione "culturale" del problema, per farne recepire l'essenza alla luce della realtà contingente, come avviene per tante altre fenomenologie sociali, che determinano azioni serenamente accettate e addirittura praticate con uno zelo che talvolta

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appare decisamente eccessivo. A titolo di esempio cito un episodio che risale a qualche anno fa, verificatosi in una grande città italiana. Le protagoniste sono due diciassettenni, figlie di miei conoscenti, brillanti studentesse, ligie ai doveri familiari e ben orientate verso percorsi di vita che riflettono le aspettative dei genitori. Sono anche bellissime e periodicamente si cimentano in quel mondo della moda che affascina tutte le ragazzine, concedendosi qualche sfizio con i proventi delle sfilate e dei servizi fotografici. Grace (nome non reale) abita al quinto piano di un edificio ubicato all'interno di un parco "iperprotetto", con tanto di guardiano all'ingresso principale, che è anche l'unico da quale si possa accedere. I furti, in quel parco, costituiscono impresa ardua anche per le bande più specializzate. Nondimeno quasi tutti gli appartamenti sono muniti di porte blindate e sofisticati impianti antifurto. Alle diciassette di un pomeriggio qualsiasi Grace riceve una telefonata dalla sua amica del cuore, che le chiede di accompagnarla in un negozio per degli acquisti. La mamma di Grace lavora in ospedale e sarebbe rientrata tardi. Il papà è bancario, prossimo al rientro, ed è a lui che telefona per dirgli che si appresta a uscire. Nonostante l'imminente arrivo del papà, tuttavia, chiude la porta attivando "istintivamente" sia l'antifurto elettronico sia la doppia serratura. Diciamo che in tale circostanza sarebbe bastato tirarsela dietro in modo da poterla aprire con un semplice giro di una sola chiave. La "formazione" impartita per difendere i propri beni, però, è tale da indurla ad attivare le protezioni ogni volta che in casa non resti nessuno, anche per poche decine di minuti. Raggiunta l'amica, mentre passeggiano serenamente, vengono affiancate da due giovani che iniziano a fare i pappagalli. Sono due fusti niente male, in perfetta simbiosi con le potenti moto che padroneggiano con maestria. In men che non si dica le due ragazze sono in sella ed è facilmente immaginabile cosa sia successo dopo. Cosa spinge due ragazze di buona famiglia, che proteggono oltre il necessario un'abitazione a prova di furto, a fidarsi di due sconosciuti sol perché "avevano la faccia dei bravi ragazzi"? Il punto cruciale di tutta la problematica è proprio questo. Vi sono senz'altro le violenze perpetrate a donne che subiscono "anche" il rapimento o l'aggressione; è molto alto, tuttavia, e forse addirittura più consistente, il numero delle violenze subite da coloro che si siano improvvidamente fidate di uomini appena conosciuti. Per oltre trenta anni ho diretto un'agenzia di modelle e conosco bene il modo di ragionare di tante ragazze. Per loro è normale "accettare" l'approccio di uno sconosciuto, "per amicizia", senza avere alcuna intenzione di finirci a letto, almeno non subito. Per quanto possa sembrare paradossale, non si ritiene che è molto difficile incontrare dei "gentleman" in discoteca o per strada e quindi è sempre opportuno non fidarsi. La sfilza degli esempi è davvero lunghissima e qui basti solo ricordare la studentessa di Tivoli che fu stuprata all'esterno di una discoteca, all'Aquila, e abbandonata nella neve. La ragazza si recò nel locale "da sola" e fu "brutalizzata con strumenti metallici" dopo essersi appartata con un militare "appena conosciuto". Il militare è stato condannato a otto anni di carcere, ma lei dovrà convivere per sempre con il


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fardello di quella terribile esperienza, che indusse il ginecologo del pronto soccorso a dichiarare di non aver mai visto lacerazioni di tale portata. UN MESSAGGIO CHIARO Il messaggio, nella sua drammaticità, è molto semplice. Occorre accettare l'idea che esiste un profondo "gap culturale e comportamentale" tra "il pensiero femminile" e quello che caratterizza molti uomini. Una ragazza può essere pronta a socializzare, a fare amicizia, senza per questo essere disponibile a fare sesso con chiunque. La stragrande maggioranza dei maschi (e "stragrande maggioranza" viene utilizzato solo perché non è mai corretto generalizzare) non è pervasa da analoghi presupposti e l'accettazione di un invito a bere un drink da parte di una ragazza, magari avvenente e sexy, per loro prelude a un rapporto sessuale. Spesso ciò accade con serena consonanza d'intenti. In tante occasioni, però, l'approccio sessuale è respinto e ciò lascia affiorare gli istinti primordiali non sedati dal processo evolutivo. Questo è quanto. E' facile far comprendere anche a un bimbo di cinque anni che esistono i ladri e pertanto occorre prestare molta attenzione per tutelare i propri beni. E' così difficile far accettare i presupposti di cui sopra? La domanda è retorica, almeno per me, perché so bene "quanto sia difficile", avendo ben analizzato le reazioni delle dirette interessate quando ho spiegato loro, in modo ancora più esplicito e composito, la problematica esposta. Insistere su quest'analisi e renderla "ricettiva", tuttavia, risulta di fondamentale importanza per arginare in modo significativo il triste fenomeno della violenza sulle donne. Prevenire, come sempre, è meglio che curare. Poi, va da sé, è importante affrontare compiutamente anche altri aspetti, connessi alle norme che disciplinano il reato di stupro, troppo blande, e all'eccessiva propensione delle ragazze a ubriacarsi e drogarsi, facilitando di molto la vita a chi intenda abusare di loro. Come sempre, chi è causa del suo mal poi può solo piangere se stesso. A prescindere: il lassismo con cui si tollera l'uso di droga e alcool da parte dei giovanissimi, quando non addirittura si favorisce, è colpa grave degli adulti. SESSO E POTERE: UN RAPPORTO ANTICO Non si è ancora spenta l'eco dello scandalo che ha travolto Hollywood grazie alle dichiarazioni di "alcune" tra le tante attrici che sono state molestate sessualmente dal produttore Harvey Weinstein. Gli argomenti pruriginosi "tirano" e la stampa si è gettata a capofitto sulla vicenda, producendo una messe enorme di analisi e interviste. E' facile presagire che i tanti settimanali di gossip camperanno bene per molti mesi, con questa storia, in attesa della prossima. Il fulcro della vicenda, in effetti, è che anche in questo caso non vi è niente di nuovo sotto il sole. A scanso di equivoci è bene ribadire ciò che ho già detto e scritto centinaia di volte: chiunque abusi del proprio potere per portarsi a letto una donna è un essere spregevole, indegno di vivere

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in un consorzio civile e meritevole, prima ancora di rispondere penalmente delle sue azioni, di essere "trattato" clinicamente con procedure particolari sui cui dettagli non scendo, precisando solo che metterebbero al sicuro chiunque dovesse trovarsi al suo cospetto. Detto questo, passiamo al secondo aspetto della vicenda, che appare addirittura banale nella sua enunciazione: "Se tutti coloro che ricevono molestie, invece di assecondare i porci, li denunciassero subito, il fenomeno si ridurrebbe drasticamente". Il dato fondamentale, pertanto, è che esistono i porci ma anche le zoccole, che con i porci non si fanno alcuno scrupolo di accompagnarsi, pur di far carriera, di accelerare il percorso universitario, di ottenere una parte in un film. Certo, può costare caro dire "NO" (e io lo so per esperienza diretta, come spiegherò tra poco) ma è una questione di scelta: chi dice "SI'" non è una vittima ma una che si prostituisce. Alcune amiche avevano iniziato una brillante carriera nel mondo dello spettacolo, con numeri davvero alti sotto qualsivoglia profilo: talento reale, buona scuola, physique du rôle, grande personalità, indiscusso fascino. Hanno ricevuto, come tante, ricatti e molestie e si sono rese conto che se non avessero ceduto sarebbero state scavalcate dalle mezze cartucce pronte ad aprire le gambe a un semplice schiocco di dita. Hanno visto i loro sogni infranti sul mefitico altare di un sistema schifoso, popolato da essere immondi, e hanno deciso di non accettarne le regole. Si sono realizzate professionalmente in altri contesti, nei quali sono loro a dirigere la baracca e quindi non corrono alcun rischio. Hanno dovuto rinunciare, però, a ciò che più bramavano. Da giovane, le mie sorti di teatrante, che vivevano momenti difficili per la propensione a mettere in scena le cose che piacevano a me e non quelle che piacevano agli altri, subirono un radicale cambiamento quando incontrai una persona che dimostrò di apprezzare i miei lavori e si rese disponibile a produrre anche l'opera più importante da me realizzata, ossia la trasposizione in prosa della tetralogia wagneriana (L'anello del Nibelungo). Un'opera che mi era costata quasi un anno di lavoro e che induceva a scomposte reazioni tutti coloro ai quali la proponevo: "Tu sei pazzo"; "Ma chi te lo fa fare, scrivi una cosuccia allegra e cerchiamo di avere anche qualche contributo". Quelli più importanti, poi, erano i peggiori (e ritorniamo al solito discorso): "Linuccio, ma tu nun tien pure nu giro e' belle figliole? E faccimm' nu bell musicàl, nu can can! A chi cazz vuò che interess sta cosa strevza che m'hai purtat! Ca nun se capisce nient! Si vulimm fa caccosa io sto ccà". "Ma no guardi, lei è un importante produttore teatrale e io "solo" di teatro sono venuto a parlare con lei". "E vabbuò, e nui dint a nu teatro facimm o' spettacul, ma porta doie belle figliole… lassa sta' sti cose strevze". (Chiedo scusa ai napoletani veraci per gli errori, ma presumo che il concetto traspaia. Per i non napoletani: "strevz" vuol dire "strano"). Può immaginarsi la mia gioia, pertanto, quando finalmente trovai qualcuno che mi prese seriamente in considerazione. Avrebbe potuto essere un uomo, magari felicemente sposato o fidanzato e invece era una donna. Professionalmente era un vero portento e me ne resi conto subito. Purtroppo si prese una brutta scuffia per me e mi fece chiaramente capire che il nostro rapporto doveva marciare su due binari. Non si può parlare di molestie, ovviamente, perché i suoi sentimenti erano reali ed espressi


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educatamente, sia pure con ferma determinazione, inducendomi a effettuare una scelta ben precisa: avrei potuto assecondarla e beneficiare del suo "insostituibile supporto" o troncare subito. Optai per la seconda ipotesi e dissi "NO": non mi andava di "prostituirmi", tanto più nei confronti di una persona che era sinceramente innamorata di me. Correva l'anno 1988 e i miei sogni di "teatrante" finirono lì. Se si può dire "NO" in simili circostanze è ancora più facile dirlo al cospetto di un porco che generi profondo disgusto. E' solo una questione di "scelta". Il mondo dello spettacolo da sempre funge come "icona" di questo diffuso malcostume, ma ciò rappresenta la più colossale delle leggende metropolitane. Non vi è ambiente che ne sia immune, come ben sanno soprattutto le vere "vittime" di un lercio sistema, che non sono certo le donne "molestate" dagli uomini ricchi e potenti, bensì quelle che, dicendo "NO", lasciano loro campo libero per fulgide carriere in ogni settore: artistico, professionale e politico. Lino Lavorgna

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ERNST JUNGER: QUEL POMERIGGIO DI OTTOBRE, TRENT’ANNI FA "La storia autentica può essere fatta soltanto da uomini liberi. La storia è l'impronta che l'uomo dà al destino. In questo senso possiamo dire che l'uomo libero agisce in nome di tutti: il suo sacrificio vale anche per gli altri". (Il trattato del ribelle - 1951) Spesso mi chiedo come sarebbe il mondo se tutti leggessero alcuni libri, traendone spunti per le proprie azioni, in special modo quando si occupino importanti posizioni di potere. E' pazzesco costatare come l'umanità, possedendo antidoti sicuri per curare le proprie malattie più gravi, se ne privi in modo così sfacciato. Mi si obietterà che la storia non si fa con i "se" e le cose accadono perché l'uomo risponde a impulsi e condizionamenti che contemplano anche l'ignoranza. E' senz'altro vero, ma il pregiudizio sul "se" non mi ha mai convinto. Una bella fetta della storia dell'umanità, di fatto (ma forse sarebbe più corretto dire tutta), non è altro che una variabile del "se". Come sarebbe cambiata la storia del mondo "se", in Palestina, al posto di Ponzio Pilato, corrotto, licenzioso, crudele e non certo pervaso da grandi doti di lungimiranza, vi fosse stato un prefetto realmente capace di valutare le conseguenze delle proprie azioni e gestire gli eventi in modo appropriato, salvando Gesù dalla croce? Wellington avrebbe mai vinto a Waterloo "se" non si fossero verificate una serie infinita di circostanze "casuali" solo a lui favorevoli?1 Henry Tadney è un nome misconosciuto, ancorché legato a un evento che ha segnato, e non poco, la storia dell'umanità. Il 28 settembre 1918, sul finire della prima guerra mondiale, un plotone d'assalto inglese (faceva capo al reggimento "Duca di Wellington"), attaccò una trincea nemica a Marcoing, nei pressi di Cambrai, in Francia. Tra i soldati inglesi vi era proprio il ventisettenne Henry Tadney, già veterano di tante battaglie e più volte ferito in azione. L'assalto fu letale per i tedeschi, sopraffatti in pochi minuti. Henry, entrato in trincea, si trovò davanti un caporale ferito, sanguinante e impaurito, già presago della sorte che lo attendeva. Il soldato inglese, invece, pronto per sferrare il colpo mortale, indugiò e abbassò l'arma, lasciandolo vivere. "Non potevo sparare a un uomo ferito", dirà in seguito. La battaglia di Marcoing gli valse la "Victoria Cross", la più alta onorificenza militare assegnata per il valore "di fronte al nemico". Peccato che il caporale cui salvò la vita si chiamasse Adolf Hitler. Il 15 agosto 1944, 200mila soldati invasero la Provenza, per accerchiare l'esercito tedesco in Francia, già in rotta grazie allo sbarco in Normandia del 6 giugno. Winston Churchill fece di tutto


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per convincere Roosevelt che l'operazione "Dragoon" (nome in codice dell'invasione alleata della Francia meridionale) era sostanzialmente inutile e che sarebbe stato preferibile dirottare le truppe nei paesi dell'Europa dell'Est, per occuparle prima che cadessero nelle mani dei russi. Come sarebbe cambiata la storia del mondo "se" il presidente degli USA avesse dato retta al primo ministro inglese? Ritornando ai libri: Hitler avrebbe invaso la Russia se avesse letto "Guerra e Pace?" Cinque esempi, piuttosto significativi, di una lista infinita. Mi ero preparato bene, alla vigilia di quel 5 ottobre 1987, che vide Ernst Jünger protagonista di un convegno organizzato dall'Istituto "Suor Orsola Benincasa" di Napoli. Volevo porgli tante domande, tra le quali proprio quella sul "se", che risultava oltremodo interessante, visto che era stato capace di vivere la vita che aveva voluto. Ma era stato proprio così? E in caso affermativo, a che prezzo? Al convegno mi recai con due carissimi amici, Bruno e Annamaria. Bruno era già un apprezzato docente universitario e Annamaria muoveva i primi passi della sua brillante carriera accademica. Bruno era stato docente di entrambi, quando, a soli ventidue anni, già fungeva da assistente di Ricardo Campa nel corso di Storia delle Dottrine Politiche, presso la facoltà di Scienze Politiche della Federico II. Poi scoprì che Annamaria non era solo una bravissima allieva, ma una donna 2 eccezionale con rare virtù, e la sposò. L'aula magna dell'Istituto era gremita e, per quanto capiente, non poteva contenere la marea umana che si assiepava ovunque fosse possibile, per ascoltare la voce del Ribelle che combatte il Leviatano; la voce di quel gigante del pensiero, capace di spiegare la storia con la "visione" del 3 testimone diretto e predire il futuro. Compresi subito che i miei propositi colloquiali erano destinati a fallire miseramente, considerato l'alto numero di eminenti studiosi che popolava le prime file e relatori che palesavano eloquenti intenti di monopolizzare il convegno. Dopo la prolusione del Rettore, il filosofo e futuro parlamentare europeo Biagio De Giovanni, a turno presero la parola gli altri. Di Giacomo Marramao ricordo la lunga esposizione in un perfetto tedesco e le domande poste a Jünger, sempre in tedesco, che poi traduceva in italiano. Carlo Galli4, a sua volta, disquisì sulla "Mobilitazione totale", testo scritto nel 1930, del quale aveva curato la traduzione. Il saggio mette in risalto le straordinarie mutazioni insorte nella società con lo scoppio della 1^ guerra mondiale, che non vide solo gli eserciti combattersi su un campo di battaglia, ma la mobilitazione dell'intera umanità, quale che fosse il ruolo dei singoli individui. Non vi è alcuna differenza tra il soldato che combatte in trincea e "l'operaio" che costruisce armi in fabbrica. Ecco comparire, quindi, "Der Arbiter", la figura umana che sarà sviluppata in uno dei suoi testi più famosi, pubblicato nel 1932: "L'Operaio. Dominio e forma". In entrambe le opere Jünger registra il dinamismo delle forze primordiali della vita che, tornando alla ribalta, danno il colpo di grazia a una società già decadente. "La mobilitazione totale" investe tutti gli spazi della vita, che trascende la mera catastrofe rappresentata da qualsiasi guerra, contribuendo a creare una coscienza nuova in ogni individuo, proprio nel momento in cui

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l'individualità inizia a perdere forma e ciascuno è come nessuno. Lo spirito dei tempi, incarnato dall'Operaio che combatte sui campi di battaglia e del lavoro, avvia un processo di transizione epocale (Ubergangstand) che assomiglia a una sorta di catartica palingenesi, la ricostruzione dopo l'immane distruzione, caratterizzata da grandi fermenti, da un forte dinamismo, ma anche da una terribile inquietudine, con ripercussioni che si perpetueranno decennio dopo decennio, amplificandosi a macchia d'olio. Un processo che, sia pure con diverse connotazioni e intensità, non ha ancoro esaurito il suo percorso. Galli, che ovviamente ha ben decantato le pur complesse visioni e pre-visioni espresse tanto nel saggio da lui tradotto quanto in quello successivo, chiede soprattutto delle conferme alle interpretazioni degli studiosi, ottenendo, però, una risposta lapidaria, anche se fortemente esplicativa: "Sono stato solo il sismografo che ha registrato il terremoto". Aveva ben percepito, il grande pensatore, che nell'uditorio si stava incuneando una distonia relativamente al suo ruolo al cospetto della storia. Un po' per l'emozione di trovarsi al suo cospetto, infatti, e un po' per il condizionamento generato da una non profonda (o irrisoria) conoscenza della sua vita e del suo pensiero, in tanti lo vedevano come un attore corresponsabile di fatti straordinari accaduti in un secolo che si avviava al crepuscolo e non come il testimone attento, ma distaccato. Quella risposta contribuì, nei limiti del possibile, a mettere le cose a posto. Il convegno durò oltre due ore e i relatori, purtroppo, non solo non gli formularono nessuna delle domande che io ritenevo davvero importanti, ma occuparono gran parte del tempo con le loro relazioni, sicuramente interessanti, ma poco opportune in quel momento. Al termine vi fu il prevedibile arrembaggio per ottenere autografi sui testi e sulle locandine. Mi feci coraggio e riuscii a raggiungerlo, trascinandomi Annamaria, che non mi era certo seconda in quanto a temerarietà. Bruno, invece, sicuramente più seccato di me per come si era svolto il convegno, per natura schivo e riservato, restò al suo posto, a meditare, come spesso gli accadeva. Fattomi largo con grande determinazione, gli porsi la locandina e una "Parker lacca cinese" per l'autografo, pregandolo di accettare la penna in omaggio. Scattai velocemente qualche foto e poi, alzando leggermente la voce affinché il mio inglese fungesse da subliminale monito per sedare il vociare convulso di chi mi attorniava, riuscii a formulare, finalmente, due domande. Avevo considerato, velocemente, che dovevano essere brevi e secche e che proprio non vi era la possibilità di modularle in modo articolato, come mi sarebbe piaciuto. Gli chiesi, pertanto, una riflessione sul suo rapporto con Hitler e cosa pensò quando seppe che il dittatore lo aveva cancellato dalla lista dei condannati a morte per l'attentato alla "Tana del lupo", ordito dal suo amico, il colonnello Von Stauffenberg. Le domande fecero effetto, perché, con mio grande piacere, tutti tacquero in attesa della risposta. Sapevo che non amava molto le domande sul nazismo e su Hitler, ma in quel periodo era l'argomento che trovavo più intrigante. La sua risposta, per quanto interessante, eluse considerazioni di carattere storico-filosofico e "non andò a fondo", anche perché il contesto caotico di quei momenti non lo consentiva.


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Si limitò a dire che, nel 1932, Hitler gli offri un seggio al Reichstag, cortesemente rifiutato perché "la politica non gli interessava". Pronunciò la frase calcando volutamente la parola "politica", per rendere meglio l'idea che non gli interessava la politica di Hitler, al quale, per inciso, avrebbe fatto molto comodo averlo come sostenitore. 5 Ancora più evasiva fu la seconda risposta e non avrebbe potuto essere altrimenti. Vi sono vicende della storia destinate a restare avvolte nel mistero e il coinvolgimento di Jünger nell'attentato a Hitler del 1944 è uno di questi. E' assodato che egli venne a conoscenza del progetto, visti i rapporti con il colonnello Claus Schenk Von Stauffenberg, l'aristocratico e raffinato conte bavarese che vantava legami di sangue con la dinastia imperiale sveva degli Hohenstaufen e con il feldmaresciallo Von Gneisenau, anch'egli conte e artefice della riforma dell'esercito prussiano. Ma fino a che punto si spinse il suo coinvolgimento? Fu un protagonista "attivo" o un semplice spettatore? L'enigma è destinato a restare irrisolto e si può procedere solo per ipotesi, partendo dai pochi dati certi. Per sua stessa ammissione sappiamo che la notizia del piano per assassinare il Führer la apprese dopo un colloquio con il fratello Friedrich Georg e l'avvocato Adam von Trott zu Solz, uno dei protagonisti del complotto. Durante il colloquio, che presumibilmente affrontava in chiave critica le vicende belliche, non si fece cenno al complotto. Solo dopo, in un colloquio riservato, Georg rivelò al fratello che si stava progettando di assassinare Hitler. Evidentemente l'idea non gli dispiaceva, ma da qui a ritenerlo attivamente coinvolto, come si legge in molti testi, ce ne vuole. In un'intervista, rilasciata in occasione del suo centesimo compleanno, rivela che il complotto gli suggerì l'idea di scrivere un romanzo.6 Un evento che avrebbe potuto incidere in modo sensibile su un'immane tragedia, quindi, viene da lui recepita come semplice pretesto per una "trama letteraria". Onestamente stento a credere che si possa pensare ad altro, tributando a quella risposta un fine strumentale, distante dalla realtà. La sua visone elitaria del mondo traspare in tutta la sua portata, alla pari del distacco dalle umane vicende, pur gravi, che tormentavano le coscienze di tanti suoi contemporanei. Anche con me, ovviamente, fu altrettanto evasivo. Un leggero sorriso accompagnò pochi secondi di riflessione, prima di rispondere, forse per volare indietro con la mente e rivivere qualche momento di quel periodo. Poi, semplicemente, replicò senza alcun riferimento al suo amico colonnello: "L'attentato del 1944... fu fortunato, il Führer, in quella circostanza…". Forse avrebbe aggiunto qualche altra cosa, ma non gliene fu data l'occasione. I docenti organizzatori del convegno lo portarono via quasi di peso e io rimasi con un pizzico di amaro in bocca, leggermente attutito da quel barlume di risposta che, in parte, avallava la mia tesi sul "se". Fu davvero fortunato, il Führer in quella circostanza: il forte caldo indusse a spostare il luogo della riunione in un edificio di legno, con le finestre aperte, e non nel bunker dove avvenivano di solito, che avrebbe reso devastante l'esplosione; la riunione, inoltre, fu anticipata di trenta minuti perché nel pomeriggio sarebbe giunto Benito Mussolini in visita ufficiale e Stauffenberg non ebbe il tempo di armare la seconda bomba; il tavolo ubicato in quel locale era molto più solido e

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resistente dell'altro e attutì la forza d'urto dell'esplosione. "Se solo non avesse fatto caldo"; "se solo la riunione non fosse stata anticipata". E vi è anche un terzo "se", ancora più beffardo. La bomba, contenuta all'interno di una valigetta, fu posizionata vicino a Hitler dallo stesso Stauffenberg, che poi, con una scusa, abbandonò la stanza. Tra gli ufficiali che presero parte alla riunione vi era il colonnello Heinz Brandt. Mentre visionava la mappa sul tavolo, attorniando Hitler con gli altri convenuti, urtò la valigetta con il piede e la spostò di pochi centimetri, per evitare che gli desse fastidio. Dopo sette minuti la bomba esplose, investendo in pieno lui e non Hitler. Una gamba gli venne amputata di netto e il giorno dopo morì per le ferite riportate. Il suo gesto, però, salvò la vita a Hitler, che lo promosse Maggiore Generale post mortem. I principali congiurati dell'operazione "Valchiria"7, tra i quali il colonnello Stauffenberg, furono arrestati e giustiziati nel giro di poche ore. La ferocia di Himmler e Göring si scatenò soprattutto nei confronti di Von Stauffenberg. Il primo voleva massacrare tutti i membri della sua famiglia; il secondo dispose che le ceneri del colonnello fossero mischiate ad acqua di fogna e gettate in mezzo al marciume agricolo affinché non contaminassero il suolo tedesco. Altre esecuzioni, circa duecento, avvennero dopo un processo sommario, che vide coinvolte oltre cinquemila persone. Di fatto si colse l'occasione per chiudere i conti con molti nemici del regime. Tra i nomi degli inquisiti figurava anche Jünger, che Goebbles e Himmler volevano condannare a morte. Ancora una volta, però Hitler, depennò il suo nome dalla lista. "Jünger non si tocca", disse, e a malincuore i suoi gerarchi dovettero ubbidirgli. (Vedi nota nr. 5 circa la prima volta che Hitler gli salvò la vita). La loro vendetta, però, fu più terribile della stessa condanna a morte. Gli furono tolti i gradi di ufficiale della Wehrmacht e il figlio diciottenne, Ernestel, fu spedito a combattere in Italia e perse la vita a Carrara. E' naturale che un soldato possa morire in azione, ma forse per il giovane figlio del grande "Ribelle" avvenne proprio quello che ciascuno di voi sta pensando in questo momento, anche se non sarà mai possibile dimostrare che la sua morte fosse stata preordinata. Jünger riuscì a recuperare il corpo del figlio solo nel 1951, grazie all'aiuto di Henry Furst, Giovanni Ansaldo e 8 Marcello Staglieno . Fu proprio il poliedrico intellettuale statunitense che portò le spoglie di Ernestel a Wilflingen. Lo scrittore si era trasferito nel villaggio dell'Alta Svevia nel 1950 e abitava nel castello dei von Stauffenberg, dove rimase sino alla morte e dove invece non misero piede la vedova del colonnello e i suoi cinque figli, cui toccò ben triste sorte, anche se riuscirono a 9 scampare alla morte . L'incontro con Ernst Jünger, ancorché breve, è stato senz'altro uno dei momenti più emozionanti della mia vita. Toccare un Uomo che è stato il testimone dell'epopea più tragica vissuta dall'umanità, ascoltare la sua voce, sentirlo respirare, ha generato sensazioni mai assopite. Il suo pensiero, approfondito sui tanti testi scritti, ha costituito una vera medicina per lo spirito, rivelatasi molto utile quando la vita ha imposto di fare i conti con la sua caducità. I confronti epocali risultano sempre stucchevoli e fuori luogo. L'uomo prosegue il suo cammino, scrivendo pagine di storia, a volte belle e spesso tragiche. Sarà sempre così. Non si commette alcun peccato mortale, tuttavia, quando si afferma che, "al di là del bene e del male" e solo come


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mera analisi sociologica, in meno di cinquanta anni, si è registrata una straordinaria accelerazione del processo di mutazione del comportamento umano, rispetto ai secoli precedenti, che ha inciso profondamente nel modo di pensare e di concepire la vita, alterando sensibilmente princìpi, scale di valori, rapporti interpersonali e rapporti con la propria coscienza. Oggi, per dirla in breve, uomini come Ernst Jünger non se ne trovano, proprio in virtù del fatto che la realtà sociale condiziona in ben altro modo gli individui. Coloro che appartengono alla mia generazione hanno potuto "visualizzare" con maggiore chiarezza il passaggio epocale, in quanto, da giovani, hanno ancora avuto modo di "respirare" un'aria che sapeva d'antico. La veloce trasformazione sociale, poi, in molti ha generato seri problemi di adeguamento: si può imparare a utilizzare bene un computer a qualsiasi età, ma è molto più difficile cambiare radicalmente non tanto un'idea, quanto "il modo di pensarla", nonché l'approccio con il fluire delle vicende umane. Sotto questo profilo voglio citare un aneddoto che mi riguarda da vicino e chiarisce meglio il concetto. Qualche anno fa mi recai a far visita a un mio amico, sottufficiale dei Bersaglieri, nella caserma presso cui prestava servizio. Mentre discorrevamo sorseggiando un caffè, giunse un giovane ufficiale al quale mi presentò come ex Bersagliere "dell'eroico" 18° Battaglione Poggio Scanno. Il tenente, stringendomi la mano, mi disse subito che oramai quel battaglione non esisteva più. Pronunciò la frase con il sardonico sorriso di chi è pienamente ed entusiasticamente coinvolto nel suo mondo e vede fatti e avvenimenti del passato ancor più lontani di quanto non lo siano nella realtà. "Lo so bene - replicai, con un sorriso ancor più sardonico - e fu per me, come presumo per tanti altri commilitoni, un motivo di grande gioia lo scioglimento del Battaglione". "Ma come aggiunse, visibilmente sorpreso - non le è dispiaciuto?” "Tutt'altro! Vede, caro tenente, noi soldati del 18° Poggio Scanno siamo stati gli ultimi che si avvicinavano allo spirito dei soldati di un tempo, quelli del glorioso 3° Reggimento, ad esempio, da cui il battaglione proveniva, e allo spirito del soldato "guerriero". “Voi giovani militari, invece, siete pervasi da un altro spirito, che si esalta encomiabilmente in occasione delle alluvioni e dei terremoti. Ed è senz'altro meglio così, mi creda, perché la Pace è un bene supremo da tutelare e preservare. Mi sembra giusto, tuttavia, che quell'aura mistica e così particolare del mio vecchio Battaglione sia stata preservata con il suo scioglimento, invece di essere dispersa come lacrime nella pioggia, perpetuandone il nome nei tempi attuali". Il tenentino balbettò qualcosa e, inventandosi un improvviso impegno, produsse un rapido dietro-front e si allontanò velocemente. Questa differenza sostanziale tra due epoche così vicine e, allo stesso tempo, così lontane, fu resa ancor più chiara e palpabile proprio grazie all'incontro con Ernst Jünger, che di quel passato, alcuni sentori dei quali era ancora possibile percepire negli anni sessanta e settanta, fu un magistrale interprete. La locandina con la firma autografa mi fa compagnia nello studio, alle mie spalle, da allora. Non

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ho mai smesso di leggere e rileggere i suoi libri e di godermi il suono della sua voce grazie alle numerose testimonianze reperibili in rete. Mi capita spesso di pensare a quell'incontro e a tutte le domande che mi avrebbe fatto piacere porgli, immaginando anche le risposte, perché, dopo tutto, i Grandi Uomini hanno sempre una sola risposta per ogni domanda, quella giusta, e non è difficile intuirla una volta che si sia riusciti ad entrare nel loro "universo". L'incontro con Jünger avvenne, come ho scritto in precedenza, il 5 ottobre 1987. Da circa un anno avevo terminato di scrivere "Prigioniero del Sogno", che è rimasto nel cassetto per un trentennio, prima di vedere la luce10. La sera, rientrato a casa ebbro di sensazioni contrastanti e con la testa che scoppiava per i tanti pensieri che si succedevano con ritmo vertiginoso l'uno dietro l'altro, dopo essermi sforzato di recuperare un minimo di serenità, presi un foglio bianco e lo inserii nella "Olivetti ET112", che si apprestava a cedere il passo, di lì a poco, a un pesantissimo personal computer. Dai diari scritti in Francia, nel 1942, copiai uno degli aforismi più belli di Jünger e collocai il foglio all'inizio del romanzo. "Se chiudo gli occhi vedo talvolta un paesaggio oscuro con pietre, rocce e montagne all'orlo dell'infinito. Nello sfondo, sulla sponda di un mare nero, riconosco me stesso, una figurina minuscola che pare disegnata col gesso. Questo è il mio posto d'avanguardia, sull'estremo limite del nulla: sull'orlo di quell'abisso combatto la mia battaglia". Sentinella perduta sull'ultimo avamposto, quello che non è segnato su nessuna mappa, forse perché a nessuno interessa conquistarlo. O forse perché può essere visto solo da chi sappia guardare oltre l'orizzonte più lontano. Lino Lavorgna

NOTE 1) Napoleone con le emorroidi che non riusciva a stare in sella per controllare la battaglia e non riuscì mai ad avere un quadro chiaro, a differenza di Wellington, che galoppava in lungo e in largo tra le sue truppe. La pioggia, che rese il terreno fangoso limitando l'utilizzo dell'artiglieria e determinò lo spostamento dell'inizio della battaglia, favorendo il rientro dei Prussiani. La morte di Berthier, capo di stato maggiore, pochi giorni prima della battaglia, non si sa se per incidente, suicidio o omicidio (propendo per la terza ipotesi) sostituito da Soult, che del predecessore non aveva né la competenza né il carisma. Con Berthier non si sarebbe mai verificata l'idiozia perpetrata dal Maresciallo Ney: attaccare con la cavalleria senza il sostegno della fanteria (Napoleone si era dovuto allontanare perché gli bruciava il sedere e l'attacco fu ordinato senza il suo assenso, determinandogli bruciori ancora più forti quando venne a sapere della fesseria commessa dal suo sottoposto). Tutto ciò premesso, sarebbe bastato che quel babbeo del generale Grouchy avesse intercettato i prussiani, impedendo loro di raggiungere il campo di battaglia, invece di starsene fermo a Wavre, e gli eventi avrebbero preso tutta un'altra piega. Significativa, sotto questo profilo, la frase che Napoleone pronunciò dopo che ebbe chiesto a Soult se avesse fatto recapitare il suo ordine a Grouchy. Alla di lui risposta: "Sì, ho mandato un ufficiale", replicò piccato e deluso: "Un ufficiale! Ah mio povero Berthier! Se fosse stato qua ne avrebbe mandati venti!"


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Va detto, di converso, che il "se" non riguarda solo Napoleone. Wellington ebbe l'opportunità di "risolvere la partita" prima che iniziasse, quando un suo ufficiale gli disse che l'Imperatore era a tiro di cannone mentre perlustrava le truppe. Famosa la sua risposta nel rifiutare l'autorizzazione a sparare la salva: "I comandanti hanno di meglio da fare che spararsi a vicenda". Capriccio da Lord che non avrebbe cambiato la storia, (per Napoleone non vi sarebbe stato futuro anche in caso di vittoria, perché le monarchie alleate non gli avrebbero comunque lasciato scampo) ma che avrebbe impedito la morte di circa settantamila uomini, Il che non è cosa da poco. 2) Il matrimonio fu celebrato tre giorni dopo il convegno, l'8 settembre, e curai io la regia dell'evento, in quel di Formia. Bruno è deceduto a causa di un infarto nel 2003. 3) In Eumeswil, uscito nel 1977 (concepito nel 1972), si trovano sconcertanti premonizioni: sulla tecnologia, l'avanzamento della decadenza, il destino di globalizzazione, le forme di resistenza. Jünger descrive minuziosamente macchinari e tecnologie che si sarebbero affermati solo dopo qualche decennio: i personal computer, internet, i telefoni cellulari. 4) Filosofo politico e docente universitario. 5) Oltre al seggio gli fu offerta anche la presidenza dell'Accademia Tedesca dei Poeti, ma egli rifiutò entrambe le cariche. Anche Goebbles lo aveva corteggiato a lungo, invano, per indurlo a sostenere il nazionalsocialismo, come ammise pubblicamente: "Abbiamo offerto a Jünger ponti d'oro, ma lui non li volle attraversare". A Jünger, di fatto, ripugnava lo stile volgare e demagogico del nazionalsocialismo e non nutriva alcuna fiducia circa i progetti grandiosi che enunciava. Il suo rifiuto generò una sorta di risentimento nelle alte sfere del regime, che iniziò un sottile ostracismo. La sua abitazione fu perquisita dalla Gestapo e l'uscita dei suoi libri messa sotto silenzio dalla stampa. Nel 1939, Goebbels, a una conferenza pubblica, gli domandò: "E ora, Herr Jünger, cosa ne pensa?" Lo scrittore rispose con un romanzo: "Sulle scogliere di marmo". In esso si parla di una terra idilliaca che passa, violentemente, dall'ordine tradizionale a un regime barbarico e totalitario. A questo punto, Göring e Goebbels avrebbero voluto liquidarlo, come già era stato fatto con altri esponenti della Destra tedesca, quali Niekisch, imprigionato, e E.J. Jung, assassinato. Hitler, tuttavia, che subiva il suo fascino di scrittore, gli salvò la vita. 6) Rete televisiva Zdf - Intervista rilasciata al drammaturgo Rolf Hochhuth e al critico Gero von Boehm. 7) Operazione Valchiria. Stauffenberg e la mistica crociata contro Hitler - Michael Baigent Michael; Richard Leigh - Edizioni "L'età dell'Acquario" - 2009. (Molto valido anche il film "Operazione Valchiria (Valkyrie) diretto da Bryan Singer nel 2008, con Tom Cruise nel ruolo del colonnello Stauffenberg. 8) Antonio Gnoli - Franco Volpi: "Il tempo dei titani. Conversazioni con Ernst Jünger". Adelphi, Milano. Vedere anche il testo di Luigi Iannone: "Jünger e Schmitt. Dialogo sulla modernità. Introduzione di Marcello Staglieno. Armando Editore, 2009. 9) Dopo l'esecuzione sommaria di suo marito, la contessa Von Stauffenberg fu arrestata dalla Gestapo e presa in custodia secondo l'antica legge del Sippenhaft, (arresto per motivi di parentela) ristabilita dal governo nazista. I cinque figli furono inviati in un orfanotrofio a Bad Sachsa, in Bassa Sassonia, con il cognome mutato in "Meister". A guerra finita la contessa fu trasferita in provincia di Bolzano, dove fu trattenuta come ostaggio, in cambio del riscatto di alcune proprietà naziste. In seguito raggiunse la famiglia a Lautlingen, nella casa di proprietà. La contessa morì il 2 aprile del 2006 a Kirchlauter, in Baviera, all'età di 92 anni. 10) "Prigioniero del sogno" - Edizioni Albatros, marzo 2015.

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CHI HA PIU’ CERVELLO... Un’attenta lettrice ci ha inviato un commento critico all’articolo di Antonino Provenzano: “Crisi dell’Occidente” (apparso nel numero scorso) che, volentieri, pubblichiamo. Preliminarmente, voglio ringraziare la rivista e il suo Direttore per l'ospitalità. Mi sento grata perché mi è stata data la possibilità di uscire dal 'guscio' della sola lettura del pregevole lavoro altrui per cimentarmi nell'esposizione del mio pensiero e, in conseguenza del mio scritto. E, perché ciò accadesse, mi corre altresì l'obbligo di ringraziare sentitamente il sig. Antonino Provenzano che con il suo saggio 'La crisi dell'Occidente' ha fornito alla mia ritrosia carburante a sufficienza per essere accantonata. Ho letto con vero interesse quel saggio e ne condivido anche alcuni aspetti ma ciò che mi trova in disaccordo sono, da un lato, i percorsi individuati dal collega per giungere a certe fondate affermazioni. Dall'altro, invece, sono in pieno disaccordo su altre asserzioni. Quindi spero che il collega non me ne voglia se mi avventurerò nella disamina del suo lavoro a cominciare dalla dichiarazione di apertura: La causa di fondo della crisi sistemica della Civiltà occidentale ha soltanto un nome: Femmina. E ciò, secondo Provenzano, in quanto: "… la donna contemporanea si è FORMALMENTE impossessata della società dell'occidente" uccidendo" il Padre e, esautorandolo dalla sua primigenia funzione ed a questi di fatto sostituendosi, ha così interrotto quel patto di "tradizione" generazionale per via maschile, rivolta al futuro, su cui la nostra Civiltà si è basata nel corso degli ultimi venticinque secoli. …". Intanto, credo che il collega dovrebbe retoricamente domandarsi quale sia stato l'assetto della società prima dei venticinque secoli da lui citati. 'Retoricamente' perché ritengo sia a sua conoscenza il fatto che il Mondo intero, nei ben 33.000 precedenti anni, ha visto la persistente presenza del Matriarcato. Da quando, cioè, al di là del bisticcio, Homo sapiens è sapiens. Vien, quindi, da chiedersi se non sia stato il Maschio, l'Uomo, a scalzare surrettiziamente la donna dal suo podio e a sostituirsi ad essa negli 'ultimi venticinque secoli'. Per cui, di conseguenza e con ragione, si potrebbe pensare che la 'natura' si stia riappropriando del suo corso. Penso, inoltre, che il collega ad una indiscutibile realtà dell'oggi abbia attribuito una causa errata. Il che può capitare. In ogni caso, premesso che non vedo questo 'impossessamento', peraltro 'formale' da parte della donna (ma ci tornerò tra breve), il collega chiama a sostegno della sua tesi la scrittrice storica Antonella Tarpino e il contenuto di un articolo da questa pubblicato sul


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Corriere l'8 (non 9) giugno dello scorso anno (peraltro, in forma ridotta rispetto al mini-saggio originale). In quell'articolo, la scrittrice, è vero, afferma che con la fine della tradizione ci ritroviamo in una sorta di 'memoria senza storia, in un dispotismo del presente' e quindi in uno stato di perenne 'presentismo' che produce un'irreversibile cesura col nostro passato nella sua più ampia accezione di tradizione politica, sociale, economica e culturale. Ma mi sia consentito di sottolineare che un tale stato di cose, peraltro assolutamente veritiero, la Tarpino non l'ha attribuito alla donna. Ella ha fatto una compiuta analisi dell'attualità e l'ha resa. Dedichiamole un minimo di attenzione. Infatti, la scrittrice afferma che nella contemporaneità, la (nostra) memoria subisce una profonda mutazione dovuta ad una percezione sempre più distorta e distratta del passato. Avvertiamo, anzitutto, una caduta della nostra capacità di ricordare ma insieme sperimentiamo una tendenza ipertrofica della memoria a celebrare sé stessa; infatti, 'le schegge del passato ci raggiungono, compiacenti, dal video di casa, popolano gli schermi cinematografici di 'ibridi mutanti', proliferano attraverso una letteratura iperbolica che vive del suo solo, incredulo, racconto.' È una memoria, a detta della Tarpino, quella che ci invade nell'epoca del post storico, in larga parte immemore del passato ma insieme incontinente. Spia di un tempo sofferente, la memoria contemporanea sconta i paradossi maturati nel cuore feroce della storia del Novecento: il 'ricordare' l'irricordabile, proprio dell'esperienza limite della Shoah, il 'ricordare' inseparabile dal suo stesso opposto, il 'dimenticare', negli usi virtuosi o meno dell'oblio. Una memoria, peraltro, costretta a fare i conti con la fine dei Testimoni, le figure cruciali della memoria del 900, e con la crisi dello stesso spazio pubblico, proprio della cultura della civitas, dove si radicava tradizionalmente. A questo punto, la scrittrice Tarpino si domanda come si possa trasmettere questa memoria implosa, dentro un tempo imperscrutabile, in grado di riconoscere solo la forma al presente della durata: una durata per la quale si è coniato addirittura un neologismo il Presentismo. E si risponde che la 'memoria' per porsi al riparo dal tempo in fuga e dal suo carico di irrimediabilità, tende a sedimentarsi nella forma di segni, tracce, rovine. Tende, cioè, a rinarrare il tempo attraverso lo spazio investendo di sé luoghi, edifici, oggetti. Come se, dispersa dall'incessante consumo di eventi che si cannibalizzano l'uno con l'altro, e, ancor più, dal flatus vocis dell'ininterrotto cicaleccio virtuale, la memoria cercasse rifugio nella tenacia della materia. Ed è per un tale distorto percorso e per l'odierna concezione mercantilistica a-valoriale che, 'i bambini si interessano ai dinosauri, le 'guerre stellari' sono rimaneggiamenti, in salsa ipertecnologica, di ambienti oscuri dell'alto medioevo e le case automobilistiche, almeno quelle italiane, danno alle nuove autovetture nomi in uso più di sessant'anni fa.' E non certo perché 'la visione del tempo nella cultura occidentale' tenda 'sostanzialmente a ritornare' come afferma il collega. Risparmio il seguito dell'articolo della Tarpino, comunque molto interessante nella sua esposizione e totalmente fondato nelle sue asserzioni ma, come detto, completamente indenne da qualsivoglia riferimento alla donna. Ma andiamo avanti.

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Il collega, subito dopo, si richiama ad 'un'intuizione geniale' che avrebbe illuminato la mente greca a partire dal V secolo avanti Cristo e che avrebbe prodotto una visione del tutto originale del destino umano: quell'idea 'primigenia', cioè, che avrebbe indotto a spezzare la naturale circolarità del tempo per sostituirla con una artificiale presunta 'linearità' dello stesso, divenuta asse portante di ciò che chiamiamo progresso dell'Occidente e che, 'frutto principe di tale genialità greca', ha costituito, almeno fino alla metà dello scorso ventesimo secolo, la radice stessa del nostro modo europeo prima e, successivamente, più o meno globalizzato di abitare il mondo. Onestamente, e con tutto il rispetto, resto perplessa dal predetto assunto e, visto che per il collega tale affermazione sembra assumere le vesti di un importante prodromo, mi ci soffermerò sinteticamente. Il concetto di tempo nella filosofia antica si può riassume nella definizione di un ordine oggettivo misurabile del movimento. Punti di riferimento diversi compaiono però per questa definizione: cosmologici, come nel caso della filosofia pitagorica e stoica, dove il tempo è concepito come ordine, ritmo del movimento cosmico; metafisici, come nel caso di Platone, in cui il tempo è definito come 'immagine mobile dell'eternità' e a essa gerarchicamente inferiore. In particolare, l'astronomia dei pitagorici, contrassegnò un progresso importante nel pensiero scientifico antico. Essi, infatti, furono i primi a concepire la Terra come una sfera rotante con gli altri pianeti attorno ad un fuoco centrale, detto 'Hestia' che ordina e plasma la materia dando origine al mondo. Intorno ad esso, secondo quella concezione, si muovevano, da occidente ad oriente, dieci corpi celesti: il cielo delle stelle fisse, Saturno, Giove, Mercurio, Venere, Marte, la Luna, il Sole, la Terra e l'Antiterra, pianeta ipotetico che completava il sacro numero del 'dieci'. Il tempo impiegato dal cosmo per 'nascere e ritornare nel fuoco' è chiamato 'anno cosmico'. Sintesi dei due punti di vista esposti è la definizione aristotelica del tempo come 'numero del movimento secondo il prima e il poi'; da un lato, infatti, Aristotele, attribuendo movimento circolare, quindi perfetto ai cieli, accetta il principio pitagorico dell'ordine cosmico come punto di riferimento oggettivo per la misura temporale; dall'altro, distinguendo il mondo, eterno perché abbracciante l'intera misura del tempo, dal primo motore immobile, che è fuori del tempo e quindi eternamente presente, riproduce lo schema gerarchico di ascendenza platonica. Nel IV libro della Fisica, infatti, Aristotele tratta l'annosissimo problema del tempo, lasciatogli in eredità da Platone e respinge la teoria che il tempo non esista in quanto composto di passato e di futuro, per cui l'uno non esiste più quando l'altro non esiste ancora. Egli, di contro, afferma che il tempo è moto che ammette una numerazione. In conseguenza, si chiede se il tempo potrebbe esistere senza l'anima, dato che non ci può esser alcunché da contare se non c'è alcuno che conta, e il tempo implica la numerazione. C'è sempre stato il movimento, secondo Aristotele, e sempre ci sarà, perché non ci può esser tempo senza movimento; per cui il tempo è increato. Sarà su questo punto che i futuri aristotelici cristiani cominceranno a dissentire dal momento che la Bibbia afferma che l'universo ebbe un inizio. Infatti, il concetto di eternità, che è centrale in


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Aristotele, non poteva che essere disapprovato dai cristiani, la cui teoria consiste nel fatto che Dio, appunto, decise di creare il mondo ad un certo momento; ne consegue, allora come ora, che il mondo non è eterno, anzi è destinato a perire. D'altronde, Aristotele spiega che le sfere dei pianeti non fanno nient'altro che imitare nel loro moto circolare l'eternità di Dio: infatti, quale è il moto che meglio rappresenta l'eternità se non quello circolare? Il moto circolare, infatti, non ha inizio e non ha fine, arriva da dove è partito. È, invece, con i neoplatonici e, successivamente, con i cristiani che il tempo concettualmente passa dal una 'circolarità' ad una 'linearità'. Infatti, nella concezione neoplatonica, da Plotino a Sant'Agostino, permane la distinzione fra tempo ed eternità, ma il concetto di tempo è collegato, anziché al moto del mondo fisico, all'anima e alla sua 'vita interna'. Per Plotino, d'altra parte, il tempo, 'immagine dell'eternità', è il movimento mediante il quale l'anima passa da uno stato all'altro della sua vita. Per Sant'Agostino, poi, l'eternità, come 'eterno presente', non ha successione di istanti; il tempo, invece, come successione, presenta infinite aporie se lo si esamina secondo il senso comune. Infatti il passato e il futuro, che pure fanno parte integrante della concezione comune del tempo, non esistono se non in quanto presente, e il presente stesso è fluire, passaggio, ed è quindi inesteso e non sembra misurabile. Alla luce di quanto sopra, mi sento di affermare che il mondo, negli ultimi 2.000 anni, si è sviluppato non sulle concezioni filosofiche greche bensì cristiane dal momento che, l'Occidente vive linearmente un eterno presente e cioè la concezione agostiniana. Comunque, conclusa la carrellata sulla 'circolarità' e 'linearità', la domanda in ogni caso è: dove trova l'illustre collega la connessione con la donna? Forse nel prosieguo del saggio dove, a prescindere dalla circolarità o linearità, il collega attribuisce alla stessa cultura greca il ruolo di subordinazione che la donna ha ricoperto per '2500' anni? Occorre dire, a questo punto, che nella filosofia e nella letteratura greca esistono due opposte considerazioni della donna, l'una presentata da Socrate, l'altra da Aristotele e Esiodo. Socrate, infatti, offre una valutazione positiva della donna, Aristotele ed Esiodo invece rappresentano il pensiero che svaluta la figura femminile, subordinandola alla famiglia e alla società. Ambigua e ambivalente è, infine, la posizione di Platone, che, nella Repubblica e nelle Leggi, offre due diverse considerazioni della stessa donna. Socrate, infatti, era particolarmente ben disposto verso le donne e non si limitava a riconoscere astrattamente le loro capacità, ma ascoltava i loro consigli giungendo ad ammettere senza difficoltà che alcune di esse avevano saggezza superiore alla sua. Si dice che avesse appreso il cosiddetto metodo 'socratico' proprio da Aspasia, concubina di Pericle, che padroneggiava con 'rara maestria la tecnica del discorso'. Una visione opposta della figura femminile è offerta invece da Aristotele, convinto della naturale disuguaglianza dei sessi e della superiorità maschile sulle donne, anche nella riproduzione. Egli infatti nella 'Riproduzione degli animali' scrive che la riproduzione è comune ad entrambi i sessi: "il maschio è portatore del principio del mutamento e della generazione", "la femmina di quello della materia". Tuttavia il maschio e la femmina sono dotati di "una diversa facoltà", il primo è

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"attivo" in quanto "atto a generare nell'altro", la seconda è "passiva" in quanto "è quella che genera in sé stessa e dalla quale si forma il generato che stava nel genitore". Poiché "[…] la prima causa motrice cui appartengono l'essenza e la forma è migliore e più divina per natura della materia, il principio del mutamento, cui appartiene il maschio, è migliore e più divino della materia, a cui appartiene la femmina". Esiodo, nella letteratura, sia nella 'Teogonia' sia nelle 'Opere e i Giorni', qualifica la donna come colei che, creata dopo l'uomo per volere divino, segna, con la sua venuta, l'inizio del male nel mondo. Infatti, nella Teogonia, la donna emerge come punizione per gli umani a seguito del furto del fuoco di Prometeo ed è anonima. Nelle Opere, invece, la donna acquista il nome di Pandora e dà origine al male non di per sé ma con un gesto colpevole: l'apertura del piqos (l'orcio che contiene tutti i mali del mondo). In ogni caso, nella formazione di quella donna, Zeus ordina ad Ermes di darle 'animo di cane' (presso i Greci il cane rappresentava la sfrontatezza e l'indecenza), e 'disposizione all'inganno'. Platone, infine, assume una posiziona ambigua ed ambivalente riguardo le donne: infatti, se nella Repubblica egli offre alla donna la possibilità di un ruolo di primo piano e ne riconosce quasi l'eguaglianza con gli uomini, nelle Leggi, invece, sembra fare marcia indietro, in quanto fa emergere un atteggiamento di diffidenza nei confronti delle stesse donne. Comunque, ad onor del vero, va detto che nonostante le varie, divergenti considerazioni dei più noti filosofi e letterati della Grecia classica sulla figura femminile, nella mentalità greca collettiva non è prevalsa la posizione più o meno positiva di Socrate e Platone, bensì quella sostanzialmente misogina di Aristotele, che infatti trovava maggior corrispondenza nella coscienza sociale. Quindi, pur dando stavolta ragione in parte al collega Provenzano, egli però accenna appena al fatto che è con l'avvento del 'cristianesimo' che la donna diviene totalmente succuba dell'Uomo. Ha citato il concilio di Magonza del 589 d.C. dove alla donna venne riconosciuta un'anima (almeno quella) ma quel concilio non ha mutato il suo ruolo, sostanzialmente di 'prostituta' e di demente alla quale è persino impedito di parlare; un ruolo che viene delineato sin dalle note Lettere di Paolo di Tarso. Nel suo saggio, poi, il collega, bontà sua, (lo dico senza sarcasmo) evita 'volutamente di entrare nel merito dei rapporti privati e personali tra uomo e donna limitati, per secoli, all'ambito della vita prettamente familiare dove non vi è peraltro dubbio che l'influenza femminile abbia spesso svolto ruoli determinanti nel condizionare le successive manifestazioni extradomestiche dell'individuo maschio; ciò, sia in episodi strettamente interpersonali (valga per tutti il sintomatico mito del rapporto tra Eva ed Adamo) che in quelli, storicizzati, di valenza pubblica.' Qui (senza offesa nei confronti del collega) cadiamo nell'ipocrita vetero-considerazione nei riguardi del cosiddetto 'gentil sesso' secondo la quale alla donna non manca il modo e la maniera di tirare l'acqua al suo mulino, di determinare le decisioni dell'uomo o di influenzarle. In sostanza, con le grazie muliebri, con l'apparente sottomissione e con la disponibilità sessuale. Una prostituta, appunto. Non parliamo, poi, del mito di Adamo ed Eva di Genesi la cui metafora è stata completamente stravolta nel suo significato dalla dottrina cristiana.


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È curioso, peraltro, che il collega, dopo aver accennato al ruolo di sudditanza della donna, fisico e psichico nella preistoria (in realtà, nella preistoria vigeva il matriarcato, al di là dell'uomo cacciatore, come un'infinità di reperti hanno dimostrato) nel proseguo del suo saggio, ammetta la 'superiorità' femminile, citando persino la 'gambetta' mancante della X' (che la fa assomigliare ad una Y) e il dubbio che l'uomo, finalisticamente parlando, sia una femmina mancata. Pur non conoscendolo, ho stima del collega; il che mi impedisce di pensare che egli non sappia che ciò del quale lui parla è correttissimo sul piano della primordiale Tradizione. Infatti, non c'è percorso gnostico-esoterico che non si prefigga il 'ritorno' all'Uno, all'Androgino. E, pur tuttavia, evidenzia giustamente il collega, 'dall'età di Pericle all'ultimo secondo dopoguerra, i rapporti di forza tra uomo e donna, nel contesto culturale della società dell'Occidente' sono 'rimasti sostanzialmente immutati. E ciò, pur nelle evidenti gradazioni proprie, nei tempi, delle varie regioni della terra; ma queste, seppur diversificate, non contraddicono l'assunto della costante, sostanziale subordinazione socio-economica della donna occidentale al suo uomo'. Aggiungerei, anche psicologica. Nel proseguo, tuttavia, la disamina che egli compie circa le cause che hanno portato la donna ad uscire da due millenni di sudditanza non mi convince. Nell'immediato dopoguerra, che l'uomo possa essere stato frastornato e confuso sono propensa a crederlo. Del resto, le brutture sono state talmente vaste, sia sul piano militare che nei risvolti civili, da annichilire. Ma questa condizione è stata purtroppo comune ai due generi: l'uomo attivo, vincitore o vinto che fosse, è tornato a casa frastornato dal silenzio dopo strazianti caos sonori e con la mente piena di terrificanti immagini, al limite della umana comprensione, mentre l'uomo imberbe o anziano e le donne, da una parte e dall'altra, hanno vissuto cinque anni di puro terrore per la morte che viene dall'alto, hanno rasentato l'inedia per la fame e il freddo. E, alla fine, gli uni e gli altri si sono ritrovati sbigottiti e piangenti per l'insperata sopravvivenza, da un lato e, dall'altro, per i tanti lutti che li hanno travagliati. Ciò che voglio dire è che non ritengo corretto credere che la donna, dipinta in sostanza come scaltra, abbia sostanzialmente approfittato della confusione maschile post-bellica e, grazie anche al 'furto' della tecnologica che ha annullato le sue carenze fisico/muscolari, gli abbia sfilato lo scettro. Non lo ritengo corretto perché intanto era confusa anche lei e comunque non ha 'rubato' alcunché. Non conosco l'età del collega ma ritengo che egli abbia una memoria storica adeguata e, quindi, sia in grado di ricordare gli eventi sociali ed economici che hanno caratterizzato questi ultimi sessant'anni. Cercherò di esporre brevemente il mio pensiero al riguardo. La ricostruzione, prima, e il rilancio dell'economia, poi, determinarono attorno agli anni '60 quello che è passato alla storia come il 'boom economico' dato praticamente dall'industria. Ciò, intanto, privò la donna di quell'occupazione, marginale o meno, che l'accomunava all'uomo nel lavoro agricolo. Non solo. Costrinse nuclei familiari a trasferirsi, prevalentemente dal Sud al Nord, per sostenere la produzione industriale. Ciò, intanto, generò un'estirpazione sociale delle famiglie e un impoverimento territoriale

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meridionale, in nulla mitigato, nemmeno nel tempo, dall'improvvida azione politica. Ma lasciamo stare. Lasciamo anche stare la tribalizzazione solidaristica degli immigrati nelle estreme periferie delle città ospitanti per le difficoltà nell'inserimento sociale locale. Ed accantoniamo pure la solitudine femminile, vissuta tra le nebbie e il freddo o il caldo umido, mentre l'uomo lavorava alla catena di montaggio. È in quel contesto, comunque, che le braccia operaie a costo irrisorio consentirono agli Agnelli di turno di primeggiare e a far sì che questo Paese fosse annoverato tra i 7 Grandi della Terra. Ovviamente, una tale situazione non poteva non sollecitare l'azione sindacale, colorata di politica quanto si vuole ma assolutamente necessaria. Fu dagli inizi degli anni '60, infatti, che le retribuzioni presero a lievitare e a rapportarsi all'andamento del costo della vita. E fu a quello stesso punto che agli illuminati imprenditori, miopi sul piano strategico rispetto ai colleghi europei, decisero di dare vita a quell'altro fenomeno, definito dalla sociologia economica 'consumismo'. In sostanza, dal momento che la produzione industriale veniva assorbita dal solo mercato nazionale, causa la miope visione imprenditoriale nostrana, adagiata sul letto degli aiuti di Stato, l'imprenditoria pensò di incentivare la vendita dei suoi prodotti concedendo più soldi ai suoi occupati e incentivandoli a spendere e a consumare i suoi prodotti. Una specie di pay back period. Come il collega credo sappia, quel fenomeno andò avanti per poco più di un decennio, poi con gli anni '80, subentrò quella che la sociologia ha definito la III rivoluzione industriale; la comparsa dell'elettronica e dell'informatica, al posto del vapore e dell'elettricità: in sostanza, le aree automatizzate, che cominciarono a produrre un sostanziale aumento dell'indice della disoccupazione. Lì, l'uomo iniziò a perdere lo 'scettro' perché cominciò a scadere dal ruolo che gli ultimi duemila anni gli avevano attribuito. Un evento, questo, che la donna ha colto di riflesso, per necessità familiare e non per sostituirsi, scientemente, volutamente, all'uomo. Per cui, come giustamente afferma il collega, è stata 'anche' la 'tecnologia' ad aver annullato le distanze col fatto di annullare il gap dato dalla forza muscolare. Comunque, la prima spinta si determinò con la possibilità della donna di contribuire a formare, se non determinare, il cespite familiare. Quello fu la molla: la consapevolezza di un'autonomia economica. Il secondo scatto, poi, lo si ebbe quando essa prese cognizione che non era 'sola' ad avvertire la secolare asimmetria. C'erano stati, nel tempo, dei movimenti cosiddetti femministi ma la cultura maschilista li aveva diluiti fino ad annullarli. Quello che invece si determinò negli anni '80, con la donna già al lavoro sia pur con percentuali e in mansioni meno qualificate rispetto all'uomo, incontrò terreno fertile, si consolidò e si radicò. Con quei movimenti e quegli slogan, scanditi nelle piazze e amplificati dai mass-media, essa cominciò a prendere anche un'ulteriore consapevolezza: quella di essere padrona del proprio corpo e di avere, finalmente, contezza della portata civilistica della legalizzazione dell'aborto, realizzata alla fine degli anni '70. Conseguentemente, si determinò per evitare le gravidanze, anche perché cominciavano i segni di una sempre maggiore indisponibilità economica. Non voglio buttarla in politica ma il resto, il seguito, non lo fece la donna bensì i 'radical chic' di


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sinistra e i 'progressisti' di sinistra e di destra: nel senso che alcune frange dei due schieramenti, al fine di non apparire meno pronte e capaci agli occhi degli avversari, e non avendo alcuna cognizione circa il 'progresso', iniziarono una rincorsa verso l'alto, fatta di 'quote rosa' in ogni dove. Lo dico da donna: nell'ambito del lavoro, con il fattore 'forza muscolare' azzerato, ogni essere umano dovrebbe poter farsi strada a fronte delle sue capacità. Invece, oggi, per la formazione di ogni lista, organismo, consesso, consiglio, pressoché in via obbligatoria, deve essere previsto un certo numero di donne. E questo, di fatto, ha riprodotto per la donna l'annosa distinzione tra lavoro pubblico e lavoro privato dell'uomo, dove al primo, protetto e garantito anche se qualitativamente scarso, si contrapponeva il secondo, sempre veloce ed efficiente. Così, se la donna prima, nell'ambito del pubblico, doveva lottare al pari del privato, oggi in quell'ambito e con le 'quote', è 'specie protetta'. Ma la responsabilità di ciò, torno a ripetere, non è imputabile alla donna. Che poi ella sia divenuta, come dire, 'dura', ciò lo si deve alla 'necessità' di comportarsi come un 'uomo'. Può apparire paradossale ma questa è la realtà di una società sostanzialmente privata dell'aspetto confessionale (quale valvola all'angoscia esistenziale) da una 'materializzazione' nel suo 'essere' e nel suo 'agire' operata da una congiunta cultura (si fa per dire) capitalistica e materialistica. Ed è stata questo tipo di cultura, ancora in essere, impostata e praticata da uomini, più che da donne, ad aver ucciso quel 'Padre' al quale il collega più volte si riferisce. Infatti, è quell''homo homini lupus', concepito da Thomas Hobbes nel suo Leviatano, ad aver determinato un tale sconquasso. Comunque, non è forse nella natura degli animali far sì che la femmina, in caso di pericolo, diventi più feroce e più aggressiva del maschio? E, del resto, se l'uomo, in una società competitiva sino all'esasperazione, senza alcuna considerazione per i deboli o per i meno provveduti, poco alla volta comincia a dimenticare 'chi è' per cadere nell'angoscia non più mitigata dallo spirito, come potrebbe la donna continuare a comportarsi secondo gli stereotipati canoni tradizionali del suo genere a fronte dell'esigenza di lavorare, di provvedere alla casa e di sostenere la famiglia? E se ciò destabilizza ancor di più l'uomo allora sarà il caso che 'qualcuno' pensi a porre rimedio a questa società malata. Ovviamente, non per tornare allo statu quo ante degli ultimi 2,500 anni bensì ai 33.000 mila anni precedenti dove l'equilibrio dei generi era compreso e praticato. Lo so. Si fa presto a dirlo ma come il collega ha argutamente notato, se da un lato occorre prendere atto che la donna è 'superiore' all'uomo dall'altro non è concepibile che l'uomo risponda ad un tale stato di cose con un efferato atto definito 'femminicidio'. Certo, è comprensibile (purtroppo) il meccanismo psicologico che spinge l'uomo verso l'estremo atto per aver ragione di e su una donna. Ma non credo che la questione sia risolvibile attraverso la sola differente configurazione giuridica di un 'omicidio' che tale è e tale resta. Comunque, per inciso, voglio tranquillizzare il collega: Lucio Battisti è stato buon ultimo a piangere per una donna. Fior di compositori napoletani e romani, dalla fine del XIX secolo a venire avanti, l'hanno fatto prima di lui. Il collega, poi, si addentra, attraverso l'escamotage di un dialogo tra un 'uomo politico' (o

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politicante) e un 'modesto interlocutore' nel cambiamento intervenuto nelle tematiche discusse in quello che dovrebbe essere il massimo organo per la formazione della volontà democratica: il Parlamento. Infatti, egli afferma che a temi prettamente maschili, a suo avviso, siano stati sostituiti temi prettamente femminili (o matristici) come Solidarietà, Assistenza, Pace, Pacifismo e quindi Disarmo, Ripudio della guerra, Uguaglianza, Sicurezza e Benessere, Difesa del più debole, Pari opportunità, Diritti e non Doveri, Non discriminazione, etc. etc. Ora, io non so se tali temi siano tipici della 'Madre' né voglio discutere su distinzioni che il collega ha fatto, ad esempio tra 'diritti e non doveri'; ciò che invece mi preme sottolineare è che tali temi hanno sempre fatto parte, in quest'ultimi 2500 anni, della cultura dell''uomo' e non della donna. Infatti, a proposito di 'solidarietà', è proprio nella Grecia classica, cara al collega, che ha preso forma e si è realizzata la paideia, cioè la formazione e cura dei fanciulli, divenuta sinonimo di cultura e di educazione mediante l'istruzione. Un'istruzione certamente fisica ma anche e soprattutto psichica atta a garantire una socializzazione armonica dell'individuo nella polis, ossia l'interiorizzazione di quei valori universali che costituivano l'ethos del popolo. Ed è dalla paideia che nasce il concetto romano di humanitas, ben prima che il cristianesimo coniasse quello di caritas e ci dicesse di 'amare' un altro uomo (solo) perché è figlio di Dio. Non parliamo, poi, di 'pacifismo' dove, proprio in Grecia ci volle la risolutezza di Filippo, prima, e di Alessandro, poi, per indurre le città-stato a fare fronte comune contro l'invasore persiano. Né conviene parlare di 'disarmo', 'ripudio della guerra', materie care in tutte le trattative tra Stati intercorse dalla pace di Cateau Cambresis del 1559 a venire avanti fino al 1919. E se 'uguaglianza' è stata uno dei tre fattori inalberati dai rivoluzionari francesi del 1789, la 'sicurezza e benessere' e la 'difesa del più debole' sono concetti insiti già nella cultura greca e romana che hanno permeato l'Occidente, a dritta e a rovescio, medievale, rinascimentale e illuminista, fino alla coniazione di Michel Albert di 'capitalismo renano' nel 1991. E non sto a discutere se termini quali 'Volontà di potenza e quindi Nemico e Competizione, Avventura e Lotta, Eguaglianza sulla linea di partenza ma non su quella di arrivo, Selezione naturale dei migliori, Preferenze paterne, Rischio e non assistenzialismo, Doveri e non Diritti, Difesa del suolo patrio e Guerra' siano attribuibili alla sola psiche dell'uomo. A me sembra che, tranne il primo attribuibile interamente a Nietzsche, gli altri siano tranquillamente opinabili e attribuibili indifferentemente ad un uomo o ad una donna. La meritocrazia, peraltro, è un concetto che rientra anche nella psicologia femminile (che le maschili 'quote' stanno picconando), così come la 'difesa del suolo patrio'. Persino il concetto di 'guerra' rientra nel novero di quella psicologia, come tali e tanti esempi di illustri 'donne', 'mogli' e 'madri' hanno dimostrato nel corso della storia dell'essere umano. Quello che è cambiato è il modo di intendere tali concetti; nel senso che l'Occidente tutto, dopo tanti incomprensibili conflitti al prezzo di tante vite, combattuti lontano dai confini patri, non è più disposto ad accettare il fatto che in guerra si possa morire. Così, ipocritamente, in tutto l'Ovest sono stati coniate espressioni quali peacekeeping, peace making e peace building nonché tutta una terminologia relativa a una indistinta 'guerra chirurgica', 'elettronica', asettica, fredda. E ciò al


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fine di indurre nell'opinione pubblica l'errata convinzione che in un luogo 'caldo' e con 'l'impiego delle armi', si possa transitare senza pericolo alcuno. E non è certo colpa della donna se la società ha perso i suoi tradizionali luoghi di ritrovo (acropoli, foro, cattedrali per l'ossequio al Padre, ecc.) per sostituirli con il 'centro commerciale', con lo shopping center. Certo, la donna è più portata alla frequentazione di un tale luogo ma il 'maschio', l'uomo, non è da meno, intrigato fino all'inverosimile (almeno chi può) nella ricerca dei più sofisticati gadgets elettronici. È, del resto, la nuova frontiera (si fa per dire) della 'libertà': quella di consumare. Non gli suscita, pertanto, alcun stress passare un pomeriggio, d'estate al fresco e d'inverno al caldo, a 'curare' i suoi interessi. Ovviamente, quando da tifoso, non è impegnato nel vedere in TV o negli stadi, solo o contornato d'amici, l'incontro calcistico, tennistico, ciclistico, baskettistico, motoristico dalla visione del quale la donna è preliminarmente (e fortunatamente) esclusa. Tranquillizzo il collega anche su un altro punto: la donna non potrà mai far a meno dell'uomo nell'ambito del sesso. A maggior ragione oggi che ha preso piena padronanza del proprio corpo. Certo è che l'uomo dovrà rivedere il proprio comportamento e, senza andare in ansia da prestazione, pensare che la donna ha il suo stesso diritto nel fruire di una gioiosa attività e regolarsi di conseguenza. Il fatto, spesso, è che tale accortezza è di difficile comprensione nell'uomo (poco intelligente) il quale in buona parte ritiene che una volta raggiunto il suo soddisfacimento l'atto sia concluso; così mortificando la donna e l'atto stesso che, come sappiamo, è l'unione non solo fisica ma anche emozionale di due persone. So bene che un tale stato di cose finirà per compromettere anche il credo cattolico ma non per l'insorgenza (la possiamo definire così?) della donna e per l'esistenza di un Dio Padre, quindi per un credo tutto al maschile, bensì per lo stravolgimento della società da parte di una cultura capitalista e materialista, come detto, che non ammette né valori né ideali, che non concepisce solidarietà, sostegno, uguaglianza, cura; uno disastroso, angosciante stato per il quale non aiuta più la sola 'fede', a prescindere dall'uomo o dalla donna. Non voglio essere blasfema ma che ne è stato di 5.000 anni di credo egizio, politeista, con l'arrivo di Alessandro il macedone, portatore di un altro credo politeista, forse non così annoso, ma comunque in essere in Grecia, arrivato fino al punto da ellenizzare l'Egitto? Infatti, non c'è stato credo che abbia potuto resistere alle sue falangi e all'imposizione, alla fine assorbita e metabolizzata, di un'altra religione. Quindi, il problema, a mio parere, non è se la donna sarà in grado di recepire e rispettare l'attuale cultura religiosa bensì se gli attuali assetti della società, sempre più materialistici, vorranno ancora contemplare la necessità di un credo, di una fede. Allora, sarà il compimento del dramma, perché insieme alla 'valvola contro l'angoscia esistenziale', la fede, cadranno anche le ultime, larvate remore al più bieco dispiegarsi della forza, al di là della ragione. Credo, in conclusione, che di fronte a tali e tante problematiche, chi ha più cervello è il momento che lo adopri. Con i segni della mia gratitudine per l'ospitalità e con i saluti più sentiti al collega Provenzano Alice Balei

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DIBATTITO SU CONFINI

Confini

PAURA DELLE OMBRE: E’ STRUMENTALE O PSICOPATOLOGICA

Idee & oltre

VITTORIO MUSSOLINI: QUANDO Penetrare nel cuore del millennio IL COGNOME CONDIZIONA e presagirne gli assetti. LA VITA

Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

www.confini.org


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