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Web-magazine di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

Raccolta n. 65 Luglio/Agosto 2017

NAZIONE E NAZIONALITA’


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Confini Webmagazine di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Raccolta n. 56 - Luglio/Agosto 2017 Anno XX

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti - Cristofaro Sola +

Hanno collaborato: Gianandrea de Antonellis Gianni Falcone Roberta Forte Lino Lavorgna Angelo Romano Cristofaro Sola Massimo Sergenti

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Contatti: confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

LA COMUNITA’ INNATURALE Mi piace sentirmi cittadino dell'Occidente ed in particolare di sentirmi ed essere Europeo. E' bello sentirsi quasi a casa a Parigi come a Madrid, a San Pietroburgo come a Lisbona, ad Amsterdam come a Bruxelles, a Praga come a Vienna, a Dublino come ad Atene, a Fiume come a Tirana. Nonostante le differenze di lingua, dei modi di cucinare, degli stili di vita, spesso del modo di abbigliarsi, di acconciarsi e di relazionarsi, sento dentro di me il legame profondo delle radici comuni, della storia condivisa, delle Tradizioni. E' il minimo comun denominatore dell'identità, stigma di una comune civiltà. E mi piace essere riconosciuto come italiano, per le stesse sottili differenze, non solo somatiche, per cui noi italiani riconosciamo uno svedese, un irlandese, un russo. Anche se, qualche rara volta, ti capita di essere additato come italiano. Ma un po' di pregiudizio alberga in tutti noi, quindi non vale la pena di farsi il sangue amaro. Qualche "parente serpente" c'è in ogni grande famiglia. Come dimostra la storia delle grandi casate che hanno regnato in Europa, tutti imparentati tra loro, ma pronti a scannarsi per un nonnulla. Io un po’ di pregiudizio lo nutro verso gli inglesi, in ragione di certa loro avida spocchia "imperialista" (Irlanda del Nord e Malvine docent) e ringrazio Odino, Thor e pure Giove, per avermi evitato di ritrovarmi con un genero inglese doc. Uno che, pur di primeggiare, barava pure a bocce. Tuttavia si tratta di blandi pregiudizi, pronti a sciogliersi come neve al sole guardando "Excalibur" di Boorman o leggendo Shakespeare, Keats, Wilde, Elliot, Kipling, Yeats, Dickens, Melville, Conan Doyle, Conrad, Twain, Byron o Tolkien. Opere e personaggi che riportano allo stigma comune, all'Europa e all'Occidente, alla fierezza di sentirsi parte di una comune civiltà. In questo sentimento risiede il germe primigenio dell'appartenenza e quindi della patria e della nazione (dal latino natio, nascita). Si tratta di un sentimento alto e purissimo nel quale si congiungono per sintesi storia, cultura, tradizioni, usanze, costumi, senso del bello, valori, visione della vita e del mondo. Un sentimento la cui natura sfuggiva a Marx per il quale la nazione era nient'altro che un progetto di classe funzionale al capitalismo, destinato ad essere archiviato con la fine dello stesso. Un semplice fatto contingente. E questo spiega la tetragonia delle Sinistre sull'argomento. La nazione è null'altro che la propria comunità naturale.


EDITORIALE

Naturale non solo per retaggio ma per comune ambito e contesto civile e culturale oltre che per destini condivisi. Una comunità naturale, nel tempo, può allargarsi o restringersi per accadimenti storici o politici, può evolvere o involvere, può darsi istituzioni e leggi comuni, può avere o meno un territorio sul quale radicarsi e svilupparsi, ma mantiene inalterate la sua principale caratteristica di "matrice di affinità". Gli Ebrei, ad esempio, sono stati per secoli senza territorio e istituzioni, ma sono sempre stati la specifica comunità naturale per ogni Ebreo sparso sul pianeta. L'idea di Italia ha rappresentato l'ideale di comunità naturale per tutti gli italiani, sin dai tempi di Dante, pur essendo la penisola divisa in tante entità politiche differenti, frequentemente in guerra tra loro. Per questa profonda ragione il progetto di unificazione per annessione dei Savoia ebbe tanto facile successo e tante nefaste conseguenze (anche qui lo zampino degli inglesi, ma anche della Francia). A volte, purtroppo, le comunità naturali diventano innaturali. Lo si capisce recandosi nelle banlieue parigine dove si è persa traccia dell'Europa e della Francia stessa, intorno ad Alicante dove i cartelli autostradali sono in arabo, in alcuni quartieri di Bruxelles e di Londra, in tante città tedesche "ottomanizzate", nei tanti quartieri cinesi, nigeriani, senegalesi, ognuno retto dalle leggi delle loro particolari mafie. In questi posti il senso di affinità, la voglia di appartenenza, la fierezza civile vengono meno, si spengono irrimediabilmente. Subentra un senso di smarrimento, di estraniante estraneità e allora ti chiedi: "dove stiamo andando?". E ti prefiguri gli scenari futuri e vedi il "Tramonto dell'Occidente", l'"Età del meticciato" e la fine dei tempi. Angelo Romano

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SCENARI

NAZIONALISMO E NAZIONALITA’: UN PERCORSO AMBIGUO

PROLOGO "Chi misurerà la miseria, l'inerzia, la sterilità che vengono alla vita da queste forme di autismo che molti confondono con lo spirito nazionale e l'amor di patria?” (Alberto Savinio, Nuova Enciclopedia, anni quaranta, edita nel 1977). "Non possiamo sperare più nulla da nessun popolo, in quanto nazione. Non ci resta che una via, richiamarci agli uomini, agli europei". (Pierre Drieu La Rochelle, L'Europe contre les patries, 1931"). "Le persone hanno pregiudizi su nazioni di cui non hanno alcuna cognizione". (Philip Gilbert Hamerton) "Le nazioni più grandi si sono sempre comportate da gangster; le piccole da prostitute". (Stanley Kubrick) "In individui, la pazzia è rara; ma in gruppi, partiti, nazioni ed epoche è la regola". (Friedrich Nietzsche) "Nessun uomo ha colpe o meriti per dove nasce, ma solo colpe o meriti per come vive". (Lino Lavorgna) Nel titolo ho utilizzato il termine "ambiguo", ma non voglio esserlo io: lascio trasparire subito, quindi, l'impronta che conferirò all'articolo, pur essendo consapevole che non è facile mantenere un percorso lineare in una materia così complicata. Sulla nazione, sulla nazionalità e sul nazionalismo - concetto, quest'ultimo - che precede, come meglio vedremo in seguito, l'entità "nazione", sono state elaborate tante teorie e interpretazioni, alcune delle quali d'indubbia valenza, ancorché propugnate con la tipica sicumera dogmatica che accompagna i depositari di verità assolute. Ai giorni nostri, però, la sicumera degli pseudo-intellettuali e pseudo-politici adusi a parlare di cose più grandi di loro risulta solo ridicola e patetica: per amor di sintesi, pertanto, stendiamo velocemente un velo pietoso sulle confuse masturbazioni mentali e passiamo oltre. Parimenti eviterò di proporre l'ennesima ricetta, inutile e fuorviante come tutte le ricette che afferiscono alle grandi tematiche sociali, perché delle due l'una: sono valide in linea di principio e del tutto irrealizzabili in virtù della realtà contingente; sono valide per fronteggiare le contingenze temporali ma costituiscono un abominio sotto qualsiasi altro punto di vista. Le cose accadono a prescindere dalla nostra volontà, perché spesso scaturiscono dai limiti e dalle debolezze della natura umana.


SCENARI

Nel corso dei secoli, anche in quelli remoti, non sono mai mancate le ricette valide per risolvere i mali del mondo; Erasmo da Rotterdam, però, ci ha fatto ben comprendere che gli esseri umani hanno sempre preferito disattenderle, lasciando intendere - ed è questo il dato più interessante che forse sia stato meglio così: molto probabilmente, in talune circostanze, le ricette avrebbero prodotto più danni di quelli che intendevano riparare 1. Ho percorso e percorro molti sentieri, ciascuno dei quali considerato il più fascinoso "in un dato momento". Ho cavalcato il nazionalismo, da giovane, per poi allontanarmene gradualmente, per poi rivisitarlo sotto una nuova luce, per poi discernerlo dalle tante scorie, per poi inquadrarlo in una nuova dimensione, rappresentandone l'ascesa, il declino e il declino insito nella nuova ascesa. Non è stato facile preservare quello spirito analitico obiettivo che richiede più fatica della scalata di una vetta himalaiana. E' chiaro che tutto ciò porti, di volta in volta, a "delle conclusioni". Per quanto, però, possa ritenere di riuscire a ragionare scientificamente, superando i condizionamenti del presente sempre ben marcati - l'esperienza insegna che ciò non basta. Occorre avere l'onestà e l'umiltà di sostenere, pertanto, che il pensiero è relativo come qualsiasi altra cosa e forse verrà un giorno in cui tutto, ma proprio tutto, sarà (ri)messo in discussione, fino a realizzare quella trasvalutazione di tutti i valori che qualcuno già preconizzava non tantissimo tempo fa. I prodromi di questo processo, del resto, sia pure in modo massicciamente confuso, già cominciano a delinearsi. In attesa di quel momento, cerchiamo almeno di fare chiarezza lì dove è possibile. PRIMA DELLA NAZIONE C'E' IL NAZIONALISMO La traccia dettata dal Direttore, come tema del mese, è chiara: "Nazione e nazionalità". E' evidente il riferimento all'attualità, che vede nello "ius soli" uno degli argomenti predominanti. Prima di addentrarci nel labirinto intriso di trappole concettuali e di cecchini pronti a far fuoco a casaccio, tuttavia, è opportuno chiedersi da cosa scaturisca una "nazione", andando oltre la mera definizione di una comunità d'individui che condividono alcune caratteristiche comuni. In realtà non si può compiutamente parlare di nazione se prima non si definisce il "nazionalismo". Il nazionalismo precede la nazione! È dalla "dottrina" che scaturisce il concetto territoriale e non viceversa, come erroneamente si ritiene. Un giovanissimo Alessandro Campi lo spiegò chiaramente nel 1991, in un freddo pomeriggio di fine febbraio, quando nei pressi di Perugia si riunirono eccellenti "teste pensanti" (e proprio per questo bistrattate) per dissertare sulla "Grandezza e miseria del nazionalismo. L'Europa di fronte 2 alla sfida del Duemila" . "Le nazioni non sono né originali né immutabili", ammoniva Campi, con quella verve enfatica che ancora oggi lo contraddistingue, facendo il verso a Gianfranco Miglio, che già nel 1945 scriveva: "C'è molta ingenuità nei propositi di coloro che vorrebbero salvare la nazione e condannare il nazionalismo, immaginandosi di trovare il punto in cui l'una cosa possa ragionevolmente essere separata dall'altra.

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SCENARI

Essi non sanno, o non si accorgono, che reale non è la nazione ma il nazionalismo; che questo genera quella e non viceversa; per usare un termine elegante, la prima è l'ipostasi del secondo". La distinzione è molto importante perché il crollo delle ideologie ha determinato - oltre a tante altre cose sulle quali sorvoliamo in questo contesto - il crollo delle istituzioni e delle "costruzioni politiche", sancendo il fallimento del nazionalismo come idea e quindi generando, per riflesso, la crisi delle nazioni. Il rigurgito di nazionalismo, insito negli strati sociali qualunquisti e culturalmente arretrati, assomiglia alla continua tinteggiatura di pareti umide, periodicamente praticata da chi non riesce a capire che è l'umidità a dover essere combattuta, almeno fino al momento in cui la parete non gli crolli addosso. Se si effettuasse un sondaggio tra studenti liceali e universitari e si chiedesse loro di definire il concetto di "nazione", attraverso le risposte potremmo capire come la "percezione" non collimi con la realtà. Nella mie indagini sociologiche ho avuto modo di evincere che per molti la nazione è qualcosa di antico, che afferisce alla tradizione; è qualcosa di "sublime, perché rappresenta la patria comune (che per chiunque è sempre la più bella di tutte). I più preparati magari arrivano a spiegarne l'etimologia latina e davvero rari sono coloro in grado di parlare dell'anelito a vedere l'Italia politicamente unita che traspare negli scritti di Giordano Bruno, Machiavelli e Guicciardini 3. Se si chiedesse di illustrare, poi, gli analoghi principi enunciati da Gioviano Pontano, Baldassarre Castiglione, Francesco Gonzaga, gli occhi strabuzzati e le bocche spalancate testimonierebbero in modo inequivocabile il disastroso stato della formazione scolastica. Al di là dei fuochi fatui successivi alla discesa di Carlo VIII, comunque, fu "solo" con la rivoluzione audacia temeraria igiene spirituale francese - di fatto ieri, storicamente parlando - che il termine assunse una valenza politica, incarnando il soggetto collettivo destinato a soppiantare la monarchia e il suo legittimo rappresentante, fino a quel momento depositario esclusivo della sovranità. Il debutto ufficiale avvenne il 26 agosto 1789 con l'articolo tre della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino: "Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un'autorità che da essa non emani espressamente". L'enunciato si diffuse rapidamente e "nazione" divenne ben presto sinonimo di "popolo" e di "patria". Le guerre d'indipendenza in Italia trovarono la prima fiammella che alimentò l'incendio proprio grazie ai simpatizzanti della rivoluzione francese, per i quali esisteva una nazione italiana ed era giusto adoperarsi affinché fosse creato uno Stato nazionale italiano. LA NAZIONE DIVENTA REALTA'. Il termine "nazione" debutta trionfalmente nella storia, ma quali sono le nazioni? Chi ne fa parte? I quesiti risultano importanti per delineare il quadro che si dipanò nella prima metà del XIX secolo, soprattutto in Italia, quando l'identità nazionale iniziò a essere promossa da soggetti di alta valenza intellettuale e culturale, che trovarono facile gioco nel propugnare le proprie tesi ancorandole alla tradizione letteraria italiana. La lingua comune diventò il collante per auspicare l'unificazione dell'Italia.


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Facile a dirsi. In realtà l'italiano letterario era conosciuto e utilizzato solo da una piccola fetta di cittadini, essendo la maggioranza adusa a utilizzare il dialetto. Il presupposto della lingua, pertanto, assunse una valenza più formale e accademica che sostanziale. Vi è da considerare, inoltre, che la voglia di "nazione" si scontrò con la resistenza dei piccoli stati, che non avevano nessuna intenzione di perdere la loro "autonomia". Nonostante ciò, la nazione diventò realtà, sia pure dopo i travagli ben noti. La sua affermazione, e quindi l'accettazione come idea, fu resa possibile da tre elementi fondamentali 4: a) fu considerata come una comunità di parentela e di discendenza dotata di una sua genealogia e di una sua specifica storicità. Nasce il suggestivo sistema linguistico fatto di "madre-patria", di "padri della patria", di "fratelli d'Italia"; b) fu descritta anche nelle sue componenti di genere, attraverso un'operazione che attribuisce agli uomini il compito di difenderla armi alla mano e alle donne il compito di riprodurre - in forma casta e virtuosa - le linee genealogiche che strutturano la nazione come comunità di parentela; c) si trasformò in una comunità i cui membri devono essere entusiasticamente disposti al sacrificio della propria vita. Il richiamo alla necessità del sacrificio è un'operazione che consente di presentare il discorso nazionale come un discorso politico para-religioso: i militanti morti per la causa diventano subito dei "martiri". Le guerre nazionali si trasformano in "guerre sante"; l'azione di propaganda diventa "apostolato"; la rinascita della nazione diventa "resurrezione", ossia "Risorgimento". Le masse vengono educate al culto della nazione. Prende corpo, in tal modo, una vera e propria "nazionalizzazione delle masse" e sarà proprio questa definizione che George L. Mosse utilizzerà 5 per il suo libro più famoso , nel quale spiega come scuola, esercito, stampa e tutte le istituzioni abbiano il compito di insegnare ai cittadini le nuove regole imposte dai processi unitari. In Italia Edmondo De Amicis scrive il libro "Cuore"; agli inizi del ventesimo secolo si sviluppa una florida cinematografia patriottica; si cementa l'idea della "bella morte per la propria Patria" e ai "patrioti" morti viene assicurata una sorta di "immortalità" grazie alle statue erette in ogni dove a futura memoria. Dopo la prima guerra mondiale vi penserà Benito Mussolini a conferire nuova linfa ai concetti sopra esposti, esaltandoli in quella forma parossistica che ben conosciamo e con le drammatiche conseguenze che non abbisognano certo di essere qui rievocate. LE CONTRADDIZIONI DEL DOPO GUERRA Sconfitto il fascismo, la paura dell'ideologia nazional-patriottica spinge intellettuali e politici a individuare nuove forme valoriali. S'incomincia a parlare di Europa Unita come "Patria comune", in modo che i nemici di ieri possano diventare i fratelli dell'oggi e del domani. A parole. La realtà è ben diversa. Nelle scuole ci si guarda bene dal propugnare una "nuova cultura" che tragga spunto da una visione più moderna della società e magari prenda in seria considerazione i concetti esposti nel famoso "Manifesto di Ventotene"6. La letteratura italiana predomina e il culto dell'italianità viene perpetuato senza dissimulazioni, trasmettendo una serena (e ovviamente irreale) consapevolezza di superiorità.

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Sono trascorsi solo pochi anni, del resto, da quel fatidico 3 settembre 1943, consacrato alla storia per l'armistizio che fu siglato a Cassibile tra i Generali Castellano e Walter Bedell Smith, 7 caratterizzato da un aneddoto poco noto ma emblematico di una certa mentalità italiana, dura a morire e ben rappresentata in ogni contesto: arte, cultura, sport, spettacolo. Gli italiani si sentono i migliori al mondo e nei film riescono anche a vendere la Fontana di Trevi agli sprovveduti americani, dipinti sempre come fessacchiotti facilmente abbindolabili. L'illusione, paradossalmente, persiste anche quando il paese implode e affiora il suo vero volto. Il Risorgimento e il Fascismo erano riusciti, anche con la forza della suggestione, nell'impresa "impossibile" di dare coesione a qualcosa che, per molteplici ragioni, coesa non poteva essere. La decadente classe politica post bellica, però, non ha la capacità di mantenere unito un popolo che, di fatto, unito non lo era mai stato. La crisi scoppia subito e si perpetua, decennio dopo decennio, acquisendo crescenti elementi che ne acuiscono la portata. Il Nord si stacca idealmente, con risentito disprezzo, da un Sud visto come peste bubbonica e soggiacente alla sub-cultura dell'illegalità, mantenendo inalterato il razzismo interno anche quando appare evidente che le distonie sociali e comportamentali non hanno confini territoriali ma solo differenziazioni classiste: la delinquenza del Sud attecchisce precipuamente nel sottoproletariato emarginato; quella del Nord nei salotti dell'alta borghesia e della finanza, salvo poi saldarsi in quel coacervo di commistioni e ramificazioni che ha ridotto il paese nella palude mefitica che abbiamo oggi sotto gli occhi. RIGURGITO DI NAZIONALISMO PARADOSSI FEDERALISTI. audacia temerariaEigiene spirituale Sul processo d'integrazione europea ho parlato diffusamente sia in questo magazine sia altrove e quindi ritengo superfluo soffermarmi diffusamente sull'argomento. Pur essendo chiaro, da sempre, che solo un'Europa unita potrebbe rappresentare la soluzione ai problemi comuni, il processo d'integrazione non decolla, essendo esclusivo retaggio di una minoranza, culturalmente attrezzata per superare pregiudizi secolari. Sul piano pratico si realizza il pastrocchio del mercato comune, ribaltando un concetto fondamentale, il primato della politica sull'economia, con i risultati nefasti che ben conosciamo. Si rinuncia a realizzare una vera scuola di formazione comunitaria che inculchi nei giovani "la coscienza europea", perché, molto semplicemente, la coscienza europea è una prerogativa della classe illuminata di cui sopra e non certo dei governanti. Il nazionalismo imperversa ovunque e la voglia di nazione acuisce le tensioni anche all'interno degli stati. Apparentemente il linguaggio nazional-patriottico si affievolisce nell'uso comune. Le reboanti espressioni intrise di aggettivi e di vuota retorica, tipiche del ventennio e del primo dopoguerra, lentamente scompaiono dai media, ma non dalle coscienze degli uomini. Le politiche dissennate dei governi centrali, non solo in Italia, fanno il resto, alimentando una voglia di "indipendenza" che, in taluni casi, arriva a recuperare anche quei presupposti "ideali" che consentono di sacrificare la propria vita. Merita senz'altro rispetto e considerazione, per esempio, la lotta per l'indipendenza che indusse i giovani del Nord Irlanda a sacrificarsi per unirsi alla "madre patria" e sottrarsi alla "dominazione straniera".


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Per analoghe ragioni si può solidarizzare con gli Scozzesi che bramano uno stato indipendente. Più complessa da inquadrare è la questione spagnola: le battaglie dell'ETA, se da una parte possono trovare una parvenza di giustificazione durante il franchismo, quando il desiderio d'indipendenza fu associato alla lotta contro un regime autoritario, dal 1975 al 2011, anno in cui cessa la lotta armata, si possono configurare solo con l'intento di affermare la vocazione marxista-leninista "anche" con l'uso delle armi, incutendo "terrore". I combattenti, a quel punto, si trasformano in terroristi. La Catalogna fa prevalere la maggiore capacità produttiva, sostenendo a chiare lettere che non se la sente più di "finanziare" il resto del paese grazie al suo PIL di 200 miliardi di euro, che vale l'intera economia del Portogallo e contribuisce a formare un quinto del Prodotto interno spagnolo. Sulle cause delle "risibili"- absit iniuria verbis - contrapposizioni territoriali in Belgio non mi dilungo, rimandandovi all'eccellente articolo di Roberto Dagnino, pubblicato nel numero dodici di "Limes", anno 2010: "Fiamminghi e Valloni separati in casa", e a un mio articolo reperibile nel blog www.galvanorwordpress.com: "Una lingua ufficiale per l'Europa", giugno 2014. Nell'Italia settentrionale la Lega Nord ottiene grande successo ribadendo concetti quasi analoghi a quelli dei Catalani, corroborandoli, però, con un marcato razzismo, che trova facile diffusione in quella media borghesia con ignoranza pari alla supponenza. Con la tipica confusione concettuale di chi ragiona con la pancia senza essere culturalmente attrezzato per usare la testa, si propone una sorta di federalismo pasticciato, impossibile da realizzare sul piano pratico e distonico rispetto a un "sano federalismo", proficuamente attuabile in attesa dei tempi lunghi necessari alla realizzazione dell'Europa delle Regioni, federate in una vera entità nazionale che possa configurarsi come "Stati Uniti d'Europa". Nel nostro paese è evidente il fallimento dei presupposti sanciti dall'articolo cinque della Costituzione ed è noto a tutti che le autonomie locali sono essenzialmente macchine sprecasoldi al servizio della malapolitica. Un congruo riassetto costituzionale, tuttavia, è reso difficile proprio perché l'attuale sistema rappresenta una vera manna celeste per la malsana classe politica, che imperversa ininterrottamente dal dopoguerra, cambiando colore ma non certo mentalità. Un riassetto federalista, invece, sarebbe funzionale alle reali esigenze dei cittadini se rispettasse i seguenti presupposti: A) Abolizione delle regioni e istituzione di quattro o cinque macroregioni (o stati che dir si voglia), rette da un governatore con poteri limitati rispetto a quelli del Governo centrale. (Sanità ed energia, per esempio, dovrebbero ritornare a una gestione centralizzata). B) Abolizione delle amministrazioni provinciali. C) Accorpamento dei piccoli comuni, stabilendo un limite minimo intorno ai dodicimila abitanti. D) Ridefinizione delle province che, con opportuni "accorpamenti" e il recupero delle quattordici città metropolitane (un vero abominio), non dovrebbero essere più di cento, in modo da evitare 8 costose frammentazioni utili solo ad alimentare malcostume e malapolitica .

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L'evidente e cospicuo risparmio economico che si otterrebbe con siffatto impianto potrebbe essere proficuamente utilizzato per sopperire a tre grosse lacune che aggiungono problemi ai problemi: la carenza delle strutture ospedaliere, dei tribunali e delle carceri. Tutti i cittadini hanno diritto a una proficua assistenza sanitaria e, come ben noto, i tagli alla sanità e la chiusura degli ospedali, conseguenza delle tante ruberie perpetrate dalle gestioni regionali, costituiscono un vero dramma. Parimenti la lentezza della giustizia si combatte "tutelando" i Magistrati e non vessandoli con carichi insostenibili, forieri anche d'ingiustificate accuse. La sicurezza, poi, va garantita mandando i delinquenti in galera, evitando indecenti sconti di pena per mancanza di strutture. NAZIONALISMO: MALE ASSOLUTO Chiudo questa sezione dell'articolo lasciando la parola ad Alessandro Campi, perché, per quanti sforzi possa compiere, non riuscirei a scrivere di meglio: "Dal punto di vista etico, non c'è dubbio, il nazionalismo rappresenta - e oggi più di ieri - (siamo nel 1991, ndr) - un'autentica aberrazione. La logica che lo anima è quella dell'esclusione, del rifiuto pregiudiziale ed emotivo dell'Altro in quanto tale. Il suo piatto forte spirituale - basta leggere un qualunque dottrinario nazionalista - è la retorica del noi. Gli altri, per definizione, hanno sempre torto. [-]Il nazionalismo appare davvero come una malattia dello spirito, quasi una forma di autismo, un segno di grettezza e di chiusura mentale. Prima ancora che un'ideologia politica, il nazionalismo sembra essere uno status mentale. E in effetti non sono mancati i tentativi di spiegarne nascita e diffusione ricorrendo all'armamentario tipico della psicologia. Nel suo "Nationalismus. Psychologie und Geschichte", Eugen Lemberg chiama in causa tutta una serie di fattori psicologici, dal bisogno di affermazione spirituale al senso di appartenenza al desiderio di elezione, dalla dedizione del singolo alla causa del gruppo al senso del sacrificio a fronte di una minaccia, tutti fattori che spiegano bene, a un livello assai elementare, il bisogno di comunità che costitutivamente appartiene all'uomo, ma che non si comprende in che misura possano riguardare specificamente il nazionalismo, se non nel senso di una loro degenerazione patologica. Il nazionalismo ha perciò più a che fare con un generico senso di frustrazione, con un senso d'inferiorità più o meno dichiarato, che non con il bisogno di radicamento e di comunità. Nel suo intimo, il nazionalista vive costantemente accerchiato. Ha sempre bisogno di sentirsi difeso, vede minacce ovunque. Tende a non fidarsi. Insomma, è un individualista nevrotico. E sull'individualismo non si 9 costruisce nessuna solidarietà effettiva" . NAZIONALITA' E IUS SOLI Il principio che si configura come massima espressione di civiltà, relativamente allo ius soli, è molto semplice: "Chiunque nasca in un dato paese e sia soggetto alla sua giurisdizione ha diritto alla cittadinanza". Il distinguo sulla giurisdizione vale per i diplomatici e i militari che dovessero concepire un figlio mentre prestano servizio all'estero.


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Dall'assunto, poi, nascono molti altri distinguo che vedono posizioni contrastanti anche tra chi ne sia un convinto sostenitore, per lo più riguardanti la molteplicità di situazioni che possono scaturire dalla presenza di stranieri in un dato paese. Come ho scritto innanzi, però, vi sono principi nobili che vengono vanificati dalla realtà contingente e per questa materia ci troviamo proprio in siffatta situazione. Non basta, infatti, che un principio sia valido teoricamente per conferirgli dignità legislativa: occorre che lo stesso sia adottato proprio in virtù della sua essenza (e non per fini reconditi, magari di dubbia eticità) e che i proponenti abbiano piena dignità operativa nell'esercizio delle proprie funzioni. (Una cosa "giusta" deve essere fatta da una persona "giusta". Se la persona è "sbagliata" perde efficacia l'azione compiuta). Vi è anche un altro aspetto da tenere in considerazione: non si può disattendere in toto la volontà popolare, seppur essa appare distonica rispetto ad aspetti valoriali che sono facilmente accettabili da una classe sociale culturalmente evoluta, ma minoritaria. Scrivo questo paragrafo dell'articolo mentre al Senato si accingono a discutere sulla legge che prevede lo ius soli "temperato" e lo ius "culturae", definizioni tipiche delle contorsioni lessicali tanto care ai politici italiani. Non seguirò il dibattito che, more solito, si trasformerà in bagarre insulsa, considerato il livello dei soggetti agenti e l'attenzione precipua agli interessi di bottega piuttosto che ai presupposti di civiltà. Cerchiamo di capire, quindi, la vera essenza del problema al di là delle chiacchiere strumentali. Non è questo il momento per approvare una legge in materia, seppur fosse valida in linea di principio, cosa per giunta non vera per quella proposta. Stop. Il testo presentato al senato è un pastrocchio senza capo né coda perché contempla lacci e lacciuoli concepiti ad arte per buttare fumo negli occhi su tutti i fronti. Quando si tenta di accontentare tutti, non si accontenta nessuno. Lo ius soli o è "classico" o non è. E' palese, del resto, il fine strumentale dei proponenti, di natura prettamente elettoralistica. Il momento particolare - emergenziale e purtroppo destinato a mantenersi tale ancora a lungo, dilatando il concetto etimologico del termine "emergenza" impone la massima prudenza e la massima attenzione su talune scelte e provvedimenti. E' senz'altro giusto e legittimo provvedere alla manutenzione della propria villa curando il giardino e provvedendo all'acquisto di bei quadri, di buoni libri e di tutto ciò che rende gradevole un'abitazione. Dubito, però, che ciò sia possibile quando la villa presenti problemi strutturali, sia stata danneggiata da una scossa sismica o da un incendio. La stabilizzazione dei flussi migratori, necessariamente, deve costituire una priorità. Senza tanti giri di parole, poi, occorre anche preoccuparsi di "stabilizzare", in modo serio e compiuto, il Medio Oriente e quei paesi del continente africano in mano ai vari dittatorelli. La politica del tirare a campare è dissennata, perché prima o poi il fiume già impetuoso si trasformerà in un oceano tempestoso che travolgerà tutto e tutti. La realtà contingente, inevitabilmente, condiziona non solo l'umore delle persone, ma anche l'equilibrio psicofisico.

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Non è esagerato sostenere che la maggioranza del popolo italiano è smarrita e devastata interiormente. Quello che segue è un sondaggio recente, effettuato dai sociologi del sito "Termometro politico" ai primi di luglio. Il 63,6% degli italiani è contrario allo ius soli, senza distinzioni di sorta e a prescindere da ogni variabile legislativa. Lo scorso 4 dicembre, il referendum sulla riforma istituzionale vide trionfare il "NO" con il 59,1% dei consensi. L'84,7% degli elettori che hanno votato "NO" è contraria allo ius soli. Tra quelli che hanno votato "SI'", invece, (40,9%), è contrario un non trascurabile 32%. Di fatto è il solo elettorato del PD e della ridotta area della sinistra radicale a essere favorevole! Un dato ancora più significativo è quello che riguarda il diritto alla cittadinanza per i genitori dei bambini eventualmente beneficiati dallo ius soli: l'86,5% degli italiani non ammetterebbe deroghe nemmeno in questo caso!!! Niente cittadinanza ai genitori! Il 58,1% degli italiani, inoltre, ritiene che la proposta di legge sia finalizzata solo ad accrescere il voto ai partiti di governo, in particolare del PD. I dati non necessitano commenti e fotografano un quadro sostanzialmente sconcertante nella sua drammaticità, anche perché, molto probabilmente, le percentuali scaturite dal sondaggio risulterebbero ancora più alte se si allargasse sensibilmente l'area d'indagine. E a questo punto vi è poco da aggiungere: non è lecito sperare nel buon senso di chi ci governa e il popolo disorientato brancola nel buio, alternando il proprio consenso ai vari soggetti in campo senza rendersi conto che, in mancanza di una vera rivoluzione epocale, a prescindere dai risultati, saranno sempre "tutti loro" a vincere e a suonar la quadriglia. Nella foto che chiude questo articolo (prossima pagina ndr) vi è la nostra galassia, la Via Lattea, che è solo una tra i miliardi di galassie che si sono sprigionate dopo il famoso Big Bang. Il suo diametro si misura con un numero che non avrei mai saputo pronunciare senza l'ausilio di un convertitore automatico. All'interno della galassia vi è il nostro Pianeta. E' praticamente impossibile scorgerlo a meno che non s'ingrandisca la foto con una dimensione pari a quella di un continente! E forse non basta. Pazzesco, vero? Quando guardo quella foto e penso a tutto ciò che accade sulla Terra, per evitare d'impazzire socchiudo gli occhi e cavalco tempo e spazio raggiungendo "amici sinceri" in un vecchio bistrot di Montmarte. E' bello vederli tutti insieme, anche loro in fuga dal Tempo: Celine, Rimbaud, Verlaine, Chenier, Baudelaire, Brasillach, Gauguin, Brel e tanti altri. Sorseggiamo qualche bicchiere di assenzio, alternando poesia e canto, senza parlar d'altro. Bastano pochi attimi di quella fuga per tornare a sorridere. Del resto, sosteneva ancora zio Erasmo, "la vita umana non è se non una commedia, in cui ognuno recita con una maschera diversa, e continua nella parte, finché il gran direttore di scena gli fa lasciare il palcoscenico". Magari qualcuno amerebbe recitare solo a teatro o su un set cinematografico e non pensa che la vita sia una commedia, ma sicuramente è uno che pensa male e deve ancora capire il mondo. Chissà che ne è stato dello ius soli, intanto. Forse stanno ancora parlando. O forse si sono stancati. E' tempo di mare, dopo tutto. Lino Lavorgna


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NOTE 1) "Elogio della follia", Erasmo da Rotterdam. Il titolo del saggio è quello generalmente in uso. Il testo in mio possesso, edito da Einaudi nel 1978 e dal quale ho tratto altri spunti per questo articolo, è invece intitolato: "Elogio della pazzia". 2) Sesto seminario nazionale di studi della Nuova Destra a Passo dell'Acqua (PG), 23-24 febbraio 1991. Atti pubblicati nel numero 158 di "Diorama Letterario", giugno 1992. 3) Non sorprenda la posposizione di Machiavelli e Guicciardini a Giordano Bruno, nonostante i secondi precedano temporalmente il primo. A mio avviso, e contrariamente al pensiero diffuso, nell'opera di Giordano Bruno vi è un più marcato sentimento unitario rispetto a quanto non traspaia soprattutto in Machiavelli, per il quale l'unità d'Italia, sostanzialmente, si configurava come estensione del potere di Firenze. 4) "Nazionalismi e neonazionalismi nella storia d'Italia". Articolo di Alberto Mario Banti pubblicato sul numero 2 di Limes del 2009: "Esiste l'Italia? Dipende da noi". 5) "La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933). Edizione più recente: "Il Mulino", 2009. 6) Ispirato da Altiero Spinelli durante il confino nell'isola di Ventotene, costituisce il primo documento ufficiale che prefigura la necessità dell'istituzione di una federazione europea, gettando le basi per la realizzazione degli Stati Uniti d'Europa. 7) La vicenda del Generale Castellano è surreale anche nella parte più nota, quella che lo vide come un burattino nelle mani di Badoglio. Il dato più "comico", comunque, si ebbe dopo la firma. Mentre stringeva la mano al generale Smith, con piglio serioso e convinto gli disse più o meno testualmente: "Bene, ora che stiamo dalla stessa parte mi consenta di darle utili consigli per fronteggiare adeguatamente l'esercito tedesco". 8) www.europanazione.eu - Vedi il programma. 9) Alessandro Campi: vedi nota nr. 2

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IL MITO DELLA NAZIONE E L’UTOPIA DEL MULTICULTURALISMO Le recenti notizie sull'emergenza sbarchi degli immigrati clandestini hanno messo a nudo un problema inizialmente sottovalutato, almeno da una parte del mondo della destra politica. Penso all'avanzata per la conquista dell'egemonia da parte non di una qualsiasi forza partitica, ancorché appartenente alla storia della sinistra, ma di una corrente ideologica minoritaria sebbene fortemente radicata in alcuni ambienti della società civile: quella del multiculturalismo militante. L'origine di questo movimento che cerca d'imporre alla società la sua visione del mondo trae origine dal passato terzomondista e pseudo-pacifista dei movimenti comunisti occidentali. Nella prospettiva, molto in voga negli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso, di dover combattere il nemico dall'interno abbattendo lo Stato borghese che incarnava la forza e il potere del nemico ontologico, l'idea d'inglobare nel contesto europeo le masse di sfruttati provenienti dal terzo e quarto mondo per destabilizzare le società capitaliste, era il leitmotiv presente nella propaganda della sinistra cosiddetta rivoluzionaria. Tale ideologia strutturata si avvaleva del sostegno di un robusto apparato d'intellettuali i quali teorizzavano la caduta del paradigma della democrazia occidentale da sostituire con la dittatura del proletariato, sull'esempio sovietico. Nell'Italia del post-boom economico, che iniziava a saggiare gli effetti delle prime crisi industriali, prendeva piede un humus culturale alternativo a quello che, passando senza soluzioni di continuità dal fascismo alla democrazia repubblicana, aveva garantito la crescita civile complessiva del Paese sui valori tradizionali consolidati. La famiglia, la proprietà privata, la patria, la religione, l'etica del limite sono le medesime coordinate che avevano guidato l'instaurarsi anche in Italia di un regime totalitario. Opportunamente rielaborato e metabolizzato attraverso l'azione pervasiva nella società e nelle istituzioni repubblicane di un grande partito garante e depositario dell'unità dei cattolici in politica, quel complesso di valori costitutivi del "Pactum societatis", interveniva a illuminare la strada del nuovo mondo sorto sulle bombe del Secondo conflitto mondiale. La crisi dei rapporti di classe infiammati dalle contestazioni studentesche introduce, a sinistra come a destra, una critica radicale del capitalismo che incrocia la lotta per il sostegno ai popoli delle civiltà distanti da quella occidentale al riscatto dalla condizione di sfruttati dalle nuove forme di colonialismo rappresentate dalle azioni devastanti delle multinazionali nei Paesi arretrati e in via di sviluppo. Il meccanismo ribellistico che porta ampi settori delle giovani generazioni a rifiutare in toto i vecchi modelli etico-sociali per la loro evidente parentela con il


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passato, produce una scomposizione del piano valoriale per cui alla famiglia tradizionale si preferiscono i modelli di convivenza libera, alla proprietà privata si privilegia il bene collettivo, alla religione cattolica si sostituiscono forme pseudo-paganeggianti di deismo. L'etica del limite, della coscienza del proprio posto all'interno di un sistema sociale gerarchizzato, viene soppiantata dal trionfo dell'egualitarismo che annichilisce ogni differenza tra individui. All'idea di patria come nazione subentra l'ideale internazionalista di un mondo senza più confini ma unificato, e uniformato, sotto una stessa legge: quella del comunismo. Questa vena carsica, affiorata a più riprese nella fase di maggiore crisi d'identità dello Stato borghese, finisce in parte seppellita sotto le macerie del muro di Berlino. La morte dell'utopia del socialismo reale, il fallimento del modello comunista come strumento di riscatto e di redenzione dell'umanità, la sostanziale vittoria della democrazia liberale, infliggono un duro colpo alle aspirazioni terzomondiste di quella fascia di cittadini i quali avevano creduto nella possibilità di edificare un mondo nuovo da una palingenesi del vecchio Stato borghese colpevolmente ancorato al suo passato totalitarista. Tuttavia, quell'humus che aveva avuto un qualche peso nella storia della sinistra degli anni Sessanta/Settanta, sebbene fortemente ridimensionato non poteva scomparire. Ma, come accade in natura, un corpo soggetto agli effetti di grandi trasformazioni ambientali se non soccombe trova il modo di adattarsi alle nuove condizioni per continuare a vivere. Ed è ciò che è accaduto dagli anni Novanta. La corrente carsica del terzomondismo incrocia la novità che la storia consegna alle generazioni che si apprestano ad entrare nel nuovo millennio: la globalizzazione. L'edificazione del mercato unico globale; l'evoluzione dell'ultimo capitalismo che da manifatturiero vira verso la sponda finanziaria; la volatilità della ricchezza prodotta che diviene insofferente alla radicalizzazione territoriale; il trionfo del turbocapitalismo che si traduce in estrema contrazione dei cicli di vita dell'impresa manifatturiera; il salto tecnologico che consente di diffondere, attraverso le prime reti informatiche, la conoscenza e l'informazione sul piano orizzontale del rapporto spazio/tempo; sono le scriminanti che configurano una nuova attitudine delle classi dominanti a prediligere soluzioni transfrontaliere e globali alla tradizionale dimensione locale/nazionale dello sviluppo socio-economico. In questa fase congiunturale s'inserisce, traendone nuova linfa, la visione terzomondista che, nella versione aggiornata e adeguata al tempo storico della società di massa post-industriale, si articola nell'ideologia del multiculturalismo. Strano scherzo del destino che una generazione di giovani che ha combattuto, perdendola, la battaglia contro lo Stato borghese e il capitalismo, si ritrovi dopo tempo a ricostituirsi e a tornare a imbracciare il vecchio armamentario propagandistico proprio grazie ai successi di quello stesso modello economico odiato e avversato. L'appropriazione capitalista dell'espansione globale del mercato trainava i terzomondisti nella richiesta di una società senza più frontiere. Il ragionamento è semplice: se si spostano senza limiti i capitali, se le imprese possono localizzarsi indifferentemente in qualsiasi parte del pianeta, ne consegue che anche le masse

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umane posso trasmigrare senza incontrare alcun impedimento. Se lo Stato nazionale diviene uno strumento obsoleto rispetto a livelli decisionali sovraordinati ben più efficaci per rispondere al meglio alle nuove esigenze di quadro derivate dalla globalizzazione, l'idea stessa che possano continuare ad esistere delle frontiere chiamate a circoscrivere e a configurare realtà destinate a tramontare contraddice l'evoluzione dinamica della Storia. Da qui la condanna senza appello per tutti coloro che, al contrario, si ostinano a ritenere la dimensione nazionale della statualità un valore da preservare. Ancor più censurabile, agli occhi degli eredi del terzomondismo classico, la presunzione di continuare a connettere l'appartenenza culturale al fattore identitario della comune appartenenza a una nazione. In concreto, l'avvento della globalizzazione economica reca, tra gli effetti non previsti, il risorgere nelle nuove vesti del multiculturalismo, di quella ideologia terzomondista che si pensava sepolta sotto le macerie del muro di Berlino. Tuttavia, la riemersione della corrente carsica all'interno del mondo della sinistra italiana non si trasforma immediatamente in sentimento maggioritario all'interno del Partito Comunista impegnato a cambiare pelle dopo il crollo dei suoi riferimenti storici a Est. Lo dimostra il fatto che pur avendo i suoi eredi retto le sorti del governo per sette anni tra il 1995 e il 2011 non vi sia stata alcuna concessione significativa alla logica del multiculturalismo. I governi di Romano Prodi, Massimo D'Alema, Giuliano Amato e, di nuovo, Romano Prodi restano tiepidi rispetto alle pressioni che la corrente terzomondista esercita per imprimere una svolta definitiva all'orientamento culturale del Paese che, fino alla fine dello scorso decennio, resta ancorato ai valori tradizionali della società italiana che sono anche quelli delle sue classi lavoratrici. Il cambiamento decisivo che provoca l'assunzione dell'egemonia da parte della corrente di pensiero multiculturalista, sebbene ancora minoritaria nel sentire del Paese, è dovuta al prodursi di una fatto storico di portata decisiva: l'elezione a pontefice, nel 2013, del gesuita Jorge Bergoglio. La nuova chiesa di Francesco sceglie la strada della solidarietà estrema verso i disperati del mondo. La traduzione politica di questa svolta si ha con la decisione papale di sostenere a viso aperto la strategia dell'accoglienza dei migranti. Di tutti i migranti senza distinzione alcuna tra coloro che sono classificabili come profughi perché in fuga da scenari di guerra rispetto a quelli che semplicemente tentano l'approdo in Europa per migliorare le proprie condizioni di vita. La scelta oltranzista di Bergoglio appare come un tentativo della Chiesa di Roma di scaricare i propri atavici complessi di colpa verso le popolazioni del terzo e quarto mondo per le quali non si può dire che il cattolicesimo abbia fatto in passato granché per evitarne lo sfruttamento e la schiavizzazione, soprattutto nelle epoche del colonialismo. Il principio dell'accoglienza sistematizzato da Francesco basa sul presupposto dell'unicità del genere umano al quale non possono essere poste preclusioni nel diritto d'accesso a tutte le risorse che il Creato, manifestazione concreta e visibile dell'opera del suo Creatore, pone nelle disponibilità dell'intero genere umano. Nel pensiero bergogliano non trovano spazio le nazioni, le frontiere, le società chiuse, le


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disuguaglianze di classe, ma soltanto la pienezza espressiva dell'indole umana, condizionata esclusivamente dal fattore divino, alla quale deve essere consentito l'accesso alla ricchezza accumulata dalle società capitalistiche avanzate per una sorta di epocale redistribuzione in nome della giustizia sociale. È dunque nell'incrocio con le istanze pauperiste del neo-evangelismo bergogliano che risiede il punto di fusione con l'ideologia multiculturalista fino a quel momento rimasta ai margini del pensiero della stessa sinistra tradizionale. La storia di questi ultimi anni non fa che confermare questa saldatura. Con Bergoglio che "detta la linea" al governo italiano, passano la sconfessione della comunità che si trincera dietro le sue frontiere, l'idea di nazione sostanziata dal principio della terra dei padri, l'abbattimento di ogni limitazione all'insediamento di culture allogene in territori caratterizzati da profonde radici tradizionali autoctone. Si assiste al trionfo della società aperta che non è più nella disponibilità esclusiva di chi la popola da generazioni ma di chiunque la percorra per un tempo non definito. Che è propriamente ciò che da sempre teorizzano i terzomondisti. Ciò a cui stiamo assistendo oggi non è che la conseguenza fattuale di una scelta ideologica fatta a monte da un fronte che si è saldato nella figura carismatica dell'attuale pontefice. L'invasione di immigrati che vengono scaricati quotidianamente a frotte sulle nostre coste è la risultante diabolica di un piano messo appunto tra le mura ovattate dei Sacri Palazzi. Ma il gigante che nel frattempo è cresciuto ha i piedi d'argilla. Il principio del diritto alla libera migrazione dei popoli si è imposto sull'onda dell'affermazione della globalizzazione economica. È del tutto evidente che, nel momento nel quale le società interessate dall'ubriacatura della mondializzazione selvaggia hanno cominciato a fare i conti con i molti guasti che essa conduce con sé, anche l'ideologia multiculturalista ha perso colpi. Le comunità si sono accorte che il capitalismo finanziario transfrontaliero non era un dono del cielo ma dell'inferno. Depredazione dei territori, delocalizzazione delle strutture produttive per aumentare i fattori della concorrenza in funzione della massimizzazione del profitto, hanno colpito per prime le fasce deboli delle comunità territoriali. La cifra distintiva del nuovo corso è stata la crescita della disoccupazione, la precarizzazione del lavoro e, in generale, la riduzione delle garanzie legate al welfare. In pochi anni abbiamo assistito allo scardinamento delle certezze che le classi lavoratrici erano riuscite a conquistare in secoli di lotta. E anche il fenomeno dell'accoglienza dei migranti ha finito per mostrare il suo vero volto, appena nascosto sotto la patina dell'umanitarismo: la volontà del grande capitale di muovere masse di disperati per abbassare il costo del lavoro a livelli prossimi alla schiavitù. È così che uomini di chiesa e propagandisti del multiculturalismo si sono ritrovati, loro malgrado, sulla stessa barca degli sfruttatori più immondi del genere umano. È così che organizzazioni del volontariato, Ong e strutture ecclesiastiche di fatto sono diventate partner degli scafisti e dei mercanti d'esseri umani. È così che le anime belle di questo terzomondismo del terzo millennio hanno dovuto girare la faccia da un'altra parte per non ascoltare l'appello dei governi di molti Paesi di provenienza dei migranti, in particolare del continente africano, a non proseguire nella

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politica di svuotamento dei territori delle migliori energie destinate in condizioni normali di sviluppo a costituire il serbatoio della forza lavoro in loco. E la sinistra, che storicamente aveva fatto delle conquiste dei lavoratori il suo core business e la sua mission, si ritrova oggi a fronteggiare il disagio e l'opposizione di quegli stessi lavoratori che non rappresenta più perché ha smesso di tutelarne gli interessi. Nessuna meraviglia, dunque, se la classe operaia vota a destra, cosa inimmaginabile fino a qualche anno fa. Per quanto i responsabili di questo disastro lo neghino, le fasce deboli della popolazione hanno cominciato a mettere in relazione la caduta della loro condizione lavorativa e sociale con la politica delle braccia aperte ai migranti. D'altro canto, come si potrebbe tollerare a lungo un sistema che depaupera il popolo per dare accoglienza a chi arriva da altri mondi? Ma non è solo questo che ha mandato in panne il modello bergogliano-terzomondista della solidarietà. Il principale fattore che rende gestibile un fenomeno epocale qual è un'immigrazione di massa è costituito dalla capacità d'assorbimento degli allogeni nel territorio interessato senza ricadute negative per gli autoctoni attraverso l'integrazione dei nuovi arrivati nel sistema socialeculturale dei luoghi raggiunti. Nel caso in esame questo fattore è stato totalmente disatteso. Gli allogeni che stanno penetrando la nostra realtà non hanno alcuna intenzione di accettare le regole di vita occidentali ma pretendono d'impiantare i loro costumi, le loro regole eticoreligiose nei luoghi d'approdo creando delle autentiche zone franche all'interno delle quali il diritto e l'architettura dei valori occidentali non hanno alcuna cittadinanza. Bizzarra condizione! Mentre i multiculturalisti nostrani si apprestano a tentare l'ultimo assalto al cielo forzando, in Parlamento, l'approvazione dello Ius Soli e delle nuove regole per l'attribuzione della cittadinanza italiana ai minori nati sul nostro territorio, gli allogeni lavorano a escludere dal loro sistema di relazione intracomunitaria ogni validità alle regole del diritto e della morale sedimentate nel nostro Paese in secoli di storia. Altro fattore decisivo nell'accresciuta ostilità verso le politiche dell'accoglienza è costituito dalla percezione del pericolo d'infiltrazione jihadista nel nostro Paese attraverso il canale degli sbarchi. Gli anni nei quali i nostri concittadini hanno assistito alla recrudescenza del terrorismo di matrice islamica all'interno dell'Europa non sono trascorsi senza lasciare segni indelebili. Per quanto i multiculturalisti si sforzino di negare ogni legame o connessione tra i due fenomeni, la realtà ha provveduto dolorosamente a smentirli. I tagliagole ci sono, sono arrivati dai barconi e hanno creato avamposti nel nostro territorio. Il fatto poi che non siano ancora entrati in azione ma abbiano preferito pianificare la presenza in Italia come punto di transito per le missioni da compiere in altri Paesi dell'Unione europea è un aspetto che non attenua il problema. Al contrario, lo amplifica nel senso che contribuisce ad aumentare il grado di diffidenza che gli altri partner continentali nutrono nei confronti dell'Italia e della sua politica delle porte aperte. Non è un caso se governi democratici e progressisti come quelli francese, austriaco e svizzero si siano precipitati a sigillare i propri confini con l'Italia per evitare il travaso della massa migratoria dal nostro Paese ai loro. Il fatto che i governati italiani dicano che "l'Europa ci ha lasciati soli" è un


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falso clamoroso. La verità è che è stata la maggioranza parlamentare che ha in pugno questo Paese a volersi isolare dal resto del continente perseguendo una strada che non è e mai sarà quella delle altre nazioni continentali. Chi l'ha detto che la nuova Europa avrebbe dovuto abbattere tutte le frontiere? Rendere più agevole la libera circolazione delle merci e delle persone all'interno del perimetro dell'Unione è un conto. Altra cosa è pretendere di eliminare tutte le frontiere, soprattutto quelle esterne. I popoli nostri vicini non hanno alcuna voglia di lasciarsi invadere non perché siano egoisti e cattivi ma semplicemente perché intendono difendere la vocazione identitaria delle loro culture che sono il cemento che tiene insieme il "Pactum societatis" di ciascuna comunità nazionale. Ciò ci riporta al punto di partenza. Si può considerare morto il senso di appartenenza a un contesto di nazione in nome del superamento di ogni differenza nell'ambito del genere umano? Evidentemente no. E, vivaddio, a pensarla in questo modo è la grande maggioranza dei popoli occidentali. È, dunque, un problema esclusivamente italiano quello di fare i conti con la più velenosa utopia del nostro tempo storico: il multiculturalismo. L'antidoto più efficace per arrestare il virus letale sta nella piena riabilitazione del concetto di nazione come valore primario, costitutivo della coesione comunitaria. Non si tratta di miope difesa del condominio-Italia. Di là dai pur molteplici interessi materiali che dovremmo proteggere come Stato e come sistema economico produttivo, c'è in gioco un idem sentire che alimenta il senso di appartenenza a un'unione ideale e di solidarietà collettiva corroborate dalla tradizione storica e culturale di una storia millenaria comune. Si potrà legittimamente tornare a discutere di quale modello di nazione sia maggiormente desiderabile per il futuro nostro e delle generazioni che ci succederanno. Ma di una cosa dovremo essere certi: l'Italia nazione non finisce qui e ora, sotto i colpi dell'utopia multiculturalista. E giorno verrà che mito e realtà saranno, nel divenire della Storia, la medesima cosa. Cristofaro Sola

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QUANDO IL DIRITTO SI FA ELASTICO Per il dibattito sullo ius soli in via di definizione non voglio buttarla in gazzarra più di quella nella quale da tempo versa ma, al di là del punto di vista generale che tende ad escludere una competenza europea sull'argomento, sono invece dell'avviso che esso rientri idealmente e, quindi, politicamente tra le materie sulle quali l'Unione Europea dovrebbe esprimersi. Non mi va di ripercorrere le qualificazioni entusiastiche che la formazione dell'Unione ha ricevuto dal 1992 ad oggi, anche perché rischierei di tediare, prima dei lettori, me stesso e, di conseguenza, intristirmi per le puntuali disattese di quelle stesse qualificazioni di fronte all'insorgenza degli svariati problemi. In ogni caso, le definizioni che più mi hanno colpito sono state due: la prima, generica quanto eterea, è quella di 'casa comune' mentre la seconda, più articolata e giuridicamente ambiziosa, prospetta uno 'spazio di libertà, sicurezza e giustizia'. Ora, senza voler fare il sofistico a tutti i costi, già la prima determinazione fa sorgere delle perplessità in via generale: come può essere che, all'interno di una 'casa comune', ogni occupante possa determinare, a suo insindacabile giudizio, quale 'terzo' far entrare, senza alcuna considerazione per le posizioni dei restanti occupanti e senza alcun intervento armonizzatore, neppure larvato, da parte delle istituzioni che sovrintendono alla 'casa'? Eppure, tra i ventisette Stati non ce n'è uno che abbia regole d'ingresso uguali ad un altro. Basti vedere come, nello spaccato esemplificativo sottostante, i vari Stati concedono la cittadinanza: - In Francia, i nati nel territorio nazionale acquisiscono la cittadinanza se almeno uno dei genitori è nato in quel Paese. I figli di genitori stranieri, invece, acquisiscono la cittadinanza: a diciotto anni se, da quando ne avevano undici, hanno risieduto nel Paese per almeno 5 anni; tra i sedici e i diciotto anni se hanno risieduto con continuità nel Paese da quando avevano 8 anni. Gli stranieri maggiorenni possono farne richiesta tramite naturalizzazione dopo aver risieduto nel Paese per 5 anni che si riducono a 4 in caso di matrimonio con cittadino francese. - In Germania, il nato è cittadino tedesco automaticamente se almeno uno dei genitori ha il permesso di soggiorno da almeno 3 anni e risiede regolarmente nel Paese da minimo 8 anni. Comunque, al compimento dei diciotto anni, i ragazzi hanno 5 anni di tempo per decidere se acquisire la cittadinanza tedesca o conservare quella dei genitori. - Nel Regno Unito (ammesso che la cosa ancora riguardi l'Unione) ha la cittadinanza chi nasce da


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un genitore con un permesso di soggiorno a tempo indeterminato. Comunque, hanno facilitazioni i figli di stranieri residenti da 10 anni. Gli stranieri maggiorenni possono richiedere la cittadinanza dopo 5 anni di residenza. In caso di matrimonio o di unione civile con un cittadino britannico è possibile richiedere il passaporto dopo 3 anni. - In Spagna, sono cittadini i nati da padre o madre spagnoli, così come i nati da almeno un genitore nato nel Paese. Può ottenere la cittadinanza automatica anche il nato in Spagna da genitori ignoti e il minore di diciotto anni se adottato da un cittadino spagnolo. Se, invece, l'adottato ha più di diciotto anni potrà scegliere entro due anni dalla data dell'adozione. In tutti gli altri casi si può ottenere la cittadinanza per motivi di residenza, che dovrà essere continuativa sul territorio iberico per almeno 10 anni. Fanno eccezione i rifugiati, per i quali bastano 5 anni, i cittadini originari di un Paese dell'America latina, di Andorra, Filippine, Guinea Equatoriale, Portogallo per i quali ne bastano 2. Può ottenere la cittadinanza anche chi è sposato da almeno un anno con un cittadino spagnolo. - In Belgio, i figli degli immigrati possono acquisire la cittadinanza se uno dei genitori è nato in Belgio e ha vissuto nel Paese per almeno 5 anni negli ultimi 10. Se entrambi i genitori sono nati all'estero, devono avere risieduto in Belgio per almeno 10 anni prima di presentare richiesta di cittadinanza per loro figlio (hanno tempo fino al 12° anno di età del bambino). Gli stranieri maggiorenni devono avere risieduto nel Paese per almeno 10 anni. In ogni caso, è possibile ottenere il passaporto dopo 3 anni di matrimonio con un cittadino belga. - In Olanda, la legge non prevede alcun tipo di garanzia per bambini nati nei Paesi Bassi: lo ius soli è in pratica inesistente. L'automaticità agisce sul nato di 2.a generazione. Gli stranieri maggiorenni devono avere vissuto nel Paese per almeno 5 anni, che diventano 3 in caso di matrimonio o unione civile con un cittadino olandese. - In Danimarca, ai fini della cittadinanza occorre unicamente una residenza di 9 anni e il superamento di esami su lingua, storia, struttura sociale e politica del Paese. - In Grecia, invece, i figli di immigrati acquisiscono la cittadinanza se i genitori sono residenti da almeno 5 anni. I bambini nati all'estero e i cui genitori abbiano vissuto in Grecia per 5 anni acquisiscono la cittadinanza al completamento del primo ciclo di studi. Gli stranieri maggiorenni devono avere vissuto nel Paese per almeno 7 anni. - In Portogallo, lo ius soli è automatico alla terza generazione di immigrati. La seconda generazione può accedere alla cittadinanza dalla nascita su richiesta. Gli stranieri maggiorenni possono fare richiesta di naturalizzazione dopo 6 anni di residenza. Inoltre, sono necessari 3 anni d'attesa in caso di matrimonio o convivenza con cittadino portoghese.

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- In Svezia, la legge si basa sullo ius sanguinis, integrata dalla permanenza del minore per almeno 5 anni sul territorio svedese. - In Austria, la naturalizzazione richiede 10 anni di residenza, perché viene considerata come il riconoscimento di un'integrazione riuscita. - In Ungheria, lo ius sanguinis è predominante. Se uno dei genitori è ungherese, il bambino acquisirà la cittadinanza automaticamente. Per gli stranieri maggiorenni è necessario vivere nel Paese per almeno 8 anni. - In Romania la cittadinanza è ottenibile dopo una residenza di almeno 7 anni. Il tempo di attesa si accorcia a 5 anni in caso di matrimonio con un cittadino rumeno. In ogni caso, il richiedente dovrà avere almeno diciotto anni e la fedina penale pulita. Inoltre, dovrà dimostrare di avere i mezzi necessari di mantenimento. Infine, l'eventuale richiedente dovrà dimostrare lealtà verso il popolo rumeno, di avere le conoscenze elementari della lingua e della cultura, nonché la capacità di integrarsi nella società e la conoscenza della costituzione. Qui, potremmo aver concluso la esemplificativa carrellata sulla eterogeneità della normativa circa l'ottenimento della cittadinanza se non fosse per il particolare caso di Malta. Intanto, va detto che qualunque persona nata a Malta tra il 21 settembre 1964 e il 31 luglio 2001 ha acquisito automaticamente la cittadinanza maltese alla nascita. Dal 1º agosto 2001, invece, una persona nata nell'isola acquisisce la cittadinanza maltese alla nascita solamente se almeno un genitore è un cittadino maltese. In ogni caso, un emendamento alla legge sulla cittadinanza, entrato in vigore il 1º agosto 2007, dà diritto a qualunque persona di discendenza maltese (che possa dimostrarlo) di ottenere la cittadinanza per registrazione. Circa la residenza, inoltre, prima del 1º agosto 1989 la durata minima era di 6 anni (5 anni per i cittadini del Commonwealth). Tale durata, poi, è stata ridotta a 5 anni. Infine, una legge del 2013 ha introdotto alcuni emendamenti alla legge sulla cittadinanza davvero curiosi. Il Governo maltese, infatti, può concedere la cittadinanza a chiunque, proveniente da ogni angolo del pianeta, purché: - contribuisca con almeno 650.000 euro a fondo perduto (25.000 per il coniuge, ciascun figlio minore di 26 anni e a ciascun genitore) al National Development and Social Fund. - ovvero, investa almeno 150.000 euro in titoli di Stato con una scadenza minima di cinque anni. - agli investitori è anche richiesto di impegnarsi nell'acquisto di una proprietà immobiliare del valore di almeno 350.000 euro o nell'affitto di una proprietà per un ammontare locativo ad almeno 16.000 euro all'anno e per un periodo minimo di cinque anni. Ne deriva che chi ha disponibilità può acquisire facilmente e in tempi rapidi la cittadinanza e, quindi, il diritto di muoversi senza obbligo di visto in ben 160 Paesi. Da analisi svolte, sembra che nelle casse dello Stato maltese, a seguito dell'Individual Investor Program, possa entrare oltre un miliardo di euro, circa un terzo del Pil dello Stato.


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Ma l'aspetto ulteriormente curioso è che il 'programma' sembra essere attuato attraverso la Henley & Partners, una società inglese specializzata in "soluzioni per la cittadinanza" che ha sede nell'isola di Jersey, un paradiso fiscale nello stretto della Manica, il cui compenso per tale servizio sarebbe il 4% dell'incasso. Già quanto sopra sarebbe di per sé bastante a sottolineare l'eterogeneità dei 'diritti' e dei 'doveri' (termini cari al linguaggio comunitario) di ciascun occupante e, in conseguenza, la precarietà quanto meno dell'armonia che, invece, dovrebbe albergare in una 'casa comune'. Inoltre, l'eterogeneità della situazione potrebbe oltremodo giustificare la richiesta di regole univoche e chiare soprattutto da parte di quei Paesi più esposti alle ondate migratorie. E ciò in quanto, per effetto dei trattati in generale e di Schengen in particolare, un soggetto divenuto cittadino di uno Stato membro lo diventa automaticamente anche dell'Unione Europea e, come tale, ha piena libertà di movimento entro i confini della Unione stessa. Ma, al riguardo, tutto tace. Anzi, mi correggo. Quello che stranamente non tace è il Presidente della Commissione Europea Juncker che, nella seduta dello scorso 4 luglio, ha definito, a più riprese, 'ridicolo' il Parlamento Europeo solamente perché in aula c'erano poco più di trenta parlamentari ad ascoltare le parole del premier maltese Joseph Muscat, al termine del suo turno alla presidenza del Consiglio Europeo. Inoltre, Juncker ha anche aggiunto che ben diversa sarebbe stata la consistenza dei presenti se si fosse trattato di Macron o della Merkel. Neanche a dire, il presidente Tajani ha molto opportunamente 'bacchettato' il presidente della Commissione invitandolo ad un linguaggio più rispettoso verso l'istituzione che lo ospitava e ricordandogli che è il Parlamento a controllare la Commissione e non viceversa. Ciò posto, io non so cosa abbia indotto oltre 600 eurodeputati (quindi, con una composizione assolutamente trasversale) a disertare l'aula, né so se in un ipotetico intervento del premier francese o di quello tedesco la presenza in aula sarebbe stata maggiore, ma certo è difficile, con tutto il rispetto del premier maltese, ascoltare il 'nulla'. Sul piano dei soccorsi in mare agli immigrati, Malta latita e non da ora. Restia ad attuare persino interventi umanitari ai 'barconi' in estrema difficoltà e in grave pericolo per la vita degli occupanti, il governo maltese nell'assumere la guida del semestre europeo ha dichiarato che al primo punto della sua agenda c'era appunto il tema immigrazione, enfatizzato risolutamente in "Lotta all'immigrazione irregolare, con l'attuazione delle politiche di contrasto al traffico di esseri umani e quella dei ritorni e rimpatri". Nell'ambito di questo tema, c'era anche la revisione del regolamento di Dublino che obbliga il Paese di approdo a farsi carico dei richiedenti asilo, nonché i criteri sulla redistribuzione dei migranti tra tutti gli Stati Ue. Ebbene, nel trascorso semestre, dei circa 106 mila migranti che hanno attraversato il Mediterraneo, oltre 85 mila (+30% rispetto al 2016) sono approdati sulle coste italiane, nonostante Malta sia sulla rotta verso l'Italia di trasporti provenienti da numerosi porti africani. In ogni caso, nello stesso semestre, meno di 10.000 migranti sono stati oggetto di 'distribuzione' (si perdoni il termine indegno) tra gli Stati.

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Quei pochi che nel corso degli anni Malta è stata 'costretta' a ricevere sono stati posti in ferrei centri di identificazione, senza alcuna possibilità di movimento nell'isola. Allora, mi ripeto, è difficile ascoltare il 'nulla'; uno stato di fatto che la presenza del presidente della Commissione Juncker non ha minimamente alterato. Non risulta, né nel semestre passato né mai, che la Commissione sia intervenuta per indurre da un lato lo Stato maltese a più consoni consigli e, dall'altro, al rispetto degli accordi i premier europei che hanno minacciato di elevare un muro alle frontiere, che hanno schierato ingenti forze di polizia ai confini, che sulle linee di demarcazione del proprio Stato hanno allineato persino l'esercito e mezzi corazzati. Eppure, la definizione di 'spazio di libertà, sicurezza e giustizia' dovrebbe applicarsi anche a loro. Né risulta che qualche tentativo sia stato fatto almeno per uniformare le norme circa il conferimento della cittadinanza. E non si venga a dire che i trattati non lo prevedono perché nel corso degli anni sono state apportate talmente tante modifiche ed integrazioni che per seguirle occorrerebbe un Testo Unico. Tutto ciò posto, atteso l'immobilismo della Commissione, si domanda perché l'Italia, pervasa da un cristiano amore per le sorti avverse degli immigrati, l'unica cosa che ha saputo fare è stata quella di tuonare la minaccia di chiudere i porti alle navi delle ONG che soccorrono i migranti in mare se non vi sarà un non meglio precisato 'aiuto concreto' da parte dell'Unione? La minaccia, peraltro, chiaramente connotata come una manata sul tavolo per richiamare attenzione senza che questo significhi spostare l'impatto delle mani dal piano del tavolo ai visi, ha sollevato anche un coro di proteste accompagnate da veementi dichiarazioni di sdegno. Comunque, la 'promessa' di un 'aiuto concreto' da parte dell'Unione ha fatto rientrare la minaccia. In curiosa attesa di vedere se e come si concretizzerà il promesso 'aiuto concreto', l'ulteriore quesito che sconcerta è perché l'Italia, fondatrice dell'Unione, componente del G7, quindi non ultima arrivata al tavolo dei 27 e, in ogni caso, non certo al default, non ha rilanciato al poker comunitario fino a vedere la mano dell'avversario'? E perché, al recente vertice europeo di Tallinn, dove è miseramente 'crollato' un altro pezzo dell'Unione, il nostro ministro dell'interno non ha buttato all'aria il tavolo, come di solito si fa in presenza di bari? Nel settembre dello scorso anno, il ministro dell'Interno maltese Carmelo Abela ha fatto cenno ad un 'accordo' informale con l'Italia: "C'è stata una matura decisione dell'Italia di occuparsi di tutti gli sbarchi", spiegava il suddetto ministro alla stampa circa il recupero dei barconi di immigrati. Ora, già questo basterebbe per veder sollevarsi dei sopraccigli ma la questione si ingarbuglia a dar retta ad una pubblicazione-web dal curioso titolo de 'Il Populista', la quale, attraverso la firma di Marco Dozio, in data 26 dicembre dello scorso anno, ha dichiarato che 'alcuni retroscena' parlano della volontà discreta dell'Italia di far incetta di immigrati, anche in zone di competenza maltese, in cambio di via libera a trivellazioni petrolifere. Se fosse vero, un cataclisma politico si abbatterebbe sul nostro Paese. Comunque, mi pare strano che non vi sia stato alcun osservatore politico che abbia rilevato una tale affermazione e che, con riprovazione, non l'abbia smentita. Ma, si sa, al pari mio, i disattenti sono molti.


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Ma, allora, parlo dell'Italia, perché mirare a riformare un impianto normativo circa la concessione della cittadinanza ai migranti, in essere dal 1992, già perfettamente in linea con quelle degli altri Stati europei? La legge del '92, infatti, fissa tre criteri fondamentali per il conferimento della cittadinanza agli immigrati: - il c.d. ius sanguinis, secondo cui è cittadino italiano chi nasce da uno o da entrambi i genitori italiani, principio accolto anche nella vecchia normativa del 1912; - il c.d. ius soli, secondo il quale è cittadino italiano chi nasce nel territorio italiano, se i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non abbia acquistato la cittadinanza dei genitori in base alla legge del loro Stato; - la richiesta dell'interessato, se lo stesso in quanto straniero o l'apolide si trova in rapporti di parentela con cittadini italiani, ovvero abbia una residenza legale e ininterrotta nel territorio italiano per non meno di dieci anni, se straniero, o di cinque se apolide, oppure abbia prestato servizio, anche all'estero, alle dipendenze dello Stato italiano. La riforma pendente al Senato, invece, sovverte l'impianto di cui sopra, introduce lo ius soli cosiddetto temperato nonché lo ius culturae. In sostanza, il testo in discussione prevede che possano ottenere la cittadinanza: - ius soli temperato: i bambini stranieri nati in Italia che abbiano almeno un genitore in possesso del permesso di soggiorno permanente o del permesso di soggiorno europeo di lungo periodo. L'acquisizione della cittadinanza non sarà automatica, ma ci sarà bisogno di farne richiesta. - in ogni caso, per chiunque nasce e risiede in Italia legalmente e senza interruzioni fino a 18 anni, il termineaudacia per la richiesta della cittadinanza passerà da uno a due anni dal compimento della temeraria igiene spirituale maggiore età. - Ius culturae: inoltre, potrà ottenere la cittadinanza anche il minore straniero nato in Italia o arrivato prima di compiere dodici anni che abbia frequentato regolarmente la scuola per almeno cinque anni o che abbia seguito percorsi di istruzione e formazione professionale triennali o quadriennali idonei a ottenere una qualifica professionale. Non c'è dubbio che se la riforma passasse, il numero dei conferimenti della cittadinanza a stranieri subirebbe un'impennata notevole: secondo le stime della Fondazione Leone Moressa, sono circa seicentomila i figli di immigrati nati in Italia dal 1998 a oggi, quindi ancora minorenni, che rientrerebbero nella legge di riforma. A questi, andrebbero aggiunti anche centosettantottomila bambini, nati all'estero, che comunque hanno già completato cinque anni di scuola in Italia. Sempre secondo la fondazione, considerando che i nati stranieri in Italia negli ultimi anni si sono attestati tra i settantamila e gli ottantamila, qualora passasse la riforma è possibile calcolare un numero annuo di 'nuovi italiani' ammontante a 45/50mila per ius soli temperato e di 10/12mila per lo ius culturae. Allora, ripeto la domanda: ferma restando la carità cristiana, che comunque poco si sostanzia nell'accoglienza e nell'integrazione, perché ricorrere ad una norma che 'pompi' l'indice demografico?

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In parte, lo spiega il Presidente dell'INPS Tito Boeri il quale, di recente, ha presentato il Rapporto annuale dell'Istituto dove, senza giri di parole, si afferma che, senza immigrati, il nostro sistema previdenziale crollerebbe. "Chiudere le frontiere significherebbe una manovra economica in più ogni anno", ha spiegato Boeri. "Se i flussi di entrata dovessero azzerarsi, avremmo per i prossimi 22 anni 73 miliardi in meno di entrate contributive e 35 miliardi in meno di prestazioni sociali destinate a immigrati, con un saldo netto negativo di 38 miliardi per le casse dell'Inps". Per cui, ha proseguito il Presidente "Non abbiamo bisogno di chiudere le frontiere. Al contrario, è proprio chiudendole che rischiamo di distruggere il nostro sistema di protezione sociale". Va bene. Adesso, almeno, abbiamo una giustificazione plausibile: le donne italiane concepiscono sempre meno e l'indice demografico è pari a Ø. Ma, se così fosse, perché non avviare una politica di sostentamento per la famiglia al fine di veder tornare un minimo di sicurezza e più dedizione ad un'attività felicitante? E, ancora. Considerato che la pendente riforma, posta in relazione con le parole del presidente Boeri, comincerà a produrre significativo effetto almeno tra una decina d'anni, perché da ora non incentivare l'assunzione di giovani già italiani, gravati da un indice di disoccupazione di oltre il 40% e così dare immediato beneficio all'Istituto? Alle tante domande, purtroppo, non c'è risposta. Una cosa comunque la so: quando la verità, come il diritto, si fa elastico, bisogna tenersi su l'indumento intimo. Altrimenti, le terga sono scoperte. Massimo Sergenti


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IN PRINCIPIO ERA IL VERBO... POI FU IL TEMPO DI BERLUSCONI E PRODI Ed eccoci nuovamente a parlare dello ius soli, a distanza di tre anni dall'avvio di quel dibattito che, tra poco, lo formalizzerà in legge e che, con ogni probabilità, lo rinvierà al giudizio degli elettori come quesito referendario. Chi legge mi perdoni se io non riesco ad animarmi per questo argomento, se non sento il sangue ribollire per una qual sorta di offesa all'amor patrio, se non ravviso alcuna lesione (oltre a quelle già arrecate) ai sacrifici dei nostri padri e se non sono terrorizzata dal fatto che 'tra novant'anni la società italiana sarà a maggioranza di colore.' Questo non vuol dire che considero positiva la legge in via di definizione, sia nel principio che nel contenuto ma, più semplicemente, significa che non intendo associarmi a tutti quegli imbonitori di provincia che, muniti di un furgone carico di federe e lenzuola, mutande e asciugamani, girano tra i paesi megafonando ai 'semplici' l'altisonante qualità della loro mercanzia. Un po' come è successo per il recente referendum costituzionale. Che ci volete fare: la scena che mi balza davanti agli occhi è quella di una piazza di paese dove un tizio, in maniche di camicia arrotolate, in piedi sulla ribaltina del furgone, davanti ad un gruppo di massaie, magnifica le proprietà dei prodotti che vende; li stende, li strattona per dimostrarne l'effimera robustezza, ne magnifica il malinconico colore, se li paluda addosso e, infine, ne declama il prezzo dopo essere ricorso alla 'mediatica' graduale riduzione che genera il 'parossismo' dell'attesa; non ve lo do per 100, né per 50 e nemmeno per 25. Questa magnificenza del filato, questo miracolo del telaio potete averlo solamente a 15.; il tutto, intervallato da feedback acustici (gli striduli fischi), eruttato attraverso uno scrostato microfono collegato ad un rudimentale impianto di amplificazione alimentato dalla batteria del mezzo. Avverto profondamente l'amor patrio (ormai come vano sentimento), ma se mi soffermo a pensarci mi sfilano davanti agli occhi tristi immagini che mi deprimono: le più prestigiose firme del Made in Italy sono state vendute ad acquirenti stranieri, comunitari ed extra-comunitari, disperdendo esperienza, originalità e professionalità. Eppure, non si è posto né si pone indugio intra lo mezzo per salvare dalla bancarotta istituti di credito che l'unica caratteristica che hanno avuto ed hanno è quella di aver dilapidato i soldi dei risparmiatori. Per cui, potrei capire la tutela di quest'ultimi ma non comprendo il perché mettere in salvo a spese dell'Erario l'istituto e i dirigenti responsabili anziché inviarli alle miniere di Kolyma, dopo un giro turistico nella Siberia invernale. In nome di un'ottusa politica di risanamento e anti-evasione, osannata dai più, è stato dato un

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colpo mortale alla cantieristica navale e a quella automobilistica, fiori all'occhiello dell'italico ingegno; così come, a causa di una oppressiva burocrazia e fiscalità, sono state tarpate le ali alla creatività tricolore: un patrimonio che si è disperso a causa di ragionieri che anziché tagliare sui pupazzi da giardino, sulle guarnizioni natalizie e sulle beole del vialetto, hanno preferito ridurre all'osso gli alimenti degli occupanti della casa, fino a rasentare l'inedia. Un patrimonio di conoscenza, di esperienza, di inventiva, di genialità, di magia, invidiato da tutto il mondo, è stato buttato al macero e non sarà mai più rimpiazzato: è un fatto che i nostri migliori ricercatori pubblici languono per mancanza di risorse e quelli privati sono ormai proiettati verso un orizzonte planetario dei prodotti che, in quanto tale, non può più specificamente considerare né cultura e né tradizioni nostrane. Non vedo manco una politica per il turismo che possa mettere a frutto i 'tesori' italici naturali rappresentati dal sole, dai paesaggi e dal mare né, tantomeno, scorgo una politica per lo sport che riporti ad eccellere nei campi, nei circuiti, nelle piscine o sulle pedane, atleti italiani verso i quali 'tifare' per una sorta di transfert dell'orgoglio nazionale. Non avvisto neppure una specifica politica per la valorizzazione dei 'tesori' artistici, lasciati spesso all'intraprendenza di curatori stranieri per effetto dell'obbligatorietà di bandi europei, nonostante la sola nostra penisola detenga il 60% del patrimonio artistico mondiale, buona parte del quale depositato nelle cantine a prender polvere. Anzi, ciò che osservo è una scarsa cura dell'ambiente nel quale viviamo e notevoli danni arrecatigli, il più delle volte per intrapresa disinvolta e per scarsa sorveglianza. Ciò che è sempre pronto, invece, è il ricorso alla cassa pubblica per porvi rimedio, senza che lo sjambok dimostri tutta la sua pregevole resa sulle chiappe del colpevole. Certo. C'è sempre la famosa frase kennedyana "Non chiederti cosa il tuo paese può fare per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese" che mi gira nella mente ma, atteso che nemmeno negli USA la pregnanza di tale frase ha trovato numerosi riscontri, si domanda: cosa posso fare io per il mio Paese se non 'dare' incondizionatamente all'Erario e cercare di scegliere al meglio il rappresentante al quale demandare i miei timori e le mie speranze? Così, ho dato a piene mani. Ho persino anticipato le tasse dell'anno a venire su redditi che ancora dovevo incassare, pagando in un anno due anni. Mi sono sottoposta a balzelli di ogni genere in costante crescita: accise, bolli e super bolli, tributi, contributi, imposte, addizionali comunali e regionali. In un anno, i frutti del mio lavoro sono stati destinati per oltre la metà a vantaggio solamente del mio Paese e per meno della metà a sostegno mio e della mia famiglia. E, dopo tanto dare, non mi incazzo neppure quando vedo un'infinità di strade sconnesse e piene di buche, quando il poco verde del mio quartiere è pieno di cartacce e invaso dalle erbacce, frutto dell'incultura dilagante e del disinteresse dell'amministrazione; quando cammino per la strada e devo stare attenta a non cozzare contro cumuli di rifiuti e a non 'infastidire' frotte di topi che stann' a faticà. Né mi adonto (sic) se, ricorrendo alla sanità, propendo per quella privata a pagamento visto che è divenuta più vantaggiosa rispetto all'entità dei ticket di quella pubblica.


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Né, tantomeno, mi impermalisco (doppio sic) se vedo famiglie costrette a pagare ulteriori tasse per dare un'istruzione ai loro figli e a corrispondere ulteriori contributi se vogliono dare loro una conoscenza, sia pur larvata, della dimensione internazionale dello studio. Insomma, non mi inalbero nemmeno (triplo sic) se constato che non c'è uno straccio di servizio pubblico, dopo tanto dare, che non sia a pagamento. E dopo tutto questo, non mi sottraggo neppure ad un indistinto 'obbligo morale' nel donare il mio contributo, tramite SMS o telefono fisso, per sostenere la ricerca sul cancro, sulla SLA, sulla sindrome di Down, sulla celiachia, e su un'ulteriore, vasta gamma di afflizioni che travagliano il genere umano. Né mi astengo dal contribuire, sempre tramite SMS o telefono fisso, per il restauro di opere d'arte, per la riparazione di chiese, per la manutenzione di beni architettonici che la natura, a volte maligna e a volte indotta dalla disgraziata mano dell'uomo, ha compromesso. Ma, sono costretta a rilevare, è una strada senza fine, un pozzo senza fondo, un tunnel senza uscita che nasce surrettiziamente dal modello americano dove, certo, la società è chiamata a contribuire alla qualità della vita sociale ma la stessa è gravata da esazioni che sono poco più della metà di quelle italiane. Allora, mi sono detta, per migliorare l'esistenza mia e del mio prossimo non posso che essere più oculata nella scelta dei miei rappresentanti che pensino a questa travagliata Italia e, sia pure intruppata in un'Unione, sappiano mantenerne le qualitative caratteristiche e i valori tradizionali. Ciò nondimeno, neanche su questa strada ho trovato validi interlocutori. Negli ultimi venticinque anni, la lira è stata cancellata, sostituita da una moneta, l'euro, che non ha fondamento se non nei trattati internazionali e nelle finalità della BCE; eppure, regola le attività economiche di diciannove Paesi che sul piano tradizionale e su quello culturale non hanno alcunché in comune. Il che sarebbe il meno se non fosse per il fatto che un'intensa attività di omologazione sta cancellando specificità e caratteristiche produttive basate, essenzialmente, proprio su quelle tradizioni e su quelle culture. Già. C'è sempre il marchio europeo dei DOP, IGP e STG dove consorzi nazionali di produzioni specifiche dovrebbero tendere a garantire l'originalità dei prodotti sia sul piano delle proprietà organolettiche che su quello territoriale. Ma, atteso che quei consorzi, fatti per lo più da mediopiccoli imprenditori, dopo aver ricevuto il primo conquibus comunitario, più in là non sembra siano andati, un po' per scarsità di risorse e un altro po' per miopia, non vedo una conseguente difesa di quelle produzioni da parte dell'Unione, ne odo le grida dei parlamentari nazionali ed europei davanti a palesi, persino umoristici, fakes. Oggi, se si gira un tantino per il mondo, è facile vedere nei banchi dei supermercati extra comunitari etichette come parmesan, salamì o, addirittura, 'olio d'oliva vergine' il cui luogo di produzione, tuttavia, è incomprensibile perché scritto nella lingua locale e il luogo della 'verginità' risiede nell'atomo ancora intonso e prossimo ad avviare la fissione una volta nello stomaco. Inoltre, può capitare che il Paese dove il 'misfatto' avviene riceva persino sostegni dall'Unione europea, cosicché si possa meglio evolvere e diversificare la locale fantasia riproduttiva.

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Tempo addietro, un 'secchione' di commissario provò ad inserire il problema delle contraffazioni all'Odg della potente World Trade Organizzation ma la risposta che ricevette, con tanto di occhi di bragia, fu un secco e categorico NO, accentuato dal braccio teso e dall'indice puntato verso l'uscita. Ma la parte ancor più umoristica risiede nel fatto che neppure a livello nazionale è possibile impostare una difesa: le norme contro la concorrenza 'sleale', quelle contro il protezionismo e la suprema 'legge del mercato' sono pronte a bacchettare lo sprovveduto. Sembra quasi di leggere Cicerone quando nel suo De Officiis Liber Primus afferma: "Summum ius, summa iniuria" ; il che suonerebbe come "Il massimo del diritto, il massimo dell'ingiustizia" e già renderebbe l'idea. Ma sarà che sono una ragazzaccia e mi ricordo di Andreotti quando affermava che a pensar male si fa peccato ma spesso s'indovina, mi suona più congeniale Terenzio che scriveva: "Ius summum saepe summa est malitia" che tradotto suona "somma giustizia equivale spesso a somma malizia". D'altro canto, non vedo offesa ai sacrifici dei padri più di quelle che noi stessi abbiamo arrecato loro. La dignità militare, per quanto controversa sul piano valoriale, è stata soppiantata dalla professionalità remunerata e dalle operazioni interforze, il più delle volte sotto il comando 'straniero'. Le lotte partigiane, che pure hanno versato un elevatissimo contributo di sangue per la costituzione ideale di questa nostra Italia, sono divenute ormai miglio per polli, da rispolverare in qualche festa commemorativa o da citare, insieme allo 'sdegno', per le manifestazioni di qualche gruppuscolo sedicente di estrema destra. Un secolo di lotte sindacali che avevano portato questo Paese a confrontarsi in termini di progresso con i più avanzati Stati nel mondo, è stato scientificamente cancellato nel nome del 'mercato' e della finanza. Per cui, quella 'cultura del lavoro' che contraddistingueva la nostra manodopera e la poneva a ridosso di quella tedesca in quanto a 'concezione sociale' si è persa in quegli accordi al ribasso che hanno punteggiato gli ultimi venticinque anni di relazioni sindacali per lasciar posto all'aleatorietà, ai contratti spot, di progetto, di collaborazione saltuaria, ai voucher, che non realizzano professionalità, attaccamento, impegno, che non consentono progetti personali di vita, che non fanno comunità. Senza considerare, poi, da vent'anni a questa parte, il silenzio sulle 'vantaggiose' assunzioni di immigrati, spesso in 'scuro', da che riempire le ricche pianure italiane e le 'fabrichette' del Nord. Questo Paese non funziona più nemmeno come Casa Madre della Cristianità perché, tra pedofilia, turbo-materialismo e rampantismo, è morto il Maggior Referente, Dio, sia pur con cinquant'anni di ritardo rispetto al vaticinio canoro dei Nomadi, dando alla fine ragione a Nietzsche. E la famiglia che lo andava a venerare la domenica mattina si è persa per strada tra i sensi unici dei licenziamenti e dell'indisponibilità economica, tra annichilimenti e angosce esistenziali, tra degrado dei costumi nell'insipienza familiare e scolastica che ha elevato a 'libertà giovanili' gli sballi musicali hard e l'ecstasy, trasgressivi piercing al sopracciglio, alla lingua, all'ombelico e al clitoride, tattoo fantasmagorici, jeans sgarrati e penduli, sbrindellate t-shirt con volti di personaggi morti per un granitico ideale e mutande griffate a vista. Una famiglia, peraltro, che non si perpetua più, intimorita dalle ristrettezze economiche e dalle problematiche civili e sociali e che, in ogni caso, sta perdendo la sua connotazione tradizionale


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visto che, a prescindere dalla giustezza o meno, può formarsi tra due persone dello stesso genere le quali possono concepire con un 'terzo', adottare e persino commissionare la prole. Perciò, venendo meno Dio e la Famiglia dal tradizionale trinomio, si è persa anche la Patria. In sostanza, dopo cinque lustri di picconature su ogni aspetto caratterizzante o impersonante l'amor di patria e l'orgoglio nazionale, tra scandali e ruberie, concussioni e corruzioni, tra effimeri vagheggiamenti su 'crescita', 'modernità', 'legalità' e 'valenza comunitaria', tra rivoluzionari liberali milanesi da operetta, salumieri bolognesi, rottamatori fiorentini e smacchiatori di giaguari piacentini, salvatori bocconiani, comici dissacratori e secessionisti pentiti, ci ritroviamo alla fine della fiera con Berlusconi e Prodi, che ovviamente per amore di questo Paese si pongono come traghettatori salvifici; due simulacri in una landa civile, sociale e culturale desolata. Allora, per non starla a tirare tanto per le lunghe, cos'è che mi dovrebbe inorgoglire nell'essere italiana e, quindi, perché dovrei impensierirmi di fronte alla dilagante marea degli immigrati e alla volontà, certo becera, di concretizzare uno ius soli di casareccia confezione? Mi ha pianto il cuore calde lacrime nel vedere tanta 'ricchezza', tanta 'bellezza' e tanto 'sentimento' spazzati via da un progressismo di maniera che non mi fa più alcun effetto vedere intervallati visi bianchi e visi neri. E, in ogni caso, ammesso che sia vero, data la mia veneranda età non ci sarò più quando, 'tra novant'anni', la maggioranza sarà di colore; ovviamente, non è né menefreghismo, né cinismo né, tantomeno, comodo egoismo, bensì la lapalissiana constatazione che la soluzione del 'problema' non mi compete. Ho già, inutilmente, 'dato' in tutta la mia vita: ho combattuto, mi sono impegnata, schierata, ho lottato e urlato e ho contribuito in fatica, moralmente e in solido; eppure, il più delle volte sono stata tacitata e persino ignorata proprio da quelle persone che, all'apparenza, avrebbero dovuto essermi affini e che oggi sollecitano in difesa di 'valori' e di 'identità'. Per cui, potrei rispondere alla sollecitazione 'imbonitrice' con una domanda: ma loro, dico loro per parafrasare il Grande Renato, dov'erano quando il carrozzone cominciava a sbandare, quando si sono avvertiti i primi sinistri scricchiolii sugli assali, quando la ruggine cominciava ad invadere la struttura e l'immagine peculiare di questo Paese cominciava a collassare per opportunismo? In ogni caso, non mi interessa saperlo. L'unica cosa che so, con la morte nel cuore, è che all'eventuale referendum voterò SI all'abrogazione della legge sullo ius soli per solidarietà con gli immigrati. Se riescono a scampare alla rete delle organizzazioni criminali, se riescono a scantonare dalle maglie delle ONG che si dice siano persino in combutta con gli scafisti (ma io non ci credo), se riescono a sortire dai campi profughi nei quali sono rinchiusi, se hanno la possibilità di svicolare dall'ipocrisia comunitaria, se non incappano nell'ottusità di partners europei che cercano di prendere senza dare manco avessero ancora la mentalità del kolchoz o quella coloniale, se sopravvivono all'ospitalità di famiglie che lucrano sui 30 euro al giorno, si cerchino un'altra cittadinanza. Roberta Forte

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UNA D’ARME, DI LINGUA, D’ALTARE? Considerazioni sull’identità italiana pre- e post-risorgimentale Una gente che libera tutta O fia serva tra l'Alpe ed il mare; Una d'arme, di lingua, d'altare, Di memorie, di sangue e di cor. conte Alessandro Manzoni, Marzo 1821 La parola Italia è una espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle. conte Klemens von Metternich (2 agosto 1847)

Un'Italia senza gli Italiani? A proposito del rapporto tra Italia ed Italiani, due frasi famose si contrappongono: una di Massimo d'Azeglio (1798-1866) e una di Salvator Gotta (1887-1980). La prima - forse apocrifa1 - recita: "pur troppo s'è fatta l'Italia, ma non si fanno gl'Italiani", segno che il Risorgimento aveva agito politicamente, ma non socialmente; l'altra afferma: "Dell'Italia nei confini | son rifatti gl'Italiani | li ha rifatti Mussolini | per la guerra di domani"2 e individua nel Ventennio fascista il momento in cui il desiderio risorgimentale di unificazione territoriale si sposò con l'effettiva unità di sentimento della popolazione. È noto che il culmine di tale sentimento fu provvisoriamente raggiunto nel 1936 con la proclamazione dell'Impero3, ma è 4 altrettanto noto che nemmeno dieci anni dopo tutto era crollato: il secolo del Fascismo , durato solo un quarto di secolo (peraltro ben più - sia nelle prospettive che nella concreta realizzazione dei dodici anni del Reich "millenario"), il sogno imperiale italiano, l'unità dei popoli della penisola, usciti da una sanguinosa guerra civile e pronti a perpetuare ferocemente la divisione, 5 su basi politiche anziché territoriali , grazie al regime democratico. Morto (politicamente) Mussolini, sono morti anche gli Italiani: non ce ne si è accorti subito, ma 6 poco alla volta il disgregamento è parso sempre più evidente . Prima di giungere ai fenomeni leghista (maggioritario in alcune regioni del Nord) e neoborbonico (quest'ultimo invece privo di qualsiasi riscontro elettorale), già negli anni Settanta gli opposti estremismi si caratterizzavano a Sinistra per l'internazionalismo sovietizzante, a Destra per un europeismo che, senza celare una subordinazione culturale nei confronti del nazionalsocialismo tedesco (in realtà del cesarismo hitleriano, preferito a quello mussoliniano7 ), considerava l'Italia una nazione tornata ad essere la


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semplice ed imbelle "Italietta" di epoca liberale. Il disprezzo per lo Stato italiano, necessariamente identificato nei suoi traballanti governi8 asserviti a potenze straniere (ieri Israele e gli Usa, oggi l'Ue, Israele e gli Usa), si riversa contro l'italianità in genere: contro la cultura, accusata di essere provinciale; contro l'uomo medio, imputato di essere vigliacco ed egocentrico (non a caso la macchietta interpretata in vari film da Alberto Sordi era definita "l'Italiano medio"9); contro la mentalità del "tengo famiglia" se non quella, criptomafiosa, del "fatti i fatti tuoi". L'Italia di Lissa, di Adua, di Caporetto e dell'8 Settembre, incapace - e soprattutto senza desiderio 10 - di combattere si rispecchia in questo stereotipo, esaltato dalla narrativa e dalla cinematografia 11 quasi per "purificarsi" dalla retorica eroico-militarista del Ventennio fascista . Una contro-retorica (non una anti-retorica, bensì una retorica al contrario) che nel corso degli anni è però riuscita a plasmare le nuove generazioni, assolutamente pacifiste (anche se non pacifiche) ed edoniste, che rifiutano "senza se e senza ma" la guerra, ma non la droga; che amano il rischio della velocità e dello sballo post-discoteca; che sono anche capaci - imbottiti di stupefacenti - di brandire un estintore e tentare di rompere la testa ad un carabiniere, ma si stracciano le vesti se il militare in questione osa difendersi12. A livello globale, e prendendo come esempio la società statunitense, si potrebbe dire che le generazioni successive alla seconda guerra mondiale ed alla guerra-lampo di Corea (1950-1953) cercano comunque stimoli "forti" (cfr. il film Gioventù bruciata del 1955, non a caso intitolato in originale Rebels without a cause, Ribelli senza causa, che rese un'icona James Dean), ma poi giungono al successivo (e lunghissimo) conflitto vietnamita (1955-1975) senza motivazioni e predestinati alla sconfitta. Dopo "l'ultima" guerra, l'Italia non è stata coinvolta in conflitti con i quali misurarsi (le missioni di "pace" non contano), tutti attentamente evitati. Nel momento di maggior frizione con la Libia di Gheddafi, che nel 1986 aveva lanciato alcuni missili contro Lampedusa, il governo italiano si limitò ad una nota diplomatica (in pratica Spadolini, improbabile ministro della difesa, sgridò il colonnello pazzo: "Non lo fare più!") e la cosa finì in burletta, con i tentativi successivi di allacciare rapporti di amicizia con il dittatore libico, durati fino a poco prima della sua morte (e, anche in quest'ultima situazione, l'Italia stette - e ancora sta - a guardare). Mai che, in passato abbia solamente accarezzato l'idea di un intervento militare nelle nostre ex colonie (Albania, Libia, Corno d'Africa) nonostante la grave situazione politico-criminale di quei Paesi che avrebbe giustificato, se non addirittura imposto, un aiuto per liberarli dal giogo dei regimi dittatoriali in cui si trovavano. Certo, si trattava di regimi comunisti o filo-marxisti, quindi "buoni" per eccellenza… Ma oltre a questo pregiudizio positivo, c'era l'assoluta mancanza di spina dorsale nella popolazione italiana. Ma è giusto, a questo punto, a settant'anni dalla fine del Fascismo, parlare ancora di Italiani? Non abbiamo assistito alla fine dell'italianità attraverso gli Anni di piombo che, come accennavo, contrapponevano - con una non sottile differenza rispetto alla guerra civile - non più "neri" contro "rossi" e "bianchi", cioè fascisti nazionalisti contro comunisti internazionalisti (o filo-

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sovietici), quantunque alleati a monarchici e liberali nazionalisti; bensì "neri" europeisti e "rossi" (coerentemente) internazionalisti (con i "bianchi" quali "alleati non belligeranti" di questi ultimi)? Al di là della presenza o meno di una "spina dorsale" è possibile riconoscere in coloro che sono soggetti allo Stato italiano elementi di comunanza che vadano oltre la lingua e l'obbligo di pagare le tasse allo stesso soggetto? La dicitura "nazionalità: italiana" sui documenti di riconoscimento rispecchia anche un reale sentimento di appartenenza? Sentimento nazionale o meridionale? Se l'Italia14 è indubbiamente "una" dal punto di vista linguistico, avendo di fatto adottato come 15 propria lingua - forse sarebbe più esatto definirla, dantescamente, grammatica - il volgare fiorentino, al contrario non è mai stata "una" dal punto di vista politico prima del 1860. In tempi antichi, l'unità dell'Impero dei Cesari esaltava la romanità, non l'italianità, e si estendeva ben oltre il confine delle Alpi e del Mediterraneo. Dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente è mancato un qualsiasi momento di totale coesione politica della Penisola e lo stesso impero napoleonico aveva di fatto diviso, anziché unito, lo Stivale, creando sì un Regno d'Italia, ma annettendo alla Francia gran parte delle regioni tirreniche e limitandolo (per usare le denominazioni moderne) alla Lombardia, al Veneto, all'Emilia-Romagna e alle Marche. Mai vi fu un Regno d'Italia geograficamente tanto limitato… È vero che fin dall'alto medioevo era esistita la denominazione Rex Italiae, utilizzata da Odoacre, quindi dai Goti, poi dai Longobardi e infine dai Franchi; da Carlo Magno in poi il titolo fu ereditato dall'Imperatore: l'ultimo a farsi incoronare "Re d'Italia" fu Carlo V nel 153016. Tuttavia in quel periodo nella penisola italiana non esistette mai una vera e propria compagine statale che sapesse imporre la sua autorità: il titolo di Re d'Italia, nonostante fosse fortemente agognato da vari soggetti in lotta tra loro, era infatti un titolo quasi esclusivamente formale, che non conferiva alcun reale potere. A confermare tale valore puramente formale del titolo di Re d'Italia, peraltro, basti pensare come esso convivesse con i titoli di Re dei Romani17 , Re di Napoli, Re di Sicilia… Se vogliamo trovare una unità politico-geografica nella frastagliata situazione italiana, e nonostante il suo maggior simbolo, la Corona Ferrea, sia conservato a Monza, dovremmo cercarla non al Nord - caratterizzato da vere e proprie Città-Stato (prima i Comuni, poi le Signorie) e da una lunga serie di Ducati (Milano, Mantova, Ferrara, Modena, Savoia), Marchesati (Saluzzo, Monferrato), Repubbliche (Genova, Venezia, Siena, Firenze) - bensì al Centro-Sud, che vedeva ben undici delle attuali venti regioni italiane divise in soli tre Stati: Stato Pontificio, Regno di Napoli e Regno di Sicilia (questi ultimi due poi si uniranno). In particolare l'Italia meridionale ha una lunga storia di unità politica che, se non si vuole far risalire alla conquista longobarda del 560 d.C. (incompleta - mancando alla Langobardia minor territori come quelli di Bari e di Napoli - e frastagliata - per via dei contrasti interni tra Duchi e Principi longobardi), si deve almeno datare al 1078, con la conquista normanna dell'ultima


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roccaforte longobarda e l'unificazione sotto il dominio di Roberto il Guiscardo dell'intero territorio meridionale (anche se il primo ad essere incoronato "Re di Sicilia, Puglia e Calabria" fu Ruggero II nel 1130 - mentre Roberto fu solo "Duca" di quegli stessi territori). Dai Normanni in poi, pur se sotto diverse dinastie (Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, 19 Asburgo spagnoli, Asburgo austriaci, Borbone), le Due Sicilie furono un'entità politica 20 caratterizzata da una sostanziale costante unificazione politica, peraltro con un maggiore controllo territoriale rispetto allo Stato Pontificio, caratterizzato da ampie autonomie di fatto, per via della distanza da Roma e dalla mancanza di un esercito come quello napoletano, capace di unire la necessaria potestas all'imprescindibile auctoritas21. Il resto d'Italia è stato sempre molto frammentato e di conseguenza privo di una coscienza unitaria. Così mentre al Sud, secolo dopo secolo, si è formata una coscienza identitaria, il Nord ha invece seguito la mentalità da "città-stato" che fin dall'epoca dei Comuni in poi la ha caratterizzata. Nessuno nega il grande sviluppo artistico e culturale che le città della Toscana hanno avuto durante il Medioevo: nonostante le lotte tra città e città, Firenze ha primeggiato dando al resto d'Italia, grazie alle sue "tre Corone" o "tre Fonti", un idioma divenuto in seguito comune. Dante, Petrarca e Boccaccio hanno un'origine fiorentina e l'uso della stessa lingua per i tre fondamentali (e fondativi) capolavori della letteratura italiana, Divina Commedia, Decameron e Canzoniere. Però Firenze non è solo la patria dell'italiano: è anche la città che forse meglio espresse il fiorire dell'arte e del pensiero umanistici e rinascimentali, cioè "moderni". Se fu una vera e propria capitale dell'arte peninsulare, "l'Atene italiana", però non sarebbe mai potuto esserla dal punto di vista politico: pensiamo a cosa accadde nel 1480, quando, al comando di una flotta turca, Achmed Pascià attaccò e conquistò Otranto, trucidando oltre ottocento abitanti - recentemente 22 canonizzati - che si erano rifiutati di apostatare abbracciando la fede di Maometto. La notizia della creazione di un avamposto islamico in terra di Puglia (peraltro in ottimo collegamento con l'Albania, caduta due anni prima sotto il giogo ottomano) sconvolse le popolazioni e le corti d'Italia, poiché era evidente il pericolo di un avanzamento dell'esercito ottomano anche lungo la 23 Penisola, mentre Rodi stava resistendo eroicamente all'assedio della flotta turca ; l'attività diplomatica del Papa (allora Sisto IV) fu allora frenetica, come testimoniato da Ludwig von 24 Pastor . Di natura completamente diversa fu invece l'atteggiamento di Lorenzo "il Magnifico" (14491492): "la conquista di Otranto suscitò nei confronti di Maometto la reale gratitudine di Lorenzo […]. Una medaglia celebrativa venne coniata in quei mesi e inviata ad Istanbul, con l'iscrizione 25 “Maumhet Asie ac Trapesuntii Magneque Gretie imperat[or]" . Viene un brivido a pensarci: evidentemente, per il Signore di Firenze, la conquista ottomana non era considerata un pericolo per l'Italia - concetto geopolitico che ignorava - bensì un rafforzamento della sua Firenze, mediante il provvidenziale indebolimento di due Principi che considerava, evidentemente, non possibili alleati contro un comune nemico, bensì avversari: il Papa e il Re di Napoli. Tra parentesi: il Lorenzo de' Medici dedicatario de Il Principe di Niccolò Machiavelli non è "il

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Magnifico", ma solo suo omonimo nipote, Duca di Urbino negli ultimi tre anni di vita (14921519). In caso contrario, avrebbe stupito che un osservatore acuto come il Segretario fiorentino dedicasse al compiaciuto ammiratore dell'invasore e massacratore musulmano il proprio trattato con il supposto compito di indurre qualche principe "italiano" all'unificazione della Penisola. Nell'Ottocento, contro la retorica unitaria di stampo mazziniano, cavourriano e garibaldino, si stagliano le parole scritte nel 1846 (quindi prima della temperie rivoluzionaria del Quarantotto) di un autore ben conosciuto per la sua polemica antiunitaria, Giacinto de' Sivo, la cui più celebre 26 opera è il pamphlet, edito nel 1861, I Napolitani al cospetto delle nazioni civili . Venticinque anni prima, in un romanzo dedicato alla battaglia di Benevento prima lo stesso autore scriveva a proposito di Manfredi di Svevia: Italiano d'ingegno e di natale, e supremamente degno di esserlo, fu gran cavaliero, possente capitano e buon re, e maggiore uomo che cavaliero capitano e re. Egli voleva la italica gente una e rispettata, e a farla si adoperava; e riusciva a bene, se le indisciplinate passioni de' tempi non avessero troppo incrudelito. Pertanto minacciato da' nemici, venduto da' collegati, abbandonato da' suoi baroni, con a fronte la oltramontana oste che senza ragione di guerra lo assaliva, ei vide vana l'opera della sua vita; non volle scampo, ché il poteva, e morir volle su la patria terra, e per la patria terra, rinnovando fatti di eroi in barbara ed ingrata età.27 Nessuna contraddizione: per de' Sivo il re Manfredi era Italiano in quanto Napolitano e la "patria terra" era quella del Regno di Napoli. Un altro elemento che dimostra quale differenza vi sia tra meridione e settentrione italiano è quello relativo al rapporto con la monarchia sabauda nel secondo dopoguerra. Pur non dovendosi dare spiegazioni semplici (o un'unica spiegazione) a problemi complessi, è possibile ipotizzare che anche la lunga abitudine ad essere sudditi di un regno (e per un certo periodo, quello ispanico, del più potente dei regni) abbia spinto la maggioranza della popolazione meridionale ad esprimersi in favore della monarchia al referendum del 2 giugno 1946. Invece il Nord, unificato solo dal 1860, si espresse in maggioranza (sia pure risicata - e senza contare la questione dei brogli) per la repubblica, con l'unica eccezione di Torino, città sabauda per eccellenza. Ma, nel dopoguerra, solo al Sud fu possibile vedere alcune grandi città (Napoli, Bari, Catania, vale a dire tre dei quattro principali centri dell'ex Regno delle Due Sicilie) essere rette da un sindaco espressione di un partito monarchico28. La quarta grande città meridionale, 29 Palermo, ebbe un sindaco del Fronte dell'Uomo Qualunque . Invece la stessa Torino - come tanti altri grandi centri del Nord - passò dalla maggioranza monarchica ad una maggioranza assoluta di sinistra (PCI e PSIUP) che durò fino al 1951 e portò alla conseguente elezione di tre sindaci di fila appartenenti al PCI (compreso quello eletto il 28 aprile 1945). È un ulteriore elemento che distingue Nord e Sud, assieme a quello - che dà da pensare - di una massiccia affermazione elettorale di partiti legati all'ideologia secessionista al settentrione (Liga Veneta, Lega Lombarda, Piemont Autonomista, Uniun Ligure, Lega Nord Emilia-Romagna,


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Alleanza Toscana, poi confluiti nella Lega Nord), mentre in Italia meridionale partiti e movimenti "identitari"30 non hanno mai avuto un riscontro elettorale. Simboli e bandiere: i tricolore e il tricolore Un altro dato di fatto, indice di una scarsa identità comunitaria, è che l'Italia non ha una bandiera "storica", né un simbolo comune (a parte l'aquila imperiale romana con il fascio littorio, compromessa però con il fascismo). Per bandiera storica intendiamo una bandiera (o un simbolo) condiviso che rappresenti l'idea d'italianità e che sia precedente al tricolore, nato in epoca napoleonica. Ciò accade anche nel mondo sportivo. Prendiamo ad esempio il rugby XV: gli Azzurri sono l'unica nazionale di un certo livello a non avere un emblema naturalistico. Se infatti guardiamo simboli e soprannomi delle principali squadre rugbistiche mondiali, notiamo che il Sudafrica è caratterizzata dallo springbok, una specie di gazzella; la Nuova Zelanda dal kiwi; l'Australia dal wallaby, un particolare piccolo canguro; l'Argentina dal puma; la Gran Bretagna dal leone (la compagine che riunisce i giocatori delle isole britanniche si chiama infatti British & Irish Lions). Vasto è anche l'assortimento floreale: l'Inghilterra ha per simbolo la rosa rossa; l'Irlanda il trifoglio e la Scozia il cardo. Il Galles, oltre al drago della propria bandiera storica, ha come emblema rugbistico le piume del Principe del Galles. Tornando sul continente, la Francia si distingue per il gallo (simbolo di combattività e fierezza del popolo francese, che deriva dai Galli o Celti) e la Spagna per il leone castigliano. L'Italia potrebbe essere rappresentata dall'aquila o dalla lupa, ma non è così. La Federazione Italiana Rugby preferisce autocitarsi avendo come emblema uno scudetto tricolore con la scritta FIR. Tutto qui. Un altro esempio, più aristocratico, ma altrettanto deprimente: le antiche otto "venerande lingue" dell'Ordine di Malta sono rappresentate da otto bandiere storiche. L'Alemagna dall'aquila bicipite; l'Inghilterra dal leone e dai gigli inquartati; le due lingue spagnole dai simboli storici di Castiglia (leone e castello inquartati) e di Aragona (pali rossi ed oro, catena d'oro di Navarra); le tre lingue francesi da tre gigli (Francia), dal delfino (Alvernia) e dalla Croce di Gerusalemme (Provenza). L'Italia - rectius, la lingua italiana: l'Italia non esiste! - è rappresentata da una bandiera nera con la scritta diagonale "ITALIA". Più squallido di così… Messe rigorosamente da parte croci, aquile e lupe, l'attuale bandiera italiana è costituita dal tricolore rosso-bianco-verde. Come tutti i tricolori, è di origine massonica e imita, con una leggera variazione cromatica, il tricolore "fonte", ossia il rosso-bianco-blu francese. Sull'origine del tricolore (francese ed italiano) e sul simbolismo cromatico scelto, si è detto molto. Libertà, Uguaglianza e Fraternità per quello d'Oltralpe, ipotesi ben più verosimile e comunemente accettata31 di quella che vorrebbe il bianco a rappresentare il colore della monarchia (visto che la si voleva abbattere a tutti i costi…), il rosso 32 e il blu a ricordare i colori di Parigi ; più cristianamente (ma solo in apparenza) per quella italica ci sarebbero Fede-rosso, Speranza-verde e Carità-bianco, seguendo una simbologia attestata 33 anche da Dante nel Purgatorio .

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Comunque, al di là della disquisizione simbologica, quello che è palese, rispetto alle bandiere storiche, è che il tricolore (francese, italiano, ungherese, irlandese, olandese, belga o messicano che sia) rappresenta un fondamentale passaggio da una simbologia concreta ed aristocratica, fatta di simboli araldici fortemente legati al territorio, ad una simbologia astratta ed egualitaria, di ispirazione massonica, fatta di meri colori. La volontà di sostituirsi prepotentemente ai simboli del passato è attestata anche da uno storico liberale, autore nel 1897 - centenario del tricolore italiano - di uno dei più seri studi in materia: “Ma se tale procedimento nello stabilirsi della bandiera nazionale fu possibile in Francia, dove l'affermazione del principio nazionale e la conquista dei diritti del cittadino avvenne mentre ancora le antiche forme di governo stavano in piedi, perché la Rivoluzione le minacciava, non le aveva distrutte; non fu egualmente possibile in Italia. Qui la Rivoluzione fu portata in Lombardia e nell'Emilia […] dalle armi conquistatrici di un esercito straniero; perciò per primo suo effetto ebbe - dove non ne fu di poco preceduta - la caduta delle forme di governo esistenti ed insieme con esse di tutti gli emblemi politici che le rappresentavano. Quando adunque il popolo lombardo ed emiliano volle o dovette ricostituirsi nei nuovi Stati democratici, di cui il Bonaparte favorì la formazione, non trovò più né le insegne, né i colori, né gli altri emblemi dell'antica signoria, ai quali, del resto, niuna ragione di affetto lo legava: altri colori insegne, che fosser sue, non conosceva, se non le municipali, le quali fuor delle mura cittadine non eran note ed erano ciascuna città aveva le sue proprie - troppo numerose: finì perciò con l'accettare per suoi colori quelli che portavano i suoi soldati. Così fra noi è la bandiera militare quella che prevale e che per opera del popolo, il quale l'accetta per sua, diventa bandiera dello Stato, poi della nazione; ma i primi passi furon lenti ed il popolo non s'indusse subito a vedere nei colori distintivi delle sue 34 milizie simboleggiato se stesso ed a portarli nelle sue coccarde”. Numerose, dicevamo, sono le interpretazioni proposte, anche in chiave alchemica35, dei tre colori. In realtà tutte appaiono abbastanza discutibili, concettuali e sembra palese che siano una sorta di spiegazione "a posteriori". Rimane il fatto che le tre bande o fasce colorate sostituiscono una serie di simboli araldici "storici": dall'arpa gaelica ai gigli borbonici, dai numerosi animali ai pressoché infiniti oggetti presenti nella tradizione iconografica. Nel solo caso italiano si tratta di lupe e lupi, aquile e grifoni, orsi e leoni, cavalli e cinghiali, tori e torri, stelle e gigli, biscioni, panoplie e via enumerando… oltre, naturalmente, alla Croce, probabilmente il primo simbolo da sradicare, anche nei casi in cui non si tratta della classica croce latina (che immediatamente riporta la mente al "disonor del Golgota"36), bensì di altre tipologie di croci (filettata, forcuta, gigliata, mulinata, ritrinciata, serpentina, patente, ancorata e via dicendo) che non fanno immediatamente - mediatamente sì, però - pensare alla Croce per eccellenza, quella in araldica detta appunto "di Calvario", cioè latina e posta su tre scalini o tre monti. Appare evidente in questa scelta estetica, ripeto, una volontà molto "moderna" di appiattimento, da cui trapela il desiderio di allontanare tutto ciò che è tradizionale e che crea una differenza, sostituendolo con elementi uniformi. Questo intendo sostenendo l'origine 37 massonica del tricolore: non un riferimento ai colori usati nei riti delle logge .


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Non è un caso che la più bella bandiera italiana sia quella della Marina militare, che riporta al centro uno scudo con i simboli delle quattro Repubbliche marinare medioevali: il leone di San Marco per Venezia e le tre diverse croci per Genova, Pisa ed Amalfi. Con l'utilizzo di un vessillo tricolore, il Risorgimento sceglie dunque di lasciare alle spalle la più che millenaria storia dei singoli Regni del territorio italiano per rappresentarli con qualcosa di nuovo, di inedito: è in fondo il progetto della rivoluzione, che desidera fare necessariamente piazza pulita di tutto ciò che lo precede, ponendosi non come una semplice evoluzione, ma come una netta frattura con il passato. Ed il simbolo per eccellenza di una nazione non può non essere interessato da questo fenomeno. Ricordiamo il caso di Enrico d'Artois, che nel 1871 non divenne Enrico V di Francia, ma rimase Conte di Chambord, perché rifiutò di accettare il tricolore come vessillo nazionale: scelta discutibile38, a posteriori, ma indubbiamente rivelatrice del grande valore dato ad un simbolo come quello della bandiera. L'inno di Mameli Un altro simbolo unitario per eccellenza, accanto alla bandiera, è l'inno nazionale. Orbene, tutti conoscono l'Inno di Mameli, il Canto degli Italiani. Ma chi conosce quali opere ha scritto Mameli oltre all'Inno che porta il suo nome? Chi saprebbe enumerare quali opere liriche si debbono alla penna di colui che compose il motivetto che lo accompagna? Due domande - se non si abbia a portata di mano la Treccani o uno strumento che permetta una veloce ricerca su internet - che sono di difficile soluzione. Anche perché non c'è una vera risposta: Goffredo Mameli (18271849) non scrisse praticamente nient'altro e Michele Novaro (questo il nome dell'autore della musica, nato a Genova nel 1818 ed ivi morto nel 1885) era un semplice direttore di banda. Di ciò cioè di non aver l'uno scritto e l'altro musicato alcunché a parte il Canto degli Italiani - visti i risultati dobbiamo essere infinitamente grati ad ambedue. Non dobbiamo essere grati, invece, a chi, in una terra di poeti e operisti, ha scelto questa canzonetta come inno nazionale, imponendolo in particolare al posto del precedentemente utilizzato Inno a Roma, su testo ispirato da Orazio e con musica di Giacomo Puccini. Altro che Mameli e Novaro! L'inno italiano poteva (anzi, sarebbe dovuto) essere scelto tra le musiche scritte da uno dei grandi compositori (nazionali o non), come avvenuto in altre terre. Solo per citare alcuni casi, la 39 40 41 Germania si era affidata ad Haydn , l'Austria a Mozart , l'Inghilterra ad Elgar , lo Stato del 42 43 44 Vaticano a Gounod , il Regno delle Due Sicilie prima a Paisiello e poi a Verdi . La scelta di Mameli/Novaro diventa ancor più incomprensibile e grave - come accennato - se comparata all'inno rifiutato, perché "compromesso" con il fascismo: l'Inno a Roma musicato da Giacomo Puccini nel 1919 su un testo del librettista romano Fausto Salvatori (1870-1929) ispirato al Carmen saeculare di Quinto Orazio Flacco, commissionato dal sindaco di Roma, Prospero Colonna (inizialmente sembra per essere affidato a Pietro Mascagni) e dedicato infine dal musicista lucchese "A Sua Altezza Reale la Principessa Jolanda di Savoia".

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Pur di screditare la bellissima composizione pucciniana è stata anche inventata una fola secondo la quale si sarebbe trattato di un'opera secondaria, anzi quasi involontaria, realizzata in fretta e furia per compiacere il regime fascista (nel 1919!) adattando la musica scritta in precedenza dal compositore toscano per l'Inno a Diana (1897). In realtà, basta ascoltare una sola volta quest'ultima composizione per rendersi conto di quanto essa sia distante dall'Inno a Roma, che risulta quindi essere un'opera perfettamente autonoma. Le discussioni che alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso verterono intorno alla possibilità di sostituire Fratelli d'Italia con un inno nazionale più bello dimostrano il fastidio con cui esso veniva percepito. Purtroppo la discussione non giunse a nulla di concreto: da un lato le melodie proposte non erano adatte ad un inno (soprattutto il secondo coro del Nabucco, Va pensiero meglio sarebbe stato puntare sulla Marcia trionfale del secondo atto dell'Aida…), dall'altro, in clima di sfascio unitario (erano gli anni dell'ascesa della Lega - che paradossalmente adottò Va pensiero come proprio inno, utilizzato pure per le adunate del Front National francese: ciò lo "bruciò" definitivamente), subentrò una volontà di rivalutazione di Fratelli d'Italia che portò tale melodia ad essere di fatto - anche se non ufficialmente45 - riconosciuta. Antiestetico, antiborbonico (o antiaustriaco), antifascista: il Canto degli Italiani riunisce la quintessenza della bruttezza e della retorica risorgimentale, patriottarda e partigiana (nel senso di bande di partigiani antifascisti, che non a caso individuarono nell'effigie e nel nome di Garibaldi il loro principale simbolo). Degno inno per una nazione allo sfascio o "in coma", per usare la brillante 46 definizione di Piero Buscaroli (1930-2016). L'Italia: un'espressione puramente geografica La mancanza di una bandiera storica (e di un inno decente) non deve però stupire, se consideriamo l'Italia non come una unità politica che per qualche ragione è stata momentaneamente separata, bensì, più logicamente, come una "espressione geografica", secondo la nota definizione di Clément Wenceslas Lothaire Principe di Metternich-Winneburg (1773-1859). Il Cancelliere asburgico scrisse il celebre aforisma in francese ("une expression géographique seulement") il 2 agosto 1847, in una nota inviata al conte Moritz Dietrichstein-Proskau-Leslie (1775-1854), ambasciatore a Londra. La frase estrapolata dal contesto, venne abilmente sfruttata dal quotidiano Il Nazionale di Napoli, diretto da Silvio Spaventa (1822-1893), quasi un anno dopo esser stata vergata, durante i moti del 1848, ben guardandosi dal dire che lo statista austriaco aveva definito "espressione geografica" anche la Germania, evidentemente senza alcuna acrimonia, né alcun disprezzo. “”A più riprese in quel marzo 1848 e in prima pagina, infatti, il giornale scagliò i suoi editoriali contro la "tenebrosa diplomazia" austriaca, colpevole di umiliare "24 milioni d'intelligenti e forti" italiani che invece l'unità della patria "l'avvertono, la ri-conoscono, se n'esaltano": ""L'Italia non è 47 che un'espressione geografica", scriveva il Principe di Metternich...". Il dispaccio originale era - ovviamente, visti mittente e destinatari (Lord Palmerston, Segretario


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agli Affari Esteri, e la regina Vittoria) - molto complesso ed esaminava la situazione italiana, ritenendo una forzatura la pretesa unitaria e sottolineando come il pericolo non fosse tanto l'unità, quanto la repubblica, poiché - appunto - non esisteva alcun Re che avrebbe potuto cingere una corona per l'intera penisola. “Ciò a cui mirano le sette, si è la fusione di questi Stati in un solo corpo politico, o per lo meno in una confederazione di Stati posta sotto la condotta d'un supremo potere centrale. La monarchia italiana non entra ne' loro piani; astrazion fatta dalle utopie d'un avanzato radicalismo che le anima, una ragione pratica deve stornarli dall'idea d'un'Italia monarchica; il re possibile per questa monarchia non esiste né al di qua, né al di là delle Alpi. Gli è verso la creazione d'una repubblica verosimilmente federativa, a guisa di quella dell'America del Nord, che tendono i loro 48 sforzi”. Spaventa, uomo di cultura ma anche di propaganda, peraltro - nomen omen - inflessibile nel vendicarsi su veri e supposti persecutori, quando divenne dal novembre 1860 al luglio 1861 ministro di Polizia nel governo luogotenenziale del famigerato Luigi Carlo Farini (quello che 49 sempre a proposito del "comune sentire" - definiva Affrica l'Italia meridionale e che finì i propri 50 giorni in manicomio ), seppe manipolare quella frase utilizzandola allo scopo di scatenare contro Metternich e contro l'Impero austriaco l'astio degli Italiani. “La manipolazione operata sulla frase del Metternich appare esempio autorevole di come una realtà si possa trasfigurare nella rappresentazione che se ne invoca, perseguendo un nobile intento; in definitiva, la mobilitazione patriottica richiedeva l'immagine negativa dell'avversario e del nemico, ed a questo fine si è mutato il senso di una frase che era destinata dal Cancelliere austriaco a visualizzare in termini sintetici e simbolici una realtà politica, peraltro allora obiettivamente incontrovertibile nell'ambito di istruzioni riservate, volte ad avviare un'azione diplomatica”.51 Tornando a centosettant'anni di distanza su quelle parole e valutandole con la dovuta serenità, non si può che dare ragione a Metternich: allora egli non poteva prevedere l'imprevedibile, cioè il tradimento di un Savoia nei confronti del cugino Borbone, ma aveva immaginato che, in mancanza di un comune passato e di un comune sentimento unitario, la forma repubblicana si sarebbe prima o poi realizzata. Quando i Savoia, dopo il disastro nel secondo conflitto bellico mondiale, non ebbero la capacità o la volontà di usare (o, semplicemente, la loro mera 52 disponibilità) i vari "battaglioni" dispiegati all'indomani della conquista militare del 1860-1861, non poterono imporre la loro presenza alle popolazioni italiane. Napoli e i Borbone Se diverse furono le dinastie che regnarono su Napoli in otto secoli di Regno unitario e differenti sono i giudizi dati dalla storiografia su di esse, non c'è dubbio che quella più amata, a livello popolare, quella in cui c'è maggiore identificazione, è quella borbonica. Se alcuni studiosi propendono per esaltare il periodo aragonese, ripetendo il nostalgico distico di Velardiniello (sec. XVI): "Saie quanno fuste, Napole, corona? | Quanno regnava Casa

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d'Aragona" ; se altri - tra cui il sottoscritto - seguendo il monumentale saggio di Francisco Elías 54 de Tejada, Napoli spagnola , preferiscono invece il periodo cosiddetto vicereale (ma si dovrebbe dire ispanico e forse si potrebbe dire imperiale), considerando che essere la seconda città del vastissimo Regno "su cui non tramontava mai il sole" fosse ben più importante di essere la prima città di un piccolo regno "difeso per tre quarti dall'acqua salata e al nord dall'acqua santa"55; tutti comunque, compresi filoaragonesi e filoispanici (o filoimperiali), ammettono che mai, come con la dinastia borbonica, ci fu un rapporto di sintonia tra Corona e sudditi. Ciò è dovuto a vari elementi. Innanzitutto la presenza fisica della famiglia reale sul territorio: i Re cattolicissimi, con l'unica eccezione di Carlo IV (di Napoli, meglio noto come I di Spagna ed ancor più come V Imperatore del Sacro Romano Impero), non riuscirono a visitare il Regno napoletano56. Un altro elemento è dato dalla religiosità: vedere fisicamente il proprio Re alle numerose cerimonie religiose che scandivano la vita napoletana (dalla Madonna dell'Arco alla quella del Carmine, dallo scioglimento del sangue di San Gennaro al pellegrinaggio a Montevergine) è altra cosa che supporre la sua devozione figurandoselo in preghiera nel lontano Escorial. Attenzione: bisogna a questo punto rigettare la retorica democratica del "Re amato perché è come uno di noi". Il popolo non ama il Re perché è come uno di noi: lo rispetta e lo considera in primo luogo come Re, anche se apprezza che utilizzi la stessa lingua e che preghi gli stessi santi. È Ferdinando Russo a sintetizzarlo mirabilmente nel poemetto 'O luciano d''o Rre (1910), in cui un popolano di Santa Lucia ricorda il "Re Bomba": "Ferdinando Sicondo. E che ne sanno?! | Coppola 'nterra!" e poco più sotto, dopo aver pur sottolineato che "'O Rre me canusceva e me sapeva!" ("mi riconosceva e si ricordava di me"), di nuovo si prostra al solo ricordo: "còppola e denocchie!" cioè "giù il cappello e in ginocchio dinanzi al solo nome del Re!"57. Non un "Re lazzarone", come la propaganda ha velenosamente dipinto soprattutto Ferdinando IV, bensì un Re amato e rispettato in quanto, ripeto, sovrano. Il popolo, del resto, non ama che "uno di loro" divenga re: lo si è visto quando ha fatto a pezzi Masaniello, idolatrato come capopopolo, ma disprezzato quando volle mettersi sullo stesso piano dei nobili e del viceré. C'è voluta la democrazia perché il barbaro concetto del "vogliamo essere governati da uno come noi" o da "uno di noi" portasse al Parlamento la peggiore accozzaglia di rappresentanti della nazione mai vista, incapaci appunto in quanto "gente come noi". Un popolo sano vuole essere governato da "gente migliore di noi"! Tornando alla dinastia dei Borbone-Due Sicilie, il suo fulgore è offuscato da due pregiudizi: il primo, di origine giacobino-liberale, sostiene che "a un grande Carlo sono succeduti due pessimi Ferdinando"; l'altro, di matrice tradizionalista, afferma che "a due grandi Ferdinando sono successi due mediocri Francesco". Ambedue i pregiudizi sono, a mio avviso, errati. Il primo nasce, come detto, in ambiente giacobino e liberale: Carlo di Borbone (che sarebbe dovuto essere VII di Napoli, ma che non volle usare mai tale numerale ed è universalmente noto come Carlo III di Spagna) viene contrapposto come sovrano illuminato ai "reazionari" che lo seguirono, rei di essersi opposti alle rivoluzioni (anzi alla Rivoluzione, nelle sue metamorfosi


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particolari del 1799 e dintorni, 1820, 1848). L'esaltazione di Carlo è quindi strumentale alla denigrazione dei suoi successori, quasi volendo estrapolarlo dal resto della Dinastia. Più grave è il secondo pregiudizio, quello che contrappone i due Ferdinando ai loro figli, poiché proviene da ambienti spiritualmente ed ideologicamente vicini alla casa regnante. Ma è ingiusto (e forse anche scorretto) paragonare sfavorevolmente i cinque anni e poco più di Francesco I (4 gennaio 1825 - 8 novembre 1830) ai quasi sessantasei anni (1759-1825) del padre, il cui regno è uno dei più lunghi della storia. Parimenti, i quasi trent'anni di Ferdinando II non possono essere paragonati ai soli venti mesi di Francesco, di cui ben tre passati a Gaeta, resistendo all'assedio dell'infido cugino piemontese. Un interessante aiuto in tal senso ci viene da una recente pubblicazione58, che ripropone uno scritto politico dell'ultimo Re di Napoli, redatto mentre era riparato a Parigi a commento dell'opuscolo dell'ufficiale traditore Luigi Mezzacapo59 intitolato Armi e politica60 . Il breve testo 61 del generale ed ex ministro, di 46 pagine, era stato stroncato dalla "Civiltà cattolica" : “Tutta la sostanza di questo capolavoro di scienza politico-militare si riduce a dire: - Non abbiamo un esercito, non abbiamo uffiziali, non abbiamo armi, non abbiamo fortificazioni. Per far tutto, bisognan denari e denari: i denari ci sono e se non ci sono, s'hanno da poter mettere insieme. Accrescete di parecchi milioni il bilancio; date un bel mezzo miliardo ad un ministro della guerra (che si sottintende potere benissimo essere il Mezzacapo stesso) con potestà dittatoriale di spenderlo in tre anni e meno; e vedrete l'Italia ridivenuta, non già forte, ma sufficientemente al caso di farsi far di cappello da tutti gli Stati”.62 L'autorevole quindicinale aveva incentrato la sua critica soprattutto su questioni economiche e tributarie, sostenendo - peraltro più che giustamente - che "or tutto questo ha l'unico scopo ricordato, di indurre il Governo a spremere le ultime gocce di sangue ai poveri Italiani, o sospingerli alla miseria estrema, per ottenere il frutto infallibile che l'Italia resti debole come prima e, per soprammercato, più indigente di prima"63. Ed ironizzava sui suggerimenti dell'ex ministro: “Giacché a tutti è lecito dar consigli, uno assai bello si potrebbe proporlo al Mezzacapo. Egli leva a cielo lo spirito di sacrifizio degl'italiani per la patria: e bene sta. Essi ne han fatti tanti per forza, che di più non potrebbero. Ogni anno quasi centomila Italiani sacrificano persino la patria stessa, fuggendo dal suo suolo, per cercare in lontani lidi un pane che li sfami. Ma perché non principierebbe egli, il signor generale, a precedere tutti con un glorioso sacrifizio, al quale dovrebbe invitare tutti coloro che la sentono con lui, in questa materia di spendere e spandere in armi e in fortezze? Cominci un po' egli col rinunziare, in pro dell'esercito, alla metà dei lauti stipendii e delle propine non magre che gode per diversi titoli, e dica a tutti: - Vedete quel che fo? Imitatemi. Co' miei sacrifizii, sull'ara della patria, offro di che acquistare cinquanta o cento fucili: Animo, chi ha cuore mi segua! Questo sembra a noi un modo il più nobile ed efficace di muovere gli altri ai sacri firn: più nobile ed efficace che non è quello di opuscoli, i quali si restringono a dire al Governo: - Olà, scatenate uno sciame di esattori e di birri, e svaligiate le case e asciugate le borse dei cittadini, affinché noi

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possiamo bandire alto all'Europa, che abbiamo un milione di fucili, molte piazze forti e cannoni da oltre mezzo milione di costo l'uno. A fare queste prodezze tutti son buoni; né si richiede il nome 64 e l'autorità d'un generale ex-ministro: basta la penna di un articolista da due centesimi la riga”. "Altri - continuava il recensore - sono i bisogni di questo povero Regno, prima caduto in 65 66 decrepitezza, che fiorisse in gioventù" . E, citando "l'ufficiosissimo" Il Diritto del 22 giugno 1881, concludeva: "Se, per esempio, seguita a dire il Diritto, noi sapessimo ricondurre alla sua regolarità la funzione parlamentare, in guisa da aver Ministeri autorevoli e duraturi, ciò varrebbe cento volte meglio che avere cento mila soldati di più e dieci navi corazzate o fortezze. Imperocché si può aver stima di chi è bene armato, ma questa stima non compensa la disistima che si ha di chi non sa ben governarsi. E qual potente Stato in Europa potrà contare sull'Italia e averla in seria considerazione, fino a che il nostro interno organismo politico sarà incerto, eteroclito, anormale, 67 come è, per la condizione dei nostri partiti, da parecchi anni a questa parte?" Francesco II non si occupa di questioni meramente tecniche, né di tipo economico (le imposte) né di tipo politico (la ridicola debolezza dei vari gabinetti ministeriali liberali), bensì trasferisce il discorso su un piano altamente politologico: “Non si creda che con queste poche parole dettate così, per semplice distrazione, intenda confutare l'opuscolo Armi e politica, anzi, divido perfettamente le idee edotte dall'autore. Esse sono di una terribile verità, di una esattezza matematica e poggiate ancora sopra positivi argomenti”.68 Dopo aver criticato la "corsa agli armamenti" - "Oggi vince chi ha più cannoni da porre in batteria, chi ha più uomini da mandare al macello"69, tanto che l'intera Europa continua a rimanere ancora in un costante stato di crisi e di tensione internazionale - il Re si sposta su un piano "sociale", dimostrandosi di vedute estremamente ampie e paragonando il decadente mondo antico all'altrettanto decadente mondo contemporaneo. “Da che esiste il mondo furono sempre satrapi e soggetti; signori e servi; padroni e schiavi. […] Un distacco, dunque, fu sempre tra un limitato numero di uomini immensamente ricchi, perché assorbivano tutte le sostanze e le masse delle plebi che morivano d'inedia e di fatiga. Non vi sembra questo il quadro che rappresenta la moderna società? Allora i ricchi si chiamavano Baroni: oggi si chiamano Lord, Pari, Senatori, Ministri, Deputati, Speculatori, Associazioni monopolistiche, imprenditori, banche, usura, eccetera. Si può chiamare Nazione ricca quella in cui un decimo della popolazione ne assorbe tutte le ricchezze e i nove decimi stentano la vita a 70 muoiono di fame?” Dopo varie considerazioni sull'attuale politica e sulla degenerazione dei costumi negli Stati Uniti d'America, Inghilterra, Francia ed Italia, giunge al tema del patriottismo: “S'invoca il patriottismo degli Italiani; ma questo patriottismo bisogna saperlo ispirare alle masse perché in esso si racchiude la forza; non infonderlo con melense parole o con pompose declamazioni, ma con sollevare l'uomo alla dignità del suo essere e con agevolargli la vita. Allora 71 le popolazioni sentiranno l'amor patrio”.


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Evidentemente, il nuovo Stato italiano non è stato capace di ispirare un vero patriottismo, ma ha (inutilmente) cercato di imporlo con la forza: “Sotto la pressione del terrore non può attecchire lo spirito patrio. Ogni tratto del nostro suolo è cruento ancora di sangue cit-tadino e sempre fratricida, ma per infami fucilazioni sancite da leggi eccezionali; credete voi che i figli di quelle vittime, ancora in gramaglia, possano sentire l'amor patrio nel senso della unità italiana?”72 Francesco II evidenzia la forzatura che ha voluto cancellare con una campagna militare una millenaria tradizione ed ha fondato l'unità italiana sulla ragione delle armi, anziché farla sorgere dal suo naturale collante, la religione, che è stata invece avversata: “Ogni città d'Italia ha le sue tradizioni, i suoi costumi, le sue glorie, i suoi pregiudizi, la sua lingua, ancora cause tutte di quelle perenni gare fratricide che han sempre insanguinato il suo suolo. Gl'Italiani parteggiando o per uno per un altro straniero si son sempre lacerati fra loro. Essi possono ben assimilarsi a un branco di vipere […]. Che cosa ha fatto il Governo italiano per acclimatare questi elementi eterogenei? Che cosa ha fatto per affezionarsi queste popolazioni? Nulla, anzi ha lavorato e lavora per frangere la sola unità che vi rimaneva, quella unità che l'à redenta dalla vera schiavitù: unità religiosa, l'unità di Fede che col sangue di milioni di martiri gli 73 aprì la via della vera civiltà”. E termina il proprio scritto, anticipando di un ventennio le conclusioni di Max Weber (18641920), il cui fondamentale saggio L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, che rovescia le posizione marxiane, è del 1904-1905: “La religione è elemento di ordine e di forza; senza religione non v'ha progresso civile. I più vasti Imperi caddero allorché persero ogni credenza! L'Impero dei sensi sopravvenne e la mollezza e la depravazione si diffusero. Corrompete i costumi e imperate fu la filosofia di quei tempi. Corrompete i costumi e imperate, pare fosse la filosofia del nostro progresso: le conseguenze 74 potrebbero essere le stesse”. Parole decisamente profetiche mentre, a un secolo e mezzo dalla caduta del Regno delle Due Sicilie, l'Italia e l'Europa affondano nel marciume della corruzione, prima morale che economica e che confermano l'adesione pubblica di Francesco II alla fede cattolica, La lettura del breve saggio del Sovrano in esilio restituisce pienamente sia la profonda fede personale del Re che - soprattutto - la sua coerente concezione cattolica della politica. Alcune figure di monarchi, come appunto Francesco II (assieme a Francesco V d'Este, ad Enrico V di Francia, a Carlo d'Austria) incarnano "una concezione della politica antitetica a quella corrente. Per questi sovrani cattolici la politica non poteva prescindere da un sentimento che racchiude una visione del mondo: il senso dell'onore, che ha il suo punto di riferimento in Dio e a cui tutto si 75 subordina" . Una visione della politica, dunque, in totale contrapposizione con quella, di stampo umanistico e di utilitarismo machiavellico che, al contrario, permeava la mentalità del Piemonte di Cavour. C'è solo da lamentare il fatto che queste idee siano state espresse da Francesco di Borbone quale Re in esilio e non in quanto monarca assiso sul proprio legittimo trono.

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Conclusione La conformazione geografica della penisola italiana, circondata per tre lati dall'acqua salata e coronata sul quarto lato dalle Alpi, doveva facilmente, nel corso dei secoli, portare almeno a una unificazione linguistica. Ciò è in parte avvenuto, poiché, "dall'Alpi al stretto siculo, da Noto a Gorgonzola"76 tutti ben prima del 1860 hanno riconosciuto l'italiano come lingua comune - o meglio come grammatica, per usare il termine dantesco -, anche se non sempre lo parlavano. La medesima conformazione geografica ha spinto alla sostanziale unitarietà di razza e la cultura si è formata seguendo (purtroppo solo fino all'Umanesimo) i canoni dettati dalla scolastica medioevale in un alveo creato dalla religione cattolica. Ecco perché, ancora nel XVI secolo, si poteva parlare se non di unità "d'arme", sicuramente di unità "di lingua e d'altare", nonché "di sangue" - dando a questo termine un più che logico significato razziale - mentre le "memorie" erano scarse e il "cor" lasciava alquanto a desiderare, come dimostrato da Lorenzo "il Magnifico". Conosciutisi nel 1860 e negli anni successivi guardandosi attraverso il mirino di un fucile, gli Italiani seppero sentirsi davvero uniti non certo grazie ai feroci governi liberali della Destra e 77 Sinistra storiche, nemmeno grazie all'inutile massacro della Grande Guerra , ma piuttosto durante il Ventennio78. È stato naturale che, alla caduta di un collante di eccezione come quello 79 del Fascismo, il sentimento comunitario non potesse che venire meno . Ai nostri giorni i flussi migratori inquinano il "sangue" (ed il terzomondismo, unito alla sudditanza culturale europea, mina di conseguenza le "memorie"), "l'arme" continua ad essere carente e "l'altare" lascia spazio alla tavola eucaristica protestante (grazie al Novus Ordo) mentre la Chiesa stessa retrocede rispetto alle sinagoghe, ai templi buddisti e, ultimamente, alle moschee (grazie allo "spirito del Concilio") oltre che, naturalmente, all'ateismo ed alla sua attuale metamorfosi: la dittatura del relativismo nelle sue molteplici espressioni. Svuotata dei comuni elementi fondativi materiali e soprattutto spirituali, l'Europa crolla, dimostrandosi di essere tutt'altro che la "fortezza" vagheggiata fino a pochi decenni fa e l'Italia si sfascia, dimostrando che, in fondo, non è mai esistita, politicamente parlando. A parte un ventennio che si preferisce cancellare e definire sprezzantemente "una parentesi", intesa come "malattia morale dell'Italia", tra lo stato monarchico liberale e lo stato repubblicano democratico, intesi come uno Stato successore dell'altro. Certo: ma ribaltando il concetto crociano si può, anzi, si dovrebbe, considerare il fascismo come una parentesi - rectius, una 80 cesura - nel processo degenerativo che dal 1860 giunge ai nostri giorni. Gianandrea de Antonellis


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NOTE: 1. Così Fare gli italiani. Scuola e cultura nell'Italia contemporanea, a cura di Simonetta Soldani e Gabriele Turi vol. I. La nascita dello Stato nazionale, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 17, che ritiene apocrifa la frase attribuita a Massimo d'Azeglio, perché sarebbe in realtà stata pronunziata da Ferdinando Martini nel 1896. Sul versante opposto, CLAUDIO GIGANTE, “Fatta l'Italia, facciamo gli Italiani”. Appunti su una massima da restituire a d'Azeglio, in «Incontri. Rivista europea di studi italiani», XXVI (2011), n. 2, sostiene che, anche se la frase non è presente nel manoscritto originale, ma sono nella edizione postuma del 1866 de I miei ricordi, il concetto è comunque presente negli scritti di Massimo d'Azeglio. 2. La strofa fa parte dell'inno goliardico Il commiato (1909), con musica di Giuseppe Blanc su testo di Nino Oxilia, divenuto nel 1925 inno trionfale del partito fascista, con il titolo Giovinezza, su testo scritto da Salvator Gotta. 3. L'esaltazione nazionalistica fu dovuta alla (relativamente facile) vittoria contro le truppe del Negus: gli Italiani non sono un popolo aduso a vittorie sofferte, come dimostra il crollo del consenso verso il regime fascista soltanto pochi mesi dopo l'ingresso nel secondo conflitto mondiale. Usa unirsi solo nei momenti favorevoli, l'Italia avrebbe registrato un altro effimero “rigurgito” di entusiasmo nazionalista non quando bombardata da Gheddafi (1986), bensì quattro anni prima, nel luglio 1982, grazie alla vittoria calcistica al “Mundial” spagnolo. 4. «Questo è il secolo del Fascismo: ce n'è per voi e per quelli che verranno» era presuntuosamente scritto sullo scalone della nuova monumentale sede del Popolo d'Italia, oggi Palazzo dell'Informazione. 5. Ma non mancavano le divisioni etniche (almeno in parte): basti pensare a come vennero indecentemente accolti i profughi che fuggivano dai territori caduti in mano della Jugoslavia, perché con la loro stessa presenza smentivano la realtà del “paradiso” comunista. «I 300.000 profughi italiani fuggiti dall'Istria e dalla Dalmazia per non finire nelle foibe furono distribuiti su tutto il territorio nazionale, dove non sempre furono bene accolti. In Emilia, ad esempio, al passaggio dei treni carichi di profughi i ferrovieri comunisti chiusero le fontanelle delle stazioni per impedire loro di dissetarsi. A Bologna la Pontificia Opera di Assistenza aveva predisposto un pasto caldo per i profughi destinati alla Liguria, ma non riuscì a distribuirlo, perché il sindacato comunista dei ferrovieri minacciò dagli altoparlanti che se i profughi avessero consumato il pasto uno sciopero generale avrebbe paralizzato la stazione, e il treno fu costretto a passare senza fermarsi. Ad Ancona il 16 febbraio 1947 il piroscafo “Toscana”, che approdava da Pola carico di famiglie italiane, fu accolto sul molo da una selva di bandiere rosse, fischi, insulti e gestacci col pugno chiuso». GIOVANNI MARIZZA, Foibe, stragi, esodo: quale ruolo ebbero i comunisti nostrani? in L'Occidentale, 10 febbraio 2009. Dal canto suo, L'Unità del 30 novembre 1946 coerentemente scriveva: «Ancora si parla di “profughi”: altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall'alito di libertà che precedeva o coincideva con l'avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi» (cit. da GIUSEPPE DE LORENZO, “Tornate a casa vostra”. Quando la sinistra sputava sui profughi istriani, in Il Giornale, 10.09.2015). Per fare un esempio legato alla cultura popolare, si pensi al senso di fastidio che trapela nella coabitazione tra la famiglia di sfollati di Peppino Armentano (interpretato da Peppino De Filippo) e quella di profughi istriani, mostrati quasi come stranieri invasori, nel film Arrangiatevi! di Mauro Bolognini (1959) con Totò. 6. Cfr. ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, La morte della patria. La crisi dell'idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Laterza, Bari 2003 (e.p. 1996). 7. Ricordo una trasmissione radiofonica sulle frequenze della milanese “Radio University”, emittente legata al Movimento Sociale Italiano, in cui il conduttore, che se non erro era Marco Valle, allora segretario del Fronte della Gioventù di Milano, contrapponeva «la morte di Hitler, avvenuta in un clima da Götterdämmerung, da Crepuscolo degli dei, alla pedestre (sic!) morte di Mussolini, appeso a testa in giù in piazzale Loreto». 8. Con la parentesi del socialista – ma anticomunista – Bettino Craxi, non a caso apprezzato anche a destra per il suo decisionismo. 9. E altrettanto non a caso la locuzione Italiano medio è diventata il titolo di un graffiante film di costume diretto nel 2015 da Maccio Capatonda, la cui tesi è che l'Italiano medio, perfettamente integrato, vincente e a posto con se stesso, sia quello il cui cervello funziona al 10% delle potenzialità di un cervello normale. 10. Esemplare, da questo punto di vista, il film Mediterraneo (1991) di Gabriele Salvatores, non a caso insignito del premio Oscar per il miglior film straniero. Ma anche un film come Tutti a casa di Luigi Comencini (1960), considerato dalla critica tra le migliori opere del regista e «in senso assoluto uno dei più importanti film italiani del dopoguerra» (CLAUDIO G. FAVA, Alberto Sordi, Gremese, Roma 2003, p. 25) è altamente rappresentativo della mentalità gretta ed ignava del soldato (e del borghese) italiano medio. 11. Cfr. anche: GABRIELE FERGOLA, Italia invertebrata, Controcorrente, Napoli 1998. 12. Ogni riferimento a tale Carlo Giuliani (1978-2001) non è casuale ed è fortemente voluto.

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13. Cioè legati ad una visione imperiale dell'Europa (si pensi al gruppo “Europa Civiltà”, che anche nel nome incarnava tale aspirazione, condivisa anche da altre formazioni, come Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo) che spesso confondeva e fondeva il Sacro Romano Impero con il Terzo Impero (cioè il Terzo Reich), nella storicamente inaccettabile pretesa di una diretta traslatio imperii che facesse iniziare il sogno imperiale a S. Pietro a Roma il S. Natale dell'anno 800 con l'incoronazione di Carlo Magno e lo facesse concludere nel bunker di Berlino il 30 aprile 1945. 14. «Il nome latino deriva dall'osco viteliu, attraverso una forma grecizzata, e gli antichi ne dettero varie spiegazioni etimologiche. Si considerò derivato da un principe enotrio Italo oppure da vitulus; Festo dice infatti: Italia dicta quod magnos italos, hoc est boves habeat; vituli enim ab Italis itali sunt dicti. Secondo alcuni studiosi moderni Italia sarebbe la terra degli Itali, cioè del popolo che aveva come totem il vitello. Il nome nel IV sec. a. C. era dato alla regione compresa tra lo stretto di Messina, il fiume Lao e l'agro di Metaponto; si espande nel III sec. a. C. alla Campania, e poi, nella conquista romana della penisola e con la sua unità amministrativa e politica, il nome viene a designare tutto il territorio a S dell'Arno e dell'Esino fino allo stretto di Messina. Dopo la battaglia di Filippi Ottaviano sopprime l'organizzazione provinciale della Gallia Cisalpina, incorporando questo territorio nell'Italia e spostando così i confini fino alle Alpi. Nel 42 a. C. si ha la sanzione ufficiale del nome». BALDASSARE CONTICELLO, Enciclopedia dell'Arte Antica, Istituto Treccani, Roma 1961, voce Italia. La variante italiota era in origine la denominazione in uso tra i Greci, a partire dal V sec. a. C., per designare i coloni greci trapiantatisi nelle colonie dell'Italia meridionale (cioè la Magna Grecia, esclusa la Sicilia, i cui coloni erano detti Sicilioti). Con l'avvento della dominazione romana, gli italioti erano distinti dai popoli italici autoctoni. Oggi è usata in ambito scientifico o come termine dispregiativo. Il termine italico, forse più corretto, fa invece riferimento al territorio ed agli abitanti dell'Italia antica; nel significato più rigoroso e ristretto, l'espressione designa l'insieme dei popoli indoeuropei che parlava lingue osco-umbre ed era stanziato lungo la dorsale appenninica, dall'Umbria alla Calabria. 15. Dante, nel De vulgari eloquentia, definisce “volgare” la lingua che il bambino impara dalla nutrice, contrapponendola alla grammatica (termine con cui indica il latino), intesa come lingua immutabile e ritenuta un prodotto artificiale delle élites: «È anche possibile definire più brevemente e affermare che la lingua volgare è quella che, senza bisogno di alcuna regola, si apprende imitando la nutrice. Abbiamo poi anche, oltre a questa, una seconda lingua che fu chiamata dai Romani gramatica. Questa seconda lingua è posseduta anche dai Greci e da altri popoli, ma non da tutti. Poche sono d'altronde le persone che giungono alla padronanza di essa, perché non si apprendono le sue regole e non ci si istruisce in essa se non col tempo e con l'assiduità dello studio» (DANTE ALIGHIERI, De vulgari eloquentia, I, 2-3, traduzione di Sergio Cecchin, in Opere minori di Dante Alighieri, vol. II, UTET, Torino 1986). L'italiano è stato, praticamente fino all'avvento della televisione, sostanzialmente una lingua scritta e immutabile: Dante, parlando di «lingua imparata dalla nutrice» si riferiva al vernacolo fiorentino – o romano, bolognese, napoletano… – mentre l'italiano era una lingua che si studiava a scuola e si parlava, generalmente, al di fuori della famiglia. In conseguenza di questo suo uso “colto”, «una delle caratteristiche considerate specifiche della lingua italiana, nel confronto con le altre grandi lingue di cultura, è la sua stabilità, cioè il fatto di essere poco mutata nel corso del tempo». PAOLO D'ACHILLE, Breve grammatica storica dell'italiano, Carocci, Roma 2008, p. 27. A conferma di ciò, ecco cosa scrive Pietro Verri (1728-1797) a suo fratello Alessandro a proposito della figlioletta Teresa (nata nel 1777): «Ella con me correntemente parla il francese, né mai altra lingua. Colla sua tedesca [la governante] parla il tedesco e cogli altri parla il milanese» (cit. in SILVIA MORGANA, Breve storia della lingua italiana, Carocci, Roma 2009, p. 74). Evidentemente, parlava italiano con nessuno; ma di certo lo conosceva e lo sapeva scrivere. La stessa MORGANA, poche righe più sotto, afferma: «il francese riveste, a differenza dell'italiano, anzitutto il ruolo di lingua viva, dell'oralità e della conversazione, di “linguaggio” – secondo la terminologia di Goldoni – come il dialetto» (ibid.). 16. Cfr. LUDOVICO ANTONIO MURATORI, Annali d'Italia. Tavole cronologiche, Roma 1788, p. 78. 17. Dal 1273 (Rodolfo I) al 1493 (Massimiliano I); cfr. LUDOVICO ANTONIO MURATORI, op. cit., p. 76. 18. Benevento, caduta dopo Bari (1071) e Salerno (1077). 19. Il termine “Due Sicilie” non nasce con il congresso di Vienna, ma ha un antecedente della locuzione “Regnum Siciliae citra, et ultra Pharum”, usata già nel 1265 per distinguere la parte continentale da quella insulare del Regno. In quell'anno, con la bolla pontificia con la quale Clemente IV concesse l'investitura a Carlo d'Angiò «pro Regno Siciliae, ac Tota Terra, quae est citra Pharum, usque ad confiniam Terrarum, excepta Civitate Beneventana cum toto territorio, et omnibus districtibus, et pertinentiis». Cfr. PIETRO GIANNONE, Istoria civile del Regno di Napoli (e. p. 1723), vol. I, Milano, 1833, p. 574. Più sotto Giannone commenta: «E questa è la prima scrittura nella quale questi due Regni vengon per la prima volta chiamati di Sicilia citra et ultra pharum, leggendosi quivi: Clemens IV infeudavit Regnum Siciliae citra, et ultra Pharum. E da qui in progresso di tempo ebbe origine l'altro moderno titolo: Rex utriusque Siciliae» (ibid.), che tuttavia Carlo non usò mai nei suoi documenti ufficiali, preferendo gli antichi titoli dei sovrani normanni e svevi. ANTONIO SUMMONTE conferma questa tesi: «Papa Clemente IV, il quale investì e coronò Carlo d'Angiò di questi due Regni, chiamò quest'Isola e il Regno di Napoli con un solo nome, come si può vedere in quella Bolla,


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ove dice Carlo d'Angiò Re d'amendue le Sicilie, citra e ultra il Faro. E quello etiandio osservarono gli altri pontefici, che a quello successero, e si servirono dell'istessi nomi, impercioché sette altri Re che al detto Carlo successero, che solo del Regno di Napoli e non di Sicilia padroni furono, chiamarono il Regno di Napoli Sicilia al di qua del Faro. Il re Alfonso poi ritrovandosi Re dell'Isola di Sicilia per essere egli successo a Ferrante suo padre, havendo anco con gran fatica, e forza d'armi guadagnato il Regno di Napoli da mano di Renato, si chiamò anch'egli con una sola voce, Re delle Due Sicilie, citra et ultra e questo per dimostrare di non contravenire all'autorità de' Pontefici. Ad Alfonso poi successero quattro Re i quali signori furono solo del Regno di Napoli e si intitolarono, come gli altri, Re di Sicilia citra. Ma Ferdinando il Cattolico, Giovanna sua figlia, Carlo V imperadore e Filippo nostro re e signore i quali hanno voluto il dominio d'amendue i Regni si sono intitolati e chiamati Re delle due Sicilie citra et ultra: la verità dunque è che questi nomi vennero da i Pontefici romani i quali cominciarono ad introdurre che 'l Regno di Napoli si chiamasse Sicilia». ANTONIO SUMMONTE, Dell'historia della Città e Regno di Napoli, Napoli 1675, t. II, p. 39-40 (il capitolo si intitola: Breve trattato dell'isola di Sicilia e de' suoi Re. Perché il Regno di Napoli fu detto Sicilia). 20. Una separazione tra Reame di Napoli e Regno di Sicilia si ebbe nel periodo aragonese (1282-1441) e in quello napoleonico (1806-1815). 21. Per tale concetto, cfr. ROBERTO DE MATTEI, La sovranità necessaria. Riflessioni sulla crisi dello Stato moderno, Il Minotauro, Roma 2001. 22. Il 12 maggio 2013. La memoria dei Martiri di Otranto ricorre il 14 agosto, data in cui iniziò la mattanza, durata ben tre giorni. 23. L'assedio durò dal 23 maggio al 17 agosto 1480. 24. Cfr. LUDWIG VON PASTOR, Storia dei Papi. Dalla fine del medio evo, Desclée, Roma 1942, vol. II (1458-1484), p. 530-543. Il testo è stato recentemente riprodotto dalla rivista «StoriaLibera», n. 2 (2015), p. 65-81 (consultabile sul sito StoriaLibera.it). 25. LORENZO TANZINI, Il Magnifico e il Turco. Elementi politici, economici e culturali nelle relazioni tra Firenze e Impero Ottomano al tempo di Lorenzo de' Medici, in «RiMe. Rivista dell'Istituto di Storia dell'Europa Mediterranea», n. 4, giugno 2010, p. 271-289: 278. 26. «L'Italia non fu una come Inghilterra, Spagna e Francia, perché, Iddio la creò svariata, la fé lunga e smilza, e rotta da fiumi e da montagne; la popolò di stirpi diverse d'indoli, di bisogni, di costumanze, e quasi anche di linguaggio. Nota dell'autore: Un Toscano non intenderà a udire un Napolitano, né questi un Genovese, né questi un Calabro, né questi un Lombardo, né questi un Siculo, né questi un Veneziano. Ciò è perché nella formazione de' dialetti, e nella fusione del romanesco col germanico linguaggio, ciascun popolo serbò le native forme di pronunzia e di vocaboli. Senza l'ingegno di Dante che unì le sparse membra del favellare nazionale, forse non avremmo lingua scritta universale in Italia», GIACINTO DE' SIVO, I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, Livorno 1861, cap. VIII, L'Italia non può essere una. 27. GIACINTO DE' SIVO, Corrado Capece. Storia pugliese de' tempi di Manfredi, Tipografia Carluccio, Napoli 1846, Prologo, p. VIII. 28. Achille Lauro a Napoli (1952-1957 e 1961); Francesco Chieco a Bari (1952-1956); Gregorio Guarnaccia a Catania (1947). 29. Gennaro Patricolo (1946-1948). 30. Dai vari gruppi ruotanti attorno all'ideologia “neoborbonica” al MO (Movimento di Opinione), presentatosi alle Regionali del maggio 2015 in Campania con la proposta di modificare la toponomastica campana e capace di raccogliere solo lo 0,62% dei voti. Profeticamente, qualche mese prima un giornalista aveva scritto: «La galassia meridionale, meridionalista, insorgente, indipendentista, secessionista, terronista, borbonica, neoborbonica, aborbonica, si nutre di simboli e di cultura (a volte metabolizzata a singhiozzo), ma di sicuro sembra avere più nomi che numeri. E come tutte le galassie ha stelle, pianeti, satelliti, comete e buchi neri». PIETRO TRECCAGNOLI, Galassia Sud: volti, sigle, liste e movimenti in vista delle Regionali, in Il Mattino, 20 Gennaio 2015, corsivo mio. 31. Pensiamo alla Trilogia dei colori di Krzysztof Kieœlowski: Film blu (1993), Film bianco (1994) e Film rosso (1994). Le pellicole sono esplicitamente ispirate ai tre colori della bandiera francese e ai tre ideali rivoluzionari da essi rappresentati: blu-libertà, bianco-uguaglianza e rosso-fratellanza. 32. «[L'accettazione di una comune bandiera nazionale] avvenne, come è noto, per la prima volta in Francia, quando gli avvenimenti del 1789 costrinsero la Monarchia ad accettare dal popolo una Costituzione. Simbolo di questa divisione del sovrano potere politico fra popolo e monarca fu la nuova coccarda, dove il bianco della Monarchia fu stretto prigioniero fra il rosso ed il bleu, i due colori popolari». VITTORIO FIORINI, Le origini del tricolore italiano, in «Nuova Antologia di scienze lettere e arti», vol. LXVII, quarta serie, 1897, p. 683, corsivo mio. 33. «Mentre che la speranza ha fior del verde», Purgatorio, III, 135. «Sovra candido vel cinta d'uliva | donna m'apparve, sotto verde manto | vestita di color di fiamma viva», Purgatorio, XXX, 31-33. «Tre donne in giro da la destra rota | venian danzando; l'una tanto rossa | ch'a pena fora dentro al foco nota; || l'altr'era come se le carni e l'ossa | fossero state di smeraldo fatte; | la terza parea neve testé mossa», Purgatorio, XXIX, 121-126. 34. V. FIORINI, Le origini del tricolore italiano, cit., p. 683.

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35.Per tutte: «Il colore nero, che contraddistingue la fase del piombo, nella bandiera francese fu sostituito dal blu in quanto l'iridescenza del nero al sole lo fa apparire blu. Il bianco è il colore di transizione; ci si abbiglia in bianco quando si abbandona una fase per aprirne un'altra. L'esempio più evidente è il matrimonio in cui la sposa lascia il nubilato per divenire moglie. Il colore rosso è quello che mostra la maturità dell'evento. È il colore del fuoco vivo che fonde i metalli e forgia gli strumenti per renderli più duri e resistenti agli attacchi». Cfr. CLAUDIO WIDMANN, Il Simbolismo dei Colori. Immagini dall'inconscio, Magi Edizioni Scientifiche, Roma 2006, cit. in ww.anticorpi.info [28.02.2016]. 36. ALESSANDRO MANZONI, Il Cinque maggio, v. 101. Il riferimento, ovviamente, è alla Croce del Calvario. 37. A tal proposito è stato chiamato in causa il Rito Egiziano inventato da Cagliostro, ipotesi confutata criticata già in passato: cfr. V. FIORINI, Le origini del tricolore italiano, cit., p. 261-267. 38. Per Enrico d'Artois (1820-1883), la bandiera tricolore era quella alla cui ombra erano stati ghigliottinati i suoi antenati e migliaia di innocenti, sostenendo in tutta Europa decine di governi sanguinari: per questo avrebbe dovuto essere sostituita dalla tradizionale bandiera bianca con i gigli dei Borbone. Vano fu il tentativo di far recedere il proponente, sostenendo che, a ottant'anni dalla Rivoluzione e pochi mesi dopo la Comune di Parigi, il tricolore era divenuto ormai il vessillo dei francesi moderati e dell'esercito contro la bandiera rossa dei comunardi parigini. 39. Il Kaiserhymne, altresì detto Inno Imperiale o Inno popolare austriaco (il titolo originale, in tedesco, è Österreichische Volkshymne) o Serbi Dio l'austriaco regno, fu composta da Franz Joseph Haydn nel 1797 su incarico dell'Imperatore Francesco II d'Asburgo. Oggi si chiama Das Lied der Deutschen (Il canto dei Tedeschi), o Deutschlandlied, o, più raramente, Deutschand über Alles. 40. Land der Berge, Land am Strome (Terra di monti, terra sul fiume) è il testo dell'attuale (dal 1947) inno nazionale austriaco, che utilizza con parole nuove una melodia di Wolfgang Amadeus Mozart, la cantata K623a. 41. Land of Hope and Glory, composta da Edward Elgar nel 1902, è considerata dalla maggior parte degli Inglesi preferibile a God save the King, il più antico inno nazionale esistente. 42. L'Inno e Marcia Pontificale fu composto da Charles Gounod nel 1869, in occasione della celebrazione dei cinquant'anni di sacerdozio di papa Pio IX. Fu ufficialmente adottato da papa Pio XII, in previsione del Giubileo del 1950. 43. L'Inno al Re, scritto e musicato da Giovanni Paisiello su commissione di Ferdinando IV di Napoli nel 1787, venne adottato nel 1816. 44. Nel 1848 fu proposto un nuovo inno nazionale delle Due Sicilie su testo scritto da Michele Cucciniello (Viva il Re!) adattato alla melodia del coro Si ridesti Leon di Castiglia dall'opera Ernani (1844) di Giuseppe Verdi. Lo spartito stampato a Napoli dall'editore Girard nel 1848, dedicato a Ferdinando II, è stato recentemente ritrovato negli archivi del Conservatorio San Pietro a Maiella. Questi i versi iniziali: «Bella Patria del sangue versato | se fumanti rosseggian le impronte | non più spine ti strazian la fronte | il martirio la palma fruttò. | Viva il Re! Viva il Re! Viva il Re!». 45. Esiste la proposta di legge 4331, non convertita, presentata in pieno entusiasmo di centocinquantenario, il 3 maggio 2011 ed intitolata Riconoscimento dell'inno di Mameli «Fratelli d'Italia» quale inno nazionale della Repubblica italiana in cui si legge la seguente perla: «Superato il trauma della [grande] guerra, sull'Italia si addensarono le nubi del fascismo che fu lesto a mettere in sordina, e a volte a ghettizzare, ogni tipo di canto risorgimentale. In questi anni l'inno di Mameli andò a cercare rifugio presso i gruppi di fuorusciti all'estero, dove il Canto diventò il simbolo dell'opposizione alla tirannia fascista». 46. Cfr. il bellissimo saggio Una nazione in coma dal 1793, due secoli, Minerva, Argelato (Bologna) 2013. 47. GIUSEPPE BRIENZA, Unità senza identità. Come il Risorgimento ha schiacciato le differenze fra gli Stati italiani, Solfanelli, Chieti 2010, p. 13-14. 48. GIUSEPPE LA FARINA, Storia d'Italia dal 1815 al 1850, Casa Editrice Italiana, Milano-Torino 1860, vol. III, p. 700. Il riferimento all'inesistenza di alcun monarca “né al di qua, né al di là delle Alpi” è anche una assicurazione alla Regina d'Inghilterra sul non voler porre un Principe austriaco su un eventuale futuro trono italiano. Il volume riporta, dopo il testo integrale dei due dispacci di Metternich, anche la risposta rassicurante di Palmerston (p. 704). 49. Lo fece nel celebre dispaccio inviato il 27 ottobre al presidente del Consiglio, Cavour: «Ma, amico mio, che paesi son mai questi, il Molise e Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica. I beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile! Il Re [Francesco II] dà carta bianca; e la canaglia dà il sacco alle case de' Signori e taglia le teste, le orecchie a' galantuomini, e se ne vanta, e scrive a Gaeta: i galantuomini ammazzati son tanti e tanti; a me il premio. Anche le donne caffone ammazzano; e peggio: legano i galantuomini (questo nome danno a' liberali) pe' testicoli, e li tirano così per le strade; poi fanno ziffe zaffe: orrori da non credersi se non fossero accaduti qui dintorno ed in mezzo a noi». Falsità indice della follia emergente di Farini (cfr. nota seguente). 50. Se l'invettiva «Questa è Affrica» è nota, un po' meno noto è il fatto che Farini morì pazzo: poco dopo la luogotenenza napoletana, tra l'8 dicembre 1862 e il 24 marzo 1863 divenne addirittura Presidente del Consiglio, ma dopo poche settimane


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rivelò i sintomi di una grave malattia mentale che fu celata per non allarmare un gruppo finanziario con cui il governo aveva avviato trattative per un prestito. Pare che venne costretto alle dimissioni dopo un Consiglio dei ministri in cui era giunto a minacciare il Re con un coltello per spingerlo a schierarsi con gli insorti polacchi e dichiarare guerra all'Impero russo. Morì in miseria tre anni più tardi, dopo essere stato ricoverato nel manicomio di Novalesa (Torino). Questi erano gli uomini della “nuova Italia”! 51. FAUSTO BRUNETTI, L'Italia è un'espressione geografica. Trasfigurazione di un nome. in «Rassegna storica del Risorgimento», anno LXXXVIII (2001), p. 268. Cfr. anche IDEM, “L'Italia è un'espressione geografica”: manipolazione e trasfigurazione di una celebre frase, in «Nuova antologia», n. 2236, ott.-dic. 2005, p. 350-355. 52. Il riferimento è alla famosa frase di Massimo d'Azeglio: «A Napoli, noi abbiamo altresì cacciato il sovrano per stabilire un governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono e sembra che ciò non basti, per contenere il Regno, sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti o non briganti, niuno vuol saperne. Ma si dirà: e il suffragio universale? Io non so nulla di suffragio, ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni e che al di là sono necessari. Dunque vi fu qualche errore e bisogna cangiare atti e principi. Bisogna sapere dai Napoletani un'altra volta per tutto se ci vogliono, sì o no. Capisco che gli italiani hanno il diritto di fare la guerra a coloro che volessero mantenere i tedeschi in Italia, ma agli italiani che, restando italiani, non volessero unirsi a noi, credo che non abbiamo il diritto di dare archibugiate, salvo si concedesse ora, per tagliare corto, che noi adottiamo il principio nel cui nome Bomba [Ferdinando II] bombardava Palermo, Messina ecc. Credo bene che in generale non si pensa in questo modo, ma siccome io non intendo rinunciare al diritto di ragionare, dico ciò che penso». Lettera a Carlo Matteucci del 2 agosto 1861, in MASSIMO D'AZEGLIO, Scritti e discorsi politici, vol. III (1853-65), La Nuova Italia, Firenze 1931, p. 399. 53. VELARDINIELLO, Stanze, in Collezione di tutti i poemi in lingua napoletana, vol. XXIV, Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli, 1789, p. 8. Il distico è spesso ripreso in chiave (più o meno inconsciamente) antispagnola e antiborbonica. 54. FRANCISCO ELÍAS DE TEJADA, Napoli spagnola, cinque volumi, Controcorrente, Napoli 1999-2017 (edizione originale, Nápoles hispánico, Montejurra, Madrid 1960-1964). 55. «Lo Stato della Chiesa è l'antemurale del nostro regno, che è ben difeso dall'acqua salata e dall'acqua benedetta». Cfr. ARRIGO PETACCO, Il regno del Nord: 1859: il sogno di Cavour infranto da Garibaldi, Mondadori, Milano 2009, p. 136. 56. Filippo II non seguì il caloroso consiglio paterno di spostarsi nei suoi regni e, con la sola esclusione del Portogallo, non si mosse mai da Castiglia e Mancia. Filippo III annunciò più volte il suo viaggio a Napoli ed in conseguenza di ciò si apprestarono i lavori per il Palazzo Reale, ma non venne mai. Neppure Filippo IV e Carlo II risulta siano mai venuti, come pure i re austriaci. Viceversa, venne Filippo V, il primo Re di Spagna e di Napoli di dinastia Borbone. 57. FERDINANDO RUSSO, 'O luciano d''o Rre, IV. Vale la pena riportare il brano del poemetto da cui sono estrapolate le frasi: «Ferdinando Sicondo. E che ne sanno?! | Coppola 'nterra! N''o ttengo annascuosto! | E nce penzo, e me sento n'ato ttanto! | So stato muzzo, a buordo 'o Furminanto! | 'O Rre me canusceva e me sapeva! | Cchiù de na vota, (còppola e denocchie!) | m'ha fatto capì chello che vuleva! | E me sàglieno 'e llacreme int'all'uocchie! | 'A mano ncop''a spalla me metteva: | «Tu nun si' pennaruto e nun t'arruocchie! | Va ccà! Va llà! Fa chesto! Arape 'a mano!». | E parlava accussì: napulitano! | Quanno veneva a buordo! Ma che vita! | Trattava a tuttuquante comm'a frato! | Sapeva tutt''e nomme: Calamita, | Mucchietiello, Sciatone, 'o Carpecato… | Erano gente 'e core! E sempe aunita! | «Murimmo, quann''o Rre l'ha cumannato!» | Mo che nce resta, pe' nce sazzià? | Ah!... Me scurdavo 'o mmeglio!… 'A libbertà! | 'A libbertà! Chesta mmalora nera | ca nce ha arredutte senza pelle 'ncuolle!… | 'A libbertà!… Sta fàuza puntunera | ca te fa tanta cìcere e nnammuolle!… | Po' quanno t'ha spugliato, bonasera!». 58. Francesco II. Il Re cattolico, Centro studi sul risorgimento e gli Stati preunitari, Modena 2015. Il manoscritto, che si era perduto, è stato ora ritrovato grazie alle ricerche del Cavalier Girolamo Broya de Lucia, che lo ha fatto ripubblicare in anastatica e in trascrizione, affidandolo ad un commento di cinque studiosi di storia moderna e contemporanea (Roberto de Mattei, Massimo Viglione, Cristina Siccardi, Mauro Tranquillo, Elena Bianchini Braglia) con una presentazione di Carlo di Borbone-Due Sicilie, Duca di Castro. 59. Luigi Mezzacapo (1814-1885), già capitano dell'esercito borbonico, nel 1848 disertò per andare a combattere a Venezia e poi aderire alla Repubblica romana. Successivamente entrò nell'esercito sabaudo e nel marzo 1861, prendendo il posto del generale Pinelli, comandò l'assedio finale alla fortezza di Civitella del Tronto, ultimo baluardo delle forze borboniche. Dopo l'Unità sarebbe stato nominato Senatore del Regno d'Italia (1870) e ministro della guerra nel gabinetto Depretis (1876-1878). 60. LUIGI MEZZACAPO, Armi e politica, Capaccini, Roma 1881. 61. «La Civiltà Cattolica», anno XXXII (1881), vol. VII, p. 205-211 62. Ivi, p. 205. 63. Ivi, p. 209. 64. Ibid. 65. Ivi, p. 210.

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66. Il diritto, giornale della Sinistra democratica, era stato fondato nel 1854 da Agostino Depretis (proveniente dalle file mazziniane) assieme «insieme al [Cesare] Correnti, al [Lorenzo] Valerio, [Giuseppe] Robecchi e [Raffaele] Pareto». L'iniziativa suscitò l'ira di Mazzini, che scrisse a Depretis: «Credete veramente voi buoni, voi che amate l'Italia, sdebitarvi dagli obblighi vostri, scrivendo un Giornale?». Cfr. RAFFAELE ROMANELLI, voce Agostino Depretis, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XXXIX, 1991. 67. «La Civiltà Cattolica», cit., p. 210-211. 68. FRANCESCO II, Riflessioni sull'opuscolo “Armi e politica”, in Francesco II, cit., p. 45. 69. Ibid. 70. Ivi, p. 46-47. 71. Ivi, p. 50. 72. Ivi, p. 53. 73. Ivi, p. 54. 74. Ivi, p. 55. 75 ROBERTO DE MATTEI, Introduzione a Francesco II, cit., p. 19. 76. Versi di un ignoto poeta scapigliato che, firmandosi Depedrini dei Lotta pubblicò sul giornale satirico «Il Berni» (anno I, n. 4, 28 gennaio 1884) una deliziosa “parodia al Cinque Maggio” intitolata Alle cinque, mangio! 77. Sembra frutto della retorica l'affermazione – pur diffusa – secondo cui la partecipazione delle masse al primo conflitto mondiale aiutò a costruire un'identità e un vincolo nazionali sentiti da tutti i combattenti e dalle loro famiglie, culminati nella “presa di coscienza” successiva alla rotta di Caporetto. Del resto, basti considerare che, a fronte di 10-13.000 morti (e 30.000 feriti) ci furono ben 265.000 prigionieri, che evidentemente preferirono arrendersi anziché combattere (cfr. MARIO SILVESTRI, Caporetto. Una battaglia e un enigma, Rizzoli, Milano 2006, p. 229). Esistono, al contrario, interpretazioni che vedono nel desiderio del governo italiano di partecipare alla guerra – desiderio per nulla condiviso dalla stragrande maggioranza della popolazione, un tentativo di incanalare nelle trincee le pericolose masse di lavoratori che andavano organizzandosi (cfr. GIOVANNI FASANELLA, ANTONELLA GRIPPO, 1915. Il fronte segreto dell'intelligence. La storia della Grande guerra che non c'è sui libri di storia, Sperling & Kupfer, Milano 2014). E c'è chi ritiene che i partecipanti fossero essenzialmente coscritti e che il fronte interno si interessasse più alla sorte dei propri cari al fronte che alle vicende belliche in sé e per sé. 78. Cfr. RENZO DE FELICE, Mussolini il Duce. I - Gli anni del consenso (1929-1936), Einaudi, Torino 2007 (e.p. 1974). Cfr. anche IDEM, Mussolini il Duce. II - Lo Stato totalitario (1936-1940), Einaudi, Torino 2008 (e.p. 1981). 79. ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA nel suo La morte della patria, cit., sostiene che «il sentimento di una vera e propria “morte della patria” fu, infatti ciò che soggettivamente provò, in quel biennio terribile e immediatamente dopo, chiunque nel proprio mondo etico-politico, o solo emotivo, custodisse – in una qualunque foggia – l'idea di nazione, e dentro di sé sentisse questa idea irrevocabilmente legata all'idea, e all'esistenza, di una nazione italiana. […] L'espressione “morte della patria” mi sembra la più adatta per definire la profondità, la ricchezza di implicazioni, in una parola la qualità tutta particolare che ha avuto in Italia la crisi dell'idea di nazione in conseguenza della guerra mondiale» (p. 3-4). Naturalmente, per poterne decretare la morte – o alla Buscaroli, il coma – si deve ritenere che essa sia stata viva. 80.L'espressione di derivazione crociana «parentesi della Storia» (cfr. BENEDETTO CROCE, Scritti e discorsi politici (1943-1947), Bari, 1963, vol. I, p. 370 e passim) dovrebbe essere sostituita da quella di «cesura della Storia», poiché in tal modo – superando la valutazione negativa insita nel termine parentesi e passando al più neutro cesura – si modificherebbe, se non si ribalterebbe il giudizio negativo sul Ventennio quale interruzione di una continuità positiva (in prospettiva storicistica) dall'Italia “unita”, liberale e monarchica, a quella “liberata”, democratica e repubblicana. Personalmente, ritengo che si possa essere d'accordo che l'attuale Repubblica italiana non sia altro che la naturale e conseguente degenerazione dell'Italietta liberale; una degenerazione che venne (momentaneamente) fermata per venti anni grazie al carisma dell'unico vero statista che l'Italia unita abbia mai avuto, il quale cercò – senza riuscirvi – di “rifare” gli Italiani, laddove tale tentativo mancò del tutto prima e dopo il Ventennio, accettando la pedissequa imitazione di modelli sociali prima d'oltralpe e d'oltremanica, poi d'oltreoceano.


POLITICA

PAURA DELLE OMBRE: E’ STRUMENTALE O PSICOPATOLOGICA Egregi parlamentari che vi accingete a votare una legge che dovrebbe punire "l'apologia di fascismo", chi vi parla, con animo sereno e sorriso sulle labbra, è un giovanotto di sessantadue anni che ha militato nel MSI, fino alla metà degli anni ottanta, senza mai definirsi fascista. Di fascisti ne ho conosciuti tanti, ovviamente, "serenamente" stimandoli e apprezzandoli quando il loro comportamento era tale da meritare rispetto e stima. Non so se ciò costituisca reato e chiedo lumi. Del fascismo, alla pari di "tutte le epoche storiche", sono uno studioso, essendo un "appassionato" di storia. Le passioni insorgono spontanee: poteva capitarmi di appassionarmi alla botanica, al giardinaggio e all'orticoltura, attività nobilissime che vedo praticare con grande perizia da alcuni amici, invidiandoli un po' - il mio orticello fa semplicemente pena - ma non mi è capitato. Anche in questo caso spero di non incorrere nei rigori della legge! Ho avuto il privilegio, inoltre, di relazionarmi con personaggi che nel famigerato ventennio hanno occupato ruoli più o meno importanti, a cominciare da Giorgio Almirante, che mi ha insegnato un'importante regola, facendomi crescere in un attimo, e di molto, quando avevo solo venti anni: "Nella vita non basta avere ragione, bisogna anche sapersela prendere". Evito di citare la lunga lista, tra l'altro facilmente intuibile, con l'unica eccezione del mio più caro amico, Michele Falcone, che essendo nato tre giorni dopo quel famoso otto settembre 1943, gli ideali fascisti li ha assimilati per retaggio ancestrale e condizionamento familiare, come avvenuto per tante persone nate negli anni postbellici. Il suo stile di vita merita un pubblico encomio perché, da sempre e spero ancora a lungo, si può caratterizzare con una sola parola: irreprensibile. La statura etico-morale, supportata da un alto livello culturale, gli ha consentito e gli consente di raggiungere vette esistenziali davvero ragguardevoli e invidiabili. Non posso fare a meno di citare due episodi: nel 1985, da consigliere provinciale in carica, non esitò a cedermi il suo collegio vincente perché riteneva giusto che "le mie qualità" fossero valorizzate con un ruolo più importante di quelli esercitati: segretario di sezione, dirigente provinciale, presidente provinciale Consulta Corporativa. Fu preso per pazzo e fummo "commissariati" entrambi dall'allora segretario regionale del partito: "anche" a destra, infatti, molti avevano difficoltà tanto a concepire l'attività politica come servizio per favorire il bene comune quanto a delegare i vari ruoli esclusivamente alle persone capaci e meritevoli. Recentemente, in occasione della presentazione del romanzo "Prigioniero del Sogno", mi ha fatto un bellissimo regalo, che mi ripaga ampiamente per i sacrifici compiuti al fine di restare

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sempre con la schiena dritta, mutuando a mio favore una frase tratta da un'opera di Eutropio, da Pirro pronunciata riferendosi al console Fabrizio: "Ille est Pasquale, qui difficilius ab onestate quam sol a cursu suo averti potest". (Gli amici d'infanzia mi chiamano con il nome anagrafico). Egregi parlamentari, sono franco di cerimonie - lo sono stato da giovane, figuriamoci ora - e senza tanti giri di parole, pertanto, vi dico semplicemente che la legge in discussione si può definire solo con un'espressione "fantozziana": "Una cagata pazzesca". Ho avuto già modo di leggere qualificati e autorevoli pareri che ne mettono in luce le distonie costituzionali, considerandola "poggiata sul nulla". Li condivido in pieno, ma non li ribadirò: a mio avviso, il solo prendervi sul serio conferisce alle vostre azioni una dignità e una legittimazione che non meritano. Non m'interessa sottolineare la vacuità del provvedimento, ritenendo che esso possa rispondere solo a due logiche: una palese azione strumentale protesa ad allontanare l'attenzione dai problemi reali o una psicopatologia bella e buona. Se qualcuno ha realmente paura delle ombre è bene che si affidi a un bravo psicanalista. A me non fanno paura "le condotte meramente elogiative, o estemporanee che, pur non essendo volte alla riorganizzazione del disciolto partito fascista, siano chiara espressione della retorica di tale regime, o di quello nazionalsocialista tedesco". E non mi fanno paura i gadget sulle bancarelle dei venditori ambulanti, venduti a pochi euro. Mi fate paura, e non poco, invece, voi tutti per come avete ridotto questo Paese; per la facilità con la quale legiferate a esclusivo vantaggio dei potentati che vi sostengono, incuranti delle sofferenze di un intero popolo. Mi fanno paura il vostro cinismo, i vostri limiti etici e culturali, la vostra condotta pubblica e privata. In poche parole, egregi parlamentari, a me fate paura, e anche molto schifo, esclusivamente voi. Non vi è nessun "rischio" di rigurgito del fascismo, in Italia. Vi è invece, e da troppo tempo, un solo pericolo reale: la vostra presenza in Parlamento. Lo so, è colpa precipua di chi vi ha votato. Ma questo è un altro discorso. L.L.


SOCIETA’

VITTORIO MUSSOLINI: QUANDO IL COGNOME CONDIZIONA LA VITA

Sono trascorsi venti anni dalla morte di Vittorio Mussolini (Milano, 27 settembre 1916 - Roma, 13 giugno 1997), secondogenito di Benito Mussolini e Rachele Guidi e importante testimone delle vicende belliche che caratterizzarono la parte finale della seconda guerra mondiale. Lino Lavorgna lo ha incontrato nel 1983 e i ricordi di quell'incontro saranno parte integrante di un saggio di prossima pubblicazione. Per gentile concessione dell'autore pubblichiamo un estratto del capitolo a lui dedicato.(A. R.) Prima parte Prima di esternare i ricordi dell'incontro con Vittorio e Romano Mussolini, avvenuto nel novembre del 1983, è opportuna una premessa per ben contestualizzare quegli anni che, seppure non eccessivamente lontani dal punto di vista temporale, sembrano appartenere alla preistoria, in virtù delle radicali trasformazioni sociali avvenute nell'ultimo trentennio. Che il Movimento Sociale Italiano fosse nato dalle ceneri del fascismo è un dato di fatto incontrovertibile. Parimenti, lo scontro generazionale che avvenne dagli anni sessanta agli anni ottanta, vedeva ideologicamente contrapposti i giovani di sinistra, per i quali era normale definirsi "comunisti", e i giovani di destra, che in massima parte si definivano "fascisti". La società, dal punto di vista politico, era ancora caratterizzata da un confronto ideologico, che, nelle punte estreme, sfociò nei sanguinosi eventi degli anni di piombo, forieri d'immani tragedie (1). La deideologizzazione della società inizierà nel 1993, quando Berlusconi, fondando "Forza Italia", impresse una svolta radicale ai costumi e alla mentalità del Paese, amplificando sensibilmente un'attività già avviata anni addietro con le emittenti televisive. La vecchia destra missina fu assorbita dallo spregiudicato imprenditore e costretta a un rapido adeguamento al nuovo corso. Anche la sinistra fu costretta a reinventarsi, per restare al passo, allontanandosi velocemente dall'ombra comunista, proprio come Gianfranco Fini aveva fatto con quella del fascismo. L'analisi storiografica del profondo processo di trasformazione sociale non è oggetto di questo saggio. Qui ci fermiamo agli anni precedenti e agli avvenimenti che li caratterizzarono. La prima distinzione riguarda "i confini generazionali", che vanno scrutati con attenzione, per non finire fuori strada nell'analisi. La generazione degli anni quaranta e cinquanta, sotto un profilo strettamente "antropologico", era molto più vicina ai genitori e ai nonni (2) che non ai figli e nipoti, futuri protagonisti della rivoluzione tecnologica. Il concetto di appartenenza, dal dopoguerra agli anni ottanta, era molto sentito ed era naturale anteporre l'amore nei confronti della causa che si riteneva giusta a qualsiasi altra cosa. Le

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persone ritenute degne di massima stima erano tributarie di una vera e propria idolatria, soprattutto nell'area destrorsa, nella quale si perpetuava la venerazione a suo tempo riservata a Mussolini, capace di conquistare cuore e anima delle classi medie e dei proletari non chiaramente orientati a sinistra. L'alta borghesia e i potentati economici, come noto, si votarono al fascismo e al suo capo con la razionalità di chi sceglie sempre per convenienza. Un esempio che serve a spiegare meglio le sensibilità di quel periodo lo troviamo in una cronaca del gerarca Bottati, comandante di Battaglione durante la campagna d'Abissinia, nel 1936. Sugli elmetti dei soldati vi erano scritte inneggianti al Duce e al Re, per i quali si era pronti a sacrificare la vita, considerando ciò "un grande onore". Sintomatica una delle frasi citate, letta sull'elmetto di un semplice soldato: "Se vivo, voglio vivere all'ombra della mia bandiera. Se muoio voglio essere crocefisso all'asta della mia bandiera". Ancora più esplicativa la lettera di un vecchio caporal maggiore, che aveva prestato servizio alle dipendenze di Bottai nella 1^ guerra mondiale. Scrive al suo ex comandante, rammaricato, per il "disonorevole" ruolo del figlio, assegnato, "contro la sua volontà", a un reparto delle retrovie e con mansioni di ufficio! La lettera si conclude con una precisa esortazione per un immediato trasferimento al fronte, possibilmente nel suo Battaglione. "Bravo fesso", esclamò il Generale Bertini, quando Bottai gli riferì della lettera. Non siamo lontani, pertanto, dallo spirito dei soldati napoleonici di Lipsia e Waterloo e gli esempi potrebbero continuare a iosa, scorrendo all'indietro le pagine della storia. I ventenni degli anni settanta, se non proprio in modo così marcato, erano pervasi dagli stessi fremiti ideali. L'Italia del dopoguerra, da un punto di vista prettamente politico, si distingueva in tre blocchi. Due blocchi estremi (destra e sinistra, con dipanazioni ancora più estreme rappresentate dai gruppi che scelsero la lotta armata) e un nucleo centrale che, convenzionalmente, si riconosceva nel cosiddetto "pentapartito", ossia l'area politica che deteneva le leve del potere, egemonizzata dal partito principale: la Democrazia Cristiana. Quest'area governativa, che subentrò al fascismo, avviando il processo di "ricostruzione" del Paese, si rese conto ben presto delle grosse opportunità offerte dalla politica per l'arricchimento personale. Una gestione "allegra" del potere e le collusioni con le varie mafie furono la normale conseguenza di questa consapevolezza. Le organizzazioni criminali assicuravano consistenti pacchetti di voti, ottenendo in cambio protezioni e libertà d'azione (3). Il marciume imperante - sia pure con tante eccezioni e riserve sulle quali sorvoliamo per amor di sintesi - veniva contrastato proprio da coloro che, ideologicamente, militavano a destra e a sinistra, i quali, però, oltre ad avere un nemico comune, storicamente erano anche nemici tra loro. Fu quest'ultima componente che ebbe il sopravvento, proprio perché "l'ideologia" condizionava, più di qualsiasi altra cosa, il comportamento umano. E così, i giovani di destra e di sinistra, scioccamente, iniziarono una guerra che li portò ad ammazzarsi vicendevolmente. Le reciproche scelte di campo erano condizionate da due fattori primari: ambiente sociale e familiare, retaggio ancestrale. Una destra che si era sviluppata grazie a ex fascisti, fungeva da richiamo per coloro che, precipuamente, avvertivano un forte senso "della patria, dell'onore, della famiglia" e tanti giovani, che del fascismo non sapevano nulla e soprattutto non lo avevano


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nemmeno approfondito culturalmente, iniziarono a professarsi tali per "riflesso condizionato". Vi è da aggiungere che il leader del Movimento Sociale Italiano, Giorgio Almirante, era un uomo che esercitava un forte fascino per la sua straordinaria statura etico-morale, per l'onestà intellettuale e per il forte contrasto agli "orrori" della partitocrazia dominante. Non rinnegava le radici e ciò indusse ancor più i suoi adepti a vedere incarnati nel fascismo i princìpi e i valori di cui si sentivano portatori. La componente che prese maggiormente corpo, però, fu quella "emozionale", non scevra di anacronistico nostalgismo, celebrato con riti destinati inevitabilmente a essere schiacciati dal fluire degli eventi di un mondo in rapida trasformazione. Dal lato opposto, il Partito Comunista, pur alimentando il mito del "riscatto sociale" con pari enfasi e pervaso da analogo furore ideologico, riuscì a meglio strutturarsi sul territorio, con logiche più "razionali", traducendo sul piano pratico gli insegnamenti di Antonio Gramsci. Lo studio e la cultura furono considerati elementi fondamentali per la conquista del potere e gli eccellenti risultati di tali presupposti si vedranno nel giro di pochissimi anni. Anche a destra, per la verità, vi era una componente di alto spessore culturale, ma non ebbe la forza di emergere da uno stadio di subalternità nei confronti della classe dirigente del MSI, che beneficiava della "luce" assicurata da Giorgio Almirante, la cui lungimiranza ed esperienza sicuramente gli fecero ben comprendere che gli "intellettuali puri", politicamente, non avrebbero mai ottenuto grande consenso, senza però arrivare a prevedere ciò che sarebbero stati capaci di fare i suoi figli prediletti, una volta che le mutate condizioni politico-sociali avrebbero consentito loro di conquistare il potere. Ogni tentativo di "evoluzione" verso una "nuova destra", che regolasse i conti con il passato e iniziasse guardare al futuro, fu stroncato sul nascere e visto come l'azione di visionari "non allineati". Quasi dei rinnegati. I nodi, poi, vengono sempre al pettine e oggi, di fatto, in Italia non esiste una vera destra sociale, moderna ed europea, anche se in tanti si professano di destra, confondendone princìpi e funzioni. Nonostante la mia posizione "minoritaria" e la forte conflittualità all'interno del MSI, nel 1983 riuscii a vincere le elezioni per il ruolo di Segretario Cittadino a Caserta. Esercitando anche quello di dirigente provinciale, nel settore della comunicazione, che allora si chiamava "stampa e propaganda", nonché quello di responsabile della Consulta Provinciale Corporativa (4), toccò a me fare gli "onori di casa" nel corso della visita a Caserta di Vittorio e Romano Mussolini. L'occasione scaturì dal centenario della nascita di Benito Mussolini, che vide i due fratelli impegnati in un Tour nelle principali città della penisola. Fu realizzata anche un'intervista presso l'emittente televisiva "Teleluna", reperibile in rete nel mio secondo canale "YouTube". Purtroppo non ebbi modo di "incidere" nella gestione dell'intervista, gelosamente monopolizzata dal redattore dell'emittente, che si accontentò di essere ripreso insieme con il figlio del Duce, ponendogli domande non particolarmente interessanti.(continua) Lino Lavorgna

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DIBATTITO SU CONFINI

Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

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