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Web-magazine di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

IN TRUMP WE TRUST

A RESE: T S I A V TER EPPE F N I ’ L HI IUS C G R I D TA

CO R A M

ALL’INTERNO CONTRIBUTI DI: ENRICO CISNETTO - GIANFRANCO FINI CRISTOFARO SOLA - GIUSEPPE VALDITARA

Raccolta n. 49 Novembre 2016


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Confini Webmagazine di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Raccolta n. 49 - Novembre 2016 Anno XX

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti - Cristofaro Sola +

Hanno collaborato: Enrico Cisnetto Gianni D’Amato Gianni Falcone Giuseppe Farese Gianfranco Fini Giny Pierre Kadosh Lino Lavorgna Gustavo Peri Angelo Romano Cristofaro Sola Giuseppe Valditara

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Contatti: confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Quei gufi del NO, capaci di tutto

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

MAKE AMERICA GREAT AGAIN Nella mistica della democrazia americana vi è la decantata ed astratta possibilità che qualunque cittadino possa aspirare a diventare presidente. Tale idea è contraddetta dal fatto che fra i 45 presidenti Usa (in realtà 44 perché Grover Cleveland viene conteggiato due volte per i due mandati non consecutivi) non ve ne è mai stato uno che fosse un cittadino qualunque. Tutti hanno primeggiato per censo o sono appartenuti ad una potente famiglia o provenivano da un'eccellente carriera politica o militare. Difatti sono diventati Presidenti: 1 già presidente (Grover Cleveland al secondo mandato), 14 vicepresidenti, 3 segretari di stato, 5 generali, 10 governatori, 2 deputati, 5 senatori, 2 ambasciatori, 2 Ministri, 1 imprenditore (Trump). Questi 44 uomini hanno ricoperto 58 mandati presidenziali dal 1788 ad oggi. Sul piano dell'appartenenza politica si sono avuti un indipendente (Washington), un federalista (Adams), 4 democratici-repubblicani, la formazione che diede vita, per scissione, agli attuali Partiti Democratico e Repubblicano (Jefferson, Madison, Monroe e Quincy Adams), 4 Whig (Harrison, Tyler, Taylor, Fillmore), 15 democratici (Jackson, Van Buren, Polk, Pierce, Buchanan, Cleveland (2 volte), Wilson (2 volte), Roosvelt (3 volte), Truman (2 volte), Kennedy, Johnson, Carter, Clinton (2 volte), Obama (2 volte), 20 repubblicani (Lincoln, Johnson, Grant (2 volte), Hayes, Garfield, Arthur, Harrison, Mc Kinley, Roosvelt, Taft, Harding, Coolidge, Hoover, Heisenhower (2 volte), Nixon, Ford, Reagan, G. H. W. Bush, G.W. Bush (2 volte), Trump. E' evidente che Trump rappresenta una vera e propria eccezione. Pur essendo un miliardario - ma senza la disponibilità molti milioni di dollari negli Usa non si può affrontare un campagna presidenziale - non ha maturato alcuna precedente esperienza politica o amministrativa, non appartiene ad alcuna delle grandi e potenti famiglie-clan americane, tipo i Clinton, i Bush, i Kennedy, non ha "parentele" con i poteri forti: i fondi di investimento, le grandi banche d'affari e non, le multinazionali e le loro ramificazioni. E' solo un imprenditore che ha ereditato le attività immobiliari di famiglia e le ha fatte decollare con capacità, intuito, attitudine al rischio ed una certa dose di spregiudicatezza. La mancanza di specifica esperienza politica lo ha fatto bollare dal Presidente Obama, in campagna elettorale, come inidoneo al governo, contraddicendo con tale affermazione proprio la mistica democratica di cui sopra che vuole ogni cittadino idoneo alla carica e, quindi, al governo. E non è da escludere che le manifestazioni di piazza contro il neo-presidente nascano da quella bollatura, oltre che dai maneggi di Soros e dalle "addolorate" reazioni della Clinton.


EDITORIALE

Eppure il suo cursus honorum è stato democraticamente inappuntabile quanto sorprendente. Da outsider ha vinto a mani basse le primarie del partito repubblicano risultando il più votato di tutti i tempi e nonostante l'aperta ostilità di vaste frange del suo stesso partito. Sempre da outsider ha vinto trionfalmente le elezioni presidenziali, in barba ai sondaggi, ai pronostici, ai politologi, ai media, agli allibratori ed ai "gufi" europei che tifavano, Clinton. Gli analisti del giorno dopo hanno affermato che Trump ha parlato alla pancia dell'America profonda, che è entrato in sintonia con l'uomo qualunque, che ha trascinato al voto milioni di elettori "nuovi", nuovi in quanto disertori cronici delle urne. Nessuno che gli riconosca il merito di aver imbroccato la campagna elettorale, di essere stato migliore comunicatore della sua concorrente, di essersi circondato di validissimi collaboratori, di aver messo a punto e perseguito una strategia vincente in grado di incrociare desideri e bisogni del popolo americano. In suo memorabile discorso Donald Trump ha affermato: "Il nostro movimento è nato per sostituire un fallito e corrotto establishment politico con un nuovo governo controllato da voi il popolo americano. L'establishment di Washington ed i gruppi finanziari e di comunicazione, che loro hanno fondato, esistono per un'unica ragione: proteggere ed arricchire se stessi. L'establishment ha miliardi di dollari in gioco con queste elezioni. Coloro che controllano le leve del potere a Washington per gli interessi particolari globali fanno accordi con queste persone che non hanno il vostro bene in mente. La nostra campagna rappresenta un reale ed esistenziale minaccia, come non hanno mai visto prima. Questa non è semplicemente una fra le tante elezioni, questo è un bivio nella storia della nostra civiltà, dove si deciderà se noi, il popolo rivendicheremo il controllo sul nostro governo. L'establishment politico che sta cercando di fermarci è lo stesso gruppo responsabile dei nostri disastrosi accordi commerciali, della massiccia immigrazione illegale e di politiche estere che hanno dissanguato il nostro Paese. L'establishment politico ha portato la distruzione delle nostre fabbriche e di posti di lavoro che sono andati in Messico, Cina ed in molti altri Paesi del mondo. E' una struttura di potere globale che è responsabile delle decisioni economiche che hanno depredato i nostri lavoratori, ripulito il nostro Paese della sua ricchezza e messo quel denaro nelle tasche di un manipolo di grandi corporazioni ed entità politiche. Questa è una lotta per la sopravvivenza della nostra Nazione e questa sarà la nostra ultima chance per salvarla. In questa elezione si deciderà se saremo un Paese libero o se avremo solo l'illusione della democrazia, ma saremo di fatto controllati da una èlite di persone con interessi particolari che manipolano il sistema, e il nostro sistema è manipolato. Questa è la realtà: voi lo sapete, loro lo sanno, io lo so e credo che tutto il mondo lo sappia. La macchina dei Clinton è al centro di questo sistema di potere. L'abbiamo verificato di prima mano nei documenti di Wikileaks nei quali Hillary Clinton incontra in segreto personaggi di banche internazionali per complottare sulla distruzione della nostra sovranità al fine di arricchire questi poteri finanziari globali, gli interessi particolari dei suoi amici e dei suoi donatori. Con tutta franchezza quella dovrebbe finire in galera! La più potente arma dispiegata dai Clinton sono i media, la stampa. Qui dobbiamo fare chiarezza: i media del nostro Paese non si occupano più di

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EDITORIALE

giornalismo. Anche loro sono al servizio di interessi politici e sono simili ai lobbisti e alle entità finanziarie con un definito programma politico. E quel programma non è per voi: è per loro stessi. Chiunque sfidi il loro controllo è tacciato di sessismo, xenofobia, razzismo. Loro mentono, mentono, mentono e fanno anche peggio: faranno tutto quanto necessario. I Clinton sono dei criminali: ricordatevelo bene. E' tutto documentato e l'establishment che li protegge si impegna a coprire fortemente le diffuse attività criminali al Dipartimento di Stato e alla Fondazione Clinton con lo scopo di mantenere i Clinton al potere. Hanno gettato ogni tipo di menzogna su di me, sulla mia famiglia e sulle persone a me care. Non si sono fermati davanti a niente per fermarmi. Ciò nonostante mi sacrifico per voi incassando volentieri tutto ciò. Lo faccio per il nostro movimento, affinché noi potremo riprenderci il nostro Paese. Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato: era solo questione di tempo. E sapevo che il popolo americano si sarebbe ribellato votando per il futuro che merita. L'unica cosa che può fermare questa macchina corrotta sei tu. L'unica forza abbastanza forte per salvare il nostro Paese siamo noi. L'unico popolo abbastanza coraggioso per cacciare questo establishment corrotto siete voi, il popolo americano. La nostra grande civiltà deve fare i conti con se stessa. Non avevo bisogno di scendere in campo, credetemi. Ho costruito una grande azienda e ho avuto una vita straordinaria. Avrei potuto godere dei frutti e dei privilegi di anni di successi imprenditoriali e delle aziende che ho creato per me e per la mia famiglia invece che sottopormi a questo spettacolo orripilante di bugie, inganni, aggressioni indegne, chi l'avrebbe mai immaginato... Lo sto facendo perché il mio Paese mi ha dato così tanto che mi sento tanto forte per restituire ciò che ho avuto al Paese che amo. Lo sto facendo per i cittadini e per il movimento e ci riprenderemo questo Paese, per voi e renderemo l'America grande di nuovo!” Nel discorso vi sono alcune importanti affermazioni: la promessa di guerra frontale contro il mondialismo e l'establishment che lo rappresenta ed incarna; la volontà "sovranista" di riportare il controllo in capo al popolo americano, nella consapevolezza che si tratta di un bivio di civiltà; accordi commerciali sbagliati, immigrazione illegale e gravi errori in politica estera stanno dissanguando l'America attraverso la chiusura o la delocalizzazione delle produzioni e dei correlati posti di lavoro, ciò col solo vantaggio di arricchire sempre di più un manipolo di grandi corporazioni ed entità politiche; le elezioni sanciranno la scelta tra libertà e illusione di democrazia architettata dai manipolatori del sistema; manipolatori che, attraverso il controllo dei media, cercano di schiacciare chi loro si oppone anche con la menzogna; il mio impegno è per i cittadini ed il movimento (si badi non il partito). La sua elezione, incontrovertibilmente, "spariglia" ogni gioco ed impensierisce gli establishment di mezzo mondo. Se lo lasceranno governare tenendo fede al suo programma ne vedremo delle belle. Anche in Europa, dove da tempo immemorabile si attende qualcuno che voglia farla grande. Angelo Romano


SCENARI

IN TRUMP WE TRUST Gli americani confidano in Trump affinché l'America ritorni ad essere un grande Paese. Questo in sintesi estrema il senso delle elezioni americane. Un senso che implica, da parte dei cittadini statunitensi la consapevolezza che gli Stati Uniti - e con essi l'Occidente - sono in declino. Un declino che non riguarda solo gli aspetti economici, pur importanti, visto che il totale dei salari sul Pil è in costante decrescita. Il declino riguarda il patto sociale ed il sistema di valori per cui vale la pena di impegnarsi, competere ed eccellere. Il sistema occidentale, permeato dagli Usa, cosa offre? L'illecito e crescente a dismisura arricchimento di una ristretta minoranza della popolazione a danno di tutto il resto. Il drenaggio del 90% di risorse ed opportunità da parte di meno del 5% di ricchi sempre più ricchi. Un drenaggio reso possibile non solo dall'enorme vantaggio competitivo che garantisce l'accumulo di risorse oltre una certa misura - giustamente Paperone affermava che la cosa più difficile è mettere insieme il primo milione di dollari, dopo il cammino e tutto in discesa - ma anche dalla subdola manipolazione di ogni verità dei fatti perpetrata dalle cosiddette èlite intellettuali, quasi tutte cortigiane dei potenti magnati. Si stima che una decina di famiglie - che si incrociano solo tra di loro, secondo un modello di società chiusa che è l'esatto contrario di quanto affermano essere utile per le masse - detenga o controlli risorse pari ad una consistente fetta del Pil mondiale. Come? Attraverso partecipazioni significative e di controllo nelle grandi entità finanziarie che a loro volta controllano le principali banche d'affari che a loro volta controllano le grandi multinazionali e finanche gli stati grazie ai debiti pubblici finanziati. Tale sistema, fatto come le matrioske e più complesso delle scatole cinesi, serve solo a garantire i pochi grandi predatori che accumulano ricchezze a dismisura a danno dell'umanità. Le produzioni vanno dove è possibile lucrare sul minor costo del lavoro e, per questo, si fa sì che vi siano vaste aree di sottosviluppo, nonostante le risorse che apparentemente dovrebbero favorire la crescita di quelle aree. E' lo schiavismo in forma moderna e "caritatevole". E se qualcuno alza la testa, c'è sempre nel cassetto una guerra o un atto di intimidazione. Tale metodo, in maniera più subdola, riverbera i suoi effetti anche sulle cosiddette, una volta, società opulente. Il precariato elevato a sistema, la diminuzione delle protezioni sociali e dei diritti, le limitazioni di sovranità, le regolazioni sempre più asfissianti e quasi sempre volte a tutelare interessi lobbistici ed a favorire la standardizzazione, la compressione della sovranità

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SCENARI

popolare, la crescente sostituzione tecnologica del lavoro umano, l'erosione del potere d'acquisto di salariati e pensionati, la riduzione crescente delle libertà individuali attuata quasi sempre con la scusa di una vagheggiata maggior sicurezza, l'incremento pervasivo dei controlli e della sorveglianza, per strada, sui luoghi di lavori e persino tra le mura domestiche, l'aumento logaritmico dei divieti, dei regolamenti e delle leggi, le droghe che inebetiscono e l'intrattenimento che ruba il tempo e l'attenzione delle persone, costituiscono la rete oppressiva stesa sui popoli per avvilupparli e fiaccarli. Tutto questo, avvertito anche in maniera anche inconsapevole, ha determinato il brodo di coltura del successo di Donald Trump. Il popolo americano confida in lui perché incarna, oltre ad averla promessa, la discontinuità, l'estrema speranza che, arrivati ad un bivio della civiltà, si possa finalmente cambiare rotta. Dobbiamo tutti essere grati al popolo americano di averci almeno provato, di aver dato il "la", di aver tentato di battere una strada nuova. I fatti e gli atti del nuovo Presidente Usa ci diranno, nel tempo, se si è trattato solo di un abbaglio o la speranza può assumere forme concrete. I primi segnali sono confortanti, la squadra di governo comincia a delinearsi e, per ora, si tratta di persone di prim'ordine, esperte e determinate. La cartina di tornasole che ci fa comprendere che si tratta di buone scelte è il livore dei media che, non potendone disconoscere le capacità, li ha subito bollati come "falchi". Se Trump riuscirà a dare corpo alle sue idee potremmo assistere alla seconda rivoluzione americana i cui benefici effetti potrebbero propagarsi, ancora una volta, anche in Europa. audacia temeraria igiene spirituale Pierre Kadosh


TEMA DI COPERTINA

IL MISTERO TRUMP Donald Trump è diventato il 45° Presidente degli Stati uniti, smentendo i sondaggi e gli opinionisti più o meno accreditati, perché è stato capace di dar voce, e quindi di rappresentare, a una moltitudine di connazionali profondamente arrabbiati e spaventati per le conseguenze economiche e sociali prodotte dalla globalizzazione e dal ruolo centrale che nel nostro tempo ha assunto la finanza internazionale: perdita di posti di lavoro, impoverimento della classe media, ansia per il futuro dei propri figli. Lo ha fatto con un linguaggio diretto e spesso "violento" che ha rappresentato il sentimento di tantissimi americani, soprattutto bianchi ma non solo, che pensano esattamente quel che Trump ha detto a voce alta ma che quasi si vergognano delle loro opinioni certamente non "politicamente corrette". Una strategia vincente anche perché avere di fronte un avversario come la Clinton che rappresenta la quintessenza del potere, il simbolo di un establishment dominato da poteri forti e insensibili agli interessi del popolo. Trump non ha convinto la maggioranza dei suoi connazionali ma ha espugnato stati tradizionalmente democratici, ha fatto breccia in categorie che si pensava che non lo avrebbero sostenuto (donne, afroamericani, ispanici, tute blu…) e ha sovvertito ogni pronostico. Se avesse avuto di fronte un democratico come Sanders che si proclama apertamente socialista (sic!) ma che certo non può essere considerato un uomo della casta (per usare un'espressione nostrana) forse Trump non sarebbe diventato l'inquilino della Casa Bianca, ma di questa ipotesi mancherà sempre la conferma e non vale quindi la pena di esaminarla in modo approfondito. E' invece interessante e giusto chiedersi che cosa la elezione del tycoon determinerà concretamente nella politica statunitense ed in particolare nella politica estera della maggior potenza mondiale. Un po' per autoconsolarsi per la batosta subita, un po' perché per almeno 4 anni sarà Trump il presidente e quindi bisogna rassegnarsi e prendere atto del fatto compiuto, in molti hanno evocato Ronald Reagan, uno dei migliori presidenti degli ultimi decenni, anch'egli inizialmente visto come un estremista pericoloso dagli ambienti progressisti. Non credo ci siano molti punti di contatto tra i due; non solo perché il mondo è in questi anni profondamente cambiato e gli Usa non sono stati da meno, ma anche perché l'ex attore californiano era espressione di un blocco sociale e culturale che aveva nel partito repubblicano il punto di riferimento, mentre il magnate Trump è stato eletto vincendo in primo luogo la battaglia contro il suo (presunto) partito.

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Non è infatti un mistero che i maggiorenti del partito dell'elefantino lo abbiano considerato da subito un "impresentabile pericoloso", un bizzarro miliardario di cui occorreva liberarsi in tutta fretta e in ogni modo. Le cose non sono andate proprio così e oggi che il partito repubblicano controlla il Congresso e ha la maggioranza sia alla Camera che al Senato la prima cosa da chiedersi, per capire cosa Trump vorrà e soprattutto potrà fare come presidente, è quanti congressmen repubblicani sentiranno come un dovere sostenere il "loro" presidente e quanti lo faranno solo se convinti delle proposte avanzate dalla Casa Bianca. Solo il tempo fornirà una risposta ma molto dipenderà dalle scelte di Trump nella formazione della sua squadra. Le indiscrezioni fanno presumere che il Presidente sarà molto pragmatico e chiamerà al governo uomini (e donne) capaci, per autorevolezza e seguito personale, di orientare l'opinione dei parlamentari repubblicani a proposito delle decisioni della Casa Bianca. Ma se così sarà è evidente che a Trump sarà preclusa, o comunque molto impervia, la via indicata nella campagna elettorale a proposito di diritti civili e ruolo delle minoranze etniche e religiose. Il partito repubblicano tradizionale ha osteggiato Trump anche perché non ha nelle proprie aspirazioni quella di impedire l'aborto, vietare le unioni tra omossessuali, cacciare a calci nel sedere i migranti clandestini o considerare ogni musulmano un potenziale terrorista. Su queste tematiche i cambiamenti della amministrazione Trump rispetto a quella Obama non saranno certo rivoluzionari. E' invece prevedibile che su alcuni cavalli di battaglia dei repubblicani - meno tasse e più investimenti pubblici nelle infrastrutture, nel settore militare e in quello industriale - la discontinuità sarà più marcata eigiene non è detto che ciò sia di per sè un elemento negativo. La audacia temeraria spirituale reazione positiva delle borse ne è l'indiretta conferma. La vera incognita di quel che farà Trump è la politica estera. Se sul piano commerciale è certo che il presidente cercherà di arginare il libero mercato e di proteggere l'economia a stelle e strisce con misure più o meno protezionistiche, è nel rapporto tra Washington e gli altri players internazionali che oggi è davvero difficile fare previsioni. Se i rapporti tra USA e Russia, Cina, Medioriente cambieranno in modo sensibile, è evidente che noi europei ne subiremo le conseguenze, negative o positive che siano. E tutto sarà davvero diverso se Trump metterà in pratica l'intendimento di trasformare la Nato, chiedendo ai paesi europei di sopportarne la maggior parte dei costi. Una prospettiva che potrebbe finalmente convincere gli europei a "mettere in comune" la politica militare e di difesa, presupposto indispensabile per una politica estera europea che non sia solo un insieme di belle parole. Ma, al tempo stesso, una prospettiva che potrebbe rendere più deboli ed esposti ad attacchi terroristici tutti gli stati del vecchio continente. Gianfranco Fini


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A.A.A. STATISTI CERCASI GLI ANTEFATTI Dall'alba di mercoledì 9 novembre stiamo registrando un diluvio di: "Io l'avevo detto", insieme con gli immancabili balletti di coloro che, nel cambiare pensiero, sono più veloci dei meccanici di Formula 1 quando cambiano le ruote ai piloti. In realtà, su questo pianeta e dintorni, oltre i diretti interessati e i "tifosi", che non fanno testo, solo due persone avevano previsto la vittoria di Donald Trump: l'autore di questo articolo (sin dal 29 luglio, in virtù delle analisi e dei sondaggi effettuati autonomamente) e il regista Michael Moore. A risultato acquisito, tutti gli scienziati politici, analisti, giornalai… pardon… giornalisti, economisti, politici e politicanti, hanno consumato fiumi di inchiostro per spiegare il perché di un evento da loro stessi ritenuto "impossibile", in passato, con altrettanti fiumi di inchiostro. Il tema del mese di questo magazine è incentrato sull'analisi del voto negli USA. Avendo avuto la fortuna di nascere "postumo", proprio come il principale dei miei maestri, l'analisi l'ho effettuata con largo anticipo: a luglio nel blog personale galvanor.wordpress.com; in questo magazine, nel numero 48 (dalla home page raggiungibile cliccando sul link alla piattaforma issuu.com); sul "Secolo d'Italia", il 26 ottobre. Non posso fare altro, pertanto, che rimandare i cortesi lettori a quanto "già" scritto prima che le cose accadessero davvero: potrei solo ribadire, infatti, ogni parola. Approfitto dello spazio rimanente, pertanto, per considerazioni di stampo sociologico sugli scenari che si addensano all'orizzonte in virtù della svolta "storica" registrata negli USA, con particolare riferimento alla nostra cara Europa. LA LEZIONE AMERICANA Un vecchio adagio recita testualmente: "Chi non comprende gli scricchiolii della storia, prima o poi precipiterà nella voragine che da essi si formerà". A prescindere da tutte le complesse cause esposte negli articoli precedenti, il solo fatto che tanti americani avessero ritenuto possibile l'elezione di una donna alla presidenza, la dice lunga su come siano messi da quelle parti. Alain Friedman, che anche se in ritardo qualcosa l'ha capita, ha affermato candidamente che gli USA sono sostanzialmente un paese di scemi e ignoranti: da un lato per il marcato misoginismo e dall'altro per la mancata percezione di questo importante aspetto. Si fosse candidato Sanders al posto della Clinton, ora staremmo a parlare di tutt'altro. Ma così non è stato e quindi è di Trump che dobbiamo parlare. Ribadisco quanto di negativo ho già scritto di lui in passato, mettendo in luce i suoi limiti e le sue ombre. Ho anche scritto però, che è ora di

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finirla con "il male minore" e la sua elezione, pertanto, risulta benefica perché imporrà a noi europei, finalmente, di darci una mossa. Tutte le dichiarazioni post-elezione fanno chiaramente intendere che è incentrato sugli USA, se ne frega dell'Europa e la stessa Alleanza Atlantica va riconsiderata sulla scorta di nuove prospettive. Di conferire pratica attuazione al Trattato di liberalizzazione commerciale transatlantico, poi, non se ne parla proprio. Musica per le orecchie di un vecchio europeista come me. Ora dobbiamo davvero darci una mossa perché non possiamo contare su chi, da decenni, ci toglie molte castagne dal fuoco. (Stendiamo un velo pietoso sulle polpette avvelenate, invece, altrimenti trasformiamo questo articolo in un romanzo). E' arrivato il momento di crescere davvero e dimostrare quella maturità che serve ad affrancarsi per camminare con le proprie gambe. Basta, pertanto, con il politically correct, osservato anche da chi scrive, in ossequio a un presupposto di tolleranza nei confronti di coloro che sono in ritardo nella comprensione degli scricchiolii della storia, nella speranza (purtroppo vana) che prima o poi potessero "illuminarsi". Diciamo a chiare lettere, pertanto, che solo un'Europa Unita - veramente unita - può salvarsi dalla "voragine" di cui sopra. I saccenti nazionalisti di ogni latitudine, pieni di crassa prosopopea frammista a profonda ignoranza, sempre pronti a ritenere che il luogo in cui sono nati sia il più bello del mondo, è bene che si scrivano a caratteri cubitali la seguente massima, incollandola in ogni stanza della propria casa: "Nessun uomo ha colpe o meriti per dove nasce, ma solo colpe o meriti per come vive". Imparassero, pertanto, che il mondo non gira intorno a loro e, in molte circostanze, sentire qualcuno ritenersi "fiero" delle proprie radici territoriali, anche quando esse sono fradicie da secoli, fa venire il voltastomaco. "STATI UNITI D'EUROPA", signori cari: bere o affogare. DESTRA E SINISTRA La questione terminologica per definire l'appartenenza politica delle persone non è mai passata di moda e oggi ritorna prepotentemente alla ribalta, aumentando a dismisura la confusione che già regna sovrana da sempre. Un uomo definito di "destra", come Trump, vince con il sostegno dei poveri, degli sfruttati, degli arrabbiati, ossia classi sociali che, almeno sotto il profilo dell'immaginifico mediatico, dovrebbero vederlo come il fumo negli occhi, alla pari delle donne, che lui tratta come mero oggetto di piacere e che invece lo hanno sostenuto in massa. Una "democratica illuminata" (si fa per dire, ovviamente) come Clinton, è sostenuta dalle potenti lobby dell'alta finanza e delle multinazionali, dai ricchi di ogni ordine e grado che, sempre secondo l'immaginifico mediatico, dovrebbero costituire l'apparato portante di ogni politica destrorsa. E' appena il caso di ricordare che la Clinton ha speso dieci volte di più di quanto non abbia speso Trump. Stenio Solinas, in un articolo pubblicato su "Il Giornale" qualche giorno dopo le elezioni, si pone il problema concludendo che può divenire una "patologia" il continuare a definire di destra e di


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sinistra gli schieramenti in campo, basandosi su una dicotomia che non corrisponde più alla realtà, divisa, a suo giudizio, tra i teorici della globalizzazione e i loro critici. Non lo scrive chiaramente, ma sembra quasi volesse presagire la necessità di una radicale riconsiderazione della terminologia politica, per meglio adeguarla al fluire dei tempi. E' in buona compagnia sotto questo profilo. Non della mia, però. Ritengo, infatti, che tanti osservatori abbiano preso un grosso abbaglio. Non occorre cambiare un fico secco, ma prendere coscienza, finalmente, di cosa siano veramente la Destra e la Sinistra. L'errore è quello perseguito da sempre, in una dicotomia pasticciata, confusa e di difficile decantazione. Io sono un uomo di Destra e lo sono sempre stato. Non ho nulla a che vedere con Trump, ma tanto a che vedere con i suoi elettori, che sono nel mio cuore. Il vero problema, quindi, è comprendere "e far comprendere" che essere di Destra vuol dire, semplicemente, essere dalla parte del "Bene": del bene di tutti! Vi è un intero universo di "Destra", nel Pianeta. Ciò che manca, ancora, sono gli uomini giusti in grado di incarnarne le istanze, plasmandole in un contesto che le separi adeguatamente dalle contaminazioni negative rappresentate dal qualunquismo e dal populismo. Per essere più precisi, anzi, ben sapendo che rischio molto con quanto mi accingo a scrivere (ma come dicevo innanzi: basta con il politically correct), non è che manchino del tutto. Sono senz'altro pochi, certo, ma vi sono. In Italia, oggi, Gianfranco Fini, dopo aver commesso errori più grandi di una catena montuosa, ha raggiunto una maturità tale che gli consente di configurarsi a giusta causa come l'unico "leader" in grado di rappresentare degnamente una Destra moderna, sociale, europea. Io lo so e lo dico senza riserve. Quando lo capiranno anche altri, avremo fatto un bel passo avanti, almeno in questo Paese. Occorre affrettarsi però. E' inutile capirlo a voragine aperta. Lino Lavorgna

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LA DOCCIA FREDDA Per molti il verdetto delle urne è stato una doccia fredda e non lasceranno nulla di intentato per impedire che la volontà popolare - che conta poco agli occhi delle élite - segua il suo corso. Ci hanno provato prima delle elezioni dipingendo, per settimane, Trump come un razzista, misogeno, omofobo, islamofobo, intellettualofobo, latinofobo ed altre simili amenità. Questo elenco di “tare” avrebbe dovuto dissuadere gli elettori dal votarlo. Ma non è andata così. Ora che la vittoria di Donald Trump inizia ad essere metabolizzata, visto che il sole sorge ancora e che i mercati non sono crollati, inizia a serpeggiare il timore che il nuovo presidente americano potrebbe diventare il bersaglio di alcuni di quelli ai quali la sua elezione è andata di traverso: establishment e poteri finanziari in primis. Successe a Kennedy come a Reagan quando diedero fastidio alla finanza. Altri tre presidenti furono assassinati e ci provarono anche con Bush. E forse non è un caso che nello scorso giugno, a Las Vegas, fu arrestato un giovane inglese, Michael Steven Sandford, che aveva progettato, preventivamente, di far fuori Trump. Cinquanta accreditati esperti di sicurezza nazionale, tra i quali Tom Ridge e Michael Chertoff, ex segretari dell'Interno e John Negroponte, ex direttore dell'intelligence, hanno firmato una lettera aperta pubblicata dal New York Times mettendo nero su bianco che "Trump sarebbe un presidente pericoloso, che metterebbe a rischio la sicurezza e il benessere nazionale del Paese". Che sia un "pizzino" d'avvertimento? Tuttavia prima di arrivare a soluzioni drastiche c'è la possibilità che i poteri occulti tentino di accaparrarsi il favore dei grandi elettori - basterebbe “comprarsene” solo una cinquantina - per scongiurare l'insediamento del nuovo Presidente. Anche con l'eventuale aiuto di qualche nuovo scandalo gonfiato ad arte dalla collaudatissima "macchina del fango" mediatica. Ma Trump è scafato, sa essere guardingo e gli attributi non gli mancano. Gustavo Peri


POLITICA/L’INTERVISTA

MARCO TARCHI Nel Msi ha militato e al Msi, e alle sue vicende nell'Italia repubblicana, ha dedicato alcuni dei suoi libri (Esuli in patria. I fascisti nell'Italia repubblicana, Cinquanta anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo, Dal Msi ad An: organizzazione e strategie). Marco Tarchi, professore ordinario di Scienza politica, Comunicazione politica e Teoria politica presso l'Università di Firenze, aderisce al partito alla fine degli anni sessanta per poi venirne espulso nel 1981 in seguito ad un suo articolo satirico, apparso sulla Voce della Fogna, e ritenuto "non in linea" dalla direzione del Msi. Nel mezzo una militanza segnata dalla candidatura alla segretaria nazionale del Fdg nel 1977 (segreteria per la quale fu poi prescelto Fini) e dall'adesione alle idee della Nuova Destra. I suoi ricordi personali, la sua militanza e i suoi studi aiutano a ricostruire pagine importanti della storia missina. Il prossimo 26 dicembre saranno trascorsi settanta anni dalla nascita del Msi. Che cosa ha rappresentato questo partito nella storia repubblicana? Gli si possono riconoscere due contributi significativi: aver traghettato nell'Italia democratica del dopoguerra, pur fra molte contraddizioni e resipiscenze, un sostanzioso nucleo di fascisti che non erano disposti a rinnegare le scelte passate e ad accettare la visione che delle loro idee davano gli avversari vincitori e, in un secondo momento, aver accettato di accollarsi un'etichetta, quella di destra, che dal 1945 era diventata un tabù e uno strumento di stigmatizzazione. Va detto però che, svolgendo entrambe queste funzioni, il Msi ha dovuto riadattare, e in parte abbandonare, non poche delle premesse che ne avevano consentito la nascita, seminando sul proprio cammino molte delusioni. Comunemente il Msi è stato identificato come partito di destra. Ritiene corretta tale collocazione politica? In quanto erede dell'esperienza fascista, e soprattutto della sua incarnazione estrema nella Repubblica sociale italiana, il Msi non era destinato ad accettare una collocazione a destra. Ma, come spesso è stato notato, il fatto che la sua capacità di attrazione si sia sostanzialmente limitata fin dal 1946 ad un elettorato centro-meridionale, che dell'esperienza mussoliniana

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rimpiangeva quasi esclusivamente i tratti conservatori, lo ha ben presto spinto in quella direzione. In tal modo, tutti i tentativi di fargli cambiare rotta e di situarlo programmaticamente e nell'azione politica concreta veramente "al di là della destra e della sinistra" sono falliti. "Non rinnegare e non restaurare". Quello col fascismo rimane, fin dagli esordi, un rapporto irrisolto all'interno del partito? Sì, perché, se nel rapporto con l'elettorato fin dagli anni Cinquanta ciò che contava per raccogliere consensi era mostrarsi inflessibili nel binomio "legge e ordine" e nell'anticomunismo, per attrarre iscritti e militanti occorreva dichiararsi, soprattutto nel chiuso delle sedi, sempre e solo fascisti, peraltro senza mai spiegare - e capire - come quel richiamo identitario potesse essere attualizzato e speso nel presente senza scadere in nostalgie retoriche e per certi versi ridicole. Quel che più colpisce è che quel nodo non si è sciolto nemmeno a posteriori, e i nostalgici del Msi continuano a collocarlo in una rapporto di continuità ideale con il fascismo che le sue scelte avevano liquidato già negli anni Ottanta (malgrado la sconcertante commemorazione itinerante pubblica del centenario della nascita di Mussolini del 1983). Nel Msi hanno militato socializzatori, conservatori, monarchici e cattolici. Come è stato possibile tenere insieme tutte queste anime? È stato un "merito", se così si può dire, dei suoi avversari, che con la rigida chiusura nel ghetto e una demonizzazione a tratti strisciante e a volte, come dal 1968 in poi, più aperta, hanno consentito che si creasse, fra i missini, la sensazione di far parte di una comunità assediata e vilipesa in cui ci si doveva comunque trincerare - a prescindere dai dissensi ideologici e politici, frequenti ed evidenti - per resistere alla pressione psicologica dell'emarginazione. In condizioni diverse, quelle diversità avrebbero probabilmente prodotto ulteriori fratture e scissioni. Nella mostra sul Msi, in corso di svolgimento a Roma, è stato riproposto fedelmente l'ambiente tipico di una sezione del partito. Che aria si respirava nel partito e nelle sezioni? Dipende dai periodi. Nei quasi tredici anni in cui ci ho vissuto quasi quotidianamente (dall'autunno 1968 al gennaio 1981), l'atmosfera era quella di cittadelle assediate, dove si tessevano legami umani più o meno forti in funzione del riconoscimento reciproco, spesso orgoglioso, di una diversità che per molti ambienti esterni era sintomo di ogni nefandezza ma che all'interno veniva rivendicata come prova di coraggio e non conformismo. Insomma, in quelle sedi un microcosmo di "alieni" dal contesto della loro epoca celebrava i propri riti per rafforzarsi e sopravvivere al clima di forte ostilità circostante. Va detto però che quella sensazione era molto più viva fra i giovani, quasi tutti studenti, quotidianamente discriminati e non di rado fatti oggetto di minacce e violenze, che fra gli adulti, che bene o male si


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erano inseriti nella vita professionale e, salvo casi, sentivano meno le conseguenze dello stigma antifascista. Credo però che in epoche precedenti le cose fossero meno difficili, e che lo siano state ancora meno a partire dagli anni Ottanta, quando c'è stato uno scongelamento della situazione, grazie soprattutto all'era-Craxi. Lei ha aderito al Msi a cavallo tra la segreteria di Michelini, segnata dalla stagione dell'inserimento e culminata nell'appoggio al governo Tambroni, e il ritorno alla guida del partito di Almirante, quando il Msi viene progressivamente escluso dall'arco costituzionale. Come leggere queste due fasi nella storia del partito? Io ho vissuto da sedicenne, e per un brevissimo periodo, la segreteria Michelini. L'impressione che ne ho ricavato nella realtà fiorentina era di un pronunciato immobilismo: una federazione quasi vuota, in cui spesso si stava a lume di candela perché mancavano persino i soldi per pagare le bollette della luce. In quei mesi ho partecipato anche ad incontri nazionali della Giovane Italia, l'associazione degli studenti medi missina, constatando una forte fronda verso i vertici e un vuoto di idee e proposte molto pronunciato. L'elezione di Almirante e le sue prime iniziative hanno sicuramente galvanizzato l'ambiente e riportato, in breve tempo, un clima di fiducia che, dopo i primi successi elettorali del 1970-71, si è trasformato in entusiasmo e capacità di reclutamento. Ma per leggere queste fasi su un piano nazionale le esperienze personali contano poco. Ormai esiste una abbondante letteratura su di esse, a cui ho personalmente contribuito con tre libri: “Esuli in patria”, “Cinquant'anni di nostalgia” e “Dal Msi ad An”. Prima di me aveva aperto la strada all'analisi scientifica Piero Ignazi con “Il polo escluso”. Sono poi venuti altri contributi interessanti ai quali si può far riferimento. Giorgio Almirante viene considerato, unanimemente, il padre nobile del Msi. Lei che ricordo ne ha? Dipende dal livello a cui si può collocare la parola "ricordo". Umanamente, il personaggio aveva indiscutibilmente carisma e, malgrado una certa freddezza che forse copriva timidezza caratteriale o forse era dovuta alla volontà di conservare un senso della distanza utile a governare il partito, sapeva comunicare sensazioni forti a chi lo ascoltava. Politicamente, malgrado la fama di grande manovratore e tattico che lo accompagnava all'interno, non mi è mai parso uno stratega sopraffino e iniziò a deludermi molto presto, nel dicembre 1971, quando fece convergere i voti dei parlamentari missini sulla candidatura alla Presidenza della Repubblica di Giovanni Leone, traendo d'impaccio una Dc che pareva alle corde e sul punto di spaccarsi. Se avesse prevalso Moro, che veniva visto come l'uomo del compromesso storico con i comunisti, una quota più sostanziosa dell'elettorato democristiano avrebbe potuto riversarsi

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sulle liste missine. È probabile che, come allora si disse all'interno, in quell'ipotesi, Almirante prevedesse un inasprimento della "conventio ad excludendum" contro il Msi e un più precoce attacco della magistratura con propositi di scioglimento del partito. A me pare, tuttavia, che la scelta fosse miope. Così come, a mio avviso, lo sono state altre successive. Proprio Almirante, nel 1972, lancia l'idea della destra nazionale. Questa scelta, insieme alla successiva Costituente di destra per la libertà, anticipa in qualche modo la nascita di An? Sì, ma in un contesto che, anche per la ragione che ho poco fa accennato, era assai meno propizio a quella manovra. La Dc era ben salda in sella ed aveva ai vertici vari esponenti che potevano essere utilizzati per tamponare ogni rischio di emorragia a destra - come infatti accadde subito dopo le elezioni del 1972 con il governo bicolore Andreotti-Malagodi. Le due operazioni, specialmente la seconda, furono mal condotte e produssero il boomerang della scissione di Democrazia nazionale, che, ancor più del Msi-Dn, si incamminò sulla via che quasi vent'anni dopo, ma in ben diverse condizioni, sarebbe stata intrapresa da Alleanza nazionale. Anche il Movimento Sociale fu caratterizzato, al suo interno, dalle correnti che in taluni casi diedero vita a vere e proprie scissioni. Anche lei rimase, in qualche modo, vittima del correntismo nel momento in cui sembrava potesse diventare segretario del Fronte della gioventù. Che cosa accadde in quell'occasione? Niente di straordinario. Almirante non era certo persona disponibile ad affidare l'organizzazione giovanile del suo partito (che in quel momento, il 1977, godeva di discreta salute) all'esponente di una corrente diversa dalla sua, per giunta - come già sapeva - di carattere piuttosto indocile. Ci fu tuttavia, verso la metà di dicembre 1976, cioè poche settimane prima del congresso nazionale missino, un tentativo ufficiale, messo in atto dal presidente del partito Romualdi su mandato del segretario, di convincermi a presentarmi in congresso al di fuori di tutte le componenti interne. Se avessi accettato di fare una dichiarazione "super partes" sul palco il primo giorno del congresso, mi disse Romualdi, mi sarebbero state garantiti la cooptazione in Comitato centrale e in Direzione nazionale (dove arrivai poi comunque, eletto nella lista rautiana "Spazio nuovo"), la segreteria nazionale del Fronte della gioventù e, alla prima occasione elettorale, un posto eleggibile (il sesto, se ricordo bene) nella circoscrizione laziale. Ammesso che le promesse fossero poi mantenute, anche se la proposta mi fece una forte impressione, non era quella la via che intendevo percorrere: ero così ambizioso da pensare che, col tempo, al vertice giovanile ci sarei arrivato con le mie idee e con le mie esplicite appartenenze ideologiche. Così ringraziai sentitamente e rifiutai. A quel punto era chiaro che Fini sarebbe stato


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comunque imposto alla testa del Fronte della gioventù nella Assemblea nazionale giovanile prevista per il giugno successivo. Rauti cercò di convincermi a non presentare la candidatura mia e di altri amici (si votavano fino a tre nomi), perché aveva già fatto un accordo con Almirante. Ma io tenni duro. Sapevo di essere il più popolare fra i dirigenti del Fdg e, malgrado il mio capocorrente avesse ordinato a una trentina di suoi seguaci che avevano diritto al voto di non partecipare (e così fu), arrivai primo. Fini solo quinto, e Almirante, che la prese malissimo, fece una scenata al momento della proclamazione e da quel momento in poi me la giurò. Dovette imporlo con una scelta personale, peraltro scontata. Lei, all'interno del partito, era un esponente della Nuova Destra. Che cosa ha rappresentato quell'esperienza che aveva nei Campi Hobbit momenti di incontro e confronto? Per la verità, io ero il principale esponente giovanile della corrente rautiana, anche se dal 1973 mi impegnavo, con altri amici, a diffondere in Italia le idee della cosiddetta Nouvelle Droite francese e ad adattarle, con vari apporti critici, alla situazione del nostro paese. E i Campi Hobbit, come ho cercato di documentare nel libro “La rivoluzione impossibile”, furono un'idea di un esponente della corrente, Generoso Simeone, a cui collaborammo in molti. Nell'esperienza del terzo campo, quello del 1980, si realizzò di fatto una sinergia fra le sensibilità rautiana e della Nuova Destra, che erano già in parte divergenti. Si trattò del tentativo di far evolvere un ambiente che ancora restava troppo ancorato al passato verso un incontro-scontro aperto con la modernità. In questo senso il terreno venne preparato soprattutto da una pubblicazione politico-satirica di cui ero animatore e che ebbe un successo enorme, in relazione all'ambiente, e inatteso, seminando un diverso modo di porsi di fronte al proprio tempo nei nove anni di pubblicazioni (dicembre 1974-dicembre 1983). Va detto che, se a molti piacque, la proposta metapolitica della Nuova Destra in molti altri suscitò diffidenze e timori di "infedeltà alla linea", il che portò poi a incomprensioni e rotture, culminate in scelte molto diverse. In che modo le idee di Pino Rauti influenzarono culturalmente il mondo giovanile missino? Certamente stimolarono l'attenzione per tematiche in precedenza trascurate, perché attorno a Rauti si formò un gruppo di persone, soprattutto giovani, che volevano esprimere le proprie idee in campi che il partito disertava e verso i quali non mostrava pressoché alcun interesse: ecologia, musica, teatro, cinema, letteratura, costume… L'idea di "sfondare a sinistra", cioè di cercare di trovare consensi in ambienti attratti dal mito del cambiamento rivoluzionario ma delusi da ciò che allora veniva chiamato imborghesimento del Pci e dal velleitarismo dell'ultrasinistra, anche se non produsse molti frutti concreti, contribuì anch'essa allo svecchiamento, sia pur parziale, di quel mondo giovanile, che ne aveva un gran bisogno.

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L'appartenenza alla Nuova Destra fu alla base della sua espulsione dal partito? Non direttamente. Credo che le idee della Nuova Destra, per quel poco che erano conosciute da dirigenti del partito, suscitassero in loro più stupore e incomprensione che altro. Tuttavia, quando del fenomeno Nouvelle Droite si iniziò a parlare diffusamente sulla stampa italiana, Almirante fiutò la possibilità di appropriarsi della sua immagine per dare una vernice di rispettabilità culturale al Msi. Fu così che invitò Alain de Benoist a parlare al congresso nazionale missino dell'ottobre 1979 a Napoli. Maurizio Cabona, Stenio Solinas ed il sottoscritto, che avevamo intuito la strumentalità dell'apertura di credito e il rischio che si trasformasse in un boomerang per la Nuova Destra ridotta a espediente della strategia di un partito neofascista e quindi ricacciata nel ghetto da cui intendeva uscire - riuscirono, tuttavia, a convincere de Benoist a non venire. E il paradosso è che lo facemmo telefonandogli dal centro stampa del congresso, situato proprio sotto il palco… Per tornare al cuore della domanda: come ho detto Almirante me l'aveva giurata fin dall'episodio dell'Assemblea nazionale giovanile e i suoi sodali erano insofferenti delle critiche che, negli organi centrali del partito, frequentemente rivolgevo alla loro corrente (spesso trovando dissenso in Rauti, che teneva ad avere buoni rapporti con il segretario). Trovato il pretesto di una pagina satirica de "La voce della fogna", lo utilizzarono per eliminarmi. Partito dalle mani pulite e fuori dall'arco costituzionale. Furono solo queste credenziali a determinare l'exploit del Msi alle amministrative del 1993? Essenzialmente sì, e non era poco cosa, nel momento in cui un'intera classe politica veniva additata al pubblico ludibrio e si disfaceva. Ma, ovviamente, quei due ingredienti funzionarono solo perché nell'occhio del ciclone si trovò la Democrazia cristiana, la cui crisi, auspice il drastico calo della paura del comunismo susseguente al fatidico 1989, spinse molti suoi elettori da sempre conservatori a trovare il coraggio di esprimersi per la prima volta in linea con le proprie convinzioni, senza prestarsi al consueto ricatto della paura di indebolire la "diga" dello scudo crociato. Ritiene, che nel 1995, all'atto del suo scioglimento, il Msi avesse esaurito la sua funzione storica e politica? Dipende da come si interpreta la sua possibile funzione in quel frangente. Avrebbe potuto scegliere altre vie, ad esempio trasformarsi in un partito populista seguendo l'esempio del Front National, che a quei tempi conquistava comuni di una certa importanza e avvicinava il 15% dei voti. Ma ciò lo avrebbe costretto a ribadire una vocazione all'opposizione che stava stretta alla sua classe dirigente di vertice e intermedia che, dopo aver assaggiato il dolce sapore del governo e


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del sottogoverno, aveva irrobustito l'appetito di cariche ed onori (per non parlare delle connesse prebende). Di certo non poteva rimanere il partito del "fascismo del 2000" vagheggiato da Fini nel congresso di otto anni prima in cui era riuscito a sconfiggere Rauti nella corsa alla segreteria, accusandolo con toni scandalizzati di voler cambiare nome e simbolo (ironie della cronaca, più che della storia). Vista l'alleanza con Berlusconi e il defilarsi di Bossi, il passaggio ad una formazione moderata, corredato da un timido maquillage ideologico, era la scelta più ovvia. Gianfranco Fini verrà ricordato come il liquidatore di una storia gloriosa o piuttosto come colui che ha portato la destra al governo? Questo non sta a me dirlo, ma a coloro che vorranno ricordarlo. Giuseppe Farese

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IL PARADIGMA TRUMPIANO La vittoria a valanga di Donald Trump insegna qualcosa alla politica europea, quindi anche a quella italiana. Tuttavia, se le sinistre possono consentirsi il lusso di snobbare il messaggio che giunge da oltreoceano, lo stesso non possono, almeno non dovrebbero, fare le destre. È pur vero che le situazioni locali non sono mai perfettamente replicabili. Esiste uno "specifico" americano che non permette di concludere che una "soluzione Trump" possa essere riproposta tal quale anche dalle nostre parti. A voler essere precisi, ciò che è accaduto negli "States" e che si è plasticamente reso visibile con il voto dello scorso 8 novembre è che ai modelli tradizionali di articolazione dell'offerta politica a destra se n'è aggiunto uno nuovo del tutto originale che potremmo definire "il paradigma trumpiano". Nelle società dell'Occidente avanzato, al fianco dei partiti vocati alla piena accettazione della declinazione ultima del capitalismo finanziario e globale quale soggetto agente della Storia, sono sorti movimenti politici che hanno rivalutato l'attitudine protezionistica dello Stato-nazione quale fattore di riequilibrio della giustizia sociale all'interno delle comunità statuali. La novità rispetto al Novecento è che, superata la categoria dicotomica "destra-sinistra" ma non quella della coppia alternativa "amico-nemico", questi movimenti, depurati da fattori ideologici condizionanti, siano sorti e abbiano prodotto consenso in entrambi i campi della politica tradizionale: a destra come a sinistra. Caduta la pregiudiziale della discriminante marxista della lotta di classe, la difesa delle istanze dei meno abbienti non è stata più materia esclusiva della sinistra ma ha trovato spazio anche dalla parte opposta sotto la voce, generica ma evocativa, di neo-populismi. Ciò ha determinato che nella medesima area politica si sviluppassero forze solo apparentemente compatibili ma, nella sostanza, profondamente diverse e contrastanti. Il caso della Francia è emblematico. Lì la Destra è divisa in due parti che si combattono senza possibilità di fare sintesi unitaria: i repubblicani gollisti contro il Front National. Come in Francia, in quasi tutta Europa si è riprodotta la medesima spaccatura del campo politico della destra. Soltanto in Italia, dal 1994, si è verificata la cosiddetta "anomalia" berlusconiana che è consistita nel tentativo di tenere insieme, nell'ambito di una coalizione unitaria, entrambe le anime di quella destra altrove divisa. Oggi, tuttavia, la via italiana all'unità del centrodestra appare in bilico. Dall'agenda politica emergono quotidianamente problemi che rimandano all'assunzione di decisioni nette e indifferibili per la soluzione delle quali la ricerca del compromesso tra linee contrapposte appare


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assai improbabile da praticare. Come, ad esempio, il caso della collocazione europea delle componenti del centrodestra. Dall'esame del quadro complessivo si evince che, mentre la Lega è strutturalmente aggregata alle forze dell'estrema destra che fanno riferimento alla figura carismatica di Marine Le Pen, Fratelli d'Italia non esprime una posizione chiara giocando sul fatto di non avere propri rappresentanti eletti al Parlamento europeo ai quali dare specifiche indicazioni in ordine all'iscrizione ai gruppi parlamentari costituiti. La giovane formazione politica dei Conservatori e Riformisti di Raffaele Fitto, invece, una collocazione c'è là ed è quella dei Conservatori. Fitto, in tempi non sospetti, abbandonando Forza Italia al suo destino, ha compiuto una scelta identitaria ben definita e politicamente lungimirante. Il leader pugliese ha puntato, attraverso il marchio vincente del "leone", a replicare in Italia un esperimento riuscito in buona parte d'Europa: occupare uno spazio politico di aggregazione di un mondo conservatore, saldamente ancorato a destra, che nella storia repubblicana italiana non ha mai avuto rappresentanza partitica organizzata. L'anello debole della catena è la collocazione di Forza Italia. Com'è noto la tedesca Angela Merkel, bersaglio principale delle accuse leghiste sulle responsabilità dei mali italiani indotti da una politica ostile di una Ue egemonizzata dalla Germania, è la leader della Cdu, che è magna pars della compagine dei popolari europei, gruppo al quale aderiscono gli europarlamentari di Forza Italia. Matteo Salvini insiste nella richiesta, dirimente ai fini della riedizione della coalizione, di una scelta di campo netta di tutte le sue componenti: "o con noi o con la Merkel". Sarà, pertanto, molto improbabile che una nuova compagine unita possa tollerare al proprio interno la presenza di partiti a cui sia consentita intelligenza con il principale nemico. Ne consegue che il collasso del centrodestra, che sfoci in una spaccatura definitiva in due tronconi fortemente confliggenti tra loro, spedisca definitivamente in archivio quell'"anomalia berlusconiana" che, nel bene e nel male, ha rappresentato, in conseguenza dell'avvento del bipolarismo, il fattore innovante della scena politica nella cosiddetta "Seconda Repubblica". Con l'esperienza americana ha preso corpo una possibile "terza via" per il riscatto politico della destra. L'ho definita: "paradigma trumpiano". In cosa consiste? Nella possibilità di scalare dall'interno le obsolete strutture partitiche della destra tradizionale per poi spingerle verso rotte antitetiche a quelle perseguite finora e risultate sostanzialmente nocive per gli interessi della maggioranza dei popoli governati. L'aspetto saliente dell'impresa trumpiana, di là dalla vittoria sull'establishment totalmente incarnato nella personalità politica e umana di Hillary Clinton, è stata la sconfitta della classe dirigente del Gop, il Partito Repubblicano negli Usa. Non è un mistero che tutti o quasi i suoi maggiori esponenti abbiano remato contro l'ascesa di Trump. Non soltanto alle primarie, dove i loro candidati prediletti sono stati sbaragliati l'uno dopo l'altro, come birilli di un bowling, dal tycoon newyorkese. Anche in pieno svolgimento della corsa per la presidenza si sono sprecati gli appelli da destra a

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ignorare Trump e a concentrarsi esclusivamente sull'elezione dei propri rappresentanti locali al Congresso. Nessuno aiuto prestato nell'indirizzare organi di stampa o media televisivi di una qualche importanza al sostegno del candidato solo formalmente "repubblicano". il messaggio era: questa mano è della Clinton, tra quattro anni ne riparleremo. Invece, Trump, strappando voto su voto ha scalato la vetta. Più lui saliva, più la vecchia guardia del Gop sprofondava sotto la sua stessa incapacità a interpretare il proprio elettorato che si metteva in fila per andare dietro al nuovo datore di speranza: "The Donald". Già durante la storica notte della galoppata trionfale verso la Casa Bianca i bolsi leader repubblicani dovevano recarsi in processione, col capo cosparso di cenere, a omaggiare il vincitore invocando il di lui perdono e la grazia per essere risparmiati dalla giusta punizione che tocca agli sconfitti. Ora, come si comporterà il neo-presidente con il suo partito è affare che non tocca gli europei. Ciò che rileva nel nostro ragionamento è il precedente determinato si lo scorso 8 novembre, che non può essere definito in assoluto originale perché vi è stato in Europa un fenomeno parzialmente analogo, totalmente sottovalutato dagli analisti. Ci riferiamo a un aspetto poco studiato della Brexit. Anche in quell'occasione si era registrato, in fase elettorale, un ribaltamento delle posizioni espresse dal leader dei Conservatori britannici, David Cameron, che era apertamente schierato per il "remain" nell'Ue, mentre una parte del suo partito si era espressa per il "leave", cioè per l'uscita dall'Unione. La vittoria di quest'ultima decretò di fatto la fine politica del premier Cameron che di lì a poco si sarebbe dimesso dall'incarico di primo ministro. Se vi fosse stata maggiore attenzione alla realtà e minore innamoramento per le proprie fruste tesi, i commentatori politici avrebbero scorto in quell'episodio i prodromi di una rivolta che si è poi consumata sull'altra sponda dell'Atlantico. Il blocco sociale della middle class, dei cosiddetti ceti medi tradizionali, vera grande vittima dei processi della globalizzazione di questi anni, si è ribellata alla deriva imposta dagli interessi delle élite della finanza transnazionale cercando nuove guide e nuove parole d'ordine nelle quali riconoscersi. Trump lo ha compreso per tempo e con invidiabile acume si è posto come punto di riferimento dello scontento promettendo un processo di rimozione delle élite non attraverso una rottura traumatica condotta dall'esterno, come nel caso di una sincope rivoluzionaria, ma penetrando dall'interno una realtà complessa - il partito repubblicano - per riplasmarla sulla base di un credo più aderente alle aspettative del suo stesso corpo elettorale. In concreto, si potrebbe dire che Trump, constatata l'impossibilità congenita della struttura di partito a leggere i nuovi bisogni della popolazione, abbia provveduto lui a trascinare quei contenuti all'interno dell'organizzazione occupandone manu militari gli spazi vuoti. In una battuta: non è il Partito Repubblicano che è andato dal popolo ma è il popolo che si è preso, tramite "The Donald", il Partito Repubblicano. È questo fenomeno di crossing over negli indirizzi programmatici della politica che si estende a


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toccare una visione stagliata del mondo e del futuro dell'umanità, che io chiamo "Paradigma trumpiano". Ora, la domanda è: quanto dell'esperienza americana potrà essere riprodotta con successo nel Vecchio Continente? Se accadrà non sarà con le medesime modalità attraverso le quali ha preso forma e si è realizzata la cosiddetta "terza via" per le destre occidentali. Cionondimeno sarà possibile registrare una sincope rivoluzionaria del vecchio ordine garantito dal patto di potere della Grosse Koalition che ha unito in un amalgama di interessi e di visioni di corto raggio le due grandi famiglie della cultura politica europea: quella socialista e quella popolare. Il primo banco di prova è in Austria il prossimo 4 dicembre. Lì si ritorna alle urne per il voto di ballottaggio per scegliere il prossimi presidente della repubblica. la sfida è tra un rappresentante dei verdi e uno dell'estrema destra. La vittoria di quest'ultimo potrebbe segnare l'inizio della fase di riconversione delle politiche europee alle istanze più propriamente identitarie e sovraniste che incrociano l'onda del neo-populismo. Nel 2017 toccherà, in sequenza all'Olanda, alla Francia e alla Germania di scegliere i propri governanti. Sarà dunque il prossimo anno a dirci se l'onda montata negli Stati Uniti si abbatterà con successo sulle coste europee. E allora la Storia dell'Occidente cambierà verso. Cristofaro Sola

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LA VITTORIA DI TRUMP SPIANA LA STRADA AL NO All’indomani della vittoria di Trump, inaspettata solo per chi si ostina a leggere la società attraverso la lente deformata dei media, ci sono due domande che incombono più di altre. La prima è: che America, e dunque che mondo, sarà? E la seconda è: il voto americano che conseguenze produce sulle scelte di casa nostra, a cominciare dal prossimo referendum? Dare una risposta al primo quesito è difficile, per il semplice motivo che abbiamo conosciuto il Trump della campagna elettorale ma non conosciamo per nulla il Trump della Casa Bianca. Quello comiziante non ci piaceva, ma non per questo abbiamo mancato di vedere, non essendo accecati dal "politicamente corretto", tutti i motivi per cui avesse più probabilità di indossare i panni del vincitore che quelli del perdente. Ora, l'esordio, con quel discorso così perfetto proprio perché opposto ai toni dei comizi, è stato molto tranquillizzante, e comunque la democrazia americana è forte proprio perché le sue istituzioni hanno la capacità di assorbire le forzature dei leader. Ma, certo, rimane la domanda su come si possa passare dai registri populisti ed estremisti della campagna elettorale, necessari a convincere quanti più potenziali astenuti ad andare alle urne, a quelli di un sano pragmatismo di governo. Noi, con i grillini e affini (De Magistris, per esempio) che hanno conquistato alcune città, ne sappiamo qualcosa. E temiamo che questo sia il nodo che rischia di strangolare tutte le democrazie occidentali. Nelle cui viscere si è generato un malcontento che discende, a torto o a ragione, dalla percezione di impoverimento, o dalla paura di esserne vittime, che deriva dalla competizione che nel mondo globalizzato viene soprattutto dai paesi "ademocratici", che godono del vantaggio di meccanismi decisionali rapidi. Malcontento che alimenta il rifiuto della politica e l'astensione dal voto, fenomeno che a sua volta mette in condizione di vincere le elezioni chi agita le parole d'ordine dell'anti-politica e usa toni estremisti che fanno leva sulle paure dei cittadini, molto più di chi si presenta come moderato e converge verso il centro nel tentativo di conquistare potenziali voti altrui. Per questo più che vincere Trump ha perso Hillary Clinton. I nostri lettori con i capelli bianchi ricorderanno che negli anni Settanta un intellettuale di cui oggi si è perso lo stampo, Alberto Ronchey, parlava di "rivoluzione delle aspettative crescenti", che più tardi finì per descrivere come una vera e propria "schiavitù". Pescò dal pensiero di Alexis de Tocqueville, che formulò la teoria delle "aspettative crescenti" nel 1856, studiando la rivoluzione francese, dopo aver pubblicato anni prima la monumentale opera


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"La democrazia in America", tuttora un caposaldo della cultura liberale più autentica. Egli affermava che una rivoluzione esplode non quando la situazione economica è drammatica, bensì quando migliora ma in misura non sufficiente da soddisfare le aspettative della popolazione. Insomma, tanto più è grande la differenza tra aspettative (illusioni) e realtà (disillusioni), tanto più probabile sarà la rivoluzione. Che ai giorni nostri, nell'alveo della democrazia rappresentativa, prende le sembianze del consenso ai populisti che senza freni fanno leva sulle caduta delle aspettative. E non c'è dubbio, come dimostra il voto americano ma come ha dimostrato la Brexit e la crisi in Europa e dell'Europa, che oggi siamo entrati in una stagione che Ronchey non esiterebbe a definire delle "aspettative decrescenti", e che a queste occorre trovare le giuste risposte. Di qui all'Italia il passo è breve. Noi siamo nel pieno di questa stagione regressiva, e la vicenda del referendum - e a monte delle riforme istituzionali come risposta alle attese della società dimostra che non ne abbiamo capito né i termini né la portata. Anche perché, per colpe tutte e solo interne, noi abbiamo aggiunto alle inquietudini che attraversano società ben più ricche della nostra il portato di un declino strutturale e di una recessione senza eguali altrove, che moltiplica gli effetti dei problemi globali. Per questo è probabile che al referendum vinca il No, così come che ad elezioni politiche prevalgano forze radical-populiste (5stelle e Lega), perché nell'uno come nell'altro caso è la casta il soggetto da battere. Ma attenzione: nel referendum la sconfitta dei promotori delle riforme (malfatte) e della consultazione assurdamente concepita come giudizio epocale su Renzi e il suo governo, audacia è il prezzotemeraria da pagare proprio evitare che al voto elettivo moderati e riformisti si igieneper spirituale facciano la guerra a tutto vantaggio dei populisti. Mentre nel caso di elezioni politiche la vittoria dei grillini, magari aiutati dai lepenisti di Salvini (e forse della Meloni), avrebbe un effetto disastroso. Nel caso di Trump, almeno, abbiamo il beneficio del dubbio su come si comporterà peraltro a fronte della certezza di come si sarebbe comportata la Clinton, esponente del peggior establishment che gli Stati Uniti abbiano mai prodotto - mentre nel caso di Grillo possiamo avere, aiutati nel giudizio anche dallo spettacolo indecoroso e pericoloso dell'amministrazione Raggi a Roma, solo delle certezze, ahinoi. Tra l'altro, la vittoria di Trump aiuta il No. Sia perché lo sdogana, sotto il profilo psicologico, presso coloro, e non sono pochi, che finora si sono vergognati al solo pensiero di avere voglia di dire di No. E sia perché con la reazione dei mercati cui abbiamo assistito - che in poche ore non solo hanno assorbito la sorpresa, ma si sono sintonizzati sulla nuova realtà del potere Usa, premiandola con clamorosi rialzi delle Borse tali da spingere Wall Street ai massimi storici - cade una delle meno vere ma più diffuse e sentite (specie nella borghesia affluente) argomentazioni pro Sì. E cioè la paura che una bocciatura della riforma costituzionale possa produrre chissà quali drammatiche conseguenze sui mercati finanziari. Se non è successo con un cataclisma politico di valenza globale come l'elezione di Trump, figuriamoci se avviene per un passaggio ininfluente della vicenda politica dell'ininfluente (sul piano internazionale) Italia.

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Ma tutto questo è comunque relativamente marginale. Ciò che più conta è che una larga fetta di italiani veda in Renzi quei tratti di cattivo establishment, autoreferenziale e bugiardo, che gli americani hanno visto in Hillary. Con la differenza che la famiglia Clinton quel titolo se l'è conquistato con un paio di decenni di potere, pervasivo e spesso assoluto, mentre il giovane Matteo a farsi crocifiggere ci arriva quarantenne, dopo soli tre anni a palazzo Chigi e per di più essendosi affermato a colpi di slogan sulla rottamazione e sulla rivoluzione generazionale. Un po' se ne rende conto, Matteo, ma sbaglia antidoto: cavalca il populismo - basti sentire le parole d'ordine usate in questa interminabile campagna referendaria, tutte grondanti anti-politica - nella speranza di recuperare i consensi che Grillo gli porta via (come li porta via al centro-destra). Ma è una pia illusione: la gente non è stupida, e tra la copia e l'originale sceglie sempre il primigenio. "L'establishment populista non può esistere, è una contraddizione in termini", ha felicemente sintetizzato Stefano Folli. Renzi, invece, dovrebbe invece impratichirsi con tre verbi: ascoltare, studiare, ragionare. Voi ci credete? Noi No. Ma saremmo felici di essere smentiti. Enrico Cisnetto* *da terzarepubblica.it, per gentile concessione


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UNA RIFORMA CHE TRADISCE I SUOI OBIETTIVI

La riforma Boschi della Costituzione ha visto singolarmente il Governo assoluto protagonista, marginalizzando di fatto la normale dialettica parlamentare che è propria di ogni riforma costituzionale, non foss'altro perché solo il Parlamento nel nostro sistema è eletto dal popolo. Si è arrivati così a chiedere e ottenere addirittura la sostituzione in commissione Affari costituzionali dei membri del Pd dissenzienti e ad approvare la legge ignorando le obiezioni dell'opposizione, contando piuttosto sul voto decisivo di circa 150 parlamentari eletti proprio nelle file dell'opposizione e passati con la maggioranza. Obiettivo del Governo era dunque quello di arrivare al referendum popolare per farsi legittimare e incoronare puntando sulla facile presa di due argomenti demagogici ben riassunti nel titolo stesso del quesito referendario, che suona pressappoco: vuoi tu tagliare i costi delle istituzioni e ridurre il numero dei parlamentari? Se il gioco di Renzi è chiaro, più serie sono alcune osservazioni a sostegno del SI, fatte da studiosi e politologi, da ultimo Angelo Panebianco sul Corriere. Va detto a onor del vero che la gran parte dei costituzionalisti, ed ex giudici della Corte costituzionale, ancorché di diverso orientamento politico, si è espressa in modo fortemente critico nei confronti di questa legge, lamentandone le numerose incongruenze. Vediamo di riassumere le valutazioni positive. Si dice in sostanza: 1) c'è bisogno di modernizzare un sistema pensato all'indomani del fascismo che prevedeva un esecutivo debole, concedendo molte garanzie e consentendo però poca governabilità; 2) c'è necessità di rendere più rapidi i tempi di approvazione delle leggi; 3) è necessario assimilare il nostro ordinamento a quello della gran parte dei Paesi europei che hanno un bicameralismo imperfetto, dal momento che il bicameralismo perfetto non esisterebbe in nessun altro Paese al mondo. Dirò subito che la terza obiezione è inconsistente, innanzitutto perché un bicameralismo che richiede il consenso di entrambe le Camere, pur ciascuno con le sue peculiarità, esiste in due grandi democrazie, Stati Uniti e Svizzera. Semmai una modesta differenziazione delle competenze contemplata nel sistema americano fa sì che solo il Senato si debba esprimere sulla ratifica dei trattati, proprio il tema che invece nella costituzione Boschi rimane singolarmente nella competenza concorrente di entrambe le Camere, per quanto almeno concerne i trattati europei. Tralasciamo pure il fatto che in Europa vi sono comunque altri Paesi con un sistema simile a quello che si vuole abolire. La principale obiezione a chi indica ad esempio il modello tedesco o spagnolo e più in generale quello con due camere dotate di diverse funzioni, sta nel fatto che in quegli ordinamenti la

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Camera alta o Senato rappresenta i territori all'interno di un sistema autenticamente federale. Insomma è necessaria quella articolazione perché di fronte allo Stato ci sono "Regioni" forti. Qui invece le competenze delle Regioni vengono quasi azzerate, ridotte a enti, di fatto, meramente amministrativi, come le province di una volta, mentre il Senato mantiene su alcuni punti decisivi (riforme costituzionali, ratifica dei trattati, attuazione delle norme comunitarie, nomina componenti della Corte costituzionale e del Csm, leggi su regioni ed enti locali etc.) le stesse identiche competenze della Camera. Insomma non ha alcun senso mantenere questo Senato a cui viene oltretutto affidata una marea di compiti di studio, proposta, verifica, valutazione, che sono peraltro incompatibili con il ruolo di sindaci e consiglieri regionali dei suoi componenti e che richiederà pertanto la assunzione di nuovo e costoso personale tecnico. Il nuovo ruolo del Senato come "ente di raccordo fra lo Stato e le Regioni" si scontra poi con quello della Conferenza Stato-Regioni, senza che venga disposta alcuna composizione di potenziali conflitti. Dunque se si trattava di assimilare il nostro sistema a quello di altri Paesi europei si è scelta la strada peggiore. Veniamo alle altre due obiezioni che sono più significative. Se il nostro sistema prevedeva governi deboli nelle mani del Parlamento così non è più da almeno 20 anni, cioè dalla riforma in senso maggioritario del sistema elettorale. La tendenza al rafforzamento dell'esecutivo si è accentuata nelle ultime legislature. Basti considerare: 1) la differenza enorme fra i tempi di approvazione dei progetti di legge governativi e quelli parlamentari: i primi impiegano ormai in media poco più di 100 giorni, da due a tre volte tanto i pochissimi provvedimenti di origine parlamentare; 2) l'80% delle leggi sono di origine governativa; 3) dei circa 87.000 emendamenti presentati dai parlamentari alla Camera soltanto il 5.42% ha successo, dei 161.000 presentati al Senato solo l'1.25% viene approvato: paradossalmente il Senato si conferma dunque più "collaborativo" con il Governo della Camera; 4) nei primi due anni del governo Renzi, se si escludono le ratifiche di trattati internazionali, oltre il 50% delle leggi sono state approvate ricorrendo al voto di fiducia, il cui utilizzo è aumentato vertiginosamente negli ultimi 20 anni, raggiungendo cifre record con i governi Monti e Renzi; 5) negli ultimi 20 anni è letteralmente esploso il ricorso ai decreti legge, che insieme con la fiducia strozzano il dibattito parlamentare: ben 48 decreti legge nei primi due anni di governo Renzi; 6) a partire dalla legislatura XIII sono aumentate a dismisura le leggi delegate al Governo, che diventa così lui stesso legislatore. Questo fenomeno è iniziato successivamente alla riforma del 1993 della legge elettorale. Nel contempo i tempi di approvazione delle leggi, a partire dalla legislatura 2001-2006 si sono ridotti di quasi la metà e addirittura di quasi due terzi nelle legislature successive, il che sta a significare ancora una volta che non è il sistema bicamerale a creare difficoltà al Governo. Ciò è dimostrato definitivamente da un altro dato: nella legislatura 2001-2006 (governo Berlusconi), caratterizzata da una forte coesione fra le forze di maggioranza, vennero approvati ben 3/4 dei disegni di legge di iniziativa governativa, contro neanche la metà della legislatura 1996-2001 (governi Prodi-D'Alema- Amato) e addirittura contro un terzo della legislatura 2006-


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2008 (governo Prodi), legislature caratterizzate da forti conflitti politici interni alla maggioranza. La governabilità non dipende dunque dal sistema bicamerale perfetto, ma dai rapporti politici interni alla maggioranza: per converso spaccature paralizzanti si possono replicare anche all'interno di una sola Camera, come pure a livello di Governo quando si tratti di Governi formati da coalizioni eterogenee. Non è un caso che proprio la Spagna, che ha un sistema bicamerale imperfetto, sia ora nel caos politico, mentre la Germania si regge sull'equilibrio precario di una coalizione fra Cdu ed Spd, sempre più in crisi per l'avanzata del partito di destra AfD. E qui veniamo al punto decisivo: è veramente necessario accorciare ulteriormente i tempi di approvazione delle leggi? Abbiamo bisogno di più leggi? Da 40 anni ci si lamenta piuttosto che nel nostro Paese si approvano troppe leggi e si lamenta nel contempo la qualità sempre più scadente di queste leggi. Nel nostro Paese vengono approvate 3 volte le leggi approvate in Spagna e Gran Bretagna, il doppio di quelle approvate in Francia. Meno leggi, ma scritte meglio, dovrebbe essere piuttosto l'obiettivo. L'impressione è che la riforma punti a trasformare la Camera in un "votificio" sempre più al servizio del Governo. Anche ammesso in ogni caso che il superamento della competenza paritaria fra Camera e Senato sia un obiettivo necessario, la riforma è talmente mal concepita che rischia soltanto di peggiorare la situazione. Ed è questo il punto che i fautori del SI non considerano, forse perché semplicemente non hanno studiato attentamente la riforma. Facciamo solo qualche esempio clamoroso. Si sostiene che si debba ridurre il contenzioso fra regioni e stato. Peccato che si ignori che quel contenzioso, dopo 15 anni di discussioni, è stato ormai risolto dalla Corte costituzionale. Qui si creano le premesse invece per un nuovo contenzioso. Basti considerare l'art.117: allo Stato spettano fra l'altro in via esclusiva "Disposizioni generali e comuni" per la tutela della salute, per le politiche sociali, per l'istruzione, la ricerca, il governo del territorio, il turismo, le attività culturali, persino per la formazione professionale etc. Cosa significa "generali e comuni"? Le (buone) leggi lombarde e venete sulla sanità sono ancora compatibili o potranno essere tutte abrogate, le leggi regionali sulla formazione professionale potranno avere ancora vigore oppure verranno sostituite da leggi statali, elaborate di fatto dai ministeri romani? Su proposta del Governo la legge dello Stato potrà intervenire modificando la legislazione regionale ogni qualvolta lo richieda "la tutela dell'unità giuridica ed economica della Repubblica, ovvero la tutela dell'interesse nazionale". Oggi era già possibile, ma nel dialogo con le regioni, questo spiega perché difficilmente potevano sorgere sul punto conflitti di attribuzione davanti alla Corte costituzionale. Adesso le regioni sono del tutto ignorate. C'è da aspettarsi che sui rapporti Stato-Regioni si scatenerà un enorme e paralizzante conflitto davanti alla Corte. Ancora più gravi sono, fra i tanti, altri rilievi. L'art.70 sulla funzione legislativa è nella nuova versione di ben 451 parole contro le 9 attuali, prevede fino a 10 (o forse 12) procedimenti legislativi contro i 4 attuali, alla faccia della semplificazione! L'art.70 comma 3 riconosce al Senato potere di intervento su qualsiasi disegno di legge, fissando

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(tranne che per la legge di bilancio dove i giorni sono ridotti a 15) ben 40 giorni a disposizione del passaggio in Senato della proposta di legge. Il Senato può proporre modifiche su cui la Camera sarà chiamata a deliberare. Per molti provvedimenti si rischia dunque paradossalmente un allungamento dei termini di esame delle leggi che oggi su molti temi non superano i 70 giorni. Questo sarà tanto più vero in presenza di un Senato che a differenza di oggi viene eletto in tempi, con modalità e per finalità profondamente diverse dalla Camera. Il che significherà che la presenza di maggioranze antitetiche fra Camera e Senato sarà la norma e non la eccezione. Se per esempio si dovesse votare il prossimo anno per le elezioni politiche e dovesse vincere il centrodestra, ci si troverà un Senato composto da 17 regioni rosse. Il che significherà la impossibilità di fare riforme costituzionali, ma anche di approvare leggi di ratifica di trattati europei. Si pensi cosa accadrebbe a questo punto nel 2018 quando l'Italia si troverà a decidere cosa fare del fiscal compact, un tema di importanza enorme per il nostro futuro: se Camera e Senato avranno maggioranze diverse sarà il caos e la paralisi. Questa riforma attribuisce poi al Senato il potere di presentare qualsivoglia disegno di legge alla Camera la quale ha l'obbligo entro sei mesi di esaminarlo e di pronunciarsi al riguardo. Un Senato oppositivo potrebbe trasformarsi in un Senato "vietcong" che riempie di disegni di legge inutili la Camera paralizzandone l'attività. Per paradosso, invece, la nuova legge elettorale per la Camera dà alla maggioranza numeri tali da poter eleggere da sola il Presidente della Repubblica (che cesserebbe di essere organo di garanzia) e da condizionare pesantemente la composizione della Corte costituzionale. Tutto questo a tacere del fatto che i senatori, pur dotati di poteri notevoli, e a cui viene rinnovata la immunità parlamentare, non vengono più eletti dai cittadini ma scelti nei consigli regionali fra consiglieri regionali e sindaci. A questo ultimo riguardo si arriva al paradosso, ben espresso dall'art.63 comma 2, per cui nulla vieta più che il presidente del Senato possa essere il sindaco di una grande città o il governatore di una Regione. Questa riforma è piuttosto il trionfo della demagogia. Si prendano alcuni esempi: si lascia intravvedere la possibilità di referendum propositivi e però si rinvia ad una futura legge costituzionale la determinazione delle condizioni e degli effetti; si afferma che i seggi sono attribuiti dalle regioni in ragione dei voti espressi, peccato che lo stesso articolo 57 affermi anche che sono i consiglieri a eleggere i futuri senatori e in dieci regioni i senatori eleggibili sono appena 2, difficile tagliare a metà un senatore; si rinvia a regolamenti parlamentari stabilire la sorte dei disegni di legge di iniziativa parlamentare, di cui peraltro si triplicano le firme necessarie per la proposizione; si prevede la eliminazione del quorum per i referendum abrogativi, ma solo laddove siano stati voluti da almeno 800.000 elettori, una cifra enorme; lo statuto dell'opposizione viene "concesso" da una ... maggioranza "bulgara"; l'art.72 comma 7 prevede che il Governo possa richiedere alla Camera di deliberare entro 75 giorni, prorogabili di altri 15 dalla richiesta, laddove ritenga urgenti determinati provvedimenti: ci si chiede cosa succeda se quei termini non sono rispettati. Probabilmente nulla!


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Proprio qui si evidenzia definitivamente e clamorosamente la "malafede" della riforma: si prevedono 90 giorni per la approvazione alla Camera di un provvedimento considerato "urgente" dal Governo, a cui vanno aggiunti altri 20 giorni di passaggio al Senato e altri giorni per la terza lettura della Camera. Peccato che nella scorsa legislatura il tempo medio di approvazione delle leggi di iniziativa governativa sia stato di appena 116 giorni e di appena 106 giorni nel primo anno di governo Renzi, quando non erano ancora state approvate le leggi di riforma costituzionale, elettorale e la Cirinnà. Basti del resto solo l'esempio della legge sul caporalato, approvata in questo Parlamento in poche settimane, per confermare che non è un problema di istituzioni, ma di volontà politica. Quanto poi ai risparmi, basti considerare il parere della Ragioneria dello Stato (nota 28 ottobre 2014, prot. 83572) che ha accertato risparmi certi per soli 50 milioni circa di euro, a fronte di nuove spese pari a circa 300 milioni di euro derivanti dalla introduzione del secondo turno elettorale. Altro che i 500 milioni vantati dal governo! Insomma, questa riforma che tocca, come ha riconosciuto lo stesso Renzi, punti minimi rispetto a ciò che si dovrebbe invece rivedere del nostro ordinamento costituzionale, non garantisce affatto una più efficace ed efficiente azione di governo del Paese, è probabile semmai che la peggiori. Giuseppe Valditara* * da logos-rivista.it, per gentile concessione

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DOV’E’ LA DESTRA? I recenti fermenti nel variegato universo del centro-destra, con svariati personaggi che scalpitano per proporsi come possibili leader di una coalizione dai contorni sempre indefiniti, impongono una pacata riflessione. A prescindere dai possibili sviluppi connessi all'esito del voto referendario, infatti, le elezioni non sono lontane e vi è una messe enorme di potenziali elettori "disorientati e perplessi", per lo più caratterizzati da un profilo culturale medio-alto che, se non "adeguatamente" ricondotti nel loro alveo naturale, perpetueranno la loro condizione di soggetti schifati dalla politica, disertando le urne o incrementando i consensi ai 5Stelle. E' arrivato il momento, pertanto, di smetterla con le progettualità da week end, per tirare a campare alla meno peggio, e affrontare il problema con la maturità che i tempi impongono, arando il terreno per una buona semina. La querelle sull'attualità dei termini "destra" e "sinistra" è vecchia. Oggi ha solo raggiunto una intensità più marcata, che può essere smontata con un semplice assunto: i termini non sono vetusti, come da più parti si ripete, ma è la confusione nella classe politica, avvilita da un trasformismo senza precedenti e dalla pessima qualità dei soggetti, che li rende tali. Per stroncare la querelle, pertanto, basta elevare il livello della rappresentanza e ridefinire per bene le aree politiche di riferimento. La confusione, a Destra, regna sovrana e da molto tempo. Nell'ultimo ventennio, poi, l'assoluto vuoto culturale ha complicato maledettamente le cose. Questo aspetto del problema è stato diffusamente trattato nel numero 37 di "Confini", che invito a rileggere. (https://issuu.com/confini/docs/confini37) Oggi assistiamo all'auto-candidatura di soggetti come Salvini e Toti a rappresentare "anche" quella parte di italiani che si definiscono, a pieno titolo e con giusta causa, di "Destra". Sia detto con il massimo rispetto per la libertà di ciascuno e con tanta serenità: questa è una barzelletta che non fa ridere. L'Italia ha bisogno di una Destra vera, moderna, sociale ed europea, che raccolga la parte migliore e più sana della società, oggi alla deriva, senza rappresentanza politica e costantemente amareggiata nel vedere il termine "destra" associato a personaggi ed entità a loro estranei. Non vi è giorno che le cronache non ci sbattano in faccia la scarsa consistenza etico-qualitativa di tutta l'area che si auto definisce di destra. La contaminazione con il potere, mal assimilato, ha generato un male non curabile in troppi soggetti. Come uscire dal pantano? In un solo modo: bonificandolo e trasformandolo in un "giardino". Bonificare vuol dire innanzitutto non vedere più associato il termine "delinquente" a qualcuno che la stampa definisce di "destra" e lavorare sodo affinché tale assunto entri bene nelle teste di tutti.


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L'associazione è impropria e scaturisce da un equivoco durato troppo tempo: un uomo di destra non delinque; chi delinque non può essere considerato di destra. Punto. Occorre un nuovo soggetto politico, pertanto, guidato da un vero "leader", che coniughi al meglio le istanze di quella nutrita fetta di popolazione che attende, da troppo tempo, "l'isola che non c'è". Non sono un illuso ed è chiaro che la strada è in salita. Vi è troppo disorientamento nell'opinione pubblica e mancanza di effettiva volontà propositiva da parte di coloro che, una vera destra, potrebbero crearla davvero. Fare passi indietro non è facile. Sono tanti, però, coloro che dovrebbero avere questa forza, perché le loro contaminazioni con la malapolitica, non sanate con quel momento catartico scaturito dalla nascita di "Futuro e Libertà", che vide molti soggetti capaci di ritrovare un singulto di dignità, renderebbe il progetto irrealizzabile per il naturale rigetto da parte di coloro che di esso dovrebbero essere i destinatari. So bene che tanti amici stanno guardando con interesse a un nuovo centro-destra capace di catalizzare il consenso della cosiddetta area moderata, da proporre come alternativa al centro-sinistra e ai 5Stelle (Eh sì… non dimentichiamoci che ora il sistema è tripolare!) Guardiamoci negli occhi da "Uomini" e diciamoci le cose con franchezza. A cosa serve questo contenitore? A garantire l'elezione a una nutrita pattuglia di soggetti? Benissimo! Buon pro ne segua. Non si dica, però, che un centro-destra guidato da Salvini o Toti, o da qualsiasi altro "personaggetto", tra quelli che stanno scalpitando, possa avere la possibilità di vincere le elezioni e governare, perché questa sarebbe un'offesa all'intelligenza di milioni di italiani. Si vive una sola volta e posso capire che qualcuno se ne freghi di regalare il paese a Di Maio o a Renzi pur di sedersi su una comoda poltrona, ma non si spacci il loglio per grano. Nel fronte degli astensionisti e tra gli stessi elettori dei vari partiti dell'attuale centro-destra, vi sono milioni di italiani che non avrebbero esitazioni nel sostenere un vero e "serio" progetto di Destra, capace di coniugare la tradizione con il presente, guardando al futuro. Non ha senso un paese senza una Destra ed è oltremodo grave averne tante, sconclusionate, pasticciate, distorte, prive di linee guida che scaturiscano da un pensiero solido, di alto profilo "culturale". Vogliamo continuare a lasciare nella condizione di naufraghi le forze più sane del Paese? Vogliamo continuare a vedere i giovani più talentuosi scappare all'estero? Sarebbe un vero scempio! Cerchiamo di ritrovare la retta via e creiamolo davvero un nuovo soggetto politico che si configuri realmente come "Destra" e basta. Poi potremo anche pensare a un programma di governo, da sviluppare con l'area moderata che guarda al centro, con buone possibilità di offrire agli elettori una valida alternativa politica. Prima, però, diamo un approdo valido ai tanti naufraghi che vagano nel Paese con la mestizia nel cuore. Il leader capace di guidare per i primi anni questo nuovo soggetto politico c'è e lo conosciamo tutti. Ha commesso molti errori e lo sappiamo. Ha saputo anche ammetterli, però, e oggi ha raggiunto una maturità tale che gli consentirebbe di essere un vero punto di riferimento e di creare i presupposti per un progetto destinato a crescere nel tempo. Vi sono tante persone serie e capaci nel nostro Paese. Hanno solo bisogno di una casa da abitare e di occasioni per mettere a disposizione di tutti il proprio talento. Non deludiamoli. Soprattutto pensiamo all'Italia. L.L.

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HOLODOMOR: IL GENOCIDIO DIMENTICATO Che la storia del mondo debba essere riscritta, è un dato di fatto. Da un lato vanno corrette con un metro più obiettivo le pagine ben note, tramandate con una mistificazione che dura, nei casi più estremi, da millenni; dall'altro vanno rivelate le pagine oscure, quelle antiche e quelle recenti, occultate per i più svariati motivi, non ultimi quelli ancorati alla cinica "ragion di stato", che sempre privilegia gli equilibri malsani. E' quanto accaduto, per esempio, con le "foibe", artatamente dimenticate per non urtare Tito; con il "genocidio armeno", del quale non si parla come si dovrebbe per non far arrabbiare i turchi e in particolare il suo attuale leader; con il massacro della classe dirigente polacca, occultato per non far dispiacere il prezioso alleato russo nella lotta al nazi-fascismo; con le tante repressioni dei dittatorelli del Sud America, che essendo stati "amici" degli "amici" vanno lasciati in pace, nonostante si fossero macchiati di crimini orrendi. (Provate a trovare, per esempio, il film "La rivoluzione delle farfalle" e il romanzo da cui è tratto, "Il tempo delle farfalle", e poi ditemi se vi siete riusciti: si narrano le vicende delle vittime di Trujllo, dittatore della Repubblica Dominicana e fantoccio degli USA). Il genocidio di cui parlo in questo articolo è quello perpetrato da Stalin, in Ucraina, dal 1929 al 1933: "holodomor", ossia "infliggere la morte attraverso la fame". Non tragga in inganno il titolo: vi furono anche deportazioni, omicidi, esecuzioni, massacri atroci. In totale, sia pure nell'immancabile balletto delle cifre che vede contrapporsi diversi studiosi, è lecito ritenere che in cinque anni furono oltre cinque milioni le vittime della ferocia staliniana. Questo è il numero più accreditato, da citare per dovere di cronaca. Devo precisare tuttavia, che appartengo a una schiera di analisti, minoritaria, che sostiene altre tesi e indica ben altre cifre: circa dieci milioni di vittime, inserendo, quindi, anche quelle perite negli anni successivi al 1933 a causa delle angherie subite, che non figurano nel computo ufficiale del genocidio. E' appena il caso di citare, poi, cosa abbia rappresentato siffatto sterminio sotto il profilo delle nascite: almeno 3 milioni di bimbi mai nati. Ma procediamo con ordine. L'Ucraina, come noto, diviene parte integrante dell'URSS nel 1922. Nel 19° secolo, quando il territorio faceva parte per metà dell'impero russo e per metà di quello austro-ungarico, divenne il "granaio d'Europa". Il processo di russificazione, già avviato ai tempi dello Zar, fu portato alle estreme conseguenze dopo la fine dell'impero austro-ungarico e la completa annessione del paese. I contadini dell'Ucraina, chiamati kulaki, possedevano grandi appezzamenti di terreno, erano benestanti e potevano utilizzare mezzadri scegliendoli tra i contadini poveri: i kombèdy.


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Gli utili conseguiti consentivano ai kulaki una vita più che dignitosa, del tutto incomparabile a quella dei kombèdy, intrisa di stenti e sofferenze. Tale presupposto discriminatorio fu conseguenza della riforma agraria del 1906, che consentiva l'assegnazione delle terre ai contadini, ma solo dietro pagamento di un tributo. In tal modo i contadini poveri diventarono ancora più poveri, mentre quelli in grado di riscattare del terreno si trasformarono in benestanti possidenti. Lenin cercò di correggere la discrasia concedendo delle terre anche ai kombédi. Alla sua morte, però, prese corpo la politica repressiva di Lev Trotskij che riteneva i kulaki una minaccia per i princìpi comunisti, in virtù della loro condizione privilegiata. Con Stalin si arrivò al genocidio vero e proprio, iniziato nel 1929, dopo un periodo in cui il dittatore sembrava addirittura sostenere le tesi di Bucharin, che auspicava "l'arricchimento dei contadini", ritenendo l'agricoltura fondamentale per lo sviluppo economico dell'URSS. Stalin cambiò ben presto idea (anche se è più lecito ritenere che il suo pensiero fosse analogo a quello di Trotskij e mistificato per mantenere saldo il distacco con il suo principale avversario interno, che farà poi assassinare in Messico) e attuò un piano di collettivizzazione forzata delle terre, con lo scopo precipuo di trasferire risorse dall'agricoltura all'industria. I kulaki furono colpiti duramente da tali provvedimenti e iniziarono un'azione di protesta e di boicottaggio della politica staliniana. Mal gliene colse. Stalin approfittò dell'occasione non solo per sterminare i dissidenti, ma per realizzare un altro suo proposito (che poi avrebbe attuato anche in Polonia), ossia distruggere il carattere nazionale del popolo ucraino, estendendo, di fatto, le atrocità repressive contro tutti. Furono distrutte le chiese e perseguitati i cattolici. Fu vietato finanche lo "scampanio", che rappresentava l'identità dei villaggi. Manco a dirlo, sulla scia di quanto già perpetrato dai turchi con gli armeni, fu sterminata l'intellighenzia dell'Ucraina al fine di cancellare la memoria storica del Paese e renderlo più facilmente addomesticabile. Non ebbe pietà neppure per i sostenitori del comunismo, che anelavano a una sorta di autonomia rispetto ai diktat di Mosca. Dal 1929 al 1932 lo sterminio si configurò con gli eccidi materiali e la deportazione in Siberia di milioni di contadini, che perirono tra mille sofferenze. Nel biennio 1932-33 fu attuato lo "sterminio per fame", perpetrato con la requisizione totale dei generi alimentari e l'obbligo di cedere allo stato tutto il grano prodotto, in modo che ai produttori non restava che morire di fame. Il genocidio è stato qualcosa di mostruoso, in termini numerici superiore addirittura a quello perpetrato da Hitler contro gli Ebrei. La sinistra, per decenni, ha nascosto la testa nella sabbia, nonostante fosse in possesso di tutti gli elementi per "scrivere" una pagina di storia nel rispetto della verità. Solo nel marzo del 2008 il Governo dell'Ucraina e 19 nazioni hanno sancito che si configura come "genocidio" quanto accaduto dal 1929 al 1933 e il 23 ottobre dello stesso anno il Parlamento europeo ha riconosciuto l'Holodomor come un crimine contro l'umanità. Il giorno della memoria è stato fissato, annualmente, nel quarto sabato di novembre. Tra i 19 paesi che hanno riconosciuto l'Holodomor come genocidio manca l'Italia. L.L. * l’immagine è del Maestro Dino Valdelli, per gentile concessione

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EUROPA/VISIONI EUROPEE

“EUROPA” E “STATI UNITI D’EUROPA” (PARTE II) Definiti i confini geografici dell'Europa continentale, passiamo ora a rappresentare il progetto politico proteso all'istituzione degli Stati Uniti d'Europa, che hanno confini diversi. Una entità nazionale, infatti, anche se caratterizzata da una federazione di più stati, deve essere supportata da elementi di omogeneità che possano configurarsi come "idem sentire", prescindendo dalle inevitabili differenziazioni retaggio della millenaria storia. Già così traspaiono le insidie che rendono l'impresa ardua; la realtà, poi, è ancora più complicata e pregna di delicatissimi problemi, per lo più mal gestiti da governanti specialisti nelle attività dilatorie e capaci solo di rendere l'attuale Unione Europea invisa a tante persone. Con questi presupposti, marcate disomogeneità determinerebbero sul nascere il fallimento del progetto federale. Partendo proprio da quest'ultimo punto, pertanto, prima di individuare l'ossatura della possibile Federazione, cerchiamo di stabilire dei punti fermi. PAESI CAUCASICI: LA SCELTA SOFFERTA. Georgia, Armenia, Azerbaigian. Tre paesi che contano complessivamente circa 17milioni di abitanti, dipanati su un territorio di 186.000 km² (più o meno il centro-sud dell'Italia, isole comprese). Un crogiuolo di culture asiatiche ed europee che costituiscono una fetta importante della storia dell'umanità; un territorio ancora oggi caratterizzato da forti tensioni politiche ed economiche. Come abbiamo visto, alcuni studiosi fissano nella catena montuosa del Caucaso il confine geografico tra Europa e Asia; altri, invece, pongono il serio problema che una catena montuosa non separa proprio nulla e che se si guarda agli aspetti storico-politici e culturali, tutta la regione caucasica "può" essere considerata parte dell'Europa. Ho virgolettato il "può" proprio per sottolineare la difficoltà nello stabilire "serenamente" una collocazione. Non devo spiegare ai lettori di questo magazine i vincoli di amicizia e di umana solidarietà che mi legano al popolo armeno: da decenni, quasi in mesta solitudine, ripropongo le tematiche connesse al genocidio perpetrato dai turchi, che solo lo scorso anno ha subito un impulso conoscitivo più ampio, grazie a Papa Francesco. Basta visitarla l'Armenia, per rendersi conto che l'europeità si percepisce e anche marcatamente. In Georgia e Azerbaigian un po' meno, ma è chiaro che i tre paesi costituiscono un'unica regione continentale. Cionondimeno, nell'Europa geografica disegnata nel capitolo precedente, questi paesi si trovano a Est del confine fissato e quindi in Asia. Ogni discorso sul possibile processo d'integrazione, pertanto, è chiuso in partenza, fermo restando l'importante presupposto di promuovere una cultura che spinga i popoli ad abbassare quanto più possibile le barriere divisorie imposte dai confini e imparare a convivere civilmente,


EUROPA/VISONI EUROPEE

esaltando al massimo i punti comuni, privilegiando l'aspetto politico su quello economico e gestendo quest'ultimo in modo che, a prescindere dalle aree geografiche convenzionalmente definite, non si creino squilibri. Utopia? Certo! Per ora lo è! Ma questa è la strada da seguire e questi sono i princìpi da inculcare alle nuove generazioni. Per i tre paesi caucasici, poi, vanno tenute in debita considerazione anche le rispettive realtà contingenti. Fanno tutti parte del Consiglio d'Europa che, è bene precisarlo, è un organismo esterno all'Unione Europea e si propone di "promuovere la democrazia, i diritti umani, l'identità culturale europea e la ricerca di soluzioni ai problemi sociali in Europa". (Con quanto scarso successo, è un dato ben percepibile da chiunque. Meno noti sono i costi della struttura, che ha sede a Strasburgo, e la bella vita dei dipendenti e di tutti coloro che, a vario titolo, a essa sono legati con specifiche funzioni, nei 47 stati membri). Dei tre paesi, l'Armenia è quello che avrebbe più numeri per una possibile integrazione continentale, in virtù della sua storia. Il sentimento è condiviso da larghi strati della popolazione. Paradossalmente, però, l'attuale governo armeno ha tirato un sonoro schiaffo all'Unione Europea, rifiutando di sottoscrivere l'accordo di libero scambio con Bruxelles per rifugiarsi sotto l'ala protettrice di Putin, con l'entrata del Paese all'interno dell'unione doganale euroasiatica guidata da Mosca. Le ragioni di questa decisione sono molteplici e complesse e non possono essere sviscerate in questo contesto. Ne riparleremo. L'Azerbaigian, a livello politico, spinge per l'ingresso in Europa, mentre nell'opinione pubblica non vi è lo stesso fervore che si registra in Armenia. Il paese è ancora impegnato in un latente conflitto con l'Armenia, avanzando "illegittime" pretese sul Nagorno- Karabakh. Tutte cose che già ora confliggono con i presupposti per l'ingresso nell'Unione e si tramuterebbero in un ostacolo ancora più insormontabile per l'eventuale progetto federale. La Georgia vuole entrare nell'Unione, ma la sua democrazia è ancora traballante e sarebbe illusorio sperare in miglioramenti a medio termine, come da più parti si scrive, più ipocritamente che diplomaticamente, per spiegare le ampiamente condivise riserve sul suo ingresso. Nel suo seno, poi, permangono sostanziali e insanabili divisioni, per le quali vale quanto scritto sopra, relativamente all'Azerbaigian. L'Abcasia e l'Agiaristan reclamano l'indipendenza e si sentono fortemente legate alla Russia. La prima regione ha addirittura un proprio esercito e l'odio nei confronti dei georgiani sfociò in un vero e proprio massacro durante la guerra 1991-1993, riconosciuto dall'OCSE come "genocidio dei georgiani in Abcasia". Circa 30.000 le vittime di una vera e propria "pulizia etnica". Analoghi problemi si registrano con l'Ossezia Meridionale, che vorrebbe unirsi con l'Ossezia Settentrionale, ossia rientrare nella Federazione Russa. Una complessa matassa, qui solo accennata per grandi linee, ma sufficienti a far percepire quanto sia opportuno considerare inattuabile l'ingresso della Georgia nell'Unione. ALTRI PAESI DELL'EX URSS Bielorussia: sarebbe un'offesa all'intelligenza dei lettori obbligarli a leggere le ragioni del NO secco al paese guidato da un dittatore, "democraticamente" eletto con percentuali vicino all'80%. Moldavia: bel problema. Vedrei volentieri gli eredi dei Daci nell'Unione e invito tutti a visitare il

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delizioso staterello, per cogliere il calore di una popolazione ospitale e gentile e godersi i vari siti lungo il corso del Dniestr, a partire dai monasteri dove trovarono rifugio i cristiani durante l'invasione dei Tartari, nel 13° secolo. Sarebbe politicamente complicato, però, accettare la Moldavia ed escludere la Romania, che proprio non ha i presupposti per entrare negli Stati Uniti d'Europa, anche se fa parte dell'Unione Europea dal 2007, portando nel suo seno un bel po' di problemi. Nella terza parte, tuttavia, siccome la mia "visione europea" è ancorata esclusivamente a presupposti "ideali", vedrete la Moldavia presente tra i paesi inseriti nella Federazione e la Romania esclusa, pur nella consapevolezza dell'assoluta impossibilità che tale assunto possa trovare pratica attuazione. PAESI DELL'EX JUGOSLAVIA (Con eccezione della Slovenia) Occorrerebbe un intero saggio per spiegare le complesse ragioni che mi spingono a escluderli dal progetto federativo. Se è sempre doveroso pesare le parole quando si parla di certe problematiche, infatti, in questo caso bisogna pesarle con il bilancino del farmacista, per evitare facilissimi equivoci. In mancanza di spazio adeguato, pertanto, meglio tacere, assumendosi solo la responsabilità di dire NO, in scienza e coscienza, senza addolcitori tipo "per ora", che rappresenterebbero solo una presa in giro. Ciò va fatto anche in segno di rispetto per tutti coloro che, nei vari Stati dell'ex Jugoslavia, alle pene per le tante sofferenze passate, aggiungono quelle scaturite dalla consapevolezza di aver raggiunto un equilibrio personale in linea con i dettami richiesti per ottenere, a pieno titolo, la patente di "europeo". (Continua) Lino Lavorgna


SOCIETA’

DOPPIO COGNOME: SCENARI FUTURI Qualche mese fa i coniugi Franco Bianco e Milena Rosso hanno avuto un pargolo: Rosario. I coniugi, refrattari a ogni contesto che si configuri come Tradizione, hanno deciso che Rosario debba avere entrambi i cognomi e la Corte Costituzionale ha sancito che possono farlo. Il pargolo, pertanto, ora si chiama Rosario Bianco Rosso. Un'altra coppia di giovani sposi è in attesa della prima figlia: Umberto Verde e Virginia Seppia. I due sono amici di famiglia della coppia Bianco Rosso e hanno già deciso il nome della bimba, che nascerà tra un paio di mesi: Patrizia. Anche loro, manco a dirlo, vogliono il doppio cognome per la figlia che, pertanto, si chiamerà Patrizia Verde Seppia. E' molto probabile che Rosario e Patrizia, frequentandosi in virtù dell'amicizia dei rispettivi genitori, s'innamorino e decidano di sposarsi. Avremo, in tal modo, la coppia Rosario Bianco Rosso e Patrizia Verde Seppia. Chi si sposa, generalmente, mette al mondo dei figli e noi tutti auguriamo a Rosario e Patrizia di averne tanti e tutti bravi, belli e buoni. Magari il primo lo chiameranno Walter, nome che, a detta degli studiosi, ritornerà di moda fra una ventina di anni. Il primogenito, pertanto, si chiamerà Walter Bianco Rosso Verde Seppia e, ironia della sorte, frequentando il prestigioso liceo internazionale di Verona, s'imbatterà in un'avvenente fanciulla che gli farà battere forte il cuore: Margot Della Valle Dello Stretto Piano. E' un colpo di fulmine! Fidanzamento immediato e matrimonio subito dopo le rispettive lauree, baciato dalla nascita di un bellissimo pargolo, cui daranno il nome di Ivan, altro nome che, sempre a detta degli studiosi, ritornerà di moda tra una quarantina di anni. Ivan cresce splendidamente, coccolato dai genitori e dai nonni. Quando s'iscrive alla prima elementare, però, un destino crudele gli spezza il sorriso. La maestra, infatti, facendo l'appello, chiama Ivan Bianco Rosso Verde Seppia Della Valle Dello Stretto Piano, suscitando l'ilarità della classe. Ivan, rosso in volto per la vergogna, prende una penna e la conficca nell'occhio del suo compagno di banco, che stramazza al suolo. Attonito, vedendo il sangue che scorre a fiumi e gli altri bimbi che scappano terrorizzati, subisce un terribile shock. Il compagno di banco, che si chiama semplicemente Biagio Brambilla, dopo un delicato intervento chirurgico e un trapianto, riacquista la vista e torna a vivere normalmente, diventando, grazie a quella triste esperienza, una importante star televisiva, uno scrittore di successo e un seguitissimo attore. Ivan, purtroppo, non si riprende e peggiora anno dopo anno. Viene ricoverato in una clinica psichiatrica di Zurigo, famosa per nuove formule terapeutiche studiate appositamente per curare i figli di genitori cretini.

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La terapia, però, è ancora allo stato sperimentale e non sempre funziona. Ivan, un pomeriggio, riesce a eludere il controllo e sgattaiola nella zona cucine, dove è ubicata una enorme cella frigorifero tarata a venti gradi sotto zero. Vi entra e si sdraia sul lato opposto dell'ingresso, tra due gigantesche spalle di manzo. Lo troveranno dopo due giorni, con l'espressione che aveva Jack Nicholson, alias Jack Torrance, nella scena finale di Shining. Gentili Mamme che bramate il doppio cognome, non me ne vogliate per questo mio scritto e non consideratemi un vostro nemico: è vero l'esatto contrario. Sono un vecchio cavaliere errante, oramai, che considera la Donna il fiore più prelibato di quel magico giardino, ubicato nello spazio infinito, convenzionalmente chiamato Pianeta Terra. Alla pari di tutti i cavalieri erranti, la venerazione tributata all'universo femmineo trascende i limiti dell'umano sentire e s'impregna dei colori percepibili solo sulle vette del "sublime". Da quelle vette osservo i fremiti di una umanità sempre più smarrita, nella vana ricerca di un senso lì dove un senso proprio non esiste. E intanto le lancette dell'orologio avanzano impietose, incuranti di chi non riesca a godersi le albe perché imbragato nelle tenebre di una insulsa esistenza. A conclusione di questo articolo, pertanto, consentitemi di invitarvi a tornare a sorridere, abbandonandovi tra le braccia di colui che amate e restandovi a lungo, rinunciando ai pensieri e dando sfogo solo alle sensazioni. Vedrete che sarà bello (ri)scoprire una nuova dimensione del vostro essere. Una dimensione che sa d'antico, certo, e proprio per questo ha radici solide per "proiettarsi" in modo sano nel futuro, che anche grazie a voi sarà sempre più roseo e scevro delle troppe distonie che avvelenano il presente. Acquisita questa consapevolezza, sarà bello accarezzare i vostri figli, ben sapendo che i loro non correranno il rischio di finire in una clinica di Zurigo. Tutti gli "Ivan" che verranno, vi ringraziano anticipatamente. Lino Lavorgna


SOCIETA’ DOSSIER

L’ITALIA INGIUSTA A settant'anni è tempo di bilanci. Non certo perché abbia voglia di rinunciare a remare, soprattutto contro corrente come ho fatto da una vita. Non ho certo l'energia dei 30 anni e gli acciacchi mi obbligano a cambiar passo, ma la mente per fortuna è lucida e riesco a vedere e interpretare il presente con una capacità di analisi e un distacco che, confesso, non ho mai avuto. Vi assicuro anche che la storia vissuta sono riuscito a capirla meglio dalla prospettiva dei settant'anni inquadrando l'esperienza personale nel flusso dei fatti che, giorno dopo giorno, impercettibilmente ma inesorabilmente, ha trasformato questo paese in ciò che oggi è: macerie di tutto e dappertutto, e non solo quelle lasciate dai terremoti fisici che studiano i geologi. Macerie soprattutto in campo morale per la perdita di quel collante ideale che, fino a poco tempo fa, ci faceva identificare come popolo, nazione, civiltà, erede di una storia millenaria unica che ha dato all'umanità un contributo assolutamente straordinario per la sua crescita, non solo nella conoscenza e l'esperienza del bello, nell'arte, nella poesia ma anche nella promozione dell'uomo per raggiungere il traguardo della libertà e del benessere sociale ed economico. Credo proprio sia l'effetto dei settanta compiuti! A questo punto qualche lettore curioso potrebbe chiedere chi sia questo vecchio…. oppure dove voglia andare a parare! Il nome è pleonastico e potrebbe essere anche uno pseudonimo. Molto più interessante è la seconda domanda: dove voglio andare a parare! E' presto detto: poiché non ho nipotini a cui trasmettere ciò che ho imparato sulla mia pelle, lo faccio in astratto ad una platea di "nipotini" ideali che hanno ancora la voglia di leggere e di pensare (che spero ci siano ancora da qualche parte). Una volta c'erano gli ideali, la patria, la famiglia, l'onestà, etc, etc. e tra questi anche la pace, la democrazia e l'Europa unita, dopo l'ecatombe di due guerre mondiali. Erano un cavallo di Troia! Intanto perché con il tempo abbiamo visto e capito che con le stesse parole si intendevano cose diverse. In effetti, già a partire dai primi anni del secondo dopoguerra, si avvertiva la differenza di visione tra chi pensava alla patria come la terra dei propri avi e chi, invece, aspirava ad una entità ideale e internazionale, una specie di paradiso socialista sulla terra, da realizzare con una "rivoluzione" vuoi culturale, vuoi anche popolare e barricadera. Insomma, dopo quasi 250 anni, la solita differenza tra la rivoluzione dei sanculotti tagliagole in nome della libertà e la resistenza dei vandeani che difendevano i valori della tradizione. E' in questo quadro che nasce l'esperienza, per me centrale e formativa, del '68. Da una parte gli

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ingenui come me che combattevano per migliorare la società e soprattutto l'Università affinché fosse affrancata dalla dittatura dei "baroni" e dall'altra chi, sfruttando la nostra energia e la nostra ingenuità, si poneva solo l'obiettivo di conquistare il potere ed entrare nella stanza dei bottoni dove si decidevano le sorti dell'Università e quindi della cultura, del sapere e della ricerca. Anche a loro, ai compagni del PCI, interessava minare il potere dei "baroni" ma solo per sostituirsi a loro e creare una nuova baronia fondata sulla tessera del partito. Ovviamente comunista. In altre parole se volevi far carriera nel mondo universitario o eri figlio o nipote di un grande Barone del passato remoto o, molto meglio, se avevi la tessera del PCI. Esperienza diretta: ricordo i mesi della lunga occupazione dell'Università Federico II del 1967. Dopo tre lunghi mesi di discussioni democratiche ed aperte, tanto che spesso vi partecipava anche qualche illustre professore quale il grande Vincenzo Franciosi, anch'egli preoccupato della deriva imposta dalla potenza delle baronie che offuscavano e frenavano la grande vitalità delle nuove intelligenze che si affacciavano prepotentemente e si proponevano per entrare nel mondo della ricerca e dell'Università. Franciosi era con noi ma era come noi un moderato e, purtroppo, non aveva la tessera del PCI. Ricordo che dopo circa tre mesi di occupazione ed il rischio che l'anno accademico saltasse, il gruppo dei moderati (che tra l'altro era la maggioranza), dividendosi dal gruppetto degli estremisti, guidati da Cancro e Bellini e teleguidati dal giovane D'Alema, decise per la riapertura e la normalizzazione vigilata. Se non che tale decisione, sebbene presa dalla maggioranza, non fu accettata dalla minoranza che, riunendosi in assemblee irregolari, di sera e dopo che i pendolari avevano lasciato le aule, decretò e mise immediatamente in atto una nuova occupazione dell'Università, sbarrando gli accessi con catene per impedire l'accesso soprattutto ai pendolari che avevano mostrato più giudizio ed intendevano salvare in qualche modo l'anno accademico. Dopo scontri fisici feroci (ci furono vari feriti), la maggioranza vinse e, tra mille difficoltà e compromessi, si riuscì a finire l'anno. Ma il cambiamento si vide immediatamente e fu radicale. Prima della rivoluzione del 1967, ad esempio, lo studio del prof. Guerra, nipote del grande Camillo, titolare della cattedra di Architettura Tecnica, noto tra gli studenti come il "barbiere" per i suoi capelli sempre impomatati, era arredato in modo sobrio e borghese con i ritratti dei suoi avi, anch'essi professori della Federico II e prima ancora della antica scuola di Ponti e Strade. Dopo alcuni mesi di chiusura totale e di latitanza del Barone, e già nel 1968, invece dei ritratti degli avi, notai il radicale cambiamento dell'arredo in cui predominava il rosso e alla parete in fondo due grandi ritratti di Marx e Lenin. Già da allora, afferrai….. l'antifona! E questo ai tempi dell'Università a partire dal 1967 in poi. Oggi le cose non sono migliorate. Anzi! Tra le esperienze che mi hanno segnato non posso non ricordare quelle del mio periodo lavorativo come dirigente di Uffici Tecnici comunali. Vincitore di concorso nel 1975, nonostante le raccomandazioni contrarie di un autorevole membro della giunta, grazie all'onestà di un galantuomo, l'ingegnere capo del Comune di Salerno, commissario d'esame, che dopo una "interrogazione" di oltre un'ora su tutti gli argomenti tecnici possibili, dall'idraulica


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all'urbanistica, fino alla ingegneria sanitaria, finì esausto ed allargò le braccia e decretò "per me è preparato, poi fate voi". E così iniziai la mia carriera di Ingegnere Capo in un Comune che dal 1975 in poi vide crescere la presenza inquietante di personaggi equivoci in consiglio comunale che hanno condizionato pesantemente lo sviluppo del paese specialmente dopo il grande terremoto del 1980. Da quel momento in poi non c'è stato un solo momento di pace, sia per gli appalti dei lavori pubblici che per la spinta espansionistica e speculativa dell'edilizia privata che aveva messo gli occhi sulle aree di espansione urbana. E così , dopo "avvertimenti" piuttosto pesanti ed espliciti, e dopo aver verificato che né le forze dell'Ordine né la Magistratura potevano fare qualcosa per me, decisi di non correre rischi e soprattutto di non farli correre alla mia giovane famigliola. Mi era appena nata la terza figlia. E così detti le dimissioni e me ne andai. Con rammarico perché quel tipo di lavoro mi piaceva e lo sapevo fare anche bene. Dopo qualche mese feci un altro concorso per un posto analogo in un altro comune più piccolo e più defilato rispetto ai grandi interessi della speculazione edilizia, sperando di non avere i fastidi che mi costrinsero a lasciare. Ma fu tutto inutile ed ebbi la sensazione di essere caduto dalla pentola nella brace e dopo circa sei anni di sofferenza, lasciai anche qui. Morale della favola: volendo restare pulito e continuare a vivere non era più il caso di lavorare con gli Enti Locali oramai infestati da affaristi e tirapiedi senza scrupoli. E così andai a fare il Concorso della Scuola. E lo vinsi ma poiché il numero delle cattedre era in contrazione divenni un soprannumerario a disposizione. Ma mi accorsi da subito che anche qui nella Scuola le cose non andavano affatto bene! Ma ho combattuto per 15 anni come precario senza alcuna soddisfazione e riconoscimento. Se non quello, ben più gradito ed importante, di molti miei allievi che a distanza di anni mi mostrano ancora affetto e riconoscenza. E questo basta e avanza. E ora, a settant'anni, dopo aver combattuto tre anni con l'INPS per avere la pensione, dopo tre anni di sofferenze ed umiliazioni di ogni sorta, devo sopravvivere con moglie e due figlie a carico perché senza lavoro, con una pensione di millecento euro. Grazie Fornero, grazie Renzi, grazie Compagni e grazie Sindacati! Viva l'Italia! Gianni d'Amato

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ANTONIO LANZETTA Antonio Lanzetta nasce a Sarno il 19 ottobre 1974. Vive e lavora a Striano (Na). Lavora presso una nota industria fino al 2004, quando un brutto incidente gli causa la perdita del braccio sinistro. Da quel momento, Antonio inizia a scrivere una nuova pagina della sua vita. Sua moglie, i suoi figli, la sua famiglia, sono la forza che lo spingono a ricominciare. In questa fase così delicata, l'arte gioca un ruolo importantissimo. Tutto comincia con la realizzazione di un mosaico per suo figlio, che rappresentava una balena.

Identità perdute

Da quel giorno, l'amore per l'arte, già presente nell'animo di Antonio, dà continui impulsi che lo spingono a creare opere di diverso genere, dai mosaici agli acrilici su tela, tutti straordinariamente carichi di significato, dai colori sprizzanti. Giorno dopo giorno Antonio e le sue opere lasciano segni indelebili. Partecipa a diversi eventi, ognuno dei quali contribuisce alla crescita di Antonio come artista e come uomo: La PrimaveRart (rassegna d'arte contemporanea), Artisti in vetrina, Alla finestra della speranza, Uguali….. diversi, 20ème Salon

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d'Automne de la Ville de Vierzon Festivals des arts, Identità e Intercultura, finalista al prestigioso Premio Albatros 2015. Realizza uno dei suoi più grandi sogni quando il critico d'arte Giorgio Grasso, colpito dalle sue opere, decide di portarle con se all'Expo di Milano.

Sentimento

Antonio ispira anche la nota scrittrice Marta Lock, che nel suo libro "Pensieri per l'Arte", inserisce il suo acrilico su tela "Natura di un sentimento", commentato da uno dei suoi fantastici aforismi. Ha scritto di lui il critico Francesca Mezzatesta: "Osservare le sue opere è un viaggio in una armonia decorativa che dona energia alla nostra anima, e ci lascia riflettere sul tempo che sfugge e il tempo che occorre per meditare. Nel suo input emozionale racconta di sé e coinvolge i sensi. Ogni opera come una pagina del suo diario tratta dei sentimenti".

Malinconia struggente


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CULTURA POLITICA DOSSIER

Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

www.confini.org


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