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Web-magazine di prospezione sul futuro

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Idee & oltre

ATLANTISMO

Raccolta n. 45 Giugno 2016


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Confini Webmagazine di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Raccolta n. 45 - Giugno 2016 Anno XVIII

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti - Cristofaro Sola +

Hanno collaborato:

Enrico Cisnetto Gianni Falcone Gianfranco Fini Roberta Forte Pierre Kadosh Lino Lavorgna Angelo Romano Massimo Sergenti Cristofaro Sola Antonello Tolve

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Segreteria: confiniorg@gmail.com

confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

BREXIT: CONSEGUENZE E PROSPETTIVE E adesso? Chiuderanno il tunnel sotto la manica? Gli Eurodeputati inglesi, Farage in testa, andranno a casa? Dalle lingue ufficiali dell'Unione verrà abolito l'inglese? I funzionari europei di nazionalità britannica, molti di alto rango, faranno le valige perché licenziati in tronco? Probabilmente i deputati diventeranno "osservatori" fino a fine legislatura, l'inglese resterà lingua ufficiale, visto che è divenuta lo strumento di più agile comprensione tra i 28 (anzi i 27), i funzionari saranno gradualmente rimossi, a partire dai numerosi direttori generali, per passare dal tunnel occorrerà il passaporto, salvo accordi bilaterali che, è lecito pensarlo, non riguarderanno Polonia, Romania e Pakistan, visto lo sfavore di pubblico che si sono guadagnati gli immigrati di questi Paesi e che non poco hanno influito sull'esito referendario. L'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea, se dovesse consolidarsi e se la "ricetta scozzese" per invalidare il referendum non avesse successo, potrebbe rappresentare il primo tassello della disgregazione innescando il temuto effetto domino o, se ben assorbita e gestita, essere il punto d'avvio per una nuova Europa. Il pallino è in mani tedesche ed in quelle degli altri Paesi fondatori. Riusciranno Hollande, Merkel, Renzi, Michel, Bettel e Rutte ad ergersi all'altezza degli Schuman, degli Adenauer, degli Spinelli? Saranno capaci di mettere da parte i rispettivi nazionalismi - da sempre ostacolo per un'Europa politica - per affrontare con rigore e tenacia la rifondazione di un'Unione che, così com'è, piace a pochi? Certo restare in mezzo al guado non è possibile, significherebbe affogare una volta per tutte. D'altro canto, l'uscita dell'Inghilterra, che non ha mai fatto mistero di avere interessi economici e non politici verso l'Unione, in questo ispirata dal proprio mai sopito imperialismo e dagli Usa, potrebbe rivelarsi alla fine, dopo le inevitabili scosse di assestamento, un buon affare per l'Europa continentale e per la revisione di un "atlantismo" che mostra tutti i segni del tempo e del quale gli inglesi sono stati i primi "mastini". Si è in qualche modo usciti da un equivoco che durava da decenni. Adesso bisogna uscire da altri equivoci: la germanizzazione dell'Europa, il problema delle frontiere, il capitalismo senza regole. Se si farà chiarezza si porranno le premesse per il cambiamento. Ma, forse, è solo una stupida speranza visto che la necessità di cambiamento è sostenuta anche da Renzi. A proposito di atlantismo: dal 1949 ha, indubbiamente, garantito la pace, sia pur nella "guerra fredda", e la difesa dai comuni pericoli (Nato), in una prospettiva di sempre più stretta


EDITORIALE

collaborazione tra le due sponde dell'Atlantico, ossia tra Usa e stati europei, il cui numero si è andato allargando verso est, all'indomani dell'implosione del sistema sovietico. E' anche vero che non ha favorito l'integrazione europea sul piano politico (divide et impera). Integrazione politica che si allontana sempre di più mano a mano che aumenta, sotto la spinta "atlantista" e mercatista, il numero degli stati aderenti all'Unione Europea. E' vero, inoltre, che gli assetti geopolitici che ispirarono il Patto Atlantico non sono più gli stessi ed è, quindi, pensabile un "neoatlantismo" (peraltro già in parte attuato con obiettivi medioorientali ai tempi di Enrico Mattei) più paritario e più conciliante verso un continentalismo europeo, atteso che sull'altra sponda dell'Atlantico vi è uno stato federale e quasi continentale. I concetti di "Europa nazione", "una dall'Atlantico agli Urali" o di "Europa delle patrie", potrebbero così finalmente accordarsi con le speranze degli europei. Per altri versi, sempre per ragioni "atlantiche" l'Europa si accinge a sottoscrivere il "Transatlantic Trade and Investment Partnership" (TTIP), nonostante che la sottoscrizione comporti una robusta cessione di sovranità dagli Stati al mercato, e anche questo allontana l'Europa politica, stabilizzandola nell'area di influenza economica (e militare) degli Stati Uniti. Per approfondimenti sull'argomento si segnala il lucido saggio di Alain de Benoist: "Il Trattato transatlantico, l'accordo commerciale Usa - Ue che condizionerà le nostre vite", Arianna editrice. Angelo Romano

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SCENARI

ATLANTISMO Non sono molto esperto in politica internazionale ma, mi chiedo, ha ancora un senso parlare, oggi, di atlantismo secondo il significato che a questa accezione si dava fino ad un quarto di secolo fa? Secondo me, no E non perché tale concetto, attualmente, non produca più effetto bensì perché esso, sia pur con un apporto snaturato rispetto alle origini, ne produce molto (spesso, troppo), non sempre positivo. In effetti, fino alla fine degli anni '80, ragionare di una visione atlantica (e, quindi, di un'alleanza USA-Occidente europeo) aveva una sua ragion d'essere, viste le velleità dei regimi comunisti che, fino ad allora, avevano imperversato sia sullo scenario europeo, sia su quello sud americano, sia su quello del sud est asiatico. Essere, quindi, inseriti all'interno della NATO, l'Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord, aveva la sua ragion d'essere. Infatti, il Patto Atlantico traeva origine dalla percezione che il cosiddetto mondo occidentale, dopo la seconda guerra mondiale, stesse cominciando ad accusare tensioni nei confronti dell'altro paese vincitore della guerra, ossia l'Unione Sovietica, con i suoi Stati satellite. Del resto, proprio al termine della seconda guerra mondiale, aveva cominciato a svilupparsi nelle opinioni pubbliche occidentali il timore che il regime sovietico potesse "non accontentarsi" della spartizione geografica generata al termine della Guerra da varie conferenze di pace e che volesse iniziare una mira espansionista per l'affermazione globale dell'ideologia comunista. Quel timore aveva generato, come è noto, un movimento di opinione che (anche grazie ad attività organizzate in tal senso dagli americani) aveva iniziato a svilupparsi nei Paesi occidentali e aveva portato all'assoluta necessità di garantire la sicurezza del mondo occidentale dalla minaccia comunista. La NATO, perciò, fu la risposta all'esigenza di reciproca protezione che consentì di mettere a fattore comune i dispositivi di difesa, al fine di reagire "come un sol uomo" ad un eventuale attacco. Infatti, il concetto informatore del trattato è ben riportato all'art. 5 dello stesso: " Le parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in America settentrionale, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall'articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti attaccate prendendo immediatamente, individualmente o in concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l'uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell'area Nord Atlantica.".


SCENARI

Era chiaro che partecipare all'Alleanza significava anche essere sensibili alla politica americana in ogni suo aspetto. E del resto, al di là della nozione nominalistica di "Alleanza", l'art. 10 del trattato stesso lo afferma con chiarezza: "I membri possono invitare previo consenso unanime qualsiasi altro Stato europeo in condizione di soddisfare i principi di questo trattato e di contribuire alla sicurezza dell'area nord-atlantica ad aderire a questo trattato. Qualsiasi Stato così invitato può diventare un membro dell'organizzazione depositando il proprio atto di adesione al Governo degli Stati Uniti d'America. Il Governo degli Stati Uniti d'America informerà ciascun membro del deposito di tale atto di adesione.". Tuttavia, oggi, il pericolo della falce e del martello è venuto meno e non credo che Putin e la Russia, all'interno di un nuovo scenario economico mondiale e in presenza di un diverso sistema di leverage politici planetari a differenza di quelli nei quali operarono un Chrušèëv, un Brèžnev o un Andropov, abbiano voglia di rinnalzare e mantenere un Muro. Del resto, il cosiddetto Patto di Varsavia (omologo della NATO d'oltrecortina) non esiste più e i Paesi che lo componevano sono oggi, in massima parte, membri della NATO e, quel che più dovrebbe importare, sono membri dell'Unione Europea. Peraltro, che la NATO, con la caduta del Muro, abbia perso la sua funzione originaria è dato proprio dal nuovo orientamento che l'Alleanza ha preso: un ambito di collaborazione militare tra Paesi aderenti per fronteggiare situazioni d'importanza globale che richiedono il rispetto di risoluzioni ONU o di norme e convenzioni di Diritto umanitari. Infatti, oltre al richiamo all'Alleanza avvenuto giustamente subito dopo l'11 settembre del 2001, la prima missione al di fuori dell'area nord-atlantica la troviamo nel 2003 quando la NATO accettò di prendere il comando dell'ISAF in Afghanistan, su proposta di Germania e Paesi Bassi. E in questo nuovo corso, che questioni "d'importanza globale" possano essere soggette ad una valutazione politica soggettiva sfociante addirittura nell'ignorare le dichiarate necessarie risoluzioni ONU, lo ha dimostrato la stessa NATO quando, tra il marzo e il giugno del '99, senza autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza dell'ONU e sulla sola base del concetto di "ingerenza umanitaria", ha effettuato una dura campagna di bombardamenti contro la Jugoslavia, a quel tempo ridotta soltanto a Serbia e Montenegro. In ogni caso, non sono mancate, in questi ultimi quindici anni, posizioni diverse di alcuni Stati membri (Germania, Belgio, Francia) rispetto agli orientamenti della maggioranza dei partecipanti; quasi a ribadire che i problemi che necessitavano di intervento erano (e sono) soggetti a valutazione politica in esito a precipui interessi (strategici, d'influenza, ecc.) di quegli stessi Stati. In esito alle due citate situazioni, ne deriva che l'intervento della NATO, ottimo deterrente fino a venticinque anni fa, ha oggi una funzione che, seppur meritoria, rispetto all'assoluto precedente può far nascere dubbi in qualcuno dei partecipanti, a cominciare dagli stessi USA, senza che tuttavia il Paese che li esprime possa essere tacciato (lo dico in esasperazione) nemico dell'Occidente o nemico degli USA. Ne deriva, altresì, che definirsi atlantista o anti, oggi non ha più senso a meno che,

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surrettiziamente, non s'intenda per filo-atlantico quel soggetto che pedissequamente debba accettare qualsivoglia politica americana, per arrivare a definire quello stesso soggetto addirittura come anti-americano qualora non l'accetti o se nei confronti di questa esprima dubbi. Molto ingenuamente, lo ammetto, mi chiedo perché lo stesso meccanismo non possa essere adottato per l'Unione Europea. Premesso che resto un convinto europeista, sebbene l'Europa da sessant'anni faccia il possibile per frustrare le mie attese, mi chiedo perché, all'insegna di una non meglio precisata ottica filo-occidentale (se non filo-atlantica) l'Unione Europea non possa arrivare ad esprimere una posizione unanime al pari degli USA e perché, rispetto all'America del Nord abbia una posizione di sudditanza che, non più militare, è divenuta commerciale? E' vero, è lontano quel 1999 quando il commissario Lamy, addetto al commercio, in quel di Seattle in occasione della riunione del WTO, prima dell'interruzione dei black block, tentò di avviare un confronto in merito alla proprietà intellettuale in un'epoca di globalizzazione, per sentirsi rispondere, dall'esterno, che non era un problema all'ordine del giorno e, dall'interno, che non aveva il mandato a parlare. Ma è più vicino quel 2003 quando tutti i Paesi dell'Unione, sotto una forte pressione degli USA, i maggiori produttori di piante OGM, delle multinazionali agrobiotecnologiche, del Canada e dell'Argentina, sono stati costretti a consentire l'apertura a quei prodotti, vincolati da due regolamenti comunitari e da una direttiva che, sebbene inalberino il principio della precauzione, la basano su effimeri controlli. E' tanto certo questo che, data ormai la situazione nei fatti, i centri d'indagine europei hanno drasticamente diminuito l'attività di ricerca biotecnologica sugli effetti nel lungo periodo degli audacia temeraria igiene spirituale stessi OGM, come peraltro attesa un report del Joint Research Center europeo. Per cui, l'unica cosa che ci resta da fare è confidare nelle rassicurazioni degli scienziati, per lo più americani. Ed ancor più recente, praticamente dell'oggi, è il cosiddetto Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP), dal 2013 in corso di negoziato. L'obiettivo dichiarato di quel negoziato è di arrivare ad un protocollo che integri il mercato USA con quello dell'Unione Europea, riducendo i dazi doganali e rimuovendo in una vasta gamma di settori le barriere non tariffarie, ossia le differenze in regolamenti tecnici, norme e procedure di omologazione, standard applicati ai prodotti, regole sanitarie e fitosanitarie. E ciò al fine di rendere possibile la libera circolazione delle merci, facilitare il flusso degli investimenti e l'accesso ai rispettivi mercati dei servizi e degli appalti pubblici. Fin qui, le dichiarazioni d'intenti. Ma già il fatto che le trattative in merito siano iniziate in maniera riservata e che, grazie all'Italia (stranamente) esse siano state declassificate, lascia molto da pensare. Ma ancor più da pensare lasciano i vincoli che esso comporterebbe, se varato. Le materie sulle quali si sta trattando vanno dai meccanismi per lo scambio di merci circa le tariffe e le modalità di accesso al mercato agli scambi di servizi e agli investimenti, dagli scambi di energia e materie prime ai diritti di proprietà intellettuale comprese le indicazioni geografiche, dalle metodiche per gli appalti pubblici al concetto di sviluppo sostenibile, dalla concezione di Piccola e Media Impresa agli aspetti doganali per la facilitazione degli scambi.


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Sono, altresì, oggetto di negoziato questioni inerenti i beni non agricoli e i prodotti agricoli, le questioni sanitarie e fitosanitarie, quelle farmaceutiche, i prodotti tessili e cosmetici, le automobili, i prodotti chimici e pesticidi, i dispositivi medici e i concetti ingegneristici. E non basta. Sono in discussione i concetti e le modalità di concorrenza, l'agire delle imprese statali, la concessione di aiuti di Stato e, dulcis in fundo, la protezione degli investimenti. A proposito di quest'ultimi, la bozza del trattato contiene limitazioni sulle leggi che i governi partecipanti possono adottare per regolamentare diversi settori economici, in particolare banche, assicurazioni, telecomunicazioni e servizi postali. Infatti, secondo la stessa Commissione Europea, tra i contenuti del trattato di partnership commerciale ci sarà l'introduzione di un arbitrato internazionale (denominato ISDS - Investorstate dispute settlement) che permetterà alle imprese di intentare cause per "perdita di profitto" contro i governi dei paesi europei, qualora questi portassero avanti legislazioni che potenzialmente possano mettere in discussione le aspettative di profitto delle stesse imprese. Scenari, quest'ultimi, che si sono già avverati nell'ambito di altri trattati di libero scambio e che hanno permesso, ad esempio, a una multinazionale energetica come la svedese Vattenfall, la quarta produttrice di energia in Europa, di citare in giudizio il Governo tedesco per la decisione di chiudere le proprie centrali nucleari. O come, ad ulteriore esempio, il caso della Veolia, un'utility francese che opera nei settori della distribuzione e purificazione dell'acqua, energie alternative, ricondizionamento ambientale e trasporti metropolitani, che ha citato il Governo egiziano per aver aumentato il salario minimo dei lavoratori. Ne deriva che, sulla scia di quei precedenti, acqua ed energia sono settori a rischio privatizzazione, così come lo sono gli attuali servizi pubblici (sanità, trasporti, istruzione, servizi idrici ed educativi). Inoltre, la legislazione sul lavoro, già drasticamente deregolamentata dalle politiche di austerity dell'Unione Europea, potrà essere ulteriormente attaccata in quanto considerata "barriera non tariffaria" da rimuovere. In ordine alla finanza, poi, il trattato comporterebbe l'impossibilità di qualsivoglia controllo sui movimenti di capitali e sulla speculazione bancaria e finanziaria. Ancora, relativamente all'ambiente, oltre ad essere considerate eccessivamente vincolanti le relative norme europee, attraverso l'armonizzazione di queste con quelle americane si incentiverebbe l'importazione delle biomasse che, al momento, non rispettano i limiti minimi di emissione di gas ad effetto serra e criteri di sostenibilità ambientale. Analogamente dicasi per il gas di scisto, il cosiddetto fracking, bandito in Francia e comunque limitato e regolamentato dall'Unione europea. La bozza di trattato tocca, infine, internet e il concetto stesso di libertà perché, attraverso quella normativa, si dissolverebbero le normative europee di protezione dei dati personali per ridurli al livello quasi inesistente degli Stat Uniti, autorizzando in questo modo un accesso incontrastato alla privacy dei cittadini da parte delle imprese private. In sostanza, qualsiasi regolamentazione pubblica, statale o locale che tuteli i diritti sociali, economici ed ambientali, con la scusa della tutela della competizione e degli investimenti, rischierà di soccombere dinanzi alle esigenze delle aziende e dei mercati, tutelate da sentenze

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del nuovo soggetto arbitrale che saranno a tutti gli effetti inappellabili. Si concretizza così la situazione per la quale alle multinazionali verrebbe dato uno status giuridico pari a quello di Stati o Nazioni, che vedrebbero così rimuovere le ultime parti della loro sovranità. Ora, la domanda è: come è possibile, santiddio, che un negoziato del genere si avvii sotto il più assoluto riserbo al punto da non consentire, non ai Parlamenti nazionali che probabilmente, visto il grado di conoscenza degli eletti, non sanno neppure cosa sia il TTIP, bensì allo stesso Parlamento europeo di aprire un dibattito generale sull'iniziativa della Commissione? E' mai possibile che il Consiglio europeo si disinteressi di tutti questi aspetti e, per esso, Stati al livello della Francia, forti assertori delle loro identità? E' mai possibile che un gruppo di burocrati possa totalmente soppiantare la legittima sovranità degli Stati e lo stesso concetto originario d'Europa? Fino ad ora, i pochi pareri registrati sono, sostanzialmente, di due scontati tipi: i proponenti sostengono che l'accordo sarà motivo di crescita economica per i paesi partecipanti, mentre i critici sostengono che questo aumenterà il potere delle multinazionali e renderà più difficile ai governi il controllo dei mercati per massimizzare il benessere collettivo. Uno studio della Tufts University del Massachusetts (quindi, americano) mette in discussione gli impatti positivi del trattato, evidenziando l'effetto di disarticolazione del mercato interno europeo, di depressione della domanda interna e della conseguente diminuzione del PIL europeo. Forse, quell'Università verrà bollata come un covo di sediziosi, di anti-americani, di simpatizzanti di frange oltranziste islamiche. Naturalmente, con temeraria dolore, scherzo. Ma spirituale l'impressione che tutto questo mi dà è quello della audacia igiene vecchia sceneggiata napoletana dove la Commissione è "issa" mentre l'interlocutore americano è "isso". Secondo gli sceneggiatori, lo scettico o l'oppositore è "'o malamente", l'antagonista, quello che insidia "issa". Al di là dei ruoli da attribuire, resta nella sceneggiata il fatto che "issa" è sempre un po', come dire, leggera. Non mancano, comunque, altri aggettivi. L'altra, ripetitiva, costatazione è che il pubblico piange. Massimo Sergenti


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ALLONS ENFANTS DE LA PATRIE Pochi lo sanno ma, dal 2013, è pendente un negoziato tra la Commissione europea e gli Stati Uniti d'America mirante a realizzare un accordo commerciale di libero scambio, il TTIP. L'obiettivo dichiarato è quello di integrare i due mercati, riducendo i dazi doganali e rimuovendo in una vasta gamma di settori le barriere non tariffarie, ossia le differenze in regolamenti tecnici, norme e procedure di omologazione, standard applicati ai prodotti, regole sanitarie e fitosanitarie al fine di rendere possibile la libera circolazione delle merci, facilitare il flusso degli investimenti e l'accesso ai rispettivi mercati dei servizi e degli appalti pubblici. Queste, almeno, sono le dichiarazioni d'intenti. Lo strano è che il Parlamento europeo, dopo aver votato nel 2013 il mandato esclusivo a negoziare alla Commissione, come richiede il Trattato di Lisbona, può soltanto porre quesiti circostanziati ai quali la Commissione può rispondere ma nel rispetto della riservatezza obbligatoria in tutti i negoziati commerciali bilaterali. Lo stesso Parlamento, poi, avrà diritto di voto finale "prendi o lascia", quando il negoziato sarà completato. Nel frattempo, l'Assemblea legislativa europea non ha diritto né di accesso né di intervento sul testo. I Governi stessi dell'Unione, se vorranno avere visione delle proposte USA, dovranno, a quanto sembra, accedere a sale di sola lettura approntate nelle ambasciate USA (non si capisce se in quelle di tutti gli Stati UE o solo a Bruxelles), e non potranno nemmeno prendere appunti o farne copia. Un assurdo, considerata la tecnicità e complessità dei testi negoziali. Eppure, una volta concluso, quel trattato riguarderà tutti i settori di produzione e consumo come cibo, farmaci, energia, chimica, ma anche i nostri diritti connessi all'accesso a servizi essenziali di alto valore commerciale come la scuola, la sanità, l'acqua, previdenza e pensioni: tutti esposti a privatizzazioni e alla potenziale acquisizione da parte delle imprese e dei gruppi economicofinanziari più attrezzati, e dunque più competitivi. E ciò senza pensare che misure protettive, come i contratti di lavoro, misure di salvaguardia o protezione sociale o ambientale, potrebbero essere spazzate via a patto di affidarsi allo studio legale giusto e ben accreditato visto che l'articolato di quel trattato prevede l'introduzione di un arbitrato internazionale (denominato ISDS - Investor-state dispute settlement) che permetterà alle imprese di intentare cause per "perdita di profitto" contro i governi dei paesi europei, qualora questi portassero avanti legislazioni che potenzialmente possano mettere in discussione le aspettative di profitto delle stesse imprese. Non sembra che in Italia l'arrivo di un cataclisma del genere abbia sollevato una qualche

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attenzione. Non ci sono pareri di illustri economisti, la carta stampata al riguardo è bianca e le emittenti radiotelevisive tacciono. Un unico soggetto, il ministero per lo Sviluppo economico, ha commissionato a Prometeia una prima valutazione d'impatto mirata all'Italia, alla base alle poche notizie di stampa e a qualche interrogazione parlamentare. Secondo quello studio, i primi benefici delle liberalizzazioni si manifesterebbero nell'arco di tre anni dall'entrata in vigore dell'accordo: il 2018, al più presto. Il TTIP porterebbe, entro i tre anni considerati, da un guadagno pari a zero in uno scenario cauto, ad uno +0,5% di PIL in uno scenario ottimistico: al massimo, 5,6 miliardi di euro e 30mila posti di lavoro grazie a un +5% dell'export per il sistema moda, la meccanica per trasporti, un po' meno da cibi e bevande e da uno scarso +2% per prodotti petroliferi, prodotti per costruzioni, beni di consumo e agricoltura. Ma quelli sono dati asettici, al lordo di problemi potenziali. Infatti, secondo l'ICE, nell'ultimo triennio le esportazioni di beni e servizi dell'Italia sono cresciute in volume del 2,3%, leggermente al di sotto del commercio mondiale. La loro incidenza sul PIL ha sfiorato il 30% in virtù dell'austerity e della crisi dei consumi che hanno depresso il prodotto interno. L'Italia è, dunque, riuscita a rosicchiare spazi di mercato internazionale contenendo i prezzi, senza generare domanda interna né nuova occupazione. Ma il pericolo è che prima di chiudere i conti il mercato italiano e quello europeo possono essere invasi da prodotti USA a prezzi stracciati che porterebbero danni all'economia diffusa, e soprattutto all'occupazione, molto più ingenti di questi presunti guadagni. Ma c'è di più. Gli Stati Uniti non hanno ratificato diverse convenzioni e impegni internazionali ILO e ONU in materia di diritti del lavoro, diritti umani e ambiente. Questo rende, ad esempio, il loro costo del lavoro più basso e il comportamento delle imprese nazionali più disinvolto e competitivo, in termini puramente economici, anche se più irresponsabile. Al riguardo, la Commissione ha rassicurato che a sorvegliare gli impatti ambientali e sociali del TTIP, come nei più recenti accordi di liberalizzazione siglati dall'UE, ci sarà un apposito capitolo dedicato allo sviluppo sostenibile che metterà in piedi un meccanismo di monitoraggio specifico, partecipato da sindacati e società civile d'ambo le regioni. Ma è dato il caso che un meccanismo simile è entrato in vigore da meno di un anno tra UE e Corea, con la quale l'Europa ha sottoscritto un trattato di liberalizzazione commerciale molto simile, anche strutturalmente, al TTIP facendo finta di non ricordare che, come gli USA, la Corea si è sottratta a gran parte delle convenzioni ILO e ONU. Le imprese, sindacati e le ONG che fanno parte dell'analogo organo creato per monitorare la sostenibilità sociale e ambientale, hanno protestato con la Commissione affinché avvii una procedura di infrazione contro la Corea per comportamento antisindacale, e ancora aspettano una risposta. Detto questo, nessuno può contestare il fatto che gli USA, molto più potenti e contrattualmente più forti della Corea, potrebbero non piegarsi alle esigenze europee, considerato che sono tra i pochi Paesi che non sono mai addivenuti a impegni obbligatori a salvaguardia della salute o dell'ambiente come il Protocollo di Kyoto, ad esempio, appena archiviato anche grazie alla loro ferma opposizione.


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E che le regole USA siano più permissive e, quindi, più rischiose per le comunità lo dimostra un lampante caso. Nel 1988, l'UE vietò l'importazione di carni bovine trattate con certi ormoni della crescita, considerati cancerogeni. Per tale divieto, l'Unione è stata obbligata a pagare a USA e Canada dal Tribunale delle dispute dell'Organizzazione mondiale del commercio (WTO) oltre 250 milioni di dollari l'anno di sanzioni commerciali, nonostante le evidenze scientifiche e le tante vittime. Solo nel 2013 la ritorsione è finita quando l'Europa si è impegnata ad acquistare dai due concorrenti carne di alta qualità fino a 48.200 tonnellate l'anno. E ciò, al di là di ulteriori evidenze, non depone a favore del "libero" commercio come inteso dalla bozza del trattato. Neppure all'estero sembra che il TTIP abbia sollevato grossi interrogativi da parte di centri d'indagine. Tra i pochi, brillano in particolare le ricerche del quotidiano inglese Guardian e quelle avviate dall'Austrian Foundation for Development Research. Sul numero del 30 maggio scorso del giornale inglese, Nick Dearden avverte che il TTIP sarà il più devastante tra i trattati per il "libero commercio"; il più devastante perché non è l'unico. Ne esistono altri che comunque, a giudizio di Dearden, esprimono tutti una stessa volontà: quella di ridurre gli Stati al livello delle aziende, per cancellare la sovranità democratica dei popoli e sostituirla con la sovranità del grande capitale. E, a sostegno delle sue affermazioni, cita il "fratello minore" del TTIP, ma non meno pericoloso, il CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement). Il CETA è un trattato tra Unione Europea e Canada, avanguardia tra i trattati "stile TTIP", già firmato dalla Commissione Europea e dal governo canadese. Manca solo la ratifica entro i prossimi 12 mesi. L'unica nota positiva di quel trattato è che, essendo già stato firmato, è consultabile e, a detta del Guardian, le sue 1500 pagine dimostrano che non è una minaccia solamente per i standard alimentari europei, ma anche per l'impegno contro il cambiamento climatico, per la possibilità di regolamentare le grandi banche e dunque di impedire future crisi finanziarie, nonché per la possibilità di rinazionalizzare le industrie. Come per il TTIP, anche il CETA prevede un nuovo sistema legale aperto solo alle aziende e agli investitori esteri; cosicché, afferma Dearden, se il governo britannico dovesse decidere, per esempio, di bandire certe sostanze chimiche, di migliorare gli standard sulla sicurezza alimentare o di imporre pacchetti senza pubblicità e marchi per le sigarette, un'azienda canadese può fargli causa. E la ragione del contendere sarebbe semplicemente che a questa azienda viene impedito di fare profitti come avrebbe voluto e il "processo" si terrebbe di fronte a un tribunale speciale, con la supervisione di avvocati di quell'azienda. Sembra che la Commissione Europea abbia già apportato dei cambiamenti al sistema del "tribunale aziendale", in modo da renderlo più equo. I ricercatori, però, ritengono che quelle modifiche non avrebbero comportato e non comportano alcun cambiamento per le decine di casi "giudiziari" già portati avanti contro gli Stati. Lo stesso Canada, peraltro, ha già combattuto e perso una serie di casi contro grandi aziende statunitensi all'interno del North American Free Trade Agreement (NAFTA); casi che includevano la proibizione di certe sostanze chimiche cancerogene nella benzina, il reinvestimento nelle

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comunità locali o l'interruzione della devastazione ambientale nelle cave minerarie. Con il CETA, sottolinea il Guardian, casi come questi sono in arrivo anche in Europa. Dearden, poi, ricorda un caso particolare: l'estrazione di petrolio dalle sabbie bituminose come uno dei procedimenti che causa la maggiore distruzione ambientale al mondo, e molto di quel petrolio viene estratto nell'Alberta, in Canada. Attualmente, sottolinea, si fa poco uso di petrolio da sabbie bituminose nella UE ma questa situazione è destinata a cambiare. Infatti, quando la UE propose dei nuovi regolamenti per fermare l'importazione di quel tipo di petrolio, il Canada usò il CETA come merce di scambio per bloccare la proposta. Il giornalista ne deduce che se il CETA venisse ratificato, quei regolamenti sarebbero cancellati aggravando una situazione già difficile per i cambiamenti climatici. Comunque, non è stata la prima volta, quella citata, che il Guardian affronta la questione TTIP. Successivamente, infatti, ha riportato un incontro privato tra l'ex Commissario al commercio dell'Unione europea, Karel de Gucht e due lobbisti di Exxon, avvenuto nell'ottobre 2013; un incontro del quale sembra che il giornale citato abbia ottenuto il verbale. "… il TTIP è importante perché crea un precedente nei confronti dei Paesi terzi […]. Pensiamo che questo elemento interessi al settore energetico, e in particolare ad aziende attive a livello globale come Shell o ExxonMobil. Dopo tutto, esse affrontano gli stessi ostacoli al commercio quando fanno affari in Africa, in Russia o in Sud America". Secondo i verbali della riunione in mano alla testata britannica, la conversazione sarebbe durata un'ora, focalizzandosi su quattro argomenti: gas da scisti, aspetti geopolitici, intenzione, poi abbandonata, dell'Ue di etichettare le sabbie bituminose come combustibile altamente inquinante e possibile riconversione al trattamento del greggio del terminale USA di Exxon per l'export di gas naturale liquefatto. Indi, si è rivolto ai petrolieri e, mettendo umoristicamente in bocca le parole a Karel de Gucht, li ha rassicurati che il TTIP sarà la soluzione a tutti i loro problemi. "… regole stringenti sulle emissioni e l'inquinamento ambientale dopo il TTIP saranno carta straccia. Il patto di liberalizzazione commerciale fra Stati Uniti e Unione europea è un'occasione unica per definire gli standard del commercio globale. E saranno talmente competitivi che anche i Paesi terzi dovranno abbracciarli. Immaginiamo che l'idea possa farvi piacere, visto il vostro interesse ad investire nei Paesi in via di sviluppo." Infatti, i Paesi al di fuori del patto USA-Ue sarebbero progressivamente costretti ad adottare le stesse misure, rendendo più facile per le aziende come Exxon l'espansione nei loro mercati e la compagnia ha infatti piani di investimento nel fracking in Africa, Sud America e Asia. Un'altra interessante posizione contro il TTIP, come sopra accennato, è quella espressa dall'Austrian Foundation for Development Research che, attraverso uno studio, ha valutato in modo critico alcune indagini "ufficiali" sul TTIP: quella del Centre for Economic Policy Research, (N.d.R. con sede a Londra, finanziato da imprese perlopiù bancarie), l'altra del francese Centre d'Etudes Prospectives et d'Informations Internationales e l'altra ancora quella della tedesca


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Bertelsmann SE & Co. KGaA, (N.d.R. una multinazionale tedesca con sede a Gütersloh in Germania, tra le maggiori aziende multimediali al mondo). Tutti e tre quegli studi, neppure a dirlo, vantano presunti benefici a seguito del TTIP (maggiore crescita, più esportazioni e più occupazione, risolutore dell'attuale crisi); benefici che lo studio dell'Austrian Foundation ha trovato inesatti, irrealistici e distorti ideologicamente. Se ne tracciano sinteticamente i motivi. In primo luogo, i benefici economici stimati dagli studi sul TTIP su redditi e crescita sono scarsi - in generale si parla di meno dell'1% del PIL -, e si otterrebbero solo in un periodo di 10-20 anni. Pertanto il TTIP non può dare impulso nel breve termine ad un'economia UE in difficoltà. In secondo luogo, con commercio e investimenti transatlantici già largamente liberalizzati, i benefici economici dipendono essenzialmente dalla riduzione e/o allineamento delle misure non-tariffarie. Queste ultime riguardano un'ampia gamma di standard, regolamentazioni e normative, e includono questioni politiche di rilevanza pubblica molto sensibili, come la salute e la sicurezza pubblica, la tutela del consumatore, le regolamentazioni sociali e ambientali, etc. In secondo luogo, i costi sociali della riduzione o allineamento delle misure non-tariffarie dovuti al TTIP possono essere rilevanti, e sono stati finora completamente trascurati nelle valutazioni dell'impatto economico. Inoltre, i costi di aggiustamento macroeconomico non sono trascurabili e sono particolarmente rilevanti per quanto riguarda la disoccupazione e la perdita di entrate fiscali. Infine, i potenziali effetti avversi includono: una riduzione di commercio e reddito per i paesi meno sviluppati a causa della deviazione degli scambi in favore di USA e UE, e una riduzione del commercio intra-UE con effetti negativi sull'integrazione europea. E ciò senza considerare l'aspetto particolarmente preoccupante derivante dall'inclusione di un controverso sistema di risoluzione delle dispute tra investitori e Stati, chiamato ISDS (N.d.R. già sopra descritto); un sistema che l'Austrian Foundation definisce una forma di giurisdizione internazionale privatizzata, con dei forti deficit in termini di controllo democratico e di legittimità dei processi. E, a proposito di democrazia, un secondo aspetto collegato all'ISDS, ha a che fare con quella che i negoziatori ufficiali dell'accordo descrivono come "cooperazione in campo normativo". Con il TTIP, infatti, si stabilirà un sistema che punta a trasferire la discussione politica sulle iniziative normative verso organi tecnocratici lontani dal controllo democratico. E ciò, afferma la Fondazione austriaca, finirà per dare ai settori privati di entrambe le sponde dell'Atlantico, nonché al governo USA, un maggiore potere di influenza sulle iniziative normative dell'UE. Un ulteriore punto di negazione, secondo l'Austrian Foundation, è rappresentato dalle conseguenze economiche dell'eliminazione delle poche barriere ancora rimanenti che impatteranno sui bilanci UE aggravando l'austerità. Infatti, ricorda lo studio, il TTIP porterà a una più o meno completa eliminazione di tutte le restanti tariffe commerciali tra USA e UE. Ricorda, altresì, che nel 2012 tali tariffe poste sulle importazioni dagli Stati Uniti fruttavano 2,6 miliardi di euro, ovvero il 12% dei ricavi tariffari dell'UE.

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Se durante i 10 anni del periodo di attuazione del TTIP queste tariffe saranno eliminate - con un completamento del processo intorno al 2027, a seconda dello scenario previsto -, ciò significherà una perdita di entrate tra i 2 e i 4 miliardi di euro all'anno per il bilancio UE. Sebbene nel lungo termine una parte di questa perdita sarà compensata dalle maggiori entrate fiscali sul valore aggiunto provenienti dalla vendita di prodotti di importazione USA, nel breve termine questa riduzione di introiti fiscali dovrà essere compensata o con tagli della spesa o con fonti di entrata alternative. E la previsione è che gli Stati membri dell'UE non saranno disposti a incrementare i trasferimenti a Bruxelles, lasciando in difficoltà la Commissione europea. Quello studio, comunque, mette in luce un importantissimo punto evidenziando che la contrapposizione tra quelli secondo i quali l'accordo sarà "buono" per l'economia e quelli per i quali sarà "cattivo" è riduttiva perché, in termini puramente economici, alcuni settori dell'economia, e alcuni paesi dell'Europa, trarranno beneficio dall'accordo (almeno in termini relativi), mentre altri ne saranno danneggiati. Tra i primi, vi sono i paesi orientati all'export, con una specializzazione in prodotti di qualità ad elevata intensità di capitale, come la Germania, l'Olanda e la Svezia. Invece, i paesi con una specializzazione in industrie ad alta intensità di manodopera e di energia, così come quelli specializzati nell'agricoltura, tenderanno ad essere danneggiati. Così i Paesi. In generale, sia le economie trainate dall'export, su tutte la Germania, sia i paesi con un settore dei servizi molto internazionalizzato, in particolare il Regno Unito, sono i più forti sostenitori dell'accordo. Ma quelli che più spingono per i negoziati non sono i governi di per sé, ma i settori delle imprese, nell'UE e negli USA; soprattutto, le grandi imprese multinazionali. Lo studio, peraltro, si è chiesto se il TTIP non sia legato in qualche modo alla strategia di austerità e di svalutazione interna che si sta imponendo in Europa, presumibilmente mirata a trasformare il continente in una gigantesca economia trainata dall'export, sul modello del sistema tedesco. E, alla domanda, si è risposto in modo affermativo: infatti, il TTIP è parte essenziale della strategia Global Europe, la quale mette esplicitamente in relazione le politiche europee sul commercio con il programma per la competitività di Europa 2020. In sostanza, afferma lo studio, la nuova agenda per il commercio è parte di una politica della crisi che enfatizza la necessità di aumentare la competitività al fine di stabilire un modello di crescita trainato dalle esportazioni in tutta l'UE, in particolare nell'eurozona. Una scelta, ad avviso dei ricercatori, fondamentalmente sbagliata perché l'UE dovrebbe al contrario cercare di stimolare la domanda interna attraverso un programma di investimenti che faciliti una trasformazione socio-ecologica e una politica della redistribuzione che miri a combattere il diffuso impoverimento della popolazione, in particolare nei paesi in crisi della periferia a Sud e a Est dell'Europa. Siccome non siamo in presenza di una vera politica di integrazione, sembra inoltre che il TTIP, conclude l'Austrian Foundation, sia parte di una più ampia strategia di smantellamento del cosiddetto "modello sociale europeo". E ciò è vero nella misura in cui l'attuale modello di crescita trainato dalle esportazioni è legato alla flessibilizzazione del mercato del lavoro, alla bassa


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tassazione per le imprese e alla deflazione salariale, elementi cruciali delle cosiddette riforme strutturali. Terminata la carrellata sulla situazione, sembra che ben pochi soggetti conoscano la vera portata del trattato in negoziazione: sembra, altresì, che Greenpeace abbia avviato la Campagna Stop TTIP, che dichiara di raccogliere solo in Italia oltre 60 tra associazioni, sindacati, enti pubblici, cittadini e comunità. Inoltre, sembra che più di tre milioni di europei abbiano firmato una petizione in Europa per opporsi al TTIP e che 250.000 tedeschi siano scesi per le strade di Berlino, lo scorso autunno, per cercare di far annullare il trattato. Sembra, infine, che anche la gente comune cominci a interrogarsi: recenti sondaggi dicono che solo il 18% degli americani e il 17% dei tedeschi è a favore del TTIP, in discesa rispetto a due anni fa, quando a favore erano il 53% dei primi e il 55% dei secondi. Ora, se la verità sui rischi del trattato TTIP si avvicina sia pur in minima parte alle potenzialità negative sopra riportate, da persone per bene non possiamo non contribuire a ché il flebile lamento critico al TTIP acquisti un po' più di consistenza. E, perciò, la mia proposta è che la rivista aggiunga la sua voce a quella dei dissenzienti e provi a coinvolgere quanti più soggetti possibile su questa posizione. E poiché, come in tutte le battaglie (incruente), necessita un motto, un inno incentivante e visto che, con tutto il rispetto per le istituzioni democratiche italiane e per i valori fondanti della Repubblica, non sembra che l'Italia si sia destata, allora, pur non apprezzando il portato della Rivoluzione francese, non mi resta che ricorrere all'incitamento che per tutto il percorso l'ha accompagnata fino a divenire inno nazionale di Francia; cioè alla Marsigliese e alla sua esaltante iniziale esortazione: Allons Enfants de la Patrie. Roberta Forte

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QUANDO LA STORIA NON E’ MAESTRA

Il primo dato che emerge dal "Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti" è che la storia, anche per questa vicenda, non ha insegnato nulla. Abbiamo sotto gli occhi, non da poco tempo, il fallimento dell'Europa dei mercanti ed è chiaro a tutti, oramai, il grosso errore commesso con l'anteporre l'integrazione economica e monetaria a quella politica. Ora stiamo replicando l'errore in modo più esteso, coinvolgendo circa un miliardo di persone in scelte riservate esclusivamente a chi penserà, precipuamente, ai propri interessi e non certo al bene comune. In linea di principio i presupposti non sono sbagliati: arginare la dilagante invasione dei prodotti cinesi, indiani e brasiliani, i cui costi sono condizionati dal massiccio sfruttamento dei lavoratori e quindi altamente concorrenziali. I metodi utilizzati, tuttavia, in particolare le trattative segrete e la scarsa chiarezza su alcuni comparti di primaria importanza, uniti agli effetti deleteri sotto il profilo socio-economico, impongono una chiara e netta opposizione alla ratifica. Europa e Stati Uniti sono caratterizzati da princìpi e regole di vita non compatibili. Sinteticamente si possono individuare quattro punti da sottoporre all'attenzione dei cittadini, senza scivolare nelle contrapposizioni pregiudizievoli, che aggiungono solo problemi ai problemi. 1) SICUREZZA ALIMENTARE E BIOTECNOLGIE Tra Europa e USA vi sono sostanziali differenze nella valutazione dei rischi connessi al consumo dei prodotti biologicamente modificati. Negli USA non sono considerati pericolosi per la salute e quindi non è prevista nemmeno l'etichettatura specifica. In Europa siamo molto più attenti e a giusta causa. Sotto il profilo scientifico hanno priorità le tesi di coloro che ne hanno acclarato la pericolosità, sulla base di studi qui sottaciuti per amor di sintesi, ma che ciascuno può facilmente reperire con una semplice ricerca. Sotto il profilo etico, poi, (concetto semplicemente incomprensibile per le multinazionali statunitensi e per i politici a esse asserviti), si osserva che la Natura non deve essere "violentata" e che l'alterazione degli ecosistemi può avere effetti devastanti. La possibile immissione di virus nel patrimonio genetico può causare una mutazione del processo evolutivo verso forme di vita al momento non definibili o, addirittura, la distruzione del genere umano. Non sono solo gli OGM, tra l'altro, a preoccupare. Negli allevamenti intensivi statunitensi si fa


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largo uso di ormoni e antibiotici, fonte primaria di gravi malattie e concausa di quella "obesità" che sta trasformando la stragrande maggioranza dei cittadini statunitensi in buffe palle di lardo ambulanti. 2) CONTROLLI SUI PRODOTTI - PRINCIPIO DI PRECAUZIONE In Europa le "analisi" sulla pericolosità dei prodotti "precedono" la loro commercializzazione. E' proprio in base a questo principio che è vietato il consumo di polli trattati con clorina (dannosi per le reazioni chimiche, le variazioni del gusto e gli effetti tossici generati dall'ingestione dei residui delle sostanze) e il manzo trattato con gli ormoni, su cui effetti nocivi nessuno nutre dubbi. Negli Stati Uniti, invece, il principio di precauzione non vale: le sostanze chimiche sono considerate sicure fino a prova contraria. In pratica si deve prima morire e poi si deve stabilire che la morte è stata generata dal pollo o dalla bistecca. Ma poche morti non bastano a bloccare l'utilizzo dei prodotti: occorre una vera e propria epidemia. Lo so che state ridendo… ma qui c'è da piangere. 3) SALVAGUARDIA DELLA QUALITA' Chiunque abbia confidenza con le abitudini culinarie statunitensi comprende bene l'espressione: "Gli americani mangiano schifezze". Al cibo spazzatura va associata la massiccia imitazione dei prodotti europei di qualità, in particolare italiani, consumati come se fossero delle vere e proprie prelibatezze. "Mozzabella", per esempio, (avete letto bene: mozzabella) e tutta una varietà di formaggi e insaccati che fanno vomitare anche alla solo vista. Questi prodotti ce li ritroveremmo tutti negli scaffali dei supermercati. In Europa, inoltre, vige la tutela del marchio di origine, che conferisce la giusta reputazione a un dato prodotto. Negli USA, invece, le lobby delle multinazionali hanno imposto la protezione del marchio, indipendentemente dal luogo di produzione. Con questo principio in Italia si potrebbe spacciare per "Amarone" un vino prodotto a mille chilometri di distanza, in una vigna che non presenti la "particolare struttura" di quelle ubicate in Valpolicella, dalle quali proviene uno dei "vini rossi" più prelibati al mondo. 4) TUTELA DEI PICCOLI PRODUTTORI DI NICCHIA Già sono in crisi. L'approvazione del trattato determinerebbe la loro scomparsa. Tutto ciò premesso, vi è da considerare che l'arbitrato, in caso di controversie, è affidato a un organismo costituito da arbitri scelti con metodi extragiudiziali: "Investor-state dispute settlement". Se una multinazionale accusasse uno Stato di intralciare i propri affari, si vedrebbe quasi sempre riconosciuta la ragione. I governi, di fatto, perderebbero ogni autonomia nella tutela dei propri cittadini e dovrebbero inchinarsi (più di quanto già non facciano) allo strapotere delle multinazionali, per le quali conta

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solo il profitto e non certo i morti che provocano in ogni parte del mondo. La Philip Morris, per esempio, non ha esitato a chiamare in giudizio Uruguay, Norvegia e Australia, che avevano introdotto norme a tutela dei consumatori, attivando campagne promozionali per dissuaderli il più possibile dall'acquisto delle sigarette. A conclusione di questo articolo, anche se non c'entra nulla con il TTIP, voglio divulgare quanto dichiarato dai dirigenti della potente associazione statunitense dei produttori di armi. A poche ore dal massacro di Orlando, riferendosi a una possibile norma che ne vieti la vendita "almeno" a coloro che risultino schedati dal FBI come possibili terroristi, hanno espresso una netta opposizione, asserendo che "prima si deve verificare la loro effettiva pericolosità". Senza vergogna! Nemmeno una strage di siffatta portata li ha indotti a "un briciolo di umanità". E' questa la cinica mentalità che pervade le lobby affaristiche statunitensi e le multinazionali da loro protette. E' una mentalità che fa schifo, prima ancora di fare orrore e dalla quale è preferibile stare lontani mille miglia. Anzi no: almeno 4.280,59 miglia, ossia quelle che separano Roma da New York. Lino Lavorgna


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LA LEZIONE DEI CINQUESTELLE In tanti parlano di assetto tripolare del sistema politico italiano e se invece si andasse verso un bipolarismo nel quale un nuovo polo - i Cinquestelle - sostituisse il vecchio e logoro polo di Centrodestra? Un Centrodestra che sembra aver smarrito il rapporto con il popolo e che appare ispirato solo da una insufficiente e stantia "cultura di palazzo", in base alla quale l'interlocutore è esclusivamente un membro del ceto politico - non importa quanto screditato agli occhi degli elettori - e le "strategie" contemplano essenzialmente solo operazioni di disarticolazione e riaggregazione, mai un'immersione nella realtà e tra la gente, e non ci si riferisce alle passeggiate tanto per farsi vedere o ai "bagni di folla", ma al confronto e all'ascolto, spesso faticosi. Emblematica, a tal proposito, l'accozzaglia di liste messe in campo da Centrodestra e Centrosinistra a confronto dell'unico simbolo usato dai Cinquestelle. La politica é cambiata, gli elettori pure, ma le forze tradizionali non sembrano essersene accorte. Ancora inseguono la chimera che molte liste consentono di raccogliere più voti, ancora corteggiano i "buttadentro" delle discoteche, i presunti leader d'opinione e persino i "capibastone". Tanto nella confusione di una decina di liste d'appoggio chi ci farà caso? Ma l'elettore, almeno quello che va a votare, si è fatto guardingo e attento e non si lascia più imbonire come un tempo. I Cinquestelle stanno contribuendo al cambiamento di passo e di stile, hanno cavalcato la protesta quando era da cavalcare, oggi si propongono come forza di governo partecipato. E quanti profetizzano che falliranno per mancanza di esperienza dimenticano che per tutti c'è stata una prima volta: dai comunisti ai missini, passando per Forza Italia, e chi non ha mai peccato.... Quello che fa la differenza è l'ancoraggio ai valori ed ai programmi e su questo i grillini sembrano avere le idee molto chiare. La riprova del possibile svuotamento, da parte loro, di quel che resta dei vecchi Poli, in particolare del Centrodestra, è data dai voti raccolti, a piene mani ai ballottaggi, degli elettori di centrodestra. Ciò è stato possibile non solo perché il discrimine destra - sinistra si è fatto molto labile e poco convincente (anche grazie al "renzismo"), ma soprattutto perché il nuovo discrimine che si è imposto è quello dell'interesse concreto dei cittadini opposto alle "fumoserie" della politica politicante chiusa nel Palazzo. E' ora che la Destra - se non vuole limitarsi ad una sopravvivenza di testimonianza - capisca e

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metabolizzi l'accaduto e si attrezzi per determinare ciò che deve accadere, con umiltà, capacità di ascolto, togliendosi il vizio delle facili "bollature" e stroncature, promuovendo al suo interno una vera e propria "rivoluzione culturale" ed una profonda autocritica e sostanziando, una buona volta e attraverso regole ineccepibili, la meritocrazia (sempre invocata e mai praticata). Il dialogo ed il confronto, il rapporto con i cittadini sono la via maestra. La Lega ha provato a dare il “la” aprendo “Il Cantiere” a Parma, dove la riflessione si è incentrata sui contenuti e non sulla leadership. E’ un piccolo ma significativo passo avanti, anche se non saranno “i tecnici” a fare la storia. Pierre Kadosh


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NON C’E’ NULLA DA FESTEGGIARE Ci vorrà molto tempo per capire cosa accadrà davvero dopo il voto britannico e non solo perché è tutto da definire (e non solo nei dettagli, ma finanche negli aspetti fondamentali) come si concretizzerà nei fatti la decisione di uscire dalla UE. I due anni previsti dai trattati per rendere effettiva la volontà popolare non saranno di certo sufficienti. Occorsero per regolare la uscita della Groenlandia, unico precedente in materia, il cui peso rispetto a Londra è paragonabile a quello di un moscerino rispetto ad un jumbo jet. A rendere impossibile una realistica previsione su ciò che accadrà c'è anche un altro aspetto di primaria importanza. Nel 2017 si voterà in Francia e in Germania ed è illusorio pensare che fino ad allora i governi dei due maggiori paesi dell'UE (la Francia ancor più della Germania) siano in condizione di rispondere al voto britannico con l'unica scelta possibile se si vuol salvare l'Unione europea, cioè rilanciando su nuove basi l'integrazione politica ed economica dei paesi del vecchio continente archiviando per sempre la politica del rigore finanziario fine a se stesso che, in tempi di stagnazione economica, serve solo alla Germania. Se Hollande e Merkel lo facessero perderebbero le elezioni, visto il clima che si respira anche a Parigi e Berlino e ne avremo probabilmente indiretta conferma dall'imminente voto spagnolo….. Ovviamente nei prossimi dodici/diciotto mesi qualcosa accadrà ad opera della BCE e della Banca d'Inghilterra nel tentativo di arginare il crollo della sterlina e di tutti i mercati finanziari che avrà comunque gravi ripercussioni di medio lungo periodo sugli investimenti e sulla crescita economica. In parole semplici, pioverà forte sul bagnato e vista la condizione economica e sociale del vecchio continente anche noi, non solo i sudditi di Sua Maestà, pagheremo un conto salato….. Altrettanto certamente accadrà qualcosa sul piano politico, sia nell'ambito delle istituzioni europee sia nell'ambito delle vicende nazionali. Nel primo caso molto dipenderà da quanto farà la Commissione, cioè se seguirà la linea dura annunciata da Junker prima del voto o se si mostrerà più flessibile verso Londra e il suo prevedibile intendimento di negoziare il nuovo assetto bilaterale Gran Bretagna - UE. Nel secondo caso è già evidente il terremoto in atto in Gran Bretagna con le dimissioni di Cameron, la probabile assunzione della leadership da parte di Johnson e la già annunciata volontà di Scozia e Irlanda del Nord di rimanere comunque nell'Unione Europea. Così come non può destare meraviglia l'entusiasmo con cui Marine Le Pen ha brindato al voto inglese annunciando la volontà, se eletta all'Eliseo, di promuovere un referendum per far uscire dall'UE

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la Francia. Le Pen è in numerosa compagnia, perché dall'Olanda alla Danimarca passando per l'Ungheria e la Svezia, tutti i movimenti antieuropeisti hanno fatto festa….. Anche in Italia Salvini e, con toni solo leggermente più sfumati, Meloni hanno subito inneggiato alla "morte dell'Europa della finanza e della massoneria" (Sic!). Se questo sarà il linguaggio che la destra italiana parlerà nel prossimo futuro (e non c'è molta speranza che cambi) e Forza Italia si limiterà a balbettare qualcosa pur di non rompere con gli alleati sarà davvero notte fonda per la tradizione europeista della destra che, ancor prima di Alleanza Nazionale, già dai tempi di Almirante e Romualdi parlava di Europa dei popoli e delle Patrie perché aveva ben chiaro - e non erano ancora i tempi della globalizzazione e della immigrazione di massa! - che la sovranità nazionale si può e si deve difendere unendo i popoli europei, non riportandoli ad antistorici egoismi. Erano di certo altri tempi e altri uomini ma è al loro insegnamento che occorrerebbe continuare a riferirsi. E chi lodevolmente ha in animo di riorganizzare la destra politica italiana non potrà eludere la questione del rapporto con l'Europa e men che meno unirsi al coro di chi oggi esulta per il voto britannico. Gianfranco Fini


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IN EUROPA NON VINCONO I POPULISMI, PERDONO GLI ESTABLISHMENT Tanto tuonò che piovve. In Italia e nel Regno (dis)Unito. In attesa della Spagna e, poi, degli Stati Uniti. Avevamo suggerito, alla vigilia del secondo turno delle nostre amministrative, di aspettare ad emettere giudizi, perché il voto sulla Brexit e il tentativo di ridare una maggioranza di governo alla Spagna sarebbero stati indicatori non meno importanti per capire l'aria che tira in Europa, e quindi anche in Italia. È poco elegante dirlo, ma avevamo ragione: in queste ore tutte le chiacchiere post ballottaggi sono state spazzate via dal moto di stupore che ha accompagnato la scelta "out" inglese e le brutali reazioni dei mercati finanziari che sono seguite. E manca ancora il voto spagnolo, che sarà molto utile per capire se abbia o meno freni il vento populista e neo-nazionalista che soffia sul Vecchio Continente (Nel frattempo arrivato riconfermando la precedente ingovernabilità n.d.r.). Di certo, già oggi possiamo dire che il filo rosso che lega il voto italiano e inglese si chiama discontinuità. Uniti dal suffisso "exit" - Renxit e Brexit - sono due pronunciamenti contro le élite, locali (Fassino, il Pd romano), nazionali (Renzi) e continentali (la Ue). Cui, allo stesso modo, potrà aggiungersi il voto spagnolo (contro il Pp di Rajoy ma anche contro il Psoe) e, con sempre maggiore possibilità, quello americano (contro la Clinton e l'establishment che rappresenta), ben più importante in termini di ricadute globali. A dimostrazione, come dicevamo la settimana scorsa, di un malessere che attraversa il mondo occidentale, che è sì uscito - pur con grandi disparità di tempi e intensità - dalla recessione innescata dalla grande crisi finanziaria nata nell'estate del 2007 e divampata tra il 2008 e il 2009, ma che non ha affatto rimosso le cause (e molte delle conseguenze) di quest'ultima. Fateci caso: sociologicamente è identico il voto ai 5 stelle (quelli del grido "onestà, onestà"), alla Brexit auspicata dai nazionalisti di Nigel Farage (che non ha caso ha detto che il referendum segna "la vittoria della gente comune contro le grandi banche, il grande business e i grandi politici") così come per Podemos e per Syriza (a sinistra) o per il Front National della Le Pen o per l'olandese Pvv (a destra). Si tratta del ceto popolare e medio, impoverito dalla crisi e incattivito dal ricordo di un passato in cui stava meglio, delle periferie dei grandi centri urbani, spaventate dagli immigrati e dall'alto tasso di criminalità, ma anche della borghesia resa affluente dalla rendita e terrorizzata dal fatto che i processi di modernizzazione e globalizzazione la penalizzino e che il terrorismo di matrice islamica abbia il sopravvento. Tutta gente che, mischiando emarginazione, reazione alla povertà in cui sono e paura della povertà in cui potrebbero cadere, orgoglio nazionale quando non localistico, ribellione contro le

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burocrazie e le regole, nostalgia dei tempi migliori, si affida a chi gli appare nuovo, disomogeneo, fuori dagli establishment. E che sollecita il voto con parole d'ordine che vanno incontro a quel miscuglio di sentimenti. È il motivo per cui riteniamo (a oggi) che alle presidenziali americane di novembre sia più probabile che passi Trump, non a caso felicissimo della vittoria del "leave" sul "remain" in Gran Bretagna. Questa analisi porta alla conclusione che non sono i partiti populisti a vincere, ma i partiti tradizionali (e in particolare quelli al governo) a perdere. Questi ultimi sono la febbre, i primi il termometro che la misura e quindi non la medicina che la guarisce. Ciò significa che va evitato un doppio errore: confondere la diagnosi con la cura e credere che basti urlare rabbia (pur comprensibile) e sollevare problemi (pur esistenti) per essere capaci di risolverli; conservare l'esistente, in nome della preoccupazione (pur legittima) che la toppa sia peggio del buco. Diciamo questo, a proposito della Ue, perché l'amico Giorgio La Malfa ci ha scritto dicendo di temere che TerzaRepubblica partisse dalla sottaciuta premessa che "si debba, pur con tutti i difetti che ne conosciamo, salvare la costruzione europea". Non è così. Siamo d'accordo con lui che la crisi europea abbia raggiunto un punto di non ritorno. Ma questo, però, non significa che l'obiettivo degli Stati Uniti d'Europa non si debba e non si possa più perseguire. Certo, non è perseguibile partendo da "questa" Europa. Occorre ripartire, ricominciare. Che è cosa diversa dal proseguire. Ma occorre farlo, almeno fino a che la globalizzazione prevale, se si vuole evitare di essere solo un puntino sulla carta geografica mondiale. E se si vuole scansare il pericolo della disgregazione non solo europea ma anche nazionale, che il voto inglese ci fa vedere con nitida chiarezza visto che ci consegna la fine del Regno Unito. Purtroppo, le prime reazioni alla Brexit ci fanno temere che le diverse cancellerie non abbiano capito la lezione. E non tanto per qualche piccato riferimento all'idea che ora con gli inglesi non si debba trattare (è giusto che si prendano le responsabilità della loro scelta) o all'auspicio che il Regno vada in pezzi (se Scozia, Irlanda e Gibilterra vogliono uscire dallo UK ed entrare nella Ue siano benvenute), quanto per la solita mancanza di autocritica (la stessa che è mancata nelle ripetute crisi greche) relativamente alla mancata integrazione politico-istituzionale, che stride con l'esistenza dell'euro fino al punto da mettere a repentaglio la stessa moneta unica e impedire la convergenza delle economie e rendere precarie le poche cose messe in comune (come la regolazione del sistema bancario). Venendo all'Italia, è evidente che queste elezioni amministrative, pur contenendo elementi propri (locali e nazionali) vanno inquadrate nel contesto fin qui descritto. Perché sono due le valutazioni più significative che occorre fare. La prima è che laddove i partiti tradizionali riescono a mettere in scena candidature credibili in contesti non degradati (come a Milano) le forze anti-sistema non battono chiodo, mentre al contrario vincono senza eccezioni (i grillini si sono aggiudicati 19 ballottaggi su 20), anche


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laddove (Torino) il sindaco uscente è stimato ma non ha un avversario "tradizionale" all'altezza (contro Fassino il centro-destra aveva tre candidati). La seconda valutazione è che Renzi, pur avendo incarnato all'inizio della sua avventura di governo il perfetto punto di equilibrio tra il nuovo (con concessioni al "nuovismo" populista che parevano sopportabili) e il tradizionale (la vocazione governativa del Pd), è deragliato fino ad apparire ai più o troppo peronista o troppo establishment (e per di più ristretto). Due difetti contrapposti che lui è riuscito nella miracolosa impresa di incarnare contemporaneamente. Renzi, inoltre, è rimasto vittima del suo ambizioso (pretenzioso) racconto del Paese, di cui gli italiani hanno atteso invano la ricaduta nella realtà. Per questo non c'è dubbio che nel voto amministrativo c'è stata una componente anti-renziana non indifferente, che il presidente del consiglio e segretario del Pd (quando si deciderà a separare le due cose sarà sempre tardi) ha finito con l'alimentare quando, per timore di apparire quello che non ammetteva la sconfitta, ha usato la stessa valutazione di Grillo a commento del voto: "ha vinto la domanda di cambiamento". Il che può voler dire due cose: non avete capito quanto io rappresenti il rinnovamento; non ho cambiato a sufficienza. La seconda rappresenterebbe una forma di autocritica che non gli è congeniale, dunque con tutta probabilità opterà per la prima interpretazione. In tutti i casi, sarà la solita solfa del racconto mediatico. Invece che mettere a punto le politiche, palesemente deficitarie, si metterà a punto la comunicazione. Avrebbe voluto aggiungere: adesso rivoltiamo il partito come un calzino, ma tra il primo e il secondo turno prudenza gli ha consigliato di riporre l'evocato lanciafiamme in cantina. audacia temeraria igiene spirituale Enrico Cisnetto*

Tratto da Terzarepubblica per gentile concessione.

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LA GRAN BRETAGNA ABBATTE IL TOTEM DELL’UNIONE EUROPEA La Gran Bretagna esce dall'Unione Europea. I sudditi di sua maestà britannica, chiamati a esprimersi sulla Brexit, hanno scritto una pagina di storia. Per le élite continentali, comprese quelle nostrane, è stato uno choc. Ma, comunque la si pensi, è stata una magistrale lezione di democrazia. Dovremmo farne tesoro. Il popolo, lungi dall'essere quella massa stupida, incapace di prendere decisioni per il proprio bene, quando sente minacciata la sua libertà sa essere coraggioso. Come lo sono stati gli inglesi a non lasciarsi intimorire dalle minacce degli eurocrati di Bruxelles che prefiguravano sfracelli in caso di vittoria del "leave". Benché, da italiani, siamo rammaricati della decisione britannica di abbandonare il carrozzone europeo al suo destino, non possiamo non dirci invidiosi di quella forma di governo che non teme di sottoporsi al giudizio del suo popolo. A noi un tale privilegio non è concesso: la Costituzione italiana non prevede che si possano svolgere referendum sui trattati internazionali. I Maître à penser di casa nostra ritengono che sia giusto non affidare al popolo la responsabilità delle scelte vitali e per questo plaudono alla pessima riforma costituzionale voluta da Renzi che è attenta a non rimuovere le antiche proibizioni. Ma questi poveri illusi non si rendono conto di quanto profondo stia diventando il solco tra le élite eurocratiche e i popoli. I britannici hanno votato contro questa Europa che non piace a loro come non piace a noi. Sul banco degli accusati del tribunale della Brexit è salito il modello di Super-Stato europeo soggiogato agli interessi dei mercati finanziari. La sua sconfitta nelle urne è un assist servito alla politica perché si riprenda il controllo del governo dei popoli comunitari, oggi usurpato dalle ferree logiche dell'economia della globalizzazione. Per andarsene dall'Ue hanno votato i lavoratori, i ceti medi depauperati dalla crisi e le fasce sempre più larghe d'incapienti della società britannica. Piuttosto che insultarli, l'establishment di Bruxelles dovrebbe prendersela con se stesso per aver disperso un patrimonio di fiducia e di ottimismo che apparteneva alla grande maggioranza dei cittadini europei fino a pochi anni orsono. Dovrebbero interrogarsi se l'aver spalancato le porte alla mondializzazione selvaggia sia stata l'idea giusta. Dovrebbero domandarsi se con le politiche dell'austerity e del controllo poliziesco sulla circolazione monetaria si sia realizzato il primo principio di ogni teoria liberale: il benessere delle nazioni e la felicità dei cittadini. I britannici non sono stati preda di un delirio populista: semplicemente si sono resi conto che con questa Europa si sta peggio, si rischia il futuro e si è meno sicuri. Non sono brutti, sporchi e cattivi: sono la prima onda di un maremoto che dalle sponde del Tamigi investirà tutta l'Europa. E questa Unione non ha lo spirito giusto per costruire argini efficaci. Fin quando a Bruxelles ci si preoccuperà del diametro delle vongole


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piuttosto che del benessere dei cittadini, nessuna integrazione sarà possibile. Si vedranno in giro per l'Europa sempre più uomini e donne che, pur sotto opposte bandiere, saranno uniti dal grido: non ci stiamo. Fin quando circoleranno per le stanze del potere truci personaggi, come il ministro dell'economia tedesco Wolfgang Schäuble, che avranno l'arroganza, come l'ha avuta lui alla vigilia delle elezioni nazionali in Grecia lo scorso anno, di dire: "votino chi vogliono tanto non cambia niente", ci sarà da qualche parte qualcuno che si ricorderà di quanto bella e preziosa sia la parola "libertà". L'uscita della Gran Bretagna ci procurerà parecchi problemi ma per la democrazia il 23 giugno resterà per sempre una festa, non funerale. Evviva! Cristofaro Sola

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BREXIT: LA VITTORIA DELLA STUPIDITA’ La vita di ogni essere umano è funestata da giorni tristi. Il 23 giugno è stato un giorno triste per molti "veri" Europei. Per chi scrive questo articolo, che il sogno europeo ha coltivato da tempo immemore, è stato un giorno tristissimo. La ferita inferta dal popolo inglese fa male, perché destinata a non rimarginarsi facilmente. Cupi scenari si addensano all'orizzonte, del resto facilmente prevedibili, a cominciare dall'effetto domino. Prima delle pur necessarie considerazioni sul voto, mi sia consentito (lo chiedo da presidente di un movimento europeista e non da giornalista) di rivolgere un affettuoso pensiero a chi sta soffrendo più di altri. Il primo va ai Genitori, al marito, ai figli, ai parenti e agli amici di Helen Joanne Cox, "Jo", che ha immolato la propria vita sull'altare di quei sacri valori che non avrebbero dovuto essere messi in discussione. Il suo sacrificio non è servito a nulla e questo rende ancora più triste il tutto. Un caloroso abbraccio, poi, va al meraviglioso leader del Sinn Fein, Gerry Adams, che di giorni tristi ne ha conosciuti tanti, nel corso di una vita segnata dalla tante battaglie in difesa della libertà e costretto, egli che della Grana Bretagna patisce il giogo, a combattere al fianco del tiranno, nella vana speranza d'impedire guai maggiori. Non solo l'Irlanda del Nord continua a restare sotto il dominio inglese, ma non è più parte dell'Unione Europea e ciò, per il piccolo stato, sarà fonte di problemi ancor più gravi di quelli che vesseranno i dominatori. Un abbraccio affettuoso, infine, ai giovani inglesi. Circa l'80% di loro, in particolare tra i 18 e i 24 anni, ha dimostrato una maturità e una capacità analitica che agli adulti è mancata del tutto, votando in massa per il "Remain" e impedendo che la vittoria dei malpancisti di Nigel Farage e di Boris Johnson (che di fatto, molto più del primo, è il vero artefice del "Leave") assumesse proporzioni da Caporetto, o per meglio dire, da Dunkerque. Bye Bye Gran Bretagna allora. L'Europa è più piccola geograficamente, ma voi, cari inglesi, ora siete più piccoli in tutto e ve ne accorgerete presto. Il titolo dell'articolo è pesante e me ne rendo conto. E' stato il primo che mi è venuto in mente, subito dopo aver capito che avrebbe vinto il "leave", senza pensare, per altro, di utilizzarlo davvero. Leggendo le cronache post-voto, però, sul "Corriera della Sera" mi ha colpito lo sfogo di Lisa Hilton, autrice del best-seller "Maestra". Con chiarezza esemplare la scrittrice ha parlato di vittoria degli "sciocchi e dei selvaggi"; di un


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"leave" gettonato da chi ha un basso livello di istruzione, da chi non ha capito, da chi si è lasciato abbindolare da un personaggio come Farage. Poi, lasciandomi a bocca aperta, ha scritto: "E' la vittoria della stupidità". Esattamente ciò che avevo pensato io all'alba del 24 giugno! E via allora. A quel punto non ho avuto più esitazioni e ho "ripristinato" il titolo autocensurato. I giovani inglesi non meritavano questo schiaffo dai genitori e dai nonni, che ora si stanno già pentendo del male reso a coloro che pur amano. Il voto si può paragonare a un raptus omicida perpetrato da quei soggetti che covavano da tempo un malsano malessere interiore, senza essere in grado di comprenderne la natura. (Appartengo a una scuola di pensiero che non crede al raptus improvviso). Ora che il disastro incomincia a delinearsi in tutte le sue sfumature, i "killer" si stanno rendendo conto di ciò che hanno compiuto, anche per le severe rampogne ricevute da figli e nipoti, e si stanno già pentendo. Molti vorrebbero tornare indietro; la richiesta di un nuovo referendum ha raggiunto in poche ore milioni di adesioni, ma il dado è tratto e indietro non si torna. Profetiche, in tal senso, le parole di Jean Claude Junker, presidente della Commissione Europea, che ha chiesto il rapido avvio dei negoziati per la ratifica dell'uscita: "Non capisco perché il governo britannico abbia bisogno di attendere fino a ottobre. I populismi? Presto dimostreremo che Londra stava meglio dentro l'Unione". Un sonoro ceffone non scevro di disprezzo, infine, le sue conclusioni: "Quello tra l'UE e Londra non sarà un divorzio consensuale, ma non è stata neppure una grande storia d'amore". Difficile dargli torto. La Gran Bretagna, nella storia d'Europa, più di altri ha sempre giocato una partita a sé. Non voglio certo dire che gli altri paesi non siano pervasi da analogo malsano nazionalismo, ma quello inglese lo è di più, anche per antico retaggio culturale. Basti pensare, per esempio, alle parole che Shakespeare mette in bocca al Conte di Richmond, nel secondo atto del "Riccardo II": "Isola incoronata, terra di maestà, sede di Marte, un altro eden, un semi paradiso, una fortezza costruita dalla Natura contro le infezioni della guerra, una felice culla di uomini, un piccolo mondo, una pietra preziosa incastonata in un argenteo mare che le serve da muraglia contro l'invidia di terre meno felici, una zolla benedetta". Questa immagine, che fuori dal contesto teatrale fa solo ridere, è quella che hanno in testa milioni di inglesi, soprattutto di una certa età, ed è quella che ha condizionato il voto. Purtroppo i giovani, che la pensano in tutt'altro modo, per un dato meramente numerico, non sono stati in grado d'impedire lo scempio. Non meritavano questo schiaffo, come detto innanzi e, a onor del vero, non lo meritava nessuno, nemmeno i nostalgici malpancisti. L'ignoranza non è una colpa e non a caso la democrazia impone che anche gli ignoranti votino. Ecco, provocatoriamente, a conclusione di questo articolo, forse è il caso di incominciare a parlare della necessità di riconsiderare alcuni principi dogmatici sui diritti acquisiti in tema di elettorato attivo e passivo. La complessità del mondo moderno non è cosa che può essere affidata al libero arbitrio di soggetti che non abbiano un sufficiente livello culturale e un sufficiente coefficiente di intelligenza. Cameron ha fatto sì una grande cavolata, proponendo il referendum. La cavolata, però, sarebbe

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stata "parata" se il corpo elettorale non avesse contemplato "anche" i soggetti culturalmente di basso profilo. Test di storia e misurazione del coefficiente intellettivo (almeno 90) a 18 anni per ottenere il certificato elettorale? Prendiamola pure come una mia provocazione, per ora, ma incominciamo a ragionarci sopra, considerando anche che, chi fosse escluso dall'elettorato attivo, lo sarebbe automaticamente anche da quello passivo. (E sotto questo profilo proviamo a immaginare, solo per un attimo, quanta zavorra in meno avremmo in Parlamento). Nel frattempo cerchiamo di trasformare un evento negativo in un'opportunità. Gli inglesi malpancisti hanno parlato di "Indipendence day" perché si sono liberati dell'Europa. L'Europa, però, ora potrebbe avere più carte in regola per attuare quel sano processo d'integrazione politica da tanti auspicato, essendosi a sua volta "liberata" di un peso che condizionava, e non poco, la politica comunitaria. Aspettando Scozia, Irlanda del Nord e Gibilterra, quindi, guardiamo avanti, sempre con speranza e avendo ben chiara la meta: "STATI UNITI D'EUROPA". Per la (oramai) PB (Piccola Bretagna), poi si vedrà. Lino Lavorgna


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INCONTRO TRA ARTE E BOXE Arte e Boxe, binomio perfetto per una serata particolare da trascorrere nella location più suggestiva di Ripa Teatina insieme ai 12 artisti (pittori, scultori, performer) che si cimenteranno col tema della Boxe. 6 Maestri, ad ognuno dei quali è stato chiesto di segnalare un artista giovane e questi dodici artisti (6 Maestri e 6 giovani promesse) saranno presenti ognuno con un lavoro a questa innovativa mostra di Arte Contemporanea. Nicola Maria Martino Enzo Indaco Enrico Pulsoni Sebastiano Guerrera Angelo Pretolani Franco Politano

Elay Li Luca Indaco Jacopo Pannocchia Gabriele Cesaretti Elena Marini Iolanda Russo

Parteciperà all'evento il curatore e critico d'Arte Antonello Tolve, (testo critico in catalogo). La mostra, curata da Marianne Wild (Arte Contemporanea Unica), nasce per sottolineare il rapporto che c'è tra due forme di arte, quella con la A maiuscola che viene da Giotto e quella non meno nobile della Boxe di cui Ripa Teatina è culla. (vedi il grandissimo Rocky Marciano, Rocky Mattioli). All'interno del Premio Rocky Marciano, per il quale a Ripa si lavora per mesi ogni anno, questo è uno degli appuntamenti di maggior pregnanza culturale. Da Sabato 9 luglio 2016 - ore 19.00 - Torre di Porta Gabella, Ripa Teatina Info: galleria.unica@gmail.com - tel.: +39 3926799251 Nelle pagine seguenti alcune delle opere in mostra:

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Nicola Maria Martino: Titolo: Perbacco, leggero come una farfalla, punge come un'ape, misure: 80x80, tecnica: olio su tela, anno: 1990

Angelo Pretolani, Titolo: Ritratto di Rocky Marciano, 2016. Tecnica: Penna biro su carta stampata telata preparata ad acrilico con colla e gesso, misura: 45x55 cm


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Enrico Pulsoni: titolo: VOLTOtraVOLTO; Il lavoro: disegno a penna BIC su carta di cm.50x40 è del 2016

Enzo Indaco: Titolo: Ring Tecnica mista Misura: 50x50 Anno 2016

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Sebastiano Guerrera: Titolo del lavoro: "Piantumazioni/1",anno 2015, tecnica: grafite su carta, misura cm 100x100


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LEZIONI DI “PUGILARTE” Figura sensibilmente evoluta della collettività, l'artista è un abbaglio della piattaforma sociale da cui prende a prestito il bagaglio umano per mostrare le sue conquiste, le sue speranze, i suoi collassi, i suoi umori e i mille significati che riguardano la vita. Mediante strategie babeliche che si appropriano di linguaggi differenti e disegnano pensieri visivi, le palestre creative del contemporaneo accentuano non solo l'esigenza di registrare feed-back pubblici e di monitorare la realtà reale (i flussi sociali, economici, politici, etici e patici1) , ma anche l'urgenza di ricorrere daccapo ad un bildhafte Denken legato alla fantasia, ad un caro immaginar (Leopardi) che non teme d'esser scoperto e che insiste nel convalidare una soggettività senziente ed un metodo topico capace, a detta di Giuseppe Patella, lettore di Giambattista Vico, "di valorizzare le facoltà della memoria, della fantasia e dell'ingegno, intese come forme originarie del conoscere, 2 esperienze primordiali del senso" . Seguendo queste inclinazioni, queste attitudini che si fanno forma, la nuova mostra proposta da Marianne Wild in occasione del Premio Rocky Marciano, l'impareggiabile e indimenticabile campione di boxe che, nei suoi sessanta incontri ha cumulato sessanta vittorie per knock-out, propone una visione assiale di natura polifonica che mira, tra le infinite avventure della forma, a modellare un autentico valore dialogico. Quasi come una chiamata alle arti, sei artisti affermati nominano infatti altrettanti giovani e promettenti leve per avviare un urto costruttivo, un duello estetico, un round di pugilarte che non vuole vinti né vincitori, che assicura impegno, che minaccia la costruzione di inedite realtà creative, che rende possibile una luminosa produzione di novità. L'artista resiste, resta sul ring e, in posizione di difesa, sferra l'attacco contro le ottusità di burocrati o tecnocrati, di figure apatiche che devitalizzano l'erranza della fantasia e i modi della ratio. Dopo una serie di preziosissime ed esemplari performance, Nicola Maria Martino (Lesina, 1946), il Lupo azzurro dell'arte, sterza il proprio volante creativo lungo il sentiero della pittura intesa come luogo poetico e musicale, come cielo percorso da immagini intuitive ed eteree, come desiderio di desiderare le cose desiderate. In asse con il suo Perbacco, leggero come una farfalla, punge come un'ape (1990), il Ritratto di donna (2015) proposto da Elay Li, artista azero di Baku è esortato a elaborare un dialogo muto (la pittura è una poesia muta ha suggerito Leonardo in tempi non sospetti), un silenzio seducente, un canto lontano. Con un nuovo ed entusiasmante lavoro dedicato ai VOLTItraVOLTI, opera d'arte totale che si nutre di esperienza, che inciampa nella folla e strappa il ritratto distratto del mondo, Enrico Pulsoni (Avezzano, 1957) invita Jacopo Pannocchia che, per l'occasione, illustra l'elegante lotta tra un pugile e un volatile (Senza titolo, 2016) e si avvicina al

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segno vivace del maestro con lo scopo di costruire una immaginifica continuità. Il silenzio lirico di Enzo Indaco (Paternò, 1940) la cui pittura assume un atteggiamento analitico - sposta lo sguardo verso la contemplazione materica e la definizione cromatica -, chiama in campo gli Strumenti del lavoro (2016) di Luca Indaco che crea una forma chiusa e vorticosa dal gusto squisitamente popular. L'aderenza con la realtà e lo scollamento felice dal dato naturale, porta Sebastiano Guerrera (Catania, 1964) ad una nuova compagine operativa che, in linea con la gentilezza atmosferica del suo percorso pittorico, ritrae e riscopre una semantica di mondi possibili e di altrettanto possibili stimoli che vivono nella vertigine del meraviglioso. Alle sue Piantumazioni/1 (2015) è associato Il suono prima (2016) di Gabriele Cesaretti che mostra la lievità delle galassie, l'infinito intrattenimento dell'uomo con il mistero della vita e con l'illimitatezza del cosmo. Legata ad un flusso sperimentale che fa i conti con gli apparecchi del comunicare - come non pensare al brillante work in progress Sotto il selciato c'è la spiaggia -, la natura comportamentale di Angelo Pretolani (Genova, 1953) occupa il mondo della vita con una intelligenza performativa camaleontica, con uno spirito tzigano che, da sotto il selciato, medita sui fatti, sulle narrazioni, sulle storie. Il suo Ritratto di Rocky Marciano (2016) esorta la performer Elena Marini a concepire una nuova performance (Boxing Art, 2016), una nuova contemplazione, un nuovo progetto che si consuma tra i fiotti irrequieti della quotidianità. A chiudere e riaprire il percorso espositivo è Franco Politano (Catania, 1952) la cui visione plastica si appropria dello spazio - "Im Räumen spricht und verbirgt sich zugleich ein Geschehen" suggeriva Heidegger in un saggio del 1969 dedicato all'arte e allo spazio (Die Kunst un der Raum appunto) - per concepire discorsi aperti, rapporti diretti con lo spettatore, invitato a ripensare oggetti, soggetti, figure, icone. L'hobby del gommista (2016), non solo porta il libero, l'aperto per un insediarsi e un abitare dell'uomo, ma spinge sul ring anche Iolanda Russo che fa A pugni con la realtà (2016) e marca ancora una volta un territorio, quello dell'arte, il cui sistema nervoso porta l'artista a varcare le soglie delle evidenze e a creare un organismo difensivo che attacca e sfianca il mondo, senza aver paura di cadere sulla piattaforma dura del reale. Antonello Tolve

Note 1. Il termine paticità è stato introdotto nel lessico filosofico italiano da Aldo Masullo (in Struttura, Soggetto e prassi, ESI, Napoli 1962) e indica «non il meramente fisiologico, intransitivo, vivere godendo e soffrendo, ma il vivere culturalizzato, transitivo, il patire il dolore e il piacere, il farli dunque propri, soggettivi, umani, istituendo nell'appropriarsene stesso il sé a cui l'appropriatezza si riferisce». A. Masullo, La libertà e le occasioni, Jaca Book, Milano 2011, pp.27-28.

2. G. Patella, Vico e il primato del sentire, in F. Ratto, a cura di, Il mondo di Vivo / Vico nel mondo, Guerra, Perugia 2000, p. 339.


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Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

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