Confini43

Page 1

Web-magazine di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

Raccolta n. 43 Aprile 2016

C’ERA UNA VOLTA O IAN P O

NI I F CO N A FR N A GI

M PRI


www.confini.org

Confini Webmagazine di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Raccolta n. 43 - Aprile 2016 Anno XVIII

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti - Cristofaro Sola +

Hanno collaborato:

Gianni Falcone Gianfranco Fini Roberta Forte Lino Lavorgna Angelo Romano Massimo Sergenti Cristofaro Sola

+

Segreteria: confiniorg@gmail.com

confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone

1


2

EDITORIALE

ORAMAI NON C’E’ PIU’ Alcuni filoni dell'esoterismo pensano che l'uomo "risvegliato" può ambire ad essere come gli dei, a conquistare l'immortalità attraverso una dura disciplina, progressive aperture spirituali e l'attivazione di una "sensibilità sottile". Ai "dormienti" tocca invece l'ingloriosa morte. Forse, nel tempo degli eroi, questa tesi aveva un suo fondamento, era possibile per gli uomini eccellenti apprendere la "lingua degli uccelli" ed ascendere all'Olimpo. Molti miti e leggende concordemente lo affermano. Persino nelle religioni è presente il profeta, il santo, l'uomo fuori dall'ordinario capace di trascendere la dimensione umana comune, sia pure per intercessione divina. Tuttavia, come insegnano altre scuole esoteriche, la "chiave" si sarebbe spezzata da tempo, ciononostante, occorre lavorare, dirozzare la pietra grezza - ossia l'essere umano figlio del caso per meglio determinarlo secondo volontà e inclinazioni, ciò al fine del miglioramento dell'umanità attraverso la consapevolezza e coltivando la remota speranza che un giorno quella "chiave" possa essere ricomposta. Tenue speranza alla luce della modernità. Tenue quanto la possibilità di trovare il Graal. Eppure in ogni uomo, anche se ridotto a mera entità di consumo, palpita un cuore ed in esso langue una scintilla, spesso tenue, a volte robusta. E' questa scintilla che, a volte, ci spinge alla "cerca" di un percorso non necessariamente razionale o logico, che ci porti a posare lo sguardo su altre dimensioni e mondi. E quando lo si è fatto una volta, permane dentro di sé, per sempre, un senso di incompiutezza per l'intuitiva consapevolezza di avvertire quanto è grande ciò che non sappiamo. Alcuni si spingono avanti, molto avanti, ma tutti, inesorabilmente, arrivano ad un "ponte spezzato" oltre il quale si ergono, come vaste montagne nella nebbia, le conoscenze cui aneliamo. Nella mia ormai lunga vita ho avuto la fortuna di conoscere un uomo, ormai andato, che si era spinto davvero lontano: Pio Filippani Ronconi. Parlava fluentemente quarantotto tra lingue e dialetti. Una sera a cena, a margine di un convegno organizzato dall’”Associazione Confini”, mi raccontò le prove che aveva dovuto superare nella sua "esperienza conoscitiva" in Tibet. La più semplice: sepolto nella neve scioglierla in un ampio cerchio con le proprie energie interiori. Mi piace sperare che ora si trovi accanto al Buddha, che ha studiato per un intera vita, tuttavia non so se egli, pur spintosi molto avanti, sia riuscito a superare il "ponte".


EDITORIALE

Che fare dunque? Come colmare il vuoto che si estende oltre l'ordinario ed il tran tran quotidiano? La mia indole "futurista" mi induce ad essere possibilista verso la scienza. In mancanza del risveglio dei "sensi sottili" meglio dei "sensi-sensori" capaci di potenziare ed accrescere le capacità percettive ed allargare cosÏ l’orizzonte interiore. Angelo Romano

3


4

SCENARI

C’ERA UNA VOLTA Il tema di questo numero è piuttosto intrigante perché induce chi scrive a riscoprire una saggezza antica, abbandonata per una modernità senza valori, per la razionalità tout court, per il travisamento artato. Se volessimo ripercorrere la via delle favole, senza perderci nel distinguo etimologico tra fiaba e favola, potremmo dire che l'inventore delle favole "moderne" è Esopo. Fino a non molti anni or sono, infatti, ricordavamo e raccontavamo la favola della volpe e dell'uva, della cicala e della formica, della gallina dalle uova d'oro, o quella del pastorello che gridava al lupo! Al lupo!; storie che facevano parte di quel veloce insegnamento morale adatto alla comprensione del bambino. Storie alle quali sono ricorsi, a mo' di parabola, genitori o nonni dall'animo semplice; favole a loro giunte da genitori o nonni nel corso dei secoli precedenti. Ma, da alcuni decenni, la favola si è persa e con essa ogni genuina, lineare lezione etica. Infatti, quando la favola era contenuta in un libro, certo ricco di immagini, basato tuttavia sulla narrazione scritta, la fantasia del bambino poteva sbizzarrirsi e immaginare scenari da sogno. Oggi, invece, niente è lasciato al sogno: solo l'occhio è stimolato, e con esso il cervello, per seguire il movimento del robot di turno dai colori sgargianti che, mentre si snoda e si ricompone, frantuma, sconquassa e punisce il cattivo. Sembra come se, non riuscendoci più l'essere umano, sia stata delegata una macchina a mantenere l'ordine pubblico e a far rispettare la giustizia. E questo nel migliore dei casi, quando cioè non si preferiscono le riproduzioni in miniatura di camion, di macchine da corsa, persino di droni volanti per affermare una "supremazia", quando non l'uso di tablet, play station e simili o, addirittura, computer, per giochi di ruolo alquanto truculenti. Sin dalla tenerissima età. I cartoonist nella loro evoluzione sono, poi, riapprodati al disegno dell'essere umano, nella sua veste di bambino però, dai grandi occhioni neri da giapponese che si stringono di rabbia, si allargano in un sorriso e si bagnano con una lacrima. Sono manifestazioni di emozioni tipiche di un bambino, appunto, che nella sua innocenza possiede un senso embrionale del bene e del male e, desideroso di apparire, si dota di superpoteri, sfodera spade scintillanti, salta da altezze mirabolanti e atterra vittorioso sul malvivente. E può ancora andare, sebbene la storia sia semplicemente volta all'azione fine a se stessa, senza supporti morali che accompagnino alla conclusione. Ma, almeno in questo caso, siamo alle prese con soggetti dalle sembianze antropomorfe.


SCENARI

Ai manga antropomorfi, infatti, si è ispirato Mainetti nel suo recente film Lo chiamavano Jeeg Robot: la storia di un balordo che acquista i superpoteri, riscatta se stesso e sconfigge il male. Stanno, invece, sempre più prendendo piede cartoons che propongono soggetti improbabili, dotati di un solo occhio, o di un solo piede, ibridi, che animano scenette di vita "familiare" altrettanto improbabili. In sostanza, si è persa la mission delle favole. E, ciò che è peggio, insieme alle lezioni di morale, si è smarrita la loro funzione di satira politica. Già, di satira politica. Per dirla con Fedro (Fabulae, III, prologus, vv.33-37), "Ora, perché sia nato della favola il genere, in breve ti spiegherò. La schiavitù, ai padroni soggetta, non osando dire ciò che avrebbe voluto, traspose le sue opinioni in brevi favole, ricorrendo, per schivare le accuse di calunnia, a scherzose invenzioni.". Forse la più nota delle sue favole, Il lupo e l'agnello, è lì a testimoniarlo. C'è, comunque, un'altra funzione delle favole che si è smarrita: attraverso la parabola, la metafora, la favola appunto, quella di rendere a livello essoterico un sapere antico di ambito esoterico. E' stato questo, peraltro, il compito che i più grandi favolisti dal '600 in poi hanno assolto nelle loro favole: Cappuccetto Rosso, Biancaneve e i sette nani, la Bella Addormentata, Cenerentola, e tante altre ancora, narrano infatti le traversie di fanciulle che si affacciano alla vita. Ma, ancor di più, parlano di una loro iniziazione e delle prove iniziatiche alle quali le stesse sono sottoposte. Già, perché, senza scomodare Dan Brown, il riferimento è al femminino sacro, alla consacrazione della donna "come salvezza del mondo", per dirla con Peter Deunov, un grande iniziato contemporaneo o con Omraam Mikhael Aïvanhov, suo allievo; il riferimento, peraltro, è alla donna e alla sua identificazione con la Natura. Del resto, non c'è una favola fino alla prima metà del XIX° secolo che non identifichi la sua eroina con una donna. E non per il suo falso stereotipo di "essere debole" quanto per l'essere catalizzatore, lo scopo, delle azioni dell'uomo. Il cacciatore di Cappuccetto Rosso o il Principe della Bella Addormentata, di Cenerentola o di Biancaneve sono lì a dimostrarlo. Ma c'è di più: il ruolo degli animali. Cavalli, uccelli, lupi, topi, grilli, gatti e volpi sono stati i grandi iniziatori e tutte le tradizioni magico-esoteriche, ne hanno fatto grande uso, soprattutto come allegorie per esprimere concetti ben più profondi e celati. Così, dalla potenza sessuale repressa-topini si passa a quella consapevole-cavalli, dalla coscienza-grillo alla conoscenza interiore-lupo, dalla protezione nel mondo energetico-gatti alla preveggenza/intuito-volpi, e via discorrendo. Sono gli uccelli, comunque, a farla da padroni. Si parla spesso, in varie tradizioni, di un linguaggio misterioso chiamato "lingua degli uccelli": designazione evidentemente simbolica, poiché l'importanza stessa attribuita alla conoscenza di questo linguaggio, come prerogativa di un'alta iniziazione, non permette di prenderla alla lettera. Si legge, ad esempio, nel Corano (xxvii, 15): "E Salomone fu l'erede di David; e disse: "O uomini! siamo stati istruiti al linguaggio degli uccelli e colmati di ogni cosa..."."; un passo dove il termine "uccelli" si applica simbolicamente agli angeli sottintendendo la costituzione delle gerarchie

5


6

SCENARI

celesti o spirituali e la lotta degli angeli contro i demoni, delle potenze celesti contro le potenze infernali; cioè l'opposizione tra gli stati superiori e gli stati inferiori. E, sostanzialmente, lo stesso significato lo ritroviamo nella tradizione indù e nella cultura vedica. Sono gli uccelli, infatti, ad accompagnarsi alle nostre eroine nei momenti più bui delle loro tribolazioni e peregrinazioni e a lenire il loro dolore. E sono sempre gli uccelli a trillare a perdifiato, a conclusione della storia, per sottolineare che, alla fine, il bene prevale sul male. Una presenza, quella degli animali, che ritroviamo anche in una fiaba che si discosta da tutte le altre per il genere dell'eroe; non più una fanciulla bensì un pezzo di legno/ragazzo: Pinocchio, scritta da Carlo Lorenzini, si ritiene un grande iniziato forse in un'Obbedienza che non affilia donne, il quale da contezza di sé a cominciare dalla scelta, nel suo 33° anno, dello pseudonimo, Collodi, cum lode, ad indicare il ritrovamento del senno perduto. E, del resto, non è stato il solo ad essere ricorso ad un tale stratagemma: Shakespeare chiamò il personaggio di una sua eccezionale opera Amleto (am lode) proprio per significare, appunto, lo smarrimento del senno. Collodi, conoscitore del mondo fiabesco per aver fatto insieme al mestiere di giornalista quello di traduttore dei vari favolisti del passato remoto e prossimo, in Pinocchio rompe la tradizione e realizza un'opera che ha dell'inverosimile perché, oltre a cambiare il genere del personaggio, rende poliedrica la morale sottesa: un po' come Dante Alighieri nella Divina Commedia, la più bella favola, la più splendida metafora mai scritta. In sostanza, Dante stesso ci dà contezza del suo sapere iniziatico quando afferma: "le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi" (Convivio, II, I, 2-15) e intendeva: il senso letterale, quello allegorico, il morale e l'anagogico. ……6. Lo quarto senso si audacia temeraria igiene spirituale chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l'etternal gloria sì, come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che, ne l'uscita del popolo d'Israel d'Egitto, Giudea è fatta santa e libera. 7. Chè avvegna essere vera secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s'intende, cioè che ne l'uscita de l'anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate. 8. E in dimostrar questo, sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico. (Convivio, II.i.6-8) Nel senso che vi è un'interpretazione essoterica delle cose, (che utilizza il senso letterale, sociologico e teologico) ed una esoterica, cioè l'anagogica, il sovrasenso, che impiega il simbolismo tradizionale il cui fine non è la dissimulazione ma l'esposizione della verità metafisica. E' lo stesso Dante, peraltro, che nella Commedia ne dà conferma: "O voi ch'avete li 'ntelletti sani, mirate la dottrina che s'asconde sotto 'l velame de li versi strani.". Siamo al IX canto dell'Inferno e il Poeta, a proposito delle eresie, sostanzialmente parla di un fracasso fatto dallo scontrarsi di dottrine avverse, che feriscono il mondo senza alcun freno, del fosco vento dell'ignoranza che schianta i rami della comprensione, abbatte e disperde il pensiero, riempiendo di confusione le


SCENARI

umane coscienze. Un po' come i tempi attuali dove le cure per lenire i danni del turbo capitalismo sono peggiori delle cause del malessere. Lo soccorre Virgilio che: "Li occhi mi sciolse e disse: "Or drizza il nerbo del viso su per quella schiuma antica per indi ove quel fummo è più acerbo". Ora ergi il tuo acume su quell'agitarsi furioso di antico dissenso, lì dove di più il fumo acerbo della sconoscenza offusca il sapere. Ma il bello è che non trancia giudizi contro le eresie, né assume atteggiamenti difensivi nei confronti della dottrina ecclesiale, sebbene sia stato un guelfo sia pur bianco; recrimina solo sul frastuono degli scontri tra dottrine, peraltro tutte cristiane, e attraverso Virgilio, (si auto) sollecita ad ergere l'acume dove il fumo acre dell'ignoranza (della volontà di non conoscere) offusca il sapere, la gnosi. In sintesi, quello che dovrebbe fare ognuno di noi. Ma, per tornare a Collodi (si perdoni l'accostamento), la fiaba di Pinocchio o, meglio, quella de Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, si presta alla stessa poliedrica lettura: una storia adatta a trasmettere, in senso letterale e in via semplice, una morale ai bambini; una metafora contro la piemontesizzazione del Mezzogiorno; uno scritto anticlericale; un percorso cabalistico, un altro gnostico-esoterico e un altro persino alchimistico. Non starò a dilungarmi sulla storia letterale perché nota ai più ma consentitemi di spendere poche parole su alcuni significati. Gli anni della stesura e pubblicazione della favola, furono anni di intensa speculazione economica ed edilizia e di scandali bancari a danno dei meno abbienti tra cui la famigerata e spietata tassa sul macinato. Il pranzo del Gatto e la Volpe all'osteria del Gambero Rosso, un luogo, come vuole il nome, dove invece di andare avanti si va indietro, sembra essere un'accusa contro quel parlamento piemontese divenuto italiano che governava con gli stati d'assedio e con le prigioni, stracolme di prigionieri politici nonostante la patente di "democraticità" di cui si vantava inalberando il cosiddetto Statuto albertino, osannato ma spesso ignorato. L'ordinamento giudiziario vigente in Italia all'epoca della pubblicazione della favola era ancora quello, non tanto rispettoso dei diritti civili, della legge Siccardi del 19 maggio 1851, reso molto più restrittivo dal decreto Rattazzi del 13 novembre 1859; un decreto molto illiberale che risentiva degli effetti della guerra "sostenuta" dal Piemonte in quell'anno insieme a Napoleone III. Nel 1860 l'ordinamento giudiziario piemontese risultava essere il più arretrato della penisola, ma fu imposto per diritto di spada alle regioni conquistate. Le parole di Giuseppe Maranini, professore di diritto costituzionale, riportate nel suo interessantissimo studio "Storia del potere in Italia 1848 - 1867" (ed. Corbaccio, 1995) sono illuminanti al riguardo: "Così quell'illiberale decreto, imposto di sorpresa e con scarsa correttezza al regno di Piemonte, era destinato a diventare, per diritto di annessione, lo statuto della giustizia dell'Italia liberata e unificata. Che la rapida vicenda delle conquiste e delle annessioni plebiscitarie tra il 59 e il 61 potesse richiedere una momentanea sospensione delle garanzie liberali è comprensibile. Grave è il fatto che quella sospensione venisse utilizzata per dare all'Italia unificata il suo nuovo ordinamento giudiziario, un ordinamento imposto dal potere esecutivo e interamente rivolto a subordinare la giustizia all'esecutivo" (pag. 265).

7


8

SCENARI

Col decreto Rattazzi, i magistrati si trovarono a svolgere il loro ruolo in condizioni molto più precarie rispetto al passato, soggetti ai capricci del ministro dell'interno, arbitro del loro destino, che poteva, in difetto di giudizi politicamente non conformi, trasferire, punire, impedire avanzamenti. "Il povero magistrato che si ostinasse ad applicare imparziale giustizia in materie di grave pregiudizio politico, poteva ormai tenere in perpetuo le valigie pronte per lunghe peregrinazioni nelle allora remotissime province del regno; e sempre che non gli accadesse di incappare in qualche giudizio disciplinare" (pag. 266). A differenza dei comuni mortali che potevano godere, in un processo, di un minimo di assistenza legale, il magistrato caduto in disgrazia, o solamente sospettato di deviazione, veniva sottoposto a processo segreto, senza difensore: "Ma il processo segreto, senza intervento di difensore, davanti a magistrati essi medesimi esposti a insindacabile "tramutamento" di sede per il bene del servizio, ed anche alle pericolose iniziative disciplinari del pubblico ministero, costituiva una triste parodia di giustizia…Se l'esecutivo con un regolamento deformava o violava una legge, il magistrato era così obbligato a rendersi complice della deformazione o violazione (pag. 267)… e la pubblica accusa era, in virtù delle leggi, agli ordini del governo, fossero ordini di viltà oppure ordini di sopraffazione e persecuzione" (pag. 274). Era questa, dunque, la giustizia estesa all'Italia intera dal regno savoiardo. Un sistema privo di qualunque garanzia costituzionale in cui poteva inserirsi liberamente, attraverso la legge marziale, l'azione dei comandanti militari operanti al Sud che, con i loro tribunali, decidevano del destino del popolo duo-siciliano, senza che la magistratura meridionale, terrorizzata, agghiacciata, tremante come i burattini teatro di Mangiafoco, potesse far valere un minimo audacia temeraria igienedel spirituale di legalità. Ma, come detto, c'è anche l'aspetto anticlericale. Che cosa intende fare maestro Ciliegia (sotto il velo della metafora, la Chiesa) del pezzo di legno capitato nella sua bottega? Un'opera morta, la gamba di un tavolo: "Questo legno è capitato a tempo: voglio servirmene per fare una gamba di tavolino" (cap. I). In alternativa lo ritiene buono "per far bollire una pentola di fagioli". La cecità d'occhi e di mente di maestro Ciliegia è dunque, per il favolista, assoluta: pur percependo la "vocina", egli indirizza le sue ricerche altrove, ad un armadio sempre chiuso in cui forse tiene riposti, o meglio nascosti perché non sa più adoperarli, i ferri del suo mestiere (cioè, al di là della metafora, gli "attrezzi" della sua arte teurgica e demiurgica, cioè salvifica), al corbello dei trucioli e della segatura, alla strada, con la totale incapacità di far comprendere e di far valorizzare i simboli. Di converso, per terminare il richiamo, quali sono le intenzioni di mastro (III grado massonico) Geppetto circa il burattino che intende creare? "Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchiere di vino" (cap. II). Pane e vino: elementi di sacralità, salvifici, parte dei patrimoni mistici fin dai tempi remotissimi. C'è, comunque, anche un riferimento alla Cabala. L'Albero della Vita costituisce la sintesi dei più noti e importanti insegnamenti della Cabala. È un diagramma, astratto e simbolico, costituito da dieci entità, chiamate Sefirot, disposte lungo tre pilastri verticali paralleli: tre a sinistra, tre a destra e quattro nel centro. Il pilastro centrale si estende al di sopra e al di sotto degli altri due.


SCENARI

Le Sefirot corrispondono ad importanti concetti metafisici e sono anche associate alle situazioni pratiche ed emotive attraversate da ognuno di noi, nella vita quotidiana; in sostanza, sono dieci principi basilari, riconoscibili nella molteplicità disordinata e complessa della vita umana, capaci di unificarla e darle senso e pienezza. Inoltre, l'Albero della Vita è il programma secondo il quale si è svolta la creazione dei mondi; è il cammino di discesa lungo la quale le anime e le creature hanno raggiunto la loro forma attuale; esso è anche il sentiero di risalita, attraverso il quale l'intero creato può ritornare al traguardo al quale tutto anela: l'unità del "grembo del Creatore", secondo un'espressione cabalistica. I tre pilastri dell'Albero della Vita corrispondono alle tre vie che ogni essere umano ha davanti: l'Amore (destra), la Forza (sinistra), e la Compassione (centro). Solo la via mediana, chiamata anche "via regale", ha in sé la capacità di unificare gli opposti. I pilastri a destra e a sinistra rappresentano inoltre le due polarità basilari di tutta la realtà: il maschile a destra e il femminile a sinistra, dai quali sgorgano tutte le altre coppie d'opposti presenti nella creazione. Peraltro, l'insegnamento principale contenuto nella dottrina cabalistica dell'Albero della Vita è quello dell'integrazione delle componenti maschile e femminile, da effettuarsi sia all'interno della consapevolezza umana che nelle relazioni di coppia. Ora, ad osservare l'Albero della Vita nella sua verticalità, si nota che tra la penultima Sefirot, Yesod, e l'ultima, Malkuth, c'è un sentiero, un solo sentiero, una sola gamba, un solo sostegno sul quale poggia tutta la imponente costruzione sovrastante; manca un ulteriore, stabilizzante appoggio: manca il Matto dei Tarocchi, l'Arcano Ø; in sintesi, manca l'Essere umano, prima inerte pezzo di legno ma con in sé delle potenzialità, poi sgrossato e infine, dopo varie prove, divenuto Uomo Nuovo. Ma c'è di più. A leggere il primo libro del Pentateuco dell'Antico Testamento, Genesi, vedremo che esistono due momenti della creazione: nel primo, Dio crea Uomo e Donna; nel secondo, Dio ricrea l'Uomo dal quale trae la Donna e, successivamente, l'Universo. E' opinione diffusa che i due momenti corrispondano all'intervento di due deità dove la prima El, dal ché Elhoim, venerata dai popoli ebraici fin quasi alla cattività babilonese, capace di generare l'Essere Umano, e Yahweh, insieme all'essere umano capace di generare l'Universo, venerata dalla cattività babilonese in poi. Ecco. In sintesi, e senza alcun intento di insolenza, Mastro Ciliegia si ritiene possa rappresentare El, o Elhoim che dir si voglia, mentre Geppetto, valente artigiano falegname, starebbe a raffigurare, appunto, Yahweh. Ma la metafora di Collodi non si arresta qui, a cominciare da nome: Pinocchio, il pinolo, il frutto del pino, albero sacro alla Dea Madre Cibele, perché sotto di esso si evirò e morì il figlio-paredro Attis. E, ancora. Il pinolo o Pinocchio che simboleggia il Lingam, l'organo maschile, (a differenza della mandorla/Yoni): infatti, il naso che si allunga quando il burattino dice una bugia starebbe a rappresentare il Fallo, l'organo della sessualità maschile, il Lingam, che si erge quando l'uomo si libera della menzogna, quando è sincero con se stesso. Di converso, Pinocchio, uomo di legno, rappresenta quindi l'anti-uomo vivo che vive il prodotto di una ingegneria che ne ha fatto il ribaltamento nel contrario: egli, quindi, se mente, è sincero, e viceversa. Un po' come alcuni

9


10

SCENARI

appartenenti a certe tribù indiane d'America (gli Heyoka della tradizione lakota, ovvero i "Sacri Pagliacci", i Katchinas degli Indiani Hopi, i Muxul - i "Guardiani delle Stelle" - degli antichi Maya -, il Piccolo Popolo dei Cherokee, dei Seneca, dei Mohawk, dei Mi'kMaq, ecc.) i quali tendevano a sottolineare l'esistenza di un creato nato libero proprio con la loro contrarietà/diversità. Ci sarebbe ancora molto da dire a proposito della simbologia adottata da Collodi nel corso della fiaba: dallo scontro tra i due vegliardi (Ciliegia e Geppetto) sopra cennato, al nome di Geppetto (Ceppetto-kymeia, l'arte di fondere i metalli), da Lucignolo (meschinello Lucifero-puer/preiniziato) al Paese dei Balocchi (Abitato soltanto da "bambini" che amano giocare dalla mattina alla sera in un chiasso assordante/immagine eloquente degli attuali rumori del mondo), dall'Osteria del Gambero Rosso (XVIII Arcano dei Tarocchi - La luna - in figura di un gambero rosso in una palude, ossia Acqua e Fuoco, su cui incombe una Luna accompagnata da 18 lacrime d'argento. In sostanza, Zolfo e Mercurio elementi necessari per il compimento della Grande Opera con i quali l'alchimista opera la Prima Trasformazione, che si consegue "pagando" due zecchini d'oro) ai cinque zecchini d'oro (i sensi, dei quali si perde il Tatto e il Gusto e si conserva gli altri tre - Vista, Udito ed Olfatto - adatti a vedere il Graal, ad udirne l'armonia e sentirne la fragranza). E ancora. Dall'impiccagione di Pinocchio (Arcano 12 dei Tarocchi - morte e rinascita in vita), ai conigli con i cappucci neri (Maestro Venerabile e I e II Sorvegliante), da Mangiafoco (Guardiano della Soglia) alla Fata dai capelli turchini alla capra sopra lo scoglio (ambedue Iside), e ancora tanti e tanti altri simboli e vicende della fiaba che scomodano persino l'alchimia. Certo, ci sarebbe ancora molto da dire ma correrei il rischio di scrivere un saggio dedicato alla questione e non mi sembra il caso, visto che illustri personaggi del calibro di Zolla e Fulcanelli si sono già cimentati in proposito, oltre a correre il rischio di frastornare il lettore. Basti, perciò, sapere che Pinocchio continua la lignée esoterica, gnostica, isiaca e neopagana, nel senso più spirituale, che è al centro della nostra letteratura; una linea dalla quale non sembra essere sfuggito neppure Manzoni. Verrebbe da dire che, spesso, noi italiani ci lamentiamo di non avere una letteratura all'altezza, ad esempio, di quella inglese o tedesca. Ma il fatto è che la nostra migliore letteratura, quella laica, è sotterranea perché, a differenza degli inglesi e dei tedeschi, ha dovuto sottrarsi alla censura dell'ala meno illuminata e elitaria della cultura cattolica. Lo so. Avrei dovuto legare la fiaba all'attualità, parlare, che so, delle prossime elezioni nelle maggiori città italiane e del teatrino che le forze politiche stanno rappresentando. Avrei potuto anche parlare del recente scandalo chiamato Panama Papers che ha coinvolto i più illustri nomi della politica, della finanza, dell'industria, dello spettacolo e dello sport, a livello internazionale. Insomma, avrei potuto scrivere di un rilevante numero di argomenti che tediano le nostre giornate. Ma sapete che c'è? Non ho voluto deprimermi. E, così, per tirarmi su, mi son messa a ricordare quando i bambini e pure gli adulti sognavano. C'era una volta …. un re, direte voi, e invece no. C'era una volta un pezzo di legno …. Roberta Forte


TEMA DI COPERTINA

DAL MITO... ALLE FETECCHIE C'erano una volta gli Dei, poi fu la volta dei semi-dei e degli eroi e, infine, sopraggiunse l'avvento degli uomini. Di solito, gli artefici delle origini del mondo, in un contesto sacrale, sono gli dei, i semi-dei e gli eroi, protagonisti del mito che ne narra le vicende vissute in un tempo remoto. Personaggi spesso immortali e comunque potenti, resisi invisibili nell'epoca in cui si ascoltano o si leggono tali favole, ma pur sempre attivi mediante interventi cruciali sul mondo e sulla storia dell'uomo. Queste produzioni di sacra letteratura, affidate dapprima alla tradizione orale, in epoche più colte si coagularono in forma scritta, in poemi dal testo immutabile, il cui insieme, relativo ad un medesimo ambito etnico e culturale, costituisce la mitologia di un popolo ed il primo documento della sua civiltà. Non c'è parte del mondo né contesto storico che ne siano stati o ne siano indenni, con una opportuna precisazione: spesso, ciò che noi chiamiamo oggi mito è stato o è il fondamento religioso per molte popolazioni del passato e del presente: un fondamento, a volte integrato e, in altre affiancato, da semi-dei o da eroi i quali sovente sono stati gli artefici anche della nascita di quello specifico popolo oppure coloro che lo hanno riscattato in situazioni enormemente gravose. Creazioni affabulatorie, quindi, dalle quali sono successivamente derivati i riti, strettamente connessi con lo stesso mito, al punto da riassumerlo e riattualizzarlo, e la sfera del sacro. Ogni rito, pertanto, svolge la funzione di rendere tangibile e ripetibile l'esperienza mitica/religiosa, sottraendola alla dimensione tutta privata della mistica. Dal mito, infine, è scaturito il simbolo che, in quanto elemento della comunicazione, esprime contenuti di significato ideale dei quali esso diventa il significante. René Alleau, scrittore francese di svariate opere sul simbolismo e l'alchimia, nonché strenuo collaboratore delle pubblicazioni Symbole, ebbe a dire che una società senza simboli non può evitare di cadere al livello delle società infraumane, cioè di creature che non sono (ancora) a livello di comprensione di un essere umano (in sostanza, un bambino) poiché la funzione del simbolo è un modo di stabilire una relazione tra il sensibile e il sovrasensibile. Sull'interpretazione dei simboli e sul loro impiego da sempre gli uomini sono divisi. Tale atteggiamento è spesso dovuto al fatto che spesso l'uomo tenta di trovare un significato ad un simbolo anche se questo non ne ha; può evocare e focalizzare, riunire e concentrare, in modo analogicamente polivalente, una molteplicità di sensi che non si riducono a un unico significato e

11


12

TEMA DI COPERTINA

neppure ad alcuni significati soltanto. All'interno del medesimo simbolo vi sono evocazioni simboliche molteplici e gerarchicamente sovrapposte che non si escludono reciprocamente, ma sono anzi concordanti tra loro, perché in realtà esprimono le applicazioni di uno stesso principio a ordini diversi, ed in tal modo si completano e si corroborano, integrandosi nell'armonia della sintesi totale. Questo è ciò che rende il simbolismo un linguaggio meno limitato del linguaggio comune ed adatto per l'espressione e la comunicazione di certe verità, facendone il linguaggio iniziatico per eccellenza ed il veicolo indispensabile di ogni insegnamento tradizionale. Si pensi alla croce, un simbolo che oggi, immediatamente, contraddistingue i cristiani, evoca la passione di Cristo e riassume la dottrina che ne discende. Eppure, la stessa croce è il simbolo religioso principale degli Ariti, una tribù amazzonica; una croce in diorite, quella degli Ariti, uguale a quella di Malta, identica peraltro a quella di Marduk, il "re degli dei", divinità protettrice dell'antica città di Babilonia, pittograficamente disegnato con una croce che nelle lingue semitiche divenne la lettera "Tau" ovvero il "segno" del "pianeta dell'Attraversamento". Il Tau o "Tat" fu anche il segno impresso da Ezechiele sulla fronte di coloro che nella tribù di Giuda temettero il Signore; espediente adoperato anche da Mosè per evitare che Dio colpisse il suo popolo anziché quello egizio durante il flagello delle sette piaghe. Infatti il segno, impresso col sangue sulle porte degli ebrei, era un Tau; lo stesso segno col quale Horus, il figlio di Osiride e Iside, risuscitava i morti. E ancora. In una versione del mito, Osiride, il dio egizio della morte e della fertilità, venne crocifisso su di un patibolo formato da un tronco di sicomoro. L'archeologo e antropologo francese, Marcel Homet, dichiara di aver visto nell'isola di File, a sud della diga di Assuan, una effigie del dio Osiride crocifisso, circondato da Iside e Nephtys piangenti. Peraltro, nel tempio di quell'isola, un bassorilievo rappresenta una scena di iniziazione. Si possono vedere due Dei ierofanti, uno con la testa di falco (Horus), l'altro di Ibis (Thot), in piedi vicino ad un candidato sul quale versano un duplice getto d'acqua intrecciata a croce, formata e piena di tantissime croci ansate. A sempre a proposito della croce, nell'ordine genealogico egizio Ermes è il figlio del grande Thoth, Dio di tutta la conoscenza nascosta; il sacro numero abbinato ad Ermes è il quattro, con il quale si indica la materia, la sostanza delle cose. Quattro sono gli elementi, i punti cardinali, le regioni celesti egizie, i figli di Horus, i vasi canopi, i figli della terra e quattro sono i bracci della croce. Infatti, lo ierofante egiziano portava un copricapo quadrato durante le sue funzioni, come quadrati sono i cappelli dei sacerdoti armeni e dei vescovi cristiani in quanto la croce filosofica iscritta nel quadrato perfetto simbolizza l'esistenza umana perché il cerchio della vita circoscrive i quattro punti della croce che simbolizzano la nascita, la vita, la morte e l'immortalità nella Resurrezione; in sostanza, un significato racchiuso in un simbolo detto Ank che veniva posto sul petto della mummia. L'Ank, in realtà, è il nodo degli antichi Egizi, il primo segno del ciclo in cui ebbe origine il tempo.


TEMA DI COPERTINA

Disegnato in cielo, esso conteneva in una sola immagine, sia il cerchio che la croce. È riprodotto sulla fronte dalla più antica genitrice, Tifone dell'Orsa Maggiore, e rappresenta il percorso che la costellazione compie nel cielo settentrionale. In ogni caso, croci in ogni loro forma, si sono trovate su varie tombe egizie, soprattutto appartenenti al tempo del faraone Ramses II, chiamato anche Ramses il Grande, terzo sovrano della XIX dinastia, il cui regno andò dal 1279 al 1212 a.C. In India, nella dottrina Indù, l'Ank è il Pasha, una corda, che Shiva, dalle quattro braccia, appunto, tiene nel suo braccio destro inferiore, la cui funzione è quella di catturare e legare il male e l'ignoranza. Non si discosta dall'interpretazione a sfondo astronomico la tavoletta, contrassegnata col numero 1231, rinvenuta durante gli scavi di Ninive, l'antica capitale assira sotto i regni di Sennacherib e di Assurbanipal; un pannello sul quale vi è incisa una croce a rappresentare la galassia primitiva. E, in una interpretazione un po' più estesa, anche i Maya adottarono la croce, a simbolo, stavolta, del Dio Ah-Can-Tzicnal, detto "Il signore dei quattro angoli del mondo" in quanto gli era riconosciuta la capacità di designare le quattro forze della creazione, i quattro punti cardinali terrestri e cosmici. Una tale interpretazione, del resto, è ribadita dal simbolo della ruota solare, del Fior di Loto e, soprattutto della svastika, emblema religioso e propizio per le culture religiose originarie dell'India quali il Giainismo, il Buddhismo e l'Induismo. E, nell'ambito dell'induismo, la croce, in quanto patibolo, accomuna Osiride al destino di Krishna, un dio orientale avatara di Vi??u, la cui vita è il tema dominante della Bhagavadgîtâ, il Canto Divino o dell'Adorabile, testo sacro, divenuto nella storia tra i testi più prestigiosi, diffusi e amati tra i fedeli dell'Induismo stesso. La croce uncinata, peraltro, si trova incisa sulle pietre in Transilvania e sulle rovine di Troia e tracce della croce si trovano sulle statue dell'isola di Pasqua, sulle rocce della Scandinavia precristiana e in Messico dove, in un tempio precolombiano dedicato al Sole, un geroglifico rappresenta una colossale croce sormontata da una divinità sanguinante. Sempre in Messico, nello Stato del Chapas, ubicato nel sito archeologico maya di Palenque vi è un "tempio della croce", così detto dal simbolo che si trova su uno dei suoi lati. La croce, inoltre, è il segno che domina a Palenque anche nelle sue riduzioni che ricordano "l'albero della vita" dell'India. Mentre a La Venta, un sito archeologico precolombiano della civiltà degli Olmechi, situato nello stato messicano del Tabasco, vi è raffigurato un uomo in un serpente che possiede una "croce di S. Andrea". Di tali croci, peraltro, due se ne trovano a Uxmal, un importante sito archeologico maya nella penisola dello Yucatan e una è stata rinvenuta nella piramide del Mago sempre a Uxmal. Per restare in campo archeologico, la necropoli di Naqash I Rustam, a quattro chilometri da Persepoli, una delle cinque capitali dell'Impero achemenide, racchiude le tombe di quattro imperatori persiani fra i quali Dario I° e Serse I°: sono state scavate nella roccia, sul fianco di una montagna, e presentano una facciata cruciforme.

13


14

TEMA DI COPERTINA

Neppure l'Africa è indenne dall'adozione di questo simbolo: non c'è arte africana come quella tuareg che riesca a fondere così sapientemente tecnica-estetica-simbologia. Ebbene, l'esempio più noto dell'arte simbolica di quel popolo, sono le cosiddette "croci", amuleti decisamente maschili. Ve ne sono ventuno modelli diversi; ciascuno è il simbolo di una città e permette di riconoscere la provenienza della persona che lo indossa. Il "modello" più famoso è la Croce di Agadez, trasmessa di padre in figlio: "Figlio mio, ti dono le quattro direzioni del mondo perché non si sa dove morirai". Quella croce porta in sé una simbologia legata alla capacità di orientarsi nell'universo, sia che la si consideri una stilizzazione della Croce del Sud, costellazione visibile nel cielo sahariano, oppure un ricordo del segno di Tanit, simbolo della massima divinità femminile feniciopunica, dea madre legata al ciclo della nascita e rinascita. Persino i Celti, nella loro estensione dalle Isole Britanniche al bacino del Danubio e nelle loro diversità etniche, adottarono la croce, iscritta in un cerchio dal quale spuntano i bracci, quale rappresentanza del più alto simbolo della conoscenza iniziatica degli antichi Druidi, ed il massimo compendio della loro scienza; un simbolo considerato dai Druidi come sigillo del Sapere e dei quattro elementi della natura che confluiscono al centro di un Cerchio che è simbolo del quinto elemento, della Quinta Essenza. Per concludere, anche i Romani adottarono la croce e non solo per infliggere supplizi: Giano, questo dio prettamente romano le cui origini si perdono nella notte dei tempi se non si considera Ušmu, un Dio sumero a due facce, altrimenti chiamato Isimud o, in piena età babilonese, Kaka, era spesso rappresentato in una colonna a due facce sormontata da una croce patriarcale. La croce, quindi, per tornare ab ovo è, come altri, un simbolo pressoché universale che, seppur derivato da miti diversi sia culturalmente, sia temporalmente che geograficamente, ha comunque una comune valenza riferita al sacro. Come a dire che nella diversità delle deità nei tempi e nei luoghi, i poteri che a tali deità stesse si riconoscevano erano sostanzialmente simili, più o meno vicini alle cose terrene. In ogni caso, il mito riferito a ciascuna di quelle deità sopperiva alla necessità di spiegare eventi pressoché naturali che tuttavia l'uomo era incapace di comprendere e razionalizzare. Con il passare dei secoli, comunque, l'essere umano prese dimestichezza con quelle deità; aveva codificato il rapporto con esse attraverso il rito, e spesso il sacrificio per ingraziarsele secondo il meccanismo della pars pro toto, e ne rammentava costantemente la presenza e gli scaturenti dettami attraverso il simbolo. Arrivò, però, il tempo dove i popoli crebbero ed ebbero voglia da un lato di ammorbidire la pedissequa sudditanza e dall'altro di avvicinare un potere superiore alle cose terrene, a situazioni che attenevano la vita quotidiana: la schiavitù, le soverchierie del potente di turno, le aggressioni degli Stati vicini o, più semplicemente, gli artefici materiali della loro nascita o del loro riscatto; quindi, sia pur accanto all'azione divina, l'opera di un potente più disponibile, maggiormente sensibile alle cose terrene: un esaltante esempio e un sostegno etico per l'uomo. Ed è talmente vero che una tale generale evoluzione antropologica ebbe luogo che, come i


TEMA DI COPERTINA

simboli, analoga universale valenza la ritroviamo nelle figure dei semi-dei e degli eroi sparse per il mondo. Eroe è il termine greco antico con cui si indica, nella religione, nella mitologia e nella filosofia greca, un essere che si pone su un piano intermedio tra l'uomo e la divinità. Per i Greci, quindi, tra gli esseri che abitano l'universo oltre agli Dei e agli uomini vi sono anche gli Eroi e Platone conferma questa suddivisione aggiungendo anche la categoria dei Demoni già presenti in Esiodo ma come stato di post mortem della generazione aurea e in qualità di tutori del genere umano. Esiodo, peraltro, ci dice che gli Eroi sono la quarta generazione (dopo le stirpi dell'oro, dell'argento e del bronzo) subito prima dell'avvento degli uomini. Nel testo classico Psiche, un'opera di Erwin Rohde, un filologo e accademico tedesco del XIX secolo, tale nozione di "semidei" non inerisce a un loro presunto aspetto "spirituale" o alla natura di uomini "glorificati", quanto piuttosto all'essere uomini ma figli di uomini e di dei, dove la presenza di quest'ultima parentela occorreva per il loro innalzamento a un rango "divino". Tale parentela veniva collegata da Esiodo, nel suo lavoro Le opere e i giorni al periodo in cui dei e uomini convivevano, generando insieme la stirpe degli Eroi che combatté a Tebe e a Troia. In occasione di quest'ultima guerra, il re degli dei Zeus decise tuttavia di allontanare gli dei dagli uomini. Eroe e mito, quindi, spesso si intrecciano. Topos fondamentale dell'eroe dal quale non si può prescindere è l'obiettivo finale che deve portare a compimento. Durante la sua vita egli può anche istituire un modus vivendi, egli cioè diventa una sorta di colonizzatore o di civilizzatore che introduce nuovi elementi nel determinato ambiente nel quale si trova in quel momento. Diventa quindi un eroe culturale; nella mitologia greca se ne hanno vari esempi, come Orione, Eumolpo, Museo, Filammone, Orfeo. Anche Diomede, che fu grande guerriero sotto Tebe e Troia, viene ricordato per la sua opera civilizzatrice. L'eroe, quindi, è una sorta di aspirazione da parte di un popolo ad identificare la propria storia, le proprie usanze e, cosa più importante, la propria grandezza. Presso i Greci quasi tutti i grandi guerrieri dell'età mitica godettero di culto eroico dopo la morte. Oltre agli eroi del ciclo troiano, ci sono quelli che appartengono alle generazioni precedenti. Questi erano perlopiù semidei, come Eracle, Ercole per i Romani, il più forte di tutti nel mito greco, che eliminò diversi mostri; Perseo, uccisore della Medusa e del mostro marino al quale era stata offerta in sacrificio Andromeda, sua futura moglie; Ati, il bellissimo arciere indiano dalla mira infallibile che prese parte a varie campagne militari già da fanciullo, venendo poi ucciso all'età di sedici anni da Perseo per essersi schierato con Fineo, zio di Andromeda e mancato sposo della ragazza; Meleagro, ricordato insieme ad Atalanta per aver abbattuto il cinghiale calidonio. Eracle, Meleagro e Atalanta furono anche i più famosi tra gli Argonauti, ovvero gli eroi che sotto il comando di Giasone s'imbarcarono sulla nave Argo alla volta della Colchide per impadronirsi del Vello d'oro; durante il lungo viaggio essi fecero scalo anche nel regno dei Dolioni, e qui per un terribile equivoco uccisero il giovanissimo re Cizico e alcuni suoi uomini, tra cui Artace, personaggio che ci è noto dalle sole Argonautiche di Apollonio Rodio, dove viene definito come

15


16

TEMA DI COPERTINA

uno dei più grandi guerrieri. Un altro eroe illustre - benché comune mortale come Artace - fu Bellerofonte, che liberò la Licia dalla Chimera e dalle incursioni delle Amazzoni e dei Solimi. Ma i Greci e i Romani non furono i soli a concepire eroi mitologici. I Romani, in verità, ne concepirono pochi, maggiormente portati a riconoscere l'attributo di eroe a uomini in carne ed ossa, coraggiosi, condottieri e dotati inequivocabilmente del mos maiorum più che della humanitas. L'altro popolo ricco di eroi furono i Celti, che peraltro dispongono solo di narrazioni con eroi e dei e non di soli dei o, meglio, delle sole dee trinitarie Morrigan, Birgit e Riannona. E di molti eroi hanno cantato le gesta. Per la nascita degli dei e del mondo celtici ci dobbiamo affidare principalmente alla Völuspá (La profezia della veggente), il primo e più famoso componimento dell'Edda poetica che racconta, appunto, la creazione del mondo e la sua futura fine, narrata da una völva o veggente che parla ad Odino. E' famosa, al riguardo, la strofa XLVI che descrive l'atmosfera cupa regnante nelle Alte Aule degli Dei all'approssimarsi del ragna rok (il Crepuscolo degli Dei, ossia la fine di questa Era, di questo nostro Mondo). Per gli eroi, invece, ci restano le varie narrazioni. Ad esempio, le leggende legate a Finn mac Cumhail, il capo dei Fianna, una confraternita di guerrieri iniziati, il quale possedeva poteri magici che utilizzava per eliminare le forze sovrannaturali che minacciavano il suo paese. Oppure, racconti dove l'eroe di turno è Peredur, giovane e prode cavaliere corrispondente, per le grandi linee, al nostro Parsifal, o, ancora, Brân, menzionato nel racconto "Branwen, figlia di Llyr". Gesta di eroi tutte cadenzate sul dualismo del bianco e del nero, come il grande gioco celtico degli scacchi, che si svolgeva su una scacchiera detta fidchell ("il legno dell'intelligenza"), appannaggio degli Dei, dei Re e dei guerrieri: ossia di coloro i quali, manovrando opportunamente le Forze del Bianco e del Nero, potevano determinare le sorti dei popoli, come testimoniano il racconti irlandesi de "Il sogno di Ronabwy", de "Il corteggiamento di Étain" e de "La battaglia di Mag Tuireadh" dove muore Cé, il druido guerriero di Re Nuada. Già, perché anche i Druidi combattevano come dimostra Mago Merlino che, alla testa dei cavalieri di Re Artù, combatté sotto le mura di Carohaise. Il bianco e il nero, dunque, che trova il suo apice nel ciclo detto di Ulster che ha come protagonista l'eroe Cù Chulainn, il quale risiedette alla corte del re Conchobar. Sarà costretto a lottare da solo contro l'armata della regina Medhbh di Connacht che aveva inviato un'armata per impadronirsi del toro bruno di Cuailnge, senza opposizione da parte della gente di Ulster, per effetto di un sortilegio. Un combattimento feroce (Táin Bó Cuailnge) tra il toro bruno di Cuailnge e il toro bianco di Connacht metterà fine all'epopea. La carriera del semi-dio Cù Chulainn sarà breve, perché i suoi avversari lo uccideranno attraverso i loro poteri magici. Anche l'India è provvista di eroi mitologici. Per citarne uno, sempre attraverso la Bhagavadg?t?, conosciamo l'episodio del Mahabharata dove l'eroe Arjuna, dovendo combattere contro i propri cugini, divenne timoroso. Gli apparve allora il dio Visnù che lo convinse a lottare dimostrandogli che quello era il suo destino e che doveva comunque affrontarlo.


TEMA DI COPERTINA

Persino l'Africa ne è dotata. Da Letteratura d'Africa di Eno Belinga e di Brambilla, apprendiamo che in Malì esisteva un'etnia, i Fulbe, che avevano una ricca poesia pastorale; poemi epici che esaltano gli eroi dell'era preislamica come Silãmakla et Poullori, cantato da Bubacar Tinguidji. Anche gli Yoruba dell'Africa Occidentale, ad ulteriore esempio, come si legge su Letteratura orale dell'Africa subsahariana di Isidore Okpewho, avevano il loro eroe in Ozidi, ben descritto nella relativa Saga, il quale, dopo numerosi scontri fisici e magici, ebbe la meglio sugli avversari. Poi, particolarmente per il mondo occidentale e medio-orientale, anche il tempo degli eroi passò e venne quello degli uomini dove le intervenute religioni cancellarono l'aspetto magico e sacrale dell'eroe, per la sua connessione con gli dei, per farne un uomo munito del timor di Dio, votato alla causa del solo bene riconosciuto dal clero o volto alla ricerca della reliquia e, comunque, animato dall'amor cortese per una donna. Più che dell'uomo, quindi, una tale evoluzione la si ebbe per necessità religiosa che abbisognò di esempi "eroici" per volgarizzare la sua dottrina: l'esaltazione della fede, l'astinenza, il rispetto degli ordini e delle gerarchie, il timor di Dio, l'amore platonico o monogamo. E, poiché l'eroe, in ogni caso, per perseguire il bene era costretto ad azioni violente, a risolvere il busillis giunse Bernardo di Chiaravalle che coniò il termine di "malicidio", riprendendo il concetto di "guerra giusta" introdotto da Agostino d'Ippona. In sostanza, si ammise che l'uccisione di un infedele, di un eretico o di un pagano, giudicati come nemici della fede, non doveva essere considerata come un omicidio ma come un "malicidio", appunto, ovvero come l'estirpazione di un male. Un tipo di eroe, questo, lontano dalle terrene traversie del popolo se non erano riconducibili ad aspetti religiosi. Una figura, comunque, che sia pur con i distinguo, manteneva la capacità di esaltare. Di solito, questo tipo di eroi si trovava tra i cavalieri. Per prima, La Chanson de Roland, scritta a più mani intorno alla seconda metà dell'XI secolo, è lì a dimostrarlo: una chanson de geste appartenente al ciclo carolingio, che trae spunto dalla battaglia di Roncisvalle di tre secoli prima, considerata tra le opere più significative della letteratura medievale francese; un'opera dove si esalta la fedeltà al proprio signore, la fede cristiana in opposizione alla fede islamica (che tra l'altro nel testo risulta essere politeista) l'onore, da tutelare a ogni costo e l'eroismo in battaglia. Le uniche due donne presenti sulla scena sono Alda, futura sposa di Orlando, e Braminonda, moglie di Marsilio che, neanche a dirlo, si convertirà al cristianesimo alla fine del poema. E ancora. Chretien de Troyes, poeta francese della metà del XII° secolo, con le sue opere, dove emergono particolarmente Lancelot ou le chevalier de la charrette e Le Roman de Perceval ou le conte du Graal, esalta la donna come signora e l'amore come omaggio di devozione e mezzo per una elevazione spirituale. Non si discosta molto Wolfram von Eschenbach, cavaliere e poeta tedesco, il quale col suo poema sul Sacro Graal intitolato Parzival, parla della cerca della reliquia sia pur con un linguaggio esoterico. L'unico tra gli scrittori e poeti dell'epoca che ha dato all'eroe una veste fantastica dalle connotazioni celtiche con qualche sprazzo cristiano è Goffredo di Monmouth, storico e scrittore

17


18

TEMA DI COPERTINA

britannico sempre del XII° secolo. L'Historia, Regum Britanniae completata nel 1138, è la sua opera più celebre; con intenti storiografici, ma in effetti attingendo quasi esclusivamente a miti e leggende, racconta le vicende dei regnanti bretoni su un arco di duemila anni. Ed è attraverso quell'opera che noi abbiamo conosciuto Artù, il mitico re di Camelot. Purtroppo, neppure questo tipo di eroe durò a lungo. Con l'arrivo del XV° secolo, cominciò a prendere piede un movimento intellettuale chiamato Illuminismo che, a metà del XVIII° secolo, arrivò a coinvolgere la cultura europea e a sconvolgere gli assetti tradizionali della società, costringendo i miti dal contenuto gnostico/esoterico, e soprattutto la loro funzione "essoterica", ad inabissarsi e a camuffarsi. Venne esaltata la luce della ragione (i Lumi) quale strumento indispensabile per diffondere e assicurare il benessere alle popolazioni. Per raggiungere questo obiettivo si sostenne la necessità del progresso in tutti i campi, liberando l'uomo dall'oppressione delle confessioni religiose, che ostacolano gli studi e la scienza e che immobilizzano il popolo in un mare di ignoranza, e dai poteri accentrati nelle mani di una sola persona, il sovrano. Immanuel Kant, nel suo saggio Risposta alla domanda: che cos'è l'illuminismo? arrivò ad affermare "L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d'intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell'Illuminismo. " La Rivoluzione Francese, derivata da quel movimento, finì per sovvertire ogni ordine precostituito; una rivoluzione della quale ancor oggi scontiamo gli effetti, a cominciare dalle vetuste connotazioni politiche di "sinistra" e di "destra". Giungerà il Termidoro a far sì che la rivoluzione mangi sé stessa con il ghigliottinamento di Robespierre nel luglio del 1794, comunque lasciando campo libero alla sola borghesia in prevalenza bottegaia, sempre meno dotata di pulsioni spirituali. E a nulla varranno i vari filoni filosofici che soprattutto da quella rivoluzione si sono dipartiti per attraversare il secolo XIX°; filoni che sono rimasti oggetto di studio fine a sé stesso senza alcuna riverberazione sulla società stessa. Beh! No. In verità, uno ha prodotto effetto: quello proveniente dai pensamenti di Karl Marx che, probabilmente senza volerlo, ha prodotto la più rilevante massificazione che la storia ricordi, scientificamente privata di ogni anelito di spiritualità. Perciò, privati di identità e dediti al puro materialismo, arriviamo dal secolo XIX al XX°; un percorso del quale ci dà un ottimo spaccato Hermann Hesse prima col Siddharta e poi con Il lupo della steppa. Nel primo, Hesse racconta, con uno stile complesso che intreccia lirica ed epica, le vicende di un giovane indiano, una sorta di Buddha potenziale, laddove il personaggio reale di Siddharta è presente soltanto sullo sfondo e viene chiamato Gotama. Siddharta non è, quindi, un mistico


TEMA DI COPERTINA

asceta, ma piuttosto un giovane che ricerca la strada a lui più consona nella vita attraverso il ragionamento e il tentativo di comprensione della realtà più profonda delle cose. Nel secondo, invece, il personaggio Haller, avviluppato nel male del suo tempo, è il simbolo di una generazione psichicamente tarata, scissa tra due tempi e due stili di vita opposti, dilacerato da dubbi e da forze ambigue e contrastanti. A salvarlo, si fa per dire, sarà la bella e ambigua Erminia che lo strapperà dal falso dualismo e lo introdurrà ai piaceri della vita: sesso, balli, droga. Prendendo a prestito da La Civiltà Cattolica (Edizioni 3073-3078), ne Il Lupo della steppa c'è la rappresentazione della "pazzia" umana e del marciume borghese, della frattura tra natura e civiltà, della discriminazione tra élite e massa; e, poi, ci sono gli arruffii della psicanalisi, le allucinazioni del surrealismo, il fascino del caos, l'incubo della guerra, i singulti di una società condannata a perire e le sollecitazioni del decadentismo. In sostanza, i tempi descritti dal Kali Yuga, ultima delle quattro Ere narrate dalle sacre scritture induiste. Durante quest'era, narra il Kali Yuga, si assiste ad uno sviluppo nella tecnologia materiale, contrapposto però ad un'enorme regressione spirituale. Infatti, il Kali Yuga è l'unico periodo dove l'ateismo è predominante e più potente della religione; solo un quarto di ognuna delle quattro virtù del Dharma (penitenza, veridicità, compassione e carità) sono presenti negli esseri umani. La nobiltà è determinata unicamente dalla ricchezza di una persona; il povero diviene schiavo del ricco e del potente; parole come "carità" e "libertà" vengono pronunciate spesso dalle persone, ma mai messe in pratica. Non solo si assiste ad una generale corruzione morale, ma le possibilità di ottenere la liberazione dall'ignoranza, il Moksha, si fanno sempre più rare a causa del declino spirituale dell'umanità. In verità, a cavallo dell'ultima grande guerra, un tentativo di risollevare l'uomo dal suo abbruttimento venne fatto, soprattutto dalla letteratura. Mi piace pensare che John Ronald Reuel Tolkien nel suo più importante lavoro, Il Signore degli Anelli, oltre a perseguire il suo amore per le antiche lingue, tra cui il gotico e l'antico finnico, e per la letteratura medievale, abbia voluto metaforicamente rappresentare nell'hobbit, nel mezzo uomo Frodo Baggins, l'uomo della strada, l'uomo qualunque, ignaro e lontano dalle traversie del mondo. Eppure, investito di un enorme problema, ne acquisisce consapevolezza e, forte nel suo senso sociale sia pur limitato alla Contea, accetta il carico di responsabilità a lui arrivate quasi per caso e intraprende il cammino che lo porterà a sconfiggere Sauron, il Male. Certo, sarà aiutato dal suo amico Samvise Gamgee, da un pizzico di magia/fortuna (utile in tutte le azioni umane), rappresentata da Gandalf, nonché dalle razze rispettivamente degli Uomini, dei Nani e degli Ent (gli alberi/la natura e la sua capacità di ribellarsi alla violenza). In ogni caso, lui e solo lui, un mezzo uomo, avrà l'incombenza di distruggere l'ultimo anello, abbattere la razza degli Orchi, il loro traviato sostenitore Saruman e, alla fine annientare Sauron. In sostanza, la sintesi del pensiero liberale: la consapevolezza dei problemi sociali e l'accettazione di una responsabilità personale che, attraverso la sommatoria delle responsabilità, diviene risolutiva di un problema collettivo. Ora, una metafora del genere avrebbe potuto essere efficacemente tradotta nella politica di forze liberali o, comunque di

19


20

TEMA DI COPERTINA

destra. Peraltro, non avrebbe potuto essere altrimenti in quanto non avrebbe potuto fare presa su forze di sinistra che inneggiavano al collettivismo o su quelle di centro che invocavano lo Spirito Santo. Una parte della destra, invero, ha adoperato la metafora ma, purtroppo, più che altro come miglio per i polli. E così si è persa la bellezza dell'opera tolkiana, rivitalizzata negli anni 2000 dagli americani come forma di spettacolo: ne sono stati fatti tre bellissimi films, a ricalco della partitura del libro. Uno spettacolo, fine a sé stesso, bello quanto si vuole ma privo di ogni finalità formativa. Anzi, proprio dal dopoguerra e fino ad arrivare ai giorni nostri, l'umanità soprattutto occidentale ha compiuto un percorso inverso, come ha scritto Roberta Forte nel novembre del 2012 su questa rivista: il piattume sta invadendo la Terra di Mezzo. Gandalf è scomparso e Frodo Baggins della Contea vuole ripescare l'anello, nonostante lo sprone di Samvise Gamgee. E Sauron sta per vincere sulla libertà. Noi gli hobbit, abbiamo fatto un cammino inverso: siamo andati verso il Monte Fato, ci siamo affacciati sull'orlo del vulcano dell'Orodruin, abbiamo ripescato l'Anello, divenuto di stagnola, e l'abbiamo indossato proclamandoci, novelli meschini Gollum, possessori del "tessoro", nella speranza che Sauron ci veda e ci giudichi fedeli sudditi, dimenticando non solo la libertà ma anche la bellezza, la bontà, la temperanza, la socialità e, perché no, l'orgoglio d'appartenenza. Siamo diventati abitanti del vasto mondo delle tenebre e il nostro sonno non è più allietato, nell'umana serena carenza, da sogni colorati: ci svegliamo tesi e più stanchi di prima, pronti ad additare il più piccolo brillio come grave atto paradossalmente contro la socialità. Pertanto, persa la coscienza universale, sia pur diversificata dai riti ma riaccomunata dai simboli che ne derivavano, privati di eroi e comunque della loro esemplare azione, sfuggenti da ogni responsabilità, abbiamo cominciato a prendere dimestichezza con altri simboli che, invertendo il percorso, creano pseudo miti: l'aquiletta, il levriero, la mela, il giocatore di polo, il cowboy, e tanti altri ancora; cioè marchi di prodotti per entrare in possesso dei quali l'uomo rateizza sé stesso, senza più aspirazioni, ideali e valori. E' così che dall'esaltazione derivata dal mito degli dei e di quello degli eroi siamo passati alla soddisfazione corporale che dà la fetecchia. Massimo Sergenti


TEMA DI COPERTINA

C’ERA UNA VOLTA. CI SARA’ ANCORA? Sei milioni di anni fa i nostri antenati vivevano sugli alberi. A mano a mano che diventavano più numerosi, però, furono costretti a scendere per recarsi "altrove", in cerca di cibo. Attraversare la savana era molto pericoloso: l'erba alta impediva l'orientamento e li esponeva agli attacchi degli animali feroci. I primi ominidi pertanto, pensarono bene di "sollevarsi" e di camminare su due soli arti, in modo da sovrastare l'erba e avere una visione d'insieme più ampia. Si resero conto, poi, che i due arti liberati potevano essere sfruttati per tante altre funzioni. Artrosi ed ernia del disco sono alcune tra le più note conseguenze di questo processo evolutivo non ancora ultimato, che ha visto i quadrupedi trasformarsi in bipedi, concentrando sulla colonna vertebrale e le gambe il peso che prima si dipanava su quattro arti. Quanta strada è stata percorsa da allora. Da un piccolo spostamento per reperire nuovi spazi vitali, l'Uomo è oggi in grado di concepire viaggi intergalattici per esplorare lo Spazio e raggiungere Pianeti lontanissimi. Se realizzassimo un grafico che evidenziasse il progresso scientifico, vedremmo una retta lunghissima che s'innalza progressivamente dal punto di partenza fino ai giorni nostri. Se analizzassimo, invece, la capacità degli esseri umani di vivere in armonia con se stessi e con il prossimo, non avremmo lo stesso risultato. Il "gap" tra progresso scientifico e progresso umano costituisce la difficile e fascinosa "queste" che appassiona tanti studiosi e che è ben lungi dall'aver offerto risultati certi e condivisi. La tesi più plausibile, a mio avviso, è quella che imputa al progresso scientifico una continua fagocitazione del genere umano, incapace di reggerne il passo. Ai tempi di Alessandro Magno era l'Uomo, con il suo pensiero, la forza e la capacità d'azione, il centro dell'Universo. Pensiamo, ad esempio, cosa fu capace di scrivere Dario III, morente, proprio ad Alessandro, che gli aveva sventrato il vasto impero: "Figlio mio, Alessandro, pensa cosa ero e guarda cosa sono. Senza neanche una persona vicina per chiudermi gli occhi. Fa che i Macedoni e i Persiani sostino in lutto per me, prendi mia figlia Statìra per moglie, così che il seme di Dario e di Filippo si mescolino in uno e che i nostri due mondi divengano uno solo. Nelle tue mani affido il mio spirito". Non vi è odio, non vi è rancore nell'imperatore sconfitto, bensì una superiore visione della vita. Come noto, Alessandro inseguì per un anno Besso, il satrapo che assassinò Dario sperando di ingraziarsi il nuovo dominatore del mondo, e lo giustiziò: "perché solo un re può uccidere un re". Diciamo la verità: questi concetti, prima ancora che lontanissimi, ci appaiono inesplicabili, anche

21


22

TEMA DI COPERTINA

se a nessuno può sfuggire la loro forza intrinseca, soprattutto considerando cosa sarebbe il mondo di oggi se l'auspicio di Dario si fosse avverato. Alessandro era contemporaneo e allievo di Aristotele, a sua volta discepolo di Platone. Prima di loro vi erano stati Socrate e i presocratici. La storia della Filosofia, più di ogni altra cosa, è in grado di delineare il cammino dell'uomo nelle sue varie fasi epocali. Ma con Nietzsche questo processo s'interrompe, perché dopo di lui il "pensiero" muore e vive di luce riflessa, o di disgustosi rimescolamenti. Perché? La rivoluzione industriale crea nuovi modelli sociali, nuovi interessi, nuovi bisogni. Inizia la scissione tra l'uomo e ciò che l'uomo crea. L'economia incomincia ad avere il sopravvento sulla "politica" e quando poi partorisce il mostro chiamato "finanza", la disgregazione è totale. Un virus s'impossessa del genere umano, condizionandolo in tutti gli aspetti dell'essere. Alcuni sono così abili da riuscire a convivere con il virus, sfruttandolo a loro esclusivo vantaggio, pur essendone contaminati. Altri, invece, in maggioranza, lo subiscono trasformandosi in zombi, incapaci anche di vedere e assumere i tanti antidoti che comunque esistono, periodicamente creati dai pochi "eletti", appannaggio di ogni era e per retaggio ancestrale immuni da ogni sorta di virus. La lotta tra bene e male, che è antica quanto l'uomo, diventa una lotta impari perché il male riesce a dotarsi di strumenti di distruzione di massa molto più potenti e "fagocitanti" degli antidoti prodotti dagli eletti al servizio del "Bene". In Occidente, soprattutto, si creano le più gravi disarmonie, che ben presto si trasformano in un boomerang. Nessuno è in grado di fronteggiare il problema e ciascuno si comporta come il rospo buttato nell'acqua calda, che diventa via via sempre più calda. Invece di reagire saltando dalla pentola, il rospo cerca di adattarsi al crescente calore, producendo uno sforzo tremendo. Quando l'acqua diventa bollente, però, il rospo muore. Non per l'eccessivo calore, ma per le forze che gli sono venute meno nel momento in cui ha deciso di saltare. Le ha sprecate tutte cercando di "adattarsi". E' quello che sta succedendo alla nostra società. Volontariamente ho tenuto lontano da questo articolo qualsivoglia tono nostalgico. La nostalgia ha il suo fascino, indubbiamente, anche se talvolta è un sottile artifizio per mascherare le proprie manchevolezze. E' un dato di fatto che il mondo contemporaneo ha tante crepe che ieri non c'erano. Ma queste crepe non sono nate d'incanto dall'oggi al domani. E le crepe, comunque, non sono mai mancate. Capire bene cosa c'era una volta, pertanto, scindendo il grano dal loglio, è fondamentale per correre ai ripari, ammesso che sia ancora possibile. L'uomo contemporaneo sta tentando scioccamente di inserire in un sistema "finito" - il pianeta in cui vive - qualcosa di "infinito", ossia la crescita esponenziale. Non è possibile continuare su questa strada e il perché, molto meglio di me, lo ha spiegato magistralmente, già nel 2005, uno dei miei tanti maestri: Alain de Benoist. Consiglio senz'altro, pertanto, di leggere il suo saggio "Comunità e Decrescita - Critica della Ragion Mercantile” Dal sistema dei consumi globali alla civiltà dell'economia locale", che


TEMA DI COPERTINA

consente di aprire una finestra su quel mondo nuovo cui tutti aneliamo, senza essere però ancora capaci di costruirlo. Quando avremo realizzato questo processo, sarà bello, anzi bellissimo, raccoglierci attorno a un camino e viaggiare nel tempo per raccontarci, anche con un pizzico di nostalgia, ciò che c'era una volta. Ora, purtroppo, non c'è tempo per questo, perché è tempo di combattere. Lino Lavorgna

23


24

TEMA DI COPERTINA

L’ATTUALITA’ DEL MITO I miti servono. Ci aiutano a capire chi siamo e da dove veniamo. Sono il modo migliore che l'individuo conosca per conferire senso alla propria esistenza ma anche per comprendere la morte e provare in qualche modo a tenerle testa. I miti, in buona sostanza, sono lo strumento che la ragione adopera per assicurare la sopravvivenza dello spirito oltre l'orizzonte finito della vita fisica. Essi non appartengono ai regni inferi delle domande ma alle altezze iperuraniche delle risposte dove risiedono i differenti significanti delle nature umane. È grazie ad essi se l'individuo, qualsiasi ne sia la condizione, possa sentirsi ricompreso nel divenire della storia. Per usare un'espressione dell'attualità, i miti rappresentano fattori inclusivi del protagonismo di un'umanità plurale. Per le collettività vale il medesimo principio che governa la condizione del singolo individuo. Il postulato che accomuna la prevalenza del genere umano si radica nella visione creazionista delle origini. Essa si connota per opporre un netto rifiuto di cittadinanza a tutte le tesi che fanno discendere la vita dall'aggregazione spontanea e casuale di alcuni atomi di carbonio. L'uomo della Tradizione, che più di ogni altro guarda alla centralità dei miti nella propria visione del mondo, si lega in un rapporto indissolubile all'elemento costitutivo della terra dei padri, insieme di fattore ereditario e dimensione fisica di suolo che crea relazioni organiche, gerarchicamente disciplinate, tra le generazioni che l'attraversano nel divenire del tempo profano. Nella fusione di sangue e suolo, Blut und Boden, si cristallizzano i miti fondanti di ogni civiltà. Allo stesso modo, il principio delle specie di cui si compone l'umanità è collocato nell' illo tempore, rappresentato da una molteplicità di miti fondativi. Dalla cacciata dal paradiso del primo uomo, per i credenti delle religioni del Libro, alla geografia sacra degli uomini della Tradizione risalente a Iperborea, la terra popolata, secondo Julius Evola, "dalla misteriosa razza che abitava nella luce eterna, la cui regione sarebbe stata residenza e patria dell'Apollo delfico, il dio dorico della luce, il puro, il radiante, figurato come un dio dell'età dell'Oro". Dalla terra artica dei miti indiani: "Uttarakuru", dimora primigenia degli Arii vedici, posta "agli estremi confini del mondo" e corrispondente all'Etiopia omerica, patria primordiale degli uomini estremi connessi col mondo degli dei, fino alle ricostruzioni di più recente conio della stirpe umana quale discendenza diretta di civiltà aliene insediatesi sul pianeta in tempi remoti e poi migrate verso altri mondi non senza aver lasciato in loco significative testimonianze della loro presenza.


TEMA DI COPERTINA

Il costante e puntuale sforzo dell'umanità di tutti i tempi di collocare le proprie origini nel tempo e nello spazio risponde dunque all'ancestrale bisogno di identità che orienta l'agire umano. Neppure la sistematica devastazione dei valori archetipici delle razze umane, provocata dal dilagante morbo della "società liquida", è riuscita a sradicare la traccia genetica del senso di appartenenza dalla coscienza profonda della natura umana. Vi è un processo osmotico grazie al quale tradizione e miti si alimentano a vicenda. Sotto questo riguardo convince la decrittazione concettuale dei miti nell'accezione proposta da Georges Sorel. Per l'autore di "Réflexions sur la violence", i miti altro non sono che complessi di immagini in grado di agire sull'istinto dell'individuo, sprigionandone in tal modo l'azione. Si può ben dire che nell'interpretazione soreliana il mito muova la storia. È il caso, ad esempio, del "mito del sangue" in rapporto di causa-effetto con la profezia del "Terzo Regno", Dritte Reich, nella Germania riunificata, a cavallo tra il XIX e il XX secolo. In esso, la mistica salvazionista, impiantata sulla preesistente cultura millenaristica occidentale, si è nutrita dei medesimi elementi escatologici della lotta tra il bene e il male, fattore propedeutico della rigenerazione dell'uomo, presenti fin dall'antichità remota nello zoroastrismo iranico e successivamente nelle correnti gnostiche tradizionali. A questo filone di pensiero si aggancia anche l'idea-guida della Rivoluzione Conservatrice. Moeller van den Bruck e tutti gli altri ideologici che ne hanno seguito le orme hanno tratto molti spunti di riflessione dalle esperienze dei grandi mistici medievali Gioacchino da Fiore e Maestro Eckhart, prima di approdare alla prefigurazione di una palingenesi dell'umanità propedeutica all'avvento di un Nuovo Ordine. igiene spirituale audacia temeraria L'idea stessa di nazione trova una sua peculiare sistemazione nel dispiegamento, attraverso l'apparato mitico, di quello che Martin Heidegger chiamava "l'allevamento di un nuovo bisogno di valori". Ciò che ne scaturisce è la concettualizzazione totemica della natura ontologica del popolo-comunità organica che, attraverso la sua attitudine dinamica rivoluzionaria, "conserva e rilancia il primordiale. L'identificazione con i ceppi, le stirpi, le famiglie che hanno convissuto uno spazio circoscritto e hanno condiviso un comune linguaggio, che hanno cementato una tradizione fatta di giorni luminosi di gloria e di tempi bui di sventura, che hanno obbedito alle medesime leggi, che hanno combattuto le stesse guerre e si sono anche combattuti tra loro coltivando il medesimo seme della violenza rigeneratrice, che hanno adorato gli stessi dei, fanno di quelle comunità altrettanti "unicum" irripetibili per la loro storia all'interno della più generale specie umana. Solo la perversione illuminista ha potuto coltivare la fede idolatrica nell'esistenza dell'Uomo individuo, soggetto unico d'imputazione di ogni diritto, artefice e vittima allo stesso tempo di un universalismo senza patria. L'Uomo dei Lumi è stato programmato per ignorare, se non apertamente calpestare, la superiore essenza della comunità, Gemeinschaft, che sola conferisce orizzonte compiuto di senso alla vita di ogni suo singolo appartenente. Da questo atto di suprema arroganza discende la catastrofe del trionfo del mondialismo, alla quale partecipiamo nel nostro presente storico.

25


26

TEMA DI COPERTINA

Chi, in coscienza di verità, può oggi negare che Joseph de Maistre avesse ragione quando chiosava nelle sue Considerazioni sulla Francia: "Ho visto nella mia vita francesi, italiani, russi; so pure, grazie a Montesquieu, che si può essere persiani; ma quanto all'Uomo, dichiaro di non averlo mai incontrato in vita mia; se esiste, è a mia insaputa"? Oggi, il tentativo in corso ad opera dell'ingannevole "società del benessere", nichilista e narcisista, portatrice insana di egualitarismo negatore delle differenze, mira a colpire a morte il principio dell'identità dell'umano per sostituire ad esso il paradigma soggiogato del "consumatore". Questa nuova forma di schiavitù del razionalismo progressista mira ad espellere il valore della trascendenza dalla condizione umana per fare spazio all'immanenza dello sviluppo materiale delle società deprivate di ogni condizionamento spirituale. Essa è il vero volto dell'Anticristo della profezia vergata nelle Scritture. La sincope ateista di questa modernità malata, che provoca il collasso della dimensione spirituale, può essere rimediata soltanto attraverso un ricominciamento aurorale di un nuovo ciclo. Alla "morte di Dio", annunciata dagli araldi dell'ultimo capitalismo globale, può fare argine l'Uomo della Tradizione che, forte del sostegno dell'apparato di miti di cui è al tempo stesso portatore e depositario, sappia recuperare la capacità mistica e metafisica di un visionarismo attivo non troppo distante da quello indicato dallo Zarathustra nietzscheano. Tuttavia, esso è compito troppo grande e oneroso perché lo si possa affidare alle cure di una società borghese piagata dalle sue paure e affetta da insanabili istinti egoistici. Non bastano uomini qualunque per varcare la soglia del superamento spirituale della realtà: occorrono superuomini, übermenschen. Uomini da amare perché, come vaticina lo Zarathustra nietzscheano, "non sanno vivere se non tramontando giacché sono quelli che vanno oltre". Si ha forse timore di pronunciare la parola tanto odiata e ostracizzata da questa nuova razza di ammaestratori di pulci dello Tschandala che ci governa? La gramigna della mediocrità ha forse inghiottito per sempre il campo arato delle virtù virili? La via eroica è forse divenuta un indirizzo sconosciuto? La crisi che sta attraversando le nostre esistenze non si cancella con i pannicelli caldi dell'economia e delle "conquiste" sociali, essa richiede un supplemento d'energia vitale che l'uomo di una modernità perversa e malata può trarre soltanto dall'inesauribile deposito della Tradizione e dei suoi miti. È compito alla portata di questa umanità confusa e dolente? Certo che no. Ma come sosteneva Arthur Moeller van den Bruck: "L'umanità si pone sempre e soltanto compiti che non è in grado di risolvere. Qui sta la sua grandezza. Qui sta il genio che la guida. Qui sta il demone che la spinge". Questo è l'esatto punto geodetico dove, da irriducibili fautori dell'aristocrazia del carattere, vorremmo incrociare le forze convergenti dei miti delle origini. Nessun altro luogo fuori di questo. Per Aspera ad Astra. Cristofaro Sola


POLITICA

VINCERE LA SFIDA DELL’INTEGRAZIONE

La Costituzione italiana, a quasi settanta anni dalla sua entrata in vigore, "dimostra ancora di possedere - prendendo a prestito una bella frase di Leopoldo Elia - una prudente elasticità ed attitudine a comprendere con i suoi principi anche fenomeni che i Costituenti non potevano prevedere. In effetti i principi racchiusi nella prima parte della Costituzione sono ormai fortemente radicati nella coscienza degli italiani e rappresentano, i valori fondanti del nostro ordine sociale. Sono valori ormai consolidati e condivisi e appaiono destinati a durare, come dimostra il fatto che nessuna riforma costituzionale, per quanto incisiva e radicale, ha mai messo in discussione le disposizioni costituzionali riferite ai diritti e ai doveri dei cittadini. Almeno fino ad ora…". "La consonanza fra i valori espressi nella Costituzione e i valori di cui sono state portatrici le forze politiche dominanti", per usare un'espressione di Costantino Mortati, ha favorito la nascita di un "diritto obiettivo", vale a dire di un sistema di garanzie sostanziali, tendenzialmente stabile, ben poco dipendente dalle "variabili" storiche. Tutto ciò, ovviamente, non significa che la Prima parte della Costituzione non debba essere quotidianamente difesa dai rischi insiti nei meccanismi che determinano il consenso politico e l'esercizio del potere. Né ci si può illudere che sia sufficiente limitarsi ad adottare i pur importanti correttivi necessari al funzionamento delle istituzioni, senza contemporaneamente rilanciare, attraverso il rafforzamento della partecipazione dei cittadini, quel sentimento di appartenenza ad una unica comunità di destino che è vivo solo quando si condivide un comune ethos civile. E' il grande tema del cosiddetto "patriottismo repubblicano", formula che personalmente preferisco a quella più in voga di "patriottismo costituzionale" coniata da Habermas. E' proprio nell'ambito di questo rinnovato patto tra cittadini consapevoli della comune appartenenza, che si possono distinguere chiaramente i doveri “inderogabili" sanciti dalla Costituzione, da tutti gli altri obblighi giuridici che il legislatore ha previsto o può prevedere. Tali doveri trovano, infatti, il loro fondamento nella realizzazione del principio primario di solidarietà tra i cittadini, principio che rappresenta la ratio giustificatrice e più profonda di una democrazia compiuta. In altre parole, la "comunità di diritti e doveri" presuppone, come giustamente osserva Popper, una comunità "aperta" fondata sul principio e sul dovere di garantire l'effettiva tutela dei diritti fondamentali del cittadino attraverso l'adempimento degli obblighi di solidarietà. Solidarietà che, calata nei nostri giorni, non deve venir meno di fronte ai problemi posti dalla società

27


28

POLITICA

multietnica che fanno emergere o riacutizzano nel corpo sociale rivendicazioni identitarie e particolaristiche se non pulsioni più o meno palesemente xenofobe. Viviamo in un'epoca in cui, più o meno inconsapevolmente, da più parti si tende a posporre la tutela di fondamentali diritti civili alla conclamata esigenza di combattere pericoli, nuovi e reali e non solo presunti. Migrazioni e princìpi costituzionali E' necessario riflettere sul fatto che l'era della globalizzazione ci pone di fronte a un processo di radicale trasformazione dei concetti giuridici di "popolo" e di "popolazione". In quest'ottica, la cittadinanza appare sempre di più determinata non tanto come status, ma come relazione tra il soggetto individuale e la comunità alla quale appartiene (o della quale è venuto a far parte), e di cui condivide i valori e accetta le regole. Da un punto di vista più politico, occorre capire come il quadro costituzionale italiano possa interagire con i cambiamenti in corso, quali possano essere le strade per governare questi profondi processi di trasformazione della società e come sia possibile inquadrarli in una nuova concezione giuridica aperta alla considerazione dei diritti politici del "non ancora cittadino". Credo sia innegabile, al di là delle forti polemiche e divergenze che si registrano tra le forze politiche sul tema, che la convivenza con tutti coloro che vivono tra noi ma non sono o non sono ancora cittadini italiani appartenga allo scenario che dovremo inevitabilmente affrontare nel prossimo futuro. E' in questo quadro che la nostra Costituzione è chiamata ad evolversi per rispondere a queste concrete dinamiche ed è chiamata a farlo nel quadro dei principi che i Costituenti hanno posto a suo fondamento. Infatti, è proprio la Costituzione a offrire gli strumenti per mantenere coesione ad una società come la nostra, inevitabilmente destinata ad essere sempre più plurale. A tal fine è doveroso, prima ancora che necessario, richiedere a coloro che vivono fra noi, e non sono o non sono ancora cittadini italiani, l'adempimento di tutti i doveri che la Costituzione prescrive. Si tratta di chiedere loro di coltivare quegli obblighi di rispetto e solidarietà cui essi stessi hanno pieno diritto in quanto persone, al di là di essere o meno cittadini. Solo così si può dare piena attuazione a politiche realmente basate sul "pieno sviluppo della persona umana", secondo quanto sancisce l'articolo 3 della Costituzione. Oggi le università, che sono per antonomasia il luogo della diffusione della conoscenza e del sapere, sono chiamate a svolgere un ulteriore e importante compito quale è quello di favorire l'incontro tra le persone e di costituire così un patrimonio comune di valori e principi che non possono conoscere limiti di frontiera, proprio perché valori di carattere universale. Disse Piero Calamandrei nel novembre 1945 all'indomani della fine della guerra: - cito testualmente - "La grande funzione che nei prossimi decenni l'Università dovrà avere in Italia e nel mondo è dare ai giovani, dai quali per forza deve uscire la classe dirigente di domani, il modo di trovarsi nella cultura e nella ragione, cioè in quel campo spirituale e morale in cui ogni uomo si abitua a prendere coscienza di sé e a viver con gli altri".


POLITICA

Nella cultura, dunque, e nella ragione. Da questo punto di vista, l'Europa che dobbiamo ancora costruire è proprio quella che già Voltaire definì più di due secoli fa "l'Europe raisonable". Ma, proprio perché ragionevole, è anche un Europa libera da pregiudizi e fiduciosa delle proprie nuove opportunità perché cosciente della propria identità più profonda. Un'Europa, per dirla con Dahrendorf, autenticamente democratica non tanto perché capace di avere istituzioni comuni, ma soprattutto perché capace di nutrire dei medesimi valori il proprio demos. E' un traguardo ancora molto lontano se si pensa a ciò che sta accadendo nel nostro continente, dove è inutile negare che la tentazione di erigere muri è assai più forte che quella di costruire ponti. L'immigrazione è un fenomeno antico A tal riguardo è opportuno ricordare che fin dalla più remota preistoria, intere popolazioni hanno migrato in cerca di nuovi territori di caccia, di pascoli migliori e di terre più fertili da coltivare. E sono noti i successivi grandi processi di colonizzazione che videro le popolazioni dell'Oriente mediterraneo e della Grecia estendere i loro insediamenti abitativi e le loro civiltà all'Italia e alle coste del Mediterraneo occidentale, assimilando o soggiogando i popoli preesistenti. Il fenomeno delle migrazioni, che si è ripetuto in tempi recenti e su scala ben più ampia con la colonizzazione europea delle Americhe e dell'Australia, va nettamente distinto dal fenomeno dell'immigrazione, che consiste nello spostamento più o meno massiccio di genti verso il territorio di Stati abitati da popolazioni quasi sempre più ricche ed evolute. Quello della immigrazione non è un fenomeno esclusivo della modernità, perché già nel mondo antico sono numerosi gli esempi di gruppi di individui, ma anche di popoli interi, che, stremati dalle carestie o incalzati da nemici, si "auto - consegnavano" ai sovrani degli Stati confinanti per ottenere cibo e protezione, accettando spesso, nell'ambito della società che li accoglieva, un ruolo del tutto subalterno. E' il caso biblico degli ebrei emigrati in Egitto, costretti a patire una dura schiavitù, o quello, particolarmente significativo, anche se assai meno conosciuto, dei Goti che, verso la fine del quarto secolo dopo Cristo, chiesero di attraversare in massa il fiume Danubio e di insediarsi nei territori balcanici dell'impero romano. E' noto che la diffidenza nei confronti degli "stranieri", cioè di coloro di cui si teme la diversità di tradizioni, regole, costumi e molto spesso di lingua e che quasi sempre sono deboli per "censo" economico, ha caratterizzato anche l'evoluzione di tutta la nostra storia. In terra di Toscana, voglio ricordare che perfino Dante Alighieri si espresse con veemenza contro la concessione della cittadinanza fiorentina alla gens nova, emigrata a Firenze dal vicino contado, e lo fece anche se quella "gente" annoverava Giotto, Arnolfo di Cambio e la stessa famiglia Medici, vale a dire molti tra i principali protagonisti della futura vita culturale ed economica della Firenze dell'Umanesimo e del Rinascimento. Ho fatto questo breve excursus di ordine storico per dimostrare che il movimento di popolazione, nelle sue varie forme e con diversi esiti, ha sempre accompagnato la formazione di società complesse.

29


30

POLITICA

Ma è stato solo nella modernità che l'attenzione per la tutela effettiva dei diritti degli individui si è affermata ed è cresciuta soltanto con lo sviluppo, in senso autenticamente democratico, degli ordinamenti giuridici. Non a caso è proprio il richiamo alla dignità della persona, quale premessa antropologica dello Stato di diritto, a porci di fronte a quello che rappresenta, per le democrazie liberali un ricorrente interrogativo cui non è semplice fornire risposta. Il problema delle democrazie liberali Esistono condizioni sulla base delle quali una società democratica può chiudere, legittimata da un punto di vista etico, le proprie frontiere e il proprio sistema sociale agli stranieri che chiedono di accedervi? La risposta (se non vogliamo scadere nella propaganda) è complessa e articolata. Ci sono di certo limitazioni giustificabili, legate alla quantità di nuovi immigrati che gli Stati Nazione decidono di ammettere, ma non per questo vi è una automatica e conseguente giustificazione etica alla chiusura delle frontiere. Per di più, molte delle restrizioni che sono oggettivamente giustificabili, quali il divieto di ingresso per quegli individui che rappresentano una potenziale minaccia ed un pericolo per la sicurezza di un paese, possono essere facilmente utilizzate per ragioni inconfessabili e, quindi, smarrire la loro iniziale giustificabilità morale. Si pensi, ad esempio, a quante volte l'affermazione secondo cui certi individui costituiscono una "minaccia alla sicurezza nazionale" è stata malamente impiegata o strumentalizzata, in ogni epoca storica, e abbia poi condotto alla creazione della categoria di stranieri "indesiderati", perché potenzialmente pericolosi, quindi meritevoli di discriminazioni, espulsioni, persecuzioni. La prerogativa delle democrazie di impronta liberale non consiste quindi solo nella potestà di chiudere in via eccezionale le proprie frontiere, bensì nella possibilità di farlo avendo contestualmente la capacità di prestare ascolto alle richieste di coloro che per motivate ragioni, bussano alle loro porte. Con altrettanta nettezza va però detto che ascoltare le richieste di coloro che bussano alle porte dei paesi liberali non può significare automaticamente esaudirle o riconoscerle in toto, ma significa che la rivendicazione di coloro che chiedono accoglienza e integrazione impone alle democrazie liberali il dovere di esaminare, individualmente e separatamente, ogni specifico caso. Il diritto sia a lasciare il proprio territorio di origine, che a richiedere l'ingresso in un'altra comunità socio-politica, è infatti un diritto che discende dal riconoscimento dell'individuo come soggetto legittimato all'esercizio di diritti universali; ciò il migrante in quanto persona, non in quanto appartenente ad un gruppo etnico, religioso o linguistico. L'accoglienza è cosa diversa dalla concessione della cittadinanza Vi è, inoltre, un altro punto da approfondire: qual è la differenza tra "ammissione" e "appartenenza"? Tutte le democrazie liberali hanno il diritto di fissare le procedure e le prassi di inclusione per disciplinare l'accesso all' appartenenza e, poi, eventualmente, alla cittadinanza. Tuttavia, l'ammissione non genera un automatico diritto all'appartenenza, ma implica solo il


POLITICA

diritto di conoscere come e perché si possa acquisire lo status di cittadini, oppure di semplici residenti. Ciò comporta che, mentre esiste un diritto naturale all'accoglienza, devono esistere legittime e doverose procedure di legge per maturare il diritto alla cittadinanza, cioè alla piena partecipazione alle garanzie che la comunità ospitante offre ai suoi componenti. Da un punto di vista storico, ad esempio, le regole per l'attribuzione della cittadinanza, che variano da Stato a Stato in relazione ai valori fondanti l'identità nazionale, non hanno mai risposto ad astratte teorie giuridiche sull'universalità dei diritti, ma a esigenze politiche e a visioni ideologiche e culturali che ovviamente variano nel tempo. In definitiva, le regole per l'attribuzione della cittadinanza continuano a rispondere agli interessi concreti degli Stati nazionali e ai valori fondanti dei medesimi. In questo quadro, la prevalenza del cosiddetto jus sanguinis o del cosiddetto jus soli è utile a definire in primo luogo la concezione che si ha della cittadinanza: il primo lega il conferimento della cittadinanza all'appartenenza alla medesima etnia, secondo una visione per cui i cittadini non sono che il prodotto della nazione. Il secondo - lo jus soli, - lega il riconoscimento della cittadinanza al presupposto che la nazione esiste per l'adesione ad essa dei suoi membri, esalta cioè il momento volontaristico di accettazione del contratto sociale connesso allo status di cittadino ( Ernest Renan scrisse:" La nazione è un plebiscito che si rinnova ogni giorno"). Lo status di cittadino, ovviamente, non comporta soltanto l'attribuzione di diritti ma anche di doveri ma ciò deve avvenire in un'ottica che a mio avviso è diametralmente opposta a quella di chi, come Habermas, ritiene che l'erosione di contenuti propri della cittadinanza e la svalutazione dell'istituto si siano sviluppate con il diffondersi delle teorie sulla fine dello Statonazione. Il filosofo tedesco, giungendo ad evocare l'idea di "cittadinanza cosmopolita", identifica infatti la cittadinanza come uno statuto dei diritti svincolato da qualsiasi obbligo nei confronti di una determinata comunità politica e nazionale: in pratica una cittadinanza senza appartenenza civica, cioè la negazione del concetto di cittadinanza inteso come partecipazione al destino comune, come teorizzato da Thomas Marshall e da Raymond Aron nella seconda metà del Novecento. A mio avviso, la giustificazione teorico-giuridica più appropriata dell'erosione del concetto di cittadinanza poggia, oggigiorno, sulle Carte internazionali dei diritti dell'uomo. Se si pensa, infatti, alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e al Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, in cui sono affermate la libertà di emigrazione e il diritto ad avere una cittadinanza e a mutarla, emerge chiaramente come l'obbiettivo sia quello di definire una base giuridica al diritto di entrare nel territorio di uno Stato e di ottenerne la cittadinanza. Occorre essere coscienti che il coronamento di questa impostazione, se portata alle estreme conseguenze, è la completa assimilazione tra popolo e popolazione, per cui sarebbe democratico solo lo Stato che riconosce i diritti politici non soltanto ai propri cittadini, ma anche a tutti coloro che regolarmente risiedono sul suo territorio. Mi pare una costruzione teorica che non può avere pieno fondamento, sebbene i profondi mutamenti intervenuti nella società

31


32

POLITICA

contemporanea a seguito dell'accrescersi dei fenomeni dell'immigrazione e della internazionalizzazione dei rapporti (la cosiddetta " globalizzazione") abbiano riproposto ovunque il tema dell'aggiornamento della disciplina della cittadinanza. Sotto questo profilo, in Italia, la legge sulla cittadinanza (la n. 91 del 1992), che ha il suo cardine nello jus sanguinis, integrato da residuali ipotesi di jus soli, e che attribuisce una preminenza alla volontà della persona rispetto alle situazioni di fatto, necessita di essere rivista per favorire pienamente un percorso di integrazione che, al di là di elementi solo formali, come il mero trascorrere di un certo periodo di tempo, testimoni la volontà concreta dell'immigrato di partecipare al destino comune che lega tutti i componenti della società politica di cui entra a far parte. In questa prospettiva, pertanto, anche l'applicazione di uno "jus soli temperato" al figlio di stranieri nato sul territorio nazionale, e ivi residente in modo stabile almeno fino al compimento del primo ciclo scolastico obbligatorio, non mi appare eccessiva se si considera che la "patria" oggi non può più essere concepita solo come "terra dei padri", ma come identità collettiva collegata a valori fondanti, che discendono anche dai precetti costituzionali, e che si indirizzano anche ai non cittadini. E ciò perché la cittadinanza democratica si sforza di partire non da una nozione escludente, ma da un punto di apertura, da uno sforzo di integrazione. Almeno in teoria gli immigrati di seconda generazione non possono, quindi, suscitare interrogativi inquietanti per la stabilità del nostro sistema sociale, se si parte dalla costatazione che essi sono nati e cresciuti in Italia, che molto spesso non hanno un paese di origine nel quale tornare e che hanno sviluppato esperienze di vita, legami sociali e orientamenti culturali all'interno del contesto in cui sono stati allevati, cioè nella nostra società. E' però evidente, a questo proposito, che la posta in gioco riguarda la qualità della convivenza futura, con i rischi sempre più forti della segmentazione della società sulla base dell'appartenenza etnica e della formazione di sacche durature di emarginazione che possono agevolmente divenire aree di reclutamento per i cattivi maestri dell'integralismo religioso e del fanatismo. Le tragiche notizie di cronaca lo confermano. La "ribellione della seconda generazione" In realtà, già nei primi anni '70 l'economista americano Michael Joseph Piore parlava del rischio per la società occidentale di "ribellione della seconda generazione", contrapponendolo al fenomeno sociale precedente, caratterizzato dall'accettazione piena, da parte dei padri degli immigranti di seconda generazione, anche dei lavori più umili e precari pur di coronare il sogno di vedersi accettati dalla società che li aveva accolti. Un "rischio ribellione" determinato anche dal fatto che le famiglie immigrate in molti casi vivono profonde ambivalenze nei confronti dei figli che crescono nelle società ospitanti: da un lato ne auspicano, la piena integrazione e l'avanzamento sociale, ma, dall'altro, ne paventano un'assimilazione culturale che li allontani dall'identità ancestrale e quindi li separi dai padri. Anche per questo i conflitti identitari, di cui le seconde generazioni sono l'oggetto, il pretesto o le apparenti protagoniste, toccano corde emotive profonde e scuotono tanto le società riceventi


POLITICA

quanto le minoranze immigrate. Il passaggio all'adolescenza e poi all'età adulta dei giovani figli di immigrati è, dunque, il terreno cruciale per la costruzione dell'identità personale e quindi per la garanzia di piena integrazione sociale. Al tempo stesso, la crescita dei figli di immigrati mette a dura prova i meccanismi di integrazione delle società riceventi, spesso ancora troppo legati a una coesione naturale delle società nazionali più presunto che reale. La conseguenza è che il tessuto sociale che si sta formando sotto i nostri occhi non sarà più semplice e più ordinato di quello che abbiamo conosciuto nel passato. Anzi, sarà esattamente l'opposto. In tutto il mondo, del resto, non esistono più Stati nazionali con una popolazione omogenea dal punto di vista etnico: all'etnia maggioritaria si affiancano molteplici minoranze e l'aumento dei flussi immigratori determina sempre più il diffondersi del carattere multiculturale delle società contemporanee. Ne consegue che i rapporti tra culture diverse, e non solo quelli tra individui e istituzioni, dovranno sempre più essere ispirati, all'interno di una società democratica, al principio dell'uguale rispetto. Al tempo stesso la consapevolezza che ciascuna cultura debba essere garantita dai poteri pubblici non può però significare l'affermazione di un radicale relativismo culturale, che per utilizzare un'espressione felice di Max Weber, renderebbe le istituzioni succubi del "politeismo dei valori". Un binomio inscindibile Logica conseguenza di questo ragionamento è che solidarietà e reciprocità costituiscono le "parole chiave" per guidare i processi di democratizzazione delle società multiculturali del nuovo millennio. Solidarietà e reciprocità rappresentano un binomio inscindibile. Se non è eticamente lecito chiedere all'immigrato di rinunciare alla propria identità culturale o di rinchiuderla nel ghetto, è però doveroso pretendere che egli la esprima in modo non conflittuale con i valori della sua nuova patria e quindi nel totale rispetto non solo della legalità, cioè delle norme e dei principi posti alla base della convivenza sociale, ma anche della identità culturale della popolazione autoctona. Non dobbiamo illuderci, riuscire a farlo non sarà affatto agevole. In particolare nei confronti di quegli immigrati la cui identità culturale è determinata in particolar modo da una fede religiosa diversa rispetto a quella della società di adozione. Ciò vale in modo evidente per il rapporto con l'Islam. E' un tema che meriterebbe molte considerazioni ma non voglio allontanarmi dal tema odierno. Una sola cosa voglio però evidenziare. La difficoltà oggettiva per far sì che l'integrazione delle comunità musulmane avvenga nel duplice pieno rispetto della identità valoriale delle medesime comunità come di quelle delle società europee in cui si insediano non dipende che in minima parte da quanto è contenuto nel Corano o nelle parole e nelle opere del profeta Maometto. Non si tratta di evocare a sproposito l'ipotesi di uno sconto tra civiltà, ma solo di avere chiara consapevolezza che l'islamismo, a differenza del cristianesimo, non è ancora una religione

33


34

POLITICA

secolarizzata; non distingue pertanto tra sfera civile e sfera religiosa nell'agire dell'essere umano, non accetta pienamente che le istituzioni pubbliche debbano essere, proprie perché tali, necessariamente laiche e di conseguenza considera blasfemo il detto evangelico" dà a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio". Ha scritto Bassan Tibi, uno studioso musulmano di origini siriane da tempo cittadino tedesco: " se l'Islam vuole diventare europeo - e può diventarlo - deve adattarsi ai cinque caratteri dell'identità europea: primo, alla separazione fra religione e politica; secondo, alla democrazia; terzo, ai diritti umani individuali; quarto, al pluralismo ( da non confondere con il multiculturalismo) ; quinto alla società civile". Credo sia impossibile dissentire; ma se davvero vogliamo affrontare la complessa questione della identità e della integrazione nell'era della globalizzazione secondo i principi della nostra Costituzione dobbiamo essere coscienti senza ipocrisia, di quanto sia complessa lunga e difficile la sfida che abbiamo di fronte. Gianfranco Fini*

*Relazione di Gianfranco Fini al convegno: "Identità e integrazione nell'era della globalizzazione: i valori della Costituzione". Università LUISS Guido Carli di Roma, 12 aprile 2016.


EUROPA/VISIONI EUROPEE

L’EUROPA E’ MALATA: AIUTIAMOLA A GUARIRE Scrivo questo articolo con il cuore in subbuglio per le tristi vicende che la cronaca quotidiana ci riversa addosso. L'Europa è in preda al delirio e governata da politici che, nella migliore delle ipotesi, sono incapaci di comprendere gli scricchiolii della storia. A tali deficienze, infatti, si accompagnano spesso le solite propensioni a concepire in modo distorto il potere esercitato, sfruttandolo a proprio vantaggio. Finanche in Islanda si è dovuto dimettere il capo del Governo, coinvolto nello scandalo del "Panama Papers" e mentre scrivo è ancora incerta la sorte di Cameron. Degli Italiani presenti nel corposo elenco non è nemmeno il caso di parlare: nessuno nutriva dubbi sui nomi che sono emersi e caso mai la sorpresa è scaturita dalla mancanza di altri. Ricordo una bella lezione di giornalismo di Alberto Giovannini: "Non lasciarti mai condizionare dai problemi contingenti quando parli di temi atemporali; li indeboliresti fino a sminuirli o ad annullarli". Cercherò di essere all'altezza di quel monito, anche se non mi nascondo la difficoltà. Avverto forte l'inattualità di un pensiero europeo e il diffuso desiderio di un ritorno all'antico, fomentato dal rigurgito di un malsano e anacronistico nazionalismo, che si diffonde a macchia d'olio. Ancora più triste, inoltre, è l'inadeguatezza di coloro che tale propensione contrastano, senza comprendere le complesse cause da cui scaturisce. Come più volte ho sostenuto, non vi è cosa peggiore di una buona causa difesa in modo sbagliato dalle persone sbagliate. Annaspiamo in una vera palude intrisa di sabbie mobili, quindi, dalla quale è difficile venire fuori. E' inutile farsi illusioni, pertanto, perché con questa triste realtà dovremo convivere a lungo. A me tocca parlare di Europa ogni mese, tuttavia, dalle colonne di questo magazine, e non intendo venire meno all'impegno assunto per perpetuare un sogno: gli Stati Uniti d'Europa. Onorando il monito di Giovannini, pertanto, non vi parlerò dei muri che stanno nascendo dappertutto, della gente esasperata e impaurita per il massiccio flusso di migranti, delle minacce terroristiche, delle lerce speculazioni economiche di chi, come sempre è accaduto nella storia dell'uomo, è capace di arricchirsi sulle miserie altrui. Non ne parlerò perché è perfettamente inutile: non svanirebbero le paure, non sparirebbero i muri, non sarebbero arrestati i malfattori. L'unica cosa che mi resta, pertanto, è continuare a stimolare l'Amore per questa nostra Patria bella, pervicacemente convinto che solo quando sarà davvero unita potrà risolvere i suoi problemi di vecchia baldracca che ha puttaneggiato in tutti i bordelli, contraendo le peggiori infezioni.

35


36

EUROPA/VISIONI EUROPEE

L'unione come medicina, quindi. Ma non sarà mai unita, l'Europa, se non impareremo ad amarla. E per amarla occorre conoscerla. Conoscerla bene, in ogni suo "angolo"; conoscere la sua storia millenaria, in modo più esaustivo di quanto non si impari a scuola, perché solo addentrandosi nei suoi meandri più reconditi se ne potranno percepire le mille sfaccettature capaci di generare la "passione" e la voglia di saperne sempre di più. E' importante conoscere, ovviamente, anche il tanto di bello che ha prodotto in campo artistico e culturale. In Italia, soprattutto, dobbiamo colmare profonde lacune favorite anche da un ridicolo complesso di "superiorità", che è tale solo nelle nostre teste. Stiamo campando di rendita sulle grandi opere di artisti, letterati e scienziati che hanno dato lustro al nostro Paese sin dai tempi dell'Epopea Romana. Conosciamo poco o nulla, però, di ciò che è stato partorito altrove, in particolare nel Nord Europa. Avvicinarsi a queste culture vuol dire allargare di molto i propri orizzonti e sarà stupendo, poi, visitare i luoghi che avremo avuto modo di scoprire nei saggi, nei romanzi, nelle opere teatrali. Oggi voglio parlarvi di due Norvegesi: Henrik Ibsen e Knut Hamsun. Sia il drammaturgo sia lo scrittore, nelle loro opere, lanciano alto il grido di dolore per il disfacimento del mondo moderno, del quale intravedono tutte le crepe. Con "Il risveglio della Terra" Hamsun vince addirittura il Premio Nobel, nel 1920. Il romanzo narra la storia di Isak e di sua moglie Inger, che vanno a vivere nel Nord del Paese, occupando un terreno senza padrone (tema che rimanda al Tom Bombadil del "Signore degli Anelli", padrone del bosco ma non proprietario), dedicandosi al duro lavoro dei campi. Un idillio con la natura selvaggia, scandita dal fluire delle stagioni e suggellata dall'utopia dell'eterno possibile. La modernità spaventa la coppia, perché in essa vedono il naufragio della loro dimensione più autentica, legata appunto alla natura, e la deriva del genere umano verso un ignoto tenebroso, che non lascia presagire nulla di buono. Knut Hamsun (il cui vero nome, è bene dirlo, è Knut Pedersen: l'equivoco nacque per colpa di un tipografo che, in occasione della pubblicazione di un poemetto, fece confusione con la fattoria di Hamsund, tra le mete preferite dello scrittore, che a quel punto decise di "legittimare" l'errore, firmando tutte le opere successive con lo pseudonimo) può essere definito un "viandante" che predilige le piccole comunità rurali. In questo si sente forte l'influsso nicciano, che traspare ancora più evidente in opere come "Misteri", "Pan", "Sotto la Stella d'autunno", "Un vagabondo suona in sordina". Tanto dolce appare la scrittura di Hamsun, quanto "irruente" si rivela quella di Ibsen. Il padre della drammaturgia moderna, purtroppo pochissimo rappresentato in Italia, è un uomo "rigoroso", che schiaffeggia in modo violento la mediocrità imperante e l'ipocrisia che regola le relazioni umane. Pur non potendolo definire un "esistenzialista" tout-court, il suo pensiero è fortemente condizionato dalle opere di Søren Kierkegaard, che ha studiato attentamente. Fustigatore della società bigotta e nazionalista, Ibsen si sente soffocato e decide ben presto di allontanarsi dalla sua terra, cercando altrove, soprattutto in Danimarca e in Italia, una dimensione più appagante per il suo spirito inquieto.


EUROPA/VISIONI EUROPEE

Il teatro di Ibsen, di non facile decantazione se non dopo una profonda conoscenza dell'uomo, del suo pensiero, del suo tempo e della sua terra, è stato definito di volta in volta naturalista, simbolista, anarchico, surreale. In realtà è tutte queste cose, ma anche molto di più, perché forse manca l'aggettivo che meglio lo caratterizza: "realistico". I personaggi di Ibsen riflettono la decadenza di un mondo corrotto e malato e naturalmente non mancano gli eroi, sempre "individui", che si ergono solitari contro il male imperante. Parlo - e non a caso - del dramma "Un nemico del popolo", tristemente attuale (ma lo sono tutte, le opere di Ibsen). Un medico scopre che le terme pubbliche e il territorio circostante sono inquinati dagli scarichi industriali tossici. Si adopera subito per denunciare il disastro ambientale, ma ha un fratello sindaco, capo della Polizia e capo delle Terme, con forte ascendente sulla stampa locale, che lo asseconda senza batter ciglio. Non serve aggiungere il resto. L'invito è di scoprire da soli, con calma, ma senza tergiversare, questi due grandi autori, che vi spalancheranno una finestra su un mondo fascinoso, dove troverete senz'altro delle cose "vecchie", ma soprattutto tante cose nuove che vi faranno sentire, d'incanto, più ricchi. Dopo aver preso confidenza, concedetevi una gita con il battello postale che da Bergen vi porta fino a Capo Nord, possibilmente nel mese di giugno, quando è possibile godersi appieno il sole di mezzanotte. Sentirsi Europei, in quella dimensione, è una sensazione indescrivibile. Provare per credere. Nel prossimo numero parleremo dell'Irlanda, del suo splendore e dei suoi martiri. Impariamo a conoscerla, la nostra bella Europa. Lino Lavorgna

37


50 34

CULTURA POLITICA DOSSIER

Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

www.confini.org


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.