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Web-magazine di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

Raccolta 40 Gennaio 2016

VENTI DI GUERRA

O C O AFUA T T U TO D : B O L RVISTA ARESE E G AN INTESEPPE F R T GIU PIE


www.confini.org

Confini Webmagazine di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Raccolta n. 40 - Gennaio 2016 Anno XVIII

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti - Cristofaro Sola +

Hanno collaborato: Antonio De Magistris Gianni Falcone Michele Falcone Giuseppe Farese Roberta Forte Lino Lavorgna Enrico Oliari Gustavo Peri Angelo Romano Massimo Sergenti

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Segreteria: confiniorg@gmail.com

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RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

ALL’ARMI “E' sempre stata mia convinzione che una religione intelligente e sofisticata non avrà nessun problema ad adeguarsi (all'imprevedibile ndr). Simili religioni si sono adattate alla prospettiva che la Terra non è, dopotutto, il centro dell'universo; che l'umanità e il posto dell'umanità sono fisicamente insignificanti davanti a un universo inconcepibilmente più grande di quanto si pensasse nei secoli scorsi. Ci sono persone, naturalmente, che - in nome della religione - si aggrappano alle concezioni fuori moda del passato nella maniera più letterale, e queste hanno causato (e causano) grossi problemi. Ci si può dispiacere per loro, fintanto che non cercano di appioppare la loro follia agli altri individui che hanno la capacità di pensare”. (Isaac Asimov) L'idea che ci siamo fatti della guerra è datata e sbagliata. Siamo ancora fermi alle truppe schierate, agli eserciti fatti di uomini e quando pensiamo ai mezzi, immaginiamo cannoni, carri armati, navi, aeroplani. Alcuni intravedono anche, dietro le ragioni dei conflitti, i moventi economici o di volontà di potenza o di semplice sopraffazione. Ma l'idea di guerra è cambiata: droni, astronavi e missili, truppe fatte di robot a forma di uomini e di animali, scudi spaziali, raggi della morte, bombe capaci di annientare la vita lasciando intatte le cose, batteri geneticamente modificati, subdoli gas, mine anti-uomo a forma di giocattoli o gadget, spionaggio e informazione, controllo dei gangli vitali dell'avversario, trappole informatiche ed elettroniche, sono solo alcuni dei nuovi protagonisti dei conflitti. Almeno di quelli tra potenti e potentati. C'è poi la guerra dei poveri fatta di attentati, di auto-bombe, di esplosivi fatti in casa, di kamikaze che si votano alla morte nel nome di un Dio, o per disadattamento o per estrema affermazione identitaria. La prima, quella tra potenti, è, per ora, improbabile. Una guerra guerreggiata sarebbe troppo dispendiosa a fronte di bottini troppo scarni. Meglio le più astute guerre economiche e tecnologiche. Quando si aprirà la corsa alle ricchezze dello spazio, allora i rischi si faranno concreti. La seconda, quella dei poveri, è dietro l'angolo, ogni giorno, e ci riporta collettivamente indietro nel tempo, agli oscuri periodi nei quali si usciva di casa senza alcuna certezza di farvi ritorno. Il clima che determina è quello affrescato in "Till Eulespiegel" di De Coster che fa dire ad uno dei


EDITORIALE

personaggi, avvilito dall'incertezza del vivere: "Fate un buco, l'anima vuole uscire". "Taci. Il nemico ti ascolta!" recitava uno slogan in voga nei periodi bellici che oggi ha ritrovato una sua attualità in quanto dobbiamo essere tutti guardinghi. 10 attentati al giorno negli ultimi vent'anni. Questa è la media del terrore. 70.433 atti terroristici (di cui 4.000 ad opera di kamikaze), 165.000 morti e 280.000 feriti, questo il macabro bilancio, ma il dato è in costante aggiornamento. E' una guerra imprevedibile, colpisce quando meno te lo aspetti e ti induce a dubitare anche del tuo vicino di casa, a barattare quote di libertà e diritti in cambio di presunta, quanto improbabile, sicurezza. E questa è la conseguenza più amara, insieme agli inutili lutti. E' amaro doversi spogliare e farsi perquisire come delinquenti per prendere un aereo, è amaro che la propria privacy sia costantemente violata, è amaro doversi piegare a Echelon ed alle sospensioni del trattato di Schengen. Possibile che si debba solo subire senza possibilità di reazione? 10 attentati al giorno per vent'anni non sono l'indice di un fatto strutturale, come gli omicidi di camorra? Ha dunque un senso tentare di arginare la paura circoscrivendo le libertà? Sarebbe più sensato addestrare i cittadini, per qualche giorno l'anno, in tecniche antiterrorismo e di difesa. Almeno si seminerebbe il coraggio in luogo dell'incertezza del vivere e della rassegnazione. D'altro canto proprio la storia recente ci ha dimostrato che non sempre la superiorità tecnologica è vincente: i coreani ed i vietnamiti che hanno arginato lo strapotere americano, gli afgani che non si son fatti piegare dai russi e poi Cuba, il Nicaragua e le tante guerriglie dichiarate o striscianti che si sono succedute dalla fine del secondo conflitto mondiale. Questo ci fa comprendere meglio che nulla può soppiantare la responsabilità, il coraggio, l'impegno individuale nella difesa della propria libertà e sicurezza e che non sempre la “delega ai potenti” funziona. Angelo Romano

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SCENARI

VENTI DI GUERRA USA, 2003 - L'ex Ambasciatore Joseph C. Wilson parla in un'aula universitaria affollata. "Chi di voi conosce le sedici parole del discorso del Presidente Bush che ci hanno portato in guerra?" Nessuno risponde. "Chi di voi sa come si chiama mia moglie?" Tutti in coro: "Valerie Plame!" "Allora, come fate a sapere questo e non quello? Quand‘é che la domanda è cambiata da "perché stiamo entrando in guerra?" a "chi è la moglie di quest'uomo?" Io ho posto la prima domanda, ma qualcun altro ha posto la seconda. E ha funzionato. Perché nessuno di noi conosce la verità. L'attacco che è stato sferrato, non è stato sferrato contro di me, non è stato sferrato contro mia moglie. E' stato sferrato contro di voi. Tutti voi. Se questo vi fa arrabbiare e non vi fa sentire rappresentati come vorreste, fate qualcosa, ragazzi. Quando Benjamin Franklin uscì da Indipendent Source subito dopo la seconda stesura della costituzione, in strada fu avvicinato da una donna, che gli chiese: "Signor Franklin, che sorta di Governo ci avete lasciato in eredità?" E Franklin disse: "Una Repubblica, Signora, se saprete mantenerla". La responsabilità di un paese non è nelle mani di pochi privilegiati. Noi siamo forti e siamo liberi dalla tirannia e lo saremo finché ognuno di noi avrà sempre in mente qual è il suo dovere di cittadino. Che sia per chiedere conto della buca in fondo a una strada o DELLE BUGIE IN UN DISCORSO SULLO STATO DELL'UNIONE, FATEVI SENTIRE! FATELE QUELLE DOMANDE! PRETENDETE LA VERITÀ! Nessuno vi regalerà mai la Democrazia, statene certi. Ma questa è la nostra Democrazia! E se facciamo il nostro dovere, sarà la Democrazia in cui i nostri figli vivranno". Joseph Wilson era ambasciatore in Niger, nel 2002, e scoprì che il rapporto sulla presunta vendita dell'uranio all'Irak, redatto con la complicità dei servizi segreti italiani, era falso: Saddam Hussein non aveva alcuna possibilità di costruire una bomba atomica. Le sedici parole bugiarde di George Bush, con le quali si decise di attaccare l'Iraq, furono le seguenti: "The British government has learned that Saddam Hussein recently sought significant quantities of uranium from Africa". Valerie Plame, moglie di Wilson, è l'ex agente della CIA incaricata di condurre indagini segrete sulla proliferazione delle armi di distruzione di massa. I due coniugi decisero di contrastare la manipolazione delle informazioni, orchestrata da Bush per giustificare l'intervento militare.


SCENARI

Nel luglio del 2003, pochi mesi dopo l'inizio della guerra, l'ex ambasciatore pubblicò un articolo sul New York Times, scoprendo il bluff. Per vendetta Bush fece rivelare l'identità sotto copertura della moglie, che fu costretta a lasciare la CIA. Tutto ciò che sta accadendo oggi è la risultante di quei fatti. Un inetto alla Casa Bianca e tanti complici pronti ad assecondarlo, con fini puramente economici, cinicamente tutelati sulla pelle di tantissime persone: oltre tredicimila i morti della coalizione internazionale; oltre venticinquemila i morti dell'esercito di Saddam; 1.220.000 i civili morti. A tali cifre vanno aggiunte le decine di migliaia di morti registratesi dagli albori della "primavera araba", nel 2011, ai giorni nostri. E' praticamente impossibile, in questo articolo, esporre i fatti in modo esaustivo, perché non si può prescindere dai molti "antefatti", che hanno origine con le controversie tra Sciti e Sunniti e si dipanano attraverso quattordici secoli di complessa Storia, resa ancor più intricata dalle massicce ingerenze occidentali, iniziate con il colonialismo e amplificatesi a dismisura negli ultimi decenni. Conto di scrivere un saggio su queste vicende nel corso del prossimo anno. Qui, sinteticamente, si possono solo esporre alcuni concetti chiave, per inquadrare il problema in un'ottica "realistica", partendo da dati inoppugnabili, come quelli sopra esposti. Saddam, come sappiamo, fu deposto nel 2003. Nel mese di maggio, Lewis Paul Bremer, l'uomo che governava l'Iraq in nome e per conto di George Bush, emise due decreti: messa al bando del partito Baath (quello di Saddam) e smantellamento dell'esercito. Oltre quattrocentomila militari si trovarono esclusi da ogni ruolo e privati anche del trattamento pensionistico. Il risentimento fu forte e costoro iniziarono a organizzarsi in gruppi paramilitari, ostili agli USA, ai loro alleati e al governo Scita imposto dall'Occidente. Ecco i primi germi del futuro Stato Islamico, che dopo alcuni incisivi "prodromi", qui omessi per amor di sintesi, vedrà la luce ufficialmente il 29 giugno del 2014, con la proclamazione di Ab? Bakr al-Baghdadi a Califfo dello Stato Islamico dell'Iraq e del Levante. Il dibattito di queste settimane s'incentra sulla "paura" degli attentati terroristici, possibili ovunque, e sulle strategie da attuare per rendere "inoffensivo" l'ISIS. Improvvisati strateghi, soprattutto italiani, esaltati dalla ribalta televisiva, parlano di offensiva terrestre da effettuare con un esercito di almeno centomila uomini. In realtà, militarmente parlando, un'offensiva strutturata in modo serio non potrebbe prevedere meno di duecentomila uomini, con oneri economici, al netto di armi, munizioni, vettovagliamento e altre necessità logistiche, di circa 60milioni di euro al giorno. L'Europa, DIVISA, non è in grado di organizzare un esercito d'invasione. Chi lo guiderebbe, come sarebbero strutturate le Divisioni, le gerarchie? Passerebbero mesi, se non anni, solo per la quadra di questi problemi, con scarse speranze di raggiungerla. Gli unici in grado di attaccare via terra, quindi, come sempre, sono gli USA, che però non ne vogliono sapere. Obama non vuole chiudere la sua presidenza scatenando una guerra dai risvolti imprevedibili e Hilary Clinton, che gli succederà e già parla da Presidente, (sa bene che dopo aver toccato il fondo

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SCENARI

con Bush, gli Stati Uniti non possono permettersi il lusso di mandare alla Casa Bianca un babbeo come Trump), ha giĂ detto che all'invasione non vi pensa proprio. Sarebbe tutto diverso, ovviamente, se esistessero gli STATI UNITI D'EUROPA, confederati sotto un'unica bandiera, con un unico esercito, un Governo Federale e un solo Parlamento. Ma la Storia, si sa, non si fa con i "se". Cosa accadrĂ , quindi? Ne parleremo nei prossimi mesi. Lino Lavorgna

audacia temeraria igiene spirituale


POLITICA/L’INTERVISTA

PIETRANGELO BUTTAFUOCO Acuto intellettuale e fine scrittore, Pietrangelo Buttafuoco è giornalista pungente e dotato di rara ironia. La sua carriera giornalistica comincia sulle colonne del Secolo di Italia fino ad arrivare all'attuale collaborazione con Il Foglio e Il Fatto Quotidiano. Nel mezzo una lunga esperienza al settimanale Panorama e la conduzione di programmi televisivi di approfondimento culturale e politico. Presidente del Teatro Stabile di Catania dal 2007 al 2012, Buttafuoco è autore di romanzi e saggi. L'ultimo, in cui si parla di Islam, è "Il feroce saracino", edito da Bompiani. E' persona disponibile e dai modi garbati, Buttafuoco, e accetta ben volentieri questa conversazione con "Confini", incentrata sulle alterne vicende della destra italiana. La fioritura di partiti nel campo del centrodestra dopo l'implosione del Pdl e la nascita di Sinistra italiana a sinistra del Pd, segnalano che il bipartitismo è fallito. Anche il bipolarismo non sembra messo bene in un quadro politico dove il Pd governa con tre, quattro opposizioni intorno. Beh, di fronte all'attuale situazione direi che la grande assente è la politica. Oggi gli schieramenti in campo appaiono ben definiti. Da una parte l'antipolitica, rappresentata dal M5S e dalla Lega, dall'altra ciò che resta della partitocrazia. Renzi, infatti, non è affatto il nuovo Fanfani ma, piuttosto, l'esito ultimo del "togliattismo". Come Togliatti trae vantaggi dall'esercizio del potere utilizzando le vecchie strutture del Pci. E, all'occorrenza, sbarazzandosi anche dei maggiorenti del vecchio Pci. In questo scenario c'è ancora spazio per una proposta politica di destra? Non credo, nonostante la stragrande maggioranza degli italiani non sia di sinistra. Purtroppo alla destra è mancata e continua a mancare una rappresentanza e una proposta culturale. Non vedo grandi possibilità per la destra nel prossimo futuro, anche perché è ancora fresco il ricordo dell'esperienza di governo berlusconiana. Nonostante la personalità forte ed esuberante di Berlusconi, si è trattato,infatti, di una prova di governo fallimentare. Medesima incapacità di governo che il centrodestra, nella persona di Gianni Alemanno, ha mostrato nell'amministrazione della città di Roma.

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Insomma la destra sembra destinata ad una lunga stagione di irrilevanza politica. Direi di si, soprattutto se si continua a perseverare con certe scelte che nulla hanno a che fare con la logica e il buonsenso politico. In Sicilia, ad esempio, si ripropone la figura di Gianfranco Miccichè che è stato il maggiore artefice dell'elezione di Rosario Crocetta alla presidenza della Regione. In tal modo si verifica il capovolgimento di ogni speranza e si rischia che il cappotto, il famoso 61 a zero delle elezioni del 2001, questa volta lo facciano i Cinquestelle. Eppure da qualche tempo a destra c'è grande fermento. L'iniziativa Terra nostra di Giorgia Meloni, il rinnovato attivismo di Silvio Berlusconi e infine la nascita di Azione Nazionale. Sono tentativi velleitari, di fatto inesistenti. Per citare Mussolini è "come andare a cacciare farfalle sotto l'Arco di Tito". Fini e Alemanno non sono più presentabili e quindi Azione Nazionale è finita ancor prima di cominciare. La Meloni paga lo scotto di aver avuto accanto Gianni Alemanno. Per non parlare di Forza Italia, le cui sorti dipendono ormai dagli umori del cagnolino Dudù… Sempre in tema di destra lei di recente ha scritto che la destra è tradizione, non nazione. Confermo. L'identità forte è un'identità patriottica, non nazionalista. Il nazionalismo restringe l'identità audacia in un mondo chiuso, inigiene un cortile. Crea, insomma, delle barriere. Il patriottismo, al temeraria spirituale contrario, è universale e richiama un'identità di carattere spirituale. Ecco perché per il vero patriota il sentimento patriottico esula dal luogo geografico in cui egli si trova. Di fronte agli attuali scenari internazionali e all'incompiutezza del processo di costruzione europea su quali temi la destra italiana dovrebbe far sentire la sua voce? La destra dovrebbe provare ad alzare il livello dell'argomentazione politica con contenuti seri. Chiedendo, in primo luogo, di ridiscutere l'obbligo di alleanza con la Nato che restringe gli spazi della sovranità italiana. L'alleanza va fatta con la Russia, non con gli Stati Uniti d'America. E poi rivedere l'attuale assetto dell'Unione europea che esclude la Russia e continua ad essere poco orientata al Mediterraneo. Per quel che mi risulta ci sono oggi delle destre che si muovono in tal senso. Mentre l'Europa produce povertà, la destra anti-europea di Orban in Ungheria produce sviluppo e riduce la disoccupazione. Molti ritengono che la mancanza nel nostro Paese di una destra democratica nel dopoguerra sia da ascrivere, tra le altre cause, al retaggio del fascismo. Non sono d'accordo con questa impostazione, perché il fascismo non può essere definito di


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destra. Il fascismo fu sostanzialmente socialismo patriottico. Intese cioè il socialismo non come lotta di classe ma come collante di una forte identità di popolo. Credo che Berto Ricci rappresenti al meglio questa visione del fascismo che ho espresso. Di fronte ai casi di corruzione e agli scandali che hanno interessato anche esponenti di destra, qualcuno ha rievocato l'onestà e la pulizia del vecchio Msi. Cosa ha rappresentato quell'esperienza nell'Italia repubblicana? Il Msi fu un'officina di confronto, dibattito e crescita culturale. Rispetto all'evoluzione che An ha poi avuto nel tempo, si può ben dire che fu un errore scioglierlo. Forse sarebbe stata meglio dividersi. An, infatti, è precipitata ben presto in una deriva carismatica con una leadership unilaterale. Il tutto nel tentativo di accreditare il proprio leader agli occhi degli italiani, trasformandolo nell'oggetto del desiderio del ceto medio. Ma non vi è stato alcun progetto di maturazione politica e culturale. Al contrario della Lega che, nonostante gli scandali degli ultimi anni, ha mostrato poi di avere un progetto forte. Che caratteristiche deve avere la destra del terzo millennio? Dovrebbe incardinarsi maggiormente nella tradizione e meno nell'isteria populista. Più Solgenitsin e meno "fallacismo", per intenderci. Giuseppe Farese

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QUANDO LE GUERRE NON SARANNO PIU’ POSSIBILI Riordinando la biblioteca mi sono imbattuto in un saggio di poche pagine scritto, nel lontano 1916, da un giornalista, scrittore ed editore che allora faceva il soldato: Antonio De Magistris (fondò il primo quotidiano di Terra di Lavoro: Stampa nuova, poi Stampa Fascista). Si tratta di una piccola gemma nella quale si profetizza l’Europa unita e si auspica il trionfo del Diritto sulla forza nelle controversie internazionali. La offriamo ai lettori di Confini. Il titolo? “Quando le guerre non saranno più possibili”. A Serse, che gli domandava perché amasse la Patria e che cosa prediligesse di questa, Temistocle rispose: "Tutto, signor, le ceneri degli avi, le sacre leggi, i tutelari Numi, la favella, i costumi, il sudor che ne costa, lo splendor che ne trassi, l'aria, i tronchi, il terren, le mura, i sassi". La fine risposta dell’eroe greco, dettata da un alto senso di giustizia, da un superiore affetto verso l’Ellade e la sua storia magnifica, contrapposta a quella che oggi si sente in bocca alla maggioranza dei cittadini delle nazioni del mondo, stabilisce la prima osservazione fondamentale al mio soggetto. “Amo la Patria perché ogni palmo del suo suolo è bagnato dal sangue invitto dei martiri immortali, che sfidando la ferocia degli odiati stranieri, li ricacciarono, al di là dei confini, col ferro e col fuoco”. Chi non avverte la differenza psicologica nelle due risposte? Dalla prima scaturisce l’amore, dalla seconda l’odio; l’una è un canto di pace, d’odio l’altra, tutte e due sono indice di due stati d’animo, rivelano il medesimo sentimento, ma materiato su diversi concetti informatori, caratterizzanti. La questione è - come si vede - di filosofia speculativa, ma ciò non toglie, che, pur non avendo la competenza e nemmeno la voglia, si possa stabilire - senza nemmeno uno studio indagatore, severo e senza l’ausilio della scienza - che la differenza nelle due risposte è di forma e di giudizio, rivelanti uno stato d’animo diverso, come diversa risulta la concezione della medesima idea presso i Greci antichissimi e presso i moderni del XX secolo.


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Le due - chiamiamole definizioni - sono in diretta corrispondenza con due stati di fatto. Sgorga nell’animo di Temistocle il suo amore per la patria e le sue parole non tradiscono il suo pensiero, le immagini sono in perfetta armonia con la sua educazione, lui che seppe anche essere quel condottiero esimio e sentì il fascino della gloria e della vittoria. La seconda definizione è spregiudicata, artificiosa, perché vi sono dei riflessi intorno a chi la pronunzia sovente, che non consentono prendere sul serio certi atteggiamenti, che hanno tutta l’aria della spavalderia. Posso pure trovare giusta una tale definizione, quando essa vien pronunciata, in buona fede, tra l’ardor di odio di una guerra, nel momento di fervore e di passionalità in cui viviamo: ma non in tempo di pace e allo scopo di iniettare veleno negli animi, giacché saremmo costretti ad uno sguardo retrospettivo ai maggiori assertori della definizione medesima e spinti ad una conclusione catastrofica, tenuto conto dei concetti di super-civiltà cui ci avevano abituati la democrazia mondiale, latina e germanica, più quella che questa. Non bisogna dimenticare che il socialismo tedesco non ha smentito mai le sue simpatie per l’Impero Tedesco. Nel Congresso Internazionale - circa due lustri son passati - e nel celebre duello oratorio tra Jaures, esponente del socialismo democratico latino, e Bebel, esponente di quello feudale germanico, il primo rimproverò al popolo tedesco di sopportare ben volentieri la tirannia dinastica e di dimostrare molta compiacenza per gli ordini militareschi della Prussia. Il popolo francese - sostenne Jaures - aveva saputo emanciparsi da ogni dinastia, costituendo la Repubblica, che attendeva alla realizzazione progressiva dell’ideale socialista, combattendo la mala pianta del militarismo. L’altro, con lodevole sincerità e franchezza, rispose, che preferiva l’impero tedesco, provvido per gli operai, alla Repubblica francese, serva dei capitalisti e che erano state le armi prussiane, non il popolo di Francia, quelle che, nella guerra del 1870-71, avevano imposto la Repubblica e dichiarò, che il loro socialismo non era in antagonismo con la patria germanica, che, essi, avrebbero sempre difesa, anche con le armi. Bebel - se fosse vissuto - starebbe di fronte ad Hervé (Gustave ndr), senza rinnegare - come sindacalista francese - nulla della sua fede politica. Il torto della democrazia latina sta appunto qui:il non aver voluto mai persuadersi che pangermanismo non era una parola vuota di senso e l’orgoglio per la “Kultur” aveva anche il suo significato politico. Non erano fuochi fatui estivi le mire germaniche o prodotto di polemiche di un partito, più o meno nazionalista, come in Francia ed in Italia, ma effetto di una riuscita propaganda e di una preparazione bellica da nessuno ignorata. Dietro ai cantieri di Kiel e di Amburg ed alle officine di Krupp - non bisogna dimenticarlo - v’era il popolo tedesco, le sue religioni, le sue scuole: Kulturkampf (guerra per la Kultur), Gott mit uns (Dio è con noi). E ritorno a Temistocle! Limpide, come la chaira fonte, scaturiscono le armonie giuridiche di Platone ed Herbart (Johann Friedrich) - in seguito di quella lotta, intorno a cui discussero Vico ed Jhering (Rudolf von) -; l’ordine di Aristotele - concetto che fa parlare Temistocle - ed ai tempi di Grecia non c’era il socialismo marxista, - mentre la proportio realis et personalis, quae servata servat (societatem),

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corrupta corrumpit di Dante (De Monarchia) è difficile stabilirla nei tempi moderni. Perché tutto questo? Non vorrei essere frainteso dai miei lettori, che non debbono attraversare il mio pensiero con idee che io non ho, né sento di professare. Un pacifismo, mentre gli altri si armano fino ai denti, è delitto contro la Patria. Il diritto internazionale, fondato su basi non solide, ha reso possibile il travisamento di un’idea grandiosa, professata religiosamente dai popoli antichi; la corsa sfrenata verso interessi commerciali ed inferiori, bassi istinti e sfrenate ambizioni, un prevalente ed avvilente materialismo, hanno generata la definizione della Patria in modo diverso da quello antico e soprattutto si è materiata ignominiosamente quella che è una religione, che ha i suoi riti e le sue tradizioni, la sua storia, la sua civiltà. Ma su questo è inutile insistere. Ci basta, assodare la spontaneità antica osservata nella designazione della patria, e l’artificio anti -umanitario, con cui i moderni Catoni si sforzano di designare un concetto così alto, comune a tutti i popoli ed a tutte le razze, espressione civile di retto sentire e di alto amore verso la terra natale, le sue leggi, la sua storia, la sua civiltà. E ciò perché? Il mondo egoista - tra lo sbalordimento di una realtà che giustifica l’appellativo - è vessato nei suoi sentimenti più santi, ingannato da teorie strane e balorde, scisso più che da amor di nazionalità, da amor di interessi; il popolo spinto all’inconcludenza dagli apostoli di tutte le inconcludenze - le sorti di questo le si vedono baratte sui mercati delle cancellerie europee per un pugno d’oro, - il senso in prevalenza sulle qualità effettive, l’oro, leva potente del mondo, han generato il diritto più spudorato, che, purtroppo, regola la vita delle nazioni. Scrissi, or non è molto (nel romanzo “Nel turbine” ndr), che il mondo doveva rifarsi la sua vita morale, ed allora non v’era la guerra universale, che ha travolto con sé tutte le miserie, tutte le filosofie materialiste ed umaniste ed ha rivelato al mondo il canagliume politicante, i rospi e le vipere nazionali ed internazionali, i veri e propri responsabili miserrimi della pazza carneficina, i rubatori coscienti della pace altrui, che, per disgrazia del mondo, trovano anche della gente disposta a seguirli nei loro sogni vergognosi, nelle loro mire oligarchiche. Si mediti, dunque, la necessità del ripristini del Diritto, non disgiunto ad un alto senso di moralità - la massima colpa tedesca nella presente Guerra è appunto l’aver scisso l’uno, dopo averlo prostituito, dall’altra mai osservata, anzi dimenticata; - se ne discuta animatamente e con amore di giustizia e si concluderà certamente che anche i cataclismi universali godono giustifica e perdono presso la storia, quando i risultati assicurino i beni futuri all’umanità. Guai quando essi sono generati e condotti a termine da questioni meschine, più o meno dinastiche o più o meno affaristiche! II La guerra europea fu possibile perché il diritto internazionale non esiste. Quando le competizioni statali sono affidate alle armi, tra il pullulare di due o più militarismi in contratto, di due o più stati agognanti ad una supremazia sull’altro, un volume di belle frasi convenzionali non ha nessun valore pratico, come non l’ebbe mai presso nessun popolo della


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terra, perché il vinto non può sottrarsi alle imposizioni ed alla volontà del vincitore. Tra l’altenzosa mira tedesca e le voglie malcelate inglesi, francesi e russe francamente non vedo che la ragione suprema del diritto possa assidersi giustiziatrice ed equilibratrice. Una pace, che segni il trionfo di un gruppo di potenze, non può creare uno stato giuridico internazionale diverso da quel che fu prima della guerra. Chi risolverebbe le contese balcaniche se non la Russia vincitrice? Chi quelle d’Oriente e del Sudafricano, se non l’Inghilterra? E può esistere in politica moralità - completamento necessario del Diritto - senza una legge che la garantisca? Ma le leggi - convenzioni, trattati, intese - esistevano; i Tedeschi l’hanno violate? Benissimo; questo lo sa il mondo civile, che si è schierato contro e combatte la più aspra guerra. Ma, di grazia, chi non avverte appunto la mancanza di base pratica al supposto giuridico, incapace a sedare l’incendio europeo? Una sola voce di giustizia, non ascoltata, si elevò dal Vaticano, per bocca di Santo Pio X, ma qual grido fu uno schianto e che procurò la morte al grande Pontefice, ucciso dalla guerra. Le lotte tra popoli e popoli ci sono state ed esisteranno sempre - se non si provvede ora; - il più forte ha dettato e detterà leggi al debole; s’è imposto e s’imporrà alle moltitudini, con senso di umanità o con spiccata tirannide; le monarchie e le repubbliche sorsero e giacquero nel mondo con i medesimi fini e l’uomo fu schiavo sempre di tutti i tiranni, quelli più forti intendo. Roma soggiogò con la forza del diritto (?) e con le armi tutto il mondo allora conosciuto; impose i suoi governatori, la sua Religione, la sua lingua; ma quando per tenacia di avventurieri ed anche di popoli, questi le si schierarono contro, le aquile romane si abbassarono dinanzi alla volontà contraria. Ora dove è la forza del diritto nel fenomeno storico enunciato, quando è dimostrato che la pace romana, il più delle volte, voleva dire, distruzione del nemico? Ma ancora. Ogni popolo libero scelse sempre il suo capo, a lui solo compete questo diritto - in maniera rappresentativa la procedura è stata sempre la medesima - in teoria - e alludo ai piccoli popoli, agli staterelli, - vediamo - in pratica se è così. Senza ricordare fatti della storia antica, guardiamo alla moderna, anzi alla modernissima. Alla nobile terra albanese, a gente generosa, affogata nel sangue per la conquista della sua indipendenza, si volle imporre un principe, che non conobbe mai. L’atto delle grandi potenze consumato contro un piccolo popolo fu illegale, tirannico, incivile, liberticida, vergognoso, sopruso inaudito e contrario a tutte le leggi umane e divine ed alla stessa ragione. Togliere all’Albania il diritto di eleggersi un principe significò negare tutto il suo passato glorioso, il tradizionale patriottismo, la gloria dei figli di Skanderberg che, tante volte rifulse sui campi di battaglia, contro il turco oppressore, gloria singola e collettiva, che, tante volte, elogiammo, noi occidentali. Chi potrà sostenere l’indipendenza dell’Albania con simile procedura? L’aver sentito dire e visto scrivere, che si creò uno stato nuovo, oltre l’Adriatico, nauseò non poco

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e per l’onestà della causa sarebbe stato meglio che l’Europa, anziché imporsi col principe Guglielmo di Weld - che poi non fu il principe d’Albania - avesse mandati colà i suoi soldati, a garanzia, no della pace del piccolo stato, ma del suo possesso... almeno per più sincerità e moralità politica. Così si regolava Roma, Filippo V e Napoleone I; le grandi potenze moderne preferiscono la nomina di un principe, di sicura fede, e come legati politici, i commessi viaggiatori.... La Germania insegni. Quale la base di un futuro assetto europeo, che risponda veramente ai fini di un diritto reale e positivo? Mai più guerre, che non saranno possibili, veramente, se la presente finirà con: né vincitori e né vinti. Una pace con simile intento se non compenserà le nazioni interessate dai sacrifici enormi sostenuti, ne guadagnerà tutta l’umanità, che vedrà sparire, per sempre, dal suo seno, lo spettro della guerra, delegando ad un Tribunale internazionale le competizioni tra i singoli stati. Non si è attuato tale principio tra città e città? Nel medio evo per cosa insignificante non si era in guerra tra comune e comune? Ora le questioni di questi le risolve il giudice e talvolta anche il conciliatore. Nessun paese si è ribellato alle decisioni dei Tribunali ordinari, in tutti gli Stati che abbiano un Diritto pubblico, superiore all’arbitrio e al capriccio, garante sui soprusi e sulle illegalità. Il significato letterale di “ius pubblicum privatorum pactis mutari non potest” è in pieno vigore nei diritti positivi nazionali e presso i popoli civili. I Romani non pensarono mai simili osservatori ai loro principii, che dovranno garantire anche i Diritti delle genti, mai più calpestati e ridotti a dei pezzi di carta. Nella realtà degli ordini pratici fa d’uopo rintracciare l’elemento assoluto, superiore all’arbitrio ed ai capricci, che accorda la necessità e la libertà, e che si rivela come la ragione suprema del diritto. E’ la suprema ratio, che crea l’ius gentium o diritto ideale - come asserisce il Vico - che si celebra in una città universale nell’idea della Providenza. Il legislatore nella ragione pura può trovare l’unico ed universale criterio pel giusto e per l’ingiusto, che non può essere dato dall’empirismo delle legislazioni positive. Attraverso le forme mutevoli, deve permanere immutata e immutabile l’idea universale del diritto, come contenuto di ogni legislazione positiva: di qui gli antichi trassero la distinzione fra il diritto positivo ed il diritto naturale o ideale: l’uno nazionale, particolare e mutevole, l’altro universale ed eterno; nato prima degli uomini e degli Stati, e segnato come ultima meta al faticoso cammino dell’umanità. I popoli e gli individui guardano - appena possibile - il trattato di pace, persuasi, che esso non è conforme a giustizia, formulano il programma di rivincita e scientemente si pongono sulla via della guerra, giacchè non è possibile distruggere il nemico anche nei fanciulli e nelle donne. (Proprio così la genesi della Seconda guerra mondiale ndr). Una volta inalberata una tale bandiera non v’è forza che possa reprimerla e le repressioni - senza punto ottenere lo scopo - prepareranno nuovi lutti, nuovo sangue, nuovi disastri nelle


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generazioni, che avranno pur dimenticata la Guerra Europea, con tutto il suo sangue, con tutte le disgrazie, una volta rimarginate. La necessità, dunque, di coordinare gli sforzi delle classi dirigenti ad un fine più alto è necessario che si faccia strada nelle intelligenze e nei cuori. Il diritto di vivere anche alle piccole nazioni è sentito da tutti; la Quadruplice se ne è fatta paladina; perché non trasportarlo in pratica? Trascurando un ideale di superiore interesse, quale è nella mia mente e nel cuore, se non bene espresso in queste pagine, vedo prospettarsi nel mondo imperialismi, ben più gravi di quello tedesco; l0indipendenza economica e politica dei piccoli e grandi stati sarà sempre in pericolo, se il principio del diritto alla rapina non verrà abrogato per sempre. III E possibile l’avvento del Diritto internazionale? Nella fioritura di discorsi politici degli uomini, a cui sono affidate le sorti delle nazioni belligeranti ed anche neutrali, un simile principio è proclamato alto e solenne, come se la presente guerra non avesse altro carattere, che questo precisamente. Difatti, a comunicazione dell’Agenzia Stefani (l’attuale Ansa ndr) il 12 marzo 1916 i giornali pubblicarono, proveniente da Budapest: “Alla Camera dei Deputati il Presidente legge il Decreto Reale di chiusura della Sessione, e dice che la Nazione ha la ferma volontà di condurre assieme agli alleati la guerra fino ad una pace che assicuri non soltanto a noi, ma a tutte le nazioni lo sviluppo futuro”. Al Reichstag germanico, il Presidente, comunicando gli auguri all’Imperatore, in occasione del capodanno: “in mezzo alla grande guerra per la propria esistenza, la Germania è volta verso l’Imperatore come alla personificazione dell’unità e della potenza dell’Impero. Con la incrollabile decisione di condurre vittoriosamente sotto il glorioso comando di V. M. la lotta fino al conseguimento dello scopo, che garantisca il libero sviluppo della civiltà tedesca e della vita economica ecc. ecc.” Il Kaiser rispose: “Con tutto il popolo tedesco, spero in Dio, che il nuovo anno porterà alla nostra giusta causa la vittoria ed alla nostra patria una base sicura per il suo sviluppo nella pacifica gara colle altre nazioni”. Quasi a risposta delle parole dell’Imperatore Germanico il 10 aprile 1916 il Presidente dei Ministri inglesi, Acquisth: “La Gran Bretagna e la Francia entrarono in guerra non per strangolare la Germania, non per spazzarla via dalla carta d’Europa, non per distruggere o mutilare la sua esistenza nazionale, né certo per impedire il libero esercizio delle sua pacifiche attività. Fummo invece costretti ad entrare in guerra per impedire alla Germania (che in questo caso significa Prussia) di conquistare in Europa una posizione di minaccia militare e di predominio sui vicini.... Intendiamo stabilire il principio che i problemi internazionali debbano essere risoluti mediante liberi negoziati tra popoli liberi, in condizioni eguali, e che tale soluzione non possa essere più turbata e sconvolta dalle arroganti pretese di un Governo dipendente da caste milirati... Noi siamo campioni non solo dei diritti derivanti dai trattati, ma anche dell’Indipendenza e del libero

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sviuppo delle nazioni deboli...”. Chi non osserva che si è sulla buona via, almeno in teoria? Sono i principii sacri - cui l’uomo tende irresistibilmente, - la nuova coscienza, che pure uscirà purificata dalla guerra, la vita stessa delle nazioni, uscite appena dalla ciclopica tenzone, che reclamano giustizia, altrimenti a che cosa varranno tanti sacrifici senza una trasformazione nel giure pubblico internazionale? Riconosciuto falso il subietto dei Romani dell’utilius e quello tedesco anche utilitario è necessario porre le norme della nuova legislazione positiva - ideale, sulla base, una volta così cara alla democrazia nostrana, della forza del Diritto e della Morale, nel loro comune fondamento etico, con tendenza assoluta al bene della generalità degli individui e dei popoli, giacché è dimostrato che una legislazione internazionale, con simile intento, garantisce anche il Diritto privato, che, implicitamente è contenuto ed in essa si integra e si avvalora. Il ministro d’Inghilterra sembra che dia addirittura operatività al principio grandioso, che, una volta posto, segnerà il trionfo delle nazioni su 40 secoli di storia mondiale, su l’età antica, su l’età nuova e le generazioni avvenire, di fronte al sacrificio immane europeo, s’inchineranno rispettosi e di fiori e di gloria circonderanno i milioni di uomini sacrificati, benediranno il sangue versato nell’ultima e più vasta guerra del mondo, e canti ed inni, leggende ed epopee si canteranno in memoria dei martiri più giusti, di quelli veri, che riscattarono il mondo da ogni sopruso, da ogni violenza. Siamo ben lungi dal tempo in cui il poeta Maurizio Arndt, venerato dai pangermanisti d’oggidì come una sorta di bardo, proclamava che la razza germanica era il sale della terra cristiana... Maurizio Arndt ha remoti successori, che, nelle regioni tedesche dell’Austria, organizzano una propaganda nazionalista (volkisch) per i vecchi culti germanici, che in onore di questi culti fondano riviste, giornali, fogli pedagogici, che sulle cime delle Alpi tirolesi celebrano enfaticamente feste solstiziali, e che esortano il popolo tedesco a ripiantare i vecchi alberi sacri, un tempo abbattuti da San Bonifacio. Per questi arrischiati forieri del germanismo, persino l’èra cristiana deve essere abrogata ed il punto di partenza del loro calendario non è più la data di nascita del Redentore, ma la battaglia di Norcia, combattuta l’anno 113 avanti l’èra cristiana, tra Teutoni e Romani. San Bonifacio, all’ottavo secolo, credeva aver distrutto gli idoli: questo Germano che potè civilizzare la Germania, solo per il fatto che era lo alunno e messaggero di Roma, avrebbe egli mai pensato che mille e cento anni dopo, si sarebbero incontrati degli uomini per restaurare la gloria d’Odino sul sommo delle montagne e nel profondo delle anime, per odio a Roma, per odio alle civiltà mediterranee e al nome latino? Se le cancellerie pernsassero, che tre secoli (XVII - XVIII - XIX) han dimostrato che le egemonie in Europa non sono possibili, certo si farebbe un gran passo verso l’auspicato principio. L’alleanza Russo - Austro - Prussiana, non finì male, perché si comprese la realtà dalle potenze interessate e la guerra dei sette anni ebbe fine con la spartizione della Polonia. Napoleone - l’unico, serio tentativo di egemonia europea - soccombette proprio quando pareva riuscire nell’attuazione del suo programma unitario, che s’infranse a Waterloo.


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La Germania non avrebbe dovuto nemmeno tentare la partita, perché l’Europa non avrebbe smentita se stessa. Purtroppo se il problema civile non sarà posto in tutta la sua interezza sul tappeto verde della grande conferenza per la pace europea, se non usciranno dalla conflagrazione, risolute e garantite, le supreme ragioni della libertà assoluta dei popoli, in armonia degli stati e delle nazioni, se non saranno attenuate le spese degli armamenti, per consacrarle al lavoro ed al benessere dell’umanità, così duramente provata nella miseria del sacrificio - anche per evitare una formidabile carestia, le di cui conseguenze non sono prevedibili, - non sfuggirà al giudizio della storia la guerra presente, le generazioni avranno poco a lodarsi dei loro predecessori, sui quali peserà il più grande delitto commesso contro l’umanità, mentre sorgeranno, forse, ancora altri tentativi di egemonia, verranno dal nord, dal sud, da oriente od occidente, non importa, certo non potranno mancare. Ma la formula “nè vincitori, né vinti” non risponde ai bisogni immediati di quei popoli verso cui guarderà la vittoria; non si potrà togliere ai soldati superstiti la soddisfazione di aver vinta la grande guerra. La Quadruplice, vittoriosa indubbiamente, a mezzo dei suoi delegati al futuro congresso della pace, ricorderà le parole - precedentemente riferite - di Asquith, e baserà i proprio lavori su tali principii, che non toglieranno per nulla la soddisfazione ai popoli vincitori di aver vinta la più aspra tenzone, anzi la gioia sarà più grange, in corrispondenza, cioè, dei risultati ottenuti, perché la formula non è a prendersi a parola, ma spirito di un trattato stipulato - per civiltà di vincitori tra popoli grandi e coscienti. Bisogna che anche i popoli neutrali, piccoli e grandi, non siano estranei a tali decisioni e che tutti aderiscano alla costituzione di un Ente, rappresentante la Giustizia, incarnata nel Diritto, sorvegliante sulle contese, che possono sorgere in avvenire, tra lo svolgersi delle attività degli stati, nelle civili e libere gare, una volta attuato il libero scambio, nel senso morale, scientifico e culturale, nel senso materiale e commerciale. Il nemico di tutti sarà ancora quel popolo che recalcitrerà. IV Quali le norme del diritto futuro? In Italia, verso la metà del p. p. secolo, sorse una scuola, che segnò un’èra magnifica per il Diritto internazionale. Si inaugurò a Torino e l’anima fu Pasquale Stanislao Mancini (1817 - 1851), che recitò la sua lezione inaugurale Della nazionalità come fondamento del Diritto delle Genti, che pose il principio fondamentale della scuola italiana. Terenzio Mamiani (spentosi nel 1885), filosofo e giurista pubblicò nel 1856 un libro col titolo Dell’ottima congregazione e del principio di nazionalità, e nel 1859 altro libro Di un nuovo diritto pubblico europeo. Luigi Casanova, (+1853), dettò. nell’Università di Genova, lezioni, calde d’amor patrio, sul diritto internazionale, che vennero raccolte e pubblicate dal prof. Cesare Cabella, (+1888); esse furono riedite nel 1870: una terza edizione con note abbondanti ed una importante introduzione (sull’odierno diritto internazionale pubblico, studii critici) del professor Emilio Brusa, venne in luce nel 1876. Pasquale Fiore pubblicò nel 1886 un trattato sul diritto internazionale pubblico, che ripubblicò

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intieramente rifatto, nel 1879 - 1884; opera molto apprezzata. Diedero anche lavoro sul diritto internazionale Esperson, Sandonà, Cornazza - Amari, Pierantoni, Oliva, Contuzzi, Macrì, Fusinato, Cartellani, Schiattarella, Olivi, Laghi, Lomonaco ed altri. Fu un grande sviluppo, indubbiamente, per la scienza del Diritto, data la sua importanza straordinaria; ma essa, come osserva e bene Giacomo Grasso, professore di Diritto internazionale nella R. Università di Genova, non poteva applicarsi al consorzio degli stati senza sovvertirli alla base. Ma oggi non è così e i giureconsulti italiani potrebbero riprendere le nobili tradizioni dei precursori insigni nostri ed agitare di nuovo la idea grandiosa. Mancando tra gli stati un potere supremo costituito e legalmente riconosciuto, è impossibile che le guerre finiscano: ma se si addivenisse ad un ordinamento giuridico - politico e “a realizzare una federazione dell’umanità incivilita, il Diritto internazionale avrà forma e sanzione di legge positiva, corti di gustizia, sentenze ed esecuzioni a somiglianza delle leggi dei Tribunali e delle sentenze federali” (G. Grasso). La necessità storica e morale della coesistenza, civilmente e modernamente intesa, rende indispensabile la costituzione di un ente internazionale proposto a tutte le contese degli stati. 1 - La prima forma della vita internazionale è la guerra, si trova scritto in tutti i trattati del Diritto delle genti. Ebbene, la prima forma ecc. ecc. sia: la giustizia amministrata sapientemente dalla scienza, con sede in un Tribunale internazionale, in armonia dei diritti nazionali di tutti gli stati, fine a sé stessa, allo sviluppo delle nazioni ed alla pace dell’umanità. 2 - Gli stati dovranno essere nazionali, integrati, cioè, dalla comunanza della razza e degli interessi. 3 - Ogni stato deve aver di mira il suo sviluppo civile e industriale, in armonia dei diritti dell’individuo, e col rispetto alle leggi che regolano i diritti degli altri. 4 - Ogni stato è libero di perfezionarsi, come meglio crede e di darsi quella forma di governo che meglio risponda all’indole dei cittadini, che lo compongono. 5 - Tutti gli stati avranno rapporti con gli altri, commerceranno tra essi potendo concludere trattati in tale senso. 6 - Il rispetto assoluto agli stati deve essere garantito da pene peculiari varianti. 7 - Gli stati continueranno a tenere i loro rappresentanti nelle capitali straniere, a tutela dei propri interessi. 8 - Nel mare e sui fiumi internazionali la navigazione sarà libera. 9 - Di accordo con gli stati si stabiliranno zone di territorio neutrale, presso gli stretti ed i canali, per ogni possibile evenienza. 10 - Convenzioni postali e ferroviarie si stipuleranno come per il passato. 11 - Ogni stato, per questioni, per cui son sorti dei dubbi, avrà il diritto di portare le medesime nel seno di un consenso europeo “conferenze” e farle risolvere. Il giudizio sarà appellabile al Tribunale di giustizia di cui all’art. 1. 13 - L’istruzione dei futuri eserciti deve limitarsi al fucile, alla rivoltella ed alla sciabola.


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V Da Londra, da Parigi e da Roma, da Berlino e da Bucarest si è proclamata la santità del nostro assunto, ora bisogna una volta addivenutici, stabilire a chi spetta la responsabilità del prolungarsi della guerra indefinitivamente. Se i discorsi ufficiali non sono ipocriti, penso che si potrebbe venir ad una intesa tra i belligeranti, sulle basi dette innanzi; se i capi di governo trovano ostacoli in qualche stato, lo si denunzi e l’indignazione mondiale lo colpirà; se le loro parole sono mendaci, svelino almeno i loro segreti e conseguentemente chiariscano i loro programmi. I nostri governanti, d’Italia dico, sentono la necessità di divulgare all’estero la santità della nostra giusta causa e l’efficacia, ai fini generali della guerra, della nostra pressione militare sull’Austria; ma come a Londra a Parigi e a Pietrogrado se ne dubita forse? La nostra guerra, che si combatte con tanto entusiasmo, oltre alla reintegrazione dei confini, ha il preciso scopo di stabilire nel mondo l’equilibrio e di ridare alla giustizia il suo posto radioso nel tempio sacro alla civiltà; non si è compreso ancora questo? Non si comprende che la nostra entrata in campagna è stata decisiva sulle sorti della guerra? Non si pensa che tra lo stracciare un trattato e la punizione degli oppressori del Belgio, noi abbiamo scientemente scelta quest’ultima? Che cosa è la guerra che combattiamo, gli enormi sacrifici, il sangue versato, senza l’alto senso di giustizia, che ha trasportato questo popolo sentimentale nell’azione più difficile e mentre la lotta ferveva più disastrosa per gli attuali alleati? Si osa dubitare sul senso di cavalleria che ci ha contraddistinti? Io non sono un convinto, circa la politica di guerra dell’Italia, ma non si può non riconoscere ciò che è chiaro quanto la luce meridiana. Difficilmente si troverà un popolo ed un governo - nella storia - che più che per la sua causa ha combattuto e combatte per un ideale grandioso, fino a far passare in seconda linea i freddi calcoli della gente sennata, che invano si tentò colpire col marchio dell’infamia. Gli Italiani di tutte le fedi hanno taciuto quando alla spada si affidarono le loro sorti, le sorti della Patria. Io credo che la situazione intenzionale tra stati non è chiara, le mire dei singoli non corrispondono precisamente ai bluff ufficiali, questo con tutto il rispetto dei singoli individui, proposti ai governi alleati ed amici e fino a prova contraria. Certo sul sangue glorioso dei martiri della guerra, sull’eroismo smisurato degli eserciti combattenti e sul sacrificio dei popoli, che tutto danno per la vittoria, vi sono le alte banche, i finanzieri poco scrupolosi, i ricchi industriali, che superando le intenzioni degli uomini politici, tutto prostituiscono con le loro mire ingorde e perfide, coi loro calcoli esosi e strozzineschi; le mire dinastiche e di sette. Scriveva uno scrittore francese, su una rivista il cui nome mi sfugge, non più di 15 giorni fa: “rimproveriamo ai Tedeschi ciò che noi dobbiamo far domani” no, illustre uomo, noi guideremo il mondo verso la medesima via, su cui l’ha condotta il militarismo prussiano e l’industrialismo tedesco, ed allora perché sbraitar tanto? Penso con terrore se le sorti della futura pace dovranno essere affidate e discusse da

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commercianti e banchieri, io sono di opinione che alla conferenza dovrà assidersi la scienza nei suoi più genuini rappresentanti, che non dovranno più discutere della bellezza dello stato moderno - forza e miracolo giuridico - ma sulla necessità di eguagliare i vari diritti positivi, in un tutto organico capace di sedare le bufere internazionali, di concedere giustizia a chi la merita e di condannare il torto; in una parola dare stabilità alla pace; in mezzo a questi e sopra di questi un potere, che non abbia interessi territoriali da salvaguardare, ma le sole supreme ragioni della Giustizia da difendere. Non importa che la guerra duri un anno, un mese; interessa l’avvenire sconfinato, non il domani prossimo; non deve preoccupare, oramai, la guerra presente, ma se altre dovranno funestare il mondo... Il “non plus ultra” giuridico è indubbiamente quell’ente che avrà la potenza di equilibrare il diritto alla vita dei popoli coi grandi stati. E le nazioni conscie dei propri destini e dei loro sacrifici debbono aver precise davanti le ragioni dei propri sforzi. E concludo: Possiamo prendere per oro sonante tutte le dichiarazioni fatte dai Ministri di tutti i paesi belligeranti, per ossequio al Diritto ed alla Giustizia? Già anche in materia di diritti privati è noto che il fondamento vero è a trovarsi nella coesistenza dei singoli interessi delle parti, ed è per garantire questi interessi che la legge moderatrice interviene, sacrificando così solo quel tanto che basta ad assicurarsi l’equilibrio di tutti. Io credo che bisognerebbe ormai domandarsi se non sia il tempo di finirla con le solite volate pseudo - sentimentali, infarcite di luoghi comuni, degne di un Sanculotte della rivoluzione francese. Mettiamo da parte ogni maschera e domandiamoci dove tende la politica di Sir Gray, il quale è giunto oramai ad impadronirsi di quasi tutto l’Impero coloniale della Germania, della ricca Mesopotamia, senza dire dell’Egitto, il cui possesso non è più contestabile, e non sapiiamo ancora dove vorrà fermarsi l’artiglio tenace d’Albione nell’Asia Minore, porta delle future competizioni economiche. E domandiamoci ancora perché nella Francia ultimamente, è sorto un indirizzo pietoso nella stampa a favore dell’Austria, a favore di una grande Serbia, di una ipotetica Jugoslavia, in perfetta antitesi delle storiche e sante aspirazioni italiane. Domandiamoci ancora dove vorrà arrestare la sua marcia vittoriosa la Russia, e, non dimentichiamo, che la nuova Italia erede delle tradizioni delle nostre Repubbliche marinare del medio-evo, che trafficarono attraverso i Dardanelli coi porti dal Mar Nero, non può disinteressarsi delle vie del prossimo Oriente, né può esporsi al pericolo di essere soffocata con la chiusura degli stretti da parte dell’Inghilterra e della Russia, nel bacino del mare nostrum. Quello che sembra necessario, perché il sangue italiano non sia sparso invano, è che la pace garantisca l’esistenza e lo sviluppo di tutte le nazionalità, in maniera che, a ciascuna di esse, sia possibile il libero progredire, senza temere l’aggressione delle nazionalità più potenti. Questo, senza pregiudizio dell’azione del governo, o meglio dei governi, che sono soli


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responsabili dinanzi agli Italiani della loro politica. Ma tutta la quistione che noi abbiamo posta, non sta nelle mire delle potenze belligeranti, nei loro singoli “panâ€?, cantati in tutti i toni, ma sulla necessitĂ di formulare e trasportare in pratica il nuovo codice regolatore e moderatore dei diritti dei popoli, piccoli e grandi. In teoria ci siamo, in pratica no, per colpa di chi? La guerra potrebbe cessare e subito, senza pericolo di vederne prospettarsi delle altre, se si pensa a dare basi solide alla Giustizia ed al Diritto. Le democrazie, se esistono, si mettano all’opera, feconda e bella!... Antonio de Magistris

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DRAMMI, VERITA’ E ILLUSIONI Mi succede sovente, da ultimo, di non sapere cosa scrivere. E questo mi lascia da pensare anche perché sono tra coloro con i quali l'amico Angelo Romano si consulta per individuare il tema portante del numero. Certo, finora, qualche riflessione sono riuscito a tirarla giù, più o meno abborracciata ma, stavolta, la vedo dura. Eppure, navigare necesse est, parafrasando quell'incitazione che, secondo Plutarco, Pompeo rivolse ai suoi uomini restii ad imbarcarsi alla volta di Roma per le avverse condizioni del mare. Certo, parafrasando, perché la locuzione ha ben altri ed alti significati che non l'autosollecitazione di un vecchio irascibile e pigro: tradizionalmente, indica il disprezzo per le necessità contingenti e l'esaltazione di ulteriori, considerevoli, ideali. Oddio! No, no. Un momento. Si potrebbe pensare che, in via traslata, stia diminuendo o denegando il valore della rivista e della sua rilevante opera di voce solista in un oceano di insulsaggini. Il che certamente non è, né potrà mai essere perché (lo affermo con semplicità) è bella, in tutti i suoi significati, ed io resto convinto, per dirla con Camus, che sebbene la bellezza non faccia le rivoluzioni verrà il giorno nel quale le rivoluzioni avranno bisogno di lei. Perciò, no, è un'esortazione rivolta solo a me stesso, nel convinto rispetto dell'impegno, assunto quasi quattro anni or sono, all'atto del varo di Confini, sia nei confronti di un amico sia nei riguardi del fine della stessa rivista. Ma resta il fatto che stavolta non calibro. Forse, sarà perché sono reduce dalla cosiddette vacanze natalizie che su me hanno sempre avuto un effetto deprimente: l'aria che si dovrebbe respirare dovrebbe essere infarcita di bontà e tutti, dico tutti, si affannano a manifestare la loro disposizione al bene: le famiglie si riuniscono, mangiano pesce la notte di Natale, tagliano il panettone e stappano bottiglie mentre le voci suadenti di Frank Sinatra, di Nat Cole, di Brenda Lee, di Paul McCartney, di José Feliciano e di tanti altri allietano le giornate e le serate pubblicizzando i più disparati prodotti. Qualcuno potrà dire che le famiglie, almeno in quel periodo, riscoprono la solidarietà, che l'amore paterno e filiale si esalta, che il calore umano si accentua: il che certamente è un bene ma resta il fatto che tali comportamenti dovrebbero essere una costante nella vita dell'uomo e non solamente manifestati visivamente e platealmente in quella settimana. Ma tant'è: in realtà, ciò che non sopporto sono i meccanismi che inducono l'uomo a predisporsi al bene in quel periodo. Non voglio fare una sterile polemica circa la scelta ecclesiale di far cadere la festa della Natività il 25 dicembre, lo stesso giorno nel quale mitologie e altri passati credi affermano essere nati, rispettivamente, Horus, figlio di Osiride e di Iside, Adonis, figlio di Myrrha, Mitra, Krihsna,


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Zoroastro, Ercole, Dioniso, nonché Attis: non la voglio fare perché, animato da un profondo rispetto sebbene convinto laico, ritengo la religione in generale un'ottima cura per l'angoscia esistenziale e, in particolare, quella cattolica un valido esempio di amore quando ad incarnarla vi sono degne persone. E, ciò al di là dei materiali scivoloni, connaturati al genere umano. Invero, ciò che non sopporto è che l'alto valore metaforico della nascita del bambino divino sia stata quasi soppiantata dal volto rubizzo di Babbo Natale: questa strana figura di nonno benefico, abbigliato con un costume rosso vagamente da lappone: Santa Claus. Si potrebbe pensare, come scrisse Roberta Forte nel dicembre 2014, che il vispo vecchione abbia mutuato il nome dal personaggio meridionale, San Nicola, ossia Nikolaus di Mira, nato in Asia Minore nel IV sec. e divenuto vescovo di Mira nella Licia, il cui culto cominciò a diffondersi quando le sue reliquie furono trasportate a Bari nel 1087, fino a farlo divenire il patrono del capoluogo pugliese. In realtà, il Santa Claus rossovestito non ha nulla a che spartire con l'antico dignitario ecclesiastico della storia, con il quale ha in comune solo il nome. Nicola, o meglio il suo abbreviativo Nick, fu rimosso dal personaggio nordico trasformandolo in Claus per aferesi. E ciò perché Babbo Natale, alias Santa, è appunto Nick o meglio Old Nick, Nick il Vecchio, altro nome di Old Horny, il vecchio dalle Corna della tradizione britannica, il quale altro non è che il Diavolo. Nelle leggende dei paesi settentrionali, il Diavolo viene dal Nord estremo (il Polo nord), il regno delle tenebre e del freddo; indossa un completo di pelliccia rossa (il colore del fuoco dell'inferno) e guida un tiro di renne, animali cornuti sulle quali si è trasferita una delle caratteristiche del demonio; scende dai camini sporcandosi di fuliggine. Per questo è chiamato Black Jack, Black Man, Black Peter. Porta con sé un gran sacco nel quale infila i bambini, che rapisce e confina all'estremo nord. Nella prima metà del XIX sec. si operò la trasformazione dell'antico demone nordico nell'icona natalizia del vecchione benevolo il cui unico compito è quello di portare doni ai bambini la notte del 25 Dicembre: mito piccolo-borghese generatosi in seno alla cultura biedermeier per rovesciamento nell'opposto di una figura demoniaca angosciante. E ciò per via di due diverse e concomitanti motivazioni. Da un lato, in seguito alla rivoluzione illuministica del secolo precedente, la pressione dell'ideologia religiosa ortodossa, sia cattolica che riformata, si allentò e la data del 25 Dicembre restò in parte svuotata del contenuto cristiano mentre si riempì di un vecchio mito mitteleuropeo i cui contenuti angoscianti furono rimossi e, come detto, rovesciati nell'opposto. Per l'appunto, il kobold nel folklore tedesco, ma anche l'elfo, il goblin o il leprechaun in altre tradizioni, sono gli illustri antenati del mellifluo e banale Santa Claus vittoriano il quale formava con Peter Pan la coppia coboldica “vecchio-bambino”, sintetizzabile nella figura solo apparentemente antagonista ed aliena di Capitan Uncino. Dall'altro, in coerente con la situazione socio-politica del momento, si affermò un ceto medio, voglioso di dimenticare i fatti tumultuosi della Rivoluzione francese e del successivo impero napoleonico, e più attento all'avvento della Rivoluzione industriale che, nell'evoluzione dello

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stile, proponeva prodotti funzionali, dalle linee semplici e, quindi, facilmente industrializzabili. Così, un bisogno generalizzato di quieto vivere depotenziò ed edulcorò le produzioni fantastiche medioevali in una prospettiva buonista, e perciò trasformò il diavolo in santo ed il rapitore di bimbi in munifico vecchio parente. L'antico contenuto fobico della figura demoniaca venne annullato in maniera radicale trasformando il Vecchio Nick, da spavento dei bambini, da Uomo nero che li rapisce, in Santa Claus, tutto bonomia e generosità della nuova mitologia natalizia: una figura banale e melensa divenuta prodotto commerciale, invasiva delle nostre giornate dicembrine e gran bevitrice di Coca Cola negli spazi televisivi; riprodotta in mille oggetti dozzinali, è stata resa tanto meschina dalla macchina della promozione pubblicitaria da perdere qualsiasi pur remoto valore anche nei rimasugli di tradizione, per così dire, pagana. Con questo dove voglio arrivare? Beh! Che non è tutt'oro quello che luce tra i poliedrici aspetti del problema e, perciò, alle evidenti difficoltà di scrivere in coerenza con il tema del numero: “Venti di guerra” in riferimento ai tragici fatti di Parigi di due mesi fa. Nel senso che mi arrovello nel cercare di condurre un ragionamento lineare, interessante o intelligente quanto basta alla dignità del giornale ma non ci riesco. E non perché non consideri esecrabili quei fatti ed altri simili che, nondimeno, suonano come una bestemmia in quanto condotti in nome di Dio, o perché non voglia con tutte le mie forze vedere annientato il terrorismo ovunque alberghi, anche per la sua annichilente ipocrisia di uccidere, in una fantomatica guerra, ignari civili in riscatto di presunti torti. Peraltro, non sono affetto da relativismo culturale e quindi non arrivo a proporre di togliere i crocifissi dalle aule o di abolire il Natale in nome di un egualitarismo di facciata: fatti che considero delle emerite coglionerie, irrispettose di una radicata tradizione e uniche meschine proposte in assenza di una valida politica dell'accoglienza e dell'integrazione, nonostante che le erogazioni del Fondo di asilo, migrazione e integrazione della UE a favore del nostro Paese ammontino a oltre 500 milioni di euro. Né, infine, in nome di un progressismo di maniera, posso mettermi ottusamente a sostenere l'abolizione di un reato, la clandestinità, che non ha mai perseguito alcuno seriamente, comunque presente negli ordinamenti dei Paesi occidentali. Nel senso che, fermo restando il dovere morale e materiale dell'accoglienza degli immigrati, non possiamo esimerli dal rispetto della nostra cultura e del nostro ordinamento giuridico né possiamo esimerci, come Paese, dal rispettare il regolamento comunitario del 2013 che impone la loro identificazione, pena pesanti sanzioni. Né possiamo ignorare il nostro obbligo di vagliare la posizione delle persone sull'uscio della nostra casa, immigrate illegalmente, per tramutare, se del caso, il loro status in rifugiati. Né, infine, possiamo ignorare, la loro destinazione qualora decidano di lasciare l'Italia: regole, queste, severamente applicate verso ogni cittadino italiano. E' dato il caso che l'Italia non faccia alcunché di tutto quanto sopra, come dimostra la procedura d'infrazione già avviata dalla UE nei nostri confronti, che addirittura ci intima “l'uso della forza”


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per prendere le impronte digitali visto che, in assenza di identificazione, gli immigrati che sono in Italia "non sono candidabili per il ricollocamento". Il paradosso è che gli unici a sostenere una politica più confacente e organica nei confronti degli immigrati siano M5S e Lega, tacciati però di xenofobia e razzismo, senza che alcuno strale si appunti sul permissivismo pidino e, comunque, sulle disattenzioni di Renzi, in carica dal febbraio 2014. Una situazione che non potrebbe sussistere in altri Paesi. Prendiamo un recente caso eclatante. Non possiamo certo dire che la Germania sia disorganizzata o che la socialdemocrazia tedesca aliti sul collo della Merkel per la pratica di un buonismo lassista. Eppure, proprio la Germania, efficiente macchina politica, economica e amministrativa, con un PIL pro capite di oltre 40.000 euro l'anno, aperta da sempre all'immigrazione, rispettosa delle normative comunitarie, è stata colpita nella notte del 31 dicembre scorso da un'ondata di crimini a danno delle donne, perpetrati soprattutto nella città di Colonia presumibilmente da rifugiati. C'è persino l'ipotesi che la molteplicità delle azioni criminose possa denotare una strategia. Comunque sia, la macchina giudiziaria tedesca è già all'opera e c'è da credere che in un ragionevole lasso di tempo verrà a capo della questione individuando colpevoli e eventuali mandanti e comminando adeguate condanne. Questo, comunque, non esonera Gabor Steingart, direttore editoriale del prestigioso quotidiano economico tedesco Handelsblatt, dall'identificare la sua Cancelliera con Alice nel Paese delle Meraviglie. Nel suo editoriale di lunedì 11 gennaio scorso, Steingart, a proposito dei fatti di Colonia, ha affermato che la questione si risolve con la caduta in disgrazia di un capo della audacia temeraria igienenon spirituale polizia e che il “vero problema è il comportamento che ha portato a quel tipo di incidente.” Nel senso che, sostiene Steingart, la Germania è andata oltre nella sua politica della porta aperta ai rifugiati e che, in un primo momento, la generosità tedesca è suonata accattivante ma successivamente è divenuta ingenua. Ora è pericolosa. Il Paese è in procinto di perdersi per strada. E non è solo Steingart sul tema: "La libertà in questo Paese non è una licenza di carnevale", ha scritto Heribert Prantl nella Süddeutsche Zeitung di lunedì 11 gennaio scorso. Un tema quello degli accadimenti di Colonia, ripreso persino oltreatlantico da Ross Douthat, il più giovane editorialista del New York Times, che si è spinto domenica 10 fino al punto di chiedere le dimissioni del cancelliere: "Angela Merkel se deve andare, in modo che il suo Paese, e il Continente di cui fa parte, possano evitare di pagare un prezzo troppo alto per la sua follia di nobili sentimenti.” Certo, per Steingart, il giornalista americano si è spinto oltre ed ha corretto: “la Merkel non se ne deve andare ora, ma deve darsi una regolata”. Nel senso che i punti deboli della sua politica per i rifugiati, afferma il direttore dell'Handelsblatt, stanno diventando sempre più evidenti e le sue più recenti richieste di uno "Stato forte" suonano vacue. E, verso la fine del suo editoriale, Steingart, richiamandosi alla filosofa tedesco-americana Hannah Arendt e al suo concetto di “defattualizzazione”, cioè la creazione consapevole di una “atmosfera da Alice nel Paese delle

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Meraviglie”, è arrivato ad attribuire un tale comportamento alla Merkel, messo in atto da mesi, forse nella speranza di poter governare gli eventi mentre nella realtà ne è stata disarcionata.Il capo di governo tedesco, conclude l'editoriale di Steingart, “sta combattendo il più potente avversario che si possa immaginare: la realtà. Non c'è modo che possa vincerla. Ma se dovesse riuscirci, a perdere sarebbe la Germania.” Che dire a proposito dell'Italia? Lo so che l'argomento di cui sopra, sebbene cogente, non rispetta il tema del numero ma, come detto, ho difficoltà a ragionare perché il pensiero da un lato mi corre alle manchevolezze di Renzi e dall'altro alle ottusità del mondo occidentale e, in particolare, dell'Italia. Nel senso che mi chiedo come fa un Paese come il nostro per il quale il fenomeno migratorio ha caratterizzato i suoi ultimi 150 anni, a non vedere le problematiche relative? In termini di accoglienza e di integrazione, al di là dell'uso dei campi (utile carburante per l'eversione, il terrorismo e la malavita organizzata) non ha fatto neppure tesoro delle esperienze maturate dai nostri migranti fino agli anni '50: connazionali relegati in quarantena a Ellis Island, l'isoletta davanti al porto di New York, e poi destinati, soprattutto dalla sorte, alle cucine di un ristorante o alla manovalanza malavitosa. Un Paese che, peraltro, non è riuscito a tutelare neppure i suoi cittadini rimpatriati dalla Libia, in oltre 40.000 dal settembre '69 all'agosto '70, costretti a lasciare in quella terra ogni loro avere a seguito dell'avvento al potere del sedicente colonnello Mu'ammar Gheddafi, autoproclamatosi Guida e Comandante della Rivoluzione della Grande Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista, con il quale, molto opportunamente, le potenze occidentali (Italia in primis) hanno mantenuto negli anni ottimi rapporti. Comunque, neppure per inciso, mi sembra il caso di stare a discutere se quella decisione, quella dell'esproprio dei beni italiani, fu da intendersi come ritorsione delle colpe dell'Italia liberale di Giolitti o di quella littoria di Mussolini. Né mi pare opportuno riflettere se dare credito alle postume dichiarazioni di Ma?mûd Jibrîl, primo capo del governo provvisorio del Consiglio nazionale di transizione libico, circa il diretto intervento della Francia di Sarkozy nell'esecuzione del rais e non di un indistinto ribelle del CNT. Certo è che Francia o CNT non si sa se abbiano compiuto opera meritoria nel rimuovere quel dittatore, unico soggetto, per quanto pittoresco, in grado di tenere unita una terra prima travagliata da scontri etnici e tribali. Un po' come la sorte dell'ex Iugoslavia alla morte di Tito. Una terra, al pari della Iugoslavia, ritornata scenario di scontri etnici e tribali, poi divenuta mittente di migrazioni nonché semplice pedone nello scacchiere internazionale. Già. Non mi sembra il caso di parlare di complicazioni postume, anche perché, ad ulteriore esempio, dovrei menzionare l'Iraq, in gran parte invenzione di Churchill, allora ministro nel governo di David Lloyd George, a conclusione della I.a guerra mondiale: un Paese creato a tavolino tracciando una serie di linee sulla carta geografica e riunendo, in un unico Stato, sciiti, sunniti e curdi.


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Una soluzione in risposta ad una sfida: amministrare i territori arabi sottratti alla Turchia, alleata di Austria e Germania; una risoluzione dalla quale lo storico inglese Christopher Catherwood, nel suo libro La follia di Churchill – L'invenzione dell'Iraq, fa derivare conseguenze remote, oggi sotto gli occhi di tutti, ad iniziare dall'imporre allora un sovrano sunnita, l'hascemita Feisal, amico di Thomas Edward Lawrence, meglio noto come Lawrence d'Arabia, ad una popolazione in maggioranza scita. E ciò nonostante che a Churchill sembrasse chiarissima la situazione, come testimonierebbero i Chartwell Papers, i carteggi manoscritti dello stesso Churchill, conservati a Cambridge e usati da Catherwood per il suo libro. E, sempre a proposito dell'Iraq, si dovrebbe parlare (ammesso che giovi farlo) delle evoluzioni di quel Paese in epoca più recente, cioè di quando ai curdi, fin dal '19, fu promesso un proprio Stato ma senza che ciò si sia mai concretizzato. Occorrerebbe, quindi, riflettere sul rovesciamento della monarchia una prima volta nel 1941 da un colpo di Stato sostenuto dalla Germania nazista e perciò represso dai britannici, dove i combattimenti fecero un migliaio di morti; pretesto, nobilitato a movente politico, per intraprendere la prima più eclatante persecuzione ebraica irachena, il Farhud. E, già che ci siamo, necessiterebbe discutere sugli eventi che si verificarono dopo la seconda guerra mondiale quando, nel 1958, un secondo colpo di Stato, attuato dal Comitato degli Ufficiali Liberi guidati dal generale ?Abd al-Karîm Qâsim, istituì la repubblica, giustiziando sommariamente l'intera famiglia reale con i suoi notabili e perseguendo una linea nazionalista e neutralista. Poi, bisognerebbe passare al terzo colpo di Stato, quello del '63, dove venne ucciso ?Abd al-Karîm Qâsim e andò al potere il partito Ba'th, di ispirazione socialista e panaraba, favorevole a un avvicinamento all'Unione Sovietica; un governo sostenuto dall'Egitto, governato dal colonnello Nasser. E non basterebbe, perché dovremmo considerare il quarto colpo di Stato, quello che rovesciò il regime del Ba'th nel novembre dello stesso '63, ad opera dell'ex braccio destro del generale Qâsim, il colonnello ?Abd al-Salâm ?Ârif, in seguito deceduto per morte violenta e sostituito dal fratello, il maresciallo ?Abd al-Rahmân ?Ârif alla guida del Paese. Ma se facessimo tutto questo non saremmo che a metà dell'opera perché dovremmo menzionare, nel luglio '68, un quinto colpo di Stato, guidato dal generale Ahmad Hasan al-Bakr, parente di Saddam Hussein, che riportò al potere il Ba?th il quale, preso il potere, instaurò un controllo molto stretto sulle istituzioni e sulla società irachena, in direzione panaraba e socialista anziché nazionalista, appoggiandosi preferibilmente sugli arabi sunniti, soprattutto dopo la presa del potere da parte di Saddam Hussein nel '79 il quale, però, abbandonò subito l'ispirazione socialista e filo-sovietica e, negli ultimi anni del regime, anche quella panaraba. Ma se lo facessimo, non ci potremmo esimere dal sottolineare, nel giugno del '72, la nazionalizzazione dell'industria petrolifera fino a quel momento in mano alla Iraq Petroleum Company britannica: una decisione, quella, che a detta di molti osservatori, avviò la modernizzazione del Paese perché, grazie alla vendita del petrolio nazionalizzato, il governo,

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divenuto interamente laico, poté finanziare l'elettrificazione del paese, la costruzione di acquedotti, scuole, università, ospedali, nonché il lancio di un'economia non collegata al petrolio. E come dimenticare il 1980, quando gli Stati Uniti e i paesi NATO appoggiarono con aiuti economici e militari la volontà dell'Iraq (che aveva rivendicazioni territoriali) a scendere in guerra contro l'Iran (dove una rivoluzione fondamentalista islamica aveva rovesciato la monarchia)? Un conflitto, durato otto anni, senza vincitori né vinti, costato ad ambo le parti tra 500.000 e 1.500.000 di morti. Del seguito si potrebbe fare a meno di parlare visto che è storia contemporanea: l'occupazione nel '90 del Kuwait da parte dell'Iraq per ragioni economiche ammantate da rivendicazioni territoriali, l'invasione da parte della coalizione internazionale a seguito del mandato delle Nazioni Unite, la liberazione del Kuwait, il cessate il fuoco e l'isolamento dell'Iraq con restrizioni nella vendita del petrolio. E, ancora, il rifiuto di concedere l'accesso agli ispettori dell'UNSCOM, il conseguenziale rigido embargo economico, i cui effetti si rivelarono devastanti soprattutto per la popolazione civile, il programma "Oil for Food" ("petrolio in cambio di cibo"), che autorizzava l'Iraq a esportare due miliardi di dollari di greggio al semestre per l'acquisto di viveri e medicinali: un programma avversato da USA e Gran Bretagna nel timore che i proventi, anziché ai viveri, potesse essere destinato all'acquisto di materiale bellico. E, inoltre, dal '97, l'intensificarsi dello scontro tra Saddam Hussein e l'amministrazione statunitense, causato dagli ostacoli ai controlli dell'UNSCOM, una nuova crisi con la minaccia dell'uso della forza da parte degli USA, scongiurata in extremis da Kofi Annan, e la ripresa delle incursioni sul territorio iracheno da parte degli aerei statunitensi e britannici; peraltro, uno di quegli attacchi, nel febbraio del 2001, sollevò le proteste della maggioranza dei paesi arabi e fu criticata anche da numerosi governi europei, in particolare quelli di Francia e di Germania. Certo, la situazione dal 2001, sarebbe potuta rimanere in fase di stallo, anche dopo il fallimento della missione UNSCOM e della successiva missione UNMOVIC deliberata dall'ONU, se a settembre di quell'anno non fosse intervenuto il vile attacco terroristico subito dagli USA a New York. Beh! Ecco. Forse sulle conseguenze di quel fatto varrebbe la pena di dire alcune parole se non fosse per il fatto che sono stati già scritti fiumi d'inchiostro: l'accusa degli Stati Uniti al regime iracheno di produrre armi di distruzione di massa e di collaborare con l'organizzazione terroristica al-Qâ?ida, la ripresa degli attacchi aerei statunitensi e inglesi contro obiettivi strategici e militari iracheni, la successiva disponibilità dell'Iraq ai controlli e lo scetticismo di George W. Bush, che chiese una nuova risoluzione dell'ONU che autorizzasse un nuovo intervento militare contro il regime di Saddam Hussein: una richiesta accolta solo da pochi paesi e da un solo altro membro del Consiglio di sicurezza dell'ONU, la Gran Bretagna. E che dire di nuovo al fatto che, nonostante l'opposizione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, nel marzo 2003 gli Stati Uniti e la Gran Bretagna lanciarono l'attacco contro l'Iraq, sostenuti da una


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trentina di paesi? E' noto che la forza d'invasione anglo-americana, penetrata nel paese dal sud e dal nord, si impose agevolmente sulla resistenza irachena, arrivando a Baghdad in un mese. Così come è noto che Saddam Hussein si diede alla fuga e venne poi catturato nel dicembre successivo e indi fu condannato a morte da un tribunale ad hoc e impiccato. Certo, un altro comodo scomodo dittatore era finito. La guerra era terminata, l'ONU autorizzava la presenza della forza multinazionale in Iraq e fissava un piano per l'elezione di un Parlamento e la costituzione di un governo. La democrazia era tornata sovrana. E non c'è nulla di nuovo da dire neppure al fatto che le forze alleate vincitrici incontrarono nei mesi seguenti una dura resistenza, condotta per lo più da ex membri del regime ba'thista e da miliziani fondamentalisti iracheni e stranieri (alcuni dei quali più o meno legati ad al-Qâ?ida). E, insieme alla resistenza contro le truppe straniere e il nuovo governo, il risveglio delle tradizionali divisioni religiose e tribali tra la comunità sciita (maggioritaria ma emarginata durante il regime ba'thista) e quella sunnita. E, come tutti insegnano (quindi inutile parlarne), a tacitare gli scontri non bastò neppure il nuovo governo provvisorio iracheno, presieduto dallo sciita Iyâd ?Allâwî, con il principale compito di preparare lo svolgimento di nuove elezioni e di redigere la nuova carta costituzionale. Anzi, nella comunità sunnita, marginale nel processo di transizione, si rafforzò l'ala radicale, che intensificò la sua offensiva guerrigliera e terroristica, con migliaia di attentati mortali e di atti di sabotaggio. Né effetto diverso ottennero le elezioni che consegnarono la maggioranza dei seggi al blocco sciita guidato da Ibrâhîm al-Ja?farî, e l'elezione a Presidente dell'Iraq di Jalâl ?âlabânî, leader dell'Unione Patriottica del Kurdistan. E' curioso ma non vale la pena di commentarlo il fatto che, nelle more, le ricercate armi di distruzione di massa non vennero trovate e, dall'analisi dei documenti iracheni, dagli interrogatori di ufficiali di Saddam e dalla pubblicazione o desecretazione di numerosi rapporti di CIA e Pentagono anche precedenti all'invasione, venne smontata l'ipotesi che il regime iracheno avesse avuto un rapporto di collaborazione con l'organizzazione terroristica di al-Qâ?ida. Come sappiamo, a rasserenare lo scenario non bastò neppure l'iniziativa di Bush detta “Surge”, tendente da un lato a rafforzare la presenza americana e, dall'altro, a coinvolgere maggiormente la parte sunnita, specie nella lotta contro gli estremisti e, in particolare, i "qa'idisti" di al-Qâ?ida in Iraq: anzi, quell'operazione, terminata inopinatamente nel 2008, se inizialmente portò dei frutti, alla fine creò delusione nei gruppi sunniti e indusse alcuni ad allearsi con i ribelli, contribuendo ai combattimenti contro il governo, contro gli “osservatori” esterni e contro l'altra comunità etnico-religiosa, gli sciti. Né vale la pena di affrontare gli effetti del ritiro di tutte le truppe straniere alla fine del 2011 perché arcinoto; e, del resto, come non sapere che dal 2012, l'Iraq subisce le ripercussioni della guerra civile siriana, essendoci un intenso scambio di guerriglieri fra i gruppi islamisti che operano nella Siria orientale e quelli che operano nell'Iraq occidentale (a maggioranza sunnita, dove è forte il risentimento verso il governo di Baghdad, dominato dagli sciiti). Come non sapere che, nel 2013, Abu Bakr al-Baghdadi, leader dello Stato Islamico dell'Iraq

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fondato nel 2006 come parte della rete di al-Qa'ida, ha annunciato l'unione del suo gruppo con al-Nusra, il principale movimento islamista della guerriglia siriana? Come non sapere che quell'unione, respinta dalla maggior parte della dirigenza di al-Nusra e da al-Qâ?ida, ha provocato l'allontanamento dalla rete di al-Qâ?ida del nuovo gruppo, che ha preso il nome di Stato Islamico dell'Iraq e del Levante o ISIS che dir si voglia? Va be'. Basta. Dopo tanti sproloqui, non riesco proprio a trovare qualcosa di utile da dire a sostegno del tema del giornale. Beh! Allora, convinto che “lo sforzo disperato che compie l'uomo nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato è teatro” come ha lasciato scritto il grande Edoardo, mi metterò a vedere una sua bellissima commedia, Napoli milionaria. Massimo Sergenti in collaborazione con Roberta Forte


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TURCHIA ED EUROPA: L’ETERNO NODO DI GORDIO La leggenda è nota. Nell'antica Anatolia il popolo dei Frigi costruì una nuova città, gettando le basi per un proprio stato, politicamente strutturato. L'oracolo di Telmesso (l'attuale Fethiye), predisse che il primo uomo che vi fosse entrato su un carro trainato dai buoi sarebbe diventato re. La bella sorte toccò a un contadino di nome Gordio. La cittadina, che corrisponde all'attuale Yassihüyük, prese il suo nome. Il figlio adottivo di Gordio, Mida (proprio quello che trasformava tutto in oro), divenuto re a sua volta, legò il carro a un palo con una corda annodata in modo così complesso da renderne impossibile lo scioglimento, sancendo con una profezia “l'indissolubilità del potere Frigio”: solo chi fosse stato in grado di sciogliere il nodo avrebbe dominato l'intera Asia Minore. Per oltre quattro secoli il carro restò ben attaccato al palo. Nel 333 A.C., Alessandro Magno, dopo un rapido e infruttuoso tentativo, recise il nodo con la spada e iniziò il suo cammino di conquistatore. L'episodio, che mischia storia e leggenda, è il fulcro di un vecchio testo scritto a due mani da Ernst Jünger e Carl Schmitt: “Il nodo di Gordio”. Varrebbe la pena leggerlo (ma è introvabile in italiano) per meglio comprendere ciò che oggi ci spaventa. Il destino dell'Oriente e dell'Occidente è indissolubilmente legato a quella profezia. Chiunque tentasse di “amalgamare” le due anime del mondo, dovrebbe fare i conti proprio con la scure che recise il nodo con la forza, rivelando una verità incontrovertibile: mai Oriente e Occidente sono riusciti a prevalere l'uno sull'altro. Ogni tentativo, in passato, dall'una e dall'altra parte, ha solo creato disfacimenti immani sui fronti esterni e su quelli interni. L'inciso “in passato” non è stato utilizzato a caso: la storia si ripete, ma a volte cambia. Ritorneremo a parlare del confronto tra “Oriente e Occidente”, riservando quest'articolo esclusivamente al ruolo della Turchia nello scenario europeo, alla luce della sua volontà di “entrare nell'Unione” e tenendo conto, quindi, dell'intricata matassa di cui oggi si discute quotidianamente. La Turchia è un problema per l'Europa; diciamolo a chiare lettere e senza tanti giri di parole. Preziosa (ma ora non si sa fino a che punto) alleata militare nello scacchiere NATO; in rotta di collisione con la Russia (che dell'Occidente è primario alleato nella lotta all'Isis), pur continuando a intrattenere con essa imponenti relazioni commerciali; minata al suo interno da conflitti insanabili; popolata da una maggioranza di musulmani (il 99%), che fanno storcere il muso agli Europei più saldamente legati alle radici cristiane e fanno venire il mal di testa agli analisti meno coinvolti emotivamente, i quali hanno il difficile compito di elaborare complesse indagini sociologiche: quanti sono, tra gli oltre settanta milioni di musulmani, coloro che godono nel vedere i fondamentalisti colpire uomini e simboli della Civiltà Occidentale? Oggi i “nodi di Gordio” da sciogliere si sono amplificati a dismisura. Che la Turchia abbia mire egemoniche ed espansionistiche non è un mistero; tra l'altro è un vizio antico. Il primo Ministro Ahmet Davutoðlu l'ha spiegato chiaramente già nel

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2001, nel suo poderoso volume di circa 700 pagine, “Profondità Strategiche”, purtroppo mai tradotto in italiano, ma disponibile in Inglese. La Turchia deve diventare un attore decisivo in Medio Oriente, smarcandosi dall'ombra statunitense, necessaria un tempo per proteggersi dalla minaccia sovietica. La vocazione espansionistica prevede otto aree d'influenza: Balcani, Mar Nero, Caucaso, Caspio, Asia Centrale, Golfo Persico, Medio Oriente e Mediterraneo. Porte aperte ai cittadini degli ex territori imperiali, con un invito che più chiaro ed emblematico non può essere: “Per tutti i musulmani balcanici, la Turchia è un porto sicuro. L'Anatolia vi appartiene, fratelli e sorelle di Bosnia. E state certi che Sarajevo è nostra”. Se a questo aggiungiamo le forti relazioni con il principale partner commerciale, la Germania; i rapporti con i nemici storici, Russia e Iran, in nome degli interessi comuni (pecunia non olet, come ben dimostrano le diatribe sul petrolio venduto dall'ISIS) e la manifesta volontà di cavalcare due scenari – “La Turchia può essere europea in Europa e orientale all'Est, perché siamo entrambe le cose” – abbiamo, allo stesso tempo, un quadro “chiaro e scuro” sul paese che chiede di entrare in Europa. Un bel casino, aggravato da altri aspetti che per noi occidentali rasentano la barbarie, fugando ogni dubbio sul possibile processo d'integrazione. Nel 2015 si è celebrato il centesimo anniversario del “Genocidio Armeno”: oltre 1.500.000 persone trucidate dai “Giovani Turchi”, sempre afflitti dal sogno della “Grande Turchia”. Il mondo intero ancora aspetta il riconoscimento del genocidio, di cui in patria è vietato parlare, pena la galera. Le vessazioni subite dai Curdi sono sotto gli occhi di tutti, ma la storia di quel popolo è antica e terribile, ancorché complessa e poco nota ai distratti occidentali. Il rispetto dei diritti civili e la libertà di stampa sono fortemente compromessi. La donna vive ancora in uno stato di profonda sottomissione. Hanno fatto il giro del mondo le “gaffe” del vice premier Bülent Arinç, per il quale le donne non devono ridere in pubblico, allo scopo di difendere “i valori morali di decenza e castità” e possono essere tacitate con un caustico: “Stai zitta tu, che sei donna!”. Nell'agosto del 2014, una signora che aveva osato indossare i pantaloni e sedere in auto accanto a un uomo, è stata definita dai magistrati “una provocatrice” e pertanto le coltellate ricevute dall'ex marito sono state giudicate con le attenuanti, determinando uno sconto di pena di ben NOVE ANNI, rispetto a quanto chiesto dalla Procura. Lo stesso premier ha più volte sostenuto che “le donne non dovrebbero lavorare, ma stare a casa a generare almeno tre figli". Si potrebbe continuare all'infinito, ma il concetto è chiaro. Esistono tante brave persone in Turchia, che pagheranno un prezzo alto per una maggioranza che vive in netto ritardo con la storia. Ma fin quando gli oppositori di un sistema marcio e ben radicato, non riusciranno a "levarsi (in armi o con altri mezzi possono deciderlo solo loro) in un mare di triboli per, combattendo, disperderli", le porte della Grande Madre Europa dovranno restare ben chiuse. Lino Lavorgna


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FORZE TURCHE IN IRAQ: QUALE LA STRATEGIA DI ERDOGAN? Che la Turchia avesse dato appoggio ai gruppi in lotta contro Bashar al-Assad, jihadisti compresi, non è un mistero, come neppure lo sono le decine di migliaia di foreign fighter provenienti soprattutto dal Nordafrica, ma anche dall'occidente e dal Caucaso, transitati troppo facilmente attraverso gli aeroporti turchi e diretti in Siria, le colonne di camion cariche di armi e di equipaggiamenti dirette a sud e quelle cariche di petrolio dirette a nord, o ancora i jihadisti dello Stato Islamico curati negli ospedali turchi. Il presidente Recep Tayyp Erdogan, messo con le spalle al muro dal russo Vladimir Putin dopo l'abbattimento del Sukhoi-24, lasciato solo dalle monarchie del Golfo e soprattutto soccorso solo a parole dagli alleati della Nato, che non potevano difendere l'indifendibile, si è trovato di fatto politicamente isolato e responsabile, agli occhi dell'opinione pubblica, delle sanzioni "che non riguarderanno solo i pomodori", come ha affermato il numero uno del Cremlino. I caccia di Ankara, entrati in azione lo scorso agosto (il conflitto ha avuto inizio nel 2011), non hanno mai realmente colpito l'Isis, ed anche dopo l'attentato di Suruc del 20 luglio (34 morti), rivendicato dai jihadisti, Erdogan ha preferito prendersela con i curdi, rompendo una tregua mai come oggi necessaria. Tuttavia il moltiplicarsi degli attentati in occidente a marchio Isis hanno obbligato un cambio di strategia dei vari alleati, basti vedere che il premier britannico David Cameron aveva a suo tempo chiesto al Parlamento di intervenire con i raid sulle posizioni di Bashar al-Assad, cosa che poi non c'è stata, mentre oggi ha ottenuto il voto dei deputati per colpire con i Tornado gli obiettivi dello Stato Islamico. Con tutta probabilità vi è proprio la necessità di Erdogan di uscire dal pasticcio in cui lui stesso si è cacciato, alla base della decisione di spedire a Mosul, in Iraq, ben "tre unità militari turche dotate di armi pesanti", come ha descritto il portavoce delle Unità per la mobilitazione popolare (Pmu, milizie sciite) per la provincia di Ninive, Mahmoud Alsurja. Si tratta di 1.200 uomini (altre fonti parlano di un numero minore) e di 20 carri armati dislocati nell'area di Bashika, a nord-est di Mosul, che potrebbero intervenire per la liberazione della città irachena, in mano allo Stato Islamico dal giungo 2014 e presidiata da 80mila jihadisti. L'improvviso arrivo dei militari turchi ha destato le proteste del presidente iracheno Fouad Massoum, il quale ha parlato di "violazione delle regole e del diritto internazionale" destinata ad aggravare le tensioni nella regione, ed ha chiesto l'immediato ritiro dei militari dal proprio territorio.

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La Reuters ha citato fonti turche secondo le quali i militari turchi si troverebbero nei pressi di Mosul per "esercizi di addestramento per le truppe irachene", un servizio che, a quanto pare, nessuno ha chiesto. Tant'è che già il 3 dicembre l'ufficio del premier iracheno Haider al-Abadi aveva diffuso un durissimo comunicato in cui veniva sottolineato "il fermo e categorico rifiuto a qualsiasi violazione della nostra sovranità", veniva avvertito che "si riterrà un atto ostile qualsiasi ingresso di forze di terra" e che in tal caso vi sarebbe stata "una risposta di conseguenza". L'area di Mosul è tuttavia al limite dei territori controllati dai Peshmerga del Kurdistan Irq., i quali ormai agiscono in modo del tutto indipendente rispetto a Baghdad, anche per le dispute sul petrolio che curdi non hanno consegnato al governo centrale vendendolo per conto loro, dal momento che non hanno ricevuto da mesi il denaro pattuito per pagare gli stipendi pubblici e far funzionare la macchina amministrativa. Se Erdogan non può vedere i curdi siriani e con quelli del suo paese ci litiga, con quelli iracheni ci va a nozze, tant'è che già sono in essere accordi per la vendita del greggio del Kurdistan Irq. attraverso la Turchia e soprattutto nelle banche turche sono stati depositati i proventi delle vendite di petrolio. Per il turco Daily Sabah, giornale vicino al governo, i militari turchi avrebbero dato il cambio ad un piccolo contingente già presente da due anni e mezzo sul posto: militari curdi hanno confermato la cosa, asserendo tuttavia che i turchi giunti oggi sono in numero di gran lunga superiore. Potrebbero quindi essere stati mandati da Ankara militari in accordo con il governo regionale di Erbil, che ancora una volta avrebbe quindi preso un'importante decisione politica in modo autonomo, scavalcando il governo centrale iracheno. Enrico Oliari


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BREVE STORIA DEL MSI Il MSI, Movimento Sociale Italiano, nasce ufficialmente a Roma, nello studio dell'ex vicefederale romano, il ragionier Arturo Michelini. Lo scopo è quello di raccogliere le forze fasciste disperse dopo la fine della Guerra e in parte, provvisoriamente, confluite nel partito dell'Uomo Qualunque, creato da Guglielmo Giannini per contrastare l'egemonia dei partiti del Cln. Tra i fondatori del movimento alcuni reduci della Repubblica Sociale Italiana: Pino Romualdi, Giorgio Almirante, Cesco Giulio Baghino e Mario Cassiano. Il MSI rappresenta dunque il punto d'incontro dell'azione politica per unificare le varie forze, del Movimento italiano di unità sociale (Mius) costituito da Mario Cassiano con Giorgio Almirante, Giorgio Bacchi, Cesco Giulio Baghino, e del Fronte dell'Italiano costituito da Giovanni Tonelli. Sin dalla prima riunione del gruppo, viene fissata la linea politica del nuovo partito in "Dieci punti programmatici". In politica estera si rivendica l'unità, l'integrità, l'indipendenza nazionale auspicando però la nascita di una unione europea su basi di parità e giustizia; in politica interna si chiede il ristabilimento dell'autorità dello Stato, la soppressione della legislazione eccezionale, il referendum nei riguardi della Costituzione e del Trattato di pace, il rispetto dei Patti Lateranensi; sul piano economico-sociale si riconosce la proprietà individuale, si afferma la giuridicità dei sindacati e si auspica la partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili dell'azienda. Come simbolo del partito, Giorgio Almirante propone l'adozione della fiamma tricolore, traendo l'ispirazione dalle associazioni combattentistiche. Il 15 giugno 1947 si riunisce per la prima volta il Comitato centrale che, riconosciuta conclusa la fase costitutiva del partito, elegge la Giunta esecutiva nazionale di cui fanno parte per la segreteria politico-amministrativa: Giovanni Tonelli, Giorgio Almirante e Arturo Michelini; per il settore sociale e sindacale Manlio Sargenti; per il settore combattenti e reduci Nino De Totto; per la stampa e la propaganda Mario Cassiano; i problemi universitari erano affidati a Giorgio Vicinelli, il settore femminile ad Amalia Sirabella; il Fronte giovanile a Marcello Perina; delegato per il Comitato centrale era Biagio Pace e delegato per l'Alta Italia G. Luigi Gatti. Iniziano a confluire e affiancarsi al partito ulteriori forze e organizzazioni parallele: il gruppo socialdemocratico di Orazio Bozzini; il Movimento italico; il Raggruppamento giovanile studenti e lavoratori guidato da Roberto Mieville; la Federazione nazionale combattenti della Repubblica Sociale Italiana (Fncrsi); l'Associazione nazionale combattenti italiani in Spagna (Ancis); il Movimento italiano femminile; i nuclei universitari, tra i quali il Nucleo universitario romano e il gruppo universitario San Marco dell'Ateneo padovano.

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Il 22 dicembre 1947 sarà promulgata la Costituzione repubblicana, dove al capo XII delle disposizioni transitorie e finali si legge: "È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.". Il MSI si presenta per la prima volta alle elezioni del 1948 e ottiene il 2,1 % alla Camera. I militanti del MSI sono ex esponenti del regime fascista e soprattutto reduci della Repubblica Sociale Italiana e occorre partire da li per capire la genesi e le trasformazioni di questo partito e più in generale la formazione della classe dirigente della destra italiana. L'atto di nascita della Repubblica di Salò è la carta di Verona (17 novembre1943) Per chi ha vissuto quell'esperienza, la Repubblica Sociale di Salò è stato il tentativo estremo di difendere la dignità e l'onore della patria e la continuità dell'ideale fascista. Un tentativo vissuto sotto lo stretto controllo dell'occupazione nazista in Italia. Per molti ha rappresentato la possibilità di realizzare il fascismo delle origini, quello anticapitalista, antiborghese che rifiuta ogni compromesso, con una forte impronta sociale, anche se con forti accenti antisemiti e razzistici. Il Manifesto di Verona, emanato il 14 Novembre 1943, durante il primo congresso del Partito Fascista Repubblicano, (nato dalle ceneri del Partito Nazionale Fascista), rappresenta l'atto di nascita della Repubblica Sociale di Salò e ne definisce il programma politico e i principi. I 18 punti della carta dichiaravano decaduta la Monarchia e convocano una costituente. Si affermava che la base della Repubblica sociale e della dottrina economica del Partito Fascista Repubblicano è il lavoro (articolo 9); che la proprietà privata, frutto di lavoro e risparmio sarebbe stata garantita ma non si sarebbe dovuta per ciò trasformare in entità disgregatrice della personalità altrui sfruttandone il lavoro (articolo 10). Tutto ciò che era di interesse collettivo, da un punto di vista economico si sarebbe dovuto nazionalizzare (articolo 11). Nelle aziende sarebbe stata avviata e regolata la collaborazione tra maestranze e operai per la ripartizione degli utili e per la fissazione dei salari (articolo 12). In agricoltura le terre incolte o mal gestite sarebbero state espropriate e riassegnate a favore di braccianti e cooperative agricole (articolo 13). L'Ente Nazionale per la casa del popolo avrebbe avuto l'obbiettivo di fornire una casa in proprietà a tutti (articolo 15). Si sarebbe costituito un sindacato dei lavoratori, obbligatorio, e avrebbe riunito tutte le categorie (articolo 16). Ma all'articolo 7 anche che gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Giano Accame: "Sia la Repubblica Sociale sia il Movimento Sociale, sono una conferma di questo fondamentale dato di dignità del nostro paese, non era possibile che quelle punte così elevate di consenso che circondarono il fascismo e Mussolini non rimanesse più niente. Qualcuno doveva testimoniare. Purtroppo la repubblica sociale era caduta in questa trappola delle rappresaglie. Le rappresaglie dei fascisti contro i partigiani e la popolazione civile espressero troppo spesso una ferocia gratuita a dispetto dai principi contenuti nella Carta di Verona." L'amnistia Togliatti Durante i primi anni dell'Italia Repubblicana gli ex gerarchi fascisti vivevano in clandestinità ed


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erano latitanti ricercati dalla legge. Tra questi vi era Giorgio Almirante, che visse un anno e mezzo in clandestinità tra Milano e Torino facendosi chiamare Giorgio Alloni. Un altro latitante eccellente era Pino Romuladi, ex vicesegretario del Partito Fascista della Repubblica di Salò, il più alto in grado tra i gerarchi sopravvissuti alla caduta della Repubblica Sociale Italiana, su di lui pendeva una condanna a morte. Il 22 giugno del 1946, Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia del primo governo De Gasperi, vara la cosiddetta "amnistia Togliatti": è la prima amnistia della storia repubblicana. L'intenzione del leader comunista era quella di pacificare il paese, ma il provvedimento finì per tradursi in un vero e proprio colpo di spugna per migliaia di fascisti, compresi i responsabili dei crimini più efferati. Il segretario comunista aveva varato un'amnistia "bipartisan", che avrebbe dovuto comprendere anche i reati commessi dai partigiani ed escludere i reati peggiori, ma in realtà pochissimi uomini della resistenza beneficiarono del condono, mentre moltissimi criminali furono liberati per un vizio di formulazione del testo della legge. Togliatti, laureato in giurisprudenza, aveva scritto personalmente la legge, senza neanche farla correggere dagli specialisti. Questo errore di presunzione lasciò molto campo all'interpretazione estensiva della magistratura, composta da uomini anziani e che avevano fatto carriera sotto il regime fascista. Grazie alla formula dell'amnistia che prevedeva l'esclusione "degli autori di sevizie particolarmente efferate", i giudici poterono agevolmente interpretare il provvedimento in senso estensivo. Infatti alla Corte di Cassazione di Roma amnistiarono persino chi aveva stretto nelle morse i genitali degli antifascisti perché la tortura non era durata particolarmente a lungo. Circa diecimila persone beneficiarono del provvedimento soprattutto i gerarchi di più alto grado, che avevano i soldi a disposizione per pagare i migliori avvocati e per oliare i meccanismi della macchina giudiziaria. I 2/3 della base parlamentare del MSI sarà costituito da parlamentari amnistiati. La nascita del Movimento Sociale Il Movimento Sociale Italiano nasce ufficialmente il 26 dicembre del 1946, ma ha origine da piccoli gruppi di natura eversiva sempre sul crinale della legalità, che nascono sia nella zona occupata dai tedeschi sia in quella controllata dagli alleati dando vita a una sorta di resistenza a rovescia, l'esempio più noto è quello del gruppo del principe Valerio Pignatelli della Cerchiara che organizza sabotaggi nelle retrovie alleate in Calabria. (Colarizi). La creazione vera e propria del partito è preceduta da un intenso dibattito su numerose riviste dell'area "post-fascista" che erano sorte in quel periodo "Rataplan", "Rosso e nero", "Senso nuovo", "Il pensiero nazionale", "Meridiano d'Italia", "Brancaleone", 'Fracassa', oltre al più noto e diffuso "Rivolta ideale" che diviene l'organo ufficioso del neonato partito, ma il MSI si afferma ben presto come il punto di riferimento di tutto l'ambiente nostalgico. Il Secolo d'Italia divenne ufficialmente giornale del partito solo nel 1963, quando l'allora segretario del MSI Arturo Michelini rilevò la società editrice del giornale, divenendone direttore.

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Il Secolo era stato fondato a Roma il 16 maggio 1952, come giornale indipendente di destra da Franz Turchi. Il MSI si indirizza da subito verso una scelta di tipo legalitario, cercando d'inserirsi nel nuovo contesto politico. Domenico Fisichella: "I missini erano persone che avevano fatto un certo tipo di scelta e avevano acquisito consapevolezza che l'Italia era cambiata, ma volevano, non restaurare, ma neanche dimenticare." Il dibattito interno al MSI si articolò nella prima fase nello scontro tra tre principali correnti: quella rivoluzionaria dei socializzatori reduci di Salò; quella moderata corporativista e quella tradizionalista - spiritualista di Julius Evola. Ciò dal primo congresso che si svolse a Napoli nel 1948 al quinto che si tenne a Milano nel 1956, dove la conflittualità del dibattito fra le componenti raggiunse il culmine. Al I Congresso di Napoli (27-29 giugno 1948), Almirante era stato acclamato segretario nazionale e aveva iniziato la sua opera di espansione del movimento. Nel gennaio 1950, Almirante lascia la segreteria del partito, che viene affidata ad Augusto De Marsanich, il quale cerca di dare al partito una fisionomia sempre più democratica, con programmi meno populisti rispetto alla gestione Almirante. Nel 1954 assume la segreteria Arturo Michelini che tenta la carta dell'inserimento nell'area di governo. La sinistra, tuttavia, non reagisce positivamente all'escalation di un partito costituito in prevalenza da ex-camicie nere: così mobilita migliaia di militanti a Genova (dove si impedisce lo svolgimento del VI Congresso del Movimento, 2-4 luglio), dando vita a moti di piazza particolarmente violenti, dove i protagonisti sono soprattutto ex-partigiani che si scontrano con i missini per cacciarli. Nelle elezioni amministrative del 1947 e nelle politiche del 1948, il neopartito ottiene il 2% dei voti ed entra in parlamento, alla Camera con sei deputati (Almirante, Michelini, Roberti, Russo Perez, Mieville e Filosa) e al Senato con un senatore (Enea Franza). Negli anni Cinquanta assorbe parte dei voti in fuga dalla Dc, che con il riformismo dei governi De Gasperi ha scontentato l'elettorato conservatore. Grazie ai successi elettorali nelle amministrative del 1951, entra in numerosi governi locali, soprattutto nel sud, anche in città importanti come Napoli, Bari, Lecce e Salerno. Nel 1953 raggiunge il 5,8% dei voti, con un largo consenso presso l'elettorato meridionale. La legge Scelba La "riorganizzazione del disciolto partito fascista", già oggetto della XII disposizione transitoria della Costituzione italiana, diventa legge nel giugno del 1952 con la cosiddetta Legge Scelba, approvata dopo il risultato delle amministrative del '51 ' e '52, dove il MSI in alleanza con i Monarchici riesce ad avere successi molto significativi soprattutto nel mezzogiorno. In alcune zone i missini riescono a privare la DC di quasi di un 7% dei voti, e ad ottenere quasi il 14%. L'articolo 4 sancisce il reato di "apologia di fascismo" commesso da chiunque: "fa propaganda per la costituzione di una associazione, di un movimento o di un gruppo avente le


CULTURA POLITICA STATO DI DIRITTO E LEGALITA’ caratteristiche e perseguente le finalità" di riorganizzazione del disciolto partito fascista, oppure da chiunque "pubblicamente esalta esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche". La legge detta norme bene precise: "quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista." Almirante contro Michelini Michelini è considerato dalla base del partito un benpensante, un uomo mite, mentre è Almirante a incarnare l'anima movimentista e carismatica. Michelini poi non aveva partecipato alla Repubblica Sociale di Salò. Nel 1946 Michelini propone al neonato MSI di allearsi con la Democrazia Cristiana e di avere una politica estera filo-statunitense, ma è messo in minoranza prima da Giorgio Almirante (col quale non aveva buoni rapporti) e poi da Augusto De Marsanich. Ma all'indomani delle elezioni politiche del 1953 (in cui il movimento raccolse il 5,8% dei voti) viene nominato segretario nazionale. Durante la sua segreteria cerca di far uscire il MSI dall'isolamento che si era venuto a creare, cercando alleanze prima con la DC, poi con il Partito Liberale Italiano e poi con i monarchici: in questa ottica deve essere visto l'appoggio dato al governo Tambroni. All'interno del partito non è mancata la dialettica di posizioni tra il puro conservatorismo di De Marsanich e Michelini e il corporativismo di Almirante, tra la nostalgia della Repubblica sociale di Massi e Spampanato e l'esasperato nazionalismo di Rauti e Romualdi. Nel 1954, sotto la guida di Arturo Michelini, il MSI inizia a spostarsi su posizioni più moderate (accettazione del sistema parlamentare, appoggio all'europeismo e all'Alleanza Atlantica), e nel 1960 cerca di inserirsi nella maggioranza parlamentare, appoggiando il governo monocolore presieduto da Fernando Tambroni. Nel 1956 Michelini accetta l'Alleanza Atlantica (NATO) e negli anni Sessanta si fece promotore di un'interpretazione corporativistica del capitalismo, che non venne comunque accettata dal centro-sinistra. Quando morì nel 1969 il partito affidò nuovamente l'incarico di segretario nazionale ad Almirante.

IL RE E’ NUDO

Il governo Tambroni e i fatti di Genova Durante la segreteria di Michelini i voti in parlamento del MSI furono determinanti a garantire il sostegno ad un governo monocolore guidato dal democristiano Fernando Tambroni (25/03/1960 - 26/07/1960). Il MSI aveva già votato la fiducia ai governi Zoli e Segni II, ma stavolta il suo voto fu determinante a sostenere l'esecutivo. All'inizio del mese di maggio del 1960 si diffuse la notizia che il MSI era in procinto di organizzare il suo congresso a Genova, città

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Medaglia d'Oro della Resistenza: la scelta di questa città da parte del movimento era intenzionalmente provocatoria. Da notare che presidente di quel congresso era stato nominato l'ex prefetto fascista Basile, fortemente indiziato di collaborazionismo con i nazisti. Immediatamente la protesta in Liguria esplose in manifestazioni e scioperi, ma a cavallo fra il giugno ed il luglio del 1960 vi furono anche in tutto il resto d'Italia violentissimi scontri di piazza con le forze dell'ordine. A Genova furono chiamati funzionari esterni della Polizia e dei Carabinieri e i Reparti Celere si trovarono di fatto ad ingaggiare nei caruggi una sorta di guerriglia urbana coi manifestanti. I manifestanti stavano prendendo il sopravvento costringendo la Polizia a ripiegare e fu necessaria una soluzione politica per riportare l'ordine. Al MSI fu impedito di tenere quel congresso; gli scontri successivi, particolarmente a Roma e Palermo, non furono meno violenti e provocarono una decina di morti, culminando con la strage di Reggio Emilia il 7 luglio 1960. In seguito ai fatti di Genova il governo Tambroni fu costretto alle dimissioni il 26 luglio 1960. La contraddizione tra recupero della tradizione e spinta della modernità porta Il MSI a una crisi, alla morte di Michelini succede alla segreteria del partito Giorgio Almirante. Ma dopo la caduta del governo Tambroni e in seguito ai fatti di Genova, il MSI è emarginato dalla scena politica. Neanche il ritorno alla segreteria di Giorgio Almirante riesce a migliorare questa situazione. In questo periodo viene coniata la locuzione "arco costituzionale" per indicare tutti I partiti meno il MSI (la locuzione però si fondava anche sul rigetto, da parte del movimento, dei valori antifascisti contenuti nella Carta). Negli anni successivi il MSI sarà tenuto al bando dalla vita politica nazionale. Sono anni questi in cui il MSI stringe un'alleanza elettorale (1955) con il Partito nazionale monarchico e appoggia dall'esterno i governi Zoli (1957), Segni (1959) e Tambroni (1960), come si è detto. Dopo la caduta di tale ministero in seguito ad agitazioni popolari, il MSI viene progressivamente emarginato dalla scena politica. Negli anni 60 dunque il movimento torna all'opposizione, intensificata durante gli anni del centrosinistra. L'avvento del centrosinistra, nel 1962, provoca il rafforzamento, all'interno del partito, della corrente intransigente capeggiata da Almirante. Alla fine degli anni Sessanta, il partito sembra destinato ad un lento e inesorabile declino, ma nel clima turbolento del 1968 e con il nuovo segretario, Giorgio Almirante, succeduto a Michelini, riaffiorano le possibilità di ripresa. Il MSI adotta così la cosiddetta linea perbenista, ovvero quella di prendere nettamente le distanze dai contestatori e, anzi, di combatterli frontalmente sul piano ideale. Scelta forse un po' azzardata, visto che tale strategia regala alla sinistra centinaia di migliaia di giovani che a destra non trovano nessuna alternativa alla contestazione, se non nelle frange estreme. Cercando di farsi portavoce di un movimento alternativo al sistema, capace di attrarre la protesta contro la violenza ed il disordine del '68, il MSI riesce ad assorbire ciò che rimane del Partito di unità monarchica (Pdium). Sono anni particolarmente duri per il partito, ormai ampiamente inserito nei ranghi istituzionali: la strage di piazza Fontana, l'avvento del terrorismo e degli anni di piombo, l'antifascismo militante.


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Con le elezioni del 1972, presentandosi sotto l'etichetta di Msi-Destra nazionale, ottiene l'8,7% dei voti, facendo appello alla cosiddetta "maggioranza silenziosa". Le profonde radici ormai messe su tutto il territorio del paese, la paura dell'eversione rossa e la crisi di quegli anni sono gli ingredienti di questo successo, assai gratificante per tutti i militanti che si sono prodigati per ottenerlo. Sono gli anni della rivolta di Reggio Calabria, quando nel capoluogo calabro, al grido di "Boia chi molla", il MSI e la Cisnal guidano una sommossa popolare come risposta all'assenza delle istituzioni in quella città. Ma sono soprattutto gli anni delle violenze e delle repressioni. A pagarne le conseguenze sono i giovani: decine i ragazzi del Fronte della Gioventù assassinati, centinaia gli aggrediti, migliaia coloro i quali sono cacciati dalle scuole dalle università e dalle piazze. Una repressione senza precedenti alla quale tuttavia, la gioventù e il MSI hanno saputo resistere, nonostante i lutti e le violenze. Tra il 1975 ed il 1979, si verifica un progressivo ridimensionamento dei consensi elettorali. Nel 1977, avviene la rottura dell'unità interna, con l'uscita dal partito dell'ala moderata, che dà vita al gruppo di Democrazia nazionale, guidato da Gianni Roberti ed Ernesto De Marzio. La nuova formazione ha vita breve: presentatasi autonomamente alle elezioni del 1979, non ottiene alcun successo elettorale e si scioglie. Nel 1978, il segretario Almirante, in vista delle elezioni europee, promuove l'Eurodestra, collegandosi con il movimento spagnolo Forza Nuova e con la destra francese. Nel 1987, poco prima della morte di Almirante, la segreteria del partito passa al suo pupillo Gianfranco Fini, ex segretario del Fronte della gioventù. La morte di Almirante è un duro colpo alla stabilità del MSI (all'epoca in crisi) che decide di giocare il tutto per tutto sull'ultimo dei leader storici rimasti in vita, Pino Rauti (dopo una breve segreteria Fini). Rauti non riesce nell'intento di ottenere larghi consensi dai delusi della sinistra a seguito del crollo del muro di Berlino (1989), così la sua strategia naufraga assieme alla sua segreteria (199091). Dopo il disastroso esito delle elezioni regionali siciliane del giugno 1991, Rauti è costretto a dimettersi, lasciando spazio al ritorno di Gianfranco Fini alla segreteria nazionale. Fini riesce ad ottenere un risultato sostanzialmente positivo alle elezioni politiche del 1992 grazie ad un'accesa campagna contro la corruzione e il malfunzionamento della cosa pubblica. La nuova leadership orienta il MSI negli anni Novanta verso una trasformazione che lo rende il punto di riferimento per l'elettorato conservatore dopo la crisi della Dc e dei partiti di centro. Il partito approfitta dello scandalo di Tangentopoli, che mette a nudo cosa hanno significato 50 anni di potere demo-socialista e ottiene clamorosi successi alle elezioni. A Roma e a Napoli i due candidati missini, rispettivamente Gianfranco Fini e Alessandra Mussolini, giungono al ballottaggio nelle amministrative del 1993, anche se poi sono sconfitti di misura dai candidati progressisti. Mettendo in secondo piano l'anima fascista del partito, Fini si fa paladino delle riforme istituzionali e della fondazione di una "seconda repubblica" in Italia, con caratteristiche presidenzialistiche; lavora per realizzare un processo di trasformazione del Movimento sociale in una nuova formazione politica, d'impostazione più moderata, il cui scopo dichiarato è quello di arginare il potere delle forze di sinistra.

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Il suo paziente lavoro di alleanze sfocia, nei primi mesi del 1994 nella costituzione di una coalizione di centro-destra con la neonata Forza Italia. Nel gennaio del 1994 si tiene la prima Assemblea costituente di Alleanza nazionale, la nuova formazione che nel 1995 prende ufficialmente il posto del Movimento sociale all'interno dello scenario politico italiano. Presentatosi alle elezioni politiche del 1994, insieme a Forza Italia di Silvio Berlusconi, al Centro cristiano democratico di Mastella e Casini, e all'Unione di centro liberale, il Movimento sociale Alleanza nazionale ottiene il 13,5% dei voti con 43 senatori e 105 deputati. Ed entra a far parte del governo per la prima volta nella storia dell'Italia repubblicana. Alla fine di gennaio 1995 il XVII Congresso del MSI sancisce ufficialmente la nascita di Alleanza nazionale, il cui simbolo incorpora a dimensione ridotta la storica fiamma del vecchio Movimento. Michele Falcone


SOCIETA’

“CARDOPATIA” E' una mania. Non c'è supermercato, profumeria, autonoleggio, parafarmacia, negozio di elettronica, catena alberghiera, multinazionale del caffè o torrefazione artigianale che non voglia fidelizzarti con una "card". Te la offrono anche al primo acquisto e ti gonfiano il portafogli di pezzetti di plastica che non sai dove mettere. Impossibile ribellarsi, opporre un rifiuto, tanto te la spediscono a casa alla prima occasione, quasi sempre una fattura, anche di modestissimo importo, per poi tormentarti via mail affinché aggiorni il tuo incompleto "profilo". Tra poco anche il fruttivendolo sotto casa ti offrirà la sua "card" promettendoti sconti su carciofi e cetrioli, ovviamente non cumulabili con le promozioni in corso. Proprio ultimamente una grande catena di elettronica di cui ho la "card" mi ha mandato uno sconto compleanno del 10% per cento. Gesto carino ma ad effetto boomerang. Avendo bisogno di un telefono nuovo mi sono recato nel negozio, ho convertito i punti fedeltà accumulati in un buono acquisto da 30 euro (spendibili solo per acquisti oltre 100 euro) ed ho chiesto se erano cumulabili lo sconto compleanno col buono acquisto. Mi hanno detto di no. Sono andato al banco vendita dei telefoni ed il modello che desideravo costava molto di più, anche cumulando gli sconti, del prezzo al quale l'ho poi comprato su Internet. Sono pertanto diventato "cardopatico" e difficilmente comprerò ancora presso quel negozio o mi farò rifilare una "card". Gustavo Peri

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DA LEGGERE

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CONVEGNO

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“Votare bene al Referendum per scegliere quale Repubblica, non quale Governo” Programma Introduzione:

Prof. Avv. Giuseppe Consolo (Diritto Costituzionale - LUISS Guido CARLI)

Relazioni:

Prof. Antonio Baldassarre (Presidente Emerito della Corte Costituzionale)

Prof. Alfonso Celotto (Diritto Costituzionale - Università Roma Tre)

Interventi:

On. Renato Brunetta, Sen. Roberto Calderoli, On. Raffaele Fitto, On. Fabio Rampelli, Dott. Pasquale Viespoli

Conclusioni:

Gianfranco Fini

Mercoledì 10 febbraio ore 17 Centro Congressi via Cavour, 50/A - Roma


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CULTURA POLITICA DOSSIER

Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

www.confini.org


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