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Web-magazine di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

Raccolta 39 Novembre 2015

CAMBIARE TUTTO PER NON CAMBIARE NIENTE A RESE: T I S I N RV PE FA A I E T EZ L’IN IUSEP N E OV DI G

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www.confini.org

Confini Webmagazine di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Raccolta n. 39 - Novembre 2015 - Anno XVIII

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti - Cristofaro Sola +

Hanno collaborato: Europa Gianni Falcone Giuseppe Farese Roberta Forte Lino Lavorgna Enrico Oliari Gustavo Peri Angelo Romano Massimo Sergenti Cristofaro Sola

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Segreteria: confiniorg@gmail.com

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RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

CHIACCHIERE E TABACCHIERE L'Italia è ripartita? Dagli indicatori macroeconomici, dalle stime dell'OCSE e dalle valutazioni della Commissione Europea, sembrerebbe di sì. Addirittura, si è arrivati a correzioni percentuali del PIL del verso l'alto: caso unico negli ultimi die-ci anni. In ogni caso, come ha affermato recentemente Draghi, è una ripresa lenta. Ma, sostenuta o debole, dobbiamo chiedercelo. Se il trend di ripresa verrà confermato da fatti più consistenti, in virtù di qua-le azione da parte del governo si è determinato? No. Non voglio fare la solita tiritera nei confronti del presidente Renzi, della sua politica da spettacolo, della sua logorroica retorica, delle sue colorite, pittoresche e fatue espressioni. Non voglio neppure criticare il suo atteggiamento da bar di Rigna-no sull'Arno nei meeting internazionali; atteggiamenti come quelli ultimi tenuti a Riad nei momenti formali: stravaccato per traverso sulla poltrona, con le gambe accavallate, rivolto verso l'interlocutore di turno. Mancava un bicchiere di Chinotto in mano, una bonona che passava per la strada, i commenti piccanti degli amici alle spalle e sarebbe stata una scena degna di Amarcord. E nemmeno voglio biasimare il suo inglese da operetta, parlato con un profondo accento della Chiantigiana, brutta copia della mirabile interpretazione dell'Albertone nazionale in Un americano a Roma. Non voglio fare niente di tutto questo perché altrimenti, e per altro verso, ricadremmo nella sola, sterile censura, pane della sinistra per vent'anni, di quell'umoristico atteggiamento che il Cavaliere, patetico macho con bandana, ha tenuto nei suoi dieci anni di governo, tra battute volgari, frizzi insulsi, foto con corna e promesse da imbonitore di provincia. Ambedue soubrette, quelle di cui sopra, intervallate da un in-sipido e deleterio notabile, Monti, paradossalmente insignito dei più alti riconoscimenti accademici e istituzionali di questa Repubblica. Quindi, no. Quello che semplicemente voglio fare è analizzare le azioni governative in virtù delle quali, si afferma, l'economia del Paese sembra stia tornando a tirare. Ebbene, e sono incomprensibilmente dispiaciuto nel dirlo, non ce n'è alcuna che possa aver prodotto un simile effetto. Gli 80 euro a determinate categorie di reddito è stata un goccia d'acqua nell'insopportabile arsura determinata da imposte, dirette e indirette, accise, tributi e concessioni governative. La riforma della legge elettorale, il cosiddetto Italicum, non ha ancora trovato il suo approdo, a prescindere dal fatto che quello finora emerso è lontano dallo spirito della sentenza della Corte costituzionale che ha bollato come incostituzionale il Porcellum. In ogni caso, ininfluente ai fini economici.


EDITORIALE

La riforma del Senato, illogica oltre misura, troverà luce, eventualmente, nella primavera 2016 e, comunque, il suo iter, superfluo dirlo, non ha determinato alcun riverbero sull'economia del Paese. La riforma della Pubblica Amministrazione dello scorso agosto, ancora tutta da concretizzare attraverso i decreti di attuazione essendo una legge delega, non ha ancora prodotto (ammesso che lo faccia) quell'auspicabile effetto semplificativo della asfissiante burocrazia che ancora caratterizza l'apparato pubblico. Figuriamoci una sollecitazione all'economia. E, a proposito di questa, c'è comunque da dire che quell'impianto normativo non ha nemmeno menzionato lo strampalato, discrezionale, impiego dei fondi d'intervento per il sostegno economico alle aziende, a disposizione dei vari dicasteri e Enti o Istituti collaterali. Valga per tutti il riferimento al Ministero Affari Esteri o a quello dello Sviluppo Economico da un lato e all'ICE e a INVITALIA, dall'altro. La riforma scolastica, la cosiddetta Buona Scuola, la vedremo alla prova dei fatti ma, attesa la sua ininfluenza immediata sul piano economico, l'unico aspetto finora certo è lo iato che si creerà tra il sistema formativo del Nord e quello del Sud. La riforma istituzionale, peraltro nemmeno impostata dall'attuale governo, al momento è ancora sulla carta in quanto a risparmi (figuriamoci come spinta all'economica) e, in ogni caso, non ha neppure menzionato la voragine di malaspesa rappresentata dalle Regioni. Per non parlare della spendig review che, limitandosi a tagli nei trasferimenti, ha lasciato intatti i meriti e la legittimità di spesa delle Regioni stesse nonché l'esistenza di inutili Authority e di centinaia di società partecipate da Enti locali, autentici carrozzoni. Resta il tanto decantato jobs act (chissà perché l'inglese) il quale, intanto, costerà all'erario circa quattro miliardi di euro. E, però, pressoché tutti i mass-media si sono affannati a dire che i dati recenti sull'occupazione in Italia registra su base annua un saldo attivo di oltre 190 mila occupati e che ciò, ha sottolineato il Presidente del Consiglio, è da attribuire alle mirabilia del jobs act. La verità è che, negli ultimi trent'anni, i gestori di qualsivoglia espressione pubblica, per effetto del craxismo prima, del berlusconismo poi, e del renzismo oggi, si sono fortemente impegnati ad estendere il profondo, triste, significato di quell'espressione del socialista Rino Formica che, negli anni '80, bollava l'assemblea nazionale del PSI come una "corte di nani e ballerine". La seconda verità è che l'attuale presidente del consiglio ha finora beneficiato del bacio della dea fortuna. E ciò in quanto nessuno tra i flabellanti ha avuto l'onestà di affermare che i timidi segnali di ripresa dell'economia di questo Paese sono dovuti essenzialmente alla concomitanza di tre distinti fattori, totalmente estranei dalla volontà (figuriamoci dall'azione) del governo. Il primo fattore è da attribuire al vertiginoso calo del petrolio, a prescindere dalle cause che lo hanno determinato: un calo del quale hanno beneficiato, intanto, i conti pubblici e, a cascata, i costi del trasporto e dell'energia per la produzione. Non a caso, abbiamo un incremento nella vendita di autocarri e un saldo attivo tra nascita e morte d'imprese. Il secondo fattore è la svalutazione dell'euro rispetto al dollaro, oggi a poco meno di 1:1,1. L'ottimo sarebbe la parità ma, intanto, ciò ha consentito alla nostra produzione di tornare ad

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EDITORIALE

essere competitiva sul piano internazionale, fino a ieri penalizzata non solo dal forte apprezzamento dell'euro sul dollaro ma anche dai prodotti più a buon mercato dell'Est e del Sudest asiatico. Il terzo fattore è il meraviglioso senso della vita del nostro popolo. E' dato il caso che in Italia, le famiglie dispongano di ben 3.848 miliardi di euro di ricchezza finanziaria (che diventano 9.614 includendo gli immobili). Ma c'è di più. Secondo un'analisi del Centro studi di Unimpresa, basata sui dati della Banca d'Italia, le riserve complessive di famiglie, imprese e banche (ovvero il denaro lasciato nei depositi e nei conti correnti) sono cresciute di oltre 80 miliardi nell'arco di un anno (giugno 2014 - giugno 2015). Inoltre, secondo quell'analisi, l'aumento del "tesoretto" delle famiglie, pari a 15 miliardi (+1,7%), è stato più contenuto rispetto a quello delle aziende (14 miliardi di euro, +7%) e delle banche (circa 52 miliardi, +16%). Ebbene, secondo un calcolo approssimativo elaborato dal Sole 24 Ore, molto meno del 10% va a finanziare le imprese italiane e lo sviluppo economico. Tutto il resto finisce in titoli di Stato o all'estero: la ricchezza degli italiani, insomma, è finora servita in minima parte a sostenere lo sviluppo dell'Italia. I motivi di tale distorsione, ovviamente, non mancano: in relazione alle famiglie giocano il peso psicologico della crisi e delle nubi sul futuro, la precarietà occupazionale, l'alta inoccupazione giovanile e la consistente disoccupazione, il gravame delle tasse e dei balzelli locali, l'illogico aumento di prezzi e tariffe rispetto all'inflazione, ecc.; motivi più che sufficienti a giustificare il risparmio e la volontà di accrescerlo e di conservarlo. Eppure, ecco che qualcosa, ancora una volta, all'improvviso, scatta nel quadrante della storia di questo Paese: le imprese, forse aiutate dal deprezzamento dell'euro, forse sostenute dalla riduzione dei costi energetici, tornano a fare impresa e ad affrontare i mercati internazionali. Ma, fatto ancor più eclatante, è che la gente, l'uomo della strada, sta riprendendo a spendere. Forse, perché l'ammontare dei tassi sul suo conto corrente è dello 0 virgola o, probabilmente, perché risparmia sui costi del carburante, o, forse, perché è stanco di questo clima di oppressione e vuole gioire per l'acquisto di un capo, di un prodotto, di un articolo, per quanto effimero; il fatto è che è tornato a spendere. Il soggetto che mantiene ancora un atteggiamento chiuso, nonostante le sue considerevoli riserve, è il sistema bancario. Se Renzi vuole veramente fare qualcosa di utile per questo Paese, di veramente efficace, predisponga e vari con urgenza un legge di riforma del sistema bancario e operi maggiormente in Europa perché la coerente politica comunitaria del credito torni ad essere ossigeno indispensabile alla radicazione della ripresa. Altrimenti, quelle del Governo restano chiacchiere che, insieme alle tabbacchere 'e ligno, 'o bbanco 'e Napule nun s'impegna. E di chiacchiere ne sono piene le fosse. Opps! …d'accordo, è il manzoniano senno del poi a riempirle. Va be'! Ma tanto è lo stesso. Perché quando il bluff governati-vo sarà scoperto, consolidata o meno ripresa la ripresa, non dal centrosinistra nelle sue varie coloriture ed espressioni, non dal centrodestra nelle varie sfumature bensì dalla fazione renziana, l'occupazione forzata delle stanze dei bottoni, ad ogni livello, sia sul piano amministrativo che politico, sarà avvenuta. Massimo Sergenti


SCENARI

CAMBIARE TUTTO PER NON CAMBIARE NIENTE Nel 1963, Luchino Visconti diresse un altro dei suoi capolavori, Il Gattopardo, tratto dall'omonimo libro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che narrava le vicende del principe Fabrizio di Salina, signore distinto e affascinante, raffinato cultore di studi astronomici ma anche di pensieri più terreni e a carattere sensuale, nonché attento osservatore della progressiva e inesorabile decadenza del proprio ceto. Infatti, con lo sbarco in Sicilia di Garibaldi, narra il film e il libro, va prendendo rapidamente piede un nuovo ceto, quello borghese, che il principe, dall'alto del proprio rango, guarda con malcelato disprezzo, in quanto prodotto deteriore dei nuovi tempi. L'intraprendente e amatissimo nipote Tancredi Falconeri, invece, non esita a cavalcare la nuova epoca in cerca del potere economico, combattendo tra le file dei garibaldini (e poi in quelle dell'esercito regolare del Re di Sardegna), cercando insieme di rassicurare il titubante zio sul fatto che il corso degli eventi, alla fine, volgerà a vantaggio della loro classe. C'è una frase, infatti, che il libro e il film, mette in bocca a Tancredi volta a rassicurare le ambasce dello zio di fronte ai rivoluzionari eventi: Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. In sostanza, sia il libro che il film rimarcano il fallimento risorgimentale, drammaticamente avvertito proprio in Sicilia, dove più vive erano le speranze di un profondo rinnovamento. E, a tale riguardo, un autorevole critico letterario nonché politico comunista Mario Alicata si trovò ad osservare: "Una cosa è cercare di comprendere come e perché si affermò nel processo storico risorgimentale una determinata soluzione politica, cioè la direzione di determinate forze politiche e sociali, un'altra cosa è credere, o far finta di credere, che ciò sia stato una sorta di presa in giro condotta dai furbi (dai potenti di ieri e di sempre) ai danni degli sciocchi (coloro che si illudono che qualche cosa di nuovo possa accadere non solo sotto il sole di Sicilia ma sotto il sole tout court)". A mio modesto e sommesso avviso e con tutto il rispetto per l'illustre commentatore, qui non si tratta di capire come e perché nel processo risorgimentale vennero a prevalere altre forze politiche rispetto a quelle detentrici del progetto originario, finendo per vanificare il progetto stesso, quanto invece perché gli ideali iniziali, da qualunque parte provenissero, finirono per lasciare il posto a intenti, come dire, più materialistici. E, del resto, le forze rivoluzionarie in campo, a quel tempo, tutte animate dall'ideale di un'Italia unita, possiamo riassumerle sostanzialmente sotto quattro colorazioni cultural-politiche: i

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monarchici, i repubblicani, i liberali e i socialisti; forze che nei decenni precedenti, con l'appoggio o con l'avversione dei potenti, si erano a volte alleate e a volte scon-trate. Forse, Alicata avrà voluto sottintendere che, alla fine, non prevalsero i socialisti che, se lo avessero fatto, il destino delle genti meridionali, prima, e italiche, poi, sarebbe stato diverso. A parte il fatto che la storia gli dà torto, resta comunque la realtà che a prevalere, peraltro a scapito delle altre forze, furono solo ed esclusivamente i monarchici, i fautori di un'Italia unita sotto la sovranità di Vittorio Emanuele II. Per meglio dire, l'unità venne sì fatta sotto l'egida sabauda ma, come altri illustri commentatori, anche di sinistra, si sono trovati a notare, da quel momento sono iniziate le traversie non solo della Sicilia bensì del Mezzogiorno e, in via traslata, dell'intera penisola. E, questo, con tutto il rispetto per i valori e gli ideali dell'unità d'Italia. E, ciò in quanto, a conclusione dell'annessione certamente sotto la casata dei Savoia, a prevalere non furono neppure le forze monarchiche tout court bensì personaggi che, al di là dei profondi significati politici iniziali dell'unità da qualunque parte manifestati, mirarono più ad una gestione disinvolta del potere intanto sul Mezzogiorno, scevra di ogni parvenza culturale. Alcuni affermano che la storia è una gran maestra di vita mentre, secondo altri, la storia non insegna alcunché perché non si ripete mai. Credo che ambedue le affermazioni siano giuste e sbagliate al tempo stesso perché ciò che non è mutato negli ultimi 35.000 anni è l'ethos, il comportamento, dell'essere umano. Nel senso che, come affermava Schopenhauer, "Gli uomini (almeno, taluni uomini) mutano sentimenti e comportamento con la stessa rapidità con cui si modificano i loro interessi" audacia temeraria igiene spirituale Sembra quasi di assistere alla storia degli ultimi vent'anni di questo Paese. Dopo la ventata moralizzante di Mani Pulite, l'Italia ha avvertito imperiosamente il bisogno di rinnovare la politica, sia nella gestione che nelle persone che la praticavano, e ha premiato un outsider (a quei tempi), artefice di una mira-colosa unione tra forze di destra, di centro e di sinistra moderata, perché prometteva una gestione illuminata. Una specie di La città del sole, l'opera seicentesca del domenicano Tommaso Campanella che, in uno stile proprio della tradizione esoterica platonica, descrive un'utopia. Nel corso del ventennio l'elettorato, forse animato dalla speranza, premierà quel personaggio per altre due volte: tuttavia, i lumi della sua gestione non sono mai giunti ad illuminare il cammino del Paese. Ma, del resto, il crepuscolo e l'oscurità hanno caratterizzato anche le gestioni della sinistra che nello stesso ventennio si sono alternate. E ciò senza che, dall'una o dall'altra parte, emergesse il soter, il salvatore (ogni riferimento al prof. Monti è da evitare); senza che una parte si imponesse decisamente sull'altra e si radicasse; senza che i nobili intenti delle campagne elettorali trovassero mai sia pur parziale attuazione. Ma ecco che, all'improvviso, all'interno della sinistra prese ad emergere un “rottamatore", intanto della sinistra becera; un giovane animato da tali alti e significativi intenti da suscitare indifferenziate attenzioni e consensi; un giovane privo delle connotazioni e delle


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contrapposizioni ideologiche del passato, anche violente, tra destra e sinistra e aperto, invece, al confronto tra opposti; un giovane, insomma, in grado di rispondere "al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva…!". Un soter, si dirà in appresso, sostenuto dall'" economia sana" del Paese più che dall'appoggio partitico. All'inizio, il cammino del giovane è impervio, accompagnato da una sparuta pattuglia, ma egli non demorde e, stavolta con l'assenso dei potenti del partito, dopo travagliate primarie e l'inusuale risultato delle elezioni del 2013 nelle quali guadagna un più nutrito numero di seguaci, dopo l'incarico di governo ad un suo collega di partito, dopo le più ampie rassicurazioni a quello stesso collega, nell'interesse supremo del partito stesso e dell'Italia tutta, scalza il collega e, con regale investitura, si accinge a governare il Paese. Non è uno sciocco e sa che lo spazio di manovra politica in un Paese membro dell'Unione Europea è piuttosto ristretto; inoltre, ha cognizione delle attese del popolo minuto. Così, nella consapevolezza che occorra bloccare ogni intento reazionario alla sua presa del potere e che, per evitarlo occorra radicarsi, ha un'idea geniale, a discapito dei gufi, dei pesi morti, degli ottusi dell'ideologia e degli avversari furbetti: la via delle tanto attese, auspicate, osannate riforme. Riforma della pubblica amministrazione, delle istituzioni, della scuola, del mercato del lavoro, della legge elettorale, dei criteri di spesa pubblica sono i temi caldi sui quali, coinvolgendo massmedia, maghi dell'informazione e dell'alimentazione, si destreggia, sfida al confronto, inalbera ad esempio, nobilita e s'impegna con rara determinazione. Già, perché è caro agli italiani anche il decisionismo. Al momento, le uniche cosiddette riforme portate nominalmente a compimento sono quelle della scuola, della Pubblica Amministrazione e del mercato del lavoro. In realtà, né l'una né l'altra, né l'altra ancora produrranno i dichiarati risultati. Non giova, qui, dimostrarlo perché vi saranno altre occasioni dove entrare nel merito. Invece, quello che qui importa accennare è che se da un lato la prima finisce per depauperare il patrimonio culturale italiano in nome di un efficientismo e di una allucinante competizione tra territori, peraltro in dispregio del dettato costituzionale, la seconda è un ectoplasma normativo che non tocca minima-mente i veri, contorti, problemi della Pubblica Amministrazione né i suoi astrusi criteri e obiettivi di spesa. La terza, poi, rappresenta finora soltanto un notevole costo pubblico a vantaggio dell'imprenditoria. Ma, come detto, ci sarà tempo e modo per affrontare le pseudo riforme in dettaglio. Nelle more, però, mentre mezz'Italia segue in trepidazione le mirabolanti promesse del soter, sostenute da lavagne e slides esemplificative, lo straordinario giocoliere della parola, quale si è rivelato il nostro presidente del consiglio, ha collocato i suoi collaboratori in tutti i gangli vitali di questo Paese: è l'acquisizione reale, completa, del potere. Il calo dei prezzi energetici, il deprezzamento dell'euro rispetto al dollaro, la voglia di vita degli italiani e, un po', il sostegno del presidente della BCE, Draghi, al di là delle pseudo-politiche italiane, farà il resto.

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Allora, in conclusione, Tancredi aveva torto e ragione al tempo stesso: nonostante il sostegno dato alla rivoluzione garibaldina, nonostante i radicali cambiamenti derivanti dall'unità d'Italia, il ceto al quale apparteneva non tornerà più a primeggiare, a differenza della borghesia. E' stato ed è il destino di molti dove la distinzione tra idealisti e ingenui è sottile. Ma aveva ragione in quanto a metodo di affabulazione. Allora, speriamo, per il futuro, che la considerazione di Schopenhauer sia solo generalistica e che vi sia ancora uno sprazzo idealità e di coerenza. Ovunque, alberghi. Roberta Forte

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POLITICA/L’INTERVISTA

MARCELLO VENEZIANI Questa conversazione con Marcello Veneziani inaugura un ciclo di dieci interviste incentrate sulle prospettive future della destra nel nostro Paese e sulle cause che hanno portato alla debolezza e alla marginalità in cui versa oggi la stessa. Con l'intento dichiarato di analizzare gli errori del passato e, al contempo, fornire spunti ideali e contenutistici a chi, nei prossimi anni, voglia provare nell'impresa di restituire voce alla destra diffusa presente nel Paese. Con le sue "Serate italiane", monologhi dedicati all'Italia, è in giro per l'Italia nel tentativo di risvegliare negli italiani senso di appartenenza, patriottismo e appigli identitari. Un'iniziativa artistico-culturale, partita lo scorso mese di settembre, che si snoda attraverso i principali teatri del Paese e che trae spunto dalla sua ultima fatica editoriale, "Lettera agli Italiani", edito da Marsilio. Giornalista e scrittore, Marcello Veneziani è intellettuale arguto e da sempre rinomato per indipendenza e libertà di pensiero. Schiettezza e autonomia di pensiero ne fanno un pensatore a volte scomodo ma mai asservito. Presidente del Comitato scientifico della Fondazione An, sostiene da tempo che la rifondazione della destra non possa prescindere da un percorso pre-politico che metta la cultura e le idee al centro del progetto. Si torna a parlare, periodicamente, della creazione di un partito di destra. L'assenza di un polo conservatore, infatti, è un'anomalia che ha caratterizzato tutta la storia repubblicana. Per quale motivo è così difficile dare rappresentanza alla destra diffusa presente nel Paese? La destra è stato un arto fantasma in Italia perché da un verso è stata identificata col nazionalfascismo ed è stata perciò demonizzata. E dall'altro è stata surrogata dal moderatismo cattolico, i popolari della Dc. Un partito conservatore in Italia non c'è mai stato, salvo un tentativo con la destra storica. A metà degli anni novanta la nascita di Alleanza Nazionale sembrava aver colmato il vuoto presente a destra. Che cosa rimane di quell'esperienza politica? Fu un errore scioglierla nel 2009 per confluire nel nascente Pdl? Rimane ben poco. La fine ingloriosa del suo leader e del partito, l'esperienza negativa al governo e in alcune grandi amministrazioni locali e l'assenza di tracce cospicue lasciate nel corpo del

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Paese, hanno chiuso quella parabola in modo definitivo, trascinando con sé anche la classe dirigente di quel partito. Nel 2009 An era diventato un clone sbiadito di Forza Italia, perciò la sua confluenza, la sua annessione fu inevitabile. Un tempo disponendo di una forte identità, An avrebbe potuto condizionare la linea politica e culturale del partito unico di centrodestra ma ormai annacquata e avvilita e con un leader che era insofferente verso il suo stesso partito, non c'erano più le condizioni per continuare. Che giudizio da della parabola politica dei due leader che negli ultimi vent' anni hanno retto le sorti del centrodestra, Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini? Berlusconi è stato un grande leader unificatore, un grande seduttore politico, ed un animatore brillante, che però ha deluso nella sua esperienza di governo, pur avendo avuto i governi più duraturi della repubblica. Assediato da tutte le parti, ha costruito poco, si è rivelato un formidabile vincitore di battaglie elettorali ma con uno scarso senso dello Stato e del governo. L'emorragia permanente di alleati e affiliati, perfino cortigiani, è la prova che la sua parabola è finita con la caduta del suo governo, nel 2011. Ed è finita male, a puttane... Fini ha rivelato di essere stato un ottimo speaker ma un pessimo leader, ha sbagliato tempi e modi del suo endorsement, l'ha fatto troppo tardi e troppo presto e poi ha preteso di rompere non solo con Berlusconi ma anche con la destra da cui proveniva. Era possibile concepire uno dei due strappi non ambedue e nello stesso tempo. Ma la presunzione di valere più del suo partito, per un grossolano errore di valutazione dei sondaggi, lo indusse ad una scelta presuntuosa che poi lo portò nel nulla, trascinando nel baratro anche la destra. Nel dibattito sul rilancio della destra si confrontano da sempre due scuole di pensiero. Centrodestra o destra, qual è a suo giudizio la formula giusta? La destra deve fare la destra, quando si allea dà vita al centro-destra, ma non può pretendere di recitare due parti in commedia. Del resto la riduzione del bipolarismo a bipartitismo è fallita in Italia, vistosamente, e oggi non c'è più nemmeno il bipolarismo, con un leader pigliatutto al centro e tre-quattro opposizioni intorno. Lei ha indicato un percorso pre-politico e culturale che accompagni la fondazione di un partito di destra. Perché a destra la cultura e l'elaborazione di idee sono sempre stati visti con sospetto? Perché la destra nasce pragmatica e realista e diffida delle utopie e degli intellettuali. Sarebbe in effetti arduo immaginare a destra intellettuali collettivi e organici. Ma rinunciare alla cultura, e alla cultura politica, muoversi sull'onda dei leaderismi di passaggio non porta da nessuna parte come si è visto.


POLITICA/L’INTERVISTA

Su quali basi ideali può rinascere la destra in Italia? Sulla rappresentanza di un'Italia vera, profonda che oggi non è rappresentata e che si impernia sul valore della tradizione, sul primato della politica e del sociale sull'economia e sulla tecnica, sulla sovranità e la decisione, sullo spiritualismo politico e il senso della civiltà. La devoluzione di poteri verso l'Europa e il processo di globalizzazione hanno messo in crisi i vecchi Stati nazionali e le rispettive prerogative. Tutto ciò riguarda, naturalmente, anche l'Italia. Come affrontare da destra il tema della sovranità perduta? Rappresentando il percorso antagonista a questo processo, cioè l'importanza decisiva delle sovranità, popolari e nazionali, politiche ed economiche, come necessaria compensazione del processo di globalizzazione. La destra, ha ribadito lei, deve necessariamente riscoprire i valori nazionali e tradizionali. In che modo è possibile declinarli ai nostri tempi? A partire dalla bioetica, dalla vita e dalla difesa della nascita, della famiglia naturale, del legame ereditario, dalla convinzione che l'essere nati in un luogo, da quei genitori, in quel tempo non sia solo un accidente, un fatto casuale ma un destino. Tradizione è senso della continuità e non solo rispetto del passato, è eredità e gravidanza insieme, origine e futuro. Viviamo, tuttavia, in un mondo in cui la tecnologia corre veloce e le scoperte scientifiche si susseguono. Che rapporto può esservi tra destra e scienza? La scienza è uno degli ambiti primari in cui si esprime l'umanità e dunque massimo sostegno alla ricerca scientifica. La tecnica è un formidabile mezzo per migliorare le condizioni di vita; ma deve restare un mezzo, non può ergersi a fine, non può decidere i processi e i percorsi. Alleanza Nazionale è sempre stata accusata di eccessivo statalismo. Lei ha parlato di una destra che recuperi la dimensione sociale. Come deve essere la destra in economia? Viviamo una fase strana in cui il capitalismo globale si accompagna a forme coattive di dirigismo economico, si pensi ai diktat dell'UE. Dopo il fallimento del socialismo, fu salutare la riscoperta del mercato e dell'iniziativa privata. Ma ora è tempo di riassestare la bilancia, e ridisegnare una nuova economia sociale di mercato, con la politica capace di governare i processi, guidarli ma non gestirli, più autorevole ma meno statalismo.

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Sulla riduzione delle tasse, Renzi viene accusato dalla minoranza interna del Pd e da Berlusconi di aver copiato il programma del centrodestra. Il premier, insomma, cerca consensi in modo trasversale prefigurando, sostengono in tanti, la nascita del partito della nazione. In questo scenario, dove è lo spazio per una proposta politica di destra? La politica di Renzi rende del tutto obsoleto il berlusconismo, di cui ne è da un verso la cura omeopatica e dall'altro la continuazione dinamica, politicamente corretta e anagraficamente ringiovanita. Piuttosto che inseguire forme estemporanee di liberismo straccione, meglio tentare altre strade; una destra liberale è spiazzata da Renzi, una destra sociale assai meno. Il governo accelera anche sulle unioni civili. E' giusto riconoscere diritti alle coppie di fatto eterosessuali e alle unioni tra persone dello stesso sesso? La destra deve rappresentare la voce critica rispetto a questo processo. Non deve indulgere nell'omofobia ma deve denunciare l'omolatria in atto, niente isterismi rozzi ma condannare il mercatino delle nascite e gli uteri in affitto e ribadire il primato della famiglia e la sua tutela; le altre unioni rientrano nella sfera del privato, la famiglia invece ha uno statuto pubblico perché è la struttura naturale e culturale in cui si perpetua una società. Con la riforma del Senato scompare il bicameralismo perfetto. Al contempo, seppur con una forma di elezione mediata, saranno i consigli regionali ad esprimere i nuovi senatori. Cosa ne pensa della riforma del Senato? Ha un solo lato positivo, evita i doppi giri delle leggi, rende più spedito il parlamento. Poi l'idea di far nascere una camera delle regioni, sostanzialmente non elettiva, e di affossare un'istituzione millenaria nata proprio a Roma come il senato, è una follia. E sono ridicoli i risparmi effettivi che ci saranno. L'attacco dell'Isis all'Occidente è, ancor prima che militare, ideale. Per quale motivo il messaggio culturale dell'Occidente continua ad essere debole di fronte all'avanzare del fondamentalismo islamico? Perché l'Occidente si vergogna delle proprie origini e della propria identità, non è capace di difendere la sua civiltà, è in fuga dalle sue matrici religiose, ed ha una paura matta di combattere e di morire. Invoca i droni... Ma se la vita è il valore supremo dell'occidente, non ha possibilità di scamparla... Giuseppe Farese


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NE RESTERA’ SOLTANTO UNO Per l'Occidente sono giorni di lutto. La strage di Parigi è stato un deliberato atto di guerra compiuto dal radicalismo islamico jihadista. Tuttavia, non ci si può fare scudo del dolore per schivare le responsabilità occidentali che vi sono state nel determinare le condizioni che hanno condotto agli esiti nefasti di questi giorni. Troppe volte sono stati ignorati i segnali d'allarme che hanno squillato invano. La pretesa di potere fraternizzare con chi esplicitamente dichiara di volere abbattere la nostra civiltà si è dimostrata una drammatica illusione. L'Occidente, ricco e supponente, ha creduto, con la globalizzazione economica, che il mondo in sé fosse divenuto un immenso, unico bene fungibile da mettere sul mercato. Aver pensato di annullare, insieme alle barriere doganali, le incolmabili diversità culturali che sussistono dai primordi dell'umanità è stato un errore colossale. L'aver teorizzato che i modelli istituzionali, al pari degli stili di vita, potessero essere esportati in contesti sociali lontanissimi dalle democrazie europee e nord-americane è stato un infantile miraggio. Tutte le guerre condotte nell'ultimo quarto di secolo dalla coalizione occidentale fuori dalla propria giurisdizione sono state rovinose. Peggio, hanno risvegliato antichi odii solo in parte sopiti e sfrenate ambizioni di apparati di potere che fino a quando non sono stati costretti a mettersi alla prova del conflitto armato non erano consapevoli del proprio potenziale aggressivo. L'approccio più devastante si è riscontrato nelle aree a forte incidenza islamica. È accaduto in Afghanistan, in Iraq, in Libia, stava per accadere in Egitto e oggi in Siria. Il tentativo di condizionare le forme statuali di civiltà complesse ha avuto come esito quello di liberare le forze di un radicalismo religioso arricchito dall'apporto di una compiuta ideologia del riscatto. Ma le responsabilità dell'Occidente non si limitano alle scelte sbagliate degli ultimi anni. I problemi arrivano da lontano. Almeno da quando in Europa le vecchie potenze hanno deciso di rinnegare il tradizionale colonialismo, fondato sulla forza stabilizzatrice degli Stati dominanti, per fare posto a un nuovo paradigma di colonizzazione motivato esclusivamente dal fattore economico. È stato il trionfo del colonialismo delle multinazionali, solo apparentemente più liberale perché riconosceva l'autonomia politica delle aree assoggettate le quali potevano abbandonarsi all'illusione di forme di governo autonome e indipendenti dalla subordinazione ai vecchi dominatori. In realtà, il nuovo assetto puntava soltanto allo sfruttamento indiscriminato dei territori.

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Per conseguire i propri scopi di profitto le imprese sovranazionali, particolarmente quelle del settore energetico e agroalimentare, non si facevano scrupolo di influenzare le scelte politiche locali favorendo l'avvento al potere di classi dirigenti autoctone imbelli e corrotte, ma facilmente condizionabili. I poteri finanziari non mostravano alcuna attenzione per le condizioni di arretratezza nelle quali venivano precipitate le popolazioni incrementando la divaricazione della forbice sociale tra ristrette élite arricchitesi illegittimamente e masse popolari impoverite ai limiti della sopravvivenza materiale. Era evidente che prima o dopo i nodi dovessero venire al pettine. Già in passato, mentre nell'area d'influenza islamica estesa dall'Africa mediterranea a tutta la regione mediorientale prendeva corpo il fenomeno del nazionalismo panarabo connotato da forti istanze terzomondiste e antimperialiste, nella fascia sub-sahariana ed equatoriale dell'Africa, sul finire dello scorso secolo, abbiamo assistito all'insorgere di movimenti rivoluzionari di liberazione di stampo marxista. La presenza sulla scena globale di un blocco comunista potentissimo, articolato nella doppia espressione sovietica e cinese, aveva favorito la radicalizzazione delle lotte interne agli stati post-coloniali. Dall'Angola all'Etiopia, dal West Africa al Mozambico, gli esempi non sono mancati. La fine della spinta propulsiva impressa dalle potenze rosse, che alimentavano anche economicamente la destabilizzazione delle aree periferiche del pianeta, ha determinato la crisi di questi movimenti. Tuttavia, la caduta del movente ideologico non ha annullato il problema. La permanenza delle condizioni di sfruttamento imposte dai sistemi di produzione delle multinazionali ha deviato la domanda di rappresentazione delle istanze sociali delle masse diseredate verso nuovi canali di circolazione della protesta, ben distanti dai meccanismi propri delle democrazie liberali. È, allora, accaduto che in non pochi contesti il rifiuto del modello occidentale assumesse le forme, prepolitiche, dell'integralismo religioso. Il fenomeno descritto ha riguardato particolarmente le comunità a maggioranza musulmane. L'Is -lo stato islamico- non è, quindi, la radice del problema ma il suo effetto estremo. Nella sua capacità di dotarsi di uno spazio fisico autonomo, l'Is è divenuto il luogo d'elezione di un islamismo che promette di declinare le aspirazioni a un glorioso futuro ultraterreno nel nome di Allah con la missione, tutta terrena, di un riscatto sociale degli oppressi. La prassi della violenza, adottata dai combattenti islamici, particolarmente cruenta che tanto orrore ci provoca, non rappresenta una novità nel genere. Vi sono analoghi esempi di ferocia delle masse che hanno accompagnato e connotato i momenti più oscuri della degenerescenza della cultura millenaria dell'Occidente. Gli jihadisti dell'Is deportano e schiavizzano le popolazioni conquistate secondo schemi operativi già sperimentati dal nazismo e dall'Unione Sovietica di Stalin. Essi bruciano vive le loro vittime ricalcando il modello afflittivo utilizzato dal braccio secolare della Chiesa di Roma ai tempi dell'Inquisizione; tagliano teste come erano soliti fare i sanculotti della Rivoluzione francese; stuprano e massacrano come i bolscevichi della Rivoluzione d'Ottobre. Non è dunque nella grammatica del terrore che vanno cercate le differenze tra due universi inconciliabili.


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Osservata da questo angolo visuale, anche la questione della contrapposizione tra l'esistenza di un islamismo radicale differenziato da una sua versione moderata perde di consistenza. Non vi è dubbio che il jihad politico-religioso non risparmi i credenti della stessa fede che sono accusati di intelligenza con il nemico. Ma l'accusa non verte sui canoni ermeneutici dei testi sacri quanto sulla mancata redistribuzione della ricchezza prodotta. E, viceversa, la paura dei regimi e delle classi sociali islamiche cosiddette moderate non si concentra sull'allontanamento progressivo dagli stili di vita vincolati alla cogenza della Shari'ah, quanto sul timore di perdere le posizioni di potere e la forza economica accumulate. Ciò determina in alcuni degli attuali regimi islamici ambiguità apparentemente non decrittabili con gli strumenti analitici convenzionali adottati dagli osservatori occidentali. La complessità di lettura del fenomeno è riassumibile in un'elementare domanda: perché dinastie ricche come quelle dell'Arabia Saudita, del Qatar o degli Emirati del Golfo continuerebbero sottobanco a finanziare i terroristi pur condannandone l'azione pubblicamente e pur partecipando simbolicamente a coalizioni armate impegnate a combatterle? C'è molto di più del semplice apparentamento religioso, scaturito dalla comune radice del wahhabismo e del salafismo, correnti endogene dell'emisfero sunnita, a giustificare i legami sotterranei che legano gli integralisti ai regimi dialoganti con l'Occidente. Certamente vi è l'interesse dell'establishment sunnita a servirsi dei radicali come braccio armato nel conflitto periferico, a bassa intensità, con l'altra metà del cielo islamico: quello sciita. Ma, prima di ogni cosa, vi è l'interesse delle classi dominanti di mantenere il contatto con una realtà che se fosse lasciata totalmente libera di dilagare porrebbe a rischio l'egemonia delle odierne leadership e condurrebbe al sovvertimento dei rapporti di potere all'interno del mondo sunnita. Tuttavia, il jihadismo, per fare breccia presso larghi strati di popolazione, ha dovuto darsi una prospettiva di lungo respiro. Sarebbe più appropriato parlare di una Weltanschauung, cioè di una visione del mondo o meglio di un'esatta prospettiva di collocazione del credente in Allah nel divenire della storia. Il radicalismo non poteva limitarsi a vivere nell'hortus conclusus del rivendicazionismo economico, condizionato da un' improbabile riedizione della lotta di classe, che invece fu il limite politico del panarabismo nazionalista di marca nasseriana degli anni Cinquanta del Novecento. Non è il benessere materiale dei singoli individui o di una classe sociale che poteva fungere da piattaforma a un progetto di costruzione di un'umanità antropologicamente rinnovata. Bisognava spingersi sul terreno più pericoloso, ma da sempre ambito, dello scontro di civiltà elevando il conflitto con l'Occidente a una dimensione escatologica. Il rifiuto del modello culturale dei paesi avanzati, ormai incamminatisi sul crinale scivoloso del consumismo, coincide con la negazione assoluta, portata dal piano etico a quello metafisico, degli stili di vita che da quel modello reietto scaturiscono. Se la privazione è lo stigma dei veri credenti in Allah, quali gli jihadisti si definiscono, per contro la società del benessere materiale incarna la natura fisica, immanente, del Male.

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Da questa equazione si origina la giustificazione dello sterminio degli infedeli che non accettano di sottomettersi e l'enfatizzazione della guerra totale come fase obbligata di transito verso la soluzione definitiva del conflitto ontologico delle culture antagoniste. L'intero apparato simbologico dei terroristi dell'Is rimanda alla visione cosmogonica di un universo da ridefinire nei suoi contorni spirituali, attraverso l'inversione dei rapporti di forza attualmente in essere. Per quanto paradossale sia, assistiamo all'alba del terzo millennio, per mano del troncone radicale dell'Islam, all'inverarsi di un'iperbole, generata nella tradizione tardoromantica del pensiero tedesco a cavallo tra il XIX e il XX secolo: l'affidamento della creazione del nuovo tipo umano all'azione purificatrice di un'apocalissi palingenetica. Non appaia azzardato il paragone, ma ritroviamo assonanze nelle atmosfere generate dallo jihadismo con il clima della Monaco di Baviera degli anni che precedevano il primo conflitto mondiale, dove nella "ribollente vena" dei circuiti völkisch circolava il messaggio di Alfred Schuler, mago, metafisico e visionario che inneggiava al ritorno di un "socialismo arcaico" esente da ogni senso egoistico e borghese della proprietà e vindice della società parcellizzata espressione del modello capitalistico dei rapporti di produzione. Appare ancor più sorprendente la sovrapposizione di un credo monoteista, sebbene largamente reinterpretato nella decodificazione del messaggio originario, alla visuale dualistica-apocalittica, concretata nella contrapposizione Bene-Male, propria della gnostica pagana dell'inconciliabilità delle due nature. Non è un caso se la rivista d'informazione pubblicata dai terroristi dell'Is sia titolata "Dabiq" che è il luogo situato nel nord della Siria dove, secondo la Sunna coranica, si svolgerà la battaglia finale tra musulmani e cristiani. Ma Dabiq è anche la profezia del ritorno alla terra delle origini, alla casa dello spirito. Tuttavia anche questa identificazione spazio-temporale non rappresenta una novità: Dabiq sta ai musulmani come l'Armaggedon dell'apocalittica giovannea sta ai cristiani. L'elemento di novità che meriterebbe di essere indagato è un altro. Nella forza d'attrazione centripeta dello Stato Islamico che non disdegna, come obiettivo di breve termine, di consolidarsi quale stato nazionale, si riscontra una nuova modalità di ricomposizione di istanze razziali sul comune denominatore dell'identità religiosa in luogo dei tradizionali assiomi fondati sulla mistica del sangue e del suolo. Non è il "Blut und Boden" dell'irrazionalismo tardoromantico tedesco, filtrato dalla Rivoluzione Conservatrice e approdato all'ideologia nazionalsocialista del NSDAP di Adolf Hitler, piuttosto, fatti i dovuti distinguo, vi si scorgono lontane assonanze con la rassich-seeliche Weltbetrachtung - la concezione razziale-animica del mondo- evocata da Alfred Rosemberg sulle tracce della psico-cosmogonia di Ludwig Klages. Dalla prospettazione jihadista emerge la figura del credente in Allah che metabolizza nella pratica quotidiana gli archetipi di un'umanità superiore, forgiata nell'idem sentire della professione di fede. È significativo, da questo punto di vita, l'egualitarismo al quale hanno accesso tutti coloro che in un dato momento del percorso esistenziale si sottomettono al vero


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dio. Quindi, la condizione identitaria è riconosciuta sulla preesistenza del paradigma della lotta come strumento di assimilazione della comunità di destino. Nell'orizzonte jihadista non vi è la creazione della polis ma il riconoscimento della forma superiore di comunità, la Gemeinschaft. Le distanze geografiche e sociali si annullano nel supremo interesse dello Jihad. Siamo al cospetto di una nuova antropologia che non considera più inglesi, arabi, francesi, berberi o ceceni, ma assegna al musulmano, al credente nell'unico dio compassionevole e misericordioso il compito di impersonare il macro-tipo umano destinato alla vittoria finale sui nemici. Questo è il profilo della nuova razza padrona; la sua cifra connotativa è la consapevolezza di una superiorità vincente rispetto alle brame e ai progetti della controparte maledetta. Siamo al nocciolo della questione. Se una parte dichiara guerra all'altra in nome della sua presunta superiorità. L'altra, la parte attaccata, ha davanti a sé due sole strade: o la riconosce e quindi si sottomette oppure vi contrappone la propria superiorità, allora affida al campo di battaglia il potere di risolvere la contraddizione non componibile degli inconciliabili. Ora, la sensazione è che la civiltà occidentale abbia scelto la prima via pur senza dichiararlo esplicitamente, ma come si suole dire, per facta concludentia. Un esempio. Non occorre confessare il proprio disinteresse a proseguire nel solco della tradizione millenaria della propria civiltà, è sufficiente dire, come fanno i campioni del multiculturalismo nostrano ed europeo, che: "degli immigrati c'è gran bisogno perché con i loro contributi si pagano il welfare e le pensioni ai nostri anziani e generando essi numerosa prole si assicura l'equilibrio demografico alle nostre comunità". Questa è una classica dichiarazione di resa, comunque la si giri. Altro esempio. Sul fronte della sicurezza interna, quando gli jihadisti compiono atti terroristici, piuttosto che rispondere con rappresaglie di decuplicata intensità, basta negoziare un accordo sulla falsariga del "lodo Moro" in auge negli anni Settanta, con il quale si accetta il compromesso: vi facciamo usare il nostro territorio a vostro piacimento, in cambio promettete di non farci del male. Uno Stato che si piega è un corpo debole, destinato a essere sopraffatto: è legge di natura che i più forti signoreggino sui più deboli. Non sarà questione dell'oggi e neppure di domani, ma alla lunga procedendo su questa china la nostra civiltà è destinata a tramontare. Il radicalismo islamico lo ha compreso e per questa ragione non intenderà mollare la presa fino all'esito finale. Lo ha imparato ascoltando la voce dello Zarathustra di Friedrich Nietzsche che sentenziava: "Non vi consiglio lavoro ma lotta. Non vi consiglio la pace, ma la vittoria. Il vostro lavoro sia lotta, la vostra pace vittoria!" o leggendo con attenzione le pagine del Mein Kampf nelle quali il suo autore, Adolf Hitler, proclamava: " Chi non è capace o pronto a lottare per la sua esistenza, costui la giusta provvidenza ha già votato alla rovina". Con ciò dimostrando che c'è più pensiero occidentale nel Pantheon dei combattenti di Allah di quanto essi stessi sappiano.

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Per contro, c'è l'altra via che è quella dell'opposizione che passa per il riconoscimento della propria esclusiva superiorità. Questa strada, che in parte attinge alle medesime fonti del pensiero occidentale alle quali si sono abbeverati occultamente gli jihadisti, si fa fatica a intraprenderla perché nel tempo dell'ipocrisia nessuno o quasi ha l'animo di pronunciare quella parola così tanto politicamente scorretta da destare scandalo: "superiore". Dopo secoli di egemonia egualitarista scaturita dal trionfo del razionalismo oggi diviene faticoso finanche concedersi al concetto di diversità culturale, figurarsi se si trova il coraggio di saltare l'ostacolo e tornare a posizionare le cose nel giusto verso. A suo tempo provò la compianta Oriana Fallaci a dare l'allarme pronunciando la parola-tabù ma fu inondata di disprezzo e di sputi dai perbenisti del multiculturalismo militante. La Fallaci lo disse e lo scrisse senza mezze misure, per questo è un dovere ricordare le sue parole: " Bé, se proprio vuoi saperlo, a me dà fastidio perfino parlare di due culture: metterle sullo stesso piano come se fossero due realtà parallele, di uguale peso e di uguale misura…Loro(i musulmani)…invadendo, saccheggiando, massacrando, soggiogando, portaron soltanto la primitiva cultura d'un mondo che si basava sulla tirannia, la bigotteria e la crudeltà. Seppero imporre soltanto gli usi e gli abusi d'una religione che copiava, che copia, il peggio delle religioni sorte prima di lei. Insegnarono soltanto i versetti d'un libro mai discusso, mai messo in dubbio, mai revisionato. Un libro che malgrado ciò pretende di condensare la storia del genere umano e dominarla anche attraverso il passato remoto…". Nella sfida lanciata dal radicalismo islamico è in ballo l'egemonia di una civiltà che prova a estendersi a livello globale. Vi è negli sfidanti la consapevolezza dell'uso della guerra come unico strumento efficace per rimuovere gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento dello scopo finale. Ora, l'Occidente si attarda a discutere su quale sia la natura del fenomeno che ha davanti e come potervi ovviare senza mettere in discussione i principi ai quali finora ha ancorato i suoi modelli di progresso. Tuttavia, molto presto, e Parigi in questo senso non è che un primo assaggio, il nostro mondo, che soffre degli effetti urticanti della parola guerra, dovrà prendere atto che non importa più ciò che esso elabora e metabolizza: l'unica cosa che conta è la realtà. E la realtà restituisce la verità indelebile di un'aggressione violenta in atto che non accenna ad arrestarsi. È bene, dunque, che quest'Occidente metta da parte le tentazioni masochiste a cinguettare con l'idea del suo tramonto e prenda le armi per chiudere la partita con il nemico, prima che sia troppo tardi. Perché un futuro da schiavi sarebbe incommensurabilmente peggiore di un futuro di morte. Perché una morte spesa per una giusta causa ha in sé qualcosa di nobile, di spiritualmente elevato, che riscatta l'uomo dallo stato di cattività in cui versa la sua esistenza succube di stili di vita decadenti. La sottomissione al nemico non ha nulla di tutto questo, è soltanto onta. È vita privata della forza redimente dell'onore. E una siffatta esistenza meriterebbe di essere vissuta? La questione è posta! Cristofaro Sola


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A DESTRA QUALCOSA SI MUOVE Sta nascendo Azione Nazionale. Una nuova formazione che avrebbe l'ambizione di colmare l'attuale vuoto programmatico ed offrire un punto di ancoraggio a tutti quei cittadini che, pur sentendosi orientati a destra, non apprezzano le spinte populiste, non credono in una possibile ripresa di Forza Italia e del suo leader, sono delusi dall'appiattimento di Fratelli d'Italia sulle posizioni leghiste e sono attenti ai contenuti. Il nuovo movimento punta infatti a migliorare la qualità dell'offerta politica a partire dai programmi, memore, a differenza di altri, dell'esperienza e della cultura di governo maturate da Alleanza Nazionale. Il nuovo soggetto politico prende le mosse dalla cosiddetta "mozione dei quarantenni" presentata nel corso dell'ultima assemblea della Fondazione Alleanza Nazionale e che ha coagulato intorno a sé un folto gruppo di personale politico riconducibile, per la maggior parte, ad An. Il 28 novembre a Roma, al Teatro Quirino, avrà luogo la prima manifestazione pubblica di Azione Nazionale. Supportano l'iniziativa molte associazioni, tra cui Libera Destra, presieduta da Gianfranco Fini. Sarà la volta buona? Difficile, allo stato, fare previsioni. Tutto è accaduto in gran fretta e ciò non ha ancora consentito una seria riflessione sulle regole dello stare insieme, sulla meritocrazia, sulla leadership, sui contenuti programmatici. Ogni cosa è ancora in bozza. Se le cose andranno per il verso giusto assisteremo alla nascita di una creatura alata come la vittoria. Se, invece, dovessero prevalere vecchie logiche e vecchie culture politiche - e non basta l'annunciato ricambio generazionale per scongiurare il pericolo - allora si vedrebbe un'altra montagna partorire un topolino. A chi scrive tre cose, per ora, non vanno giù: le decisioni a tavolino, il "ghetto generazionale", la mancanza di una chiara leadership. Si possono comprendere le decisioni d'urgenza purché provvisorie, il resto non sembra ragionevole. Ma ci sarà tempo e spazio per discuterne, se è vero che sarà una formazione plurale. Angelo Romano

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PIANGI, CHE NE HAI BEN DONDE, ITALIA MIA Il tema proposto, inevitabilmente, spingerà tanti di noi a rievocare la scena del "Gattopardo" in cui Tancredi, confidando allo zio, il Principe di Salina, di volersi unire alle truppe Garibaldine, giustifica la sua scelta con la celebre frase: "Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?" La citazione ritorna con metodica frequenza nelle italiche analisi, ma non sempre in modo "appropriato". La propensione più diffusa, infatti, è quella di imputare alla classe politica la "volontà" di perpetuare una condotta manichea e strumentale, tesa esclusivamente a creare i migliori presupposti per la propria "tutela". In effetti l'analisi "sociologica" della politica italiana, dalla caduta di Romolo Augustolo a oggi, "favorisce" questa interpretazione, relegando in contesti "secondari" ed "eccezionali" i momenti in cui, "Rari nantes in gurgite vasto", sono stati capaci di scrivere "una bella storia". E' proprio partendo da quest'ultimo concetto, pertanto, che è possibile "ribaltare" l'assunto sopra esposto: non è la classe politica colpevole dell'inerzia atavica e dello "stallo" di un'intera nazione, bensì un popolo che, in massima parte, non è stato mai capace di "emanciparsi" da uno stato di "subalternità", in qualsiasi contesto. Un popolo la cui classe politica è stata, ed è, la "proiezione" più rappresentativa di tutte le sue caratteristiche: maggioritarie quelle negative; largamente minoritarie o del tutto assenti le positive. La minoranza illuminata, che almeno nella "società civile" è sempre esistita, inevitabilmente è finita schiacciata dal lerciume imperante. Occorrerebbe un libro (e del resto ne esistono tanti e di ottima fattura) per cesellare compiutamente quindici secoli di storia scanditi da una condotta quasi sempre vergognosa. Qui basterà ricordare, a mo' di sinossi, il celeberrimo "Franza o Spagna purché se magna" di guicciardiana memoria, i delicati versi leopardiani del canto "All'Italia" e gli ancor più delicati versi danteschi del 6° canto del Purgatorio. Detto questo, "obbedisco" alla direttiva del Direttore e mi accingo a scrivere una pacata riflessione sul tema proposto. Mi pesa, e non poco, ottemperare a tale compito - voglio precisarlo subito - perché trovo fuorviante ed eccessivo "gratificare" quel "signore" che si è impadronito del Paese, dedicandogli il tempo necessario alla redazione dell'articolo. E la nausea, ovviamente, aumenta in virtù delle tonnellate di carta quotidianamente sprecate per parlare del "nulla". Mi sforzerò, pertanto, di non cadere nella trappola della "facile" decantazione della sua inconsistenza, cercando di andare più a fondo senza uscire fuori tema.


POLITICA/PUNTO DI VISTA

La penna più brillante del giornalismo italiano, Marco Travaglio, in un recente articolo ha ben inquadrato la dicotomia tra la sciagurata epopea berlusconiana e i tempi attuali, dominati dal rampante arruffapopolo. La differenza sostanziale, tra i due, è che Berlusconi, "avendo sempre un piede in galera", le porcate doveva attuarle per "costrizione e disperazione". Renzi, invece, le fa per convinzione. Per Berlusconi le "leggi vergogna" erano una necessità; per Renzi sono "un piacere". E del resto, da uno che suggerisce ai suoi cortigiani di non perdere tempo a studiare i classici della politica, ma di guardare con attenzione la fiction statunitense "House of cards" (insulsa rappresentazione di come si possa e si debba gestire il potere politico ad esclusivo interesse di chi lo detenga), non è che si possa pretendere qualcosa di buono. E' del tutto inutile, pertanto, ribadire che siamo in presenza dell'ennesimo ciarlatano che spara minchiate a profusione, divertendosi un mondo nel vedere come sia facile prendere per i fondelli un intero popolo, promettendo riforme in parte destinate a restare inevase e in parte utili solo alle lobby malsane che tutelano lui e loro stesse. E' storia vecchia, come già detto. La "scossa" forte va data alla cosiddetta "opinione pubblica", in particolare ai giovani, perché se "davvero vogliamo cambiare le cose affinché cambino realmente", è solo da un'azione "dirompente" di matrice "rivoluzionaria" (termine utilizzato - sia detto a scanso di equivoci - nella sua accezione più nobile) che si possono creare i presupposti per quella "svolta" che la Storia d'Italia attende invano da secoli. Lo so bene che a questo punto a tanti cascheranno le braccia, apparendo "utopica" e "irrealizzabile" tale ipotesi. Non è impresa facile, in effetti, non solo alla luce di una realtà che, perdendosi nella notte dei tempi, non lascia adito a illusioni, ma anche in considerazione di ciò che la cronaca ci propina quotidianamente: uno scollamento generale e un torpore da ultima spiaggia, che avvantaggiano proprio coloro che traggono principale alimento dall'altrui debolezza. "Spes", tuttavia, come sempre è l'ultima dea. Non siamo nella Francia del 1799, è vero, né nella Russia del 1917 e neppure nell'isola di Cuba offesa e vilipesa dal bandito Batista negli anni cinquanta, cacciato da Castro e dal "Che". Siamo, invece, nel paese che "sconvolse" Carlo VIII di Francia nel 1494, allorché, pensando di scendere in Italia "a guerreggiare" per conquistare un po' di Stati, trovò porte aperte in Savoia, a Milano, a Firenze, a Napoli, con accoglienze festose per sé e per i suoi soldati. E siamo anche il Paese che è stato capace di ordinare al Mantegna di dipingere il "Quadro della Vittoria", per celebrare proprio quella contro Carlo VIII a Fornovo sul Taro, nel 1495. Peccato che il poderoso esercito della "Lega Italica", nato sotto l'egida del Papa Alessandro VI, nonostante "giocasse in casa" e fosse quasi il doppio delle truppe francesi, in ritirata e senza rifornimenti, le prese di santa ragione e non riuscì a catturare il Re. Ma gli italiani si "impossessarono" della vittoria, perché da noi così si fa, da sempre. Si vince anche quando si perde. (Caro Direttore, mi prudono le dita pensando a ciò che scriverei sulle due guerre mondiali…)

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POLITICA/PUNTO DI VISTA

Da "sempre", ma non "per sempre". La Storia ha una sua nemesi che può sonnecchiare anche per molti secoli. Quando meno ce lo aspettiamo, tuttavia, il sonno della ragione non partorirà più mostri e, un popolo intero, smetterà di chiedersi se sia "più nobile all'animo umano patire i dardi e i sassi dell'iniqua giustizia, oppure levarsi in armi in un mare di triboli, per, combattendo, disperderli". E quando ciò avverrà, caro Renzi & Co., per i tipi come te e i cortigiani che ti leccano il sedere, vi è una sola prospettiva. In Francia si chiamava "ghigliottina". Noi siamo più buoni: ci accontenteremo di mandarvi nelle patrie galere e di mantenervici a lungo. "Stai sereno" per il vitto. Non ti avveleneremo. Siamo persone civili, noi. Dell'alternativa, che è il vero problema "serio" sul quale vale la pena soffermarsi, ne parliamo in altra occasione. Lino Lavorgna


EUROPA/VISIONI EUROPEE

EUROPA SCRIVE A PAPA FRANCESCO Carissimo Papa Francesco, sono la Principessa Europa, figlia di Agenore re di Tiro, nipote di Poseidone e moglie concubina di Zeus. Permettimi, pertanto, di rivolgermi a Te con rispettoso affetto, ma anche con l'utile confidenza che è lecita tra pari, a beneficio delle cose che ho da riferirti: Tu sei l'espressione terrena del Dio dei Cristiani; io un Dio l'ho sposato e di un altro sono nipote. In primis vorrei mettere subito in chiaro un elemento importante legato alla mia persona, per correggere una grossolana sciocchezza che gli storici perpetuano da secoli. Quando si parla del mio incontro con Zeus, si usa la parola "ratto", quasi come se io fossi stata rapita e costretta a unirmi a lui contro la mia volontà. Niente di più falso. Ero con le mie ancelle a dilettarmi sulla spiaggia di Tiro (stupenda, allora, con un mare cristallino e dintorni verdeggianti che dipanavano verso una città meravigliosa, per nulla assomigliante a quell'agglomerato brutto e caotico dei tempi attuali) e Zeus "atterrò" dopo aver assunto le sembianze di un toro. Sorridendo, mi adagiai sul suo groppone e volai con lui tra gli applausi delle mie ancelle! E vorrei vederla, del resto, una donna mortale che facesse la schizzinosa riluttante al cospetto di un Dio! I tanti grandi Artisti che hanno dipinto quell'incontro, essendo molto più intelligenti e lungimiranti degli storici, hanno ben compreso come si fossero svolti i fatti: in nessuna opera si percepisce anche un minimo gesto men che dolce, delicato, gradevole. Non sembri questa una precisazione di poco conto: è davvero una brutta cosa pensare che il continente cui ho dato il nome affondi la sua genesi in una violenza carnale. Veniamo ora ai problemi di oggi. Tu hai dimostrato grande forza, oltre che grande saggezza, e pertanto ritengo che sia l'unica persona al mondo, in questo momento, in grado di scuotere le coscienze dei potenti e indurli a trovare il coraggio per bloccare la pericolosa deriva verso cui stiamo scivolando. Diciamoci le cose esattamente come sono, senza girarci troppo intorno. Fermo restando, infatti, tutto il male che si possa dire dei politici, per la loro facile propensione a gestire il potere pensando innanzitutto al loro tornaconto personale, per certi scenari "continentali" e "globali" dobbiamo necessariamente fare i conti con altri aspetti: i limiti della natura umana, che spingono a quell'atteggiamento "dilatorio", magistralmente rappresentato nella celebre frase di Don Abbondio: "Il coraggio uno non se lo può dare". E' evidente, infatti, che certe scelte - certe "non" scelte - sono condizionate dalla paura. Più che legittima, tra l'altro, non solo per le possibili conseguenze cui sarebbero esposti i decisori, che ovviamente ben sanno come i migliori apparati di difesa e di sicurezza siano sempre insufficienti

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EUROPA/VISIONI EUROPEE

contro un terrorismo in crescente evoluzione, ma anche per i rischi insiti in tutti i Paesi, per i possibili attentati cui sono esposti gli inermi cittadini. E' ben chiaro, però, ce lo insegna la matematica, che ogni problema "risolvibile" ha solo una soluzione, magari raggiungibile da due percorsi diversi, ma pur sempre confluenti in quell'unica soluzione. Ogni giorno, il contadino che vuole assicurarsi un buon raccolto, si sveglia e di buon'ora raggiunge i propri campi, non importa quanto distanti siano dalla propria abitazione. Si prende cura di loro, semina, innaffia, concima, pota, ara; più di ogni altra cosa, però, fa attenzione a che l'erba cattiva non prenda il sopravvento. La estirpa e la distrugge. Tutto ciò è possibile solo se il contadino si rechi personalmente nel campo e veda in loco cosa si renda necessario, di volta in volta, per renderlo fertile. Caro Francesco, tu sei perfettamente in grado di capire gli scricchiolii della storia e sai bene che il massiccio esodo dalle zone povere e pericolose del mondo, verso quella sorta di "Terra promessa" che porta il mio nome, è qualcosa che prescinde dalla cronaca: quando i popoli si muovono, cambiano la storia, non il quotidiano. Al di là di tutto ciò che è già avvenuto (mal gestito), si stima che nei prossimi mesi potrebbero entrare in Europa circa un milione e cinquecentomila migranti. E il fenomeno è destinato a durare ancora a lungo. Il dramma umano di chi fugge dalla miseria e dalle guerre si scontra con il dramma umano di chi teme questa onda migratoria e vede trasformarsi la propria esistenza in qualcosa di angoscioso, che condiziona scelte e abitudini, aggiungendo problemi ai problemi e male al male. In Germania ha compiuto un anno di vita il partito neonazista "PEGIDA", in continua crescita, e ovunque "la paura" porta acqua al mulino dei populisti, che raccolgono consenso parlando alla pancia, senza avere una testa pensante. Tu puoi incidere profondamente su tutto questo se riuscirai a parlare in modo ancor più "chiaro" di quanto non abbia fatto fino ad ora, utilizzando un linguaggio che, senza tradire la tua matrice apostolica, assuma una peculiarità più "laica" e, oserei aggiungere, più "politica", in modo da risultare "più incisivo". La paura è anche figlia della disinformazione e la Chiesa può fare molto, sotto questo profilo, sopperendo alle lacune istituzionali e a quelle della Stampa. E molto puoi fare in prima persona, non solo parlando ai potenti del Pianeta, ma anche emulando il tuo predecessore Leone I. Certo, lui aveva un solo "Attila" da fermare e tu, tra Africa e Medio Oriente, ne dovresti incontrare parecchi. Prima incominci e più faciliti il compito a chi dovrà intervenire dopo. E sai bene che siete tutti, nel vostro mondo, in terribile ritardo su ciò che la Storia richiede per renderlo vivibile. Europa


SOCIETA’

CHIAMATE CONTROPRODUCENTI E' sabato mattina, sono alla mia scrivania a scrivere un articolo. Mi servono silenzio e concentrazione. Squilla il telefono. E' la Telecom che mi offre una promozione. Taglio corto, ormai non sono più disposto a subire intrusioni indebite. Dopo pochi minuti risquillo, questa volta è la Vodafone, taglio ancora più corto. Passa una mezz'ora e tocca all'Enel. Divento sgarbato, cosa per me insolita e addio concentrazione. Non passa giorno, settimana o mese ch'io non riceva telefonate promozionali da qualche callcenter, a volte vicino, a volte lontano, lontanissimo, dato lo stentato italiano degli operatori. Eppure ho iscritto, da tempo immemorabile ormai, il mio numero telefonico al fantomatico Registro delle opposizioni. Niente di fatto, anzi è stato come diramare un invito alla chiamata importuna. Certo nonaudacia è colpa dei poveracciigiene che lavorano nei call-center, ma delle aziende, delle grandi temeraria spirituale aziende che se ne servono e che non si rendono conto che, alla lunga, ottengono esattamente il contrario di ciò che si proponevano. All'inizio ascoltavo paziente, per garbo, le tiritere degli operatori, pur sempre declinando e precisando che se mai avessi voluto cambiare gestore di un servizio mi sarei attivato spontaneamente. Poi col passare del tempo e con l'imperversare delle chiamate ad ogni ora, anche di sera, solitamente tra le 20 e le 21, mi si è indurito il cuore ed esaurita la pazienza. I telefonatori molesti non li lascio neanche più parlare e mi trincero dietro un "non mi interessa". Oggi, alla distanza, avendo maturato una vera e propria avversione verso le compagnie più insistenti - e sanno essere più petulanti di una mosca cavallina - non le sceglierei neanche se i loro servizi me li offrissero gratis. Meditate, aziende, meditate. Gustavo Peri

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GEOPOLITICA

TERRORISMO, L’ERRORE DEI POTENTI: NON PENSARE AL “DOPO”

I terribili attacchi di Parigi sono l'ennesima prova di una guerra in corso che esce dai confini di Siria e Iraq e arriva nei nostri stadi, nei nostri ristoranti e nelle nostre case. Una violenza che ci sconvolge e che ci atterrisce, ma che tutti noi dovremmo - per quanto sia duro ammetterlo - mettere in conto. Di certo non la si ferma, come puerilmente dice qualcuno, bloccando l'immigrazione o proibendo la costruzione delle moschee, perché chi vuole colpire arriva nonostante la chiusura delle frontiere e se a chi vuole pregare viene tolto un luogo comune e quindi controllabile, resta l'alternativa dell'appartamento privato, dove più facilmente prende piede il radicalismo. Siamo quindi nelle mani competenti delle intelligence e di quanti silenziosamente si stanno facendo in quattro per prevenire gli attacchi terroristici, per cui le considerazioni che si possono fare sono puramente di carattere politico. Parigi indica che i terroristi non sempre possono essere anticipati, per cui serve una prevenzione vera che parta da chi sta nella stanza nei bottoni, cioè da quei leader politici che hanno la facoltà di impostare decenni di strategie geopolitiche. Quando in Italia cadde il fascismo, milioni di dipendenti pubblici si tolsero la spilletta del partito e furono riciclati nell'Italia antifascista, conservando le loro mansioni e le loro competenze o al massimo passando dal ruolo di dirigente del ministero delle Colonie ad un nuovo inquadramento. Stessa cosa per le aziende (cioè il settore produttivo), che con il Duce al potere lavoravano benissimo: il piano Marshall fu il carburante, ma la vera genialata fu quella di non buttare all'aria funzionari, impiegati, imprenditori e quant'altro poteva servire alla ripartenza della nazione e quindi al raggiungimento del boom economico degli anni successivi. In particolare la guerra in Iraq dimostra l'incapacità di prevedere e di preparare il "dopo", cosa riconosciuta dall'ex premier britannico Tony Blair lo scorso 26 ottobre, quando con uno storico "I'm sorry" ha ammesso pubblicamente gli errori commessi da lui e dal presidente statunitense Gerorge W. Bush in quella guerra, soprattutto per non aver pensato alle conseguenze e quindi di non aver pensato al "dopo". Milioni di militari, funzionari, imprenditori, impiegati legati al partito Ba'th si sono trovati dall'oggi al domani senza lavoro, marchiati e quindi odiati in un paese completamente distrutto, magari senza più averi e con i famigliari morti. Nessun piano Marhsall per loro, nessuna alternativa di reimpiego o di poter, seppure sconfitti,


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continuare a operare nel e per il proprio paese. La maggior parte dei componenti dell'Isis è formata da loro: il fondamentalismo islamico assume in quest'ottica solo una funzione di facciata, o meglio, quella di un collante che tiene nello stesso insieme il libico e il caucasico, l'iracheno e l'egiziano, perché, a parte il nemico, è l'unica lingua che li accomuna. Si tratta di una realtà che non giustifica il terrorismo, ma che indica una guerra che non è mai terminata e che continua colpendo quegli occidentali che hanno colpito loro. Prevenire non significa "esportare" la democrazia a chi non l'ha chiesta e a chi non la ha nel proprio contesto culturale, significa non rovesciare lo status quo per rimpiazzare i governi con propri fantocci, non trasformare terre, popoli e culture millenarie in uno scacchiere geostrategico in cui allargare la propria influenza: oggi gli Stati Uniti hanno basi militari in tutti i paesi, dal Marocco al Kirghizistan, con l'esclusione di solo due stati, l'Iran e la Siria, e fino a poco fa anche dell'Afghanistan e dell'Iraq: si tratta di una linea orizzontale, tagliata da una verticale fatta dalla Russia che vede, oltre alle basi nel proprio paese, una base a Sebastopoli, in Crimea (guarda caso), una a Tartus, in Siria (guarda caso) e una ad Alessandria d'Egitto. Si tratta di una geometria che spiega molte cose, alla quale va aggiunta l'atavica lotta fra il Qatar e l'Arabia Saudita (nostri alleati ma anche monarchie assolute verso le quali non c'è stata l'esigenza di esportare la democrazia) per contendersi il predominio sul mondo arabo, come pure il disegno della Turchia volto ad ottenere un ruolo centrale nell'area. Disegni dei potenti, insomma, i cui effetti, che vanno dalle migrazioni bibliche al terrorismo jihadista, li subiamo noi e la povera gente che in quei paesi è, loro malgrado, coinvolta. Perché quei potenti non hanno pensato al "dopo". Enrico Oliari

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Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

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