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Web-magazine di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

Raccolta 38 Ottobre 2015

UNIVERSALISMO, PARTICOLARISMO


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Confini Webmagazine di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Raccolta n. 38 - Ottobre 2015 - Anno XVIII

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti - Cristofaro Sola +

Hanno collaborato: Raffaele Dadone Francesco Diacceto Gianni Falcone Giny Roberta Forte Pierre Kadosh Lino Lavorgna Enrico Oliari Gustavo Peri Angelo Romano Cristofaro Sola Ehsan Soltani

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Segreteria: confiniorg@gmail.com

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RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

MOTILITA’, UNIVERSALISMO, PARTICOLARISMO Le civiltà, i popoli, la storia, sono figli della motilità degli uomini. Si tratta della capacità di modificare attivamente ed in modo reversibile la propria posizione rispetto all'ambiente, capacità che è propria di ogni appartenente al regno animale e dell'uomo e che è connaturata all'essenza stessa della vita. Tale capacità ha consentito l'esplorazione del pianeta - e comincia a consentire quella dello spazio - rendendo fattuale e possibile la voglia di "scoprire", ha determinato la nascita ed il tracollo delle civiltà come ha consentito, ad alcuni popoli, di calcare da protagonisti il palcoscenico della storia. Non c'è angolo d'Italia nel quale le popolazioni primigenie non siano state sostituite - per arricchimento o annientamento - per effetto di spinte migratorie, spesso non dettate da stati di necessità. Greci, Celti, Pelasgi, Illirici, popoli dell'Asia si sono mischiati e sovrapposti agli abitatori primigeni. Nacquero così la Magna Grecia, la civiltà etrusca, quella sannita e la mirabile potenza di Roma che si "mosse" in quasi ogni terra conosciuta, per poi cedere, per sfilacciamento delle maglie del tessuto sociale, sotto la spinta di altri popoli che premevano sui confini dell'impero. Il "sangue" romano e italico si è mischiato con quello degli Unni, dei Frisi, dei Burgundi, dei Vandali, degli Eruli, dei Visigoti, degli Ostrogoti e poi con quello normanno, francese, austriaco, svevo, castigliano, aragonese, arabo, turco e bizantino e, infine - dopo il secondo conflitto mondiale -, con quello tedesco, statunitense, australiano, inglese e, persino, marocchino. Gli italiani di oggi sono il prodotto di queste sovrapposizioni e innesti, pur continuando a conservare la loro specificità di popolo grazie ad una storia e ad un territorio che hanno stimolato nei singoli individui peculiari sensibilità e attitudini che portano alla condivisione di valori comuni ed alla consapevolezza di una comunità di ascendenza e destini. Assiri, Babilonesi, Egizi, Caldei, Cinesi, Indiani. Ognuno di questi grandi popoli ha dovuto cedere, nel tempo, alle spinte esterne di altre genti: Medi, Persiani, Elamiti, Gutei, Ixsos, Tartari, Mongoli, solo per citarne alcuni. Pochi popoli, perché non facilmente raggiungibili, come i Giapponesi, gli Irlandesi, gli Islandesi e, in parte gli Inglesi sono rimasti relativamente indenni da spinte migratorie: ma Sassoni e Vichinghi ci hanno messo del loro sovrapponendosi gli uni agli Angli, gli altri agli islandesi. Anche gli Stati Uniti, l'Australia, la Nuova Zelanda e l'intero Sudamerica devono le loro identità all'impulso alla motilità proprio della specie umana. Stesso discorso vale per l'Africa fino alla fine del colonialismo.


EDITORIALE

I confini, ancorché militarmente presidiati, non sono mai stati un argine sufficiente ad impedire la mobilità dei popoli. Neanche i potentissimi Stati Uniti sono riusciti ad arginare la spinta di messicani e latino-americani, nonostante i muri, le tecnologie e le pallottole. La capacità di assimilazione, il grado di civiltà, la coerenza e la solidità delle maglie del tessuto sociale sono stati il solo valido antidoto al rischio di generale imbarbarimento. Anche se, in alcuni casi, l'arretramento civile è stato l'amaro prezzo da pagare, come in altri gli innesti hanno dato frutti migliori. Nel fluire della storia due principi si sono scontrati: l'universalismo ed il particolarismo (a volte persino due universalismi: guelfi e ghibellini). Il primo ha generato gli imperi, il secondo le nazioni. Non a caso nella civiltà romana il termine "natio" identificava la tribù, gli stranieri assoggettati o alleati, la parola "gens" identificava le stirpi (gens germanica), per indicare invece Roma si usavano le parole civitas, patria, Urbs, res publica, ciò a marcare tanto un diverso stadio civile, quanto una comunità di culture, di organizzazione e di destini. Alla base della stessa idea di Europa c'è un principio universalista, anche se questo, fatalmente, si scontra con l'idea di nazione. Da tale contraddizione nascono i principali ostacoli verso una maggiore integrazione e le crescenti difficoltà ad elaborare politiche comuni, in particolare quando i problemi sul tappeto sono di natura eminentemente politica e non strettamente economica, come l'imponente ondata migratoria in atto, alimentata, in pari misura, da profughi in cerca di asilo e da migranti in cerca di migliori opportunità di vita. Non si possono accogliere tutti indiscriminatamente, come non si può negare asilo ai rifugiati. Né tutti possono andare dove vorrebbero (Germania e Svezia in primis, perché sono le "nazioni" dove si sta meglio e così forse non sarebbe se l'Europa fosse davvero unificata), né possono essere trattenuti con la forza nei paesi di primo approdo, come vorrebbero i trattati europei, voluti e liberamente sottoscritti dalle "nazioni" aderenti all'Unione. Non se ne esce né con i muri ungheresi, né con le autonome aperture tedesche ai profughi siriani, né con l'interventismo militare anglo-francese. Anzi questo mette a dura prova la già fiacca tenuta dell'Europa. Occorrerebbe un sistema europeo di riconoscimento dello stato di esule ed una politica comune per renderlo efficace, a partire dai luoghi di provenienza abilitando le ambasciate, la Croce Rossa, le Ong a certificare, ove possibile, lo status di rifugiato. Occorrerebbe una comune regola di comportamento alle frontiere esterne dell'Unione in grado anche di escludere la possibilità di rifiuto da parte del migrante a fornire le proprie generalità e provenienza, pena il rimpatrio immediato nel luogo di partenza noto o, se in guerra, l'istradamento in un campo profughi fino alla cessazione del conflitto. Occorrerebbe una comune programmazione dell'accoglienza e, quindi, dello sviluppo... Ma per farlo dovrebbe prevalere in Europa il principio universalistico e ciò appare poco realistico nonostante il concreto rischio che l'idea di Europa si dissolva nell'egoismo più bieco, tra un'ondata e l'altra. Angelo Romano

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SCENARI

UNIVERSALISMO, PARTICOLARISMO Potremmo dire che l'universalismo o mondialismo, nel linguaggio attuale, nasce con l'uomo. Ne fanno fede i vari imperi che si sono succeduti nel corso della storia. Poi, gli imperi, con l'impossibilità di un loro mantenimento nella tradizionale concezione a causa di conflitti e delle dinamiche economiche moderne, sono andati via via sparendo. Ma ciò che non è mai venuto meno è il desiderio dell'uomo di realizzare con vari sistemi un Ordine mondiale, connotato a più riprese da differenti facce. Eppure, c'è stato un lungo periodo, nato col rinascimento, che delineò una nuova concezione di gestione del potere a livello mondiale, inedita fino a quel momento; una concezione che, nata nel '500, si prolungò fino al 1919. In coincidenza di queste due date, storici e politologi hanno coniato il termine di "guerra costituente"; un conflitto, cioè, talmente carico di importanza da creare, alla sua conclusione, un nuovo sistema internazionale, un differente ordine mondiale. Le premesse nacquero nel 1454 quando in Italia, la pace di Lodi, garantita dal prestigio e dalla forza della Toscana di Lorenzo il Magnifico, mise fine al conflitto tra Venezia e Milano e creò le basi per quello che passerà alla storia come "principio d'equilibrio"; un sistema costruito con alleanze strategiche, in modo da evitare l'egemonia di un solo Stato nella Penisola mediterranea e, inoltre, sancire la pace tra i vari regni italiani. L'obiettivo venne raggiunto grazie all'efficacia della novità e alla nascita di una diplomazia che divenne "stabile"; agli ambasciatori, infatti, venne conferita l'autorità di entrare nelle città, un tempo ostili, e di monitorare i movimenti politici e governativi del Paese ospite. Per inciso, l'Italia, oltre ad essere la culla di cultura e arte, fu anche madre di un efficace e vitale principio che segnerà la vita politica europea e mondiale. Comunque, nel 1498, con la discesa in Italia di Carlo VIII, l'equilibrio nato e circoscritto alla sola Penisola italiana venne esportato in Europa. La sua prima applicazione la ritroviamo nella pace di Cateau-Cambresis del 1559 dove il sistema venne adottato dalle potenze del continente: con quella pace che gli Stati europei e italiani si impegnarono a creare un ordine internazionale basato sull'equilibrio, onde evitare sogni egemonici come quelli dell'imperatore Carlo V, sovrano di un regno "su cui non tramontava mai il sole". Col passare degli anni, il concetto di "bilancia dei poteri", a causa di altri conflitti, come ad esempio, la guerra dei 30 anni, la guerra di successione spagnola, le campagne napoleoniche, sembrò cambiare alcune caratteristiche ma le sue fondamenta rimasero sempre ancorate alla


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teoria anti-egemonica sancita a Lodi nel 1454: un quadro complesso, basato sulla spartizione della potenza fra gli Stati (equilibrio) e su reti di alleanze, impostato per garantire la pace e scongiurare guerre di conquista. Quello che, però, venne sancito a Versailles nel 1919 fu talmente rivoluzionario da sconvolgere ogni tradizionale teoria politica e segnare in modo indelebile il destino dell'Europa. Infatti, alla conclusione della Grande Guerra, al pari della fine delle guerre napoleoniche, l'Europa era allo stremo: quattro anni di duri scontri avevano lasciato sia sul fronte occidentale sia su quello orientale morte e distruzione. Così, Clemenceau, Lyold George, Wilson e Orlando si ritrovarono a Versailles per cercare di ripetere l'opera compiuta al Congresso di Vienna all'indomani della sconfitta del Bonaparte. Qualcosa, tuttavia, era cambiato. La Grande Guerra era stata, invero, anche lo "scontro tra il bene e il male"; da contrapposizione per motivi economici si era passati a contrapposizione di ideologie e questi fattori cambiarono anche il modo di fare la pace. I vincitori imposero le condizioni, cancellando con un colpo di spugna problemi che andavano ben oltre le motivazioni geo-politiche. Infatti, con la scomparsa dei grandi Imperi, russo, turco, austro-ungarico e tedesco, si crearono dei grossi vuoti di potere che Versailles cercò di colmare applicando la nuova dottrina wilsoniana, ovvero autodeterminazione e democratizzazione; parole sconosciute alla diplomazia classica, ma che divennero il cardine di tutte le trattative del 1919. "Dare una nazione e un governo democratico ad ogni popolo" fu la parola d'ordine che il presidente americano Woodrow Wilson ribadì nei suoi 14 punti per la pace. Un atteggiamento, questo, che accomunò anche gli altri statisti facendo perdere a tutti la consapevolezza che quelle che erano state le razze "dominanti" si sarebbero ritrovate ad essere governate da stirpi che fino a un paio di anni prima erano considerate "inferiori"; e, in un'epoca di forte nazionalismo e xenofobia, i portati di un simile atteggiamento risultarono impraticabili, tanto da essere di lì a breve forieri di nuovi e tremendi problemi. Inoltre, insieme all'ideologia, nella pace di Versailles emersero odi e rivalità antiche: quelle tra Francia e Germania. L'onta di Sedan era stata lavata ma Clemenceau temeva per un ritorno tedesco. Infatti, rioccupate l'Alsazia e la Lorena perse nel 1870, il ministro francese dettò una pace punitiva per la Germania, con clausole che avrebbero dato il colpo di grazia all'economia tedesca e avrebbero annientato il suo potere politico, non rendendosi conto delle ripercussioni di tale politica. I motivi di tale ostinazione francese vanno cercati, ancora una volta, nella politica americana che, garantendo stabilità e aiuti economici all'Europa, lasciò spazio alla vendetta francese e alla forte punizione per i vinti. Al riguardo, l'Inghilterra non si sbilanciò molto: Lyold George non vedeva l'ora di tornare in madrepatria e dedicarsi alla restaurazione dell'economia interna. Inoltre, gli inglesi dovevano agli USA, milioni di dollari di vettovaglie e rifornimenti e, di conseguenza, non potevano rifiutare il volere di Wilson. Il leone inglese ruggì solo quando la Francia propose di stabilire i suoi confini nazionali sul Reno, in modo da controllare un'eventuale rinascita tedesca.

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Lyold George si oppose a questa proposta cercando di adottare la classica linea della diplomazia internazionale: evitare l'egemonia di una sola Nazione in Europa. Infatti, da secoli la Gran Bretagna era il custode dell'equilibrio europeo. La Francia, però, non demorse e la situazione divenne incandescente. Furono ancora gli Stati Uniti, dall'alto della loro potenza economica, a trovare la soluzione. La Francia non avrebbe cambiato i suoi confini, l'Inghilterra avrebbe mantenuto il suo protettorato sul Belgio e gli Stati Uniti, in cambio, si sarebbero impegnati a garantire, con la loro presenza sul territorio, la pace europea. In quel modo trovò accredito un altro punto di Wilson, la Società delle Nazioni: un'organizzazione internazionale con al centro la potenza americana, impegnata a evitare che questioni politiche deteriorassero in scontri armati. L'idea in sé era intelligente ma fu un vero disastro diplomatico. Intanto, vennero esclusi i paesi sconfitti e la Russia per la sua recente rivoluzione bolscevica. Per inciso, il regime comunista da poco sorto terrorizzò politici e diplomatici ma non la grande finanza americana che anzi arrivò a determinare l'affermarsi di quello stesso regime e, parimenti, della potenza finanziaria americana. Ma questa è un'altra storia. Per tornare alla proposta Società delle Nazioni, il vero problema, però, fu l'astensione del Paese proponente, gli Stati Uniti d'America. L'opinione pubblica americana, avversa alla politica estera del Governo, mise alle corde il Senato che, nel 1920, votò l'astensione da ogni trattativa e il ritiro immediato di ogni truppa dal suolo europeo. Così, lo Stato più forte, quello che aveva predicato la guerra ideologica e la pace democratica, che aveva tacitato Francia e Inghilterra, alla fine si astenne audacia temeraria igiene spirituale lasciandosi alle spalle molte questioni irrisolte. Questa mossa fu uno schiaffo a ogni prospettiva di rinascita e a ogni ideale di pace. Non solo, per paura della rinascita degli Imperi Centrali, rimasero fermi i vincoli capestro in capo alla Germania: quei vincoli che, insieme ai molti punti lasciati in sospeso e agli innumerevoli errori di valutazione, creeranno di lì a vent'anni le condizioni per un nuovo conflitto mondiale e, nel prosieguo, della turbolenza nei Balcani. Gli USA, come sappiamo, non demorderanno dal creare un'organizzazione internazionale, riuscendovi al termine della II Guerra mondiale: un'organizzazione della quale essere il motore, il deus ex machina e il principale finanziatore. Un'organizzazione, all'occorrenza e secondo convenienza, della quale farsi scudo o ignorarne le risoluzioni. Poi, con la scomparsa dell'URSS, il "male assoluto", l'America tenderà sempre più ad essere il "gendarme del mondo"; non sempre riuscendoci, come altresì sappiamo. Ma ciò che la politica aveva avviato servirà da viatico all'alta finanza, nominalisticamente ubicata in Wall Street ma, ormai, apolide e padrona del mondo, alla quale ogni politica s'inchina. Comunque, come si diceva poc'anzi, questa è un'altra storia. Massimo Sergenti


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DALLA PARTE DELL’OCCIDENTE

Sulla vicenda dell'immigrazione, divenuta la "questione" del nostro tempo storico, non desidero produrmi in invettive a tonalità demagogica. Tuttavia, nell'intento di rappresentare al meglio il mio punto di vista a riguardo, evoco, in luogo di un ragionamento razionalmente compiuto, due ricordi, due "suggestioni" in grado di porre il problema dell'onda migratoria sul piano che ritengo più corretto: quello, metapolitico, dello "spirituale". Intendo chiarire che non mi aggrappo ai numeri o alle convenienze, che pure rappresentano argomenti validi per lo stop all'accoglienza indiscriminata. Penso però che le scene da invasione alle quali assistiamo quotidianamente non siano altro che il prologo di un'apocalisse. Ma di questo dirò in seguito. Torno sui due "ricordi" giacché da essi discendono, ad un tempo, uno stato d'animo e una visione del mondo. Il primo è un ricordo di lettura: un romanzo, "Il Campo dei Santi". Il secondo è una storia: la vita, e la morte, del barone Roman Feodorovic von Ungern-Sternberg, al secolo il "baron fou", il barone pazzo. ***** Il Campo dei Santi è stato pubblicato in Francia nel 1973. Il suo autore, Jean Raspail, è un esploratore e un diplomatico francese oltre che un fecondo romanziere. Il Campo dei Santi fu ritenuto un racconto scomodo per cui ne venne osteggiata la circolazione. In Italia, il romanzo è stato pubblicato nel 1998 dalle Edizioni di Ar, nella collana del Cavallo Alato. Il grande pubblico ignora l'esistenza di questo capolavoro. Ne ha parlato fugacemente Gianni Riotta in un articolo apparso sul Corriere della Sera del 12 ottobre 1996. Una curiosità: Riotta riferisce che le ipotesi prefigurate nel Campo dei Santi sono state oggetto di attenzione da parte del Dipartimento della Difesa americano. Ma di cosa tratta quest'opera di fantasia? È la cronaca postuma, a cose fatte, della distruzione della civiltà occidentale e della sottomissione della razza bianca a una nuova stirpe di signori degli stracci. Raspail, richiamando lontane atmosfere orwelliane, descrive uno scenario a verificarsi in un futuro prossimo. La trama del romanzo narra di un'immaginaria armata del Gange, composta da un'immensa massa di paria; disperati che, rompendo gli schemi sociali nei quali erano destinati a vivere nei territori d'origine, decidono di prendere il mare su imbarcazioni di fortuna e fare rotta verso l'Occidente. L'obiettivo primario di questo popolo "dell'ultima chance", come lo definisce l'autore, si delinea naturalmente con il progredire dell'avanzata: occupare stabilmente un Occidente in disarmo.

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La meta del viaggio è la costa della Francia meridionale, alla quale giungerà dopo due mesi di navigazione incontrastata. Nessuno vi si oppone. I "morituri" non reagiscono perché imprigionati nei luoghi comuni del "buonismo" e dell'umanitarismo imperanti. In realtà, l'invasione "pacifica" nasconde il vero scopo dell'armata del Gange: la presa del potere in un territorio ricco e fertile. I disperati non saranno lasciati soli nell'impresa. La loro iniziativa innescherà una reazione a catena tale da provocare l'insurrezione di tutti i gruppi etnici extra europei già residenti nei paesi del vecchio continente. A dare loro entusiastico appoggio, in quello che si rivelerà un naturale processo di sostituzione di civiltà, saranno le quinte colonne insediate nei gangli della società europea morente: la Chiesa della Dottrina Sociale post-conciliare e l'intellighenzia della multiculturalità e dell'accoglienza, annidata nelle istituzioni e padrona nei media. L'armata dell'Ultima Chance prenderà possesso dei territori senza subire grosse perdite; saranno gli autoctoni a fare tutto da soli, a rovinarsi con le proprie mani. L'unica opposizione armata la incontreranno, una volta sbarcati in prossimità della Costa Azzurra, ad opera di un gruppetto di irriducibili, i quali preferiranno morire con le armi in pugno attaccati dalla loro stessa gente, nel frattempo passata dalla parte degli invasori, piuttosto che sottomettersi ai nuovi padroni. I popoli occidentali affiorano nella narrazione come marionette inebetite da un benessere che li ha posti alla mercé dell'invasore. Il vulnus degli occidentali è di aver perso totalmente una coscienza identitaria. Sembra dire Raspail: essi rinunciano a difendersi perché non sanno più chi sono e cosa voglionotemeraria realmente dalla vita;spirituale hanno smarrito la visione del mondo. Al contrario, la audacia igiene massa di straccioni in marcia, benché autoconsegnatasi a condizioni di vita disumane - i migranti affrontano l'intero viaggio in mare con poca acqua, scarso cibo e immersi nei propri escrementi conserva chiara la contezza della sua identità e del suo orgoglio di razza. Durante la traversata gli invasori non si faranno scrupoli a eliminare brutalmente anche gli intellettuali bianchi che li hanno accompagnati e sostenuti e neppure a rifiutare i soccorsi che i vari paesi costeggiati dalla flotta si offrono di fornire. Anche i chierici della missione vaticana, precipitatasi in loro aiuto, vengono ributtati in mare sotto gli occhi impotenti dei comandanti e dei marinai delle navi da guerra francesi, inviate dal governo di Parigi con il solo ordine di sorvegliarne a distanza la navigazione. Di là dal sarcasmo che è il filo conduttore che lega la costruzione letteraria sviluppata su più linee narrative, l'autore affronta con sorprendente lucidità il tema di fondo richiamato dalla vicenda dell'invasione migratoria: non esiste integrazione che tenga di fronte a un processo di sostituzione di civiltà. Il momento della sovrapposizione di mondi originariamente separati è sempre segnato da una fase intermedia di particolare crudeltà, che può essere più o meno lunga. Lo stigma della transizione è quello dell'Apocalisse che, non a caso, Respail richiama nel titolo. Il Campo dei Santi e la Città Diletta sono luoghi della geografia sacra giovannea. Il Libro dell'Apocalisse testualmente recita: "Giunti poi che siano al termine i mille anni, Satana sarà liberato dal suo


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carcere e uscirà per sedurre i popoli che si trovano ai quattro angoli della terra, Gog e Magog, e radunarli per la guerra: il loro numero è come l'arena del mare. Uscirono dunque essi nello spiazzo della terra e circondarono il campo dei Santi e la città diletta". Per Raspail Il Campo dei Santi e la Città Diletta, minacciati dalle orde venute dall'inferno dell'esistenza reale, sono la simbolica trasfigurazione dell'Occidente e del suo destino. ***** La seconda "suggestione" riguarda la storia di un uomo realmente vissuto: il barone Roman Nicolaus von Ungern-Sternberg. Nato a Graz in Austria alla fine dell'Ottocento (1886) da una famiglia aristocratica di origini baltiche, Ungern-Sternberg prestò servizio, col grado di ufficiale, nell'esercito russo dello Zar Nicola II. Con lo scoppio della Rivoluzione d'Ottobre, nel 1917, prese parte alla guerra civile da comandate della Cavalleria asiatica "bianca" di Nikolaj Nikolaevi? Semenoff. Dopo la sconfitta dell'armata dell'ammiraglio lealista Kolèak il 14 novembre 1919 ad Omsk, per mano dei bolscevichi rossi, il "barone pazzo" formò un esercito personale di Cosacchi della Transbaikalia con i quali diede vita ad avventure di guerra leggendarie, benché sanguinosissime. Le sue gesta ispirarono la fantasia di scrittori e artisti, tra i quali Hugo Pratt, il creatore di Corto Maltese. Di lui parlò Ferdinand Ossendowski nel suo "Uomini, bestie e dei", libro particolarmente amato da René Guenon. Ferdinand Ossendowski, che era stato ministro del gabinetto controrivoluzionario di Kolèak, dopo la vittoria dei comunisti, aveva trovato protezione in Mongolia presso Ungern-Sternberg. Per un breve periodo fu anche arruolato nel suo esercito con compiti di comando. La vicinanza all'enigmatico barone gli consentì l'opportunità di osservarlo da vicino. Ossendowski avrebbe toccato con mano la totale adesione di Ungern-Sternberg a una visione del mondo profondamente spirituale. Il suo tentativo di rivolta contro il mondo moderno, per quanto velleitario, fu mosso dal genuino proposito, folle e generoso, di fondare un nuovo Impero per sradicare il male giunto sulla terra per annientare il principio divino nell'animo umano, nel quale avesse cittadinanza il diritto alla diversità tra gli uomini. E tra i popoli. Quella diversità mortalmente minacciata dal trionfo delle forze infere dell'egualitarismo, coltivate nel seno del bolscevismo ma sprigionate, più di un secolo prima, dalle fiamme di un'altra tragedia dell'uomo: la rivoluzione francese. L'ideologia dell'uguaglianza è il nemico giurato di Ungern-Sternberg che spregiativamente la definisce "menzogna dei profeti". La sua vita poteva riassumersi nel grido di battaglia con il quale lanciava le cariche della sua cavalleria: "alla ricerca delle nostre follie e delle nostre glorie". Pio Filippani Ronconi ricostruisce, in un articolo pubblicato nel n. 29 del 1991 di Vie della Tradizione, il percorso iniziatico del baron fou. Ungern-Sternberg, affiliato alla corrente tantrica del Khutuktu (il Sacro Signore) di Ta-Kuré, nella Mongolia esterna, avrebbe voluto creare una teocrazia lamaista nel cuore dell'Asia "affinché da lì partisse la vasta liberazione del mondo".

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Il sogno della "Grande Mongolia", estesa dal Baikal fino allo Hsin-Kiang e al Tibet sarebbe stata la "terra degli Iniziati", protetti dal "Re del Mondo", sovrano dell'Agarttha, di cui scrive ampiamente René Guenon. Uomo di spada più che di parole, Ungern-Sternberg cercò di materializzare il suo sogno della palingenesi dell'umanità attraverso la via eroica del guerriero. Nel 1919 attaccò i cinesi che occupavano Urga, l'antica capitale della Mongolia oggi Ulan Bator, per liberare Bogdo Gegen, il Buddha vivente e terza autorità del buddismo lamaita, e rimetterlo sul trono. La guerra di Ungern-Sternberg è anzitutto missione; azione preparatoria alla realizzazione dell'evento cosmogonico finale: l'ultima battaglia tra il Bene e il Male. Al suo biografo Ossendowski egli raccontò di conoscere perfettamente il momento esatto della fine della sua vita terrena e quello in cui sarebbe avvenuto l'Armaggedon: "quando una maledizione sconosciuta invaderà il mondo, cancellerà la civiltà, ucciderà la moralità e distruggerà i popoli. La sua arma è la rivoluzione, una malattia infettiva". Ai suoi contemporanei Ungern-Sternberg apparve come un visionario ma, come nota Filippani Ronconi, egli era consapevole di trovarsi in un istante apicale della storia, come nel cavo tra due onde un attimo prima che rovinino in basso. Nella sua brevissima esperienza di governo a Urga cercò di trasmutare quell'istante in un periodo senza tempo. Non vi riuscì. Nondimeno la sua opera è stata illuminata dalla coscienza profonda della vera posta in gioco: il bolscevismo non era che un fenomeno da inquadrare nella dinamica involutiva intrapresa da tempo da tutta la civiltà occidentale. Questa interpretazione è coerente con quanto Julius Evola scrive su Ungern-Sternberg, in un articolo pubblicato dal quotidiano "Roma" il 9 febbraio 1973. La visione del mondo che spinge Ungern-Sternberg ad agire, secondo Evola, mirava all'obiettivo di arrestare il crollo dell'Occidente attraverso la rigenerazione spirituale promanante dalla luce dell'Oriente iniziatico. Scrive Evola: "la reazione avrebbe dovuto partire dall'Oriente, da un Oriente fedele alla proprie tradizioni spirituali e coalizzato contro l'incombente minaccia, insieme a quanti fossero capaci di una rivolta contro il mondo moderno. Il compito primo avrebbe dovuto essere spazzar via il bolscevismo e liberare la Russia". Negli avvenimenti della Rivoluzione d'Ottobre Ungern-Sternberg coglie il momento spaventoso nel quale, grazie a forze promananti da una sorta di magia infera, l'umano, precipitando nell'elemento preindividuale della "massa", trasmuta in entità demoniaca. Il sogno di Ungern-Sternberg finisce com'è iniziato: nel sangue. Con una mossa sorprendente il barone pazzo decide di puntare a Ovest, anziché a est verso la salvezza, pur nella consapevolezza di finire nella mani dei nemici. La sua intenzione, come confida al suo amico, il generale Boris Rjesusin, è di raggiungere la fortezza spirituale tibetana. Scrive Filippani Ronconi: "Egli mosse solitario verso una direzione che non aveva più rapporto con la realtà geografica del luogo e militare della situazione, nel postremo tentativo, non di salvare la vita, bensì, di ricollegarsi, prima di morire, con il proprio principio metafisico, il re del Mondo". La decisione finale di Ungern-Sternberg richiama alla memoria il senso morale della leggenda


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dell'antico romano Attilio Regolo. Come se il barone pazzo, perfettamente consapevole del senso più che umano della sua missione, dica alla storia: " Non conta che resti è scritto che vada". Si narra che, prima di intraprendere l'ultimo viaggio, il Khutuktu, per sacralizzare l'impresa, gli pone al dito il mitico anello di Gengis Khan, facendo di Ungern-Sternberg l'ultimo dio vivente della guerra. Ma il barone, abbandonato dal suo esercito, viene catturato dalle guardie di Shentikìn il 21 agosto 1921. Processato nel sovjet di Novonikolayevsk, Ungern-Sternberg è condannato a morte. Dopo due giorni dal processo la sentenza fu eseguita. Il barone si presentò davanti al plotone di esecuzione indossando il mantello dei lama sopra la divisa di ufficiale imperiale. Neanche gli odiati nemici bolscevichi ebbero il coraggio di privarlo delle spalline che recavano le insegne del comando e della croce di San Giorgio. Al momento della morte aveva appena trentacinque anni. ***** Due suggestioni, dunque, per rappresentare un convincimento profondo. Tra la vicenda umana e spirituale di von Ungern-Sternberg e il libro di Raspail, Il Campo dei Santi, a mio giudizio, esiste un fil rouge che le tiene legate e connette entrambe alla questione dell'odierna invasione immigratoria. Questo filo rosso altro non è che la profonda consapevolezza del tramonto della civiltà occidentale, narrata da Raspail e vissuta da Ungern-Sternberg. Il "tramonto dell'Occidente" non è solo il titolo di un lungimirante lavoro letterario di Oswald Spengler; è la tragica conseguenza di un errore. La millenaria civiltà, che stiamo seppellendo e di cui siamo epigoni, non muore di causa naturale. È un crimine del quale siamo vittime e al tempo stesso carnefici. Non può esservi giustificazione assolutoria nel ritenere che le scelte dei nostri padri non ci appartengano. La nostra generazione racconta a se stessa che l'aver preso una direzione piuttosto che un'altra non sia frutto di una responsabilità diretta, ma non è così. Tuttavia è ben vero che, con la rivoluzione francese, si produce la rottura definitiva degli equilibri intracomunitari connaturati allo sviluppo di tutte le articolazioni statuali della civiltà occidentale. L'inversione rivoluzionaria segna il nuovo cammino dal quale le generazioni successive, sebbene con diverse gradazioni d'intensità, non si discosteranno. In Occidente, il prevalere dell'utopia libertaria, sedimentata nella costruzione dell'Aufklärung, luce della ragione trionfante, ha provocato l'accettazione fatalistica della primazia dell'individuo. La persona fisica, rimodellata dalla filosofia dei lumi, è divenuta il centro intorno al quale l'asse polare del diritto della comunità organica, da quel momento in poi, avrebbe dovuto ruotare. Il ribaltamento dell'antico ordine si è materializzato nella ridefinizione del concetto di cittadinanza dalla quale è generata una rivoluzione copernicana all'incontrario. Da questo punto di snodo della Storia si è sviluppata l'dea-guida, assorbita integralmente dalla retorica "democratico-pacifista", della legittimazione del singolo individuo, portatore del solo requisito d'appartenenza al genere umano, a prescindere dalla propria identità originaria, a essere

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soggetto di diritti personali universalmente garantiti, cioè ovunque riconosciuti e, in quanto tali, esercitabili. Questo principio assiologico ha rappresentato l'innesco di una deflagrazione le cui onde giungono ai giorni nostri. La spinta cinetica impressa alle dinamiche sociali ha messo in moto la macchina dell'omologazione delle culture originarie. Da qui trae spunto la mia obiezione: se il mondo si riduce a spazio fisico, se diviene il "loft" dell'umanità, le separazioni, le frontiere, le differenze perdono ogni ragione d'essere. La società globale, per statuto, spinge in questa direzione. Il ragionamento è semplice: se capitali e merci non hanno più patrie perché non dovrebbero gli esseri umani circolare altrettanto liberamente? Ne consegue la legge fisica dei vasi comunicanti: per un territorio che si svuota è naturale che un'altra porzione d'umanità sia pronta a riempirlo. Questa dinamica si chiama sostituzione etnica. E può avvenire attraverso le ondate migratorie o facendo ricorso alle guerre d'occupazione. I pacifisti dei nostri tempi ovviamente prediligono la prima soluzione, per cui si posizionano con le braccia aperte in attesa di fondersi con i nuovi venuti. Peccato, però, che quelli che sbarcano sulle nostre coste, non avvertano il medesimo bisogno d'integrazione. Al contrario, sono attenti a proteggere le tradizioni, i costumi, le divinità, i cibi, in una parola, la cultura della loro terra d'origine. Non sono disposti a rinunciare a ciò che li struttura e li connota come comunità in movimento. Oggi l'Occidente, per larga parte, si ostina a non comprendere che il rifiuto a rivendicare l'egemonia culturale, connessa al fattore identitario, non farà della terra dei propri padri un posto migliore in cui vivere. Semplicemente, lo renderà disponibile per chiunque avesse necessità o interesse a occuparlo. Tra le tesi più ripugnanti che circolano vi è quella, propalata dal mainstream del politicamente corretto, che dei migranti l'Europa ha bisogno per tenere in equilibrio i conti del welfare e del sistema pensionistico dei prossimi decenni. In quest'ottica dovrebbero essere gli immigrati a sostenere gli anziani del vecchio continente perché gli europei non fanno più figli. In concreto, se la curva demografica flette, la si deve raddrizzare con la prolificità degli allogeni. A me sembra una teoria aberrante. Non sarebbe più giusto aiutare le nostre giovani generazioni a reimpossessarsi della fondamentale funzione procreativa? Non vi è nell'aria alcun virus che rende sterili i giovani. Il morbo, in questo caso, è l'ideologia multiculturalista che vorrebbe convincerci che preservare la stirpe sia un concetto razzista. Personalmente mi dichiaro all'opposizione radicale di questa visione del mondo, di questa Weltanschauung dell'Occidente decadente. Penso che sia una follia e un crimine propugnare la scelta della società aperta. È follia credere che possa funzionare un'apertura a senso unico, dove solo una parte rinuncia alla propria identità, mentre l'altra si tiene ben stretta la sua. È criminale dilapidare ciò che è stato ricevuto in eredità dal passato. *****


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Il profondo convincimento maturato sull'argomento mi consente di prendere le distanze da un approccio egoistico al problema dell'invasione immigratoria. Attualmente alcuni partiti del centrodestra italiano stanno costruendo il consenso su un'opposizione intransigente all'accoglienza. Ciò di per sé non sarebbe sbagliato se non ci si limitasse a dire che gli immigrati non devono venire perché creano disturbo alle comunità locali e rubano il lavoro agli italiani. È vero, ma non basta. Le politiche orientate al respingimento sarebbero molto più credibili se venissero descritte come il più efficace e diretto mezzo di difesa non già di miopi egoismi di popolo ma di una ricchezza dell'umanità che sta nella diversità delle sue genti e delle loro culture. Se qualcuno attendeva di leggere considerazioni a sfondo biologico-razziale resterà deluso. Non si tratta di sostenere la superiorità dell'una civiltà rispetto ad altra; a tutte va riconosciuta dignità e come tali esse devono essere rispettate a condizione che ciascuna estrinsechi i propri effetti nel contesto geografico e ambientale nel quale è sorta e ha maturato le sue peculiarità distintive. Non esistono integrazioni possibili su larga scala. È tuttavia possibile, com'è accaduto in passato, che singoli nuclei familiari di immigrati, col tempo, siano riusciti a fondersi con la cultura del paese ospitante. Raramente ciò è accaduto alla prima generazione d'immigrazione. Più frequentemente l'integrazione piena è avvenuta con i giovanissimi cresciuti ed educati nelle scuole e nelle università dei luoghi d'approdo. È, invece, ampiamente dimostrato che l'innesto di intere micro comunità di allogeni non abbia prodotto l'effetto desiderato, avendo queste mantenuto gli impianti valoriali, e talvolta giuridici, dei territori d'origine. In futuro, la partita sarà squisitamente quantitativa. Quando il numero di immigrati diventerà maggioritario nei contesti sociali penetrati, si avvierà un processo di transizione al temine del quale ciò che vi era prima sarà cancellato e sostituito con il nuovo. Esattamente come lo ha descritto Raspail nel suo profetico romanzo o come lo ha testimoniato Ungern-Sternberg con la sua "folle e generosa" avventura eroica. Questa è la ragione che mi spinge a classificare la questione del contrasto all'immigrazione indiscriminata nella categoria dello "spirituale" anziché in quelle concettuali di "ordine pubblico" e "benessere materiale della collettività". Respingere equivale a difendere la propria civiltà dall'autodistruzione degli archetipi che ne hanno consentito la fondazione; accogliere illimitatamente equivale a negare se stessi, la propria storia, le proprio origini. La sinistra del pacifismo e del multiculturalismo considera questa possibilità come sommamente desiderabile. Personalmente penso, invece, che sia inaccettabile. E non cambio idea. Come Raspail e come Ungern-Sternberg. Cristofaro Sola

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DUE CONTROVERSI ASPETTI DELL’UMANA ESISTENZA Scrivere su "universalismo" e "particolarismo" è un impegno che fa tremare le vene nei polsi. No, non sto esagerando; anche perché, in uno spazio relativamente breve, trattare argomenti così complessi è oltremodo difficile. E se, tutto sommato, si può anche provare a tratteggiare l'universalismo evidenziando le sue connotazioni, il particolarismo, inteso come contraltare alla prima accezione, assume diverse espressioni (nazionalismo, regionalismo, territorialismo, ecc.), a volte tra loro contrastanti e persino paradossali. Inoltre, pur esprimendo forti ritrosie verso tutti gli "ismi", se il giudizio tout court, immediato verso il primo concetto è fortemente negativo (almeno per chi scrive) perché comporta una stretta omologazione, l'opinione verso il secondo è altalenante e dipende da molti fattori. Ma c'è di più. L'universalismo e il "particolarismo" sono sempre state due parole d'ordine: la prima, ammantata da aspetti pseudo culturali, accattivante e non per questo meno pericolosa; la seconda, invece, violenta, se non negli atti almeno nell'espressione ma non per questo totalmente deleteria. E, ancora. Se la seconda accezione ha connotato e connota l'azione di forze politiche, totalmente laiche, la prima caratterizza l'agire politico di forze sia laiche che confessionali. Con tutto il rispetto, basti pensare alla nostra religione di Stato, la chiesa cattolica, apostolica, romana, dove cattolica sta per "katholikós", cioè universale, appunto. Infine, se il secondo impegno, "il particolarismo", può vedere forze in campo omogenee tra loro, animate cioè da uno stesso obiettivo fina-listico, il primo, l'"universalismo", ha visto e vede una commistione di forze in campo, tra loro a volte contrastanti e persino antagonistiche, "nemiche", i cui obiettivi finalistici divergono sebbene convergano le loro azioni contingenti. Basti pensare alle congiunte azioni del co-munismo e del capitalismo, sin dagli albori del XX secolo. Per di più, a rendere confusa la situazione, abbiamo in Europa e, soprattutto, nei Paesi dell'Est partiti di sinistra quando non comunisti tout court che dovrebbero propendere per una politica universalistica in coerenza con la loro matrice mentre sono i portatori di una politica nazionalistica connotata da forti rivendicazioni identitarie e autonomie economiche. Di contro, partiti moderati o di destra fanno i progressisti e propendono per aggregazioni più vaste. Sarebbe sufficiente questo a rendere chiara la difficoltà di esporre la propria idea in forma succinta se a rendere più complicata la situazione non vi fossero, a tutt'oggi, organizzazioni a vocazione universalistica che sollecitano movimenti separatisti, autonomisti, seccessionisti. Si pensi alla Trilateral Commission, organizzazione a ispirazione globalista le cui tink tank, già da


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oltre venticinque anni fa, avevano configurato l'attuale scenario europeo e i "particolarismi" che vi si sarebbero attuati, buona parte dei quali ad oggi già realizzati. C'è da credere che anche la Bilderberg Conferenze, i cui intenti sono simili a quelli della Trilateral Commission, abbia le stesse "visioni", anche se ciò non può essere verificabile per la secretazione dei suoi verbali d'assemblea. Con ciò voglio dire che (a volte?) i "particolarismi", cioè i frazionamenti, sono utili ai portatori di un disegno globale in quanto scindono le resistenze e rendono più deboli i soggetti contrari. Si potrebbe pensare che buona parte dei partners comunitari siano esenti da fenomeni autonomisti al loro interno. Infatti, dopo la frammentazione jugoslava e la scissione della repubblica cecoslovacca che ha dato luogo a due distinte entità statali e se si esclude la Spagna con le spinte separatiste basche e catalane, l'Inghilterra con le rivendicazioni scozzesi e il Belgio con le dispute alla Guareschi tra fiamminghi e valloni, i restanti Paesi sembrerebbero indenni da simili fenomeni. Accade, però, che nell'Europa comunitaria gli interlocutori, al pari degli Stati, sono le Regioni. Onestamente, non so se la costruzione comunitaria, quale è, sia derivata da intenti strumentali o se il fine che l'ha mossa sia stato, tutto sommato, "nobile", teso cioè a superare le lungaggini e le farraginosità amministrative dell'apparato statale per interloquire direttamente con i territori e far giungere loro, sempre in via diretta, i sostegni per superare gap strutturali e realizzare un'armonica coesione. Fatto sì è, tuttavia, che in Paesi come l'Italia, dove l'apparato statale, da oltre vent'anni, è fatiscente, l'Ente regionale, a seguito della riforma costituzionale del 2001, voluta paradossalmente da un governo di centro-sinistra guidato da un uomo che, dall'ottobre 2003, riveste la carica di Vice Presidente dell'Internazionale Socialista, un'organizzazione specificatamente a vocazione universalista, l'Ente Regione, dicevo, ha acquisito una potestà legislativa e amministrativa persino in contraltare con lo Stato. E questo, senza considerare la sovente sconsideratezza, si perdoni il bisticcio, della loro azione che, oltre ad indebolire l'autorità statale, dissanguano l'erario e creano, all'interno del Paese, situazioni economiche e sociali a macchia di leopardo. E, si passi l'interrogativo, forse inutile: è un caso che l'attuale Governo guidato da un uomo dichiaratamente di sinistra, attui una riforma scolastica che, sul piano generale, aggraverà il gap tra Regioni del Nord e quelle del Sud e darà vita, sul piano qualitativo, ad una eterogenea formazione e informazione dei giovani di questo Paese? E' un dubbio fondato, perciò, ritenere che con ogni probabilità le nuove leve, i futuri operatori economici e reggitori della cosa pubblica adotteranno tra loro comportamenti difformi, anche contrastanti, a discapito seppure involontario del Paese? Ed è sempre un caso che lo stesso attuale Governo stia portando a termine una riforma del Senato, il presidente del quale è la seconda carica istituzionale, che vedrà i membri non più eletti bensì designati dalle Regioni? E' un caso, spostando l'ottica dalla politica all'economia e a proposito del mercato globale,

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universale, che la Volkswagen, appena vantatasi di aver superato a livello planetario la Toyota sia sulla produzione che nella vendita, sia incappata nella pur giusta censura dell'amministrazione americana per aver artatamente falsificato il dato delle emissioni nocive allo scarico? Una censura che comporterà, intanto, una multa di 18 miliardi di dollari e il ritiro di oltre 500.000 vetture e, forse, nel prosieguo, a seguito della class action in preparazione, il ritiro di oltre 2 milioni di macchine e una pena pecuniaria di oltre 230 miliardi di dollari, somma pari al valore della stessa azienda. Per inciso, fa sollevare il sopracciglio la sensibilità ambientale americana, senz'altro giusta e sacrosanta, ma collidente ad esempio con la loro volontà di non firmare il protocollo di Kyoto. Un po' come la salvaguardia dei diritti nel mondo e la comminazione della pena di morte, l'avversione alla violenza e la vendita di armi. Ma tant'è. Comunque, non si può non pensare che un'eventuale crisi della più grande casa automobilistica del mondo non produca ripercussioni economiche in casa, ovvero in Germania, si guardi il caso, nel momento stesso in cui la Cancelliera Merkel dichiara che il suo Paese sarà in grado, nei prossimi 10 anni, di assorbire oltre 500.000 migranti, necessari al suo sviluppo. Coincidenze, si potrà dire. Sì. Forse lo sono ma, si pensi, due uomini che hanno fortemente inciso sulla vita politica, il primo, e spirituale, il secondo, non hanno creduto più di tanto alle coincidenze. Mi riferisco a Giulio Andreotti per il quale "a pensar male si fa peccato ma spesso s'indovina" e a Padre Pio che, soprattutto alle sue figlie spirituali che gli chiedevano in merito, rispondeva con la sua bonomia: "Eeeh! Figlia mia, le coincidenze …. Beh! Qualcuno le fa coincidere." Auspicavo prima che Dio ci guardi dagli "ismi": nel senso che i fondamentalismi in qualsivoglia ambito, settore, pensiero, credenza, sono da rifuggire perché escludono la ragione e fanno perdere all'azione le connotazioni umanitarie, civili e sociali. Dicevo anche che, a volte, la faccia universalistica e quella "particolaristica" sembrano appartenere alla stessa medaglia e che se la prima è seducente ma mortale sul piano dell'identità la seconda è persino brutale ma preservatrice di culture e tradizioni. D'emblée, sarebbe da favorire la seconda rispetto alla prima ma … c'è sempre un ma. Come a dire che in medio stat virtus secondo l'etica nicomadea aristotelica. Mi rendo conto che, oggi, parlare del socialista Karl Polanyi, il grande filosofo, economista ungherese della prima metà del XX secolo può anche far sorridere. Come possono far sorridere le sue tesi. Ad esempio, egli negava la "naturalità" della società di mercato, ritenuta piuttosto un'anomalia nella storia della società umana come rifiutava sia l'identificazione dell'economia umana con la sua forma mercantile e sia il concetto normativo di embeddedness di radicamento in quanto pur ritenendo che l'economia non sia avulsa dalla società, questa non può essere embedded, vale a dire integrata, incorporata nella società stessa. Come a dire che al di sopra dell'economia (e della finanza) deve fare premio sempre e comunque la politica. Certo, come dicevo, le sue tesi oggi fanno sorridere. Eppure, paradossalmente, Polanyi deve la


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sua notorietà al lavoro compiuto in due Paesi di concezione liberal-capitalistica, l'Inghilterra e gli Stati Uniti e agli aiuti ricevuti dalla fondazione di un emblema del capitalismo americano, Henry Ford. E, comunque, non è stato risolto il problema da lui paventato: la supremazia dell'economia o, meglio, della finanza sulla politica, la supremazia del mercato sul progresso delle genti. E' ovvio che nell'era del cosiddetto "tempo reale", del battito d'ali di una farfalla a Tokio e di un terremoto a New York, le economie divengono antagonistiche e l'imperativo categorico è la dimensione sempre più grande. Ma se ciò vale per l'economia e, particolarmente per la finanza, totalmente svincolata ormai da qualunque paternità statuale, se ciò vale per le imprese criminali, per le varie mafie (giapponese, cinese, russa, americana, italiana, ecc.) e per i vari cartelli della droga (Asia, Sud Est asiatico, America latina, ecc.) i cui rapporti s'intrecciano a livello planetario in aggregazioni sempre più potenti, la domanda è: perché anche la politica non trae insegnamento da tale situazione e si adegua per il bene dei popoli? Perché quel poco di politica economica che ancora gli Stati possono determinare non trova un coordinamento a livello europeo? Per quale accidente di motivo non trovano una politica comune gli ordinamenti fiscali che, invece, concorrono a sedimentare l'attuale parcellizzazione? Perché non si spinge per un'integrazione degli ordinamenti giudiziari continuando a limitare a poco più di una decina i reati per i quali è possibile l'emissione del mandato di cattura europeo? E, di converso, perché a livello nazionale non si riscontrano politiche statali, regionali, provinciali, comunali che spingano soprattutto la piccola e media impresa ad aggregarsi per agganciare le cosiddette reti lunghe del mercato europeo e globale, paradossalmente, proprio per rimanere tale preservando così economie, tradizioni e culture locali? Ce lo siamo chiesto molte volte e, con ogni probabilità, tante altre volte ce lo richiederemo senza riuscire ad avere uno straccio di risposta che non sia quella che l'Europa vuole i suoi tempi, che occorre superare ritrosie; un'Europa cioè poco più che nominalistica che non riesce a trovare politiche comuni neppure di fronte all'onda dilagante del fenomeno migratorio lasciato poco più che all'iniziativa del singolo; una situazione, quest'ultima, dove la singolarità, la particolarità non è premiante. Ma, allora, perché questo caos, questa irrazionalità elevata a sistema? Perché questa persistente riottosità ad un'unione tra diversi pur auspicandola ad ogni piè sospinto? Io non lo so. Ma mi viene in mente la Divina Commedia dove Virgilio, dinanzi alle perplessità di Caronte prima e di Minosse poi, tacita i due rimarcando che lui e Dante devono procedere nonostante le asperità del viaggio perché "vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare". Nel casino incomprensibile che stiamo vivendo, che abbia ragione Padre Pio? Roberta Forte

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LA PARTICOLARITA’ COME VANTAGGIO Tutti a parlar male dell'universalismo. Alcuni convintamente a ragione e altri per finta ma ciascuno condannandolo con tesi più o meno variegate, tutte dai toni terrificanti. Ciò che si paventa, infatti, è la realizzazione di un progetto che prevede l'instaurazione di un unico Governo Mondiale, depositario del potere economico, politico, culturale e religioso, sovrastato dalla grande finanza. C'è chi vede già l'avvio di un tale progetto nell'integrazione dei grandi sistemi: gli USA ma anche l'Unione Europea, l'America Latina e, via via, il Giappone, la Russia, la Cina, l'India. C'è persino chi spinge la tesi, a proposito di integrazione, o di disintegrazione se si preferisce, a considerare le ondate migratorie provenienti dai Paesi in via di sviluppo o del Terzo Mondo come strumentali a tale fine; nel senso che, a prescindere dalla vicinanza, sarebbero dirette verso i Paesi occidentali perché per cultura e per ordinamenti giuridici e sociali risulterebbero i più permeabili e, quindi, i più facilmente disgregabili. Manco a dirlo, i registi di un tale progetto si anniderebbero in istituzioni occulte o semi-pubbliche (Trilateral Commission, Bilderberg Group, Council on Foreign Relations, Pilgrims Society, sistema bancario internazionale, ecc.) prive di qualsiasi rilievo giuridico-costituzionale, mediante i quali l'oligarchia matura le scelte funzionali alla realizzazione dell'obiettivo strategico ultimo: il raggiungimento del potere mondiale. Oh! Dimenticavo di dirlo. Un progetto, quello di cui sopra, è meglio noto col nome di "mondialismo" piuttosto che di "universalismo" o, meglio "universalità". Il portato del mondialismo, per quel che ne sappiamo, è la scimmia dell'universalità; è la contraffazione antitradizionale delle idealità universali che hanno omogeneamente permeato le costruzioni politiche ed hanno ispirato le vicende storiche delle civiltà tradizionali. E' la materializzazione e la decomposizione internazionalistica in senso orizzontale dell'idea-forma universalistica. É la reductio ad unum, un processo dissolutivo discendente, il cui tratto distintivo è il riduzionismo, cioè la degradazione dell'umanità ad una poltiglia indifferenziata, secondo i perversi ritmi scanditi da condizionanti e alienanti dinamiche massificatorie. Punto d'arrivo è la realizzazione di individui-robot che incarnano demenzialmente e indifferentemente il ruolo di tesaurizzatore, trafficante e consumatore di cose materiali. Questo obiettivo tattico sarebbe perseguito dall'oligarchia mondialista in funzione di una strategia di dominio planetario.


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Religione e politica, nazione e razza, cultura e costume, diventerebbero puri nomi carenti di qualsivoglia contenuto; rappresentazioni multicolori da immettere nei mercantili e cosmopoliti circuiti della società mondiale dello spettacolo; allucinazioni collettive che surrogano la realtà, alterando ogni organico rapporto di interazione tra l'uomo e la sua interiorità. Ridotto il valore ad interesse, l'individuo diventa schiavo del denaro e, conseguentemente, di coloro che lo creano, lo controllano e se ne servono con diabolica perizia. Terribile, non c'è che dire. Ma se ci sforziamo di separare i due termini e di attribuire a ciascuno il proprio vero significato, devo confessare che un processo di universalità a me non spaventa più di tanto. Anzi, con i dovuti distinguo e approfondimenti, sarebbe persino da auspicare. Forse, sarà perché la manifesta aspirazione a fare dell'ordine di valori di cui si è portatori il centro di gravità di un processo di unificazione mondiale, è stata sempre caratteristica costante di ogni forma tradizionale, di ogni religione e, più ampiamente, di ogni movimento di Idee ispirato ai valori della tradizione. È la ordinato ad unum, l'universalità, cioè il progetto di integrazione dei popoli nel quadro di un ordine gerarchico a contenuto etico-spirituale, modellato sui valori dell'essere e culminante nella dimensione metafisica. E ciò all'interno e nel rispetto di differenziate e organiche forme tradizionali, conformi alle vocazioni spirituali e alle conformazioni etiche delle diverse comunità umane. L'universalità, del resto, è un sistema di gerarchie ontologiche che configurano un ordine piramidale ascendente, non appiattente, lungo un asse verticale. Detto così, mi rendo conto di aver poco chiarito il concetto di universalità. Proviamo ad immaginare, allora, un mondo caratterizzato da tante, innumerevoli realtà culturali, economiche, sociali, civili, senza frontiere. Tutte in pace tra di loro perché convinte assertrici che l'obiettivo primario da prefiggersi è il bene di tutti e di ciascuno. Realtà aperte alle immigrazioni di soggetti diversi, portatori di culture e valori differenti, accolti nei luoghi di destinazione e integrati senza alcun intento di omologazione; anzi, con la libertà di praticare tradizioni, usi e culti propri. E ciò in quanto perché vi è la convinzione che due culture differenti, due tradizioni diverse, una volta in contatto si arricchiscono entrambi. E' la crescita morale e spirituale di tutti e di ciascuno, nel rispetto di poche ma ferree norme, più che altro richiamantisi al diritto naturale. Esisterebbe, ovviamente, una proprietà privata coniugata, comunque, con i principi di solidarietà e di giustizia perché fare del male, cioè ledere il benessere altrui o impedire o frustrare le aspirazioni dell'altro in maniera subdola o distorsiva, in qualunque contesto culturale e giuridico, oltre a essere un peccato, è un reato. Una universalità, perciò, basata sulla tolleranza nella sua forma più ampia, spinta persino nella libertà di diffondere idee, convinzioni od opinioni contrarie alle proprie, purché osservanti i principi di giustizia e del diritto naturale. Si afferma che le idee di François-Marie Arouet, in arte Voltaire, abbiano influenzato persino il portato della Rivoluzione francese.

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Non so se ciò corrisponda interamente al vero ma fatto è che quella rivoluzione realizzò una sorta di egualitarismo di maniera, sotto l'egida di una non meglio precisata libertà e in nome di una nominalistica fratellanza. Nel senso che era lo Stato, nonostante la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e del cittadino, a riconoscere tali diritti che, alla fine, senza giustizia sostanziale e solidarietà, risultarono puramente virtuali al punto da ripristinare, al 9 Termidoro Anno II, con il ghigliottinamento di Robespierre, buona parte degli assetti precedenti. Tuttavia, i riflessi di quella Rivoluzione si spingono fino ai giorni nostri e sono considerati come illuminanti, come fiaccole di luce mentre, in realtà, promanano dalla concezione di uno Stato etico e, perciò, dittatoriale. Faccio fatica, quindi, a riconoscere al pensiero di Voltaire riverberi su quella rivoluzione quando la concezione del filosofo, a proposito dei diritti e della libertà, arrivò a scrivere, a proposito dell'autore dell'Esprit, Claude-Adrien Helvétius: "Mi piaceva l'autore de L'Esprit. Quest'uomo era meglio di tutti i suoi nemici messi assieme; ma non ho mai approvato né gli errori del suo libro, né le verità banali che afferma con enfasi. Però ho preso fortemente le sue difese, quando uomini assurdi lo hanno condannato.". Un chiaro esempio di libertà e, al tempo stesso di tolleranza nel senso più ampio del termine che culmina in Voltaire nell'affermare: "L'apprezzamento è una cosa meravigliosa; fa sì che ciò che è eccellente negli altri appartenga anche a noi." a chiara dimostrazione della concezione di un'integrazione arricchente all'interno di una universalità rispettosa delle particolarità. Il fatto è, invece, che al di là delle panie complottiste del mondialismo, la logica perversa alla quale sottostare è quella dei mercati finanziari ai quali s'inchinano, devono inchinarsi, Stati e popoli. Un tempo, con un po' d'ingenuità, si sarebbe auspicata una diversa politica. Oggi, la politica e la sua funzione, in un ruolo di opportunismo congeniale se non di servilismo, alimenta le discutibili logiche proiettando sempre più l'Universo in una bolgia paranoica dove i concetti di pace, benessere, giustizia, sono nei fatti sostituiti da forza impositiva, crescita senza qualità, opportunismo strategico; un mondo che, nell'imbarbarimento, sta altresì cancellando due fondamentali concetti: quello degli Ordini e delle Gerarchie. Circa trent'anni fa, il consigliere di Reagan, Francis Fukuyama, scrisse un saggio critico verso il rinato imperialismo americano; un saggio che ebbe vasta risonanza nel mondo e sollevò non pochi timori: "La fine della storia e l'ultimo uomo", dove il politologo affermava che l'ordine capitalistico, basato sulla cancellazione di qualsiasi legame umano o sociale non mediato dal mercato, apparentemente tollerante di stili di vita e di opinioni politiche diverse, era ormai l'orizzonte ultimo dell'umanità. Come a dire che l'orizzontalizzazione della società, insieme alla sola dottrina liberista, aveva contribuito a far venire meno la figura del Principe, o del Popolo che dir si voglia, e in conseguenza quella del Potere spirituale. E l'una senza l'altra non si sostiene, non vi è democrazia, vi è caos, confusione, fine della storia.


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Alcuni anni dopo, lo stesso Fukuyama, non più consigliere, scrisse un altro saggio, molto meno noto del precedente, eppure risolutivo dell'analisi fatta in precedenza: "La grande distruzione. La natura umana e la ricostruzione di un nuovo ordine sociale" dove il politologo affermava che l'uomo ha comunque dentro di sé la capacità di creare un'alternativa al suo destino apparentemente segnato. E non vi è altra premessa ad un tale cammino se non attraverso una sorta di ripristino di Ordini e Gerarchie. Da convinto laico, ben venga, quindi, Papa Francesco, veramente il Papa della Speranza, al di là della definizione di Obama. Non ignoro la difficoltà di un così arduo percorso alternativo ma ciascuno di noi è un attore, ciascuno di noi vive all'interno di una comunità, ciascuno di noi può fungere da esempio; un po' come le partizioni di una melagrana che danno vita al frutto nella sua interezza, pur continuando ciascuna nell'opera di placentazione del seme al suo interno. E se l'azione congiunta accresce la determinazione, la temperanza di ogni singolo sosterrà la difficolta e l'avversione che s'incontrerà inevitabilmente sul cammino. Francesco Diacceto

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ITALIANS: UN NUOVO PATRIOTTISMO PER RITORNARE PROTAGONISTI Si parla spesso, negli ambienti politici, del declino che sta vivendo la politica italiana. Un declino che accompagna destra e sinistra, liberali e socialisti, democristiani e liberaldemocratici. Sono tanti i partiti di sinistra che hanno manifestato malumori con il tipo di politica attuato dal partito dominante, Partito Democratico, ma in particolare con il tipo di politica attuata dal leader di quest'ultimo, Matteo Renzi. La ribellione ha provocato la nascita di movimenti come Possibile di Giuseppe Civati o Coalizione Sociale di Maurizio Landini. Anche la destra politica sta vivendo la stessa situazione. Nell'area di centro-destra iniziano ad esserci i partiti che non condividono le posizioni dei partiti dominanti. I partiti dominanti sono Forza Italia e Lega Nord, dunque due partiti due Leader. Un Leader, come Silvio Berlusconi, ancora in piedi grazie alla forza economica e mediatica di cui gode e l'altro è Matteo Salvini. Questi due partiti hanno avviato un tipo di politica antieuropeista, populista e anti-progresso. Se da una parte la Lega sta vivendo un buon momento, dall'altra ci sono persone e partiti che non condividono appieno questo modo di far destra. Mi riferisco a persone come Flavio Tosi, Gianfranco Fini o Raffaele Fitto, ma se indaghiamo a livello locale, troviamo tanti partiti piccoli che desiderano avere una destra più moderna e diversa rispetto a quella rappresentata dai due principali partiti. Come accaduto a sinistra, anche a destra è opportuno lavorare per far crescere un nuovo forte partito patriottico, repubblicano, riformista che lavori concretamente per riportare il benessere fra gli italiani, non solo dal punto di vista economico, ma anche sociale e ambientale. Un forte partito che sappia mettere al centro della sua politica tutto ciò che riguarda, direttamente e indirettamente, l'Italia, gli italiani e l'Europa. Europa perché il suo destino dipende da noi e il nostro destino anche dall'Europa. Una politica forte che sappia davvero mettere al centro di tutto ogni italiano, comprese le tante persone che si sono trasferiti all'estero perché non si sentano mai smarriti. In sostanza, la destra italiana ha bisogno di elementi politici in grado di proporre una nuova offerta elettorale per mettere in discussione Renzi, ma anche Salvini e Berlusconi. Democrazia è anche Competizione. Poniamo, dunque, questo quesito: dobbiamo davvero accontentarci di Salvini e Berlusconi? A sinistra hanno risposto di no alla domanda per quanto riguarda Matteo Renzi. Ora è opportuno che anche a destra ciò avvenga perché gli italiani ne hanno davvero bisogno. Raffaele Dadone


EUROPA/VISIONI EUROPEE

EUROPA: O UNITA O IN GUERRA Parole chiare, nella loro estrema drammaticità, quelle del Presidente Mattarella, sintetizzate da un titolo che ho concepito volutamente "duro". Siamo al "redde rationem" e non vi è più tempo da perdere con le ciance dei qualunquisti e le furbesche azioni dilatorie dei "potentati" cinici e spietati, intenti solo a salvaguardare il loro "agiato presente". Quest'articolo, cari giovani, è rivolto prevalentemente a voi. Noi adulti abbiamo la terribile responsabilità di avervi lasciato in eredità un mondo in macerie e di ciò possiamo solo chiedervi scusa. Anche i "non colpevoli" sono responsabili per non aver saputo fermare i "colpevoli". Ora è compito vostro prendere le redini in mano e ricostruirlo. In che modo? Dipenderà da come vi preparerete a raccogliere la terribile eredità, in un momento storico che prevede ancora un lungo processo di transizione, durante il quale sarà possibile di tutto. Molti di voi sono pervasi da un alto quoziente intellettivo, che consente di "capire" meglio di quanto non accada ad altri le fenomenologie sociali, i processi evolutivi, le tendenze. Queste capacità consentono di essere un passo avanti e vincenti, qualunque cosa si faccia. Saranno proprio le intelligenze più lucide che accederanno alle leve del potere politico ed economico e si abbasserà gradualmente, come già sta avvenendo, l'età media di coloro che fungeranno da "guida", perché il processo tecnologico, inarrestabile, sarà meglio recepito e gestito proprio da chi "cresce con esso". Una vera rivoluzione bussa alle porte e tanti studiosi si stanno preoccupando di analizzarla in fieri, aggiungendo caos al caos, come sempre accade nei periodi di transizione, con una sola certezza condivisibile: "Le rivoluzioni non accadono quando la società adotta nuove tecnologie, bensì quando adotta nuovi comportamenti". L'intelligenza, da sola, per cambiare in meglio la società, non basta. Di uomini "intelligenti" al potere ne abbiamo molti, ovunque. I risultati delle loro azioni, però, sono sotto gli occhi di tutti, soprattutto i vostri, che siete le principali vittime della loro "inadeguatezza". All'intelligenza va affiancata una profonda "conoscenza", che con termine generico ma esplicito, si definisce "cultura". Quella che manca a troppi di voi e che invece va recuperata d'imperio, perché è l'unico antidoto a derive sociali sempre più pericolose. Se oggi, infatti, gli uomini al potere si possono permettere di pronunciare frasi del tipo: "Falsare i bilanci non è reato" o "Per essere un buon politico non serve studiare i classici, basta guardare The House of Cards" (insulsa fiction statunitense che insegna come gestire il potere politico con il cinico disprezzo del bene comune e solo nel proprio interesse), cosa accadrà domani, quando si dovranno adottare soluzioni "terribili" per scongiurare davvero la terza guerra mondiale?

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Dietro ogni azione si cela la qualità di colui che la pone in essere. L'intelligenza, mancipia di "conoscenza", potrà solo generare immani disastri, ben più gravi di quelli che si registrano oggi. Cambiare "i comportamenti", pertanto, è fondamentale. Per tutti. E' un processo prerivoluzionario propedeutico al vero cambiamento, che dovrà consentirci di preservare la vita. Quella vita che state rovinando nella vana ricerca di un senso "lì dove un senso non può esservi": sballo continuo, droga, alcool, divertimento dissoluto, rifiuto dello studio "serio". L'ignoranza che vi attanaglia è abissale, anche tra le menti "intellettivamente" più dotate. Sarete tutti chiamati a "decidere" qualcosa e la mancanza di "cultura" non potrà che suggerirvi scelte sbagliate. "L'Europa ha un compito di grande rilievo", dice il Presidente Mattarella. E' vero, ma per esercitarlo occorre che sia davvero unita. E non lo sarà mai fino a quando voi giovani non sarete ben attrezzati culturalmente per favorire un reale processo d'integrazione. La cultura sconfigge ogni male, a partire dai peggiori: il qualunquismo, il nazionalismo becero, il razzismo. Ritornate a studiare seriamente, partendo dai classici della letteratura, della storia e della politica, che sono sempre "attuali", raccogliendo l'invito del Presidente: "La democrazia si esporta con la cultura e con l'esempio". Il resto verrà da sé e l'Europa sarà il perno per un nuovo ordine mondiale. In mancanza, anche se con strumenti tecnologici avanzati tra le mani, non sarete dissimili dai quei "lazzari" del 1799, che osannavano chi li depredava di tutto e mandarono alla forca chi si batteva anche per loro. Lino Lavorgna


SOCIETA’

DAS BETRUG Da europeo non me la sento di gioire per i guai della casa di Wolfsburg. Le quote di mercato che inevitabilmente perderà saranno acquisite da altri competitori che, probabilmente, non saranno europei e, se dovessero avverarsi le previsioni più funeste, quali le multe stellari e la class action degli azionisti, la casa automobilistica rischierebbe il collasso o, addirittura, la chiusura. E questa sarebbe una sconfitta europea, non solo tedesca. A maggior ragione se fossero vere le tesi di chi, dietro l'affaire, vi legge un tentativo di ridimensionare una Germania troppo espansionista. L'indebolimento della Germania, che è pur sempre la locomotiva d'Europa, non farebbe bene a nessun europeo. Inoltre, va ricordato, la Volkswagen (letteralmente auto del popolo) doveva essere, nelle intenzioni degli ispiratori, la prima vettura "sociale" europea. Da italiano cambia l'ottica in maniera quasi schizofrenica ma, a ben guardare, in piena sintonia con l'essenza dell'Europa per come è stata fin qui costruita. Da italiano la "truffa" tedesca costituisce un lenitivo, quasi un balsamo, per tutto il dileggio audacia temeraria igiene spirituale inferto agli italiani dalla stampa tedesca, ripaga delle copertine dello "Spiegel" a base di corruzione, mafia e spaghetti, ridimensiona il complesso di inferiorità collettivo rispetto alla presunta superiorità dell'etica protestante su quella cattolica, alleggerisce il fastidio derivante dai sorrisetti di sufficienza nei confronti dei nostri capi di governo e ministri (a prescindere dalla loro effettiva caratura), dimostra la fallibilità dei tedeschi, umani, troppo umani, almeno per una volta. Eppure c'è qualcosa di sbagliato in questa visione duale, contraddittoria e forse superficiale. Che cosa ha indotto il management di Wolfsburg a mettere in piedi una vera e propria truffa su vasta scala se non la logica del profitto (che è la stessa che sta alla base di tutti i fenomeni di corruzione/concussione, truffa e raggiro) unita a dosi pericolose di narcisismo e di delirio di onnipotenza proprie di un capitalismo senza alcuna funzione sociale? Che cosa induce l'Unione Europea, al di là della facciale tutela dell'ambiente, ad emanare periodicamente norme sulle emissioni sempre più stringenti ed onerose per i consumatori, senza aver definito una svolta strategica ragionata e sistemica al problema della polluzione da autotrasporto, che comunque rappresenta solo una frazione delle emissioni totali (un aereo di linea, ad esempio, consuma mediamente 4 litri al secondo, 14.000 litri ora, pari a 150.000 km percorsi in auto, oltre sei anni di utilizzo medio (12.500 km/anno quello italiano). Ogni giorno di effettuano nel mondo oltre 90.000 voli, calcolando una durata media di tre ore il

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consumo giornaliero è di oltre 4 miliardi di litri di cherosene; nel mondo circolano un miliardo di automobili, ognuna dovrebbe percorrere 40 chilometri al giorno per equiparare il consumo aereo, ma così non è)? Quali interessi vengono tutelati dalle scelte politiche europee e a quali lobbies esse rispondono? Forse sono queste le domande che dovremmo porci per meglio valutare, al di là delle reazioni epidermiche, un episodio che va ben oltre la dimensione del semplice imbroglio in salsa di crauti. Pierre Kadosh


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KURDISTAN IN FERMENTO: INTERVISTA A NAZIM DABAQH

I curdi sono un popolo appoggiato su quattro nazioni. Un'unica lingua per quattro mondi, una sola identità che ogni giorno si deve rapportare con quattro diversi governi centrali e con un'infinità di problematiche diverse, si pensi al conflitto siriano o alle azioni militari in corso della Turchia contro il Pkk. E, come avviene ovunque, vi sono idee diverse che si confrontano ed anche si scontrano, partiti politici che guardano all'insieme curdo, ma anche alla realtà sociale e politica siriana, turca, iraniana e irachena. Solo in quest'ultimo caso, tuttavia, i curdi hanno trovato una connotazione geografica ufficiale e riconosciuta, dopo essere stati perseguitati dal regime di Saddam Hussein: si tratta della Regione autonoma del Kurdistan iracheno, che ha proprie Alte rappresentanze all'estero. Ne abbiamo voluto discutere della complessa ma interessante realtà dei curdi con Nazim Dabbagh, rappresentante della Regione autonoma in Iran. Nazim Dabbagh ha 68 anni e nel 1991, durante la rivolta curda contro Saddam Hussein era stato comandante delle operazioni militari nel teatro di Dahuk. Con la fondazione della Regione autonoma del Kurdistan irq., è stato responsabile del partito dell'Unione Patriottica per la provincia di Dahuk, poi capo dell'ufficio politico del partito a Erbil, viceministro della Pubblica istruzione per più gabinetti e rappresentante di Jalal Talabani e dell'Unione Patriottica al Congresso nazionale curdo a Bruxelles. Dr. Dabaqh, dopo dieci anni (due periodi legali di 4 anni e 2 anni su accordo tra il Partito democratico del Kurdistan "Pdk" e l'Unione Patriottica del Kurdistan "Puk"), il 19 agosto è stato l'ultimo giorno di presidenza di Masud Barzani. Secondo la Costituzione del governo regionale, il presidente può rimanere in carica solo per due periodi consecutivi di 4 anni. Al momento il Pdk insiste per un'ulteriore proroga del mandato di altri due anni, per poi giungere a elezioni, mentre il Puk, il Movimento per il Cambiamento (Gorran), l'Unione Islamica Curda (Yik) e il Gruppo Islamico del Kurdistan (Komel) sono contrari ad un quarto mandato, ma fino ad oggi gli incontri fra i quattro partiti di opposizione e il Pdk non hanno prodotto risultati. Come valuta la situazione? “La questione della presidenza della Regione autonoma del Kurdistan irq. comporta alcuni cambiamenti, come la riforma elettorale e la possibilità di prorogare la guida del presidente Masud Barzani. Al momento i partiti non hanno trovato l'accordo, a parte il piano stabilito il 17 novembre che contempla due possibilità, ovvero che il presidente della Regione venga eletto dal

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parlamento e che gli siano attribuiti ampi poteri, oppure che sia eletto dal popolo, ma quale figura di rappresentanza e con meno poteri. I partiti sono chiamati a prendere una decisione immediatamente dopo il "Id al-aha", la festa del Sacrificio che si è giusto tenuta ieri. La domanda chiave rimane sul tavolo: è possibile forzare la Costituzione e quindi dare la possibilità a Masud Barzani di ricandidarsi nuovamente? Secondo me un'eventuale estensione della presidenza Barzani per altri due anni non rappresenta in sé un problema, ma crea un precedente, ed è qui il vero problema. A guardare come si stanno muovendo i vari partiti, non sembra che la questione sia destinata a risolversi in breve tempo, per quanto sarebbe sufficiente trovare un accordo sulla transizione e sui poteri per chiudere il caso. Oggi il popolo curdo si trova a dover superare una crisi importante determinata da una serie di fattori, e gli viene detto che risolvere la questione della presidenza è essenziale per affrontare la crisi stessa, ma è invece necessario gli interessi della nazione curda e del popolo siano considerati al di sopra di qualsiasi interesse individuale e di partito. Per cui io ritengo che il problema rimanga tecnico: Barzani è un combattente ed un personaggio famoso, un emblema per il popolo curdo, ma resta la questione della legittimità, ovvero del rapporto tra la legge e la transizione dei poteri". Perché l'Unione Patriottica non si è detta d'accordo per la proroga del mandato a Barzani, come invece lo era stata nel 2013? "Questa domanda dovrebbe essere rivolta all'Unione Patriottica. Come membro dello stesso partito posso dire che già due anni fa ci eravamo posti il problema e ci eravamo dati il tempo per arrivare ad una posizione chiara, un rinvio che abbiamo pagato perdendo sostenitori. D'altro canto va detto che l'accordo che avevamo raggiunto con il partito di maggioranza non è stato applicato pienamente, se non per quanto riguarda la proroga della presidenza di Barzani. Oggi, a differenza del passato, l'Unione Patriottica si trova in una realtà che vede più partiti, ed il Partito Democratico si trova in un governo di coalizione con il Movimento per il Cambiamento". Il 5 agosto Rudaw Tv, emittente vicina al premier Nechirvan Barzani, ha riportato che il generale iraniano Qassem Suleimani, comandante della Brigata al-Quds, si era incontrato il giorno prima con Masud Barzani e con lo stesso premier, e che era accompagnato da un alto funzionario il quale portava un messaggio dell'Iran indirizzato ai partiti d'opposizione, l'Unione Patriottica e il Gorran, dove si auspicava la proroga del mandato al presidente Barzani e il non indebolimento dei suoi poteri "quale leader del Kurdistan irq. in questa situazione delicata che vede la lotta all'Isis". Non le sembra un'intromissione negli affari interni di una potenza straniera? "Io stesso, nella mia qualità di Alto rappresentante della Regione autonoma del Kurdistan irq. a


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Teheran, ero presente ad alcuni di questi incontri. In relazione all'episodio che cita, mi sono informato presso alcuni delegati e posso dire che il parare del generale Qassem Suleimani, cioè dell'Iran, era ed è dettato dalla necessità che in questo delicato momento la Regione autonoma abbia necessità di stabilità e sicurezza. Pur considerando e rispettando la piena autonomia decisionale della Regione, è stato espresso un invito ai partiti di non compromettere i rapporti con gli altri partiti. In realtà sono stati fatti più nomi per la presidenza, tra i quali quello di Barzani, e gli iraniani ritengono che i partiti, nel loro stesso rispetto, possano arrivare ad un accordo. L'Iran non appoggia una persona specifica, chiede solamente che i partiti non litighino in questa fase delicata con la guerra alle porte. Va detto inoltre che i delegati iraniani erano presenti a questi incontri nella veste di ascoltatori, e che sono intervenuti solo per sollecitare un accordo e per auspicare l'unità fra la Regione autonoma e l'Iraq". Ari Hersin, capo della Commissione Peshmerga nel parlamento del Kurdistan e uno dei principali esponenti del Pdk, il mese scorso ha avvertito i partiti dell'opposizione della necessità di prorogare la presidenza di Barzani, poiché la Regione autonoma ha davanti due opzioni, ovvero tornare al "sistema delle due amministrazioni" (separazione delle province fra i due partiti principali, il Pdk e il Puk, come si era fatto negli anni Novanta), oppure la "guerra civile fra le fazioni opposte". Secondo Lei la mancata estensione dell'incarico a Barzani potrà davvero sfociare in uno scontro violento fra le parti? "Mah, Hersin è libero di esprimere le proprie opinioni, ma basta fare attenzione per vedere che si tratta di una posizione opposta a quella del presidente Barzani, il quale ha anche detto in modo deciso che non ci sarà posto per chi parla di dividere il Kurdistan. Possiamo porci questa domanda: noi curdi ci lamentiamo perché la nostra regione è divisa su quattro nazioni (Siria, Iraq, Turchia, Iran, ndr.)… a chi dare quindi la colpa per un'ulteriore divisione del Kurdistan irq. in tre parti? Non vi sono ne' orgoglio ne' onore in una guerra civile che ha diviso il Kurdistan e che ha portato a un sistema politico con due governi e con due amministrazioni. Se è quello che piace a Hersin, se lui è contento e soddisfatto di quel passato, è una cosa che riguarda lui e l'approccio del suo partito sulla questione". Parliamo dei curdi della Turchia. Dopo quasi tre anni sono falliti i negoziati di pace fra autorità turche e il Pkk, e dopo tre anni l'esercito turco ha bombardato i villaggi, gli obiettivi logistici, le caserme e le basi del Pkk nel nord del Kurdistan irq., un'azione che finora ha portato alla morte di almeno 960 membri del Partito Curdo dei Lavoratori. Le province a maggioranza curda nell'est della Turchia si trovano in una situazione molto critica e pericolosa. Selahattin Demirta?, leader del "Hdp" (Partito Democratico dei Popoli, filocurdo) in un'intervista al

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quotidiano Hurriyet ha dichiarato che i fattori principali del fallimento dei negoziati di pace sono stati il rifiuto del governo turco di produrre una legge volta a disarmare i miliziani del Pkk e la crescente popolarità del Hdp, che con le elezioni del 7 giugno è entrato in Parlamento superando lo sbarramento del 10% (ha preso il 12,7%, ndr.), cosa che ha avuto come conseguenza la sconfitta dell'Akp di Erdogan, che si mantiene primo partito, ma senza la maggioranza assoluta e quindi nell'impossibilità di governare. Anche Lei ritiene che gli accordi di pace siano naufragati per gli stessi motivi e quale ruolo hanno avuto il presidente Erdogan e le autorità di Ankara in tale fallimento? "I curdi sono una realtà importante della Turchia, e la lotta armata ha avuto inizio molti anni fa. Specialmente al tempo del presidente turco Turgut Özal e di Mam a Jalal Talabani sono stati proposti accordi di pace e un piano per risolvere in modo pacifico la questione fra i curdi e i turchi. Tuttavia dal 1986 ad oggi vi sono state ben 25 operazioni militari dell'esercito turco contro il Pkk e il popolo curdo. Ed anche tre anni fa il presidente Erdogan aveva promesso ai curdi la ripresa dei negoziati di pace, e Masud Barzani e Jalal Talabani avevano appoggiato quest'iniziativa. La domanda ora è la seguente: negli ultimi tre anni i curdi si sono impegnati nel cessate-il-fuoco, ma il governo turco ha mantenuto le promesse fatte ai curdi? Si parla dei due poliziotti uccisi… ma perché non si guarda al massacro di Suruc, costato la vita a decine di giovani, donne e bambini? Se il processo di pace fosse stato appoggiato su basi solide, non sarebbero stati due eventi ad incrinarlo e ad avviare una guerra che sta costando centinaia di vittime da entrambe le parti. Io condanno l'assassinio dei poliziotti ed anche la strage di Suruc, ma secondo me Erdogan ha deciso di cominciare una guerra in Turchia, non sono stati i curdi a inizia. Ora le due parti devono tornare al tavolo del dialogo. La linea secondo cui finché non verrà sciolto il Pkk non si fermeranno le operazioni militari c'era anche in Iraq, quando l'ex regime si è scontrato con il fallimento del Trattato di Algeri. I curdi che allora deposero le armi vennero sfollati, come pure vennero interdetti a Jalal Talabani e a Maud Barzani il suolo e l'acqua dell'Iraq… ed oggi loro sono rispettivamente il presidente dell'Iraq e il presidente della Regione autonoma del Kurdistan irq., grazie alla lotta che i due hanno continuato". Come vede le elezioni in Turchia, previste per il 1 novembre? Riuscirà l'Hdp, con le tensioni in corso, a raggiungere il 13%? "Le elezioni anticipate non rappresentano una novità. La mia previsione è che l'Hdp prenderà più voti rispetto elezione del 7 giugno. La guerra scatenata dall'Akp (il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo di Erdogan, ndr.) ha riacceso i sentimenti nazionalistici dei curdi, che andranno a votare l'Hdp. D'altro canto ritengo che, nella situazione attuale, in generale i partiti che difendono l'accordo di pace otterranno più voti".


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Parliamo dei curdi della Siria. Ultimamente sono state pubblicate notizie che danno la prossima apertura di uffici di rappresentanza del partito dell'Unione Democratica della Siria (Pyd) a Sulaymaniyya, con gli aiuti dell'Unione Patriottica. Che dice in proposito? "Si, è una notizia fondata. D'altronde anche gli altri partiti curdo-siriani che vedono molti profughi nella regione del Kurdistan hanno aperto uffici a Duhok, Erbil e a Sulaymaniyya". Salih Muslim, leader del Pyd, che è il principale partito curdo della Siria, ha dichiarato che suo partito, con il sostegno del Pkk, attualmente controlla tre cantoni nel nord-est della Siria, Kobane, Jazire e Efrin. Egli ha sottolineato più volte che curdi siriani non vogliono l'indipendenza e solo vogliono che siano riconosciuti i loro diritti nella Costituzione siriana. D'altronde vi sono diverse notizie che indicano una certa collaborazione fra i curdi siriani e l'esercito di Bashar al-Assad nella lotta contro l'Isis e gli altri gruppi terroristici ed anche di recente sono girate le immagini di una base militare dell'esercito siriano situata in un cantone curdo. La cosa ha ovviamente fatto infuriare il presidnete turco Erdogan. Lei ritiene che una tale collaborazione possa tornare utile alla stabilità della Siria? Ha avuto un ruolo di mediazione l'Unione Patriottica fra il Pyd e il governo siriano? "Salih Muslim, come gli altri leader curdi, ha parlato dei desideri e la volontà del popolo curdo. E' necessario arrivare ai diritti del popolo curdo attraverso la Costituzione e le leggi della Siria: i curdi sono impegnati in una cruenta battaglia contro l'Isis e gli altri gruppi estremisti, perchè i loro diritti siano strutturali e trovino il giusto riconoscimento giuridico. Personalmente non mi è mai capitato di sentire che il Puk abbia avuto un ruolo di mediazione fra i curdo-siriani e Damasco, dal momento che loro decidono in modo autonomo e sono liberi nelle loro scelte". Alcune fonti riferiscono che il Puk abbia cercato di mettere in contatto l'Iran con il Pyd curdo. Indubbiamente il Puk rappresenta un alleato strategico di Teheran nel Kurdistan irq. ... Possiamo dire che l'apertura degli uffici di rappresentanza del Pyd a Sulaymaniyya sia avvenuta grazie all'interessamento iraniano? "Mi sorprende il numero delle domande sull'Unione Patriottica. Il Puk è orgoglioso di promuovere il processo di pace e di dialogo senza ostacoli. La realtà attuale mostra che il popolo curdo ha cercato attraverso i vari pariti di avere contatti con i paesi vicini. Come nel caso del Partito Democratico e dell'Unione Patriottica in Turchia e in Iran: è logico pensare che anche il Pyd voglia avere le sue relazioni con i paesi circostanti". Il progetto della barriera che la Turchia vuole costruire lungo il confine del Kurdistan siriano e quindi, idealmente, del Pyd, può entrare in un tentativo di arginare i rapporti dei curdi siriani con il Pkk?

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“Se guardiamo a Israele e agli altri paesi che si trovavano ad affrontare problemi simili, arriviamo alla conclusione che la costruzione dei muri può impedire la circolazione delle persone, ma non della volontà e della speranza. Il miglior modo di prevenire e di fermare i conflitti è dare attenzione e considerare i diritti e le esigenze delle popolazioni". Tuttavia Fuad Eliko ex numero uno del partito siriano "Yekiti'', ha affermato che "i peshmerga, vicini al presidente Barzani, sono pronti a collaborare con la Turchia nella costruzione della barriera per controllare le zone curdo-siriane". Potremo assistere quindi ad uno scontro fra i peshmerga vicini a Barzani e il Pyd? "Io ritengo che la cosa più importante di tutte sia l'unità delle forze della nazione curda. Qualunque cosa accada è importante che i peshmerga rimangano uniti. E' necessario che tutte le questioni procedano in accordo e con il coordinamento dei partiti, e sarò contento di vedere che tutti i partiti potranno contare su una forza unica". Ehsan Soltani


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SIRIA: PROFUGHI, ISIS E GUERRA Il teatro siriano vede non uno ma più conflitti in corso. Alcuni sono palesi, come la sollevazione delle opposizioni contro Bashar al-Assad, la lotta dei curdi contro il Daesh (Isis), la guerra dell'esercito regolare contro al-Qaeda e contro il Daesh, ed alcuni meno evidenti, come l'atavica lotta giocata su altri scacchieri tra Qatar e Arabia Saudita, quella fra al-Qaeda e Isis, fra Turchia e curdi, fra sciiti e sunniti e fra Hezbollah e Israele, il quale ha colpito in più occasioni convogli di armi diretti dalla Siria in Libano. Vi è poi l'attrito fra Russia e Usa. Se si immagina una linea orizzontale, gli Usa hanno proprie basi militari in tutti i paesi dal Marocco al Kirghizistan, con esclusione solo di Siria e Iran (fino a poco fa anche di Afghanistan e Iraq). Se invece ci si rifà ad una linea verticale, si trovano le basi della Russia, oltre che nel proprio territorio, in Crimea (Sebastopoli), in Egitto e a Tartus, in Siria: lì le due linee confliggono, e confliggono quindi gli interessi geostrategici delle due potenze. Sminuito de facto il ruolo dell'Esercito libero siriano, che controlla poche porzioni di territorio a nord, la situazione in Siria è arrivata ad essere insostenibile per l'esercito di Damasco a causa del Daesh, il quale, nonostante la Turchia abbia affermato di aver chiuso le porte al transito dei foreign fighter e delle armi indirizzate allo Stato Islamico, si è andato ulteriormente irrobustendo, segno che vi è chi continua a finanziarlo e ad armarlo. Per la Russia di Vladimir Putin è divenuto quindi improcrastinabile il soccorso all'alleato Bashar al-Assad, dal momento che le forniture di armi e gli osservatori militari non sembrano più essere un elemento sufficiente a evitare che sull'intero paese sventoli la bandiera nera dello Stato Islamico. Se nelle logiche della Casa Bianca Bashar al-Assad rimane un dittatore da rovesciare (in un primo momento la cosa vedeva d'accordo il Cremlino), in quasi cinque anni di guerra le carte in tavola sono cambiate, e l'opinione pubblica europea si trova ad avere a che fare con il problema profughi più che con il tasso di democrazia della Siria. Non è ancora chiaro a quale tipo di intervento il presidente russo stia pensando, anche se i segnali fanno rimandano qualcosa di più incisivo dei raid della coalizione anti-Daesh, fino ad oggi pressochè inutili. Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha già fatto sapere che "Se verrà fatta (da Damasco) una richiesta, naturalmente verrà discussa e considerata nell'ambito dei contatti e del dialogo bilaterale". In realtà la richiesta del ministro degli Esteri siriano Walid al-Muallem è già stata fatta, ma a Mosca preme non creare una situazione che porti ad un'escalation su scala globale, per cui il ministro della Difesa russo Sergei Shoigu ha sentito oggi al telefono il segretario

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Usa alla Difesa Ashton Carter: lo ha comunicato il portavoce del Pentagono Peter Cook, riferendo di colloqui per discutere dei rispettivi ruoli nel conflitto in Siria. Sul fatto che il Daesh sia un esperimento finito male di Usa, Qatar e Turchia per combattere alAssad è ormai cosa arcirisaputa: lo ha detto persino l'ex Segretario di Stato Usa Hillary Clinton, ammettendo che l'Isis "è stato un fallimento. Abbiamo fallito nel voler mettere in piedi una guerriglia anti al-Assad credibile. La forza di opposizione che stavamo creando era composta da islamisti, laici e da gente nel mezzo: l'incapacità di fare ha lasciato un grande vuoto che i jihadisti hanno ormai occupato. Spesso sono stati armati in modo indiscriminato da altre forze e noi non abbiamo fatto nulla per evitarlo"; lo ha ribadito il pluridecorato generale francese Vincent Desportes, docente presso la facoltà di Scienze politiche di Parigi, il quale fa affermato: "Chi è il dottor Frankenstein che ha creato questo mostro? Diciamolo chiaramente, perché ciò comporta delle conseguenze: sono gli Stati Uniti. Per interessi politici a breve termine, altri soggetti - alcuni dei quali appaiono come amici dell'Occidente ? hanno contribuito, per compiacenza o per calcolata volontà, a questa creazione e al suo rafforzamento, ma le responsabilità principali sono degli Stati Uniti"; è sfuggito all'allora ministro dello Sviluppo tedesco Gerd Mueller, subito ripreso da una furiosa Angela Merkel, il quale è intervenuto sul canale televisivo pubblico ZDF affermando: "Un suggerimento: chi finanzia queste truppe dell'Isil? Il Qatar"; lo ha affermato il ministro degli Esteri iraniano, Mohamed Javad Zarif, all'Assemblea delle Nazioni Unite il 18 settembre 2014, quando ha definito l'Isis "un Frankestein tornato per divorare i suoi creatori"; ed al nostro giornale Hassan Ben Brik, uno dei massimi esponenti di Ansar al-Sharia e già combattente in Siria, ha spiegato che i foreign fighter sono recati in Siria grazie al via libera della Turchia. Inoltre in primis gli Usa hanno commesso il grave errore di non preventivare che i jihadisti avrebbero approfittato della situazione proprio per strutturarsi in una forza indipendente e organizzata, potendo contare anche sui moltissimi militari e pubblici amministratori dell'ancien régime iracheno, messi da parte dopo la sconfitta di Saddam Hissein. Una situazione ingarbugliata per Barak Obama, il quale potrebbe accettare che sia proprio l'amico-nemico Vladimir Putin a togliergli le castagne dal fuoco. Ovviamente in cambio di una Siria che resti sotto l'influenza russa e magari di chiudere definitivamente i conti per la crisi della Crimea. Enrico Oliari


SCIENZA&TECNOLOGIA

ENERGIA “LUNATICA” La fusione nucleare é considerata la soluzione energetica del futuro. Nella fissione (bomba atomica, centrali nucleari attuali) l'energia si ottiene bombardando un nucleo pesante che ne genera due più leggeri, la differenza di massa si trasforma in energia, residuano le scorie nucleari. Nella fusione due nuclei leggeri si fondono in uno più pesante con massa inferiore a quella dei nuclei originari. Anche in tale caso la differenza di massa diviene energia. Si tratta in buona sostanza del processo inverso della fissione. Le stelle brillano per fusione nucleare. Allo stato é in fase di sviluppo un progetto internazionale volto alla costruzione della prima centrale a fusione che significa: energia pulita, senza scorie e, relativamente, a basso costo (25 tonnellate di combustibile potrebbero soddisfare il fabbisogno annuo degli Stati Uniti). Il "combustibile" per eccellenza per alimentare una centrale a fissione è l'elio3 (un isotopo dell'elio composto da due protoni ed un neutrone). La sua esistenza fu postulata per la prima volta nel 1934 dal fisico australiano Mark Oliphant. Viene impiegato per la rilevazione di neutroni perché possiede elevata sezione di assorbimento per la radiazione termica dei neutroni, come gas di conversione nei rilevatori e nella criogenica in quanto i refrigeratori a diluizione usano elio3 per raggiungere temperature criogeniche nell'ordine del millesimo di kelvin. È un isotopo raro sulla Terra che non viene trovato in depositi naturali, in buona parte viene prodotto artificialmente dal decadimento del trizio, ma in modeste quantità che ne rendono insostenibile l'uso per la produzione di energia. La superficie lunare, invece, ne è ricca Si ritiene che l'elio-3, come molte altre sostanze volatili, sia diffuso sulla Luna (nello strato superiore delle rocce regolitiche dove è stato incluso dal vento solare nel corso di miliardi di anni) e nei giganti gassosi del sistema solare (residui dell'antica nebulosa solare). In particolare sarebbe presente nelle zone estremamente fredde, permanentemente in ombra della luna, come nel cratere Shackleton (polo sud della luna). Si stima, in base ai campioni lunari riportati a terra, che sulla luna vi sia almeno un milione di tonnellate di 3He radicato all'interno della regolite. La Nasa ha finanziato un progetto dell'Università del Wisconsin, che simula l'estrazione dell'elio3 dalla regolite lunare e si sta anche occupando della conservazione e del trasporto. Ma non è la sola a guardare alla luna. Russi e cinesi sono alle prese con lo stesso problema. Gli inglesi, com'è nel loro stile, per approvvigionarsi di elio3, puntano alle stelle: alle giganti gassose e a Giove . La sfida è avvincente. Gustavo Peri

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RUBRICHE/ARTE

ARTISSIMA 2015 Dal 6 all'8 novembre riapre i battenti Artissima. Torino, Oval, Lingotto Fiere, info@artissima.it La rassegna, da sempre attenta alla ricerca e alla sperimentazione, offre, con l'edizione 2015 uno spaccato di quanto accade nel mondo dell'arte. 207 artisti e gallerie da 31 paesi e tre sezioni speciali: una per gli artisti emergenti, una dedicata alla riscoperta del decennio '75 -'85 ed una dedicata a 12 sorprendenti azioni dal vivo. Oltre 50 tra curatori e direttori di musei hanno contribuendo al programma, mentre i collezionisti diventano partecipanti attivi. Tra questi: Renato Alpegiani, Pedro Barbosa, Giorgio Fasol, Maurizio Morra Greco, Lorenzo Paini, Filippo e Rosella Rolla, Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. I Curatori coinvolti sono: Pierre Bal Blanc, Documenta 14, Kassel, Daniel Baumann, Kunsthalle Zürich, Zurigo, Ilaria Bonacossa, Museo d'Arte Contemporanea, Genova, Sabine Breitwieser, Museum der Moderne, Salisburgo, Marie de Brugerolle, curatore indipendente, Lione, Andrea Busto, Museo Ettore Fico, Torino, Lucrezia Calabrò Visconti, curatore indipendente, Torino, Stefano Collicelli Cagol, Trondheim Kunstmuseum, Luca Cerizza, curatore indipendente, Milano e Berlino, Jacopo Crivelli Visconti, curatore indipendente, Sao Paulo, Florian Ebner, Museum Folkwang, Essen, Silvia Fanti, Xing, Bologna, Eva Fabbris, curatrice indipendente, Milano, Luigi Fassi, herbst steirischer, Graz, João Fernandes, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, Madrid, Elena Filipovic, Kunsthalle Basel, Francesco Garutti, curatore indipendente, Milano, Sophie Goltz, Stadtkuratorin Amburgo, Fatima Hellberg, Künstlerhaus Stuttgart, Ana Janevski, MoMA, New York, Lara Khaldi, curatore indipendente, palestinese Museum di Gerusalemme, Christine Macel, Centre Pompidou, Parigi, Hadas Maor, curatore indipendente, Tel Aviv, Simone Menegoi, curatore indipendente, Milano, Abaseh Mirvali, curatore indipendente, Berlino e Città del Messico, Letizia Ragaglia, Museion, Bolzano, Cristiano Raimondi, NMNM Nouveau Musée National de Monaco, María Inés Rodríguez, CAPC Musée d'Art Contemporain de Bordeaux, Dieter Roelstraete, Documenta14, Kassel, Beatrix Ruf, Stedelijk Museum di Amsterdam, Alberto Salvadori, Museo Marino Marini, Firenze, Chris Sharp, curatore indipendente, Città del Messico, Natalia Sielewicz, Museum of Modern Art, Varsavia, Nicolas Trembley, curatore indipendente, Parigi e Ginevra, Fatos Úšt?k, curatore indipendente e scrittore, Londra, Marianna Vecellio, Castello di Rivoli Museo d'Arte Contemporanea, Rivoli-Torino, Maurizio Vetrugno, curatore e artista indipendente, Torino, Andrea Viliani, MADRE Museo d'Arte Donnaregina, Napoli, Eva Wittocx, M-Museum, Leuven, Francesco Zanot, Camera-Centro Italiano per la Fotografia, Torino. Giny


DA LEGGERE

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CULTURA POLITICA DOSSIER

Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

www.confini.org


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