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Webmagazine di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

Nuova serie - Numero 36 Maggio 2015 - Anno XVII

SBARCONI

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Confini Webmagazine di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Numero 36 - Maggio 2015 - Anno XVII

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti, Cristofaro Sola +

Hanno collaborato a questo numero:

Giovanni Caprara Gianni Falcone Giuseppe Farese Roberta Forte Pierre Kadosh Enrico Oliari Gustavo Peri Angelo Romano Massimo Sergenti Cristofaro Sola

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Segreteria di redazione: confiniorg@gmail.com

+ Registrato presso il Tribunale di Napoli n. 4997 del 29/10/1998

confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

MATTE(G)O Renzi si dibatte nei soliti problemi italiani, paradossali e dai mille risvolti. Alcuni contribuisce lui stesso a crearli, fedele alla logica del paradosso. Aggiusti iniquamente le pensioni e viene fuori la Consulta che, per ristabilire equità e giustizia, rischia di far saltare il bilancio e fa sussultare l'Europa. Cerchi di riformare la scuola in senso efficientista e meritocratico ma la zavorri con l'assunzione di decine di migliaia di precari che non hanno vinto alcun concorso e, nonostante questo e le spiegazioni "alla lavagna", si rischia il blocco degli scrutini. Abolisci le province cancellando solo i consiglieri provinciali ma gli apparati nessuno li ha neanche sfiorati e, nel frattempo, rilanci le città metropolitane, ulteriore livello istituzionale di area vasta. Rottami il Senato, la più antica delle istituzioni italiche, trasformandolo in un dopolavoro per consiglieri regionali e sindaci, ma non istituisci un vero monocameralismo. Cambi la legge elettorale a tuo vantaggio e rischi di dare la volata ai populisti. Impegni ottomila poliziotti per mantenere l'ordine durante i comizi del leader della Lega, ma non riesci a garantirne l'incolumità ed il diritto ad esprimersi. Annunci la "spending review" e fai crescere ancor più l'enorme debito pubblico (2135 miliardi) soprattutto per l'incremento della spesa corrente (+27,4 miliardi nel 2014). Nel 2014 la macchina pubblica è "costata" agli italiani 692,4 miliardi di euro (fonte CGIA di Mestre), ossia il 45% del Pil (1542 miliardi). La sola spesa corrente di regioni e province autonome sfiora i 200 miliardi cui ne vanno aggiunti almeno altri 100 (ma c'è chi calcola 200 aggiungendo enti e partecipate) per spese di investimento, per rimborso mutui, operazioni di credito e partite di giro (vedi tabella riferita al 2011 tratta da wthink.it).


EDITORIALE

Nel frattempo il cittadino è sempre più visto come pecora da tosare fino a fargli sanguinare la pelle, le regole diventano sempre più oppressive e lo stato di diritto si sfilaccia, soprattutto nel profondo delle coscienze e questo alimenta e legittima la ribellione. Come uscirne? Alessandro Magno, di fronte al nodo di Gordio, prese la sola decisione corretta per non impegolarsi nell'inutile perdita di tempo nel cercare vanamente di scioglierlo, lo tagliò con un colpo di spada. Le regioni sono il nodo di Gordio italiano. Andrebbero tagliate con un sol colpo riformista. Questa sarebbe la riforma davvero utile per gli italiani che finalmente avrebbero una sanità uguale per tutti e che costerebbe meno degli attuali 110 miliardi, che consentirebbe di innescare una vera ripresa liberando non meno di 150 miliardi, che libererebbe i cittadini dalle inutili legislazioni regionali e dalle loro oppressive ed inefficienti burocrazie e dalla casta senza meriti dei deputati regionali. I problemi di amministrazione territoriale potrebbero essere gestiti da Unioni di Province restituendo queste ultime al controllo democratico - coordinate da un apposito Ministero del territorio. Ma Renzi non è Alessandro, é solo “Mattego”. Angelo Romano

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SCENARI

SBARCONI Continua l'emergenza immigrati e con il bel tempo si farà ancor più drammatica. L'Europa, nonostante la Mogherini, continua ad infischiarsene. Persino Hollande si è chiamato fuori ad onta della solidarietà socialista e nonostante l'intesa che sembrava raggiunta in sede UE si riferisse solo ai rifugiati ed al loro sacrosanto diritto di asilo. Rifugiati che - va detto - rappresentano solo un trenta per cento del totale dei disperati che approdano sulle coste italiane. Quindi il settanta per cento circa è costituito da persone che, in barba alle quote stabilite annualmente dal Ministero degli Interni, cercano a costo della vita e ad un prezzo salatissimo per le loro tasche, di sfuggire alla miseria mettendo piede in Europa. La miseria di un'Africa che, dopo la fine del giogo coloniale e nonostante le enormi ricchezze naturali, ancora non riesce a garantire condizioni minime di sopravvivenza alle popolazioni che la abitano ed un minimo di stabilità politica ai tanti Stati che la compongono. Certo vi sono responsabilità esogene: il controllo "tecnologico" dei processi estrattivi e dei mercati delle materie prime da parte dei Paesi più sviluppati, l'inefficienza della cooperazione internazionale poco in grado di innescare sviluppo economico e civile, mire e interessi politici perseguiti anche con l'accesso al credito o agli armamenti. Tuttavia non si possono non vedere anche le responsabilità endogene: corruzione, cattiva distillazione delle classi dirigenti, rivalità tribali ed etniche, medie culturali e civili disastrose, servizi scadenti. Finché permarrà questo stato di cose, finché l'Africa sarà una produttrice di miseria ed una fabbrica di disperazione la marea migratoria non potrà che crescere. E non vi sarà blocco navale che tenga, come ben sanno gli Stati Uniti che per contenere l'immigrazione dal confinante e povero Messico hanno costruito lungo il confine un muro peggiore di quello di Berlino ed altrettanto fortemente presidiato da soldati armati a pronti al fuoco. Nonostante il muro, oggi sono ventotto milioni i messicani statunitensi (gli ispanici rappresentano complessivamente il 16% della popolazione). Oggi la spinta migratoria si è fermata non per il muro ma perché il Messico ha trovato la sua via allo sviluppo con un tasso di crescita del 10% l'anno. Questo esempio rende evidente la sola soluzione davvero possibile: fare in modo che l'Africa basti a se stessa. Ed occorrerebbe bruciare le tappe e moltiplicare l'impegno internazionale anche in vista delle prossime rivoluzioni tecnologiche e tra queste l'avvento della robotica di servizio ormai imminente.


SCENARI

Questa determinerà una crescente e rapida diminuzione della domanda di mano d'opera non qualificata e, nei Paesi ricchi, i robot soppianteranno gli immigrati nei lavori dei campi come nelle attività manuali in genere. Ed a quel punto non vi saranno quote se non per alte professionalità e, probabilmente, saranno i cannoni a fermare i disperati. Lo scenario non è dei più desiderabili ma è realistico. A questo va aggiunto che nei prossimi anni si arriverà, auspicabilmente, ad una vera integrazione europea e la cittadinanza sarà affare comunitario e non più materia dei singoli stati e che la nuova Unione Europea sarà chiamata a risolvere problemi mai affrontati, tra questi la complessiva riforma del welfare. Pierre Kadosh

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POLITICA

L’ELEFANTINO DI BERLUSCONI Gianfranco Fini, al quale non è mai mancata una certa lungimiranza, nel lontano 1999 ipotizzò la creazione di una formazione politica ispirata al Partito Repubblicano americano. I maligni dissero che l'iniziativa non ebbe, alle europee di quell'anno, il successo elettorale sperato per l'improvvida alleanza con Mariotto Segni presunto catalizzatore di cattiva sorte. L'esperienza fu rapidamente archiviata anche su pressione dei colonnelli di An, mai sinceramente aperti al nuovo. Eppure, a ben guardare, era la soluzione corretta per costruire un serio bipolarismo in Italia, plurale, senza egemonie e "conflitti di interesse" e, forse, avrebbe avuto senso perseverare, quanto meno perché non vi sarebbe stato spazio e occasione per dissolvere la destra nel Pdl, che é stato solo la caricatura del lungimirante disegno finiano. Oggi Berlusconi si appropria dell'idea di Fini e rilancia l'elefantino. E' un atto di senile resipiscenza politica? Un mero "scippo"? Un modo obliquo per riconoscere a Fini parteaudacia delle sue temeraria ragioni? L'ennesimo coniglio tirato fuori da un cilindro ormai ammaccato? igiene spirituale Una mera conseguenza dell'Italicum e del premio alla lista? Lo sapremo nel prossimo futuro. Probabilmente è solo un atto di realismo politico. La nuova legge elettorale premia, con l'assegnazione del potere assoluto, solo il partito più grande e consente di competere soltanto alle due maggiori forze in campo. Tutto il resto è condannato alla testimonianza. Fuori dal Parlamento, se al di sotto del 3 per cento, o appena dentro se al di sopra. Ne consegue la necessaria unità dei cosiddetti moderati se vogliono ancora essere rappresentati autonomamente e non, strumentalmente, dal "Partito unico della Nazione". Ne consegue anche che per avviare virtuosamente il processo non basta un "predellino" o sbandierare il simbolo dell'elefantino. Ci vogliono idee, programmi, uomini capaci e credibili, sincero spirito autocritico e stringenti regole per stare lealmente insieme. Senza escludere, senza barare, senza rottamare. AR


POLITICA

AFFLIZIONE DI CITTADINANZA Tra i cittadini del vecchio continente serpeggia un senso di smarrimento, un crescente disagio nei confronti dei poteri costituiti, di assetti economici e sociali sempre meno condivisi, di barriere divisive sempre più alte e invalicabili. La persona è costretta entro margini di libertà sempre più angusti in un'Europa che armonizza doveri e sanzioni ma non i diritti ed è afflitta da regole sempre più numerose e cogenti e che tutte convergono a determinare maggiore "afflizione di cittadinanza". Si è rotto il rapporto fiduciario di rappresentanza che è uno dei pilastri delle moderne democrazie. Il cittadino delega le proprie tutele, sempre più incerte e dai contorni evanescenti, a rappresentanti sempre meno sensibili ai contenuti del mandato ricevuto o perché antepongono l'interesse personale o "di parte" a quello generale o perché la loro rappresentatività è ormai affievolita all'interno di sistemi istituzionali sempre più orientati a priorizzare le ragioni dell'economia, dei grandi interessi globali, su quelle della socialità e della soddisfazione individuale. Se si percorre in auto una strada di un Paese europeo si verifica che ciascuno di essi mantiene il proprio sistema, impone i propri limiti di velocità, si avvale dei propri strumenti di controllo e dei propri criteri di sanzione, ma tende ad armonizzare i metodi per colpire chi infrange una sola delle varie regole. Per cui una multa per eccesso di velocità di soli 5 o 10 chilometri orari presa in Francia da un anonimo radar, viene notificata al trasgressore in Spagna se spagnolo, piuttosto che in Italia, secondo i criteri di notifica vigenti nel Paese dove si è consumata l'infrazione e secondo le specifiche regole per opporsi alla sanzione, se ritenuta ingiusta. Nel caso specifico, solo per potersi opporre, occorre innanzitutto versare un deposito cauzionale superiore alla sanzione stessa e poi rivolgersi ad un avvocato francese per far valere le proprie ragioni. Ma chi mai ci proverebbe? Pagare e tacere, non vi è altra soluzione ragionevole. Nessuno ha pensato a tutelare i cittadini prevedendo una modalità unica di opposizione europea e l'obbligo per i costruttori di automobili di colmare il gap di affidabilità tra tachimetri delle vetture e radar di controllo atteso che la legislazione, in particolare francese, prevede sanzioni per eccessi di velocità inferiori ai venti chilometri orari. L'evidente asimmetria che chiaramente emerge dall'esempio proposto non solo la dice lunga sulla "pochezza" politica di chi ha sottoscritto il relativo trattato (e lo stesso vale per molti altri trattati tra cui Dublino2, Lisbona 1, 2, e 3, quelli di controllo fiscale, per non parlare di alcuni

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Regolamenti) ma evidenzia la causa prima che genera "afflizione di cittadinanza": l'asimmetria persona - sistema. Questa, accende negli animi delle persone braci che covano sotto la cenere, le cui caotiche conseguenze cominciano a vedersi un po' dappertutto. Gli effetti sulla coesione sociale sono evidenti quanto imprevedibili. In ogni Paese d'Europa si manifesta tale disagio - che ancora non è consapevolezza collettiva - sia pure con diverse sfumature e sfaccettature. Podemos, Indignados e Alba dorata, Ukip, Pvv e Syriza, Grillo e Salvini, le violenze di piazza - da ultime quelle di Milano cui hanno partecipato gli "arrabbiati" di mezza europa - si alimentano dello stesso disagio e delle ancestrali paure che stanno dietro di esso la prima, delle quali è quella di essere vittime di un potere scellerato. Occorrerebbe una presa di coscienza delle classi dirigenti e della politica in primis, prima che il disagio si trasformi in cieca "presa di coscienza" dei popoli. Ma, ad oggi, non vi sono segnali in tal senso. A Napoli, per far cassa, hanno messo anche l'Imu sui loculi con retroattività quinquennale. GP

audacia temeraria igiene spirituale


POLITICA

STA COME TORRE FERMA L'Expo è giunto al via e il mondo intero guarda all'Italia. Sembra che questo Paese, nonostante gli atti di corruzione, di malversazione, di pressappochismo che anche in relazione alla stessa Expo si sono manifestati, alla fine ce l'abbia fatta. Mi vengono in mente le parole degli amministratori di Smirne, la città turca in lizza con Milano per l'Esposizione Universale, i quali hanno affermato, nella sostanza, che: contro Milano non c'è partita. Il che, onestamente, non mi dispiace. Sì, lo ribadisco: non mi dispiace. Non sono come certa gente, sedicente di sinistra, che hanno gioito nel denigrare questo Paese perché i suoi amministratori, in quel momento, erano avversari politici. Né assomiglio a persone sedicenti di sinistra che, in sede internazionale, hanno proditoriamente attaccato, insultato, screditato quegli stessi amministratori, volutamente ignorando che un conto è l'attacco politico e un altro conto è l'insulto alle istituzioni. Anche se chi le incarnava in quel momento meritava (e merita) più che insulti. Ciò in quanto è l'immagine del Paese ad essere screditata, a prescindere dalle divisioni e dalle beghe interne. Neppure lo spregiudicato Jean Marie Le Pen, in sede internazionale, ha mai infamato, che so, Giscard d'Estaing, Mitterrand o Chirac; né sua figlia Marine Le Pen, analogamente spregiudicata, lo ha fatto nei confronti di Sarkozy o Holland, anche se lo spessore di quest'ultimi è indubbiamente diverso rispetto ai loro predecessori. E non c'entra nulla il fatto che i due personaggi di cui sopra rappresentino l'estrema destra francese e che, quindi, hanno un genetico rispetto della grandeur della Francia; non c'entra perché neppure Oskar Lafontaine, esponente di spicco della sinistra tedesca fino a poco tempo fa, ha mai pensato di denigrare Kohl o la Merkel nei consessi cosmopoliti, sebbene siano stati suoi rivali politici. La sinistra italiana, invece, è sempre stata pronta a fare strame di tutto e di tutti, specie se la vetrina era prestigiosa e osservata dall'intero mondo. E, quando è accaduto, non c'è stato alcuno dei tanti vanagloriosi soloni, i cosiddetti intellettuali sempre pronti a sputar ipocrite sentenze e a darci inutili esempi di politically correct, che abbia censurato quegli irresponsabili comportamenti. Non stimo Beppe Grillo ma non c'è dubbio che la sua definizione di "intellettuale di sinistra" abbia il dono, oltreché della verità, quello della sintesi: "L'intellettuale di sinistra si nota subito. Ha, nel dire le cose, quel giusto distacco che nobilita. È elegante, ha un buon reddito, la erre arrotata. L'intellettuale di sinistra ha sempre ragione, dispensa la verità. È ferocemente "anti":

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anti-razzista, anti-nazista, anti-fascista e, qualche volta, anche anti-comunista. Mai anticapitalista. L'intellettuale di sinistra conosce il popolo come le sue tasche, sempre piene. Lo osserva dal suo attico durante le manifestazioni.". Sì. Nella generalità, mi sembra corretta. Qui, ora, necessiterebbe aprire una riflessione del perché l'intellighenzia non è mai anti-capitalista. E, se lo facessi, verrebbe fuori che da almeno due secoli l'élite della gauche va a braccetto con il capitalismo ma questo è un discorso che ci porterebbe lontano, allontanandoci dall'oggetto Expo. Lo faremo, semmai, un'altra volta. Per riprendere, perciò, le fila del discorso, poco importa, dicevo, se è dal 2008 che Milano è stata designata come sede dell'Expo 2015 e che dei trascorsi sette anni solo l'ultimo ha visto una frenetica attività; se girando per i padiglioni si vedono ancora dei cantieri aperti, se in diversi angoli c'è del materiale di risulta; se, alla fin fine, nonostante i dieci miliardi spesi per la realizzazione, il 20% delle opere previste non sarà mai completato. Poco importa se c'è chi grida, come la Sicilia, perché il proprio padiglione sulla biodiversità dei prodotti del Mediterraneo è nascosto, privo di segnaletica, sporco e allagato in quanto il tetto non ripara dall'acqua; o se, nel padiglione turco, una placca caduta dall'alto ha mandato al pronto soccorso una visitatrice. Poco importa se l'attuale sindaco di Milano è Giuliano Pisapia, uomo di SEL, in carica dal 2011 e cioè negli ultimi quattro nevralgici anni; o se il maggior merito dell'assegnazione di questa opportunità all'Italia si deve al suo predecessore, Letizia Moratti, (e alle sue relazioni internazionali), in forza prima a Forza Italia e poi al Popolo delle Libertà; o, ancora, se tra i Presidenti del Consiglio che si sono adoperati perché la scelta premiasse l'Italia dobbiamo annoverare Prodi, rispetto a Berlusconi che ne ha dato l'annuncio. Lo ripeto, poco importa al momento, anche se mi auguro che nel prossimo futuro ci sia volontà, tempo e modo per accertare responsabilità e, laddove necessiti, comminare sacrosante punizioni. Ciò che ora conta veramente è l'interpretazione dell'Italia sul palcoscenico mondiale; un'Italia che, come il principe Calaf nella Turandot, dopo varie traversie, solo nella notte sotto le mura di Pechino, rivolto verso la finestra della principessa cinese, dichiara che "all'alba" vincerà; un'aria, "All'alba vincerò" conosciuta in tutto il mondo, che il 1° maggio scorso abbiamo ascoltato prima dalla voce di Bocelli in Piazza Duomo e, poi, nella Scala, da quella di Aleksandrs Antonenko. Già, perché non c'è che dire, è stata una significativa metafora la scelta dell'opera pucciniana per celebrare l'apertura dell'Expo di Milano quasi a significare che questo Paese è ancora nel buio. Dentro di lui e attorno a lui vari personaggi si agitano per consigliarlo opportunisticamente e, in realtà, per farlo desistere. E solo la certezza nella propria determinazione e nella propria forza riuscirà a farlo arrivare all'alba, alla luce e a vincere sui draghi della finanza. Mi accorgo ora che nei due precedenti passaggi si può ipotizzare un accostamento con Renzi e con le sue recenti espressioni. Ebbene, a mente fredda, mi vien da dire che chi lo facesse sarebbe nel vero.


POLITICA

Non amo Renzi né il suo modo di fare; credo anzi, che la sua indefessa attività miri a realizzare in questo Paese una sorta di "dittatura democratica". E di questo, in precedenza, anche dalle pagine di questa rivista, ne abbiamo già parlato. Ma ciò non toglie che le sue esortazioni a "crederci" siano quanto di più sacrosanto si possa dire e fare. Esortazioni, peraltro, rivolte sia all'interno del suo partito, ingessato sin dalla caduta del muro; sia all'imprenditoria, soprattutto medio-piccola, incapace di cogliere gli scenari della globalizzazione; sia al cittadino, all'uomo della strada, ancora titubante tra il messaggio euforico berlusconiano e quello pessimista-depressivo di Monti. "Crederci" è la parola d'ordine, innanzi tutto di ciascuno nei confronti di sé stesso, delle proprie forze, della propria fermezza; una parola d'ordine, poi, da trasmettere ai propri figli perché escano dall'apatia nella quale venti anni di governi di sinistra e di destra li hanno relegati e capiscano che la contestazione, quale quella rappresentata a Milano proprio lo scorso 1° maggio, non è altro che un supino, per quanto inconsapevole, favore reso a quei soggetti che dichiarano di voler combattere. Certo: è supino e inconsapevole l'atteggiamento che giovani coglioni hanno manifestato per le vie meneghine bruciando macchine e negozi di gente che lavora e per le quali la ristrutturazione del negozio o l'acquisto di una nuova macchina è una vera disgrazia. Come se gli affamatori del mondo, i mega capitalisti, le ciniche multinazionali, con ogni probabilità scommettitori sul default italiano, fossero stati per strada a sostenere l'urto dei giovani scriteriati e non al riparo dentro roccaforti dorate, asettiche, lontane metaforicamente e geograficamente dagli antiestetici poveri. Di idealismo, purtroppo, in quell'astrusa manifestazione non c'è assolutamente nulla né un barlume d'idealità alberga nei suoi insensati partecipanti; non nell'anarchico disabile Pasquale "Lello" Valitutti, in prima fila venerdì tra gli assaltatori NoExpo con la sua carrozzina, che da Roma raggiunge le manifestazioni in Frecciarossa, la cui voce, al di là degli slogan, non ha mai espresso alcuna proposta; né in Mattia Sangermano, il giovane che ai microfoni di Tgcom24 ha dichiarato che "è giusto spaccare tutto" senza sapere il perché, come ha successivamente e ripetutamente affermato il padre, arrivato a definire il figlio "un pirla". E, a proposito di quest'ultimo, alla domanda del perché si trovasse tra i black bloc, ha specificato che, frequentando i centri sociali per la musica rap, non ha saputo dire di no all'invito. Poveri noi. Se questi saranno i dirigenti del futuro, Matteo Renzi andrà in pensione da presidente del consiglio. Come abbiamo fatto a dimenticare Dante e il suo insegnamento? "...Vien dietro a me, e lascia dir le genti: sta come torre ferma, che non crolla già mai la cima per soffiar di venti..." Purgatorio Canto V Roberta Forte

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POLITICA/L’INTERVISTA

CARLO JEAN Generale dell'Esercito in pensione, Carlo Jean è autorevole esperto di strategia militare e di geopolitica. Consigliere Militare del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga dal 1990 al 1992, è stato dal 1994 al 1997 Presidente del Centro Alti Studi per la Difesa. Autore di apprezzati scritti, docente di studi strategici nella Luiss "Guido Carli", è stato membro, tra gli altri, del consiglio scientifico della Treccani. In questa conversazione con Confini ribadisce che <<la Nazione rimane l'unica sintesi politica che possa esprimere solidarietà e quindi consentire allo Stato di proteggere i suoi cittadini e le imprese dalle forze della globalizzazione>>. Partiamo dall'Europa. La costruzione dell'Unione Europea ha comportato la cessione di rilevanti porzioni di sovranità da parte dei Paesi membri. Questo processo ha rafforzato o indebolito la sovranità dei singoli Stati? Se ragioniamo in senso assoluto, il processo di costruzione europea ha certamente indebolito la sovranità degli Stati. E' anche vero, però, che questi ultimi, nel processo di integrazione europea, hanno riacquistato spazi di sovranità che avevano già perso. D'altronde solo con questa convergenza di sovranità i singoli Stati europei possono competere in campo politico ed economico con le grandi potenze mondiali, cioè con gli Stati continente, come Cina, Russia e Stati Uniti. Vi sono poi altri fattori che impattano fortemente sull'esercizio della sovranità. Pensi, ad esempio, allo spazio extra-atmosferico e al cyberspazio che generano spazi virtuali profondamente differenti dagli spazi fisici reali. Nell'era digitale, causa ed effetto della globalizzazione, vi sono forze del mondo virtuale che sfuggono al controllo degli Stati ed esulano dai tradizionali confini territoriali. Ma la Storia insegna che senza mura e senza confini la polis non può sopravvivere. L'attenuazione e la porosità dei confini, allora, non fa altro che indebolire la forza degli Stati Westfaliani, quindi la democrazia, che può esistere solo in sistemi chiusi. In definitiva, su alcuni processi del mondo digitale non vi è controllo di sovranità e ciò inficia profondamente il regolare funzionamento della democrazia. Siamo in una situazione di stallo. Andiamo verso l'Europa federale o finiremo per accantonare l'euro e tornare a qualcosa di simile al Sistema Monetario Europeo?


POLITICA/L’INTERVISTA

Non credo che nascerà mai un'Europa federale, cioè gli Stati Uniti d'Europa. Piuttosto si consoliderà un'Europa delle Nazioni, basata sulla convergenza d'interessi tra gli Stati membri. Ci sono già, d'altronde, delle aree di maggiore integrazione che riguardano settori come l'economia e la finanza. Ad una rinazionalizzazione assisteremo, al contrario, in campi quali la difesa e la politica estera. Vi potrà essere, certamente, un'espansione del trattato di Schengen e, grazie al progetto Erasmus, potrà formarsi una classe dirigente più europeizzata di quella precedente. Ma credo che il progetto federale, che gli Stati Uniti avevano già prefigurato nel dopoguerra contribuendo fortemente alla nascita dell'Europa unita, sia definitivamente tramontato. Ne è la riprova, d'altronde, il fatto che la Commissione e il Parlamento europeo abbiano nel tempo perso prerogative e poteri rispetto al Consiglio europeo. In questo contesto qual è il futuro degli Stati-Nazione? E il concetto di nazione, di per sé, ha ancora senso? Il concetto di nazione ha ancora una forte valenza in quanto consente allo Stato di attivare la solidarietà interna e difendere le imprese e i cittadini dalle forze globali. La globalizzazione produce vincitori e vinti. Compito dello Stato è far sì che i propri cittadini e le imprese si collochino tra i vincitori, non tra i vinti. Pensi anche all'imprescindibile funzione di tutela della privacy, nei confronti dell'invadenza dei grandi motori di ricerca. Insomma, senza Nazione lo Stato non potrebbe esprimere la propria forza a difesa di cittadini e imprese. In Italia risultano da sempre fragili il sentimento nazionale e i legami identitari. La tradizione, la memoria del passato, la storia del nostro Paese si confrontano, peraltro, con il processo di globalizzazione. Vanno abbandonati o recuperati? Vanno certamente recuperati e incentivati, così come hanno meritoriamente fatto, d'altronde, gli ultimi Presidenti della Repubblica. Credo, comunque, che il sentimento nazionale, tra i cittadini italiani, sia molto più forte di quanto si pensi. La debolezza si registra, piuttosto, nelle istituzioni e ciò in conseguenza del collasso politico seguito alla fine della guerra fredda, un collasso che ha comportato l'attuale frammentazione politica e istituzionale. Può aver influito sull'assenza di respiro e visione nazionali l'assenza di un partito conservatore? Credo che il partito conservatore a cui lei fa cenno sia stato rappresentato nel nostro Paese dalla Democrazia cristiana, che ha certamente contribuito a rafforzare l'identità nazionale. Ma anche

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il Partito comunista dagli anni settanta in poi, quando smise di guardare a Mosca dopo i fatti di Ungheria e della Cecoslovacchia, abbracciò l'eurocomunismo ed ebbe un ruolo decisivo nella lotta al terrorismo. In tal modo ha concorso in modo decisivo alla difesa e alla conservazione dell'identità nazionale italiana. Viviamo in una società globale multiculturale nella quale entrano in contatto aspirazioni, culture e religioni profondamente differenti. In che modo è possibile governare questi processi pacificamente senza dover ricorrere necessariamente alla forza e alla minaccia delle armi? Anche la società globale multiculturale si regge sugli equilibri di potenza, anche militare. Si tratta, beninteso, di un'utilizzazione della forza al suo stato virtuale. Le armi non servono solo quando si impugnano, ma sono fondamentali anche nel creare gli equilibri di potenza, quindi la pacifica convivenza tra gli Stati. In tale situazione di equilibrio vi è sempre una competizione tra gli Stati, ma la stessa si sposta sul campo delle arti, della lingua, dell'economia piuttosto che su quello militare. La guerra fredda ha ben rappresentato questo stato di cose e dimostrato la valenza delle armi come stabilizzatrici di equilibri geopolitici. E non a caso, in quel periodo, il livello degli armamenti è stato il più alto di quanto si sia mai verificato nella Storia. Giuseppe Farese


POLITICA

LE NOZZE CON I FICHI SECCHI I giorni passati sono stati funestati da un'immane tragedia: la morte in mare di oltre settecento immigrati - donne, uomini, bambini, giovani e anziani - che, dopo aver racimolato, fino allo sfinimento, le migliaia di dollari a testa, richieste per la traversata del Mediterraneo verso una terra senza guerre né atrocità, hanno perso la vita in mare a causa delle manovre errate del cosiddetto capitano dell'imbarcazione che li trasportava, il quale era brillo e fumava hashish. E l'alto numero dei morti ha finalmente scosso l'apatia interna-zionale ma si ha il ragionevole dubbio che, al di là delle parole, alla fine si riesca a fare ben poco. Già. Perché, innanzi tutto, c'è da decidere cosa fare e su questo, ammesso che i sentimenti e gli impegni dichiarati siano veritieri, i pareri dei membri comunitari sono molteplici e distanti. Del resto, gli eventi sono lì a dimostrarlo. Il 3 ottobre 2013, a poche miglia del porto di Lampedusa, un'imbarcazione libica stracolma di migranti naufragò procurando 366 morti. Erano ancora i tempi dove l'Europa ribatteva all'Italia che il problema delle migrazioni restava di competenza dello Stato membro destinatario. Così, in seguito a quel naufragio, il governo italiano, guidato da Enrico Letta, decise di rafforzare il dispositivo per il pattugliamento del Canale di Sicilia autorizzando l'operazione "Mare nostrum", una missione militare e umanitaria la cui finalità era di prestare soccorso ai migranti, prima che potessero ripetersi altri tragici eventi nel Mediterraneo. Il dispiegamento di forze era di tutto rispetto: elicotteri, aerei da ricognizione, droni per la preventiva intercettazione e navi d'altura. Altre navi italiane, inoltre, operavano in ambiti tattici più complessi congiuntamente con le altre marine dell'Africa Mediterranea, in particolare quella libica, in azioni militari contro trafficanti non solo di uomini, ma anche di armi. Quell'operazione è costata all'Italia 9 milioni di euro al mese. Ma ad agosto 2014, finalmente, l'Europa si accorge che con il regolamento del Consiglio n. 2007/2004 del 26 ottobre 2004, è stata istituita un'Agenzia comunitaria, di nome Frontex, con sede a Varsavia, i cui compiti sono il coordinamento del pattugliamento delle frontiere esterne aeree, marittime e terrestri degli Stati della UE e l'implementazione di accordi con i Paesi confinanti con l'Unione europea per la riammissione dei migranti extracomunitari respinti lungo le frontiere. Beh! Non c'è che dire. Meglio tardi che mai, potremmo dire. Erano trascorsi dieci anni dalla istituzione di quella Agenzia ma, si sa, ogni iniziativa ha necessità della sua fase di rodaggio. E, del resto, il suo budget, fino al 2008, ammontava a soli 35 milioni annui.

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In quell'anno, il budget dell'Agenzia è stato raddoppiato a 70 milioni di euro, dei quali, però, solo 31 destinati alle missioni di pattugliamento delle frontiere marittime, nel Mediterraneo …. e nell'Oceano Atlantico. Ad agosto 2013, oltre ai fondi in denaro, Frontex dispone di 26 elicotteri, 22 aerei, 113 navi ed attrezzatura radar da impiegarsi per eventuali respingimenti. Così, nell'agosto dell'anno dopo, dopo incessanti richieste perché l'Unione Europea si mobilitasse in aiuto dell'Italia, il commissario europeo per gli affari interni Cecilia Malmström ha dichiarato che l'Operazione Mare nostrum veniva sostituita dal programma europeo "Triton di Frontex", con lo scopo dichiarato di bloccare i flussi al limite delle acque territoriali e di respingerli. All'operazione Triton, si pensi bene, sono stati assegnati solo 2 milioni e 900 mila euro al mese, contro i 9 milioni mensili, precedentemente stanziati dalla sola Italia. Ma andiamo avanti. Il Fatto Quotidiano, al 19 febbraio di quest'anno, riportava che l'agenzia di stampa Redattore sociale aveva scovato nelle pagine di un report dell'agosto del 2014, (all'atto cioè della sostituzione di Mare Nostrum con Triton), un passaggio secondo il quale gli analisti Frontex, ben prima che la situazione in Libia diventasse di nuovo esplosiva, erano preoccupati dal passaggio di consegne tra Mare Nostrum e Triton. "Va sottolineato che il ritiro delle navi dall'area (costiera libica, ndr), se non pianificato nel modo corretto e annunciato con buon anticipo, è probabile che possa provocare un aumento nel numero di morti". A giudicare dagli ultimi numeri, infatti, la pianificazione del passaggio non deve essere stata delle migliori. Dei 2.994 migranti salvati dall'entrata in vigore di Triton, ben 1.282 sono stati soccorsi fuori dall'area definita dalla missione. E ciò perché il limitato raggio d'azione imposto dalla nuova missione, impedisce di essere realmente efficaci. Mare Nostrum, infatti, si muoveva su una zona di 43 mila chilometri quadrati (400 miglia a sud di Lampedusa e 150 miglia ad est), sconfinando in zone di ricerca e soccorso di Malta e Libia. Triton, invece, ha un raggio d'azione di 30 miglia nautiche. In più la missione è europea solo sulla carta: ad oggi le navi impiegate sono una islandese, due maltesi e cinque italiane. A queste si aggiungono tre aerei, uno per ogni nazione coinvolta. Il dispiegamento di forze umane, infine, non è comparabile: sono 65 gli addetti impiegati per Triton contro i 900 addetti a Mare Nostrum. Inoltre, l'agenzia di stampa Redattore Sociale ha scovato nel documento di lancio di Triton un altro grande errore di valutazione: si imputa a Mare Nostrum l'aumento degli sbarchi nel 2014 e la conseguente diminuzione dei costi della tratta per i singoli migranti. "La presenza di navi vicino alle coste libiche - si legge nel testo di Frontex - ha cambiato le rotte dei barconi che partono dal Paese. Quindi, le previsioni sui nuovi arrivi dipendono in gran parte dal fatto se le navi (di Mare Nostrum N.d.R.) rimarranno lì o no. Se rimarranno a pattugliare l'area, dovremo aspettarci un numero di arrivi alto e costante non solo in estate, ma anche in inverno. Se invece ci sarà la cessazione di Mare Nostrum, si ritornerà al trend degli anni scorsi, con meno arrivi poiché i migranti saranno scoraggiati a intraprendere la rotta del Mediterraneo, soprattutto col cattivo tempo".


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Al contrario, i primi due mesi del 2015, senza Mare Nostrum, hanno registrato 5.600 sbarchi (di cui più di 5.300 in Italia): un dato doppio rispetto allo stesso periodo nell'anno precedente. Il fatto è che le previsioni circa la situazione che dovrà essere fronteggiata per il 2015 sono ancora peggiori rispetto al 2014, anno nero dell'immigrazione. Il sottosegretario al Ministero dell'Interno, Domenico Manzione, ha dichiarato che si potrebbero sfiorare i 400 mila arrivi. Lo scorso anno, invece, sono stati 170 mila, sui 200 mila entrate in Europa. Si aggiunge il fatto che Frontex (e, in conseguenza, Triton), ammesso che riesca a svolgere il suo compito e, quindi, ad intercettare gli arrivi al limite delle acque territoriali, per sua stessa ammissione non è neppure attrezzato per la cernita tra migranti per motivi economici e migranti per motivi politici. Qualora li trovasse (meno male che non accade) respingerebbe tutti. Al 19 dicembre dello scorso anno, Repubblica riportava un pezzo dal titolo "Frontex: Siamo troppo piccoli e senza soldi, non possiamo sostituire Mare Nostrum". All'interno, era citato l'intervento di Ewa Moncure, portavoce di Frontex, ad un convegno di Amnesty International. In quell'occasione, la Moncure affermava che "Triton non vuole e non può sostituire Mare Nostrum. I pochi mezzi di Frontex si spingeranno nelle acque internazionali, con il rischio di arrivare troppo tardi, solo se obbligati dal diritto internazionale di mare: il salvataggio delle vite umane non è tra le priorità dell'Agenzia europea.". Oh! Bella. In quanto a coerenza non c'è che dire. Nel contempo, l'Europa, tramite la sua Corte sui diritti dell'Uomo, non si perita mi-nimamente di censurare l'Italia perché sprovvista, nel suo ordinamento penale, del reato di tortura, ma non batte ciglio nell'affermare impunemente che il "salvataggio delle vite umane" non è prioritario rispetto al respingimento. E noi siam qui a farci delle grandi masturbazioni mentali sulle esternazioni di Salvini, dandogli dell'insensibile e del fascista …. Roba da non credere. A latere di tutto ciò, l'Unione Europea continua a erogare fondi per il sostegno agli Stati per affrontare il "problema immigrazione": il Commissario Ue agli Affari Interni e all'Immigrazione Dimitris Avramopoulos, a margine di una recente audizione all'Europarlamento, ha dichiarato, a proposito dell'Italia, che "dobbiamo sostenerla e aiutarla. ( …. ) Gli Stati hanno già avuto fondi europei per affrontare l'e-mergenza immigrazione e siamo pronti a stanziarne altri …. ". Infatti, l'Italia è stata da poco destinataria di oltre 13 milioni di euro provenienti dal Fondo di asilo, migrazione e integrazione, che si aggiungono agli oltre 500 milioni già erogati dall'Unione a favore del nostro Paese per il problema in questione. Dal ché emerge una specie di paradosso: la missione Triton dovrebbe respingere i flussi migratori al limite delle acque territoriali ma, a causa della scarsità di mezzi, la sua efficacia è pressoché nulla. Ciò, tuttavia, sembra essere già stato messo in conto dalla Commissione Esecutiva la quale eroga somme di gran lunga superiori per l'asilo e l'integrazione. In conseguenza, si dovrebbe dedurre che l'accoglienza riservata agli immigrati sia adeguata alla salvaguardia delle loro necessità psico-fisiche e alla loro dignità e volta al miglior inserimento nelle realtà occidentali. In realtà, neppure questo è vero perché una volta salvati e curati per le evidenti afflizioni, gli immigrati sono pressoché lasciati all'esercizio …. della loro intraprendenza.

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Sembra quasi, horribile dictu, che tutte le suddette incongruenze siano a conoscenza di chi deve conoscere e che … va bene così. Sembra, altresì, che vi sia una sorta di significativo interesse a ché manodopera a basso costo approdi sulle nostre coste. Sembra, infine, che la gestione degli immigrati stia a cuore a molti. Va bene, va bene. Non stiamo più a perder tempo e non meniamo il can per l'aia. Abbiamo un grande matrimonio da celebrare: quello tra l'ipocrisia e la demagogia. Naturalmente, con i fichi secchi. Massimo Sergenti


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IMMIGRAZIONE E IDENTITA’ La questione dell'immigrazione clandestina, lungi dall'essere catalogabile nel capitolo degli affari correnti di una comunità statuale, rinvia a una visone prospettica del futuro dell'umanità che deve riguardarci. La sensazione che si percepisce in questo tempo storico è che le classi egemoni della società italiana, sulla gestione dei flussi migratori, abbiano trovato un comodo punto di sintesi o, se si preferisce, una ricomposizione di interessi concorrenti. Voglio significare che l'ideologia dell'accoglienza appaga, in egual misura, sia i fautori del pensiero liberista sia gli eredi della dottrina marxiana della lotta di classe. Per entrambe le culture ciò che la società post-industriale, che si è evoluta in un modello economico globale, dovrebbe garantire è l'abbattimento delle frontiere giudicate un residuo del passato degli Stati nazionali in via di superamento. La volatilità del capitalismo transfrontaliero richiede flessibilità da parte degli ordinamenti giuridici statuali per potere viaggiare senza limiti di spazio e di tempo nella dimensione planetaria del mercato unico globale. Allo stregua dei capitali finanziari che non hanno bandiere anche le masse d'individui devono potersi muovere liberamente da un continente all'altro seguendo la domanda di manodopera ovunque essa si produca. Ne consegue che la velocità con la quale il capitale consuma il suo ciclo produttivo è direttamente proporzionale al movimento dei flussi migratori. Variabili di questa meccanica economica sono gli andamenti demografici delle comunità produttive. Le ondate migratorie tendono a concentrarsi verso quelle aree del pianeta nelle quali non solo si genera offerta di lavoro ma che evidenziano significativi indici di invecchiamento della popolazione autoctona. Allo stato attuale il fenomeno tocca maggiormente i paesi avanzati dell'area occidentale, dall'Europa alla sponda ovest dell'Oceano Atlantico perché vi si trovano i paesi che hanno le caratteristiche descritte. Peraltro, sia nel caso europeo che in quello americano, la direzione dei flussi è da sud verso nord. In particolare, il continente europeo avverte la pressione di quello africano il quale, per svariate ragioni storiche, economiche e sociali che non possono essere indagate in questa sede, non ha sviluppato un sistema produttivo autoctono in grado di soddisfare le esigenze primarie della maggioranza delle sue popolazioni. L'incapacità di rispondere ai bisogni primari degli individui è la causa generatrice dell'onda umana che sta per travolgere le nostre comunità.

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Fingere di non vedere è da stupidi. Piuttosto la questione che deve interrogarci è altra. Posto che il fenomeno, per dimensioni e motivazioni, non è arrestabile applicando gli ordinari strumenti di regolazione dei flussi migratori, come deve comportarsi una società avanzata? E, soprattutto, quali priorità deve riconoscere nell'affrontare il problema? Sul punto l'orientamento complessivo appare ondivago, se non contraddittorio. È proprio la Comunità europea, alla fine degli anni ottanta dello scorso secolo, a dare un'interpretazione "aperta" del fenomeno migratorio. In linea con le fasi di massimo sviluppo delle logiche liberiste di mercato, la Comunità produce un'opera eugenetica nel linguaggio sostituendo, negli atti pubblici di propria competenza, il temine migrante al tradizionale emigrato/immigrato. Le parole sono importanti e non sono mai spese a caso. La soppressione del prefisso "ex" di cui si compone l'etimo della parola emigrante ha un senso. Come bene spiega l'Accademia della Crusca la presenza del suffisso "ex" pone l'accento sull'abbandono del paese dal quale si esce per andare altrove. I nostri connazionali che alla fine del secolo partivano per l'America erano emigranti, cioè italiani in movimento verso il nuovo continente. La sostituzione con la parola migrante, che è il participio presente del verbo migrare, rende invece l'idea di un individuo in transizione da un luogo a un altro in vista di una stabilizzazione esistenziale per la quale non è richiesta alcuna assunzione di solidi legami identitari. D'altro canto, per sua natura l'idea concettuale di migrazione non prevede condizioni di radicamento definitivo. La logica, dunque, che si afferma nella Comunità di fine secolo è quella, conforme ai dettami dello sviluppo capitalistico in senso liberista, delle grandi masse in movimento perpetuo. La sinistra terzomondista del nostro paese sposa in pieno questo canone interpretativo facendolo proprio. Non è un caso se la presidente Laura Boldrini, campionessa della cultura dell'accoglienza integrale, a 360 gradi, ebbe a dire in un'occasione pubblica - la presentazione del rapporto sul turismo di "Italia decide" nell'aprile dello scorso anno - che gli italiani avrebbero dovuto prepararsi ad assimilare lo stile di vita dei migranti, avanguardie della globalizzazione, perché quello … "sarà presto lo stile di vita per moltissimi di noi". Il termine migrante quindi connota la condizione di un nomadismo che, secondo i post-marxisti in circolazione in Italia, sarà il paradigma delle società avanzate del futuro prossimo. Accade però che un conto siano le elucubrazioni teoretiche altro sia la realtà. A metà degli anni novanta, a fronte dell'invasione dell'ovest del continente da parte di masse provenienti dall'est, cioè dai paesi dell'ex blocco sovietico appena disintegratosi, gli Stati membri dell'Unione iniziano, singolarmente, a rettificare il concetto d'accoglienza troppo frettolosamente canonizzato. Ritorna allora in auge la necessità di contemperare l'immissione contingentata di extra-comunitari con la difesa dell'interesse nazionale. Questo è il punto di snodo decisivo che, di fatto, cambia verso alle politiche comunitarie sui flussi migratori. Ed è il motivo dell'odierno contrasto tra la quasi totalità degli stati dell'Unione e l'Italia consegnata all'egemonia delle ideologie pacifiste e solidariste. I paesi dell'Unione comprendono per tempo la pericolosità di un meccanismo di introiezione non regolata del diverso rispetto alla sopravvivenza della cultura autoctona preesistente. Il rischio


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immediato è la "sostituzione etnica" che può prodursi a seguito dello spostamento di ingenti masse da un territorio sovrappopolato ad uno in crisi demografica. Che è il caso specifico di un'Europa che "invecchia". Inoltre, la migrazione di interi nuclei sociali determina la sistematica esportazione di modelli culturali i quali tendono a radicarsi nei luoghi d'approdo, creando isole etniche all'interno delle comunità penetrate. Quando gli immigrati incominciano a essere in tanti danno vita ai loro luoghi d'identità: la chiesa o la moschea per pregare, le botteghe dove si vende esclusivamente il cibo della propria tradizione, trattato secondo le proprie regole, il tribunale del clan o della comunità per amministrare giustizia e irrogare sanzioni agli individui che vi appartengono, le scuole dove si insegnano la propria lingua e i propri costumi. Allora la segregazione sociale, lungi dall'essere una pratica imposta dalle culture ospitanti, diviene lo strumento per un razzismo alla rovescia nel quale è l'alieno a penetrare senza lasciarsi contaminare. È del tutto evidente che un meccanismo così congegnato sia fatto per inibire ogni commistione. Al punto che l'idea concettuale d'integrazione che tanto piace ai progressisti occidentali si riduce a poco più di uno slogan privo di concretezza. Perché l'amalgama funzioni i numeri sono fondamentali. Il flusso migratorio deve essere attentamente dosato. Soprattutto non deve creare competizione sociale con i componenti delle comunità autoctone. Soltanto una società che soddisfi pienamente i bisogni dei propri cittadini può "aprirsi" alla domanda d'ingresso di nuove identità. Al contrario, nei momenti di crisi una comunità deve potersi auto-segregare per razionalizzare le proprie risorse in una prospettiva redistributiva che tenga conto del fabbisogno primario dei propri membri. Non si può condividere ciò che non si ha. L'Unione l'ha compreso assumendo un comportamento guardingo rispetto alla inevitabile pressione che le masse di diseredati esercitano ai suoi confini. Non le classi dominanti italiane le quali continuano imperterrite a ciurlare nel manico. Perché lo facciano è presto detto. Esiste qualcosa che si chiama ideologia che offre una visione del mondo alla quale i suoi adepti non intendono rinunciare soprattutto se, per un accidente della storia, siano venuti a trovarsi, loro malgrado, alla guida delle pubbliche istituzioni. L'Italia odierna ha conosciuto la fusione di due grandi tronconi del pacifismo: quello di marca terzomondista, proprio della sinistra post-comunista e il solidarismo cattolico nella versione pauperista dell'interpretazione del messaggio evangelico. La Chiesa dei poveri, dei diseredati, del denaro sterco del diavolo, con l'ultimo pontificato, sta vincendo la sfida per l'egemonia lanciata al primato della spiritualità e della ragione filosofica. In quest'ottica gli uomini di Chiesa sono chiamati a svolgere la funzione di avanguardie intellettuali mutando il tradizionale ruolo testimoniale in partecipazione co-attoriale alle "buone prassi". Il punto di sintesi con l'ideologia terzomondista si materializza nella condivisione della valutazione negativa sullo sviluppo storico dell' Occidente. Vi è una lettura determinista della crisi del nostro modello di civiltà che accomuna le due ideologie. L'assunto di partenza si colloca nella demonizzazione dell'esperienza coloniale dei secoli trascorsi.

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Le nazioni evolute avrebbero costruito il proprio benessere sulla pelle delle popolazioni, depredate delle proprie ricchezze, dell'Asia, dell'America latina e dell'Africa. Oggi, per effetto dell'agire della nemesi nella storia, l'assunzione della responsabilità dell'accoglienza illimitata costituirebbe l'alternativa, solo parzialmente appagante, della restituzione. In concreto, l'abbattimento delle frontiere costituirebbe la premessa per consentire agli espropriati del pianeta di essere gradualmente reintegrati nel possesso di ciò che a loro sarebbe stato ingiustamente sottratto. Tuttavia, non si tratterebbe di una generosa concessione dei gruppi egemoni delle società avanzate ma di un'inevitabile evoluzione, in senso meccanicistico, della sfera della necessità storica di realizzare l'uguaglianza dell'unica razza umana. Appare del tutto superfluo dichiarare la mia totale opposizione a questo modello. Per molte fondate ragioni. In primo luogo, la valutazione che do del colonialismo è divergente da quella offerta dalla comune vulgata. Non tutto e non sempre è stato abuso e sfruttamento indiscriminato. In alcuni casi il contatto con una civiltà avanzata ha aiutato i territori colonizzati a svilupparsi mantenendo pressoché inalterate le proprie tradizioni, come nell'India ai tempi della dominazione inglese o nella Libia della seconda colonizzazione italiana. La costruzione di infrastrutture (ponti, strade, acquedotti, ferrovie, scuole, ospedali, agglomerati abitativi) o la razionalizzazione dei metodi di sfruttamento delle risorse del suolo e del sottosuolo hanno consentito a gruppi umani arretrati di entrare nella storia. Si può dubitare della equanimità dello scambio ma non è corretto asserire, come fanno i terzomondisti, che il dominio coloniale sia stato sempre e comunque a senso unico, tra una parte forte che ha solo preso e una debole che ha solo dato. Ne consegue che non è giusto sbrigarsela caricando tutti i guasti e i ritardi di sviluppo che ancora si riscontrano nelle aree excoloniali sul groppone dell'Occidente conquistatore. In secondo luogo, vi sono zone del pianeta che subiscono gli effetti di un diverso e relativamente moderno colonialismo. La forma di sfruttamento che si produce non è riconducibile direttamente alla responsabilità degli Stati tradizionali. Sul terreno agiscono, con forza talvolta simile a quella degli stati, organizzazioni economiche di ampiezza sovranazionale che perseguono lo sfruttamento sistematico delle ricchezze naturali dei paesi arretrati per esclusive ragioni di profitto economico. Non vi è dubbio che queste realtà rappresentino un serio ostacolo al naturale sviluppo dei sistemi produttivi autoctoni. Tuttavia, la soluzione di questa ingiustizia, che rischia di riverberarsi negativamente sulle società avanzate, a mio avviso, deve essere cercata in loco mediante meccanismi di parziale redistribuzione sociale dei profitti conseguiti dalle multinazionali. Non è certo accogliendo le masse che scappano che si fa il bene di quei territori e di quelle comunità impoverite dalla mancanza di modelli produttivi sostenibili. In terzo luogo, vi è un problema identitario che non va taciuto. Gli equilibri globali possono essere garantiti fin quando è riconosciuto il fattore dinamico della diversità delle culture umane. Posto che rigetto in toto il postulato cardine del cristianesimo sull'unicità della natura umana nella sua essenza, ritengo che vi sia un diritto naturale della persona alla salvaguardia della sua identità. Si tratta di un bisogno primario che si esprime nella


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persona con la medesima intensità con la quale una pianta aspira alla luce. La collocazione fisica di questo richiamo ancestrale non è indifferente, visto che il presupposto per una ricomposizione identitaria di una comunità organica omogenea non possa prescindere dall'elemento territoriale. Un tempo si sarebbe detto: "la terra fecondata dal sangue dei nostri avi". In questa chiave prospettica, per chi un territorio nel quale sia incardinata la propria storia individuale e quella della propria comunità, ce l'ha, l'ipotesi di abbattimento incondizionato delle frontiere, prodromo per le dinamiche del nomadismo migratorio, non condurrebbe alla fine di una discriminazione generata da una differenziazione razziale ma all'istaurazione di un pericoloso totalitarismo egualitario il quale, come afferma Alain de Benoist, altri non è che "lo stadio ultimo dell'economicismo". Se è vero che la cultura è la sostanza della persona umana, la fine delle differenze culturali condurrebbe, per caduta, alla fine delle identità di cui si compone il genere umano. In conclusione, vi è un rapporto stretto popolo-territorio che può essere solo parzialmente ridefinito in ragione della mutazione dei tempi della civiltà, ma non può essere annullato o stravolto. Il diritto a riconoscersi in una identità propria e differente dalle altre, parimenti meritevoli di tutela, è un valore non negoziabile della condizione umana. La desolante ottusità della odierna politica di casa nostra si ostina a invocare l'intervento salvifico dell'Unione europea senza speranza alcuna di successo. Non è questione di egoismo. Al contrario, si è al cospetto di un raro momento di coerenza della famiglia continentale che rivendica il primato delle sue radici di fronte al rischio concreto di subire un processo di sostituzione etnica. Pertanto, l'idea di trascinare gli altri paesi sulla china dell'ideologia dell'accoglienza, è destinata a naufragare. Come i barconi dei disperati che solcano il Canale di Sicilia. Giorno verrà che il governo di questo paese dovrà risvegliarsi dal sonno della ragione indotto dai fumi di una visione del futuro assolutamente insostenibile, rinunciando una volta per tutte all'insano proposito di mettere tutta l'acqua del mare in un secchio. Sarà quello il momento giusto per tornare a essere, senza drammi o complessi di sorta, orgogliosamente italiani. Cristofaro Sola

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INTERVISTA A GIANFRANCO FINI L'ex ministro degli Esteri e presidente della Camera: "No a un intervento in Libia. Sarebbe disastroso". E sull'Ue: "Da uomo di destra dico: servono vere politiche comuni. Gli Stati dovranno cedere ancora sovranità". Libia, Russia, Israele, Isis. Ma anche Islam: un "a tu per tu" con Gianfranco Fini, ministro degli Esteri dal 2004 al 2006, per fare una fotografia del mondo in subbuglio che ci circonda. Lo incontriamo nel suo studio nel palazzo Theodoli Bianchelli, attiguo al Parlamento, dove con la consueta eleganza non si sottrae alle domande su temi, come la politica internazionale e la geopolitica, che continuano a appassionarlo. Presidente Fini, parliamo di Isis, del pericolo che rappresenta... In questo periodo sto studiando e cercando di comprendere l'Islam, perché molti parlano, e lo dico con convincimento e senza presunzione, senza conoscere la materia. La vera novità rappresentata dall'Isis, cioè ciò che lo rende pericoloso, non sono le minacce o il continuo rischio di attentati. È che per la prima volta siamo davanti ad un obiettivo politico che consiste nella fondazione e nello sviluppo del Califfato, ovvero nell'unità politica dei popoli musulmani, la "Umma". Anche al-Qaeda aveva questo scopo. No, al-Qaeda aveva un obiettivo ideologico, non politico. Nemmeno Bin Laden pensava al Califfato. L'Isis è un riferimento per coloro che si uniscono nell'odio contro l'occidente e nella volontà di imporre l'Islam agendo sotto un'unica regia. Almeno virtualmente, poiché in realtà l'intelligence ha potuto appurare che viene presentato più di quanto vi è di concreto. Tuttavia la religione non c'entra nulla, è una strumentalizzazione. Le racconto un aneddoto, che mi è capitato quando da ministro degli Esteri incontrai Muhammad Sayyid Tantawi, uomo molto colto ed imam dell'Università coranica di al-Azhar, la principale del sunnismo: gli chiesi come potevo io spiegare ad un occidentale la realtà del'odio interreligioso nel nome del Profeta; lui si prese qualche istante, sorseggiò il suo tè e mi rigirò la domanda domandandomi come poteva lui spiegare ad un musulmano medio, non la strage degli ugonotti, ma le più recenti tensioni dell'Iralnda del Nord? È evidente che la religione non c'entra niente. Il nostro approccio è la laicità istituzionale, che segue ad un determinato percorso storico: è un concetto accettato ma


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non riconosciuto dai musulmani che vivono in occidente, poiché il musulmano non scinde la fede dall'istituzione pubblica. La religione, nella loro ottica, viene quindi ad essere totalizzante, mentre noi abbiamo avuto, tanto per dire, la Rivoluzione francese. Un altro elemento di distinzione è dovuto al fatto che nella nostra cultura la comunità nazionale è un intersecarsi di culture, di radici storiche e di lingue, mentre nel mondo arabo la Umma è una comunità a base religiosa che va da una parte all'altra del mondo arabo. Nella concezione di mondo arabomusulmano non esistono costituzioni laiche, come neppure la forma democratica. E difatti nel momento in cui si è pensato di esportare sulla punta della sciabola la democrazia, ci si è resi immediatamente conto che il processo non poteva essere automatico, tant'è che ci si è ritrovati davanti crisi come quella della Libia o dell'Egitto dei Fratelli Musulmani. Tuttavia di musulmani ve ne sono anche in occidente, anche convertiti... Se lei prende la situazione nordamericana, vede che l'80 per cento dei musulmani sono convertiti, per lo più afroamericani, in quanto essi sono parte di una minoranza che ha conosciuto la discriminazione e che quindi ha trovato nell'Islam il momento identitario. In Europa i convertiti sono invece il 20 per cento dei musulmani. Di certo quando ci si riferisce agli arabi come ai musulmani si commette un errore, in quanto i musulmani non sono solo arabi. Vi sono paesi arabi come il Qatar con cui facciamo affari d'oro, tanto per dire l'opa sui grattacieliaudacia di Milano o l'acquisizione dell'ex ospedale San Raffaele di Olbia: Doha appoggia temeraria igiene spirituale politicamente e finanziariamente in modo palese movimenti e formazioni radicali, come i Fratelli Musulmani a cui lei prima si riferiva, o ancora lo stesso Isis, cosa denunciata dall'ex segretario di stato Usa Hillary Clinton, o ancora dal ministro allo Sviluppo tedesco Gerd Mueller. Passi che pecunia non olet, ma non le sembra quantomeno una contraddizione? Si tratta di stati di necessità inevitabili, ma io voglio sperare che vi sia quanto prima almeno la denuncia della situazione e che tutti possano vedere cosa succede dalle loro parti. Queste contraddizioni destano allarme ed è ora che l'occidente apra gli occhi, che gli occidentali siano messi in condizione di comprendere, di essere coscienti del fatto che in Arabia Saudita, paese alleato di ferro degli Usa, le donne non possono guidare ed i cristiani finiscono in prigione. Parliamo di Libia: l'inviato dell'Onu Bernardino Leon sta facendo i salti mortali per far dialogare il governo "di Tobruk" con quello "di Tripoli". Che ne pensa? Purtroppo la sua posizione è quella di un vaso di coccio fra vasi di ferro. Ma quante volte gli inviati speciali dell'Onu si sono presentati con tanta buona volontà per poi ritrovarsi poco o nulla? Io spero che nessuno abbia la sciagurata idea di inviare truppe in Libia: chiunque arrivasse verrebbe percepito come un invasore, contro il quale si coalizzerebbero le tribù e le parti oggi in lotta.

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Tuttavia i giochi si fanno anche altrove: nel 1987 il presidente tunisino Habib Bourghiba è stato destituito con un piccolo golpe definito "dei camici bianchi". Cioè per "incapacità psicofisica", ed al suo posto i servizi italiani hanno messo Ben Alì, cosa confermata nel 1999 in audizione dal capo del Sismi Fulvio Martini: lo scopo era quello di strappare alla Francia la zona di influenza, ma proprio la Francia nel 2011, senza aspettare nessuno, ha bombardato Gheddafi, forse per restituire la cortesia. Non è da escludere che ciò sia accaduto, perchè la Libia non è lo scatolone di sabbia di cui si pensava in tempi andati. Di certo la Francia ha fatto i conti senza l'oste, basti pensare al fatto che il paese in questione è in realtà un insieme di tribù spesso rivali. Se guardiamo la mappa delle basi statunitensi, vediamo una linea orizzontale che va dal Marocco al Kirghizistan, con le sole esclusioni, non a caso, di Iran e di Siria. Se ci rifacciamo a quelle russe, ne troviamo, oltre che nel territorio della Federazione, in Crimea, a Sebastopoli, in Siria, a Tartus, ed in Egitto, ad Alessandria. È possibile ritenere che in questa geometria si riassumano le crisi di questa parte del mondo? La Russia ha una dimensione continentale, arriva fino a Vladivostok. Privare la Russia del suo ruolo, com'è stato specialmente con il trauma del crollo dell'Unione Sovietica è un errore, anche perchè il popolo russo ha il suo orgoglio. Vi è un peso geopolitico che è nei fatti e che spetta alla Russia, ma questo non significa che il Cremlino possa passare liberamente dallo stato di influenza per ragioni storiche, linguistiche ed economiche, al muovere i carri armati ed annettere la Crimea. Forse la Crimea è stata vista come un risarcimento per il fatto che l'Ucraina ha prima aderito all'Unione doganale euroasiatica e poi si è tirata indietro, aprendo di fatto una falla che permette il passaggio delle merci praticamente senza dazi fra il circuito dell'Unione Europea è quello dell'Unione doganale. Indubbiamente. ma questo non significa che si possa reagire inviando truppe e spostando avanti l'asticella. Semmai anche noi non abbiamo perso l'occasione di metterci del nostro, anche includendo nell'Unione Europea i Paesi Baltici senza pensare che, ad esempio, in Estonia vi sono 300mila russi di fatto apolidi, un aspetto, questo, che interessa la dignità della persona". Come giudica le sanzioni comminate alla Russia? Non possiamo tollerare i carri armati in movimento: quale mezzo di pressione abbiamo se non le sanzioni? Poi, sappiamo tutti che funzionano fino a un certo punto.


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I russi però dicono che è la Nato ad espandersi e che nella crisi ucraina vi sia il disegno di aumentare la presenza dell'Alleanza Atlantica ai loro confini. Sarebbe un errore se la Nato facesse questa scelta. Tuttavia l'Ucraina, a differenza di paesi come la Bielorussia, è un paese europeo, che guarda naturalmente all'Europa". Un Europa però - e qui cambio argomento - che zoppica... L'Unione Europea, come progetto, è rimasta a metà del guado: stiamo andando avanti con guide intergovernative, vedi le riunioni dei capi di stato o quelle dei ministri. Ed a metà del guado rischiamo di annegare, perché siamo in pochi a credere nella necessità di una politica comune che non sia solo quella economica. Lo dico da uomo di destra: la difesa dell'interesse nazionale oggi non si fa col protagonismo nazionale, ma mettendo in comune progetti e politiche, cedendo quote di sovranità. Israele: Benjamin Netanyahu ha vinto per la quarta volta le elezioni. Un mio amico, un ebreo italiano che vive in Israele, mi ha detto testualmente che il problema della casa e il caro vita sono questioni vitali per chi è vivo. Ma si sarà vivi un domani? In questa espressione vi è un popolo che vive nella paura, ed oggi più che in passato vi sono paura e insicurezza: per i jihadisti l'ebreo rappresenta il nemico per antonomasia. Ricordiamoci inoltre che Israele è l'unica democrazia dell'area, che deve fare incontri con il problema della Striscia di Gaza. Se le ambiguità di Hamas e di Abu Mazen non le risolvono i palestinesi, perchè dovrebbero farlo gli israeliani?. Il 2 marzo Netanyahu si è presentato al Congresso Usa per intervenire contro le trattative del "5+1"sul programma nucleare iraniano, in piena campagna elettorale, una mossa che non è piaciuta a Barak Obama come neppure a John Kerry, che si sono rifiutati di riceverlo. Vi sono prima di tutto ragioni interne, basti pensare che negli ultimi tempi l'ebraismo americano si è avvicinato ai Repubblicani. Ma comprendo le paure: contro chi userebbe il nucleare l'Iran, se non contro Israele?. In Iran però oggi governa Rohani, non Ahmadinejad. Non le pare? Sì, la situazione è molto diversa rispetto al passato. Ma non dimentichi che l'ultima parola la ha sempre chi sta sopra, cioè l'ayatollah Ali Khamenei". Enrico Oliari

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GLI ASSETTI ARTICI La riduzione della superficie ghiacciata artica potrebbe rendere navigabile il Passaggio a Nord Ovest e la rotta verso il Nord Est. Questo ha ingenerato un contenzioso sulla territorialità dell'artico fra Stati Uniti, Russia, Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia. L'annessione dello spazio artico garantirebbe ai contendenti un aumento dell'estensione dei confini statuali e lo sfruttamento delle risorse naturali, e questi sono i passaggi fondamentali per aumentare la propria influenza a livello globale. La giurisprudenza delimita la regione artica in quella che circonda il Polo Nord ivi compreso l'Oceano Artico, le estreme propaggini della Groenlandia e dei territori continentali euroasiatici ed americani. Convenzionalmente il limite dello spazio artico viene indicato nell'area dell'isoterma dei 10 gradi rilevato nel mese di luglio. La regione gode del regime di internazionalità decretato dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare, ma il trattato non è stato ratificato dagli Stati Uniti, che sostengono ferventemente la libertà di navigazione. La mancata adesione degli USA, di fatto sancisce l'assenza di regolamentazioni internazionali in materia forense. Nel 1966 venne inaugurato il Consiglio Artico, i cui membri sono gli attuali contendenti, allo scopo di promuovere una politica ambientale artica, ma l'unico riferimento normativo rimane la Convenzione dell'Onu, senza il placet statunitense, che disegna una zona economica esclusiva, la Zee, di 200 miglia dalla costa dello stato rivierasco, su cui quest'ultimo può estendere la propria sovranità e sfruttare le risorse naturali. È possibile una ulteriore estensione pari a 150 miglia, laddove lo stato interessato dimostri alle Nazioni Unite che il margine continentale della sua piattaforma si prolunghi oltre le 200 miglia. Tutti gli stati artici hanno inoltrato, o sono in procinto di farlo, la richiesta di estensione dei propri confini. L'American Geological Survey, stima che sul fondale artico sia presente una quantità pari al 25% delle attuali riserve mondiali di petrolio e gas naturale. In termini numerici questo si traduce in 90 miliardi di barili di petrolio, ed il 30% della produzione mondiale di gas, pari a circa 1.700 miliardi di piedi cubi. Le maggiori concentrazioni delle riserve naturali sono nel Mare di Kara e di Barents. L'Artico è ricco di nichel, rame e platino, ma anche di risorse ittiche che si attestano al 15% del valore mondiale. La componente del commercio ittico è la concausa del confronto geopolitico fra gli


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attori principali, ma anche la possibilità di poter usufruire di una nuova rotta che congiungerebbe l'Atlantico al Pacifico, con un notevole vantaggio temporale rispetto all'attraversamento del Canale di Panama. In base alle osservazioni della Nasa, oltre al Passaggio a Nord Ovest, in un futuro prossimo, lo scioglimento dei ghiacci favorirebbe un'altra rotta verso Nord Est e questo significherebbe la congiunzione del Mare di Laptev, a nord della Siberia, con l'Oceano Pacifico, ossia un collegamento rapido verso i porti asiatici di Cina e Giappone, in pratica la distanza fra Yokohama ed Amburgo sarebbe ridotta di circa 5mila miglia nautiche, e garantirebbe la certezza di non essere attaccati dai pirati, una delle principali minacce globali al trasporto marittimo. La Russia sembra essere in vantaggio sugli altri competitori in quanto dispone di due componenti fondamentali: la migliore flotta rompighiaccio e la presenza numericamente più importante di abitanti nell'area contesa. Di fatto questo le garantirebbe una più semplice percorribilità delle rotte artiche ed una manodopera già abituata al clima severo. La Russia sta tentando di recuperare lo status di superpotenza basandosi anche sulle immense risorse energetiche di cui dispone, ma queste sono in esaurimento e dunque la necessità di garantirsi un monopolio energetico ha spinto la leadership verso il Polo Nord, tracciando una politica artica per tutto il 2020. Infatti l'Artico sostiene gli interessi vitali della Russia con il 60% della produzione di petrolio, il 95% dei metalli del gruppo del platino, ed il 95% del gas naturale. Cifre che rappresentano il 15% del Pil russo. Gli Stati Uniti sostengono il diritto alla libertà di navigazione e questo atteggiamento è valso la frizione con il Canada, che considera il Passaggio a Nord Ovest come parte integrante delle sue acque interne. Unitamente alla Russia, l'obiettivo è quello di implementare le risorse naturali nazionali, infatti la BP World Energy Survey ha stimato in dieci anni l'esaurimento delle riserve petrolifere statunitensi. Questo fa dell'accesso ai giacimenti artici, una questione primaria per l'Amministrazione Usa. Come atto dimostrativo, l'amministrazione Obama ha dato il via libera alla ripresa delle perforazioni della Shell nell'Artico alla ricerca di idrocarburi al largo delle coste dell'Alaska. Per effettuare le prospezioni il colosso dell'energia sta spostando verso nord le enormi strutture per le perforazioni offshore. Il Canada rivendica il diritto di sovranità sul Polo Nord, ma i mezzi a disposizione del paese nordamericano non sono paragonabili a quelli dei due attori principali, pertanto il governo canadese, per affermare la propria presenza nell'area, ha scelto sia la strada delle esplorazioni scientifiche quanto quella giuridica, dove ha avanzato una soluzione all'Onu per dimostrare che la dorsale di Lomonosov, facente parte del proprio zoccolo continentale, collega il territorio del Canada al Polo Nord, e dunque le dà diritto di sovranità sull'Artico. Le pretese della Danimarca traggono origine dalla Groenlandia, la cui popolazione ha però espresso il volere di indipendenza dalla governance danese. Tale soluzione garantirebbe alla Danimarca una notevole riduzione delle spese statali, sia in materia economica che di difesa, ma fletterebbe notevolmente il diritto di rivendicazione sui

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territori artici ed inoltre registrerebbe una diminuzione degli introiti del settore ittico e sulle riserve di acqua dolce, di cui la Groenlandia è ricchissima. La Norvegia ha nelle isole Svalbard l'unico possedimento artico, ma rimane un player agguerrito in quanto la produzione di greggio vale il 25% del PIL ed il 50% delle esportazioni. Infatti, è in piena produzione il giacimento artico norvegese, mentre la centrale di Snohvit estrae il gas naturale per l'esportazione sul mercato europeo ed americano. Un impatto rilevante sull'economia della Norvegia è segnato dal settore ittico, che lo promuove ad uno dei grandi produttori a livello globale. L'egemonia su un territorio viene esercitata anche con la deterrenza delle armi. Il Canada ha istituito una formazione militare specializzata nel combattimento in ambienti estremi e sono stati dislocati a Resolute Bay, a 600 chilometri dal Polo Nord. A nord-est dell'isola di Ellesmere, il Canada ha istallato una centrale di ascolto per monitorare le trasmissioni russe inerenti ai movimenti aerei, marittimi e terrestri. La Danimarca mantiene costantemente unità di superficie nell'Artico, con compiti di controllo delle acque territoriali. Inoltre sta sviluppando la componente navale con l'acquisizione di Fregate, Corvette e Pattugliatori. La Marina Militare finlandese, il 27 aprile 2015, ha ottenuto un grande successo sulla Russia dimostrando una buona capacità di reazione: la rete di sorveglianza subacquea della Finlandia ha dapprima rilevato un contatto sommerso nelle proprie acque territoriali, poi, a seguito di un secondo contatto, ha inviato unità di superficie della Marina Militare e della Guardia Costiera, allo scopo di dissuadere l'intruso nel permanere nell'area antistante Helsinki. Il battello sommerso è stato costretto ad abbandonare la zona con l'ausilio del dispositivo MSS, progettato per esplodere a circa 3 metri sotto la superficie, e creare un suono udibile a due miglia di distanza dagli equipaggi dei sommergibili. Per gli Stati Uniti, gli scenari che si potrebbero prefigurare sono inquadrati nella sicurezza nazionale, infatti il sistema di difesa all'estremo nord è volto a garanzia dell'integrità territoriale. Pertanto diventa necessaria una rivisitazione degli schemi navali per operare in ambienti estremi ed ostili, e migliorare il sistema di difesa antimissilistico. Gli Stati Uniti hanno dislocato in Alaska una notevole forza di interdizione. Inoltre, sull'isola di Shemya è impiantato il radar Cobra Dane facente parte dello scudo missilistico, ed a Fort Greely sono schierati i missili intercettori Patriot. In Groenlandia, la base Nato di Thule è parte integrante del sistema antimissilistico, in quanto collega i centri di comando e controllo della California alle forze navali dell'Oceano Pacifico e del Sud-Est Asiatico. Da Thule vengono inviati i comandi operativi alla rete satellitare statunitense, stimata ad oltre 140 unità posizionate in orbite variabili dalle 120 alle 24.000 miglia. Fra questi anche i 90 dedicati esclusivamente alla sorveglianza del territorio russo, che viene sorvolato circa 20.000 volte l'anno. Nelle acque artiche sono in costante navigazione unità Aegis, con capacità di intervento sulle frontiere marittime russe, e sommergibili strategici a propulsione nucleare.


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Il controllo di un'area passa anche attraverso una efficiente catena di comando che non può essere tale senza un efficacie sistema di comunicazione: gli Stati Uniti hanno messo a punto il Mobile User Objective System, MUOS, costituito da quattro terminali terrestri collegati con una rete di satelliti geostazionari. Questo garantisce alla Marina Militare statunitense una connessione con le unità in navigazione nel Mar Glaciale Artico. La funzionalità del MUOS è stata testata nell'addestramento Ice Exercise 2014. L'ICEX 14 ha avuto come protagonisti il Comando delle forze subacquee del COMSUBFOR, ed i tecnici della Lockheed Martin, l'Azienda realizzatrice del MUOS. Sono stati trasmessi una notevole quantità di dati con una connessione protetta e stabile nella regione artica in circa 150 ore di attività. Sostanzialmente, si è verificato uno scambio di informazioni dall'Ice Camp Nautilus, a circa 100 chilometri dalla Prudhoe Bay in Alaska, con i sottomarini USS New Mexico, classe Virginia, e USS Hampton, classe Los Angeles, in navigazione sotto il ghiaccio artico e rischierati nel Submarine Artic Warfare Program. Il programma addestrativo prevedeva prove di emersione, l'attracco e la sosta nella banchisa polare. In questo periodo il MUOS ha operato per l'Ice Camp Nautilus, le cui antenne ed i sistemi tecnologici avanzati hanno garantito la supervisione e le comunicazioni fra le unità sommerse ed il centro di comando e controllo. ICEX 14 ha permesso di monitorare e mettere a punto non solo le comunicazioni, ma anche i sistemi di combattimento e di navigazione in modo realistico dei sottomarini strategici a propulsione nucleare, mezzo fondamentale per l'interdizione marittima e particolarmente adatti ad operare in ambienti ostili ad alta conflittualità. Infatti le condizioni climatiche avverse possono inficiare le operazioni di identificazione in immersione, il lancio dei siluri e le funzioni del sonar a causa della specificità dei profili della propagazione delle onde sonore che possono risultare imprevedibili. I satelliti statunitensi sorvolano l'artico ogni 30 minuti, con una media di circa 17.000 passaggi annui, e sono coadiuvati da velivoli senza pilota configurati per la raccolta dati. La questione artica è per la Russia una priorità geopolitica, ne è la dimostrazione l'ammodernamento dell'apparato militare. Il dispiegamento difensivo ha nelle basi aeronavali nella Terra di Francesco Giuseppe e nelle Isole della Nuova Siberia la sua testa di ponte. Queste saranno implementate con due brigate artiche che dovrebbero essere operative nel 2017: il gruppo Artico Nord sarà composto da formazioni di fanteria meccanizzata schierate nella regione di Murmansk e nel distretto di Jamal-Nenets. Il reggimento da guerra elettronica della Flotta del Nord è di stanza ad Alakurtti. La difesa aerea è per il momento affidata al sistema d'arma Pantsir, ma probabilmente subirà una revisione a favore di SAM più moderni. Dal 1° dicembre 2014, è attivo il Comando Strategico per l'Artico, inquadrato nella Flotta Settentrionale, ma con l'ambizione di renderlo indipendente dopo l'accorpamento di una divisione della Difesa Aerea.

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Gli aeroporti regionali sono tutti in fase di ammodernamento, ed al termine dei lavori dovrebbero essere 13 quelli pienamente operativi. In particolare quello di Tiksi assumerà una posizione strategica. Questi è una unione di altri tre aerodromi minori che, al tempo della Guerra Fredda, ospitavano i bombardieri a lungo raggio. Nei progetti russi, Tiksi tornerà a rivivere gli antichi fasti e vi saranno rischierati anche gli intercettori MIG-31. I droni, oramai assorti a sistema d'arma fondamentale per la difesa, saranno basati ad Anadyr, ed un reggimento di SAM S-400 sarà di base nella penisole di Kola, nella Kamchakta e nell'arcipelago di Novaya Zemla. La flotta subacquea russa è numericamente inferiore rispetto a quella statunitense, ma gli ultimi battelli entrati in servizio sembrano vantare una silenziosità maggiore se paragonata a quella degli avversari, e questo dovrebbe riequilibrare le forze in campo. Gli interessi geopolitici dei player artici sembra acuirsi notevolmente, forse anche a causa del contrasto sulle vicende ucraine. Resta valido un arbitrato dell'Onu che possa appianare le contese ed evitare un innalzamento del livello di scontro, ma anche trivellazioni non concordate che potrebbero peggiorare le condizioni ambientalistiche dell'Artico. Giovanni Caprara


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