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Aeromensile di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

Nuova serie - Numero 33 Febbraio 2015 - Anno XVII

IN QUESTE TENEBRE, I PAGLIACCETTI...

: STA FARESE I V TER PE L’IN IUSEP NA O G V DI SA

Primo Piano: Scenari di Cristofaro Sola O L Abracadabra di Francesco Diacceto PAO Libia, l’Onu contro la linea dura di Enrico Oliari


www.confini.org

Confini Aeromensile di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Numero 33 - Febbraio 2015 - Anno XVII

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti, Cristofaro Sola +

Hanno collaborato a questo numero: Pietro Angeleri Francesco Diacceto Gianni Falcone Giuseppe Farese Pierre Kadosh L’Infedele Enrico Oliari Pennanera Gustavo Peri Angelo Romano Cristofaro Sola

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Segreteria di redazione: confiniorg@gmail.com

+ Registrato presso il Tribunale di Napoli n. 4997 del 29/10/1998

confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

QUANDO LA FURBIZIA NON SERVE A volte é come se il destino si divertisse a giocare con le "leggi di Murphy" per creare sistemi di singolari coincidenze che potrebbero avere conseguenze catastrofiche. Una sorta di "tempeste perfette" che si addensano sulla testa di alcuni popoli. L'Italia si trova al centro di uno di tali sistemi e rischia davvero grosso, soprattutto se i suoi governanti non saranno all'altezza (e tutto induce a ritenere che non lo saranno). Sullo sfondo la deflazione che, tra le tante nefaste conseguenze, rende più arduo sostenere i debiti pubblici e il Belpaese ha il più alto debito pubblico tra i Paesi dell'Euro (oltre 2100 miliardi) che vale un quarto di tutto il debito dell'area euro; la recrudescenza del rischio terrorismo sotto la nuova forma di un sedicente stato di tagliagole; la rinnovata tentazione di esibizioni muscolari tra Usa e Russia; l'inconsistenza della Ue in particolare in politica estera. In primo piano Libia, Ucraina, Grecia ed una immigrazione crescente (anche a causa dell'Isis) ed a rischio di strumentalizzazioni fondamentaliste. Quattro questioni che per strani intrecci geopolitici ci coinvolgono pesantemente per i riflessi sull'economia, sull'approvvigionamento energetico, sul rischio terrorismo. Questioni dove gli stessi protagonisti si alternano in ruoli differenti e con possibili nefaste conseguenze per il nostro Paese. La Libia - che non è mai stata Stato se non per volontà coloniale, come provano i suoi confini disegnati con la riga - é un insieme di almeno tre entità preesistenti: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan in ciascuna delle quali opera e conta un sistema tribale con suoi autonomi interessi. Tali tribù, non tenute più a bada dal pugno di ferro di Gheddafi, improvvidamente abbattuto dalle mire francesi sul petrolio e dalla miopia di Obama in politica estera, si sono trasformate in milizie pronte a far valere le loro ragioni con le armi. Armi ottenute dall'Occidente o razziate all'esercito libico dell'ex dittatore. In questo quadro caotico trovano sempre maggior spazio le mire pan-arabe dell'Isis e la sua sete di risorse. Come trova spazio lo sfruttamento della disperazione da parte dei mercanti di profughi. E vi è il concreto rischio che possano sposarsi, su questo terreno, gli interessi dell'Isis che accarezza l'opportunità di sfruttamento politico e terroristico dei flussi migratori, con quelli dei trafficanti di immigrati. L'Italia, per la sua vicinanza alle coste libiche, diventa il naturale bersaglio di una strategia della migrazione, l'antagonista principale per il controllo delle risorse petrolifere visto il ruolo dell'Eni, l'obiettivo più a portata di mano per azioni ostili, anche di solo disturbo al fine di allentare la pressione su Iraq e Siria dove hanno sede cuore e cervello dell'Isis.


EDITORIALE

E si tratta di un'Italia che molto probabilmente dovrà cavarsela da sola, attesa l'inesistenza di una politica estera e di una difesa europea, l'attenzione della Nato tutta assorbita dalla questione Ucraina, il rigurgito di protagonismo di alcuni Stati europei che, con le loro fughe in avanti, creano sottili ma preoccupanti fratture nella già fragile solidarietà europea. L'Italia, per ora, è apparsa confusa e ondivaga: sulle prime pronta anche all'intervento armato, a giocare un ruolo guida, salvo fare repentina macchina indietro ed accodarsi all'iniziativa egiziana (la Libia è questione araba) o alle deboli azioni dell'Onu. L'Ucraina é sempre stata un "annesso" russo. Anche dopo l'implosione dell'Urss, la sua economia è rimasta saldamente intrecciata a quella sovietica, anche a causa dell'esposizione debitoria determinata dalla bolletta energetica. La Germania, e per lei l'Unione Europea, non contenta dell'allargamento ad est finora raggiunto (anche grazie al fatto che la Russia è stata impegnata per anni a riorganizzarsi dopo la caduta del comunismo) ha cercato di portarla nella sua orbita provocando una risentita (e forse legittima) reazione della Russia che prima si è annessa la Crimea, strategica per ragioni militari e minerarie, e poi ha sostenuto le mire autonomiste della popolazione russofona, maggioritaria nell'est del Paese. La reazione della Russia ha determinato l'erogazione di sanzioni della U.E. nei suoi confronti. Sanzioni che, ancorché avallate dagli Usa, penalizzano pesantemente l'Italia in termini di contrazione dell'export verso la Russia, di rischio sull'approvvigionamento energetico e, soprattutto, a causa della revisione della complessiva strategia europea in materia di infrastrutture di trasporto energetico. Ora, se da un lato è vero che l'Italia sarebbe tenuta alla solidarietà europea, anche a costo di mortificare i suoi interessi nazionali, é altrettanto vero che tale solidarietà dovrebbe essere reciproca, pur in assenza di un trattato UE sulla politica estera. Ma a Minsk, al tavolo dei negoziati Russia - Ucraina - Ue, l'Italia non c'era, come non c'era la Ue con l'Alto Commissario Mogherini, Francia e Germania si. Sulla vicenda va fatta ancora una considerazione: da parte dell'Unione Europea si é sostenuto, per suffragare le proprie ragioni, che l'Ucraina ha eletto democraticamente un governo che ha deciso, a differenza di quello precedente (Janukovyc, deposto il 22 febbraio 2014), di avvicinarsi all'Unione allontanandosi dalla Russia. Ora, senza voler gettare alcuna ombra sulla regolarità delle elezioni ucraine, va rilevato che l'Unione, con la storia della "troika" e con le misure nei confronti della Grecia, ha sancito, a tutela del suo interesse e di quello dei maggiori creditori (Germania in testa), una sorta di "sovranità limitata" dei Paesi indebitati, in barba alla democrazia. La stessa sovranità limitata per debiti potrebbe essere invocata dalla Russia nei confronti dell'Ucraina e questo legittimerebbe la scarsa considerazione verso la democratica elezione di Poroshenko. In tale scenario gli Stati Uniti, in un impeto di nostalgia verso la "guerra fredda" avevano assunto la grave decisione di fornire armamenti all'Ucraina, in altre parole di portare la guerra nel cuore dell'Europa. Fortunatamente Merkel e Hollande, in quanto capi dei loro Stati, hanno scongiurato il pericolo.

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EDITORIALE

Sulla questione l'Italia subisce e cerca di essere amica di tutti, senza capire, forse, che la furbizia, la politica dei doppi forni, su questo fronte non paga. La Grecia. Per ora Tsipras ha dovuto ingoiare un boccone assai amaro e fare macchina indietro su alcune solenni promesse elettorali, in cambio ha guadagnato quattro mesi di momentaneo respiro. Che decida allora di buttarsi nelle braccia di Putin pur di non affamare i suoi concittadini? La vicenda greca dimostra, in maniera inequivocabile, il fallimento della cura "lacrime e sangue" propinata ai greci dalla "Troika". Dimostra anche che di fronte agli interessi economici, al possibile danno ai creditori, la democrazia e la sovranità passano in secondo piano e solidarietà, fratellanza, e carità sono solo vuote parole al cospetto del Dio denaro. Un Dio che esige che la gente muoia di fame, che non riceva cure mediche, che perda tutto, anche la dignità, perché colpevole di essere stata mal governata, perché i potenti di turno hanno accumulato ingenti fortune all'estero e truccato i conti pubblici, mentre distraevano il popolo con assunzioni indebite nel sistema pubblico e consentendo che vivesse "a credito" ben al di sopra delle sue possibilità. Certo pagare i propri debiti è un dovere primario, ma la galera per debiti è stata sempre controproducente precludendo al debitore la possibilità di produrre reddito e cancellando le speranze di rientro del debitore e le misure della troika ci vanno molto vicino nella perversione degli effetti. Anche su questo fronte l'Italia è evanescente, continua a far crescere un debito pubblico immane, non si preoccupa di tagliare la spesa ed alimenta uno Stato sempre più famelico, vorace, liberticida ed anche incline a truccare un po' i conti. L'immigrazione. Quella attuale è fatta, per la maggior parte, di rifugiati. Gente da accogliere per dovere morale e in base alla carta dell'Onu. Si tratta di un fenomeno destinato, probabilmente, a crescere se non si stabilizzano Medio Oriente e Africa. In base al trattato di Dublino 3, dall'Italia stupidamente quanto liberamente sottoscritto, il Paese di sbarco è quello che si accolla l'onere dell'accoglienza. Che succede se i flussi, anche con lo zampino fondamentalista, diventano biblici? Anche qui la furbizia non serve, come non serve Triton. Va riguardata tutta la materia, vanno riscritte le regole sia a livello Unione che a livello Onu. Sacrosanti i diritti dei rifugiati, altrettanto il dovere di ripartire gli oneri di accoglienza. Speriamo che Renzi riesca a capire qual é lo spirito giusto per riformare correttamente, per restituire credibilità all'Italia, per affrontare le complesse sfide di scenario. E lo spirito giusto non contempla la furbizia, solo lungimiranza e fermezza. Angelo Romano


SCENARI

IN QUESTE TENEBRE, I PAGLIACCETTI... Il caso di studio All'inizio dello scorso anno il neo eletto segretario del Partito Democratico, Matteo Renzi, invia un tweet al presidente del Consiglio e suo sodale di partito, Enrico Letta, mediante il quale intende confermargli la fiducia con un esplicito viatico a proseguire l'esperienza di governo. Scrive Renzi a Letta: "Enrico, stai sereno". Il giorno dopo lo stesso Renzi fa cadere il gabinetto Letta per prenderne il posto a palazzo Chigi. Dopo un anno d'intese, non propriamente trasparenti, intercorse tra il capo del governo Renzi e quello dell'opposizione Berlusconi, intese passate alla storia mediante la locuzione "Patto del Nazareno", l'anomala maggioranza si prepara a votare il nuovo capo dello Stato. Secondo il leader dell'opposizione la scelta, come da accordi, avrebbe dovuto essere condivisa. Renzi, in vista del voto, chiede al partner Berlusconi di accettare una forzatura sui tempi di approvazione della legge elettorale, adombrando l'idea che l'intesa raggiunta possa nel tempo trasformarsi in alleanza organica di governo. Renzi sa che senza i voti di Forza Italia, la riforma sarebbe a rischio. Berlusconi, contro il parere di molti dirigenti del suo partito, allettato dalla prospettiva di un ripescaggio delle cosiddette "larghe intese" che lo consacrerebbe per l'ennesima volta nel ruolo di play maker della politica italiana, accetta perché si fida di Renzi e della solidità del patto sottoscritto. Al momento della scelta del nuovo presidente, Renzi rinnega gli accordi e procede all'elezione di un candidato non concordato con l'altro contraente del patto il quale resta con in mano un pugno di mosche. La maggioranza plaude al voltafaccia renziano giudicandolo un comportamento commendevole perché ispirato da grande realismo politico. Berlusconi, sentitosi gabbato, grida al tradimento e accusa apertamente il capo del governo di non aver onorato gli impegni assunti. Il capo del governo replica negando che vi fossero impegni assunti in tal senso. Nel corso di un dibattito televisivo un'autorevole esponente della segreteria del Partito Democratico, intervenendo sul tema dei valori, a proposito dell'affidabilità del suo leader a mantenere la parola data, afferma testualmente: "parole come onore sono strumenti della retorica politica".Dalle vicende rappresentate, di là dalle ragioni e dai torti dei singoli protagonisti, prorompe un quesito che interroga la società del nostro tempo su quale peso debba avere, nello svolgimento di qualsiasi attività di relazione, il portato etico del sistema valoriale sul quale è stata edificata la nostra civiltà.

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Segnatamente, è opportuno domandarsi se il complesso dei valori etici dai quali, in passato, ha tratto ispirazione la morale pubblica abbia ancora cittadinanza nell'odierno contesto sociale. In questa sede, non potendo esplorare per intero la piramide assiologica posta a fondamento delle virtù repubblicane, restringiamo il campo d'osservazione a ciò che appare essere il vero nervo scoperto del problema. Da qui la domanda: è ancora possibile, nelle dinamiche del confronto politico, appellarsi a un'etica dell'onore? Considerazioni essenziali Nella società dell'immagine pensare di avere riferimenti stabili a cui ancorare anche le scelte contingenti del presente non è questione compatibile con il ritmo del tempo storico. Le classi dirigenti che oggi sono alla guida del nostro paese interpretano ogni richiamo al passato come il tentativo messo in atto da un ipotetico "partito della reazione" di fermare la spinta progressista che, invece, sarebbe vocata alla costruzione del benessere diffuso. Per lo spirito dei nuovi tempi ciò che conta è il risultato. Non importa come questo sia stato conseguito. Il processo di identificazione e di raccordo di un obiettivo all'esistente appartiene alla sfera dell'indifferente etico. Esso non rileva ai fini della rappresentazione dei rapporti di forza nella dinamica dei flussi decisionali. Non che il valore in quanto tale non trovi una qualche collocazione nell'agire della politica. Tuttavia, esso perde la sua connotazione di assoluto per trasformarsi in una variabile di contesto. In una società liquida anche la sua componente assiologica è liquida. Per questa ragione non trova in essa cittadinanza un definito senso dell'onore. Né potrebbe, audacia temeraria igiene spirituale giacché il prezzo della sopravvivenza del principio etico, sebbene residuale, comporta il dover cedere il posto a una ben diversa etica di risultato. Da questa elementare considerazione cognitiva scaturisce l'assertività dell'esponente politico nel riporre, alla stregua di un oggetto museale, l'elemento concettuale dell'etica dell'onore tra l'armamentario della retorica. Dobbiamo allora domandarci se un siffatto paradigma di società, che rinuncia volontariamente alla presenza nel proprio codice genetico degli archetipi tradizionali che hanno collocato l'uomo all'interno della storia, sia ancora in grado di trasmettere contenuti di civiltà? Considerazioni supplementari Parto da un'appropriata definizione dell'onore che non è mia ma appartiene ad Alain de Benoist. "L'onore non è altro che la fedeltà alla norma che ci si è dati, all'immagine che ci si fa di se stessi". Per una desueta corrente di pensiero l'autocostruzione di una specifica natura umana significa darsi una forma passando dallo status di individuo a quello di persona. Posto che l'essere umano è reale, il passaggio da uno stato all'altro dell'esistenza non è affatto meccanico e neanche simultaneo. Ne consegue che non tutti gli individui siano persone. Per convenzione del linguaggio si potrebbe definire il discrimine tra i due piani, materiale il primo spirituale il secondo, in base alla capacità della persona di dotarsi di un'anima.


SCENARI

Cosa del tutto ignota all'individuo che, invece, persegue un'altra perfezione che è data dall'interesse. L'eterogenesi dei presupposti concorre a differenziare l'umanità in base alla pluralità delle sue nature. Accade allora che per riconoscere dove si collochi una comunità di persone, rispetto alla massa indifferenziata degli individui, non occorra la lanterna di Diogene ma basti semplicemente individuare quale aggregato umano sia capace in ogni suo membro di agire contro i propri interessi. Per evidenti squilibri quantitativi questi gruppi sono stati storicamente minoritari nella storia del genere umano. Ma grazie alla qualità della loro presenza ne hanno, per la maggior parte del tempo, rappresentato le aristocrazie, le élite separate e distinte dalla massa. Occorre, quindi, domandarsi se questa classificazione abbia ancora senso. Per rispondere alla domanda è necessario tracciare una sorta di punto nave rispetto alla rotta che ha intrapreso la civiltà occidentale dal momento nel quale la ragione abbia fatto il suo prorompente ingresso nella storia dell'umanità. Gli eventi politici e sociali di questi ultimi tempi restituiscono all'osservatore uno spaccato di realtà assai poco desiderabile. Non è questione di crisi. In fondo denunciarla è in se un luogo comune. La crisi c'è da quando esiste l'umanità. Probabilmente sono stati proprio i fattori critici il più efficace propellente del progresso del genere umano. Un'umanità prematuramente appagata avrebbe combinato ben poco se non si fosse sfidata. Se non avesse messo in gioco se stessa fino alla lacerazione. Se non avesse combattuto per crescere. Se non avesse deciso di perire un numero infinito di volte per poi risorgere attraverso altrettante infinite palingenesi. La guerra è stata, e continua a essere, nell'ordine delle cose della natura umana. Ergo, la sua costante presenza nel presidiare le dinamiche delle relazioni umane non mi scandalizza affatto. Appartiene all'etica cristiana, nella sua missione di reinterpretazione del senso vettoriale del divenire della storia, il tentativo, che ha sortito scarsi esiti, di introdurre in essa l'anomalia concettuale della pace nel parallelo divenire dell'uomo. Non è bastato il sacrificio di un Dio per mutare la direzione ultima e costante del senso della vita. Quindi non stupisce il fatto che, all'alba del terzo millennio dell'era volgare, il mondo sia tutt'altro che pacificato. Ciò che genera pessimismo sul futuro del genere umano è altro. È l'allineamento astrale di un principio portante del marxismo con un postulato fondante del liberalismo a generare oscuri presagi. Per entrambi la funzione vitale di una società è l'economia. L'attività umana viene destrutturata e riconfigurata in base alle sue leggi. E i comportamenti dei singoli e delle collettività ne restano totalmente condizionati. Ne consegue che per l'uomo di questo nuovo tempo storico il fine escatologico non sia più segnato dall'attraversamento della storia umana di una finalità metastorica incarnatasi nella trasmissione degli archetipi della civiltà, ma dalla perenne attualizzazione degli interessi materiali di collettività di individui che si aggregano e che si sommano in ragione di uno scopo di profitto. Ecco il nuovo Dio da adorare: l'interesse! Poco conta se le due correnti motrici abbiano focalizzato modelli divergenti: la prima, quella

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marxista, i rapporti di classe nel quadro del sistema di produzione; la seconda, quella liberale, il mercato quale luogo d'elezione del matching di domanda e offerta. Entrambe hanno condotto l'uomo sulla strada della ricerca di una sola specie di benessere perseguibile: quello materiale. Non è occorso molto perché l'uomo nuovo, forgiato dalle fiamme luminescenti della creazione della razionalità naturale, da homo oeconomicus subisse la mutazione in homo consumptor. Sulla traiettoria ellittica di questa umanità rimodellata entrambe le cose si tengono. Si consuma per produrre, si produce per consumare. Non c'è spazio per altro. Non c'è spazio per i valori, non c'è spazio per l'anima, non c'è spazio per gli antichi dei. La nuova misura dell'identità è il vantaggio. L'homo consumptor concepisce e pratica soltanto ciò che gli reca vantaggio. Anche la percezione del male muta i propri connotati qualificativi. Smette di essere assenza del bene per riconfigurarsi come perdita di beni. Perdita di ciò che si possiede. Perdita di valore economicamente fungibile. Perdita di posizione. Perdita di ruolo. Perdita di status. Contrazione dei consumi. Caduta della domanda. Non dico che questo sistema retto sulle spalle dei due dioscuri: marxismo-liberalismo non abbia in se anche spunti positivi di cui l'umanità abbia beneficiato. Se lo chiedessimo in giro qualcuno risponderebbe: la tecnologia, qualcun altro: la scienza, ma tutti canterebbero in coro: la libertà. Peccato però che la libertà di questo tempo storico sia fatta di materia molto scivolosa. Inafferrabile. Soprattutto se impastata con l'altra parola magica della nuova era: eguaglianza. Libertà e uguaglianza, mescolate assieme, hanno fornito alle generazioni dell'evo della razionalità progressista il più pericoloso degli allucinogeni. Mai l'umanità è statatemeraria tanto convinta di qualcosa che non esiste. Non è stato semplice ma alla fine audacia igiene spirituale il demone dell'economia è riuscito nel suo intento. Ha dovuto sbarrare i passi ai territori dello spirito e dell'etica per poter soggiogare l'individuo alle sue leggi. Libertà e uguaglianza sono divenuti specchietti per le allodole puntati agli occhi delle masse perché ne venissero abbacinate. L'oppio dei popoli è stata l'idea rivoluzionaria della unicità della natura umana. L'illusione del "tutti uguali ai nastri di partenza" se da un lato ha intorpidito le coscienze, dall'altro ha contribuito a generare una nuova razza di dominatori. Il nuovo, unico discrimine è quello economico. La radice del potere è economica. Le naturali gerarchie sono state sovvertite e riscritte secondo i canoni della ricchezza materiale. Le aristocrazie del pensiero, dello spirito e del sangue sono state sostituite dalle oligarchie economiche. Le virtù eroiche della persona che si spende costantemente per "dare" alla vita hanno ceduto il passo allo spirito borghese dell'individuo che si spende per "trarre" dalla vita tutto quello che può arricchire la propria esistenza. Le società aperte, le comunità orizzontali, gli aggregati informali, cassando la parola diversità dal proprio lessico, hanno privato il fenomeno umano dei suoi tratti distintivi di forma, senso e ordine. Tra l'etica del dovere e la democratica primazia dei diritti generalizzati, ha vinto la volontà di liberarsi della "forma" quale riscatto dell'individuo dal giogo dell'obbligatorietà vincolante che la forma imporrebbe non soltanto agli oggetti ma alle idee e, percorrendo a ritroso la scala dei


SCENARI

valori morali, ai modelli sociali compatibili con l'unico fondamento valoriale realmente condiviso: l'interesse. Al contrario, l'aspirazione a riconoscere anche alla vita comunitaria un senso compiuto in un circoscritto e ordinato orizzonte di senso rinvia, nella logica delle mutazioni correnti, allo spirito e alla lettera di una dimensione "fascista" dell'esistenza. Nell'opera di destrutturazione degli assoluti, anche la concezione dello Stato non è stata risparmiata. Ad esso è stata sottratta ogni sostanza spirituale per lasciarne in piedi lo scheletro al quale demandare la mera funzione strumentale. Stato=male necessario. Stato=erogatore di servizi. Stato sussidiario. Lo spirito borghese che è spirito dei nostri tempi ha vinto la sua battaglia riuscendo a contrapporre, in una mortale antitesi, lo Stato alla società. Lo Stato ne rimane esangue mentre la società resta irrorata dagli effetti delle dinamiche d'interessi che si contrappongono. La sintesi degli interessi concorrenti genera nuovi equilibri all'interno del tessuto sociale. I nuovi equilibri raggiunti spingono il progresso dell'intero sistema. È così che funziona. Tutto comincia e tutto si concentra nella "materialità" dei rapporti sociali. Dalle condizioni, dagli stati di necessità e dei moventi che essa genera. Come bene spiega Oswald Spengler nel suo "Il tramonto dell'Occidente", l'analisi razionalistica, che fa di Adam Smith e Karl Marx facce litigiose di una stessa medaglia, ignora "l'anima delle stirpi, delle caste, dei popoli e delle forze creative di tale anima. Essa considera l'uomo come un accessorio delle situazioni storiche e nulla sa della grande personalità e della volontà, creatrice di storia, di individualità e di interi gruppi i quali nei fatti economici hanno visto un mezzo e non un fine". Conclusioni provvisorie Nel caso in esame, il soggetto indagato, Matteo Renzi, ha agito in linea con lo spirito informatore della sua azione politica che è quello del maggior vantaggio. Se si accetta questo presupposto Renzi è stato all'altezza del compito assegnatogli, perché ha provveduto a privilegiare il suo interesse personale nonché quello della sua parte politica. L'aver conseguito il risultato lo rende vincente. Egli ha soddisfatto l'obbligazione assunta. Ne consegue che il richiamo al rispetto di astratti principi di coerenza tra ciò che si dice, per cui ci s'impegna, e ciò che si fa, non inferisce con l'azione politica la quale resta vincolata all'efficacia dei risultati conseguiti. Non è ammissibile per il politico la tenuta di un comportamento ispirato alle virtù archetipiche se queste non siano compatibili con la soddisfazione degli interessi perseguiti. Piaccia o no, questa è la condizione imperante nel nostro tempo storico. L'unico limite che l'agire politico incontra e riconosce è quello dettato dal rispetto delle norme giuridiche. Il timore della sanzione può, e non sempre vi riesce, indurre in chi è chiamato all'amministrazione della cosa pubblica, comportamenti virtuosi. Ma si tratta di evitare di compiere atti illeciti. Non il senso alto dell'onore ma il metus pubblicae potestatis, l'istinto della paura verso chi o ciò che può provocare perdita, spinge il politico dall'astenersi dal fare qualcosa di negativo.

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Raramente, la ricerca della virtù fine a se stessa, lo motiva a compiere gesti positivi. Il senso dell'onore, dunque, resta espunto dalla prassi dell'agire politico, essendo già stato cassato dalla teoria del pensiero politico dal Macchiavelli in poi. Tuttavia, la singola persona che ha una storia, differentemente dalla categoria concettuale della politica che è storia, possiede tutti gli strumenti per risvegliare, nel suo diuturno operato di membro di una comunità, tutto quanto sia stato sintetizzato nel suo patrimonio genetico degli archetipi costitutivi del mondo dei suoi predecessori. Se nessuno può impedire all'individuo di derogare dal riconoscimento dei valori etici, è in egual modo vero che nessuno possa impedire a una persona di agire nella prassi quei medesimi valori assoluti. Finora è accaduto raramente. Di recente non se ne sono visti in giro uomini pubblici che dimostrassero di avere cognizione del senso dell'onore e del corrispondente senso dell'onta. Per lo più quelli che circolano hanno dato ampia prova di non conoscere né l'uno nell'altro. Cionondimeno è nostro diritto sperare che la razza eroica degli uomini a cui sia noto il senso dell'onore non sia estinta. Personalmente sarei pronto a tutto, a qualsiasi sacrificio, pur di poter dire, un giorno: ebbi il privilegio di essere al suo fianco. Per il momento attendo fiducioso. Cristofaro Sola


POLITICA/L’INTERVISTA

PAOLO SAVONA Economista di fama internazionale, Paolo Savona ha il merito di aver indicato, tra i primi, i rischi di una costruzione europea incompiuta: una costruzione in cui, alla cessione di poteri verso l'alto, non corrisponde una vera e propria unificazione politica. Il monito merita di essere ascoltato, perché la sua è una autorevolezza costruita sul campo: dalla cattedra di Politica economica tenuta in diverse Università italiane agli innumerevoli incarichi pubblici e privati. Basti qui ricordare la sua attività nella Banca d'Italia, nella direzione generale di Confindustria, nel dicastero dell'Industria nel governo Ciampi, alla guida di importanti istituti di credito fino alla presidenza del Fondo interbancario di tutela dei depositi. Professore, in Europa lo Stato-Nazione sta perdendo le sue funzioni di indirizzo politico ed economico. Le decisioni vengono assunte sempre più spesso da entità sovranazionali. Siamo ancora un Paese sovrano? Vede, gli Stati nazionali hanno perso, soprattutto, potere di indirizzo esclusivo. E questo è origine di grande confusione. Non si può mantenere in piedi una struttura di sovranità con classici poteri sul territorio e sulla popolazione, se agli Stati viene sottratta la sovranità legislativa e la sovranità economica, la possibilità cioè di regolamentare i processi economici. E se, al contempo, la sovranità fiscale, e cioè il potere di regolare le entrate e le spese con le sue ricadute sulla distribuzione del reddito, viene mantenuta sì, ma posta sotto vincoli molto stretti. Tutto ciò non fa altro che ingenerare confusione e rende il sistema ingovernabile. Se, al contrario, avessimo fatto confluire tutta la sovranità in una confederazione di Stati (come accadde alla fine della guerra d'indipendenza americana), oggi avremmo maggior unità di indirizzo e il popolo avrebbe certamente più voce in capitolo. D'altronde, all'inizio del processo di unificazione europea, l'idea era proprio quella di arrivare all'unificazione politica. Ci stiamo arrivando? Oggi la vera disputa è tra chi ritiene giusto disfarsi dei residui di sovranità, in particolare quella fiscale nei termini cui accennavo prima, senza però avere una vera unificazione politica, e chi invece è dell'opinione contraria. Nel primo caso, avremmo delle conseguenze ancora peggiori, perché ci ritroveremmo in

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presenza di una "colonizzazione" da parte dei Paesi più forti senza alcuna compensazione alla sovranità popolare (come accaduto invece con la de-colonizzazione alla fine della seconda guerra mondiale), e cioè la possibilità di esprimere il proprio punto di vista. Con il rischio di un altro paradosso, e cioè di essere sotto il governo della legge, del rule of law per intenderci, senza però avere una democrazia compiuta. Si è persa, in definitiva, l'idea dello Stato nazionale e della corretta gestione della sovranità popolare e si ritiene, al contrario, che ad un'entità astratta come il mercato (dietro il quale si celano i Paesi che contano o i gruppi di potere che contano) debbano essere attribuiti enormi poteri di indirizzo. Insomma: ulteriori cessioni di sovranità solo in presenza di passi concreti verso l'unificazione politica e di un processo realmente democratico. Le confesso che sull'argomento mantengo una posizione addirittura più radicale, perché ritengo che si debba riconquistare la sovranità e ritrovare, quindi, l'unicità di impostazione. Eppure, questo non ci solleverebbe da un gravoso fardello: l'alto debito pubblico. Chiariamo subito un punto. I debiti pubblici nella storia non sono stati mai rimborsati. I debiti pubblici possono essere ridotti, attraverso lo strumento dell'inflazione, oppure non rimborsati. Queste sono le due strade possibili. Detto ciò, esistono due tipi di pressioni affinché uno Stato generi meno debito pubblico o rimborsi qualcosa. Anche l'Italia in conseguenza del patto che abbiamo stipulato in Europa, senza vederne le implicazioni e senza lungimiranza, ma solo inseguendo l'ideale dell'Unione Europea che è rispettabilissimo ma di difficile applicazione, rimane schiacciata da una duplice pressione. Una proviene dal mercato e l'altra dagli interessi contrapposti degli altri Paesi. Il primo, il mercato, fa i suoi calcoli in termini di rating e quindi, in presenza di un alto indebitamento, ci costringe a pagare interessi maggiori. I secondi, i Paesi liberi d'Europa, sulla spinta delle pressioni del mercato, ci obbligano a cedere ulteriori fette di sovranità. Queste sono le complicazioni che il processo di unificazione europea ha finora causato senza portare alcuna vera soluzione ai problemi di fondo, che non erano solo quelli di pace ma anche di benessere. Sembrava, almeno, che avessimo raggiunto la pace: e invece sembra allontanarsi anche questa. Insomma per la pace ed il benessere l'euro non basta. Tutte le economie europee, compresa la Germania, sono di dimensioni troppo piccole per poter sopravvivere in un mondo in cui ci sono grandi colossi economici, rappresentati oggi da Cina ed India oltre che dagli Stati Uniti. C'è fortemente bisogno, pertanto, di un mercato comune.


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Ma se si vuol avere un mercato comune funzionante si deve prevedere una moneta unica. Ecco perché credo che la costruzione dell'euro abbia poggiato inizialmente su basi logicamente forti. Affinché, però, una moneta sia forte vi è la necessità di avere uno Stato alle spalle. Il problema è che la costruzione dell'Unione Europea, nella fase finale, si è trasformata da una logica forte in una pratica difettosa. Come se ne esce, allora? Con l'unione politica che però, alla prova dei fatti, nessuno vuole davvero. A partire dalla Germania, che ha incassato il suo dividendo annettendo i fratelli dell'Est e che subito dopo ha iniziato a sollevare obiezioni sul modo in cui la moneta unica veniva usata. Ma anche la Francia, che ha bocciato la Costituzione di Amato e Giscard D'Estaing e che è sempre stata restia a cedere quote di sovranità. Per non parlare del Regno Unito, che è stato il Paese più onesto fin dall'inizio, e che ha fin da subito dichiarato di volere il mercato comune ma non la moneta unica e l'unione politica. In questa situazione il problema rimane come uscirne ed è per questo che si ha la necessità comunque - di prevedere un piano B. Perché o se ne esce dall'alto con un percorso che porta all'unione politica oppure ci si troverà di fronte a situazioni come quella greca, dove Tsipras minaccia di non voler pagare i debiti pregressi. In quest'ultimo caso la situazione rischia di diventare ancora più confusa. In cosa consiste allora il piano B? Il piano B significa avere chiara in mente l'idea di come uscire da questa situazione. E non possiamo che uscirne, a mio avviso, in modo negoziale perché non possiamo più consentire al mercato di governare i processi attraverso ingenti perdite dei risparmiatori o pesanti condizionamenti dei Paesi. Quando l'Italia ha approvato il Fiscal compact - un errore a mio avviso -, è stata costretta a farlo perché era sotto attacco speculativo e, in caso di mancata approvazione, avrebbe davvero rischiato di infilarsi in una situazione greca. Il mercato, insomma, è una creatura perfettibile, se è controllato e regolamentato. In caso contrario le conseguenze diventano nefaste, soprattutto nei casi di collusione tra speculazioni di mercato e autorità pubbliche che rendono la situazione davvero ingovernabile. Fortunatamente le autorità europee non si sono alleate con il mercato che continua a considerare l'euro una moneta insostenibile. Non è detto, però, che ciò non possa accadere e in tal caso potrebbe aprirsi uno scenario imprevisto. Quale, professore? Vede, se l'Italia, la Grecia e gli altri Paesi deboli riuscissero ad ottenere soddisfazione in termini di

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una politica economica europea meno restrittiva, come è stata fino ad ora, a quel punto potrebbe essere la Germania a cavalcare la speculazione di mercato e decidere di uscire dall'euro. E non mi meraviglierei affatto se fosse già preparata a tale evenienza dal momento che, in ambienti ufficiali tedeschi, erano circolate alcune affermazioni, poi smentite, secondo le quali la Germania aveva già pronto un suo piano B. Uno scenario del genere potrebbe a mio avviso verificarsi qualora Angela Merkel avvertisse che gli anti-euro cominciano a raggiungere una dimensione importante dal punto di vista elettorale. D'altronde, la Germania è l'unico Paese che avrebbe la forza di fare ciò. Qualsiasi altro Paese verrebbe letteralmente massacrato. Ci sono poi gli Stati Uniti che hanno il terrore, come è scritto nel Report of the President del 2014, che l'Europa entri in crisi perché hanno già tanti problemi geo-politici nel mondo da non potersi consentire l'apertura di altri fronti "caldi". E quindi credo che gli Stati Uniti non permetteranno mai ai piccoli Paesi di uscire, ma non possono certo opporsi se è la Germania a decidere di sganciarsi. Alle debolezze dell'Europa, aggiungiamo le nostre debolezze. Perché siamo e restiamo un Paese debole? Il nostro Paese non ha mai avuto un'identità nazionale, la riscopre solo in occasioni dei campionati del mondo di calcio… Ciò che non è stato compreso è che il Paese resta una confederazione di comuni ciascuno con la propria cultura, la propria lingua, le proprie tradizioni. L'Unità d'Italia è stata tessuta attraverso un'elaborazione letteraria e politica che ha avuto, in un certo momento storico, una forte presa. Il momento storico in cui, per la prima volta, vi è un patto tra gruppi dirigenti, che hanno avuto in Cavour la punta di diamante: il patto di unire e modernizzare il Paese, che si presentava ingovernabile e in forte ritardo nell'industrializzazione. Ma l'Italia restava, di fatto, una confederazione di comuni ciascuno dei quali manteneva culture e tradizioni forti e radicate. Ed è questo probabilmente il motivo per il quale il Paese non è mai riuscito ad avere un'identità, perché quando le culture sono molto forti sono difficilmente integrabili. Pensi, ad esempio, al cibo e alle tradizioni millenarie che accompagnano in ogni borgo la sua preparazione. Peraltro quelle tradizioni e l'intero patrimonio identitario sono oggi, anche per effetto della globalizzazione, posti in discussione. Non pesa anche l'assenza nel nostro Paese di un partito autenticamente conservatore? L'Italia non è mai riuscita ad esprimere un partito compiutamente liberale e conservatore. Lo ricorda anche von Hayek, il quale osserva che, rispetto al liberalismo inglese, l'Italia e l'Europa continentale non sono mai state autenticamente liberali in quanto non hanno mai creduto fino in


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fondo nella centralità dell'individuo rispetto alla società anteponendo, al contrario, l'interesse della collettività. E questo è stato, a mio avviso, il peccato originale del liberalismo continentale, che si è talmente preoccupato del benessere della collettività da aver perso la sua tradizionale fisionomia, fino a scomparire. Benedetto Croce e Guido Calogero, al contrario, concordavano nell'affermare che è necessario inseguire l'ideale di socialità mantenendo saldo il credo liberale. In mancanza di ciò il sistema è destinato a saltare. Sono, però, rimasti inascoltati. Concludiamo con una riflessione sul mondo. Viviamo in società in cui convivono culture e religioni, talvolta profondamente differenti tra loro. In che modo si può governare la società multiculturale? Con la tolleranza, che è lo strumento principale di pacifica convivenza, e con il tentativo di capirsi l'uno con l'altro. Ma anche con la consapevolezza che la tolleranza impone dei limiti. Nel caso specifico, ognuno è libero di praticare la propria cultura e la propria religione senza però danneggiare il prossimo. Su questo principio occorre fondare delle nuove relazioni internazionali. Nei giorni successivi all'attacco terroristico al giornale "Charlie Hebdo" ho cercato di sollevare il dibattito proprio sui limiti da porre alla libertà, anche nel campo dell'informazione: non si può, infatti, ferire e offendere il prossimo senza aspettarsi una reazione. Il problema si pone, inevitabilmente, quando qualcuno supera il limite di pacifica convivenza, com'è accaduto in passato con Saddam Hussein e come accade oggi con le frange musulmane più violente. Non si può certo intervenire con le armi, perché il rischio sarebbe quello di creare una situazione di tensione ancor più forte e ancora più ampia. Vede, nessuno, nel tempo, ha compreso fino in fondo che l'accordo decisivo per il futuro del mondo non era il Patto di Yalta del 1945 ma, piuttosto, l'accordo di Bretton Woods del 1944. Yalta, infatti, era un accordo di spartizione geografica, mentre Bretton Woods disegnava un sistema per propiziare lo sviluppo e che non si è potuto applicare a tutto il mondo solo perché la Russia lo ha impedito. Ritengo, allora, che bisognerebbe occuparsi maggiormente dello sviluppo di alcuni Paesi, perché inevitabilmente quando si ha qualcosa da perdere più difficilmente si decide di far la guerra. Giuseppe Farese

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E, così, in appena quattro votazioni, il nuovo presidente della Repubblica è stato eletto. Credo che Renzi abbia giocato le sue carte in maniera davvero magistrale. Certo, mi dispiace doverlo affermare perché un commento che vada a suo merito mi disturba ma, onore al vero, stavolta non mi posso sottrarre. Dopo tante fantasiose elucubrazioni con tanto di percentuale di affidabilità, soltanto ventiquattro ore prima dell'avvio delle votazioni Renzi ha formulato il nome del suo candidato. Ha, peraltro, precisato che non c'erano i numeri per farlo eleggere entro i primi tre scrutini ma, al quarto, l'elezione sarebbe stata scontata. Eppure, in esito alla legge dei numeri e alle dichiarazioni politiche e di voto antecedentemente fatte, l'elezione del Presidente Mattarella anche al quarto scrutinio non era affatto certa. Infatti, se ciascun raggruppamento avesse tenuto fermamente fede alle posizioni dichiarate, e anche se il PD avesse votato globalmente compatto, la maggioranza risicata che, sulla carta, si sarebbe raggiunta non induceva a cantare vittoria anzitempo. Quindi, una posizione già precaria che, peraltro, poteva aggravarsi per gli assenti: in quel caso, ben quattordici. Invece, contro ogni previsione, il nome Mattarella ha incassato 665 voti, andando ben oltre la quota 629, prevista per l'elezione al quarto scrutinio. Certo. La minoranza dissidente del PD non ha inteso prolungare lo strappo sul nome del Capo dello Stato e si è adeguata ai voleri del segretario/presidente. Eppure, da indiscrezioni di beneinformati, le schede bianche di provenienza PD sarebbero una quindicina. Senza contare, inoltre, i voti andati a soggetti diversi, chiaramente di provenienza PD: due a Napolitano, due a Prodi, due a Bonino, uno ad Amato, uno a Bersani, uno a D'Alema e uno a Veltroni. I parlamentari di Alleanza Popolare, fatta di NCD e UDC, non se la sono sentita di dissociarsi dal PD; soprattutto, Alfano ha "rispettato" un conterraneo e un ex amico di compagine democristiana. O, almeno, così ha affermato. Altrimenti, sarebbe andato prematuramente per stracci ai quali è prossimo con quel 4,5% agli ultimi sondaggi. E, quindi, hanno votato il nome di Mattarella, lasciando sul campo Sacconi e Saltamartini. Ma, anche qui, fonti parlamentari attribuiscono ad Alleanza Popolare l'origine di ulteriori quindici schede bianche. A tanto, si aggiunge che dallo spoglio sono emerse anche 13 schede nulle di ignota provenienza, due schede per Martino, una per Razzi, una per Verdini e 14 voti dispersi.


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Si potrebbe pensare ad un aiuto inaspettato da parte del M5S ma i centoventisette voti per Imposimato cancellano l'eventuale dubbio. Ne deriva che anche con l'aiuto di SEL e del GAL (Grandi Autonomie e Libertà, il gruppo nato da alcuni fuoriusciti da Lega, Forza Italia e Mpa) l'esito sul nome Mattarella sarebbe stato in un forse grande come una casa. Conclusione: per raggiungere la maggioranza e superarla di ben trentasei voti sono arrivati consensi di provenienza Forza Italia. Anzi, riducendo le bianche di altra presunta origine, c'è persino chi afferma che quel partito abbia contribuito più molto più lautamente. Fin qui, l'analisi giornalistica, spintasi ad affermare ulteriormente che dentro Forza Italia, per conseguenza, sarebbe in atto la notte dei lunghi coltelli. In verità, io sono un po' scettico sulla conclusione di questa analisi. Non certo sulla provenienza dei voti per favorire la scelta di Renzi, quanto sul fatto che il vero deus ex machina dello "strappo" sia stato Raffaele Fitto. Mi spiego meglio. La carriera politica del personaggio Fitto è stato un vero percorso di luci e ombre: figlio del potente senatore democristiano Salvatore Fitto, nel 1990, a vent'anni, è eletto consigliere regionale. Nel 1995, al seguito di Rocco Buttiglione, nel CDU, viene riconfermato consigliere regionale: diventa, quindi, assessore e vicepresidente della Regione Puglia nella giunta di centrodestra di Salvatore Distaso. Tre anni dopo, insieme ad altri esponenti, fonda il CDL con lo scopo di proseguire l'alleanza con la coalizione di centro-destra del Polo per le Libertà e, l'anno successivo, con Forza Italia è eletto parlamentare europeo nella circoscrizione Sud. Nel 2000, si dimette dal Parlamento Europeo perché, in occasione delle elezioni regionali pugliesi, si candida alla presidenza della regione Puglia con il sostegno del Polo e riesce a sconfiggere l'esponente ulivista Giannicola Sinisi, divenendo il più giovane presidente di Regione italiano. Ora, è mai possibile che ricandidatosi nel 2005, sia stato sconfitto dal candidato di centro-sinistra Nichi Vendola per 14.000 voti? E' mai possibile che un oscuro parlamentare del Partito della Rifondazione Comunista che ha avuto la fortuna di veder accodate dietro di se le forze di tutta la sinistra a seguito di una querelle elettorale, abbia potuto sconfiggere il rampante, giovane leader di Forza Italia per uno 0,6%? Beh! Si potrebbe pensare che quella sconfitta segni l'avvio della fase discendente della parabola fittiana. In realtà, non è così. Nelle elezioni del 2006 è eletto alla Camera in Forza Italia nella circoscrizione Puglia e, nello stesso anno, si pensi, lo sconfitto alle Regionali è nominato da Silvio Berlusconi addirittura responsabile di Forza Italia per l'Italia meridionale mentre, nell'anno successivo, è persino incaricato ufficialmente, nientedimeno che per il nascituro Popolo della Libertà, di gestire i rapporti con altri partiti e movimenti. Nel 2008 è rieletto con il PdL alla Camera dei deputati nella circoscrizione Puglia e, a maggio dello stesso anno, è inaspettatamente nominato Ministro degli Affari Regionali e le Autonomie Locali del Governo Berlusconi IV.

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All'indomani delle elezioni regionali del 2010, considerato l'esito negativo per il centro-destra nella regione Puglia, rassegna le proprie dimissioni da Ministro, assumendosi piena responsabilità della sconfitta elettorale, ma il Consiglio dei ministri berlusconiani bonariamente le respinge e, per dimostrare l'incolpevolezza del bravo guaglione, alle funzioni di ministro per gli affari regionali aggiunge quello per "la coesione territoriale", precedentemente attribuito al Ministero dello sviluppo economico. Alle elezioni politiche del 2013, si ricandida alla Camera come capolista del PDL nella circoscrizione Puglia, ed è rieletto mentre, lo scorso anno viene candidato, alle Elezioni europee come capolista di Forza Italia nella Circoscrizione Sud e viene rieletto a Strasburgo con 284.547 voti, risultando il secondo candidato più votato in assoluto in Italia in un'unica circoscrizione, dietro all'esponente del Partito Democratico Simona Bonafè, e il primo assoluto in quella del Sud. E' possibile che un personaggio del genere abbia perso la sua Regione per ben due volte? E, ammesso che lo sia, come si concilia con il seguito che sembra comunque possedere? E, inoltre, come si accorda con la considerazione tangibile che il "padrone" di Forza Italia sembra costantemente avere per lui, nonostante le "sconfitte" regionali? Dal che, visti i precedenti, il quesito cruciale. Siamo proprio certi che i "franchi salvatori" sul nome Mattarella al quarto scrutinio per l'elezione del Presidente della Repubblica, riconducibili a Raffaele Fitto, abbiano agito in dispregio del volere del Cavaliere e a sua totale insaputa? Oddio, è tutto possibile ma, ritengo, altamente improbabile. In ogni caso, con Fitto veramente o falsamente discorde, credo che il copione del circo sia già stato scritto. A voler fare fantapolitica, si potrebbe pensare ad una manovra combinata, nel tempo, dove il giovane leader si presta per le manovre del Capo: allora, che so, per possibili "intese" con D'Alema, oggi per probabili concordanze con Renzi. Diciamolo. Il patto del Nazzareno cominciava a mostrare la corda e non tanto per le disponibilità all'intesa tra i due concertatori quanto in termini di gradimento da parte dell'elettorato. Quale miglior trovata "romperlo" per una "fronda" interna che giustifichi Forza Italia dinanzi agli elettori? Anzi, che addirittura faccia apparire il Silvio nazionale come un mecenate tradito? E Renzi si presta? Ma certo. Va bene anche a lui. Lo fa apparire un vero e proprio ganzo (un dritto, alla toscana) con la Boschi che afferma che "senza il Cavaliere e Brunetta tra i piedi staremo meglio" e il "popolo" pd che gioisce perché mal sopportava satanasso in casa. Così, con un colpo di mano degno di un consumato prestigiatore, abracadabra, il patto è rotto e tutti sono contenti. E Berlusconi, da pregiudicato, senza alcuna carica pubblica, può intanto presenziare, a braccetto con Vendola, onorato e riverito, all'insediamento del Presidente della Repubblica. E non è che l'inizio! C'è da temere circa i colloqui costruttivi per le riforme? Valuteremo caso per caso, ha detto il Cavaliere. Ecco: la prova del fuoco sarà rappresentata dal voto finale sulla prossima riforma costituzionale,


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quella del Senato: una vera e propria boiata. L'altra cartina di tornasole sarà il voto conclusivo sull'Italicum, uno strumento attraverso il quale potranno essere spazzate via tutte le minoranze e chi vince governerà per i prossimi trent'anni. Ho detto "a voler fare della fantapolitica", ma il fatto è che la verità la sapremo a breve perché se passeranno quelle riforme senza una sostanziale opposizione di Forza Italia, allora possiamo dire che la politica è giunta alla sua svolta decisiva, quella del suo annullamento. E non sarà l'accordo con la Lega per le Regionali a impedire lo scatafascio della destra o del centrodestra che dir si voglia; un centrodestra del quale a Berlusconi non è mai importato alcunché. Neppure per fare quelle riforme tanto decantate e che adesso è in grado di vedere attuate attraverso l'opera di Renzi. Ma, mi spiace dirlo, se Atene piange Sparta non ride. Sarà la fine anche della sinistra che lascerà alla derisione di Renzi e allo strame delle "streghe" dell'informazione tutti i suoi più alti valori buttando al macero un secolo di storia patria. E, voilà, dopo l'esilarante numero della donna tagliata, la democrazia è scomparsa. Francesco Diacceto

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IN NOME DI DIO, BASTA Recentemente, ho avuto una lunga e articolata discussione con l'editore, l'amico Angelo Romano, su come debba intendersi la libertà di satira. E ciò, ovviamente, in riferimento ai drammatici fatti di Parigi. Nel sollevare quel problema, certamente, non intendevo, e non intendo minimamente, neppure larvatamente, giustificare quell'esecrabile atto di terrorismo compiuto in nome di un presunto principio religioso, trasformato in atteggiamento ideologico, negatore di libertà al punto di uccidere in modo efferato coloro che dissentono. E ciò non può essere giustificato o giustificabile neppure quando i dissenzienti manifestano il loro pensiero satiricamente; neppure quando la satira e la libertà di esprimerla supera, a personale parere, i limiti di una morale che, sebbene non codificata in ogni sua piega, è quella che universalmente caratterizza i rapporti tra le genti. Detto ciò, vengo al punto. In premessa, va detto che la satira è un diritto costituzionale che in Italia è garantito dagli articoli 21 e 33 della Costituzione. Titolo I - Rapporti civili - Art. 21. Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili. In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell'Autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all'Autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s'intende revocato e privo di ogni effetto. La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica. Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.


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Titolo II - Rapporti etico-sociali - Art. 33. L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento. ….. Omissis …. Specificatamente in merito alla satira, la giurisprudenza italiana ha consolidato, nel tempo, i riferimenti che debbono ispirarla, dettagliandola sia rispetto alla categoria della comicità che del carnevalesco, dell'umorismo, dell'ironia e del sarcasmo, con cui peraltro condivide molti aspetti: - con il comico condivide la ricerca del ridicolo nella descrizione di fatti e persone; - con il carnevalesco condivide la componente "corrosiva" e scherzosa con cui denunciare impunemente; - con l'umorismo condivide la ricerca del paradossale e dello straniamento con cui produce spunti di riflessione morale; - con l'ironia condivide il metodo socratico di descrizione antifrasticamente decostruttiva; - con il sarcasmo condivide il ricorso, peraltro limitato, a modalità amare e scanzonate con cui mette in discussione ogni autorità costituita. La satira, quindi, si esprime in una zona comunicativa "di confine"; infatti, ha in genere un contenuto etico normalmente ascrivibile all'autore, ma invoca la condivisione generale, facendo appello alle inclinazioni popolari; anche per questo, spesso, ne sono oggetto privilegiato personaggi della vita pubblica che occupano posizioni di potere. Queste stesse caratteristiche, peraltro, sono state sottolineate dalla Corte di Cassazione che, attraverso la sentenza n. 9246/2006 emessa dalla Prima sezione penale, si è sentita in dovere di dare una definizione giuridica di cosa debba intendersi per satira: "È quella manifestazione di pensiero, talora di altissimo livello, che nei tempi si è addossata il compito di castigare ridendo mores, ovvero di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene.". Ora, fermo restando il porgere l'altra guancia se si viene colpiti da uno schiaffo e l'assurdità di uccidere in nome di Dio, dov'è "l'altissimo livello" o "l'esito finale verso il bene" nel rappresentare in copertine o vignette interne un Dio barbuto, etichettato come il Padre, piegato a 90°, con le terga scoperte, sodomizzato da un giovane, definito Figlio, a sua volta sodomizzato da un triangolo con un occhio in mezzo, chiamato Spirito Santo? O, ancora, un barbuto signore nudo, con il turbante in testa, visto da retro, reclinato verso il basso, con una stella tra le natiche aperte, sotto il titolo: "Maometto, una stella è nata"? Ora, si dà il caso che io sia convenzionalmente cattolico ma, all'atto pratico, mi definirei più un credente revisionista. In ogni caso, pur se assolutamente convinto assertore e praticante del pensiero liberale, rimango turbato da rappresentazioni del genere. E ciò al di là dei credi personali e delle leggi degli uomini perché ritengo che debba esservi un'area, uno spazio, un ambito, un valore, nella vita degli esseri umani del quale non possa essere fatto letame. E non affermo neppure che debba essere la religione, qualunque essa sia. Ma una qualsivoglia manifestazione della personalità dovrà pur restare scevra dall'essere messa alla berlina, alla derisione, allo sbeffeggiamento. Perché se non c'è, se non deve esserci, se anzi si afferma il

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contrario, allora si dichiara tout court che può essere fatto strame dello stesso essere umano, della stessa persona. In sostanza, se così fosse, si asserirebbe che, ancora una volta, i rapporti umani debbono essere improntati sulla forza, dell'aggressione verbale oggi, delle armi domani. E quello che vince ha ragione. E non c'è ragionamento di lana caprina contrario che tenga. Significherebbe, al di là di tutte le più articolate analisi, di tutte le più mirabolanti diversificazioni e contrapposizioni politiche e filosofiche, che il pensiero che alla fine deve imperare e omologare è quello del più crudo materialismo. Già. Rimane la parte dove tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione e la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Bene. Ma, allora, se così deve essere, veramente a ciascuno, senza distinzione di sorta, deve essere consentito di esprimere "liberamente" il proprio pensiero; soprattutto se chi lo esprime, sia in maniera assenziente o dissenziente verso un fatto, un aspetto, un credo, lo faccia semplicemente con l'uso della parola; un fatto, un credo, un aspetto che, indifferentemente possa riguardare il mondo cattolico, quello musulmano o quello ebreo. Per cui, ricadendo nel dualismo degli atteggiamenti etici e politici, delle due l'una: o esiste uno spazio intangibile oppure non esiste e, se non esiste, ogni espressione personale che non preveda mezzi, strumenti, meccanismi di coercizione, è lecita, senza che possa incappare nell'accusa di "apologia di terrorismo" per il semplice fatto di aver espresso dubbi su assolute verità, come l'Olocausto, che la storia e la coscienza degli uomini ha consacrato come tali. Diversamente, sarebbe come dire che di determinate cose, gradite al potere, qualunque forma abbia, si può parlare e di altre no. E di questo, scadendo non nella tragedia bensì nell'umorismo, ne sa qualcosa Forattini che, per aver disegnato un paio di baffetti nell'aria sopra un paio di stivali da duce, si è ritrovato con la messa al bando da ogni testata giornalistica. Ciò che resta esecrabile è che si arrivi a togliere la vita, il bene più prezioso, in nome di un Dio o di una idea. Questo è ciò che strenuamente va contrastato, osteggiato e combattuto. Ma, nel farlo, altro paradosso, non si può pensare di "punire" la collettività, che di quegli atteggiamenti esecrabili è vittima, limitandone la libertà. Perché questo è ciò che deriverebbe dalla soppressione, temporanea quanto si vuole, dell'accordo di Schengen, sia pur operata per contrastare, osteggiare e combattere il terrorismo. Già oggi, quel trattato, pur se vigente per Paesi non appartenenti all'Unione quali l'Islanda, la Norvegia, la Svizzera e il Liechtenstein, non è applicato da Stati membri, quali Cipro, Croazia, Romania e Bulgaria, poiché non hanno ancora attuato tutti gli accorgimenti tecnici previsti nella pratica. Da tempo l'Unione, contrariamente alle sue affermazioni, ha poche politiche di coesione. Se dovesse venir meno anche l'accordo di Schengen, addirittura teorico in alcuni casi, non ne resterebbe alcuna, con grave danno per quel diritto di cittadinanza europea che viene auspicato


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da più parti e che ancora non manifesta la sua connotazione. Allora, anziché sospendere sine die Schengen, si integrino i sistemi doganali carenti, si potenzino gli esistenti, si coordinino i sistemi di polizia giudiziaria e di intelligence e si uniformino gli ordinamenti giudiziari. So bene che quelli di cui sopra sono aspetti la cui soluzione è ostica e che comporta tempo. Ma so anche che la posa della prima pietra nella costruzione della casa europea è avvenuta nel 1957. A distanza di cinquantotto anni, è possibile cominciare ad ipotizzare un tetto? Oppure, dobbiamo continuare ad assistere ai giocolieri delle roboanti, nominalistiche parole? Pietro Angeleri

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IL SEGNO DEI TEMPI In Grecia, la recente vittoria di Syriza, e del suo leader Tsipras, uscito dalle urne come il primo partito ellenico (per un voto non ha agguantato la maggioranza assoluta) ha suscitato un notevole scalpore, suscitando interrogativi, se non ambasce, a tutta l'Unione. Le Borse hanno fibrillato con ripercussioni persino in Asia, il mercato dei futures ha aperto al ribasso, l'euro ha recuperato sul dollaro mentre lo spread è tornato ad alzarsi. Boh! Se qualcuno ci capisce qualcosa me lo dica perché io non ci vedo alcunché di coerente. Sarà per la mia scarsissima preparazione in economia e finanza. In ogni caso, ritengo, invece, che ognuno dei soggetti direttamente o indirettamente interessati alle vicende greche abbia visto nell'esito di quella competizione ciò che voleva vedere; perciò, non necessariamente il punto di vista di uno è sovrapponibile a quello di un altro. Prendiamo, per esempio, le estreme sinistre europee che hanno subito ravvisato in quella vittoria un'opportunità per risollevarsi dal sonno nel quale decenni di spartizione del potere nell'Europarlamento tra i Popolari e i Socialisti le avevano destinate. I vertici comunitari, invece, sono rimasti sostanzialmente alla finestra, borbottando riflessioni inconsistentemente sagge, mentre alcuni Capi di Stato, tipo la Merkel, hanno messo le mani avanti contro un eventuale scalpitare dei nuovi governanti ellenici contro le "ineludibili" regole comunitarie, la "sacralità" dell'euro, le rigide "fondamenta" della casa comune, la onerosa "solidarietà" dei partner europei. Ognuno, come dicevo, ha visto quello che voleva vedere, nell'ottica dei suoi interessi, a cominciare proprio dai Capi di Stato. Faccio una digressione. La crisi ucraina ha mobilitato in Europa sostanzialmente due Capi di Stato, la Merkel e Hollande, dove la prima è volata a Washington per interloquire con Obama e, insieme, sono andati a Mosca per parlare con Putin. La Mogherini, poverina, l'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ha convocato una conferenza stampa che ha lasciato il tempo che ha trovato. E non le è andato meglio per la recente barbara uccisione delle due suore italiane nel Burundi dove l'unico organismo che ha "tuonato", chiedendo al Burundi stesso l'apertura di una inchiesta, è stato il Parlamento Europeo e nessun altro. Già. La Mogherini ha il diritto di parlare e di dire cose sagge ma, come dicevano i Romani, Sutor ne ultra crepidam. Calzolaio (senza alcuna offesa per l'Alto Rappresentante) non andare oltre le scarpe. E, poi, nel Burundi, non c'è gas né petrolio, non giova mantenerci rapporti stabili né inserirlo nelle relazioni politiche internazionali.


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Ora, io non so che panni veste Tsipras. So solo che viene dall'area del socialismo radicale. Peraltro, è giovane e il partito del quale è divenuto pochi anni fa presidente non è l'artefice delle errate politiche greche, non ha contrattato con l'Unione e non ha gestito i fondi comunitari. Avrà anche una madre ma, come sembra, non è registrata sulla Swissleaks di Hervé Falciani, diversamente dalla madre di Papandreou, per essere in possesso di ben 500 milioni di euro. Né, a differenza di Papandreou, poteva, quindi, essere oggetto di pressioni, secondo alcune indiscrezioni giornalistiche, di Nicolas Sarkozy, che guidava la rappresentanza europea, a conoscenza della lista Falciani, per la prescrizione della cura di lacrime e sangue, errata come si vedrà. Né, peraltro, è stato l'animatore dell'interpretazione creativa dei conti pubblici ellenici all'atto dell'ingresso del suo Paese in Eurolandia. Perché, diciamolo, il bilancio pubblico di quel Paese, grossomodo quello di una nostra Regione, in esito alle regole di "bazzica", non sarebbe dovuto entrare nell'euro. Ma, con i buoni consigli della Goldman Sachs e con l'assenso dei burocrati di Bruxelles e dei maggiorenti comunitari, i conti ellenici e i veri deficit sono stati "aggiustati" e tutti hanno applaudito al suo ingresso nella moneta unica. In ogni caso, prima della crisi, l'economia ellenica non era poi così male: consentiva un disoccupazione al di sotto dell'8% e un PIL, nei primi sette anni del III Millennio, addirittura con punte del 6% di crescita. Una situazione, quella, che consentiva di reggere anche alcuni svarioni amministrativi quali, ad esempio, l'immotivato abnorme raddoppio dei dipendenti pubblici tra il '98 e il 2007 (da circa 350 mila a 700 mila, su poco più di 11 milioni di abitanti) e un incremento delle retribuzioni neltemeraria pubblico impiego delspirituale 240% tra il 2000 e il 2008. audacia igiene Ma la crisi, esplosa nel 2008, ha esposto le terga di quel Paese e i conti pubblici, a seguito della loro fragilità, sono saltati evidenziando un buco enorme nei conti dello Stato. Così, nel 2010, al fine di salvare la Grecia dal default, è stata posta mano al Fondo europeo di stabilità finanziaria, il cosiddetto Fondo salva Stati, lo strumento, a quel tempo, da poco costituito in seguito alla recessione. La cosiddetta troika (il FMI, la BCE e la Commissione Esecutiva), al cui parere è vincolata l'erogazione del Fondo, sbarcata ad Atene nel 2010, ha costatato il disastro e si è impegnata nel quinquennio per un prestito di 240 miliardi di euro, vincolati però ad un piano di riforme redatto dalla stessa troika. Quindi, ha dettato la cura. Correzione del deficit pari al 20% del PIL in dodici manovre finanziarie, un taglio di 150.000 dipendenti pubblici, un aumento dell'IVA dal 13% al 23% e una forte imposta su casa e combustibili, un taglio del 20% agli ospedali pubblici e una drastica riduzione dei farmaci rimborsabili, nelle retribuzioni il taglio della tredicesima e, eventualmente della quattordicesima, l'abolizione dei contratti collettivi, la riduzione della soglia minima dello stipendio, l'aumento dell'età pensionabile e il taglio della tredicesima sulle pensioni. Ora, a distanza di cinque anni, possiamo vedere gli effetti di quel piano. Quel Paese ha perso il 25% del suo PIL precedente e la disoccupazione è schizzata a oltre il 25%. Immaginiamo quella giovanile.

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Le persone povere sono cresciute, secondo l'Eurostat, dal 23% al 40% e il debito, malgrado una riduzione dell'esposizione nel 2012, è schizzato al 176%. In tutto questo, oltre un milione di persone è senza alcuna copertura sanitaria mentre le restanti, in caso di necessità, sono costrette ad integrare abbondantemente le risibili coperture che restano. La domanda, perciò, è: come faceva Tsipras a non vincere, peraltro con un programma nemmeno tanto fantasioso, dinanzi a tanta ottusità e altrettanta leggerezza? Infatti, il programma del neo eletto presidente è stato redatto all'insegna del buon senso: articolato su quattro pilastri, al primo, Fine della crisi umanitaria (povertà) ha previsto la cancellazione della tassa sulla casa, l'esenzione fiscale su redditi fino a 12 mila euro, la lotta all'evasione fiscale, l'elettricità gratis e buoni pasto per i poveri, nonché trasporti gratuiti per i disoccupati cronici. Al secondo, Rivitalizzazione dell'economia, ha indicato il taglio del debito pubblico e non solo degli interessi, l'impulso all'economia etica, una particolare cura per i giovani e un piano biennale da 5 miliardi con fondi UE per le PMI. Al terzo pilastro, poi, Rilancio dell'occupazione, ha stabilito l'innalzamento del salario minimo mensile da 450 a 751 euro, l'impedimento a licenziamenti facili e di massa, il ripristino della tredicesima mensilità e la sanità gratis ai disoccupati senza mutua. Al quarto pilastro, infine, ha posto tre punti politici: innanzi tutto, la riforma della politica greca, il piano della troika da stracciare e un nuovo negoziato in una Conferenza internazionale dei creditori. A dirla tutta, il contenuto suddetto non è poi così oltranzista e brutale nei confronti della UE; anzi, sembra persino romantico, dal momento che non solo è antiliberista ma anche che è stata proprio la "cura" della troika a mandare la Grecia quasi all'elemosina. Ma, ciò nonostante, è incappato nella reprimenda di Wolfgang Schäuble, il ministro delle Finanze tedesco, e nelle dogmatiche riflessioni del suo Cancelliere. Allora, si potrebbe pensare che gli indici di borsa e lo spread greco sul marco abbiano accentuato il loro andamento del dopo elezioni. E, invece, no. Nonostante Juncker, il presidente della Commissione, e Dijsselbloem, il presidente dell'Eurogruppo, continuino ad affermare che un eventuale nuovo accordo con la Grecia lo vedono lontano, il mercato borsistico greco vola verso l'alto con performance da paura e lo spread ellenico scende a precipizio. Per quanto mi dispiaccia dirlo, forse i mercati, abituati alla legge della giungla, si sono resi conto che gli interlocutori della Grecia hanno davanti due alternative: o affondano definitivamente quel Paese, aprendo così la strada ad una possibile sequenza che manderebbe a puttane l'Unione, i burocrati, l'euro e tutte le belle, fatue parole che li circondano, oppure trattano con Tsipras cercando di salvare la faccia. E, in conseguenza, stanno scommettendo che, alla fine, la trattativa con Tsipras non solo ci sarà ma che porterà positivi risultati alle richieste del neo presidente. Mi dispiaccio ancora ma non posso non citare l'intervista che Romano Prodi ha concesso alcuni giorni fa al quotidiano berlinese Tagesspiegel in merito alla Grecia e alle difficoltà dell'eurozona; un'intervista ripresa integralmente e approfondita dal "Sole 24 Ore" tedesco, Handelsblatt, e dal


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più diffuso quotidiano in Germania, Bild Zeitung. In sostanza, l'ex premier italiano nonché ex presidente della Commissione europea, si è così espresso alle domande del giornalista. Signor Prodi, la Grecia dovrebbe ricevere denaro fresco dai suoi creditori internazionali senza un programma e corrispondenti condizioni? No, ci devono essere controlli. Allora ha ragione Wolfgang Schäuble, quando dice che in cambio di denaro fresco ci devono essere condizionalità? Le condizionalità devono mantenersi in un quadro realistico. Tutti sanno che la Grecia non pagherà mai i suoi debiti. Dovrebbe esserci per questo un taglio del debito? Mi rendo conto che politicamente non sia possibile. La storia ci insegna però, che non ha alcun senso fissare obiettivi irrealistici sulla riduzione del debito. Ha molto più senso trovare un accordo su un obiettivo raggiungibile e controllarne esattamente le tappe. Con la Germania è successa la stessa cosa dopo la Seconda guerra mondiale. Non si può certo paragonare direttamente la Germania e la Grecia. Fu però molto saggio dal punto di vista politico tagliare gran parte del debito della Germania nella conferenza di Londra del 1953. Grazie a questo la Germania ha ottenuto la possibilità di crescere. Ci dovrebbe essere anche per la Grecia un incontro internazionale sulla riduzione del suo debito sul modello della conferenza di Londra? Allora la conferenza sui debiti esteri della Germania rappresentava un interesse generale. Nel caso della Grecia ora dobbiamo decidere dove si trovi il nostro interesse collettivo. Presumo che la Grecia e i suoi creditori possano trovare un compromesso, che per esempio preveda un allungamento della scadenza dei crediti o tassi di interesse ancora più bassi degli attuali. Questo però sarebbe poco più di un cerotto. Ho paura che tra tre anni la Grecia si troverebbe poi con gli stessi problemi che ha oggi. Sarebbe preferibile assumere una decisione definitiva. …. Omissis…. Ecco. Ci vorrebbe davvero una decisione definitiva e non solo per la Grecia ma per tutto l'assetto comunitario che dia fondate speranze e sostanziali certezze e non solo una contrapposizione di punti di vista, di punti di forza e di opportunismi di maniera. E se fino ad oggi il circo dei frombolieri è stato un segno dei tempi incerti che l'Europa ha attraversato, speriamo che Tsipras sia un segno dei nuovi tempi, quelli dove gli Stati si riapproprino della loro dignità e integrità morale e, forti di queste caratteristiche, decidano liberamente di federarsi per la ricerca del bene proprio attraverso il raggiungimento del bene di tutti. Speriamo. L'infedele

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LIBIA: L’ONU RESPINGE LA LINEA DURA

Nonostante che il disastro libico sia sotto gli occhi di tutti e paesi come l'Italia ne subiscano gli effetti in termini di approvvigionamento energetico, di perdita di fatturato per le aziende, di dramma dell'immigrazione e di minaccia terroristica alle porte, dal palazzo di Vetro è arrivata per l'ennesima volta la decisione di continuare sulla via della promozione del dialogo fra le parti. La strategia di sempre, insomma. E mentre l'Egitto attacca via cielo e via terra l'Isis di al-Baghdadi, che controlla le città di Derna e di Sirte, anche l'Italia si è accodata per sostenere la soluzione diplomatica di un conflitto sanguinario che si radica in atavici dissidi fra le tribù, come pure nei fondamentalismi vari. Come se, fino ad oggi, le riunioni a fiume, le conferenze internazionali e gli appelli alla pace fossero serviti a qualcosa. Tanto per dirne una, la comunità internazionale, e quindi anche l'Italia, riconosce come legittimo il "Governo di Tobruk", con premier Abdullah al-Thani: è il frutto delle elezioni del giugno scorso, inficiate tuttavia dalla Corte costituzionale, e tanto basta a quelli dell'islamista "Governo di Tripoli", presieduto da Omar al-Hassi, di ritenere l'altro quale organismo illecito. Se poi in questo quadro ci si mettono i jihadisti dell'Isis, che combattono l'una e l'altra parte, vien da chiedersi cosa ci sia ancora da aspettare per prendere decisioni responsabili ed efficaci. Anche perché il caos libico non è solo Tobruk, Tripoli e Derna. Vi è anche la realtà delle tribù che si scontrano per antichi rancori, delle bande criminali che trafficano in armi, droga e uomini, dell'assoluta inconsistenza dello stato, di una società comunque in crisi per il fatto che il Socialismo Verde di Gheddafi dava tutto e nessuno doveva lavorare (la forza lavoro era rappresentata dagli immigrati), per cui oggi nessuno sa concretamente cosa fare. Davanti a tutto questo l'Onu ha scelto di continuare sulla via del mettere d'accordo le parti, per cui vedremo ancora fiumi di riunioni dall'esito pressoché inutile, come quella del18 dicembre di Madrid, alla quale hanno preso parte 20 paesi per invitare le parti a deporre le armi e ad intavolare il dialogo nazionale. E' il motivo per cui l'inviato dell'Onu nella crisi libica, lo Spagnolo Bernardino Leon, ha fatto sedere il 14 gennaio scorso attorno ad un tavolo nel proprio ufficio di Ginevra i rappresentanti di Tobruk e quelli di Tripoli: "deporre le armi" e "dialogo nazionale". Anche di recente Leon ha affermato in teleconferenza all'assemblea dell'Onu che le diversità di posizioni in Libia "non sono insormontabili.


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Al Palazzo di Vetro l'ambasciatore italiano Sebastiano Cardi ha parlato di "integrazione delle milizie in un esercito regolare e per la riabilitazione delle infrastrutture", ovvero di mettere nello stesso insieme coloro che oggi si stanno combattendo anche per una visione della vita e non solo dello stato filosoficamente diversa, se si pensa che le milizie che compongono "Alba della Libia" sono di matrice islamista, compresa Ansar al-Sharia. Per l'Italia è necessario agire subito e con determinazione, "attraverso un cambio di marcia della comunità internazionale prima che sia troppo tardi". Ma sempre tenendo come ultima l'opzione militare. Ultima, ma non si capisce rispetto a cosa. Più concretamente l'Egitto, attraverso il suo ministro degli Esteri Sameh Shoukry, ha chiesto la fine dell'embargo delle armi ai miliziani sostenitori del governo "di Tobruk" ed un blocco navale volto a impedire che spedizioni di materiali bellici arrivino in aree fuori dal controllo delle autorità libiche legittime. L'Onu ha quindi rifiutato ancora una volta la linea dura, attuata in passato su altri scenari assai meno gravi: si procederà con i negoziati, per arrivare ad un' (utopica) unità nazionale. Enrico Oliari

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SOCIETA’

ELOGIO DELLA DIGNITA’ Considerate la vostra sementa: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza. (Dante Alighieri). “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Questo l'aforisma affisso, qualche tempo fa sui muri di Napoli. Si potrebbe aggiungere anche che è un popolo senza coraggio, senza fierezza, senza orgoglio e… pieno di paura. Ma quali colpe si possono imputare ad un popolo che è così come è, per il tradimento delle sue élites, delle sue classi dirigenti, che avrebbero avuto il naturale compito di aiutare il popolo ad evolvere nella coscienza dei suoi diritti e doveri, nella coscienza della sua dignità e sovranità. L'uguaglianza, anche in democrazia, non è un dato di partenza ma un punto di arrivo. La pari dignità è il dato di partenza. E il cammino verso l'uguaglianza è un cammino duro, fatto di responsabilità prese in carico dalle classi dirigenti, fatto di comportamenti esemplari, di pratica delle virtù civiche, di rispetto delle leggi, di comportamenti etici e solidali, di anelito alla giustizia, di coerenza con i valori costituzionali, posto che le costituzioni rappresentano il "contratto sociale" di un popolo e posto che le istituzioni sono le "cabine di regia" che un popolo si è liberamente dato, per garantirsi un futuro migliore e per far sì che il destino non sia la tegola che irrimediabilmente si abbatte su di esso. Cercare di farsi uguali al meglio ed ai migliori, questa è l'essenza del vivere civile e della stessa libertà. Ma se il meglio non si vede e i migliori neppure non c'è più il metro di paragone, lo stimolo ad agire, l'occasione per stimolare sé stessi, la spinta evolutiva. Dapprima ci si adagia, si lascia correre, poi ci si perde in una sorta di narcosi dell'intelletto e dello spirito ed infine, quando si riaprono gli occhi, non si è più in grado di connettere, di distinguere l'oglio dal grano e il disvalore diventa modello accettabile, quando non appetibile. Il bullo di scuola diventa così un campione da imitare, le sanguisughe della camorra un mito da celebrare e da difendere contro la polizia a colpi di bastone, i politici inetti e corrotti sono da rieleggere puntualmente perché rappresentano i furbi da emulare, i maneggioni che tutto aggiustano, anche in barba alla legge. In questa condizione un popolo non può ritrovare la sua dignità e neanche la sua libertà, perché sono l'una figlia dell'altra. Già, perché la dignità è la "condizione di nobiltà morale in cui l'uomo è posto dal suo grado, dalle sue intrinseche qualità, dalla sua stessa natura di uomo e insieme il rispetto che per tale condizione gli è dovuto e che egli deve a sé stesso" e non può essere libero colui che non rispetta sé stesso. Pierre Kadosh


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UN INCENTIVO PER RESTARE In tante città del Sud ci vorrebbe una indennità di cittadinanza per le persone per bene, per quelli che, imperterriti, pagano il biglietto dell'autobus pur sapendo che attenderanno decine e decine di minuti, se va bene, per prenderne uno e rischieranno pure di essere borseggiati o, se donne, palpeggiate. Per quelli che continuano a fare la raccolta differenziata pur sapendo che tutto finirà - se mai si ricorderanno di fare il prelievo - inesorabilmente in discarica o sotto terra, come i cadaveri. Per quelli che, non avendo occupato un immobile pubblico pagano luce, acqua e gas di tasca propria. Per quelli che non fittano le case a nero e per questo alte tasse oltre alla registrazione annuale dei contratti e sono tenuti a comunicare alla Questura i dati dell'affittuario e si chiedono ingenuamente: ma dove vivranno mai i clandestini e i senza permesso? Per quelli che non vivono di malaffare e non sono costretti a scendere in piazza a pestare i poliziotti. Per quelli che non si fanno raccomandare dai politici. Per quelli che si presentano ad un concorso pur sapendo che passeranno solo i protetti dei potenti anche se sono asini. Per quelli che studiano con rigore. Per quelli che vivono e lavorano onestamente. Per i giovani che non scippano e non spacciano. Per i disoccupati che non fanno della protesta di piazza la loro occupazione. Se il Sud vuole avere un sia pur pallida speranza di futuro deve puntare sulle persone per bene e fare di tutto per trattenerle, per arginare la fuga che ormai è in atto copiosa. E quando anche l'ultima persona a posto sarà andata via e resteranno solo marmaglia, lazzaroni e malavitosi che farà lo Stato? Un recinto intorno alle città? Alti muri come nel film "Fuga da New York"? Per questo ci vuole un'indennità di cittadinanza. E non si tratta di una mera misura economica ma di un complesso “attrattori”, di incentivi volti a determinare partecipazione e ruolo civile, il ristabilimento di una gerarchia etica che restituiscano alle energie migliori, ai cervelli in fuga, ai migranti per disagio, la voglia di restare, di impegnarsi, piuttosto che andar via. Gustavo Peri

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SOCIETA’

“BULLO”, DUNQUE SONO E' stata definita "bullismo" la precoce, crescente, e a volte crudele, prepotenza dei ragazzi che vogliono imporsi con la violenza e la sopraffazione sui loro compagni. Recente ed atroce il caso della undicenne violentata reiteratamente dai compagni di scuola. Gli analisti del comportamento si interrogano, senza trovare una credibile spiegazione, sul perché le droghe siano diventate tanto invasive nella vita dei giovani e non solo e sul dilagare di comportamenti violenti. Adulti inselvatichiti e infantiliti, genitori immaturi, persone senza identità definite si annichiliscono in un dolore che non coinvolge mai i loro cuori o in mediatiche fughe dalla realtà. Narcosi collettiva. Deresponsabilizzazione, desertificazione dei valori, vuoto pneumatico. Questo è l'humus che genera mostri. Mostri dell'anima e mostri reali. Baudelaire e gli altri poeti "maledetti" avevano presagito il vuoto che stava arrivando e che, come un buco nero nel firmamento dello spirito, avrebbe aspirato ogni barlume di energia e di luce. Si dissolsero nell'assenzio o nelle fumerie di oppio, annichiliti dai loro presagi, atterriti dalle loro visioni, dagli squarci di un futuro senz'anima che è il presente che ci circonda. Ci circonda, come in un assedio, perché non ci lascia vie di fuga. Ci nega la possibilità della scoperta, lasciandoci solo limbi artificiali. Non concede neanche il rischio dell'inferno, né il sogno di un paradiso. Tutto è sintetico nirvana. E la fede che non ci sorregge, non ci fa smuovere neanche un granello di sabbia, altro che le montagne. I confini del mondo, dello spazio in cui viviamo sono tutti già esplorati, minuziosamente riportati sulle mappe del sapere. All'uomo comune non resta più niente da scoprire. Il suo più ambizioso destino è quello dello "spettatore consumatore". Gli è preclusa la possibilità di scoprire terre lontane e inesplorate, di arruolarsi come mozzo di una nave pirata per depredare, mettendo in gioco la vita; per affrontare i pericoli dell'ignoto e i mostri orridi degli abissi e gli umori tempestosi degli oceani. Gli è negato di cacciare animali mai visti girovagando per terre sconosciute, di setacciare le acque di un fiume per rinvenirvi una pagliuzza d'oro, di sognare, al seguito di un grande condottiero, un "bottino" che gli cambi la vita. Né può aspirare a diventare compagno di Ulisse, per provare la sua tempra o tentare di resistere al canto delle Sirene.


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Le sole sirene disponibili alla sua esperienza sono quelle delle ambulanze, che di tanto in tanto lo distolgono, da una vita ridotta solo a metafora dell'esperienza reale, imbastita nella mente e mai, sintonicamente, anche nel corpo e nel cuore. La scoperta è riservata a pochi addetti ai lavori, alle fratrie della scienza; i risultati sono gelosamente codificati nell'arcana lingua delle formule, nelle gergalità iniziatiche, in lunghe sequenze di asettici bit, incatenati tra loro in fiumane ininterrotte, come quelle degli schiavi spinti a forza, dai mercanti di uomini, nelle maleodoranti stive delle navi negriere. Somigliano sempre più a degli anonimi bit senza peso né sostanza, e le navi negriere hanno solo cambiato forma. Sono il simulacro di un enorme, ipertrofico Narciso di grigio carbonio, di cui ciascuno è solo uno dei bulloni che lo tengono insieme. Niente valori, niente esempi, solo tecniche per procurarsi un qualunque vantaggio, a qalunque costo e senza remore. E’ questa la fabrica dei “bulli” Pennanera

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CULTURA POLITICA DOSSIER

Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

www.confini.org


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