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Aeromensile di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

TERZA REPUBBLICA

Nuova serie - Numero 31/32 Dicembre 2014 - Gennaio 2015 Anno XVII

A RESE: T S I NI I RV PE FA E D T AN L’IN IUSEP R A G DI AC

E R D AN

Nuova sezione di Cultura Politica Stato di diritto e legalità di Cristofaro Sola


www.confini.org

Confini Aeromensile di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Numero 30/31 - Dicembre 2014 - Gennaio 2015 Anno XVII

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettori: Massimo Sergenti, Cristofaro Sola +

Hanno collaborato a questo numero: Pietro Angeleri Giovanni Caprara Gianni Falcone Giuseppe Farese Roberta Forte Pierre Kadosh Pennanera Gustavo Peri Angelo Romano Massimo Sergenti Cristofaro Sola

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Segreteria di redazione: confiniorg@gmail.com

+ Registrato presso il Tribunale di Napoli n. 4997 del 29/10/1998

confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

COSTITUENTE ADESSO Una delle caratteristiche connotanti la cosiddetta Seconda Repubblica è senza dubbio la voglia di consociazione che ha pervaso tutte le forze politiche. Crollata nell'ignominia la Prima Repubblica, finiti sullo sfondo i politici e la politica d'esperienza, vi è stato l'avvento della politica "cerone e paillettes", dei "nominati" non in base al merito ma alla funzionalità, alla duttilità anche morale, alla volontà asservibile, dei mediatori del consenso. E la politica si è fatta, per lo più, interesse privato. Quelli che hanno tentato di opporsi, di anteporre l'interesse pubblico a quello dei singoli, sono stati emarginati col sapiente uso della calunnia o della ridicolizzazione o esclusi "dal giro" attraverso il massiccio uso delle macchine del fango che sempre hanno fatto presa sulla stupidità delle masse imbonibili dai media. La voglia di "intendersi fuor di steccato" è dilagata, governo e opposizione si sono confuse nel losco abbraccio del consociativismo che mai ha riguardato l'interesse di tutti, sempre e solo il vantaggio di pochi. Con la Seconda Repubblica è cominciata la lunga stagione dei non invidiabili primati nazionali: primi per corruzione in Europa e per nuove povertà, ultimi per qualità dell'istruzione. Inutile ripercorrere la chilometrica lista di quanti in questi anni, tra parlamentari, amministratori locali, imprenditori, faccendieri e persino magistrati sono rimasti impigliati in atti di corruzione, di malversazione, di indebita appropriazione. Quelli del Mose e dell'Expo, i Buzzi e i Carminati, sono solo gli ultimi di una lista che non è alla fine e che non può esaurirsi, finché restano in piedi le logiche fondanti della Seconda Repubblica. Logiche tanto perverse da far ritenere che un Parlamento delegittimato tanto dalla Suprema Corte che dal numero degli indagati e dei trasformisti, possa essere l'istituzione giusta per riformare l'Italia. Se riforme mai vi saranno, esse saranno tarate, come l'annunciata riforma del Senato o la nuova legge elettorale. Persino l'elezione del nuovo Capo dello Stato comincia ad avere qualche vizio d'origine. Nel frattempo si fa sempre più ampia la frattura tra cittadini e istituzioni, tra gli italiani e lo Stato. E' il momento di agire, di avviare il processo che porti alla Terza Repubblica prima che tutto crolli e monti la rabbia cieca e selvaggia. E' il momento dell'Assemblea Costituente. La sola strada per rinnovare il patto sociale, per riformare davvero l'Italia. Pierre Kadosh


SCENARI

TERZA REPUBBLICA Ultimamente, i recenti fatti di cronaca legati a Carmignani e soci, in un intreccio inquietante con la politica, hanno scoperto un pozzo nero i cui miasmi ammorberanno l'aria per lungo tempo. Perché non sarà il giro di vite sulla corruzione e concussione, proposto dal presidente del consiglio, ad estirpare la mala pianta del malcostume. Sono anziano al punto da ricordare bene lo scandalo Petromin del 1979 quando l'ENI pagò una tangente del 7% per un vantaggioso contratto petrolifero con la società di stato dell'Arabia Saudita. Il governo di allora avallò il pagamento, ma quando lo scandalo esplose e l'Arabia Saudita sospese la fornitura, sostenendo di non aver nulla a che fare con il "contratto parallelo", il presidente dell'ENI, Mazzanti, fu sospeso e successivamente assolto da ogni accusa ma costretto a dimettersi, mentre il governo Cossiga poneva sulla vicenda il segreto di Stato. A seguito del ritrovamento di carte sulla vicenda Eni-Petromin tra i documenti in possesso di Licio Gelli, il Parlamento riprese le indagini nel 1982. Due anni dopo, il mediatore del contratto tra Eni e Petromin, l'iraniano Parviz Mina, ammise che il denaro era andato tutto ai sauditi, tranne una piccola parte destinata a lui, ma disse di non poter dire di più perché rischiava la vita. Nella memoria collettiva, però, si continuò a credere che la vicenda nascondesse un ritorno di soldi ai partiti italiani, per il tramite della loggia massonica P2, alla quale lo stesso Mazzanti aveva aderito "per disperazione dopo essere stato sospeso dalla presidenza dell'Eni", disse. Il fatto è che, a seguito di quello scandalo, e nel presupposto che i soldi fossero andati alla politica, venne istituito il finanziamento pubblico ai partiti con la motivazione che "fare politica, costa". Così, per evitare la costrizione (sic) di ricorrere ad illeciti finanziamenti, si istaurò il moralizzante (doppio sic) finanziamento pubblico. Ma, come la più recente memoria insegna, di moralizzazione, nell'arco di tredici anni, non se ne vide neppure l'ombra se è vero, come lo è, che un pool di magistrati milanesi, nel 1992, non so quanto strumentalmente indirizzati, scoprirono il vaso di Pandora al punto da cancellare l'esistenza di buona parte dei partiti italiani e dei loro esponenti, (insieme a grand commis di Stato), e da indurre, sia pur indirettamente, i due partiti rimasti a cambiare nome. E, ovviamente, anche a quel tempo si parlò di moralizzazione della vita politica, di giro di vite, di inasprimento delle pene, con l'unico effetto di far lievitare l'importo delle tangenti. Per il rischio. In effetti, non c'è stato anno in quest'ultimo ventennio senza che la cronaca non abbia registrato un'appropriazione di denaro pubblico, l'emergere di un sistema di corruttele, l'erogazione di tangenti varie, appalti truccati, a volte in collusione con la malavita organizzata.

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Una rappresentazione così vasta di nequizie da far balzare l'Italia, ben prima dei recenti fatti di cronaca romani, ai primi posti nella triste classifica dei paesi più corrotti al mondo. Si dice che la storia sia maestra di vita: niente di più sbagliato tranne che per l'argomento in questione e per la scoraggiante morale che se ne ricava. In questi ultimi quarant'anni, dopo ben due ventate pseudo moralizzanti, esponenti del malaffare e della vita politica si sono rivelati ancora una volta stretti in un abbraccio funzionale. Per conseguenza, quale garanzia può dare il giro di vite promesso dal nostro presidente del consiglio, peraltro da attuare con un atteggiamento partigiano di partenza? Non voglio scomodare il signor G, uomo d'apparato del vecchio PCI nel periodo di Mani Pulite, appena sfiorato dalla tornata giustizialista, ricomparso a distanza di vent'anni come implicato nel sistema di corruttele per l'Expò. Né, di contro, voglio levare peana in favore di Bettino Craxi, condannato in virtù del teorema "non poteva non sapere". No. Non voglio scomodare tali personaggi che a dritto, o a rovescio, sono balzati agli albori della cronaca vent'anni fa e, il primo, è tornato a primeggiare di recente. Non voglio farlo perché il primo, appunto, dopo alcuni mesi di reclusione, è tornato in libertà. Quindi, si presume che per quei quattro mesi o per l'evidenza degli atti abbia scontato il suo rapporto con le leggi degli uomini. Né, come detto, voglio farlo per Bettino Craxi il quale, ammesso che non abbia fatto mai nulla di positivo per questo Paese, il contenuto del suo ultimo discorso alla Camera lo solleva, in termini di apprezzamento, fin sulle vertiginose vette dell'Everest; quella accorata esternazione che ha chiamato in causa di reità tutti i partiti e che gli ha "consentito" di lasciare l'Italia per un vicino Paese dal quale non c'è estradizione. E lo dico da uomo profondamente di destra. Il bollino di partigianeria, invece, voglio appiccicarlo al PD per fatti più recenti. Mi riferisco alla ex presidente della Regione Lazio, Renata Polverini che, per lo scandalo sull'uso improprio e addirittura personale dei fondi pubblici destinati ai gruppi politici, perpetrato dal pressoché intero arco consiliare, ha tentato di gestire gli eventi chiamandosi fuori, anzi ponendosi come paladina della moralità della sua gestione attraverso l'umoristico manifesto "Li mando a casa io" col quale ha tappezzato il Lazio. Eppure, il ministro di allora, la Cancellieri, l'ha convocata e, per quanto non sia emerso alcunché circa il suo diretto coinvolgimento, ha ritenuto opportuno (giustamente, aggiungo) sollecitare le sue dimissioni solamente perché rappresentante di una congerie di profittatori. Ed ancora. Pur non amando Berlusconi, è impossibile sottacere l'obbrobrio giuridico perpetrato ai suoi danni dal PD e SEL dove, contravvenendo a principi giurisprudenziali ultra consolidati, sono riusciti ad applicare ex tunc (da allora) una norma, la legge Severino, varata dopo il dichiarato reato. E ciò a prescindere dal fatto che fosse colpevole o meno. Ora, a distanza di un paio d'anni da quegli eventi, un caso peggiore si pone davanti agli occhi della pubblica opinione. A Roma, un complesso, nefando intreccio tra politica, manager, un'organizzazione di malaffare e, forse, addirittura la mafia, è emerso in tutta la sua evidenza: i contenuti di intercettazioni, filmati, documenti sono stati spiattellati sotto gli occhi degli


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spettatori attoniti i quali hanno appreso che esponenti sia della precedente che dell'attuale giunta sarebbero coinvolti, per decine di milioni di euro, in quei fatti criminosi. Come è possibile che si consenta a Marino, l'attuale sindaco della capitale, di levare il suo sdegno, la sua indignazione, fino al punto di dichiarare che il Comune di Roma si costituirà parte civile nel prossimo processo contro gli imputati? Quasi come se l'attuale giunta romana, che ha visto la presenza di imputati al suo interno, non sia guidata da lui stesso. Lo dico da cittadino, totalmente al di fuori degli schematismi politici e partitici: quale fondamento possono avere le promesse di moralizzazione di un Renzi, viziate come sono in partenza? Passi la mancata promessa circa una celere riforma della legge elettorale, ancora alle prese con i meandri parlamentari; passi un parlamento, borderline sulla legittimità, alle prese con la riforma di un suo ramo, contenente presupposti di illogicità oltreché di incostituzionalità; passi pure la fantasiosa spending review che non intacca minimamente i veri pozzi senza fondo della spesa inutile; passi l'impegno mancato per un veloce ritorno dei nostri marò; e, già che ci siamo, passi anche la mancata promessa di un riscatto nazionale, di una ripresa dell'economia e dell'occupazione, della riduzione delle tasse, e ancora… ancora… ancora. Passi tutto questo, umoristicamente giustificato nella sua mancata attuazione dalla congiuntura internazionale, dall'ottusità di Bruxelles, dalla slealtà dei compagni, dall'incostanza degli avversari-alleati, dalla cecità dei sindacati che vorrebbero mettere un gettone in un iphone. E, meno male che, stavolta, lo spread non può fornire giustificazioni perché sarebbero venute buone anche quelle. Ma ciò che moralmente è ingiustificato, ciò che non può passare è che Marino possa essere lasciato al suo posto così da assurgere a splendente cavaliere contro il drago, a novello San Giorgio a cavallo con la lancia mentre trafigge il maligno. E ciò, tra i tanti motivi perché, se non è colluso allora è incapace, perché non ha neppure avvertito, mai, l'alito rovente del drago che continuamente gli scaldava…. le terga. Renzi potrà anche arrivare a sostituire D'Alema nelle vignette forattiniane e, anziché con due baffetti nell'aria sopra un paio di stivali da duce, essere raffigurato con una chioma leccata e due denti in fuori sopra un paio di stivali da duce: nel senso che, potrà anche impadronirsi dell'intero PD, eliminando i dissidenti; potrà anche realizzare per il Paese il suo astruso concetto di democrazia vincolata (alla sua persona). Ma ciò che mi auguro non possa fare, anche se ci sta provando, è il triplo salto mortale con avvitamento carpiato e atterramento sul mignolo: snaturare il PD per farne una forza tra la DC di destra, i socialdemocratici dell'ultim'ora e i maggiorenti di Confindustria, ovviamente sottomessa ai suoi voleri, incarnando in questo l'assunto monarchico di Massimo D'Azeglio, riveduto e corretto in "abbiamo preso l'Italia, ora dobbiamo fare gli italiani ... asserviti"; un agire integrato, con rivisitazione, dal contenuto del passo della Satira di Giovenale nella Roma imperiale " [...] [il popolo] due sole cose ansiosamente desidera: pane e i giochi circensi"; ovviamente, nella concezione renziana, la locuzione (e non solo quella) perde il panem, in

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quanto a nutrire la plebe sono bastanti i suoi giochi.. verbali; il tutto, mentre agisce secondo un vecchio concetto sovietico, ripreso e edulcorato nella DC, magistralmente sintetizzato da Andreotti, in "la legge (leggasi anche morale) si applica (anche distorcendola) per i nemici e s'interpreta per gli amici". Scherzi a parte. Se le premesse sono queste, siamo ben lontani dall'avvento di una Terza Repubblica, checché ne dica Renzi. Di contro, tornando a scomodare D'Azeglio, per inquadrarla correttamente basterebbe una considerazione e un auspicio: A Napoli, noi abbiamo altresì cacciato il sovrano per stabilire un governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono, e sembra che ciò non basti per contenere il Regno, sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti o non briganti, niuno vuol saperne. Ma si dirà: e il suffragio universale? Io non so nulla di suffragio, ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni e che al di là sono necessari. Dunque vi fu qualche errore e bisogna cangiare atti e principi1. 2 Il primo bisogno d'Italia è che si formino Italiani dotati d'alti e forti caratteri . Se ne vede qualcuno sulla linea dell'orizzonte? Massimo Sergenti

audacia temeraria igiene spirituale

1 da Franco Alberti, Due costituzioni, da Napoli a Torino: note storiche e considerazioni sullo Zeitgeist, Guida, 2002, pag. 73 2 Da Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993


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A VOLTE LE COINCIDENZE... L'altro giorno, mentre me ne stavo immersa nella vasca da bagno dopo una giornata di lavoro, m'è venuto in mente l'approssimarsi del Natale e gli stressanti impegni del cittadino. No, no. Non l'affaticante girovagare per negozi alla ricerca dei regali per amici e parenti bensì l'assolvimento del 2° acconto fiscale e, poi, della TASI e dell'IMU. Così, mentre la televisione, da settimane, ci propina pubblicità infarcite da omoni canuti e barbuti vestiti di rosso e la radio manda in onda a tutto spiano spase musicali di merry Christmas, nella speranza, sull'onda della bontà universale, di farci spendere, il volto buono, accattivante, deciso del nostro presidente del consiglio, novello Babbo Natale, deve bastare al cittadino per non smadonnare nell'assolvimento dei più alti tributi del mondo occidentale. Ambedue le icone, infatti, sull'onda della bontà, il primo, e della giustizia, il secondo, con volti accattivanti e affabulanti, affondano le mani nelle nostre tasche. Eppure, la figura accattivante, paciosa di Babbo Natale non ha nulla a che vedere con la sua vera natura. Analogamente, il volto deciso, determinato, fiducioso, fermo del nostro presidente del consiglio non ha nulla a che vedere con la bontà della sua azione. Soffermiamoci sulla prima icona di bontà universale. Il protagonista della festa non è il neonato di Betlhem del mito cristiano ma un florido vecchione del quale se l'abbigliamento ne denuncia una origine molto nordica, il nome Santa Claus (contratto in Santa nell'uso universale) lo identifica con un personaggio meridionale, San Nicola, ossia Nikolaus di Mira, nato in Asia Minore nel IV sec. e divenuto vescovo di Mira nella Licia, il cui culto cominciò a diffondersi quando le sue reliquie furono trasportate a Bari nel 1087, divenendo così il patrono del capoluogo pugliese. Il santo cristiano è stato, quindi, trasformato in un vecchio dalla folta barba bianca che abita al Polo Nord e che nella notte di Natale ai bambini porta doni, trasportandoli con una slitta tirata da un equipaggio di renne e deponendoli accanto al camino, dalla cui canna egli scende col suo sacco colmo di dolci e giocattoli. Tuttavia, questa strana figura di nonno benefico, abbigliato con un costume rosso vagamente da lappone, non ha nulla da spartire con l'antico dignitario ecclesiastico della storia. Santa Claus (San Nicolaus) ed il vescovo di Mira hanno in comune solo il nome, Nicola, o meglio il suo abbreviativo Nick che fu rimosso dal personaggio nordico trasformandolo in Claus per aferesi. In realtà, Babbo Natale, alias Santa, è Nick o meglio Old Nick, Nick il Vecchio, altro nome di Old

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Horny, il vecchio dalle Corna della tradizione britannica; un personaggio, in sostanza, che altro non è che il Diavolo. Nelle leggende dei paesi settentrionali, il Diavolo viene dal Nord estremo (il Polo nord), il regno delle tenebre e del freddo; indossa un completo di pelliccia rossa (il colore del fuoco dell'inferno); guida un tiro di renne, animali cornuti su cui si è trasferita una delle caratteristiche del demonio e scende dai camini sporcandosi di fuliggine. Per quest'ultimo aspetto, peraltro, è anche chiamato Black Jack, Black Man, Black Peter (anche Peter Pan, infatti, scende dai camini e si sposta in aria volando come la slitta di Santa Claus). Il demonio delle leggende nordiche, inoltre, porta con sé un gran sacco nel quale infila i bambini, che rapisce e confina all'estremo nord. Nella prima metà del XIX sec., si operò la trasformazione dell'antico demone nordico nell'icona natalizia del vecchione benevolo il cui unico compito è quello di portare doni ai bambini la notte del 25 Dicembre: mito piccolo-borghese, generatosi in seno alla cultura biedermeier per rovesciamento nell'opposto di una figura demoniaca angosciante. E ciò per via di due diverse e concomitanti motivazioni. Da un lato, a seguito alla rivoluzione illuministica del secolo precedente, la pressione dell'ideologia religiosa, sia cattolica che riformata, si allentò e la data del 25 Dicembre restò in parte svuotata del contenuto cristiano mentre si riempì di un vecchio mito mitteleuropeo i cui contenuti angoscianti furono rimossi e, come detto, rovesciati nell'opposto. Dall'altro, in coerenza con la situazione socio-politica del momento, si affermò un ceto medio, voglioso di dimenticare i fatti tumultuosi della Rivoluzione francese e del successivo impero audacia temeraria igiene spirituale napoleonico, e più attento all'avvento della Rivoluzione industriale che, nell'evoluzione dello stile, proponeva prodotti funzionali, dalle linee semplici e, quindi, facilmente industrializzabili. Così, un bisogno generalizzato di quieto vivere depotenziò ed edulcorò le produzioni fantastiche medioevali in una prospettiva buonista e, perciò, trasformò il diavolo in santo ed il rapitore di bimbi in munifico vecchio parente. L'antico contenuto fobico della figura demoniaca venne, perciò, annullata in maniera radicale, trasformando il Vecchio Nick, da spavento dei bambini, da Uomo nero che li rapisce e "li tiene un anno intero", in San Nicola: operazione chirurgica estrema che, tuttavia, non poteva non lasciare un residuo irremovibile di negatività, un fondo di paura profondamente occultata dal grasso fantoccio del santa Claus, tutto bonomia e generosità della nuova mitologia natalizia. In tal modo, accanto al vecchione rubizzo e biancobarbuto venne posta l'icona della Befana, traslazione del termine Epifania (arrivo, venuta) collegata nel mito cristiano all'arrivo dei "tre Re magi" che portano doni al divino fanciullo. Ancora, quindi, un personaggio benefico e, chiaramente, un duplicato del San Nicola natalizio: stavolta il Vecchio Nick si presenta al femminile e con un aspetto decisamente meno rassicurante. La vecchia Befana, simile in tutto all'aspetto della Strega medievale fattrice di malvagi incantesimi ed alleata del demonio, rappresenta nel suo aspetto esteriore quel fondo incoercibile di minaccia che non era stato possibile svellere dall'icona di Santa Claus.


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Il demonio, infatti, può assumere qualsiasi forma, mancandone di una propria specifica. Puro spirito nel mito, pura angoscia nella realtà, egli può presentare l'icona del nano e del gigante, dell'uomo e della donna, del bambino e del vecchio come un perfetto mutaforma, che assume ogni aspetto di essere vivente, compreso quello di animale: così le stesse renne del tiro di Santa, con corna così vistose, rappresentano icone zoomorfiche del loro conduttore. A sua volta, la Befana vola a cavalcioni del manico di una scopa, che altro non è che la trasposizione in chiave femminile del bordone del diavolo-pellegrino il quale, in questo suo aspetto di pericoloso demone e di benevolo compagno di viaggio e, più in generale, nel suo ambiguo manifestarsi, ci riporta all'arcaica, universale figura del trickster, l'"imbroglione", il "burlone" quale è espresso dalle leggende e dal folklore dell'intera umanità. Uno spirito senza sesso e senza età, persino senza una forma antropica propria, né propriamente cattivo né propriamente buono: capriccioso, ironico, allegro mascalzone che si diverte a spaventare i viandanti ma anche a beneficiarli rivelando loro nascondigli di tesori, opportunità di successo, notizie sconvolgenti e segrete. Questo tipo è giunto sino a noi nel contesto della religione santera in Cuba con la figura di Elegguà - Echù, il dio del destino, il più piccolo degli Orichas, ma il Primo tra essi: colui che, capricciosamente, apre e chiude le porte degli eventi ed imperversa di notte intorno ai crocicchi delle strade; è il bambino-vecchietto dalle cento trasformazioni e dai mille tiri mancini, come trasportare qualcosa da un luogo all'altro in modo da far litigare il proprietario di quegli oggetti con colui che se li trova in casa, e che viene creduto ladro; Un soggetto, insomma, che un tempo fu anche Robin Hood, altro nome del diavolo, che "rubava ai ricchi per dare ai poveri" non per sentimento sociale ed umanitario, ma solo per far dispetto ai superbi e più nobili normanni, troppo buoni cristiani ed ormai sordi alla voce dei miti tradizionali ….. Per l'appunto, il kobold nel folklore tedesco, ma anche l'elfo, il goblin o il leprechaun in altre tradizioni, è l'illustre antenato del mellifluo e banale Santa Claus vittoriano il quale formava con Peter Pan la coppia coboldica vecchio-bambino, sintetizzabile nella figura solo apparentemente antagonista ed aliena di Capitan Uncino… Ad ogni buon conto, il folkloristico antenato è senz'altro più significativo ed interessante dell'attuale Santa globalizzato e non tanto perché quest'ultimo è banale e melenso come il suo prototipo ottocentesco, quanto perché divenuto prodotto commerciale, invasivo delle nostre giornate dicembrine e gran bevitore di Coca Cola negli spazi televisivi. Riprodotto in mille oggetti dozzinali, è stato reso tanto meschino dalla macchina della promozione pubblicitaria da perdere qualsiasi pur remoto valore ed è divenuto l'icona più insulsa e più meccanica, ripetitiva e noiosa della storia dell'umanità…. Al punto di dare risalto ad una altra ricorrenza assolutamente estranea alla nostra cultura, Halloween, appena edulcorata da dolcetto-scherzetto. Non sembra di leggere il percorso cultural-stilistico-politico del nostro presidente del consiglio? Nella sua grande estroversione, peraltro, è riuscito ad invertire persino l'icona di Robin Hood:

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"rubare" ai poveri e diseredati, non allineati con le sue giustificative fantasie oniriche, per dare ai nobili normanni, sostanzialmente suoi sponsor. Ci salverà dal piattume iconografico e verbale e dalla generale indigenza culturale e economica l'insorgere di una Terza Repubblica? Onestamente, non la vedo all'orizzonte. Le promesse della seconda repubblica si sono frantumate sugli interessi di Mediaset, sulle olgettine e le feste ad Arcore ma avvisaglie del salvataggio dei naufraghi ad opera della terza sono di là da venire, checché ne dica Renzi. Anzi. A prestare attenzione alle sue azioni e ai suoi atteggiamenti, l'unica prospettiva che può configurarsi è quella della Terza Repubblica francese. Nata dopo la sconfitta di Sedan del 1° settembre 1870, essa sostituì quella del cosiddetto Secondo Impero e durò la bellezza di settant'anni, fino all'invasione tedesca del Paese nel 1940. La politica interna della Terza Repubblica fu caratterizzata da governi molto instabili, a causa di maggioranze divise o poco superiori di numero alle opposizioni e l'instabilità politica favorì (si guardi il caso) vari scandali finanziari ed episodi di antisemitismo. La politica estera, invece, fu caratterizzata, tra l'altro, dal sentimento di rivalsa (si pensi) nei confronti della Germania. Che morale possiamo trarne? Non certo positiva. Un riscontro che, peraltro, si aggrava se, in ordine al personaggio Renzi, consideriamo da un lato il suo istrionismo e dall'altro il suo determinato, agguerrito risiko sui gangli dello Stato. Allora… chi potrà salvarci? Chi potrà porre le basi per una nuova, vera, concreta e giusta Terza Repubblica? Da poco, per non dire punto, praticante, mi spiace ricorrere al messaggio evangelico ma non trovo altra, efficace sintesi: potranno salvarci solo gli uomini (ma anche le donne) di buona volontà, sordi al richiamo delle sirene, distanti dagli immediati fantasmagorici guadagni terreni, animati da una prospettiva fondata sul vero riconoscimento della dignità della persona, sulla sua vera libertà e sulla vera giustizia. E' un auspicio in clima con l'atmosfera natalizia? Può darsi. Ma, almeno, non cancelliamo l'unica nota che consente all'essere umano di sopravvivere: la speranza. Auguri a tutti. Ne abbiamo bisogno. Roberta Forte


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L’ARTE DELL’IPOCRISIA Non bastava la Germania a dare pagelle e bacchettate all'Italia. Né erano sufficienti, con ogni evidenza, i giudizi del Fondo Monetario Internazionale per bocca della sua direttrice Christine Lagarde. Adesso, anche il New York Times, per bocca della sua corrispondente Elisabetta Povoledo, critica questo Paese, del quale il male peggiore non è Berlusconi o Renzi checché se ne possa pensare, bensì il relativismo culturale. La corrispondente per l'Italia del celebre giornale, a proposito dell'inchiesta di Mafia Capitale, scrive che "Virtualmente, non c'è angolo dell'Italia che sia immune dall'infiltrazione… "Perfino per un Paese in cui la corruzione è data per scontata nella vita quotidiana le rivelazioni hanno sbalordito i cittadini" …. Inoltre, ragiona la giornalista, l'inchiesta sulla mafia a Roma "solleva nuove domande circa la capacità dell'Italia di riformarsi e soddisfare le richieste di una responsabilità di bilancio fatte dai suoi partner dell'Eurozona". Oh! Beh! Se sui primi due punti si può ragionare, l'ultimo mi appare alquanto avventato, fornito ad un pubblico, peraltro, che ignora - nel senso che non ha interesse a conoscere - gli astrusi, vincolanti atteggiamenti di Bruxelles e del FMI i quali, paradossalmente, hanno già promosso l'agire di Renzi. Un inciso. Non avrei mai pensato di difendere il nostro primo ministro la cui azione, a mio sommesso avviso, è quanto di più effimero si possa immaginare. Per cui, paradossalmente, checché ne dica la Povoledo, la politica del governo Renzi non scontenta né i partner né i vertici comunitari: scontenta solo il popolo. Ma andiamo avanti. La giornalista, peraltro, non ha dubbi: "La diffusa e incontrollata corruzione di fondi pubblici rivelata dall'inchiesta è un esempio della situazione che ha portato il debito pubblico dell'Italia ad uno dei livelli più alti in Europa". Anche qui, l'articolista dovrebbe documentarsi meglio; nel senso che l'abnorme ammontare del debito pubblico in Italia non è dato dalla corruzione che, semmai, ha contribuito per piccolissima parte, bensì per politiche demagogiche messe in atto dalla DC degli anni '60 e '70 e dal PDS (oggi PD) negli anni 2000. La prima, con le sconclusionate riforme sociali di quel periodo ai fini elettoralistici, che si sono trasformate in una continua elargizione a pioggia verso il popolo il quale non ha certamente protestato. E, poi, con la creazione, sempre ai fini elettorali, di una pletora di organismi, istituzioni, enti, agenzie, varate con la scusa di meglio monitorare il territorio e i rapporti sociali e, in realtà, rivelatisi delle costosissime sinecure.

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Il secondo, con la sconclusionata riforma istituzionale, varata all'avvio del III millennio per ingraziarsi la Lega, che ha creato, con l'autonomia della spesa regionale, una voragine senza fondo. La Povoledo, inoltre, dopo aver evidenziato che la criminalità organizzata è solitamente associata alle regioni del Sud, fa presente che da anni i gruppi mafiosi stanno emigrando al Nord. L'acume, devo dire, non le manca. Il reportage si completa con le dichiarazioni di alcuni giornalisti italiani e dell'ex magistrato Giancarlo De Cataldo, autore del best-seller Romanzo Criminale che ricorda come "gli affari criminali a Roma esistono sin dai tempi dei Cesari", nonché con un richiamo al rapporto pubblicato da Transparency International dove l'Italia si colloca tra i peggiori Paesi in Europa e nel mondo. Ovviamente, non ce l'ho con la Povoledo che neppure conosco, però avrebbe potuto fare di più e meglio tentando un'analisi sui motivi che hanno portato questo Paese a fare carne di porco della sua genialità, della sua idealità, del suo impianto di valori e del suo senso sociale. Se l'avesse fatto, avrebbe scoperto che una concausa di questo sfacelo morale deriva proprio dagli USA e dalla loro concezione di imporre costumi, concetti, valori che hanno più attinenza con una pampa sconfinata, un cavallo e una pistola al fianco, piuttosto che con una civiltà sociale, giuridica e politica che ha riverberato lumi su tutto il mondo e che è stata cancellata proprio a causa di quelle imposizioni, operate da strumentali traghettatori e pennivendoli ammantati di modernismo, calate su sprovveduti, ignoranti politici in cerca di notorietà. Un'imposizione, peraltro, operata sin dalla liberazione d'Italia negli anni '40, nel silenzio fattivo delle onorate società, abilitate in seguito, quale guiderdone per dirla alla Boccaccio, ad un agire disinvolto. Inoltre, se avesse compiuto quell'analisi, per la legge del contrappasso, il New York Times sarebbe stato costretto a pubblicare, oppure avrebbe omesso di dire, che il sistema americano di finanziamento della politica è quanto di più ipocrita possa esistere. Infatti, è vero che, per legge federale, le erogazioni ai candidati di tutti i livelli istituzionali devono essere registrate e, pertanto, il sistema è trasparente ma è altresì vero che a erogazione maggiore corrisponde aspettativa maggiore. E non è consigliabile, per l'eletto, ignorare tali aspettative. Come a dire che l'eletto deve fare gli interessi del popolo ma, all'interno dei quali, deve avere maggiore riguardo per quelli dei suoi finanziatori. Per cui, a maggiori disponibilità da "investire", più alti livelli istituzionali da occupare, maggiori interessi da soddisfare. In sostanza, una democrazia piegata, ufficialmente, dalla forza del denaro. Chissà cosa pensa il New York Times e la Povoledo degli oltre 30.000 cittadini americani, uccisi ogni anno negli USA, e dei 40.000 feriti, in massima parte a causa della libera vendita di armi in mano a psicopatici, alienati, nevrotici, criminali singoli o in bande. Senza contare, poi, tutti i civili uccisi in Iraq, Libia, Serbia, Vietnam, ecc. da truppe regolari o, meglio, da formazioni paramilitari, appartenenti a società legate con un contratto di servizi al Ministero della Difesa, il cui primo obbligo non è rispondere del loro agire allo Stato sovrano


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bensì al loro datore di lavoro. Come dire, ufficialmente, che la guerra è un business. Non parliamo, infine, dei stridenti contrasti sociali dove affianco di persone azzimate, in appartamenti lussuosi, viaggianti su prestigiose vetture, vivono orde di senzatetto, senza assistenza, senza diritti, senza parola, nella più assoluta, totale indifferenza, quando non fastidio. Né giova parlare di intere comunità di diseredati che vivono in fatiscenti stamberghe e roulottes il cui interno è peggio dei cessi pubblici di qualsivoglia stazione ferroviaria italiana. E, a maggior enfasi sullo sconvolgente contrasto, come non citare l'esistenza di interi quartieri di grandi città dove, pressoché impunemente, operano malviventi, spacciatori, lenoni, bande di minorenni e di maggiorenni, indenni dall'agire delle forze dell'ordine se non a rischio di vita per quest'ultime? Forse, il New York Times e la Povoledo, abituati ai macroscopici gap civili e sociali che albergano nella società americana, sono più portati a vedere la pagliuzza nell'occhio altrui piuttosto che la trave che staziona nei loro occhi. Chissà che fine ha fatto l'indagine di tre anni fa, lanciata proprio dal Times, sul comportamento, come dire, spigliato di Standard & Poor's, la nota società di rating, messa sotto inchiesta dal Dipartimento di Giustizia di Washington con l'accusa di aver espresso, consapevolmente, un giudizio troppo ottimistico sui quei titoli tossici del mercato immobiliare all'origine della più grande crisi mondiale del dopoguerra. Chissà che ne è stato delle possibilità di coinvolgimento delle altre società di rating, Moody's e Fitch, presumibilmente invischiate anch'esse nelle strumentali manovre del mercato a loro vantaggio e a quello dei loro soci, a danno della maggioranza dell'umanità. E ciò perché credo che il Times sappia che è la stessa composizione azionaria di quelle agenzie a destare più di un sospetto sul loro ruolo di arbitri super partes. Infatti, credo che non ignori che la Standard & Poor's è totalmente esposta sul mercato, nel senso che tutte le sue quote azionarie sono disponibili alla negoziazione ma non sono quotate in borsa. In conseguenza, credo sia al corrente che: - il suo azionista di maggioranza è il mega gestore di fondi statunitensi Capital World Investors, che ne detiene una quota proprietaria pari al 12,45%. - accanto ad esso, vi siano altri soggetti del mercato della gestione finanziaria come State Street (4,39%), Vanguard (4,22%), BlackRock (3,89%), Oppenheimer Funds (3,84%), T. Rowe (3,36%), Jana Partners (2,95%) e il fondo pensione degli insegnanti dell'Ontario (2,27%). - il presidente di quella società sia Harold Mc Graw III (proprietario al 3,96%) e che nel cda vi sia, tra gli altri, Sir Winfried Bischoff (Lloyd's Banking Group) e altri illustri ex esponenti di colossi come Coca Cola o British Telecom. - un'occhiata alla composizione proprietaria delle altre due grandi agenzie, Moody's e Fitch, è sufficiente per destare le medesime perplessità. Ecco. Un minimo di serietà ponderata da parte della corrispondente di quel giornale, dal nome italiano peraltro, non avrebbe guastato. Come non avrebbe guastato un minimo di valutazione ponderata da parte della direzione.

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Non avrebbe guastato, altresì, una rimostranza ferma e dura da parte del governo italiano verso le autorità di quel Paese dove è una verità concreta la libertà di stampa ma non consentita quando fornisce per altri notizie distorte e enucleate da un contesto, peraltro senza alcuna considerazione del contesto dove essa agisce. A preoccupare, non sono i battibecchi con la Merkel o con Juncker i quali, tutto sommato, conoscono perfettamente la forza di questo Paese e non intendono minimamente perderlo dal contesto comunitario. No. Ad indignare, sono i giudizi tranchant di stipendiati oltre atlantico che sviliscono la nostra immagine nel contesto internazionale e gli sforzi del popolo, fondati o meno che siano gli interventi di Renzi, per rinsaldare la sua economia. Si parla, tanto ormai, di terza repubblica. Non so dire d'emblée come e chi potrà realizzarla. So solo, parafrasando Einstein, che la quarta sorgerà sulle macerie d'Italia. Pietro Angeleri


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IL CRACK DELLE REGIONI L'enorme astensionismo che si è registrato in Emilia ed in Calabria (63,3 e 55,9%), due regioni molto lontane tra di loro non solo per distanza geografica, fornisce una prima evidenza: gli italiani sono stanchi di portare sul groppone il peso di 20 costosissime quanto inefficienti regioni. Né queste ultime si sono poste il problema di manifestare un qualche segno di resipiscenza, di responsabilità istituzionale, di avvicinamento ai cittadini, al contrario hanno lasciato che la spesa allegra e scandalosa di gruppi politici e consiglieri o orientata ad alimentare clientele, accelerasse la loro condanna espressa con la disaffezione e l'astensione. Essendo passata la stagione dei soldi facili, del Pantalone che paga per tutti, tanto nessuno se ne accorge, sarebbe ora di metter mano ad una seria riforma del regionalismo, quella sì indispensabile, a differenza di quella proposta per il Senato - che santifica l'attuale regionalismo deleterio - o della finta abolizione delle Province, anzi dei soli Consigli provinciali, che presenta persino qualche profilo di incostituzionalità. La seconda evidenza è la decrescente legittimazione democratica di governi locali eletti con suffragi che rappresentano meno della maggioranza degli elettori, per cui nessuno può cantar vittoria come, a caldo, ha fatto Matteo Renzi. La terza evidenza è triplice: il successo della Lega, l'evaporazione dei 5 Stelle, il crollo di Forza Italia, che, sia pure a percentuali falsate dall'alto astensionismo e quindi non in numeri assoluti, la dice lunga sui probabili scenari futuri e certamente costituisce una condanna senza appello agli spudorati ammiccamenti consociativi dell'ex Cavaliere nei confronti di Renzi. Poi c'é anche un piccolo corollario da registrare, che proprio per la sua "piccolezza" induce a riflettere: uno dei giornali dell'ex Cavaliere, quello a più alto tasso di velenosità, é ritornato sull'ormai stantia storia della "casa di Montecarlo" che avrebbe incrementato il suo valore. Non c'é notizia, dietro il solito fango livoroso con cui è stato ricamato il non annuncio, si legge solo la preoccupazione, la paura, che stia per arrivare il momento della verità. D'altro canto, giusto per ribadirlo, sulla vicenda si é espressa la magistratura: il fatto non sussiste. Ma, a proposito di verità, é bene toccare un argomento mai sfiorato dai giornali dell'ex Cavaliere: quale leader politico é mai riuscito a garantire al suo partito - come ha fatto Fini con An - una solidità patrimoniale e finanziaria invidiabili? Se fosse stato un approfittatore avrebbe potuto arricchirsi e ricco non è. Angelo Romano

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RIPRESA? ABBATTERE IL DEBITO. Con le lenti del buon padre di famiglia la situazione economica italiana rappresenta la negazione assoluta di un comportamento diligente. La "famiglia Italia" è stata gestita, per decenni, senza alcun senso di responsabilità. Si è ipertrofizzata le cosiddetta democrazia, moltiplicando a dismisura le istituzioni ed i centri di costo, spesso fuori controllo. Sono stati concessi privilegi castali, senza che ciò apportasse alcun beneficio alla comunità nazionale. Si è costruito uno stato sociale, non equo, costoso, irrazionale e senza qualità: basti pensare alla sanità affidata a regioni spendaccione che la hanno utilizzata a fini di consenso e "gestionali" più che avendo a cuore la salute dei cittadini. Si è gonfiato a dismisura l'esercito dei dipendenti pubblici. Si è sprecato oltre ogni limite negli appalti e nella realizzazione di opere pubbliche, spesso rimaste incompiute. Si sono dilapidate risorse con interventi a pioggia senza una retrostante strategia. Si è ceduto di fronte ai ricatti della piazza, dietro ai quali a volte si celava il malaffare, con tacitanti "elargizioni benefiche" come quelle ultradecennali agli ex-detenuti di Napoli e Palermo. Che sia da ricercare lì una qualche collusione tra Stato e malaffare? Non si è fatta politica industriale, non è stata elaborata una strategia per la ricerca, non si sono difese le eccellenze italiane a partire dai beni culturali, non si è creata una scuola degna di questo nome, non si è valorizzato il genio italiano. Si è vissuti "a credito" espandendo il debito pubblico e confidando nello stellone. Poi, per cercare inutilmente di allontanarsi dall'abisso, è arrivata la recrudescenza della tassazione, una recrudescenza spinta al punto da fiaccare lo spirito di iniziativa, da congelare la voglia di fare, da spingere le imprese alla delocalizzazione o alla chiusura ed i migliori cervelli a migrare. Spesso ha spinto anche gli imprenditori al suicidio. Poi è arrivata la corsa al salvifico Euro che, a causa dell'enorme debito pubblico, ha dimezzato il potere d'acquisto degli italiani costretti ad accettare un concambio svantaggioso stante il debito pubblico. La stabilità e la forza della nuova moneta il vantaggio, peccato che per eccesso di forza sono rallentate pure le esportazioni. L'addio alla Lira, tuttavia, non ha portato con sé grandi strascichi. La memoria popolare, si sa, è labile. Difatti il valore dell'equivalenza in lire sugli scontrini da noi è durata qualche settimana, in Spagna ancora è in uso, Che sia accaduto perché non era opportuno che gli italiani capissero? Sta di fatto che, anche con l'Euro, si è continuato a spendere e ad espandere il debito senza mai porsi il problema del rientro.


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La sveglia ad un certo punto l'ha data l'Europa: senza conti in ordine non solo non si cresce ma si mette a rischio l'intero sistema europeo e dell'Euro. E sono arrivate, sotto gli occhi vigili del Cerbero teutonico, misure quali i patti di stabilità, i fiscal compact, le troike, i monitoraggi, i limiti agli aiuti di Stato, che oggi vengono definite, per lo più dai denigratori, "politiche di austerità". Tali politiche, non di austerità ma di buon senso, ancorché accettate e sottoscritte da tutti i Paesi membri dell'Unione, per effetto di una crisi economica globale senza precedenti, hanno cominciato ad essere criticate da più parti, finanche derogate come ha annunciato di voler fare la Francia, che pure ha un debito galoppante e come già fece la Germania. Eppure, la virtuosa Irlanda, dopo averle scrupolosamente applicate ha ripreso a crescere al tasso del 7% annuo. Il governo Renzi che culturalmente si colloca nel "partito della spesa" ha cominciato a mordere il freno, persino l'austero Padoan ha mostrato qualche segno di insofferenza verso il fiscal compact. Qualcun altro, non si sa bene ispirato da chi, sta promuovendo un referendum per abolire le norme più stringenti che l'Italia si è data in un guizzo di resipiscenza arrivato nel momento sbagliato, quando si pensava, non senza supponenza, che il "Salva Italia" avrebbe davvero sortito qualche salvifico effetto. Che fare? Rompere con l'Europa e le sue regole, rischiando pesanti sanzioni, o trovare una soluzione alternativa? Forse si potrebbe cominciare aggredendo l'immane debito pubblico. Questa sì una riforma utile e vantaggiosa. Piuttosto che fare spezzatino dei gioielli di famiglia, "privatizzandoli" all'italiana e senza sostanziali benefici, non sarebbe ora di costituire un "Fondo Italia" in cui mettere tutti i beni pubblici, mobili e immobili (si stima un valore di 600/700 miliardi). A tale fondo andrebbe garantita una gestione trasparente e professionale, poi le quote si potrebbero offrire, in concambio, ai detentori di debito pubblico, i quali ci guadagnerebbero nell'ottenere in cambio di un semplice pagherò dello Stato, quote con sottostanti beni reali, passibili di incremento di valore nel tempo e con probabili dividendi superiori ai tassi sui titoli. In tal modo si potrebbe ridurre di un terzo il debito e di più di un terzo gli interessi sul debito per effetto del minor rischio sulla massa complessiva. In altri termini: una trentina di miliardi cash per avviare la ripresa senza tradire gli impegni assunti con l'Europa. Gustavo Peri

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IL DESTINO DI UN PAESE In Francia la Terza Repubblica venne proclamata il 4 settembre 1870. Nel bel mezzo della rivoluzione di Parigi, seguita al crollo del "castello di carte", come lo definisce Friedrich Engels nella sua introduzione a "La guerra civile in Francia" di Karl Marx. Lo sciovinismo era stata la cifra distintiva del sogno neoimperialista della borghesia francese. In realtà esso era servito a nascondere le mire di Napoleone III che aveva guidato e protetto una banda di avventurieri della politica e della finanza al saccheggio della nazione. Per deviare l'attenzione dai propri errori l'imperatore spinse il paese alla guerra contro la Prussia invocando un supposto diritto divino alla riconquista della sponda sinistra del Reno. La sconfitta a Sedan, il 2 settembre 1870, che aveva portato alla fine prematura del Secondo Impero, con la cattura di Napoleone III, innescò in Francia un drammatico stato d'instabilità. L'acme della crisi si raggiunse quando il "governo di difesa nazionale", insediatosi in via emergenziale dopo la disfatta di Sedan, non riuscendo a contenere la rabbia popolare, dovette abbandonare la capitale per trovare riparo a Versailles. Furono i giorni della Comune di Parigi. Un'esperienza di autogoverno del popolo riunito in assemblea e diretto dai capi vetero-socialisti, blanquisti e prohudoniani, che avevano occupato il campo lasciato libero dai conservatori del partito del primo ministro. Le masse prendevano il potere proclamando la dittatura del proletariato. Si trattò di una meteora perché l'autogestione della capitale durò solo 54 giorni, dal 28 marzo del 1871. L'esercito guidato dal primo ministro Thiers rientrò a Parigi il 21 maggio dello stesso anno, riprendendo le redini del potere. Per la sinistra la Comune fu un'epopea gloriosa, come in precedenza lo era stata un'altra meteora: la Repubblica Napoletana del 1799, vulnerata dagli errori tipici dell'infantilismo politico, proprio delle avanguardie intellettuali della borghesia. L'esperienza parigina aveva consentito ai marxisti di consolidarsi nell'idea che la classe operaia, una volta giunta al potere, dovesse disfarsi prontamente di tutta la macchina statale e del suo apparato repressivo. La rappresentanza del popolo, come l'intera struttura della pubblica amministrazione, avrebbe funzionato solo se sottoposta al principio di revocabilità senza eccezione e senza limite di tempo. Per la maggioranza dei francesi si trattava, invece, dell'ennesima sciagura toccata a un popolo vinto non tanto dalla superiorità bellica germanica quanto dalla propria incapacità a uscire dalla crisi economica che devastava il paese rendendolo fragile preda degli appetiti stranieri. Altra epoca, altro scenario. Dopo anni di perdita di ricchezza nazionale e di crisi occupazionale un altro paese, l'Italia, si trova a fare i conti con l'aggressività di altri Stati che, mutatis mutandis, non si esprime più come una volta con la bocca dei cannoni ma, nel tempo storico della


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globalizzazione, si avvale di strumenti altrettanto distruttivi quali la speculazione finanziaria, i differenziali di rendimento sui titoli del debito sovrano, le classificazioni di merito delle agenzie di rating, il saccheggio industriale e la competizione commerciale senza regole. La "Seconda Repubblica" italiana, nata dalle ceneri della "tangentopoli" dei primi anni novanta del secolo scorso, fatte le debite differenze, somiglia un po' a quella francese di oltre un secolo orsono. Ne ripete alcuni tratti particolari, nella durata relativamente breve, nell'intensità della crisi economica da cui è attraversata, nell'incapacità delle classi dirigenti a dare risposte adeguate, nelle ruberie di Stato coperte da una politica inerme se non complice di un'altra banda di avventurieri della finanza. Poi uno stesso nemico e un uguale rischio di esalare l'ultimo respiro. E il sangue. Quello dei suicidi di tanta brava gente disperata che prende il posto dei morti in battaglia. La storia non si ripete mai allo stesso modo. E' una regola aurea. Tuttavia, vi sono delle circostanze nelle quali si possono fare dei paralleli, non del tutto campati in aria. Qualcuno ha ipotizzato un altro paragone: l'Italia di oggi come quella del '45. Non condivido. E' vero che anche allora vi erano devastazioni e macerie. Vi era la fame e la disperazione di un paese in ginocchio. Però, a quel tempo, si respirava l'eccitazione dei sopravvissuti che volevano ricostruire. Soprattutto c'erano i soldi dei vincitori d'oltreoceano che non avevano alcuna intenzione di fare dell'Europa una terra di conquista per la propagazione del comunismo sovietico. La Germania usciva sconfitta dal conflitto, come l'Italia. E come all'Italia non le era concesso molto tempo per fare i conti con un passato da dover rimuovere totalmente. Nulla adesso è come allora. C'è oggi una Germania, ricostruita nella sua dimensione territoriale, che ha ritrovato il piglio della grande potenza di scacchiere. La politica della sua odierna classe dirigente è molto più aggressiva che nel passato. La signora cancelliera Angela Merkel sta reinterpretando il significato dell'Unione europea secondo il canone pangermanico del continente quale scenario naturale di espansione dell'egemonia tedesca. La sciagurata gestione della crisi ucraina ha messo in evidenza che l'aspirazione dei tedeschi al "Lebensraum", la conquista dello spazio vitale a Est, non è mai davvero tramontata. Al contrario, oggi appare più viva che mai. La voglia di piegare gli Stati europei alle proprie logiche di sviluppo appare del tutto simile alla vocazione imperialista del Secondo Reich, sorto sui campi di battaglia della guerra franco-prussiana, con la non lieve differenza che a quel tempo a rappresentarne la forza dominante vi era un gigante della statura di Otto Von Bismarck. Costui, per quanto fiero di essere uno junker prussiano, seppe temperare le smanie di potenza della Germania guglielmina, che aveva raggiunto l'unità statuale della nazione e, con essa, una straordinaria crescita economica. Bismarck contrastò militarmente la debole Francia, annichilendo i tentativi bonapartisti di mettere i piedi sulla sponda sinistra del Reno, ma seppe fermarsi in tempo e mettere le cose in modo che la vittoria non gli si ritorcesse contro. Era a Parigi con le sue truppe, nei giorni della Comune, ma si guardò bene dall'intervenire nella guerra civile in corso evitando che la già pesante sconfitta si tramutasse in un'umiliazione ancora più grande per i francesi. L'attuale inquilina della Cancelleria di Stato questa sensibilità mostra di non averla. E' anche per questo che non vale un'unghia del suo omologo di centocinquant'anni

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fa. Bismarck, da cancelliere del Reich, soleva ribadire "il mio mestiere consiste nel preservare la pace in Europa". E' evidente che la sua epigona dei giorni nostri faccia un altro mestiere. Nel volgere di pochi anni, il gruppo di potere della Germania è divenuto blocco egemone nell'ambito comunitario e, per quante responsabilità individuali abbiano i singoli Stati, non v'è dubbio alcuno che ciò che sta accadendo vada ascritto al disegno strategico di Berlino che non nasconde più le sue intenzioni di predominio nel perimetro continentale. L'idea è quella di un' Europa destinata a servire gli interessi del nuovo Reich, il quarto. Ad esempio, il meccanismo del fondo "salva stati", gestito dalla Bce si è trasformato in un comodo strumento "salva banche" tedesche a spese di tutti gli altri paesi dell'Unione. Dietro un insopportabile moralismo teutonico si nasconde la prepotenza di un Paese che ha scambiato il contesto comunitario per un bancomat attraverso il quale ripianare le perdite del proprio sistema finanziario privato. L'assurda gestione della crisi greca docet. Anche la scelta di ostacolare il processo di integrazione della Federazione russa nel contesto geopolitico continentale risponde perfettamente alla medesima logica di potenza. Mosca avrebbe dovuto essere un partner organico della politica comunitaria, non soltanto il mercato di sbocco delle produzioni europee, tedesche in testa. L'integrazione russa avrebbe significato maggiore equilibrio nei rapporti di forza tra partner europei. Soprattutto avrebbe determinato il consolidamento di un'Unione a più voci, contrariamente a quanto accade oggi dove, con la crisi dell'economia francese e il marcato distacco della politica inglese da quella continentale, l'unica voce che realmente conta è quella tedesca. Berlino - con l'appoggio dell'Amministrazione Obama, la peggiore che la storia degli Stati Uniti ricordi almeno dalla presidenza di Herbert Hoover, quella della grande depressione del '29-, sta trascinando l'Unione europea a uno scontro frontale con il gigante russo. Per ora soltanto economico. Ma con la destabilizzazione dell'Ucraina e la pretesa di farne una spina nel fianco di Mosca, non è dato di sapere se il conflitto si manterrà sul piano esclusivamente economico-commerciale o, invece, muterà configurazione nei prossini mesi. L'Italia odierna appare strangolata, come neppure la Francia fallimentare del Secondo Impero lo fu. La perdita costante di competitività è un dato strutturale che tende a consolidarsi. E' inutile illudersi, il nostro paese è sulla china del progressivo impoverimento. Non si produce perché non c'è domanda interna. Non c'è domanda perché è crollata l'occupazione. Non c'è occupazione perché nessuno, visti gli alti costi, l'impossibilità dell'accesso al credito e l'eccessivo carico fiscale, ha più voglia d'intraprendere. Così si chiude il cerchio mortale che sta ammazzando l'Italia. Si invocano le riforme come un mantra. Ammesso che si facciano, basterebbero da sole a riavviare il sistema? Assolutamente no. Nel contesto della società globale è il mercato che detta le regole. E l'unica regola che, con scellerata colpevolezza, l'Occidente industrializzato ha accettato è stata quella di non avere regole. La sfida della qualità delle produzioni può valere soltanto per alcuni specifici settori di mercato. Ciò che fa massa critica, invece, resta la quantità. Le produzioni italiane che un tempo recavano ricchezza non reggono il confronto con la concorrenza dei prezzi. Neanche è immaginabile che si accetti la sfida abbattendo all'inverosimile il costo della manodopera.


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Non è ipotizzabile che per produrre si riportino indietro le lancette della storia, al tempo in cui la forza-lavoro era pressoché schiava del capitale. E lo Stato che fa? Nulla. In pratica è rimasto paralizzato a metà del guado. Ha dismesso buona parte della sua missione sociale senza riuscire a evolversi verso il modello di ente sussidiario, auspicato dai teorici del liberismo. E' ancora troppo pesante, come un elefante. Ha un organico impegnato nella pubblica amministrazione insostenibile, ma non ha migliorato la qualità dei sevizi offerti al cittadino. Si autoalimenta attraverso una macchina burocratica che è un incubo per chiunque vi abbia a che fare. Ha un debito pubblico colossale che impedisce qualsiasi ipotesi di investimento, ma succhia danaro senza fine ai cittadini e alle imprese. E' per questa ragione che, nonostante i patetici contorsionismi degli ultimi tre governi, sostanzialmente commissariali, il "sistema- Italia" non riesce a ripartire. La produzione industriale resta in calo costante a dispetto dei giochi da illusionista del premier Renzi. Il Prodotto Interno lordo è in picchiata al punto che tutti gli indicatori economici segnalano la persistenza della fase depressiva dell'economia. La disoccupazione è schizzata a livelli record mentre il numero di cittadini precipitati sotto la soglia di povertà è superiore a 8milioni. Per reggere la stabilità dei conti pubblici all'interno dei parametri di deficit imposti dai trattati dell'Unione europea i governi che si sono succeduti hanno dovuto fare ricorso in modo crescente alla leva fiscale per drenare risorse finanziarie. Il risultato è che famiglie e imprese soffocano sotto il peso di una tassazione insostenibile. Da qui i primi episodi di ribellione e d'intolleranza sociale che sono sfociati in scontri aperti con le forze dell'ordine. La cosa grave è che si è solo all'inizio. La previsione resta negativa. Senza una riforma profonda delle istituzioni della Repubblica che accompagni coraggiose scelte in materia economica e sociale, difficilmente il paese potrà sottrarsi al suo destino di nazione vinta. Le forze politiche, attualmente in campo, non sono in grado di trovare soluzioni efficaci per tirare l'Italia fuori dai guai in cui si è cacciata. Nessuno, forse ad eccezione della Lega di Salvini, mostra di avere la benché minima idea su dove condurre il paese. Ciò che manca non è soltanto il danaro. La verità è che si è a corto di idee. Se una nazione ha cessato di pensare, lasciandosi andare alla politica del galleggiamento in superficie, non potrà fare leva sui suoi fondamentali etici per riprendersi. E' pur vero, come sosteneva Giuseppe Prezzolini, che il popolo non fa la rivoluzione per la libertà ma per il cibo. Tuttavia, la mancanza di elaborazione ideologica dell'assetto futuro di una comunità in relazione alla sua collocazione geopolitica, alle sue fonti di approvvigionamento di materie prime, alle sue vocazioni produttive, alle dinamiche interne dei rapporti di classe, ai bisogni dei suoi territori, crea i presupposti favorevoli alla frantumazione degli equilibri sociali. Il rischio di una deriva autoritaria, quale risposta repressiva alla disgregazione del sistema, diventa l'alternativa concreta al deficit di coesione conseguente alla rottura del patto sociale. Per evitare che si finisca per affogare nel sangue le conseguenze di tutti gli errori compiuti dalle classi dirigenti, la sola via d'uscita praticabile diviene quella di resettare il sistema per ripartire punto e a capo. La "seconda repubblica" è finita. E' inutile raccontarsi storie. E' giunto il momento di stipulare un nuovo patto su premesse diverse da quelle che condussero alla nascita, per partenogenesi, della repubblica che oggi si vorrebbe seppellire.

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Condizione indispensabile perché questo processo si attivi nel senso giusto sarebbe che tutte le parti siano in grado di portare proposte chiare e visioni realizzabili di una società da riformare alle radici. E' possibile che ciò avvenga? Francamente penso che sia molto improbabile che chi finora non ha saputo spiegare da che parte volesse dirigere il paese, chi non ha mostrato di avere un'idea concreta ma di conoscere solo slogan e luoghi comuni, all'improvviso ritrovi la forza di elaborare un piano strategico convincente. E' probabile, sebbene non auspicabile, che la nostra società debba passare per una fase fortemente traumatica, prima di ritrovare la propria strada. Le piazze non vanno invocate. Tuttavia, quando il sistema rischia d'implodere per effetto della paralisi a cui si è condannato, la violenza può essere, per quanto deprecabile, un mezzo di risoluzione. La Terza Repubblica di Thiers nacque sul sangue dei francesi. Gli stati sono nati sul sangue dei popoli. Sarebbe doloroso che anche la "terza repubblica" italiana dovesse sorgere dal sangue, dal ferro e dal fuoco. Non lo auguro. Non lo auspico. Ma bisogna essere realisti. Se anche solo un quarto della popolazione di questo paese non avrà più come sfamarsi, pensate che se ne resterà buona e tranquilla ad attendere il giorno della dipartita senza far rumore e senza creare fastidio ai pochi privilegiati che continuano a sguazzare nell'oro? Personalmente non credo che ci sia ancora in giro tutta questa pazienza da elargire a piene mani. Una nuova classe dirigente sorgerà. E' inevitabile. Ma non vi sarà ricambio fin quando non sarà spazzata via l'attuale banda di briganti che popola i salotti tarlati dell'establishment politico-finanziario nazionale. E' sempre accaduto nella storia, perché ora dovrebbe essere diverso? Perché è più debole l'uomo della strada o sono tanto più forti loro, i signori dei "poteri marci"? Cristofaro Sola


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MILIZIE ISIS ADDESTRATE DAGLI 007 ITALIANI La linea generale tenuta dalle democrazie occidentali in materia di riscatto per la liberazione degli ostaggi è quella di evitare l'esborso economico. Ne è eccezione l'Italia, con riferimento particolare al caso di Federico Motka: quando un cittadino viene rapito all'estero, l'Unità di crisi della Farnesina attiva immediatamente i consulenti dell'ambasciata più vicina al luogo in cui è avvenuto il sequestro. Dal momento della segnalazione del rapimento di Motka, gli uomini dell'Aise, l'Agenzia informazioni e sicurezza esterna, hanno attivato i contatti con fonti ed informatori locali per scoprire le modalità del sequestro e le eventuali richieste dei rapitori. I servizi italiani hanno chiesto ed ottenuto l'aiuto del servizio segreto turco per il pagamento del riscatto. Infatti, sono stati gli stessi uomini dell'intelligence turca a consegnare materialmente i contanti in cambio dell'ostaggio italiano, come già avvenuto per Domenico Quirico. I servizi hanno stanziato dal budget coperto dal segreto di Stato 6 milioni di euro. Soldi traghettati dall'intelligence dalla Banca d'Italia fino agli intermediari turchi. E' da sottolineare che l'operazione è del tutto lecita. Difatti, alla voce "spese riservate" del bilancio Aise, è contemplato lo stanziamento straordinario di ingenti quantità di denaro, utilizzati per la sicurezza dei cittadini all'estero. Il denaro è stato affidato ai turchi del Mit, i quali lo hanno materialmente consegnato ai miliziani che detenevano Motka. La finalità di non trattare con i terroristi è principalmente quella di evitare il finanziamento delle fazioni estremistiche, ma in questo caso, come anche nei precedenti, i soldi sono serviti per implementare le risorse dell'Isis. Il contributo italiano, involontario ma non per questo giustificabile, nell'incremento delle capacità del Califfato, è sempre responsabilità dei servizi segreti. Infatti l'Aise, nel corso dell'ultimo anno e mezzo, ha addestrato miliziani islamisti sunniti che, nei mesi successivi, sono passati con lo Stato Islamico o ne sono diventati fiancheggiatori e simpatizzanti, portando a corredo armi ed addestramento 1. Nel tentativo di rovesciare il regime di al-Assad, furono inviati due team dell'Aise in altrettanti campi di addestramento, uno in Giordania e l'altro in Turchia. Il loro l'incarico era quello di fornire sostegno alle formazioni moderate che si contrapponevano al Governo siriano. Ufficialmente l'Italia avrebbe fornito "aiuti militari non letali" al frammentato fronte dell'opposizione armata siriana, ossia assistenza tecnica, formazione ed addestramento. I due team composti da dodici agenti, sei in Turchia e sei in Giordania, hanno addestrato i miliziani sunniti con una turnazione senza soluzione di continuità: 12 agenti per 30-40 giorni sul campo che poi rientravano in Italia per essere sostituiti da un secondo staff di egual numero.

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Lo Stato Islamico è cresciuto sia in uomini che mezzi, incorporando nelle sue fila gran parte delle formazioni sunnite. Tra questi, in molti erano passati per i campi di addestramento dove avevano operato come istruttori e consiglieri gli agenti segreti italiani. Di fatto, il sedicente amico, si è trasformato nel peggior nemico, dunque, i decision makers italiani (ma anche di altri paesi come Usa, Qatar, Turchia ed altri paesi europei) hanno la responsabilità di non aver previsto le capacità di crescita dell'esercito islamico e di aver sottovalutato il senso di frustrazione delle comunità sunnite, soprattutto in Iraq, contro il governo a guida sciita. Proprio l'appoggio di quelle tribù è risultato decisivo per il salto di qualità dell'Isis. Un ulteriore aspetto della scarsa capacità predittiva dell'Aise, è in una lettera recapitata ai vertici dei servizi italiani dai curdi, nella quale si accennava ad Abu Bakr al-Baghdadi come leader di una temibile fazione eversiva in continua evoluzione, talmente pericolosa da potersi tramutare in un futuro temibile pericolo. Quale sia stato l'esito dell'allarme curdo non è trapelato, ma nel contempo l' Isis si è trasformata in una minaccia globale. Tra le probabili conseguenze a tale condizione, è la possibile emulazione di atti anti occidentali ad opera di cellule dormienti affiliate al Califfato, ma residenti in Europa e Stati Uniti, le quali potrebbero mettere in atto azioni terroristiche non pianificate dalla governance centrale dell'Isis, attacchi che tecnicamente sono definiti come atomizzazione dell'eversione. La prevenzione in questo caso è più complicata, perché gli obiettivi sono imprevedibili. Lo Stato Islamico tende ad una unificazione del mondo musulmano per imporre la supremazia sunnita sugli sciiti e sui cristiani, pertanto, lo stesso Pontefice è un possibile obiettivo, e sembra che un attentato sia già stato pianificato: l'attacco dovrebbe essere compiuto con un drone, forse durante una delle tante apparizioni pubbliche di Bergoglio, il quale non rinuncia mai ad abbracciare i fedeli. Diceva il ministro degli Esteri iraniano Mohamad Javad Zarif all'assemblea generale dell'Onu: "L'Isis è un Frankenstein tornato a divorare i suoi creatori". E forse non aveva tutti i torti. Giovanni Caprara*

Note: 1) Cfr. Chris Bonface, “Il governo striglia gli 007: abbiamo addestrato gli assassini“, Libero, 26 ago 2014 * Studioso di politica internazionale e geopolitica, nel 2010 ha pubblicato il techno thriller “Bersaglio Nucleare” edito da Edizioni Progetto Cultura. Scrive articoli di geopolitica, filosofia politica, militaria e storia militare per le seguenti riviste: Notizie Geopolitiche, Eurasia, Conflitti e Strategie, Centro Studi Strategici Carlo De Cristoforis, Talento nella Storia e Tuttostoria.


CULTURA/L’INTERVISTA

ANDREA CARANDINI Presidente del Fai e già presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali dal 2009 al 2012, Andrea Carandini è archeologo di fama mondiale nonché autorità riconosciuta nella tutela e nella promozione del patrimonio artistico e paesaggistico. Già ordinario di Archeologia e Storia dell'Arte greca e romana all'Università La Sapienza di Roma, a lui si devono gli scavi sulle pendici del Palatino che consentono di ricostruire momenti della storia di Roma dapprima confinati nel mito. In questa intervista a Confini, Carandini ribadisce l'importanza della cultura nella costruzione dell'identità nazionale. L'articolo 9 della nostra Costituzione assegna alla Repubblica il compito di tutelare il patrimonio storico e artistico della Nazione. La prospettiva dei costituenti è oggi disattesa? Lei fa riferimento secondo comma quell'articolo. La mancata attuazione del dettato audacia al temeraria igiene dispirituale costituzionale riguarda, piuttosto, il primo comma, dove è scritto che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura. Il Ministero dei Beni culturali si è limitato, al contrario, alla sola tutela, tralasciando del tutto la promozione. La cultura e i beni culturali vanno certamente tutelati, ma la tutela è diretta conseguenza della promozione. La valorizzazione, insomma, è la ragione per cui si tutela e si preserva un bene di interesse culturale. Solo attraverso lo sviluppo, infatti, si può raggiungere il fine primario che è quello di avvicinare sempre di più i cittadini alla cultura. Il Ministero dei Beni Culturali è stato gestito più volte in maniera burocratica e verticistica. Non sono mancati ministri poco competenti che venivano destinati a quella carica per ragioni di equilibrio tra le forze di maggioranza. Come le dicevo il Ministero ha fatto un grande sforzo sulla tutela, ma poco sul versante dell'iniziazione alla cultura. Nel tempo è diventato il Ministero del "no" che, imponendo divieti e dispensando dinieghi, ha finito con l'essere detestato dai cittadini e dagli enti. Tutto ciò ne ha inevitabilmente indebolito il potere e, di conseguenza, reso difficile anche l'attività di protezione, in particolar modo quella paesaggistica. E' mancata, comunque, la funzione essenziale, quella della promozione. A questa situazione

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pone riparo la riforma Franceschini. Così come nella Costituzione vi sono due commi ben distinti, così anche la nuova organizzazione del Ministero colloca su due piani diversi tutela e valorizzazione. In altri Paesi europei vi è orgoglio per la storia e la tradizione nazionale, che vive nei monumenti, nei musei, nei palazzi storici. In Francia qualche anno fa è stato istituito il Museo della Storia di Francia. Perché in Italia non è mai sbocciato questo sentimento? Purtroppo nel nostro Paese è molto difficile raccontare la storia nazionale. Qualche tempo fa con Ernesto Galli della Loggia avevamo lanciato, dalle colonne del Corriere della Sera, l'idea di dar vita ad un Museo della Storia Nazionale. Pensi cosa potrebbe rappresentare un Museo del genere al Quirinale. Ma la nostra proposta non ha interessato nessuno e non è stata mai vagliata seriamente. Bisogna, dunque, cercare altre strade. L'iniziativa "I Luoghi del Cuore", con cui il Fai chiede ai cittadini di segnalare monumenti e luoghi da proteggere e da non dimenticare, ha raccolto quest'anno un milione e trecentomila segnalazioni. Questo è un esempio di come si può fare promozione avvicinando e facendo affezionare gli italiani al nostro patrimonio. La realtà culturale va diffusa attraverso una forte azione di promozione altrimenti i principi contenuti nella Costituzione rischiano di rimanere lettera morta. Vede, la Costituzione è una bussola e bisogna navigare nella direzione da essa indicata. Anche perché la mancata promozione del patrimonio non favorisce l'affermazione di un sano sentimento dell'identità nazionale. E' fuor di dubbio che l'identità italiana si stia lentamente affievolendo. Vede, le due grandi conquiste dell'Occidente sono state il diritto, che proveniva dalla civiltà romana e che era il diritto dei diseguali, e la diffusione l'insegnamento di Gesù e di San Paolo che affermavano che tutti gli uomini sono uguali. Oggi viviamo in una società completamente "sbrindellata" caratterizzata da uno sfrenato individualismo. Mancano i legami tra gli individui. Ma l'identità non è mai individuale, bensì identità di gruppi, di luoghi e di Nazione. Ogni soggetto è in primo luogo membro di una scalarità di strutture comunitarie, a partire dalla famiglia. E mentre in Oriente i legami comunitari continuano a rimanere saldi, in Occidente si è perso completamente il senso della comunità, complice un diffuso internazionalismo che può anche distruggere le identità nazionali. La verità è che, senza riconoscibilità dei luoghi e delle tradizioni, non vi può essere un'identità condivisa . La storia d'Italia è fortemente segnata dal rifiuto della tradizione, pensi ai liberali nei confronti del Risorgimento, al fascismo verso l'Italia liberale ed, infine, al rifiuto del fascismo nell'Italia Repubblicana. Tale atteggiamento, però, non fa altro che distruggere le radici identitarie. Credo, invece, che la tradizione vada perlomeno vagliata.


CULTURA/L’INTERVISTA

Di fronte all'inefficienza della mano pubblica rispetto alla gestione dei beni culturali, si continua ad invocare l'intervento dei privati. Quale è la sua opinione al riguardo e cosa ne pensa dell'Art Bonus, che prevede un credito d'imposta del 65% per le donazioni a favore di interventi di manutenzione e restauro di beni culturali pubblici? Il limite dell'Art Bonus è che non riguarda i beni privati. Ritengo, infatti, che non sia importante lo status giuridico del bene quanto la sua destinazione ad uso pubblico. Consideri, ad esempio, il Castello di Masino (in provincia di Torino, ndr) che è un bene del Fai e che è aperto al pubblico. Ad esso non può applicarsi l'Art Bonus in quanto la proprietà non è pubblica. Lo status giuridico non può allora, a mio avviso, diventare elemento dirimente. D'altronde, ciò che interessa al visitatore è poter accedere al bene e godere delle sue bellezze senza operare distinzioni di alcun genere. Un altro duro colpo all'intervento sussidiario dei privati è stato l'innalzamento della tassazione per le Fondazioni di origine bancaria. Se si toglie linfa anche a queste ultime si provoca un danno enorme ai territori, che traggono grande giovamento dall'attività culturale delle Fondazioni. In definitiva, direi che siamo in presenza di un governo dall'agire contraddittorio che in alcuni casi apre e in altri chiude. E' un governo che non ha una visione definita e che non riesce a stabilire delle priorità. Non si comprende che i servizi sono, al contrario di certa industria, l'unico settore che ha un futuro. Siamo un Paese molto appetibile per la Cina e per gli altri Paesi in via di espansione, ma per esserlo ancor di più dobbiamo assolutamente puntare sui servizi. E' inutile continuare a produrre ciò che in Cina viene prodotto ad un costo infinitamente inferiore. E siamo alla sussidiarietà culturale. Si fa strada l'affido di piccoli siti di interesse storico e paesistico ai privati secondo indicazioni di interesse collettivo che provengono dalla Pubblica Amministrazione. Credo che proprio il Fai, con la sua azione, rappresenti al meglio il principio di sussidiarietà applicato alla cultura, cui lei fa riferimento nella domanda. Le tantissime segnalazioni che arrivano ogni anno per l'iniziativa "I Luoghi del Cuore" non sono altro che l'espressione della volontà dei cittadini che viene poi trasmessa allo Stato. In tal modo, inoltre, il Fai cerca di parlare a tutti i cittadini e non solo ad una ristretta élite. Detto ciò, la sussidiarietà va promossa e facilitata attraverso linee guida sulla valorizzazione e sulla gestione dei beni culturali. Ad aprile 2015 il Fai organizzerà un convegno sulla gestione dei beni culturali perché pensiamo sia inutile e dannoso restaurare un monumento senza pensare alla successiva gestione. E' necessario, al contrario, prevedere una gestione che sia compatibile con il monumento e sia finalizzata alla sua promozione.

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Peraltro il patrimonio paesaggistico è continuamente messo in pericolo da un'edilizia incontrollata e dal dissesto idrogeologico. Purtroppo lo Stato non obbliga le Regioni a fare i piani paesaggistici. In tale direzione però si intravedono dei segnali positivi. A proposito di protezione paesaggistica le racconto un episodio che ben rappresenta le difficoltà di promuovere, anche in questo ambito, l'intervento sussidiario dei privati. Nel lontano 1976 il progetto paesaggistico per la protezione dell'Umbria, pensato da Giovanni Urbani, rimase lettera morta per la ferma avversione del Partito Comunista che non vedeva di buon occhio il fatto che il piano fosse finanziato dall'Eni. La sussidiarietà, insomma, ha incontrato nel tempo forti opposizioni. In tal modo, però, si è consentito all'edilizia selvaggia di distruggere il territorio. Nel nostro Paese la spesa per la cultura incide appena dello 0,60 sull'intera spesa pubblica e, nella migliore delle ipotesi, un cittadino su due legge almeno un libro all' anno. Vede, in passato non ci si è mai posti il problema della diffusione culturale perché eravamo in presenza di una società marcatamente borghese ed elitaria, caratterizzata dai grandi licei classici. Oggi le persone leggono poco e, più in generale, hanno grandi difficoltà ad avvicinarsi alla cultura. La situazione è molto grave e sembra quasi di essere tornati al Medioevo. Il ceto medio non è riuscito a crearsi un proprio spazio ed un proprio accesso in ambito culturale, provando unicamente a copiare maldestramente il modello borghese. Le Guide Rosse del Touring Club, per dirne una, sono ormai strumenti di un tempo passato mentre oggi vi sono delle tecniche straordinarie per narrare coinvolgendo le persone. Ho portato, ultimamente, i miei due nipoti a vedere lo spettacolo di Piero Angela, al Foro di Augusto, in occasione delle celebrazioni per il bimillenario della morte dell'imperatore. Sono rimasti entusiasti dei filmati multimediali e delle ricostruzioni che mostravano i luoghi così come si presentavano al tempo di Augusto. E allora Professore come è possibile rendere i più giovani partecipi di un grande progetto di tutela e promozione dei beni culturali? Vede, viviamo in una società influenzata dalle opinioni di grandi soloni radicali e, di fatto, conservatori. Tutto ciò è frutto di una certa cultura di sinistra bloccante e conservatrice. Oggi i nostri studenti universitari continuano ad esercitarsi su tesi teoriche e non applicative e questo perché le nostre facoltà umanistiche non mantengono nessun contatto con le Sovrintendenze e con le loro competenze. Il risultato è che ci ritroviamo in una situazione in cui nessuno sa "fare". Al contrario l'arte del fare è fondamentale in uno Stato moderno ed efficiente.


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E di fronte a questo cupo scenario la politica continua a latitare. Il problema è che manca completamente una visione per il futuro, la capacità cioè di comprendere quale può essere la vocazione del nostro Paese. Cercare di capire, insomma, quali sono le eccellenze per le quali l'Italia può spiccare nel Mondo. C'è bisogno di una grande visione dell'Italia che consenta di stabilire a priori cosa si intende fare da qui ai prossimi dieci anni almeno. Penso si debba provare ad unire tutte le istituzioni e tutte le forze sociali per porre in essere una visione fatta di programmi concreti e realizzabili. Penso ad un grande New Deal della cultura che abbia come protagonisti i giovani senza lavoro e che riguardi, in primo luogo, il mondo dei servizi, l'unico settore che potrà avere un effettivo sviluppo nei prossimi anni. D'altronde, la valorizzazione di un bene culturale non è altro che la traduzione della tutela in servizi. Ecco perché ritengo che il settore dei servizi possa rivestire un ruolo fondamentale anche in campo culturale. Aprire un bene, raccontarlo: ecco cosa significa offrire un servizio ai cittadini. In tal modo anche per le famiglie è più facile avvicinarsi alla cultura, pensi a un padre di famiglia che inizia ad interessarsi a un determinato monumento e che trasmette al figlio l'amore per l'arte e la conoscenza. In definitiva credo che l'importante sia coinvolgere tutti, e non solo le élites, nella fruizione della cultura. Non tutti sono fanno gli archeologi, c'è tanta gente appassionata che manifesta bisogni culturali che vanno compresi e soddisfatti. La cultura, insomma, non va imposta dall'alto. Giuseppe Farese

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STATO DI DIRITTO E LEGALITA’ Preambolo Questi ultimi sono stati gli anni che hanno segnato la crisi d'identità della destra italiana. Ritrovarsi oggi in un'assise di cittadini motivati a indagare fino in fondo le cause di quella crisi, per prospettare a se stessi e alla società la riformulazione delle ragioni di un'appartenenza politica adeguata al tempo storico è un'occasione irripetibile di dialogo e di confronto che non è dato perdere. Tuttavia, la riflessione su cosa significhi essere di destra, affinché sia efficace, deve prendere le mosse da una metodologia d'approccio orientata alla franchezza e al rifiuto di ogni forma di pregiudizio morale o ideologico. Soprattutto, nessun argomento, per quanto spinoso o scomodo, deve restare fuori dall'indagine critica, e autocritica, che desideriamo porre a fondamento del nuovo corso. Le differenze che le varie anime della destra italiana hanno maturato su temi sensibili nel governo delle istituzioni pubbliche e nella gestione dei rapporti sociali dovranno essere analizzate e discusse senza timori. Esse, certamente, non potranno più essere nascoste come polvere sotto il tappeto per favorire incontri, alleanze o unioni di carattere squisitamente elettorale. In passato, l'aver accettato di recedere dal confronto, in nome del superiore interesse a vincere sull'avversario politico, ci ha condotti a perdere la piena cognizione della nostra identità. La metodologia d'approccio qui evocata non può fare a meno del criterio d'onestà intellettuale con il quale i nodi irrisolti debbano essere aggrediti. Bisogna evitare il pericolo che si assumano scelte il cui unico tratto distintivo sia l'ostilità preconcetta verso le posizioni assunte o appartenute agli altri possibili competitori presenti nella medesima area politica. La passione per la competizione non deve farci perdere di vista la stella polare dei principi e del complesso dei valori non negoziabili sui quali riponiamo la speranza del futuro. L'esperienza del passato resta una via maestra che deve aiutarci nella ricerca dell'orientamento in un contesto politico, sociale ed economico profondamente mutato. Essa, però, non può e non deve costituire la catena che impedisca di esplorare nuovi sentieri, di avere nuove parole d'ordine, di proclamare nuovi convincimenti, di elaborare nuove idee. Gli errori compiuti possono avere valenza pedagogica se si è disposti a riconoscerli come tali e se si è intenzionati a non ripeterli. Tuttavia, ciò non può in alcun modo legittimare comportamenti vittimistici e rinunciatari. Ancor meno può essere d'ostacolo al nostro buon diritto di persone e di cittadini a concorrere alla vita politica della nazione in forma organizzata e a prospettare


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soluzioni all'opinione pubblica senza dover preventivamente ricevere il beneplacito da questo o quel sedicente padrone del campo. Siamo padroni di noi stessi, dei nostri destini e delle nostre idee e nessuno, amico o nemico che sia, può impedirci di esserlo. E' questa la principale ragione per la quale siamo riuniti qui in assemblea a riflettere insieme. Stato di Diritto e Legalità. Premesse Alla luce delle considerazioni svolte in premessa riteniamo che affrontare il nodo irrisolto del rapporto tra i concetti di Stato di Diritto e di legalità rappresenti un primo, decisivo, passo verso un nuovo paradigma dell'azione politica. Tradizionalmente la Destra si è definita legalitaria per contraddistinguersi da una sinistra che si mostrava tendenzialmente ostativa rispetto alla tenuta dell'impianto dei valori sui quali era stata costruita la società italiana. Quegli stessi valori che avevano resistito alla temperie della storia e ai mutamenti delle forme di Stato e di governo che si sono succedute dal momento della ricomposizione dell'unità nazionale. La destra del Novecento ha individuato nella dimensione autonoma e sovrana dello Stato il luogo naturale di ricomposizione organica degli interessi concorrenti delle classi, dei gruppi di pressione, dei corpi intermedi e dei singoli individui. Da questa visione totalizzante dello Stato, depositario e garante dell'interesse supremo della nazione, è discesa l'idea che la società nella sua composizione stratificata, per funzionare senza insostenibili squilibri interni, dovesse essere ordinata al rispetto dell'architettura di norme giuridiche incardinate nel corpo di un dominus, allo stesso tempo propulsore e regolatore della morale pubblica, impersonato dallo Stato etico. Sotto la bandiera del legalitarismo della destra novecentesca si è concentrato, rafforzandosi, l'ideale hegeliano di Stato definito come "sostanza etica consapevole di sé". Lo Stato è divenuto sintesi di diritto e moralità allo stesso modo nel quale ha impersonato la sintesi tra il fattore aggregante che è la famiglia e quello disaggregante che è la società. Per la destra del Novecento è il cittadino che, hegelianamente, trova ragion d'essere nello Stato e non viceversa. La battaglia per la legalità si è tradotta nella difesa dello Stato/organismo vivente dall'aggressione che tutte le forze, interne ed esterne, ad esso nemiche hanno posto in atto per vulnerarne l'integrità. Questa visione ha determinato il contenuto del legalitarismo propugnato a destra. L'interpretazione del concetto di Stato di Diritto in cui si è pienamente riconosciuta l'ispirazione liberale ha, invece, riguardato il principio del primato della legge quale funzione necessaria per la difesa dell'autonomia e della libertà del cittadino, soprattutto rispetto alla forza prevalente dell'interesse pubblico. Nulla, al di fuori del dettato della norma giuridica, avrebbe dovuto condizionare la vita della persona o dell'intera collettività. Neanche il sovrano, che nello Stato repubblicano a forma di governo democratica è il popolo, avrebbe potuto sottrarsi all'imperio della legge. In egual misura lo Stato, nei rapporti con il cittadino, non avrebbe dovuto violare la natura del patto, posto a base della convivenza collettiva nell'ambito della stessa comunità statuale, e garantito dalla carta Costituzionale, fonte giuridica primaria. L'idea di un ordinamento giuridico che regoli l'esercizio dei diritti soggettivi rinvia al principio del garantismo quale prassi

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della democrazia. Esso si associa al principio di protezione del cittadino dall'uso arbitrario dei pubblici poteri. Anche lo Stato di Diritto riconosce il principio di legalità sebbene vi attribuisca diversa accentuazione rispetto a quella che connota il medesimo principio riferito allo Stato etico. Si può dire che esso rappresenti un confine che segna un limite invalicabile. La nostra Carta Costituzionale, benché non ne parli espressamente, richiama il principio di legalità sancendo, all'art.23, che a nessuno può essere imposta alcuna prestazione, personale o patrimoniale, se non in base alla legge. Ancora più chiaramente l'art.25 dispone che: "Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge. Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge". Analisi per una scelta La destra novecentesca ha convissuto con molta difficoltà con la pregiudiziale, di matrice liberale, che venisse espunto dalla struttura della norma giuridica ogni collegamento con una sua possibile natura etica. Tuttavia, essa non ha rinunciato a propugnare la necessità di riconoscere contenuto morale alla legge. Il principio di legalità da mezzo di regolazione di rapporti giuridicamente rilevanti è divenuto, nell'interpretazione della Destra novecentesca, un valore morale costitutivo. Questa visione, posta in rotta di collisione con quella dello Stato di Diritto d'ispirazione liberale, ha creato una contraddizione che ha diviso profondamente il campo politico nel momento nel quale garantisti e legalitari venivano a trovarsi dalla stessa parte. Divisione che si è maggiormente acuita con il succedersi degli avvenimenti dell'inizio degli anni novanta legati al fenomeno di tangentopoli e alla caduta della "prima repubblica". Nella concezione dello Stato di Diritto, le funzioni cardinali sono attribuite a tre diversi e autonomi poteri sovrani: il legislativo, l'esecutivo, il giudiziario. La capacità di tenerli rigorosamente distinti sarebbe stata la garanzia per assicurare il pieno esercizio delle libertà civili e politiche da parte di ciascun cittadino. La crisi che ha condotto, nel biennio 1992/94, al collasso del potere legislativo e di quello esecutivo, caduti sotto i colpi degli scandali per la scoperta della dilagante corruzione all'interno degli apparati pubblici, oltre che nel mondo delle imprese private, ha prodotto la tracimazione del potere giudiziario dal proprio alveo naturale, costituzionalmente definito, per invadere i territori istituzionali abbandonati da una politica in fuga. Il ruolo di supplenza svolto dalla magistratura nella vita quotidiana della repubblica si è protratto fino ai nostri giorni. Ciò che è accaduto non è stato frutto del caso, un incidente della storia. Al contrario si è configurato come il punto di approdo di un lungo processo di conquista che ha portato una componente politicamente motivata dell'ordine giudiziario a porre sotto la propria tutela la democrazia nel nostro paese. La cultura progressista della giurisdizione ha condotto i magistrati a ritenersi legittimati nel ruolo di guardiani di un'astratta morale repubblicana. Lo rivendica Luciano Violante in una sua lucidissima ricostruzione della mutazione genetica della funzione del magistrato nel contesto determinatosi a seguito dei fatti del '92:"È la magistratura ordinaria quella che ha trainato la corsa della giurisdizione a occupare gli spazi dagli


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altri lasciati vacanti". Il recupero della dimensione etica della legge, scaturito dalla cultura progressista della giurisdizione ha determinato confusione nei ranghi della destra. Inizialmente, vi è stata adesione, anche entusiastica, all'azione moralizzatrice della magistratura. Si è vista in quella vicenda l'occasione di affermare nuovamente l'aspirazione alla legalità come a un valore fondante della destra politica. Salvo poi accorgersi che, dietro il vento moralizzatore, fosse celata una volontà di potenza di un potere sovrano dello Stato che agiva per farsi potere sovraordinato a tutti gli altri nella regolazione della vita delle istituzioni pubbliche e di quella dei privati cittadini. E' anche accaduto che una sinistra depotenziata dalla perdita del suo collante ideologico, sepolto sotto le macerie del muro di Berlino, abbia visto materializzarsi l'opportunità di chiudere i conti con i propri avversari sposando acriticamente la causa di un neogiustizialismo all'italiana. E' passata l'idea che, in nome della morale, si potesse praticare giustizia sommaria per fare pulizia di quanto di marcio vi fosse nella politica. Certamente, il solo appellativo di "giustizialista" ha prodotto, nella destra, non poche suggestioni dal momento che il "giustizialismo" come dottrina politica rimandava alla figura, non estranea alla destra internazionale, di Juan Perón. Ma nell'Italia del dopo tangentopoli, l'idea di fare giustizia sarebbe stata adattata anche a strumento per eliminare gli avversari dalla lotta politica servendosi del lavoro dei magistrati. In concreto, l'affermazione del giustizialismo nella vita pubblica del paese ha determinato una sospensione dello Stato di Diritto. Avrebbe potuto la destra legalitaria accettare una tale deriva autoritaria? Dobbiamo ammettere che questo dilemma dalle nostre parti è stato vissuto come una contraddizione irrisolta. Da un lato la volontà di non ammainare la bandiera dell'etica pubblica a presidio della politica, dall'altro la necessità di stare all'interno del perimetro segnato dallo Stato di Diritto come prova di emancipazione democratica da un passato negativo. Purtroppo dobbiamo ammettere che, trascorsi venti anni, quel dilemma ontologico è ancora lì che attende di essere risolto. L'incontro con la destra liberale, all'alba della "seconda Repubblica", avrebbe dovuto costituire l'occasione propizia per tentare un confronto dal quale sarebbe scaturita una nuova visione del rapporto tra cittadino -Stato -ordinamento giuridico, quale sintesi tra le due differenti concezioni di Stato. Invece, il frapporsi in questi venti anni della vicenda giudiziaria personale del capo del centrodestra ha provocato l'ibernazione della realtà. Non si è potuto parlare di riforma della giustizia e, allo stesso tempo, non è stata consentita alcuna riflessione serena sulla necessità di riportare il potere giudiziario nel suo alveo naturale, restituendo alla politica il ruolo che la democrazia le assegna. Ora, bisogna riconoscere che tutti, a sinistra come a destra, nelle istituzioni come nell'ordine giudiziario si siano serviti di Berlusconi quale "scudo umano" per ritardare il momento in cui la società italiana avrebbe fatto i conti con un sistema deformato. Anche a noi la sua condizione ha fatto gioco per non vederci costretti a dire da quale parte fossimo schierati. L'alternativa che abbiamo davanti è se intendiamo continuare a sostenere la battaglia per la legalità come fattore etico, o invece, intendiamo dare cittadinanza definitiva nel

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nostro Dna al gene del garantismo, pilastro portante del principio liberale dello Stato di Diritto. Se oggi desideriamo concepire una nuova destra che faccia proprie le ragioni del garantismo dobbiamo essere consapevoli che, in uno Stato di Diritto, non sono i giudici che devono contrapporsi alla cultura dell'illegalità, non spetta al giudice indicare al cittadino la retta via. Non spetta al giudice stabilire chi sia più o meno degno di ricoprire una carica pubblica. Non spetta al magistrato perseguire finalità aliene al criterio di giustizia determinato dall'applicazione fedele e coerente della legge. Dobbiamo, in una parola, dirci pronti a separare la cultura della legalità, che continua ad appartenerci, dalla cultura della giurisdizione che è altra cosa e deve restare tale. In particolare, per quanto riguarda la materia penale l'umano giudicare del magistrato deve limitarsi ad accertare l'illecito e a ordinare la sanzione. Nello Stato di Diritto non può trovare spazio quella teoria (Philipp Heck) per la quale: "in presenza di una lacuna si debba compiere <uno sviluppo assiologico del comando> del legislatore (Wertende Gebotsbildung) tenendo presenti gli interessi che sono in gioco: i giudizi di valore, ispirati comunque a quelli presunti dal legislatore, possono essere formulati dal giudice con una sua valutazione autonoma (Eigenwertung) che integri - senza però contraddirle - le norme dell'ordinamento". Altrettanto non si può accettare l'idea che sia il giudice, e non il popolo sovrano mediante l'espressione del voto, a selezionare la classe politica di questo paese. Abbracciare in toto una scelta garantista impone coraggio. Alcuni tra noi sono propensi a credere che garantismo sia sinonimo di permissivismo. Si teme che siffatta scelta implichi l'accettazione di un sistema fondato sull'impunità di chi delinque, pregiudicando l'interesse generale della collettività. La preoccupazione non è infondata. Il recente passato ci ha restituito storie assai poco commendevoli di uomini delle istituzioni che hanno tradito il mandato ricevuto dal popolo per coltivare i propri affari illeciti. Il dramma di una giustizia lenta e farraginosa ha fatto sì che alcuni di loro la facessero franca sfuggendo al giusto castigo. Tuttavia, se ciò è avvenuto non lo si deve imputare alla presenza nell'ordinamento giuridico di norme che agiscono in difesa del diritto soggettivo, costituzionalmente garantito, ad avere un giusto processo. Non è riducendo le garanzie per l'imputato che si risolve il problema dei tempi della giurisdizione. Il fatto di riconoscerci garantisti ci offre la possibilità di stare all'interno del processo di riforma della giustizia per governarne gli esiti. Diversamente saremmo costretti in un angolo, come anticaglia del passato, lasciando campo libero a coloro che del medesimo concetto garantista hanno finora fatto strame. Altro luogo comune di cui dobbiamo liberarci è l'idea che il garantismo determini l'inefficacia della sanzione. Il fatto di assicurare a ciascun individuo che venga accusato di un illecito il diritto di potersi difendere al meglio, non vuol dire rinunciare a vedere applicata la sanzione ed espiata la condanna, una volta che una sentenza sancisca la responsabilità del reo. L'aspirazione a una società giusta deve procedere di pari passo con l'altra, altrettanto legittima aspirazione, a una società ordinata nella quale il crimine sia perseguito e colpito senza cedimenti.


CULTURA POLITICA

Non vi può essere garantismo a senso unico. Le pene devono essere espiate. Nessuna società può regolarmente progredire se il suo sistema di protezione non preveda la certezza della pena. Altra questione è, invece, il diritto del cittadino riconosciuto colpevole di essere posto nelle condizioni di scontare la sua condanna in un ambiente che ne assicuri l'incolumità e ne preservi la dignità di persona. In passato, la nostra sete di legalità ci ha spinto a essere poco attenti agli obblighi che lo Stato ha nel tutelare anche quei cittadini di cui limita la libertà detenendoli in custodia. Ancora oggi la nostra naturale simpatia per gli uomini e le donne delle forze dell'ordine e dei corpi armati dello Stato ha fatto sì che si fosse molto cauti, se non silenti, di fronte a quei casi nei quali singoli rappresentanti dello Stato si siano macchiati di gravi soprusi nei confronti di persone arrestate o detenute. In tali circostanze non può e non deve valere il falso principio etico che "il fine giustifica i mezzi". Soprattutto quando i mezzi implicano l'uso della forza. Ricostruire una nuova dottrina della legalità che sia declinata secondo la logica del garantismo potrebbe essere la strada giusta per portarci fuori da una contraddizione che ci affligge da troppo tempo. Quel che conta è che sia una sfida di civiltà per la quale vale la pena mettersi in gioco. Cristofaro Sola

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SCIENZA & TECNOLOGIA

L’ETA’ DEL METICCIATO Topi con cellule cerebrali umane, piante con radici ad accrescimento ultrarapido, nuovi robot umanoidi, sms che si autodistruggono, scarafaggi e altri insetti microchippati per fare le spie. Queste alcune novità nel campo della ricerca e dintorni e, guarda caso, su Internet la parola più ricercata sui dizionari on-line è: integrità. Fossi un topo, protesterei con uno sciopero della fame e della sete alla Pannella, per avermi umanizzato il cervello e protesterei pure se fossi una pianta di soia, con le radici tanto esuberanti, da essere necessario un barbiere sempre a "portata di fusto". Se fossi un sms condannato alla cancellazione dopo soli 40 secondi di vita, mi rifiuterei di essere scritto, anche per non far ingrassare i detentori del brevetto, che cuccano quasi un euro ogni volta che mi cancello. Da robot, umanoide lancerei i carrelli della spesa contro i miei inventori, anziché spingerli come uno schiavo fedele e da insetto spia imparerei a dire le bugie. Troppa mancanza di integrità, per questo se ne cerca il significato e il senso. Tutto si fraziona e si rimescola. L'ibridazione è la moda scientifica del momento. Ed è anche la tendenza sociale prevalente. É iniziata l'"Età del meticciato" e non sappiamo dove ci porterà. Le radici ad accrescimento rapido dovrebbero servire per trasformare i deserti, ma qualche tempo fa hanno scoperto che i ghiacciai interagiscono con la luce del sole ed emettono particelle che puliscono l'atmosfera e che gli scienziati ritenevano addirittura nocive. E se anche i deserti avessero una loro funzione in questo pianeta che ci accingiamo a voler trasformare a nostro piacimento? La vita sulla terra è figlia di un delicatissimo equilibro raggiunto in milioni di anni. Se la percentuale di ossigeno presente in atmosfera fosse diversa soltanto dell'uno per cento, non ci sarebbe la vita come la conosciamo o, forse, non ci sarebbe affatto. I topi col cervello umano dovrebbero invece trovare utilizzo nel combattere il morbo di Parkinson. Papa Wojtila, che era afflitto dal morbo, avrebbe mai accettato di essere topizzato per lenire il suo male? La prossima volta toccherà ai serpenti cui instilleremo i veleni umani, così impazziranno e diremo che i mostri striscianti potrebbero servire alla cura delle schizofrenie. Esistono delle barriere che la natura ha posto tra le specie per garantire l'ordine naturale. Quello di abbatterle è solo un sogno schizzato, un incubo, un delirio di oscura onnipotenza. Che sia questa la pandemia profetizzata? Questa volontà di voler mescolare tutto per vedere cosa succede, si riverbera nei costumi. Si mischiano le coppie, le famiglie, i figli, i valori, le regole, i sentimenti, i modi di vita, le razze e le culture. Nei laboratori sociali si appronta l'amore con una vena di odio, la trasparenza fatta di ombre, la lealtà al tradimento, i nipoti con dodici nonni, i figli con otto genitori e gli orfani robotizzati. L'integrità è spezzata, come Excalibur nelle mani di Artù.


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Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

www.confini.org


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