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Aeromensile di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

Nuova serie - Numero 30 Novembre 2014 - Anno XVII

LA RIVOLUZIONE DELL’UNICITA’ : STA FARESE I V TER PE ITA R L’IN IUSEP E DI G PE D

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Nuova sezione di Cultura Politica La Destra e il tabù delle politiche del lavoro di Cristofaro Sola


www.confini.org

Confini Aeromensile di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Numero 30 - Novembre 2014 - Anno XVII

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettore: Massimo Sergenti +

Hanno collaborato a questo numero: Pietro Angeleri Arktos Gianni Falcone Giuseppe Farese Roberta Forte Pierre Kadosh Pennanera Gustavo Peri Angelo Romano Massimo Sergenti Cristofaro Sola

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Segreteria di redazione: confiniorg@gmail.com

+ Registrato presso il Tribunale di Napoli n. 4997 del 29/10/1998

confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

ELOGIO DELLA SPECIFICAZIONE CIVILE Decapitare, lapidare, mutilare, fustigare, schiavizzare, discriminare per emarginare, immolarsi nel nome di un Dio, odiare sistematicamente il nemico e volerne l'annientamento, santificare la guerra, mercificare i prigionieri quantificandone il riscatto, seminare paura. Potrebbe sembrare il decalogo del terrorismo. Non lo è. Si tratta dei peggiori tratti connotanti di civiltà e culture diverse da quelle dell'Occidente. Civiltà e culture tutte vicine, prossime, confinanti e sconfinanti per studiata infiltrazione o per presunta assimilazione, per effetto di una concezione del mondo globalizzante figlia di un mercatismo includente, non per affinità civili, ma purché ci sia un vantaggio riconducibile, direttamente o indirettamente, alla sfera economica. Per quelli che se ne avvantaggiano è il bello del capitalismo estremo, per i popoli che ne pagano il costo in termini di annacquamento identitario, standardizzazione forzata, omologazione culturale, iper-regolazioni sistemiche, contrazione delle libertà e dei diritti civili faticosamente conquistati, è solo il prezzo della sopravvivenza nel mondo del consumo. Civiltà e culture sempre più sfocate e sullo sfondo. E' questa la contraddizione dell'Occidente, dove la politica si è fatta ancella dell'economia, dove le ragioni della finanza globale non trovano ostacolo, come invece i governi, nei confini degli Stati. Gli effetti di tale contraddizione assumono connotazione paradigmatica nel concetto di "esportazione della democrazia", come se fosse una qualunque merce e non la faticosa conquista di quei popoli che della democrazia ne hanno fatto il loro orizzonte civile, elevandola a collettiva pietra di paragone evolutiva, pur consapevoli delle contraddizioni in essa stessa insite. Eppure, immaginando la storia, con semplificazione estrema, quale cinghia di trasmissione evolutiva tra le generazioni, ci troveremmo di fronte alla stupefacente sorpresa che alle nostre spalle, nell'edificazione della civiltà, ci sono soltanto cinquanta o sessanta antenati, prima di ciascuno di noi, attribuendo loro una vita media di cinquant'anni. Tale semplificazione ci aiuta a comprendere quanto prodigioso e pur fragile, sia stato il cammino sin qui percorso dal genere umano e quanto labile ne sia la memoria. Ci fa anche capire quanta poca distanza ci separa dalle decapitazioni e impiccagioni, dai roghi degli eretici, dalle torture e dalle pene corporali e mutilanti, dallo schiavismo, dall'immolarsi nel nome di una fede, dall'odiare sistematicamente il nemico o un popolo bollato come inferiore, da volerne l'annientamento, dal santificare la guerra, dall'imporre un prezzo di riscatto, dalla cieca intolleranza verso ciò che non si comprende, dal vivere nella paura.


EDITORIALE

Il capire rende piÚ chiari i doveri di appartenenza all'umanità in genere ed in particolare a quelle sue parti che hanno scelto di evolvere - pagando alti tributi di sacrificio e di sangue - nella libertà di pensiero e di coscienza, nell'amore per il sapere e per la consapevolezza, nella luce della bellezza, nella convivenza pacifica regolata da leggi condivise, nella tolleranza, nel solidale rispetto dell'altro. Il primo di questi doveri è quello di difendere le conquiste raggiunte, le conoscenze acquisite ed ogni altra connotazione specificante e di comprendere, per scioglierle, le contraddizioni regressive. Una difesa strenua ed intransigente, a baluardo del futuro, consapevole della vicinanza del baratro dell'involuzione e di quanto sia facile esserne risucchiati, anche a costo di mettere in gioco la vita. Angelo Romano

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SCENARI

LA RIVOLUZIONE DELL’UNICITA’ La recente kermesse della Leopolda è stato un evento mediatico che ha monopolizzato i massmedia e l'opinione pubblica e ha scatenato una schiera di analisti politici sui significati delle affermazioni fatte da Renzi; in sostanza, della sua opera di distruzione o, alternativamente, di evoluzione della sinistra o, meglio, del PD. Da una lettura veloce di quell'evento, non c'è dubbio che il PD, dopo ventidue anni dalla Bolognina e vent'anni di antiberlusconismo, debba darsi finalmente una connotazione, inducendo in conseguenza anche il mondo di destra ad interrogarsi, un po' più significativamente di quanto finora fatto, non se cosa farà da adulto ma, più semplicemente, se lo vuole diventare. Poi, se la connotazione proposta è giusta o sbagliata, confacente, opportuna, questo lo vedrà e lo deciderà l'interno di quel partito. Se poi la divisione resterà all'interno o se sarà foriera di fenomeni di voice o di riaggregazioni, questa decisione spetterà ai componenti di quel mondo e gli effetti, nell'uno o nell'altro caso, li valuterà la politica. Da osservatore esterno, peraltro, non mi suscita neppure un fremito che la "sinistra" del PD e il mondo sindacale siano avversi al loro segretario, nonché capo del governo: del resto, mi sarei meravigliato del contrario. Qualunque evoluzione - con le virgolette o senza - di un corpo sociale comporta un'automatica divisione tra fautori e avversatori, tra innovatori e conservatori. Potrei abbandonare per un attimo la mia neutralità col dire che gli avversatori-conservatori hanno avuto a disposizione tanto di quel tempo da quando hanno abbandonato la bandiera rossa e la falce e il martello che se avessero voluto, veramente, dare una connotazione di "sinistra" al PD avrebbero potuto farlo. In quanto a "saperlo fare" o "volerlo fare", invece, ho qualche dubbio perché da quando il vecchio PCI ha assaggiato il gusto del potere, nel '76, è stata un'escalation di compromessi, di posizioni contingenti, di opportunismi verso l'esterno così come è stata un'escalation di contrapposizioni interne, risolte alla fine con la forzata, utile, convivenza di bande. E, tutto sommato, non sconvolge più di tanto che il leader della maggioranza, Renzi, abbia stretto un patto con il leader della minoranza, Berlusconi, per governare questo Paese. Di fronte a tanta farsumaglia, dove un minuscolo gigante è Salvini, impegnato però a far uscire la Lega dai "sacri" confini del Nord e a darsi una connotazione, non più isolata, nello scenario comunitario e internazionale; di fronte a tanta farsumaglia, dicevo, ben vengano due leader avversari che, nell'asserito interesse del Paese, hanno stretto un patto di non belligeranza e di ponderata collaborazione.


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Ciò che credo fermamente, però, è che siano immagini della stessa medaglia con la fondamentale differenza che il più anziano, Berlusconi, ha avuto ed ha la presunzione di essere dichiaratamente l'Unto del Signore con l'olio di nardo, comprato con gli ingenti proventi delle sue attività e, perciò, capace di guidare una compagine o un Paese, senza interferenze. Mentre il più giovane, Renzi, ha la presunzione dichiarata di portare il Verbo, speranza di salvezza e di luce, senza interferenze. E, tra i due, il più preoccupante non è l'anziano Messia, grottesco se vo-gliamo, incapace di comprendere che, a differenza di una azienda dove la decisione del capitano è legge, il governare un Paese necessita di una squadra, efficiente, motivata, totalmente dedicata a raggiungere, senza deflettere, gli obiettivi posti. Del resto, i dieci anni di governo all'interno dell'ultimo ventennio e le vane maggioranze bulgare che ha ottenuto lo hanno ampliamente dimostrato. La corte di nani e di ballerine, di improvvisatori, di opportunisti, di panciafichisti, della quale si è sempre circondato, hanno di fatto consentito che l'uomo al potere fosse solo, armato unicamente della sua inutile loquela, della vuota vastità delle sue promesse, degli effimeri obiettivi che ripetutamente si è affannato a declamare. La differenza è lì, con l'aggravante che relativamente a Renzi, la preoccupazione è duplice: a differenza del primo, da un lato è inquietante ciò che Renzi non dice e, dall'altro, è allarmante la connotazione di ciò che dice. Nel senso che si avvertono, palpabilmente, allarmanti vuoti e, nel contempo, finalità intrinseche nelle sue esternazioni: una esternazione che, per rimanere nel campo della materiale "spiritualità", è più da guru che, indifferente delle umane miserie, con le quali comunque è costretto a cimentarsi, vuole guidare verso il regno dei cieli non solo i seguaci ma l'intera comunità, purché intimamente e manifestatamente convinta che quella indicata è l'unica via. Due aspetti, dicevo, quello del silenzio e quello del messaggio mes-sianico che hanno caratterizzato sin dall'inizio la scesa in campo del più giovane leader. Il grande poeta filosofo libanese Kahlil Gibran, nella sua opera Gesù, il Figlio dell'Uomo, ha scritto: "Tu presti fede a quel che senti dire. Ma do-vresti credere a quanto non vien detto: il silenzio dell'uomo si accosta alla verità più della sua parola." Come detto più volte, la cultura che anima l'attuale società occidentale, anziché alfabetica, è quella dell'immagine. Un tipo di sedicente cultura che, tuttavia, da sola non procurerebbe eccessivo danno se non fosse per il fatto che, perdendo l'alfabetizzazione, si è persa la capacità di leggere i messaggi, i simboli, i silenzi altrui. Un tipo di cultura, quindi, che ha bisogno di parole per descrivere il mes-saggio visivo, per interpretarlo "arbitrariamente", perché c'è necessità di enfasi, di sottolineatura, di magnificare l'"offerta". E le parole, sempre più spesso, hanno un significato effimero, nel contesto del messaggio visivo, che dura la durata del messaggio stesso. Del resto, viviamo in una società dallo spirito mercantile, in cui l'aspetto economico del vivere tende a soppiantare l'aspetto moraleestetico e la logica del contratto tende a prevalere sui rapporti interpersonali. Il dramma è che lo spirito mercantile, uscendo dai suoi ambiti, ha contaminato ogni altra

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espressione della vita civile, sociale e politica. Per cui, ogni messaggio rivolto all'altro o alla comunità ha necessità di parole, un profluvio di parole, di arzigogolate parole, dove, anche qui, il loro valore si ferma al loro pronunciamento, senza agganci nel passato e senza alcuna concreta proiezione nel futuro che vada al là di una ripetuta, stantia "promessa": la via dei cieli. In sostanza, le parole pronunciate scarsamente denotano i veri elementi in campo, la fondatezza della situazione descritta, e nel contempo, il reale pensiero e la vera capacità di chi le pronuncia: il Messia giovane. Il fatto è che la parola ha perso la sua capacità creatrice, per divenire spettacolo fino a ingigantire un fenomeno che, fino a qualche anno fa, sembrava il peggiore di tutti i mali: la società dello spettacolo. Oggi, siamo allo spettacolo di una società, peraltro, fortemente tendente all'omologazione sotto lo stimolo martellante del guru che non ammette devianze. Il frastuono senza senso, colmo di silenzi, è divenuto assordante e, fatto ancor più eclatante, è l'atteggiamento dell'ascoltatore: assolutamente sterile perché quel frastuono non suscita in lui comparazione, deduzione, non sollecita la memoria, una valutazione, una riflessione, non lo induce verso l'espressione di un giudizio che, per quanto soggettivo, è sintomo di elaborazione. Così, su un qualsivoglia argomento del Messia si crea una dilagante opinione, il più delle volte frutto di una fugace osservazione, di un veloce ascolto, di uno stato d'animo, che si somma per pigrizia a quella di un amico, di un conoscente fino ad elevarsi ad Enne. E, in tal modo, la cosiddetta pubblica opinione, la tanto decantata società civile, non avendo memoria né capacità concreta, ondeggia come un campo di frumento sotto il vento primaverile. audacia temeraria igiene spirituale Spesso, l'unico effetto che il frastuono sonoro e silenzioso produce è l'angoscia; e ciò perché i messaggi visivi e sonori del giovane Messia evocano omologanti modelli di vita, status symbol, rappresentazioni sociali improbabili, contrastanti con ciò che dovrebbe essere la propria personalità, la propria specificità, la propria unicità. Eppure, tali messaggi, sebbene contrastanti, seppur non inducano all'omologazione salvifica e al commento para calcistico da bar, generano apatia quando non fervente attesa della Parusia. Spettacolo ancor più demoralizzante è quello della casta politica, quella con la pi minuscola, novelli farisei in sedicesimo, che inseguono il Messia con l'unica preoccupazione di accertare se esso sia veramente il figlio di Dio. Sembra, quasi, di vedere completamente ribaltate le tremende, significative pagine di Fulcanelli, nella sua splendida opera "Il mistero delle cattedrali", che descrivono cerimonie come la Festa dei Pazzi o quella dell'Asino, immortalate nei luoghi di culto dallo scalpello degli "imaigiers" a "satira di un clero ignorante, sottoposto all'autorità della Scienza nascosta, schiacciato sotto il peso d'una indiscutibile superiorità…"….."carnevale osceno che s'impossessava delle navate ogivali!"….."parodia grottesca che il prete, incapace di comprendere, accettava in silenzio, con la fronte china sotto il peso del ridicolo sparso in abbondanza.". Gli artefici dell'odierna politica possiamo paragonarli al clero ignorante, tra il quale c'era (e c'è), comunque, l'iniziato Pierre de Corbeil, arcivescovo di Sens che, nell'anno 1220, nella messa,


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faceva emettere ai fedeli il grido di gioia dei baccanali: Evohè! Evohè!, senza che questi sapessero cosa gridavano. Tuttavia, c'è una differenza fondamentale tra il popolo del medioevo e l'attuale: l'uno, "rumoroso, malizioso, scherzoso, pieno di traboccante vitalità, di entusiasmo e di foga.": un insieme di persone che, per quanto soggette al diritto feudale, che contemplava persino l'indisponibilità della loro vita, avevano della vita stessa un tale gusto da "celebrarla" quotidianamente. L'altro, dimentico del gusto della vita, scevro della sua "celebrazione quotidiana", immerso totalmente nella mera sopravvivenza, individualista per interesse, frustrato da attese inconcludenti e in pieno autocompatimento. Così, l'urlante e, al contempo, silenzioso frastuono, privo di senso, si accompagna al vuoto silenzioso dell'annullamento della personalità del singolo, della profonda umiliazione intellettuale dell'individuo. E, oggi, non c'è saggio che sappia piangere di un tale sfacelo come non c'è un filosofo che sappia operare per far tornare il sorriso, una manifestazione così profonda che Democrito chiamava "arma filosofica potente". Onestamente, dinanzi a volute ottusità, è opera improba proporre cure, percorsi, proposte alternative; è altresì improbo proporle al mare angosciato di apatia popolare. Una proposta, tuttavia, mi sento di lanciarla: se è vero che siamo fatti ad immagine e somiglianza, allora siamo dei semidei e, pertanto, non dovrebbe esserci alcuno con l'intento di cacciarci nella più appiattente omologazione. Per cui, già la dichiarazione di unicità, il dire "io", diviene pacifica sovversione. Poi, per un attimo al giorno, guardiamo al nostro interno, in profondità, senza infingimenti: così potremo interrogarci se il profluvio di banalità che ci circonda potrebbe essere accettato da quel nostro "io" sopito. E se, per caso, ci rispondessimo di no, allora l'atteggiamento conseguente sarebbe quello di immaginare un proprio, personale, stile di vita. Se facessimo tutto ciò per un solo secondo al giorno, avremmo già compiuto una eclatante, fortissima, pacifica rivoluzione perché quel secondo, fuori dalla mera, accomunante, frustrante sopravvivenza, potremmo viverlo. Massimo Sergenti

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GIUSEPPE DE RITA Presidente-fondatore del Censis e presidente del Cnel dal 1989 al 2000, Giuseppe De Rita è un sociologo di fama internazionale.<< Il mio mestiere-ha dichiarato qualche anno fa- consiste nel raccontare il rimescolamento del Paese, un "lavori in corso" che non accenna a chiudersi>>. Ed effettivamente attraverso i suoi studi, le sue ricerche e i suoi neologismi (cetomedizzazione, localismo, sommerso) ha interpretato l'evoluzione della società italiana degli ultimi cinquanta anni. Un lungo viaggio attraverso l'Italia e i suoi cambiamenti che ha magistralmente raccontato anche negli articoli apparsi negli anni sul Corriere della Sera, del quale è uno dei più acuti editorialisti, e nella produzione pubblicistica. Tra le sue ultime fatiche editoriali si ricordano "L'eclissi della borghesia (Laterza,2011)", "Il popolo e gli dei. Così la grande crisi ha separato gli italiani (Laterza,2014)",- entrambi scritti con Antonio Galdo - ed infine "Dialogo sull'Italia. L'eclissi della società di mezzo" (Apogeo,2014) scritto con Aldo Bonomi. Sovranità e rappresentanza sono i temi affrontati in quest'intervista per Confini. audacia temeraria igiene spirituale Lo Stato-Nazione, nell'eurozona e non solo, perde lentamente la propria sovranità e quindi la sua capacità di indirizzo politico ed economico. Lei, in un recente libro, ha parlato di "furto della sovranità". Quali sono le cause di tale processo e chi, a suo avviso, detiene oggi le leve della sovranità?

Nessuno oggi detiene effettivamente le leve della sovranità. Nel nostro Paese la sovranità nazionale è sempre stata molto fragile. Fragilità derivante sostanzialmente dalla dimensione storica. Lo Stato nazionale nasce da noi solo nel diciannovesimo al contrario della Francia dove vede la luce già nel Cinquecento con Francesco I. Per tornare alla sua domanda, direi che oggi la sovranità è sottoposta ad un duplice attacco. Uno che proviene dall'alto e riguarda le cessioni di sovranità verso l'Europa e la sfera extra-europea. Pensi, ad esempio, al potere sconfinato dei mercati finanziari e agli attacchi speculativi che provengono dalla grande finanza internazionale. Dall' altro lato il concetto di sovranità è eroso dal basso. E quando dico dal basso non intendo certo le ipotesi secessioniste avanzate dalla Lega, che avevano ben poco di serio. Piuttosto oggi assistiamo a forme di secessione quotidiana che, in alcuni casi, si manifestano con maggior veemenza nelle regioni meridionali (e non mi riferisco alla malavita organizzata). E' una secessione tacita che si manifesta nel mancato riconoscimento dell'autorità costituita.


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Vi è, in sostanza, una stanchezza rispetto ad un sistema che non riesce più a "dare" come faceva in passato. Così le comunità finiscono per organizzarsi in forme di autogoverno. Sin dal 2011, al tempo della famosa lettera di prescrizioni inviata dalla Bce nel pieno di una crisi economica senza precedenti, l'Italia appare "commissariata" da poteri sovranazionali. Sull'attuale situazione pesano un debito pubblico alle stelle, una disoccupazione molto alta e un forte deficit di riforme. L'Europa, insomma, ci tiene sotto controllo. Siamo destinati a diventare un Paese satellite o c'è ancora spazio per recuperare sovranità ed autonomia di manovra? Il problema va ricercato nella mancanza di dialogo fra l'Europa e gli Stati nazionali. Faccio riferimento, per spiegarmi meglio, al caso dell'Italia e della famosa lettera di prescrizioni del 2011 cui lei accennava nella domanda. Missiva, peraltro, accolta nel nostro Paese con reazioni discordanti, alcune di insofferenza altre di giubilo verso l'intervento esterno. Il dialogo di cui parlavo prima sarebbe stato fondamentale per comprenderne a fondo i contenuti. In quella lettera la Banca Centrale Europea faceva espresso riferimento, tra gli altri punti, al superamento delle province. In quel caso non si è stati capaci di sollevare un dibattito per analizzare quanto le province fossero incardinate nel sistema pubblico e sociale del nostro Paese. Ci si è, invece, limitati ai soliti piagnistei sullo scippo di sovranità che la Bce perpetrava nei nostri confronti. La realtà dei fatti è molto diversa. In Europa una dimensione frastagliata c'è dappertutto - e non penso solo ai casi della Scozia e della Catalogna. In futuro assisteremo, in tutto il continente, ad una marcata tendenza verso il localismo. E noi italiani, che siamo stati i primi a valorizzare il localismo politico, economico e sociale, rischiamo di fare la figura degli ultimi della classe. Ecco perché il dialogo fra istituzioni, in campo europeo, è fondamentale. E' d'accordo con chi ritiene che l'integrazione europea non debba portare ad un superamento dei vecchi Stati nazionali, con annesse identità culturali e sociali, ma tendere ad una federazione di Stati in grado di affrontare problemi comuni? Vede, su questo tema si fronteggiano da cinquanta anni due scuole di pensiero. Una, che si richiama al pensiero di Altiero Spinelli, teorizza in sostanza l'abbandono delle Patrie ed un'integrazione più compatta e marcata. L'altra, al contrario, propende per il mantenimento delle prerogative degli Stati nazionali. Nella realtà l'orientamento "spinelliano" non trova riscontri, laddove sembra invece prevalere una logica di dialettica tra gli Stati. Tornando all'Italia, la spinta al decentramento e al federalismo, il frazionamento di interessi e il potere di veto delle lobby, la supplenza della magistratura rispetto alla politica e, non ultima, l'eccessiva parlamentarizzazione dei processi politici hanno contribuito, dall'interno, allo

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svuotamento di sovranità di cui parlava lei. Che cosa ha determinato questo disegno così penalizzante nei confronti del potere esecutivo e, più in generale, della sfera decisionale e di indirizzo? Il problema è che nel tempo abbiamo avuto una politica e società marcatamente statuali. La politica, in particolare, si è incardinata nello Stato producendo clientelismi e corruzione. In Italia, poi, non abbiamo mai respirato una dimensione effettivamente europea rimanendo legati a temi e discussioni di piccolo cabotaggio. Tutto ciò ha, inevitabilmente, avuto riflessi particolarmente negativi sui processi decisionali. E tutto questo senza più i grandi partiti di massa che, come lei ha ricordato più volte, hanno contribuito in modo determinante allo sviluppo economico, politico e sociale del Paese. Quei partiti sono riusciti a dar vita ad una forte partecipazione dal basso, che si realizzava nelle sezioni, negli oratori e nelle fabbriche. Oggi quell'osmosi tra rappresentanti e rappresentati, tra partiti e cittadini sembra essersi esaurita. La frattura si è verificata, in sostanza, a causa di un sistema che lascia sempre più soli i cittadini. Vede, nel tempo abbiamo assistito ad una progressiva molecolarizzazione della società. Che - sia chiaro - ha avuto certamente degli effetti positivi in taluni settori della nostra società, penso ad esempio al mondo delle piccole imprese. L'avvento della crisi economica e sociale ha condotto, però, ad una molecolarità che definirei stanca e solitaria. Questa solitudine porta, inevitabilmente, a disinteressarsi della scelta della rappresentanza politica. Dall'altro lato i rappresentanti hanno difficoltà a rappresentare pulsioni e bisogni effettivi dei cittadini, perché in giro si avverte solo solitudine, distacco e stanchezza. Di Partito della Nazione ha parlato Matteo Renzi all'indomani del successo alle elezioni europee. Anche a destra se ne era discusso all'atto della nascita del progetto, poi fallito, del terzo polo. C'è spazio in Italia per un partito che rilanci i temi della sovranità e dell'identità nazionale senza scadere nel populismo? La mia impressione è che siamo in presenza di una società, la nostra, sostanzialmente informe, il che lascia ipotizzare la nascita di un partito che metta insieme un po' tutti. In Italia si è sentita la mancanza di quello che i romani definivano il "fundamentum divisionis". L'unico vero motivo di divisione è stato, negli ultimi venti anni, Silvio Berlusconi. Insomma, in assenza di un'articolazione delle parti in campo ci siamo ritrovati in presenza di una società politica fortemente polarizzata. Scompaiono le vecchie sezioni, le scuole di politica e le figure dei dirigenti selezionati dopo aspri scontri all'interno dei partiti e dopo una lunga gavetta nelle assemblee elettive minori.


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Oggi la politica si fa attraverso il web e finisce col premiare figure carismatiche spesso senza bagaglio politico e culturale alle spalle. Dove stiamo andando? Nel giro di poco tempo i partiti dovranno necessariamente ridefinirsi. Il Pd non potrà certo essere quello di adesso, la destra dovrà fare qualcosa per riorganizzarsi e sembra che Salvini e Meloni si stiano muovendo in tal senso. Lo stesso Berlusconi sarà costretto ad inventarsi qualcosa per riconquistare centralità nel campo della destra. Grande fermento c'è, poi, alla sinistra del Pd, dove credo sia difficile possa nascere un nuovo soggetto politico ma è plausibile il formarsi di movimenti extra parlamentari. Insomma una situazione molto magmatica, che lascia prevedere una trasformazione delle aggregazioni politiche oltre che della forma-partito tradizionale. Finiamo con la società civile. Il falso mito secondo il quale quest'ultima poteva sostituirsi alla politica in nome di una presunta superiorità morale, sembra essere definitivamente tramontato. Le deludenti esperienze dei governi tecnici hanno dimostrato che la politica richiede linguaggio e competenze specifiche, che riescano ad interpretare autenticamente le istanze di cambiamento dei cittadini. E' arrivato, secondo lei, il momento di rivalutare la figura del politico di professione? Si può ben dire che negli ultimi anni la società civile le ha sbagliate tutte. Nella prolungata crisi dei partiti non ha saputo esprimersi facendo sentire la propria voce solo in termini di protesta e mai di proposta. In tal modo, dopo la protesta non è rimasto più nulla. Pensi, tra gli altri, ai girotondi oppure alle donne del movimento "Se non ora quando". Tante manifestazioni e tanta gente in piazza di cui non è rimasta alcuna traccia. Di tutto ciò hanno beneficiato proprio i partiti che, di fronte all'evanescenza della società civile, hanno goduto di un positivo effetto indiretto. Giuseppe Farese

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LE DUE FACCE DELL’UNICITA’ Mi sono dilettato nei giorni scorsi a seguire la polemica intercorsa tra il presidente del consiglio di questo sventurato Paese, Matteo Renzi, e il novello presidente della Commissione Esecutiva europea, Jean-Claude Juncker. E, devo dire, ne ho tratto una serie di considerazioni che esulano, almeno spero, dal coro dei plaudenti e da quello dei deneganti la posizione dell'illuminato fiorentino per toccare altri aspetti che, a mio avviso, sono sconcertanti. Sin dalla costituzione nel '57, la Comunità Economica, prima, e l'Unione, poi, hanno immancabilmente dimostrato una sorta di schizofrenia nel loro agire. La volontà dichiarata di coesione senza che le differenti politiche basilari vengano inserite in un processo di armonizzazione è l'aspetto più eclatante ma, accanto, troviamo la perdita di sovranità degli Stati senza che un'autorità sovraordinata la supplisca. Peraltro, nel corso del tempo, l'introduzione del suffragio universale nella formazione del Parlamento Europeo non ha minimamente scalfito il problema della proposizione legislativa che resta, ancor oggi, prerogativa esclusiva di una istituzione formata, nel senso migliore del termine, da tecnici e da burocrati. Per cui, 751 parlamentari, liberamente eletti da circa 500 milioni di persone, restano paradossalmente subordinati, nella loro attivazione, agli intendimenti di persone assunte con contratto di lavoro. E, ancora. Un'ottusa imposizione di norme, vincoli e precetti, indifferenziate da Stato a Stato, prive di qualsiasi considerazione legata alla specificità del Paese, alle sue caratteristiche, ai fondamentali della sua economia. Già questo basterebbe se non fosse per il fatto che, ad onta dell'istituzione di un dipartimento per la concorrenza con tanto di commissario, è consentita dalla stessa impostazione unionista una concorrenza tra Paesi, a scapito di altri. Ventidue anni fa, economisti della tanto rigida Germania, si sono sgolati nel dire che un'Unione senza l'unificazione di prezzi, tassi e tasse, avrebbe determinato il caos; nel senso che i gaps sociali, che l'Unione asserisce di voler combattere, non solo avrebbero continuato a persistere ma si sarebbero aggravati. Già, perché quando un Paese, costretto da vincoli burocratici, non può impostare la sua politica per risanarsi ma è costretto unicamente a perseguire, vanamente aggiungo io, un percorso di lacrime e sangue per la comunità, non può oggettivamente provvedere a politiche di sviluppo. Ogni risorsa, ogni risparmio devono essere volti al ripianamento del buco nero del bilancio e al contenimento dell'inflazione.


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Certo, la salubrità di conti pubblici è un sintomo di salubrità dello Stato, di benessere, di sviluppo ma il deficit annuale, e la loro sommatoria negli anni, hanno raggiunto cifre talmente iperboliche che pensare di ridurle con i soldi del salvadanaio familiare è un atteggiamento, quello dell'Unione, quantomeno ipocondriaco perché non solo soffrono le famiglie e, quindi, il Paese ma, in conseguenza, a quel Paese mancano le risorse per avviare un percorso risanatore a ritroso. A volte, nel mondo economico, per risanare debiti occorre farne altri. Spesso, se un'azienda è in difficoltà, i fornitori continuano a darle la merce, pur ponendola sotto controllo e le banche, una volta, non le chiudevano il credito. Anzi, in certi casi, lo ampliavano. Ovviamente, questo, in riferimento alle banche, prima che scattassero i vincoli comunitari sulle riserve e sulle esposizioni e le banche scoprissero quanto è più lucroso, anziché sostenere la piccola e media impresa, investire sul debito pubblico con i soldi a loro giunti dall'Europa per salvarle da una poco accorta gestione del passato. Una poco accorta gestione, peraltro, attuata a favore di gruppi e società che, con l'avallo politico, hanno ottenuto finanziamenti così elevati, senza garanzia alcuna, da far giungere la sofferenza del mondo bancario, all'ingresso dell'euro, alla rilevante cifra di 135.000 miliardi di lire, 70 miliardi di euro: due manovre finanziarie. Ora, se neppure gli investimenti pubblici possono essere considerati fuori bilancio, sostanzialmente denegando decenni di pratica economica inventata dal liberal Keynes, peraltro a favore di un'amministrazione repubblicana, dimostrando così sia un modo per riavviare l'economia sia l'opportunità di confluenza d'intenti davanti alla necessità; se neppure gli investimenti pubblici volti alla ripresa, dicevo, possono essere stornati dalla considerazione del bilancio, allora abbiamo a che fare, veramente, con dei semplici ragionieri. Questi, in sintesi, gli effetti della schizofrenia comunitaria. Ora, ad un osservatore disattento, dalla memoria corta, dal superficiale interesse, può anche far effetto la presa di posizione di Matteo Renzi contro la Commissione Esecutiva, definita una congerie di burocrati, (e, peraltro, sarebbe la verità) perché quell'istituzione ha sollevato dubbi sulla sua legge di stabilità. Ma Renzi non può permettersi una simile posizione, pena lo sconfessare l'operato ultradecennale del suo partito che è stato tra i maggiori artefici di un tale stato, artatamente confusionale. Non può ignorare che il PSE, il partito socialista europeo, è stato per un lungo periodo il gruppo maggioritario all'interno dell'europarlamento e che, una volta perduto lo scettro, ha agito di concerto con il nuovo sovrano, il PPE, il partito popolare europeo per non lasciare spazio ai dissidenti benpensanti. Né può dimenticare che l'attuale capogruppo del PSE è l'italiano Gianni Pittella, pidiessino doc non soggetto a rottamazione, vice presidente dell'europarlamento é relatore permanente del bilancio comunitario. Né può scordarsi che il presidente della repubblica italiana in carica, Giorgio Napolitano, è un acceso sostenitore dell'Unione Europea. Allora, la posizione di scontro che, in un altro contesto, sarebbe stata persino apprezzabile, diventa l'atto di stizza di un uomo al quale sono stati rivolti velati dubbi sul suo agire, sia pur da parte di burocrati messi là con l'avallo del suo mondo.

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E che sia un atto di stizza e non una posizione politica ce lo dice la storia: è permesso agli Stati sviluppare la loro politica fiscale, fino al 2012 leva integra nelle mani dei governanti nazionali, compatibilmente al Patto di Stabilità comunitaria. In virtù di tale possibilità, diversi Stati hanno inteso fare di tale opzione una politica di attrazione di capitali: l'Irlanda, Malta, l'Olanda, il Regno Unito e il Lussemburgo. Ci ricordiamo, credo, quando Cameron, rivolto ai francesi, un paio d'anni fa li ha invitati, tra il serio e il faceto, a divenire cittadini britannici per sfuggire all'oppressione fiscale. Certamente, ci ricorderemo di un evento più recente: il trasferimento da parte della FIAT della domiciliazione fiscale a Londra e legale ad Amsterdam perché ambedue i Paesi hanno normative più agevolative sia sul piano fiscale che societario. Chi mai, allora, ha sollevato obiezioni di sorta, ha elevato interrogazioni parlamentari, ha fatto marce di protesta, ha sollevato rimostranze? Praticamente, nessuno perché, per quanto sia moralmente, socialmente e politicamente criticabile, l'impostazione schizofrenica dell'Unione Europea lo consente. In cosa differisce la posizione di Jean-Claude Juncker, primo ministro del Lussemburgo fino al 2013, eletto Presidente della Commissione Esecutiva dal parlamento europeo con 422 voti favorevoli, 250 contrari e 47 astenuti? Per inciso, su 751 aventi diritto a voto, il PPE che lo ha proposto dispone solo di 213 voti. Forse, l'astio è determinato dal reddito del cittadino lussemburghese che ammonta a circa 100mila euro l'anno, per cui si prova una sorta d'invidia? No, certamente no, scherzo. Report, la trasmissione della Gabanelli su RAI 3, recentemente, ha scatenato una giusta inchiesta contro il sistema di gestione dei rifiuti, si pensi, dell'Emilia dove soltanto una provincia, Parma, non è in mano alla sinistra. La domanda è lecita: prima dell'avvento di Renzi, non si nutrivano dubbi sulla trasparenza di quella gestione? Di contro, l'Espresso, integerrimo castigatore dei vizi altrui, nel precedente numero ha posto in copertina una domanda e cioè se Jean-Claude Juncker, con tanto di foto, fosse adatto a guidare la Commissione Esecutiva. A parte il fatto che la "sinistra" italiana avrebbe potuto porsi già da tempo un simile quesito, la domanda dell'Espresso poggia sul fatto che Juncker, da primo ministro del Lussemburgo, avrebbe fatto accordi con le maggiori aziende europee e italiane per ottenerne la domiciliazione nel suo Paese con un costo fiscale dell'1%. Sì. E' esatto. L'uno per cento. E L'Espresso, giustamente, pone in risalto il fatto che un simile comportamento va a danno dell'intera Unione e depaupera di risorse i suoi membri. Ma la domanda è ancora lecita: non si era a conoscenza del fatto che quel comportamento di Juncker, da primo ministro, giustamente stigmatizzato da L'Espresso, era consentito dall'impostazione schizofrenica dell'Unione? E, infatti, Juncker, ben saldo sul suo scranno, alle accuse della sinistra italiana ha risposto: Non ho fatto altro che ciò che mi era legalmente consentito. E non c'è da metterci neppure un commento.


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Per cui la morale è: siamo di fronte ad una omologazione culturale e ad una occupazione dei gangli nevralgici del Paese che spaventa perché non ammette dissensi, nonostante le inflazionate dichiarazioni di propensione al dialogo e di democraticità. Una omologazione culturale e una occupazione attuate in modo strategico, determinato, scientifico, giuocato peraltro sulla credulità e sulla buona fede del popolo, stanco di pressappochismi e di ladrocini. La battuta è già stata usata da altri per Monti. Me ne approprio per applicarla a Renzi: ordo ab caos, l'ordine che scaturisce dal caos, dalla necessità popolare, dopo un informe travaglio, di normalità, di efficienza, di efficacia. Ma il fatto, come è stato posto in evidenza per Monti (che non aveva squadra e non era determinato), è che una simile impostazione ha in se il germe dell'autoritarismo, neppure mitigato da quella pantomima attuata nel ventennio quando il Minculpop sovvenzionava gli intellettuali, poi divenuti di sinistra, perché criticassero il regime. Sì. L'Europa, sarcasticamente, è unica e non ha riscontro nel mondo. Ma, a dire il vero, anche l'Italia è unica: non riesce ad imparare dai propri errori. Eppure, per risolvere i nostri problemi, basterebbe riscoprire davvero la nostra unicità, in tutti gli altri campi che non siano quelli dell'ottusità. Pietro Angeleri

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LA ROTTAMAZIONE DELLA DEMOCRAZIA Le relativamente recenti dimissioni di Raffaele Bonanni da segretario generale della CISL, sei mesi prima della scadenza naturale del suo mandato, hanno sollevato una ridda di interrogativi e hanno dato luogo ad una serie di ipotesi sui motivi di questo abbandono anticipato; interrogativi e ipotesi che per i più, ovviamente, resteranno senza risposta. Una cosa, tuttavia, va rilevata leggendo il lavoro dei tanti commentatori del fatto: essi non hanno riflettuto tanto sui motivi che l'hanno determinato quanto sul ruolo del sindacato oggi, arrivando ad ipotizzare, quale derivata finale, che tale ruolo è così marginale da aver indotto il Bonanni alle dimissioni, constata l'inutilità dell'impegno in una fase, peraltro, dove sono in discussione gli ultimi baluardi del diritto del lavoro impostato negli anni '70. Una ipotesi verosimilmente avvalorata dall'intervista del nostro presidente del consiglio recentemente rilasciata al Wall Street Journal e a Bloomberg, in occasione della sua presenza all'ONU. Beh! E' una tesi come un'altra la quale, però, solleva altre domande senza che per esse sia stata neppure abbozzata una risposta: la marginalità del ruolo del sindacato oggi è data da un atteggiamento deterministico di Renzi, ovvero l'attuale presidente del consiglio ha preso atto della già esistente marginalità e si comporta in conseguenza? Purtroppo, a mio sommesso avviso, vale la seconda tesi: una marginalizzazione che il sindacato ha raggiunto in oltre vent'anni di silenzio o di battaglie di retroguardia. Nel 1996, le confederazioni sindacali commissionarono una ricerca al Censis e al suo presidente De Rita, contestuale presidente del CNEL: il ruolo del sindacato nel terzo millennio. Del resto, con l'avvento del trattato di Maastricht del 1992, era avvertibile la necessità di un ripensamento non solo dei compiti istituzionali ma anche delle modalità operative di quell'attore che un coacervo di travagliate vertenze, l'evoluzione giuridica, la carenza della politica e la dilatazione degli scenari economici avevano reso come uno dei più importanti soggetti intermedi tra la società e la sua massima espressione, lo Stato. A ciò, peraltro, induceva la difficoltà di individuare adeguati contenuti nella impostazione e nella gestione delle relazioni industriali, visti i riflessi sempre più marcati dell'automazione sull'occupazione, l'avvio del dislocamento di impianti in altri Paesi comunitarie e extra comunitari, la generale strategia imprenditoriale volta all'accumulazione, l'impossibilità di attuare una mobilità di esperienza anche riqualificate, nonché la ridottissima capacità di


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assorbimento della piccola e media impresa, stretta, come indotto, dalle politiche di acquisto delle grandi committenti e privata di politiche di sostegno. A quello studio, peraltro, mise mano uno dei più stretti collaboratori di De Rita, Aldo Bonomi, autore di un saggio che, a quel tempo, riscosse una notevole attenzione: Il trionfo della moltitudine. In quell'opera, Bonomi esaminava la crisi della politica, la caduta delle forme di convivenza, il declino delle appartenenze di classe e di popolo, fino all'apparire dei processi di spaesamento e di sradicamento prodotti nella società competitiva dalla mondializzazione dell'economia. Temi, quelli di cui sopra, che Bonomi affrontava in modo nuovo. Egli, infatti, ritenne che se globale e locale sembrano essere i soli spazi fondanti per l'essere impaurito di fronte a un futuro incerto, è invece nel "glocale", cioè in un locale attraversato dalla globalità, il luogo ove cercare una dimensione del conflitto e del mutamento, diversa dall'accettazione del presente. Insomma, in una sorta di "società di mezzo", intesa sia come composizione sociale sia come luogo intermedio della rappresentanza. Comunque, ciò che emerse da quello studio fu un'evoluzione, sempre più marcata ed evidente, del mondo del lavoro: lo scadimento dell'egemonia del lavoro subordinato, salariato, destinato a ridursi ad un terzo tra le forme di lavoro possibili, l'emersione di forme nuove di rapporto di lavoro - atipico, parasubordinato, eterodiretto - e la valorizzazione di rapporti che, sebbene tradizionali, si avviavano ad acquistare nuovi ruoli e a sottendere a nuove frontiere economiche e sociali quali la cooperazione, il volontariato, il non profit. Ed ancora. La diversificazione della economia e della produzione, interamente automatizzata, specializzata, splittata in uno scenario mondiale. Nel contempo, la diversificazione dell'economia e la supremazia del terziario, incentrata anche su servizi che nascono per le peculiarità del territorio stesso, ai fini della sua promozione sul piano turistico o logistico ovvero per meglio indirizzare il marketing delle reti commerciali a seconda degli usi e costumi, culture, clima e credi locali; in sostanza, una commistione tra globale e locale, ad esclusivo vantaggio di quest'ultimo contesto dove il sindacato assumere il ruolo di co-artefice di sviluppo. Ora, solo tale analisi, peraltro da esse commissionata, sarebbe stata sufficiente per indirizzare le confederazioni sindacali su altre vie, verso altri obiettivi. Ma ulteriori fattori, già a quel tempo, sollecitavano una maggiore attenzione e, in conseguenza, una più diversificata azione: la planetarizzazione dell'economia e la nascita di nuove povertà. Già la costruzione della comune casa europea non prevedeva percorsi di convergenza delle economie comunitarie, tra loro fortemente diversificate; né, tantomeno, contemplava iter di avvicinamento tra i sistemi di protezione sociale. Nel contempo, la riconversione dell'economia nei paesi dell'ex cortina di ferro cominciava a manifestare i suoi devastanti effetti sociali perché calata in contesti senza adeguate protezioni sociali di transizione, senza adeguati impianti formativi, senza appropriati sistemi di ripartizione della ricchezza prodotta. Ma c'era di più. Proprio negli anni '90 si avviava quel processo di fusione e di accorpamenti a livello mondiale avente come obiettivo la costituzione di oligopoli economico-finanziari e di

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tecnocrazie al di sopra dei confini geopolitici, della sovranità degli Stati e, quindi, delle condizioni di vita dei popoli. Quindi, a ben vedere, non mancavano spunti, sollecitazioni, indirizzi per una rinnovata, incisiva azione, considerato peraltro che, con il varo del cosiddetto protocollo sulla politica dei redditi proprio nel 1992, la cancellazione degli automatismi per il mantenimento del potere d'acquisto, l'introduzione del tasso d'inflazione programmato e la riforma della contrattazione, era praticamente scomparsa la funzione redistributiva della ricchezza (sic) operata dai contratti collettivi nazionali di lavoro. Ma, poiché di politica dei redditi si doveva parlare, si pensò bene di rispolverare una vecchia prassi di partecipazione sociale dandole un nuovo nome: concertazione, tra forze sociali e governo, dove concertare, appunto, l'andamento di voci di spesa della famiglie italiane per la fruizione di servizi pubblici, quali ad esempio le utenze e le tariffe, oppure la durata e l'ammontare degli ammortizzatori sociali, ovvero istituti assistenziali per famiglie disagiate o per particolari categorie di lavoratori. In sostanza, la teoria era che non potendo più soddisfare in via immediata le esigenze dei lavoratori, il sindacato si prestava a soddisfarle in via mediata, peraltro con un livello di interlocuzione inusuale ma importante. Ora, come già accennato nel precedente articolo sulla "Partecipazione concertativa" l'orizzontalizzazione della società e la sua espressione tramite rappresentanze era già stata teorizzata dal grande sociologo tedesco Teübner: il fenomeno traeva spunto dalla dispersione dei poteri dello Stato, dall'esigenza di un consenso più vasto nel governare vista l'esigenza di emanare politiche non propriamente popolari, dalla sempre maggiore ristrettezza delle risorse da distribuire secondo giustizia, nonché dall'ulteriore esigenza di mediare tra interessi della società, maggiormente accresciuti e più diversificati. In sostanza, cominciò a delinearsi quel fenomeno, definito da Teübner "policorporatismo", consistente nel processo di "privatizzazione dello Stato" e di "pubblicizzazione" di soggetti collettivi privati, di associazioni, in rappresentanza di interessi. Una fase che, in ultima analisi avrebbe potuto anche funzionare se, almeno, fosse stata rispettata una condizione posta dal succitato sociologo: l'autorevolezza del governo nel mediare tra interessi contrapposti. In realtà, i governi che si sono succeduti negli ultimi vent'anni o eran deboli o non credevano nella concertazione, nonostante le sceneggiate alle quali hanno dato luogo. Il risultato è stato che la calmierazione di utenze e tariffe è rimasta una semplice dichiarazione d'intenti, puntualmente rinnovata (almeno quello) alla partenza di ogni nuova fase governativa. La fantasia, peraltro, nel corso del tempo, si è arricchita di politiche a sostegno per la piccola e media impresa al fine di sostenere l'occupazione, di cd. prestiti d'onore per incentivare iniziative imprenditoriali nei giovani, dell'estensione dell'istituto per la cassa integrazione a sostegno sempre dell'occupazione nelle riconversioni aziendali, dell'introduzione di un istituto di accompagnamento verso il pensionamento, definito (sarcasticamente, penso) mobilità, in caso di mancate o prolungate riconversioni.


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Tutte enunciazioni che in termini di effetto ultimo per il sostegno al reddito delle famiglie, per il mantenimento o dell'occupazione, per il sostegno alle PMI, per l'incentivo ad una imprenditorialità giovanile, in una scala dall'1 a 100, sono andate dallo Ø all'1. C'è di peggio. Nell'ambito della cd. concertazione, sono state varate almeno quattro, raffazzonate, riforme pensionistiche che hanno ridotto a dismisura le protezioni sociali, fino a creare con la Fornero una sorta di puzzle per dementi. In più, in vent'anni, non c'è stato alcun intento manifesto di riformare lo stravecchio Statuto dei lavoratori per impostare un più coerente Statuto dei lavori, vista l'evoluzione delle forme di prestazione d'opera; l'unica iniziativa rilevata, sia pur a macchia di leopardo, è stata quella di sindacalizzare gli immigrati. Né vi è stata alcuna iniziativa, neppure a livello propositivo, per riformare il sistema di welfare e consentire alla coperta di coprire i piedi e le spalle. Non si è neppure registrata alcuna iniziativa volta a riformare la contrattazione e a dare valore, che so, a quella decentrata, vista la sorgente importanza del territorio. Anzi, a questo proposito il sindacato ha fatto meglio: dopo aver consentito una sorta di "colonizzazione" casereccia del territorio d'interesse da parte di investitori esterni, si è lasciato scippare di tutti gli strumenti validi per la programmazione concertata dello sviluppo territoriale: dai patti territoriali, ai contratti d'area, agli accordi di programma, a vantaggio di evanescenti istituti nazionali e regionali quali Sviluppo Italia e Invitalia. Né, a seguito delle riconversioni, riorganizzazioni e dislocazioni produttive, si è rilevata alcuna presa di posizione su una più confacente politica formativa professionale ai fini della eventuale ricollocazione. In sostanza, il sindacato ha assistito inerme e inerte allo sfacelo sociale ed economico perpetrato negli ultimi vent'anni, arrivando persino a lasciarsi ingabbiare nell'esercizio di uno dei suoi più fondamentali diritti costituzionali, quello dello sciopero, in nome altisonante della "salvaguardia dei servizi pubblici essenziali", sotto l'alto controllo addirittura di una Authority. In cambio, al posto del suo riconoscimento giuridico, contemplato dalla nostra inapplicata costituzione, ha accettato la comoda patente della rappresentatività esclusiva, mandatario non più del solo del lavoratore bensì dell'intera collettività, a stampella di tutto il processo di reformatio in pejus realizzato dai vari governi, indifferentemente di destra e di sinistra. Una rappresentatività "guadagnata" con la formazione delle cd. rappresentanze sindacali unitarie, uniche interlocutrici del datore di lavoro, nonché, quali servizi alla persona, con la istituzione dei Centri di assistenza fiscale, degli enti di tutela dei piccoli proprietari e affittuari, di società turistiche, editoriali, di enti di formazione professionale, di ricerca economico-sociale, ecc., ecc., ecc.; un modo per sopperire alle significative riduzioni delle contribuzioni associative, vista la sostanziale inutilità dell'iscrizione. Per inciso, i fenomeni di iato registrati dalle Confederazioni sindacali sono andati ad ingigantire il mondo del sindacalismo categoriale o corporativo che dir si voglia, ammontante a poco meno di ottocento soggetti, sopravvissuti alle RSU, soprattutto nel pubblico impiego, grazie alla politica degli accorpamenti funzionali, consentita alla fine dal vivi e lascia vivere. Un pluralismo che, dalla sua originaria concezione di fondamento della democrazia, si è trasformato in una ridda di rappresentanza di interessi di status, di identità sociale o collettiva, di

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apice, di fascia, di luogo, peraltro oggi sempre meno esaudibili specificatamente. Il bello è che taluni soloni, di fronte ad una situazione sindacale a dir poco pittoresca, hanno pensato bene di definirla, chi segno del neo-pluralismo e chi del pluralismo strutturato: credo, di contro, che la situazione attuale possa ben definirsi come quella di un pluralismo dissolvente che ha contribuito a rendere praticamente inutile l'istituzione sindacale. Neppure nell'azione comunitaria e internazionale il sindacato brilla. La CES (confederazione europea dei sindacati), a ventidue anni di emanazione del trattato di Maastricht, non ha neppure impostato un percorso per una uniformità prospettica delle relazioni industriali né si è posta in maniera seria il problema dei gaps sociali esistenti tra i vari Stati. Analogo atteggiamento è tenuto dalle due centrali sindacali internazionali, la Confederazione internazionale dei sindacati liberi (CISL) e la Confederazione internazionale dei sindacati (CSI), quest'ultima di matrice nettamente di sinistra. Eppure, dinnanzi ai fenomeni disgreganti della globalizzazione, al perdurante silenzio della CISL, si è contrapposta recentemente la denuncia della CSI che al congresso di Berlino dello scorso maggio, (si pensi, dello scorso maggio!!!) sotto l'anacronistico titolo "Costruire il potere dei lavoratori", ha esordito nella dichiarazione congressuale: "Le persone si sentono abbandonate dai loro governi. A parte qualche rara eccezione i leader mondiali e le istituzioni internazionali stanno perseguendo una agenda economica che ha creato maggiori disuguaglianze e una disoccupazione devastante, minando ovunque la democrazia. - Non hanno difeso le politiche necessarie a garantire democrazie sicure ed inclusive ed un pianeta sostenibile per il XXI secolo; - Non sono riusciti a creare una economia mondiale stabile, il che ha un costo tremendo per i lavoratori e le loro famiglie; - Non sono riusciti ad affrontare il problema dei livelli record di disoccupazione, a fornire opportunità ai giovani e ad arrestare la crescita del lavoro precario ed informale; - Non sono riusciti a garantire un ambiente sano e ad affrontare le minacce climatiche; - Non sono riusciti ad eliminare le armi nucleari e a conseguire la pace mondiale. Anche "l'Europa sociale" in cui tradizionalmente diritti e tutele sono sempre stati forti, è sotto attacco. Si registra una profonda sfiducia nelle istituzioni mentre la gente sta perdendo fiducia nei governi che danno priorità agli interessi economici rispetto al benessere dei lavoratori.” … omissis … Non c'è che dire. Un esempio di tempestività. Per tornare ab ovo, perché mai Matteo Renzi dovrebbe considerare interlocutori validi e ineludibili gli interpreti di un'istituzione talmente svilita e umoristicamente litigiosa al suo interno da potersi paragonare ad Arlecchino, Balanzone e Stenterello? L'ultima baruffa ha per soggetto l'"articolo 18". Peccato che non ci sia Goldoni a sceneggiarla. Il fatto è che nella rottamazione generale Renzi sta rottamando la democrazia, conniventi i suoi pilastri. Roberta Forte


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I DOLORI DI OBAMA Lo scorso 4 novembre i cittadini americani si sono recati alle urne per eleggere più di un terzo dei componenti del Senato e per rinnovare la Camera dei Rappresentanti. Inoltre, hanno scelto 36 nuovi governatori e, in 40 Stati dell’Unione, si sono espressi su alcuni quesiti referendari in materia di possesso di armi, aborto, legalizzazione delle droghe leggere e “minimum wage”- la legge che introduce il salario minimo -. Nello specifico della vicenda elettorale, i sondaggi indicavano come molto probabile una riconferma della maggioranza repubblicana per la Camera dei Rappresentanti. E così è stato. Ma anche al Senato non c’è stata partita. La vittoria repubblicana è stata netta. Non è una novità che un presidente, nel corso del suo mandato, si trovi a fare i conti con uno dei due rami del Congresso controllato dall’opposizione. Nel recente passato è capitato in sole due occasioni - nel 1998 con Bill Clinton e nel 2002 con George W. Bush – che l’elettorato consegnasse entrambi i rami del Congresso al partito del presidente. Questo voto, invece, restituisce a Obama lo scenario peggiore che potesse immaginare. Conseguenza immediata del ribaltamento nei rapporti di forza con l’opposizione è che il presidente non avrà più mani libere per portare avanti il suo piano di riforme. Dovrà pensare, obtorto collo, a una strategia di compromesso con un Congresso ostile. I maggiori problemi la Casa Bianca li riscontrerà sul completamento della riforma sanitaria, punto di forza del programma di Obama ma fortemente osteggiata dai repubblicani. Anche i piani di riduzione della spesa militare per il prossimo decennio dovranno essere rivisti. E’ noto che il partito dell’elefantino sia orientato verso un irrobustimento della capacità offensiva statunitense. A ruota, è probabile che segua uno stop al progetto di limitare per legge l’acquisto di armi da fuoco da parte dei privati cittadini. Anche la politica estera dovrà tenere conto del risultato elettorale. Sebbene all’interno della società americana sia in corso dall’11 settembre del 2001 un processo di ridefinizione del concetto di interesse nazionale, l’opinione pubblica tendenzialmente continua a ritenere che il nemico numero uno per i suoi interessi vitali resti il terrorismo, seguito dall’uso non convenzionale di armi chimico-biologiche e dalla proliferazione atomica. La strategia dell’amministrazione di Washington sullo scacchiere internazionale è stata giudicata dalla maggioranza dell’opinione pubblica confusa e controproducente per gli interessi Usa. La pessima gestione del rischio di diffusione dell’Ebola sul suolo americano, l’esplosione del fenomeno “Is” nel teatro mediorientale e la conseguente paura di dover ritornare a combattere

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nelle aree desertiche di quel quadrante geopolitico, l’atteggiamento ambiguo assunto sul programma nucleare iraniano, il mancato contrasto all’immigrazione illegale che incrementa sia la criminalità comune sia quella organizzata, hanno rappresentato altrettanti macigni caduti sulla strada del consenso ai democratici. Inoltre, la palese ostilità mostrata in questi ultimi anni da Obama nei confronti del governo di Gerusalemme, tradizionale alleato degli Stati Uniti, è stata vissuta da una parte consistente dell’opinione pubblica americana con estremo disagio. Ora Barack Obama è “lame duck”, un’anatra zoppa. Ne avremo ben presto contezza, anche in Europa, nel momento nel quale si affronteranno dossier particolarmente delicati. A cominciare dalla de-escalation della crisi ucraina. Le elezioni di midterm, per la politica americana, sono qualcosa di più che un ordinario passaggio elettorale. Rappresentano una sorta di referendum sulla politica del presidente. Barack Obama, in questa specifica circostanza, è stato abbandonato da segmenti importanti del suo elettorato. Non sono andati alle urne i giovani, le donne e le minoranze etniche, in particolare quella afroamericana, che hanno costituito le chiavi dei suoi successi nel 2008 e nel 2012. Se gli Stati costieri dell’Est e dell’Ovest si sono in gran parte confermati, per le scelte progressiste in materia di diritti civili avanzati, territori favorevoli ai democratici, l’America profonda, con la sua anima rurale, è ritornata su posizioni conservatrici. In politica interna, il governo federale benché abbia ottenuto risultati soddisfacenti riavviando la crescita economica e incrementando l’occupazione, ha comunque scontato la mancata risalita del potere d’acquisto dei salari, fermo al valore del 2008. Obama, se vuole provare a recuperare consensi, dovrà riscrivere la sua agenda riformista sapendo che i repubblicani non gli faranno sconti. Il portavoce in pectore del Grand Old Party, Mitch McConnell, trionfatore in Kentucky, in una dichiarazione rilasciata al Guardian, a ridosso dei risultati elettorali, ha ribadito la sua ferma opposizione a «un governo che le persone non credono più capace di portare avanti i suoi doveri basilari... perché è troppo concentrato su cose cui non dovrebbe pensare affatto». Queste elezioni hanno segnato anche un passaggio di verifica importante degli equilibri all’interno del Partito repubblicano, che non è certo monolitico. E’ da tempo in corso un confronto durissimo tra le due anime del conservatorismo d’oltreoceano. Da una parte la vecchia guardia che, in passato, ha espresso l’establishment della forza repubblicana. Dall’altra, la generazione degli ultraliberisti prevalentemente raggruppati nel cosiddetto Tea Party. Ora, il quadro che esce dalle urne del 4 novembre sembrerebbe confermare la vittoria della frazione moderata rispetto agli oltranzisti. Ciò farebbe presagire che, di là dalle roboanti affermazioni post-elettorali, i rappresentanti repubblicani al Congresso sosterranno il tentativo presidenziale di stabilire una canale di dialogo. Il primo terreno di condivisione tra Casa Bianca e Congresso, gradito ai repubblicani, potrebbe essere la realizzazione sia del Tpp (Trans-Pacific Partnership), l’accordo di libero scambio per l’area del Pacifico, sia del Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership), che riguarda il mercato dell’Unione europea.


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Presto la Casa Bianca tornerà a bussare con più insistenza alla porta di Bruxelles per chiudere la trattiva commerciale per la quale i partner europei mostrano scarso entusiasmo e molta preoccupazione. Se il 4 novembre sia stata la “Caporetto” dei democratici o soltanto una battuta d’arresto nel processo di consolidamento della propria base elettorale, è presto per dirlo. Da come riuscirà Barack Obama a muoversi dribblando il gioco interdittivo dell’opposizione/maggioranza repubblicana, dipenderà l’ampiezza dello spazio di agibilità politica concessa ai democratici per tornare a parlare al paese con la speranza di essere ascoltati. E creduti. Per canto loro, gli odierni vincitori dovranno fare i conti con un successo forse molto più grande di quello atteso. Di fatto, il Gop non ha ancora un leader totalmente riconosciuto da tutte le componenti della galassia conservatrice. Non è improbabile che, in mancanza di un serio compromesso preventivo sulla leadership del partito, la prossima campagna per le primarie presidenziali si trasformi in una resa dei conti sanguinosissima tra opposte fazioni. Sarebbe auspicabile che i protagonisti della destra fossero pienamente consapevoli del rischio che corrono e fanno correre al loro Paese. Sarebbe imperdonabile se un futuro candidato repubblicano alla Casa Bianca dovesse cadere non per mano dell’avversario ma per colpa del “fuoco amico”. Arktos

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I NUOVI UNNI Per far valere le proprie ragioni, vere o presunte che siano, ammazzare gente inerme, fare strage di innocenti. Questo il paradigma del Terrore. Che poi dietro le "ragioni" del terrorismo vi sia il fanatismo, la religione, la politica, gli interessi economici, l'irredentismo, il cieco desiderio di vendetta per torti subiti o un progetto di genocidio è altra questione. Quello che tocca i cittadini dell'Occidente, tutti, sono le conseguenze degli atti del terrore sulla vita quotidiana, sulla riduzione delle garanzie, sulla contrazione dei margini di libertà, al di là dell'esecrazione e della solidarietà alle vittime. Questo rende la lotta al terrorismo una vera e propria guerra dalla quale nessuno può chiamarsi fuori e che, purtroppo, sembra coinvolgere, attivamente, pochissimi. Non si è, difatti, mai vista una manifestazione di piazza per sostenere la costituzione di uno stato di Palestina o l'affrancamento dell'Irlanda del Nord o un convegno per capire le ragioni dei Baschi o dei mullah afgani. Questa indifferenza collettiva oggi la paghiamo con tanti piccoli "fastidi" e domani la pagheremo salatamene con la riduzione della sfera individuale di libertà. Gli estenuanti controlli agli aeroporti, gli "spogliarelli" obbligatori, le perquisizioni personali ogni volta che suona il cicalino del radar, le robuste dosi di radiazioni, la telesorveglianza sempre più massiccia e invasiva, i monitoraggi di Internet e delle conversazioni sui cellulari sono solo la prima avvisaglia. La vera caccia alle streghe deve ancora cominciare e quando arriverà saranno dolori per tutti, non più piccoli fastidi. E questa sarà la vera vittoria del Terrore. Ridurre per tutti quelle libertà faticosamente conquistate attraverso secoli di storia, attraverso lotte, rivoluzioni, guerre, battaglie civili ed un alto prezzo di sangue. E ridurre le garanzie e le libertà è certamente mortificare la democrazia e far arretrare la civiltà occidentale di cui costituiscono l'essenza. Per questo bisogna mobilitarsi contro il Terrore ed i suoi fiancheggiatori. Per non dargliela davvero vinta, per non pagare, tutti, l'amaro prezzo della rinuncia a quote di libertà in favore di una maggiore - e solo apparente - sicurezza. E mobilitarsi senza fanatismo, senza fondamentalismo è più difficile, richiede uno sforzo molto maggiore di quello richiesto ad un kamikaze. Significa essere vigili e intransigenti, essere pronti anche a reagire contro i germi del terrore ma significa anche, cosa estranea alle menti dei terroristi, comprendere per rimuoverle le cause che lo rendono fecondo e prolifico.


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Prima fra tutte la questione palestinese. Che si acceleri il processo di pace ed il pieno riconoscimento di uno stato Palestinese, che si offra ad Israele l'impegno che, in caso di pericolo, tutto l'Occidente sarà al suo fianco. Un modo questo anche per arginare la fiammata fondamentalista che va espandendosi dall’Iraq al Kenia, dalla Somalia alla Libia ed innescata dall’Isis che, nelle farneticazioni dei suoi leader, minaccia un novello rogo di Roma. Una minaccia che ci fa sorridere. Abbiamo conosciuto, in millenni di storia, Unni, Vandali, Visigoti, Ostrogoti ed ogni altra specie di barbari, i nuovi li aspetteremo a piè fermo. PK

audacia temeraria igiene spirituale

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IL FANATISMO DELLA DEMOCRAZIA Amos Oz, il popolare scrittore israeliano, nel suo lucido saggio: "Contro il fanatismo" sintetizza il fanatico come "un punto esclamativo ambulante" e il fanatismo come "un gene perverso della natura umana". "La gente che fa saltare le cliniche dove si pratica l'aborto in America, la gente che brucia moschee e sinagoghe in Germania… Il fanatismo è praticamente dappertutto, e nelle sue forme più silenziose e civili è presente tutto intorno a noi, e fors'anche dentro di noi. Conosco bene quei non fumatori capaci di bruciarti vivo se osi soltanto accendere una sigaretta vicino a loro! Conosco questo vegetariani capaci di mangiarti vivo per avere ordinato una bistecca! Conosco quei pacifisti, alcuni miei colleghi del movimento per la pace in Israele, capaci di spararmi in testa solo perché ho auspicato una strategia lievemente diversa per il processo di pace con i palestinesi." Sì il fanatismo, spesso, è tutto intorno a noi e dentro di noi. E c'è anche un fanatismo della democrazia, un fanatismo dell'egualitarismo e un fanatismo della diversità. Il matrimonio tra gay è, nello stesso tempo, figlio del fanatismo dell'egualitarismo alla Zapatero e del fanatismo della diversità ostentata, proprio di molti omosessuali. Basterebbe inserire nel codice un nuovo tipo di contratto, quello di unione civile, per consentire a tutti coloro che scelgono di vivere stabilmente insieme per le ragioni più varie: omosessualità, necessità, semplice amicizia o solidarietà il prodursi di effetti civili quali, ad esempio, quelli successori, senza bisogno di intaccare e imbastardire il matrimonio eterosessuale che è nato per garantire la continuità della vita; come bastava estendere la possibilità di adozione ai singles subordinatamente alle coppie sposate - per riconoscere a chiunque il diritto di adozione, senza creare la mostruosità del doppio padre o della doppia madre. Da noi è il fanatismo della democrazia che genera mostruosità e costosissime superfetazioni che non ci possiamo più permettere. Ministeri, vice-ministeri, sottosegretariati, regioni, province, comuni, circoscrizioni, comunità montane, unioni di comuni, enti di ambito, autorità delle più svariate specie, garanti, commissari, commissioni, osservatori, società miste e adesso anche le città metropolitane. Solo la smania di "sussidiarietà" - con scarsi benefici concreti - è costata ai cittadini tanti, troppi miliardi di euro in più per il balzo della fiscalità locale degli ultimi anni. Di eccessi democratici rischiamo di morire. Gustavo Peri


SOCIETA’

GIURAMENTO E RISORGIMENTO Suscita un certo sconcerto la formula del giuramento di affiliazione alla Ndrangheta che tira in ballo Garibaldi, La Marmora e Mazzini. Wikipedia alla voce Santa (’Ndrangheta) la interpreta così: “La Santa o Società maggiore è un'organizzazione malavitosa, secondo le confessioni dei pentiti, nata a metà degli anni settanta in seno alla 'Ndrangheta. Chi fa parte di questa associazione viene chiamato santista, ed è uno degli ultimi gradi della gerarchia calabrese. I santisti delle varie locali si pensa si riuniscano annualmente ad Africo. Nacque a metà degli anni settanta del XX secolo, con l'esigenza di dover conferire con uomini non appartenenti alla 'Ndrangheta per poter meglio gestire gli affari illeciti e avere accesso al potere. Per arrivare ai livelli alti del potere bisognava avere come tramite gli appartenenti alla massoneria che spesso non erano affidabili. Il pentito Gaetano Costa afferma che fu don Mommo Piromalli a introdurre la regola che chi fosse santista poteva avere contatti anche con la massoneria. Si ebbero però ben presto disaccordi, soprattutto da parte di don Antonio Macrì e don Mico Tripodo, per il fatto che il "Santista" poteva tradire la propria 'ndrina per salvare l'organizzazione santista. Il pentito Lauro però affermò che lo stesso Macrì fosse un massone. All'inizio l'associazione poteva essere composta solo da 33 elementi, ma per le richieste pressanti di molti 'ndranghetisti il numero fu incrementato fino a far creare, per i troppi appartenenti, un grado superiore il Vangelo, di cui parla anche Pino Scriva. Nel giugno 1987, viene ritrovato a Pellaro a casa dello ndraghetista Giuseppe Chilà il primo codice riguardante i riti della Santa[1]. Nel 1992 dopo loperazione Olimpia si ebbero maggiori informazioni, si scoprirono le persone che fecero accedere i santisti nella massoneria calabrese: il notaio Pietro Marrapodi, Pasquale Modafferi e il capo-loggia Cosimo Zaccone. Il 19 settembre 2014, per la prima volta, viene pubblicato un filmato registrato dal Ros dei carabinieri di Milano, nell'ambito dell'operazione Insubria, che mostra il passaggio alla dote di Santa a Castello Brianza (MB), è inoltre il primo video a riprendere un rito di un'organizzazione criminale di stampo mafioso In precedenza potevano essere massimo 33, ma col tempo ne furono accettati anche di più. Chi appartiene alla Santa può avere contatti con persone non affiliate e che hanno prestato giuramento ad altri corpi come: carabinieri, politici, magistratura e soprattutto con la massoneria. La Santa inoltre possiede regole diverse da quella consuete alla 'Ndrangheta: infatti per formare un'organizzazione di Santa o Società maggiore all'interno di una locale servono almeno 7 persone col grado di santista. Nella Santa potevano essere ammessi i giovani e ambiziosi esponenti delle cosche, smaniosi di

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rompere le catene dei vecchi vincoli della società di sgarro e di misurarsi con il mondo esterno, che offriva infinite possibilità di inserimento, di arricchimento, di gratificazione. Due sono gli elementi che appaiono decisivi. Il primo è costituito dall’impegno assunto dai santisti di “rinnegare la società di sgarro”. Dunque le vecchie regole, ancora valide per tutti i “comuni” mafiosi, non valgono più per la nuova élite della 'ndrangheta. Come detto i Santisti possono entrare in contatto con uomini politici, forze dell'ordine, avvocati Ne risulta che l’infamità non rappresenta più uno sbarramento invalicabile, può essere aggirata e superata in vista dei vantaggi che la rete dei contatti non più preclusi può assicurare. Il secondo importante elemento è costituito dalla “terna” dei personaggi di riferimento prescelti per l’organizzazione della “Santa”. Non più gli Arcangeli della società di sgarro – Osso, Mastrosso e Carcagnosso - ma personaggi storici, ben noti nella tradizione culturale e politica italiana: Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi e Alfonso La Marmora. Come va spiegato allora un richiamo così solenne ed esplicito a tali personaggi? Qual è il messaggio che attraverso tale indicazione si vuole mandare al popolo della ‘ndrangheta? La risposta è chiara se si osserva come Garibaldi, Lamarmora, Mazzini erano tutti e tre appartenenti a logge massoniche, per di più in posizioni di vertice. Si spiega così la loro adozione come punti di riferimento da parte della Santa. Il santista viene riconosciuto da una croce grande pochi millimetri fatta con una lama su una spalla”. L’appartenenza alla massoneria dei tre personaggi del Risorgimento è pacifica. Come è certo che l’origine della ‘Ndrangheta risale alla metà dell’800 e che è la sola organizzazione criminale ad aver conservati intatti i suoi rituali. Questo rende debole la spiegazione “santista” in quanto la Santa è di recente costituzione. Durante il Risorgimento le società segrete svolsero un ruolo importante nel processo di unificazione “per annessione” voluto dai Savoia. Furono finanziate ed incoraggiate nell’opera di rovesciamento degli ordini costituiti negli Stati preunitari. Per tale ruolo furono successivamente legittimate ed onorate. Ed è a quella legittimazione che bisogna far risalire la formula del giuramento. Il patto Stato - mafia ha origini molto più lontane di quanto non si creda. Alla stessa “legittimazione”, ad esempio, si fece ricorso durante il secondo conflitto mondiale per preparare e favorire lo sbarco alleato in Sicilia. Pennanera


CULTURA POLITICA

LA DESTRA E IL TABU’ DELLE POLITICHE DEL LAVORO Il tema del lavoro rappresenta il cavallo di battaglia della sinistra. Il centrodestra non ha mai desiderato contrastare questo luogo comune. Quando ha operato, come nel caso della "legge Biagi", per aumentare la flessibilità in entrata nel mercato del lavoro, certa propaganda marxista ancora fortemente radicata nel Partito Democratico e nei sindacati della Triplice, hanno bocciato l'iniziativa legislativa con un sommario giudizio. Per loro si trattava di controriforma e non di riforma. Come ai tempi del Concilio di Trento. Il centrodestra non è stato capace di passare al contrattacco, bollando le posizioni della sinistra come un residuo prediluviano della teoria della lotta di classe. Ad essere più espliciti, esso si è lasciato trascinare, negli anni della seconda Repubblica, all'interno di una visione caparbiamente ideologica del mondo del lavoro senza tentare di intraprendere un proprio autonomo percorso di riforma radicale del sistema la quale non suonasse come punitiva per la forza lavoro. Si pensi, ad esempio, alla battaglia all'arma bianca ingaggiata sulla questione dell'abrogazione dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Mi riferisco alla norma ante riforma del 2012 che di fatto impediva alle imprese con almeno 15 dipendenti il licenziamento del lavoratore per motivi diversi dalla giusta causa. L'idea di sciogliere le briglie all'impresa, perché potesse una buona volta muoversi in assenza di vincoli supplementari alla implementazione dei processi produttivi, resta un'antica aspirazione del liberismo nostrano e dei suoi fautori i quali si collocano politicamente, con legittimo diritto, nell'ambito della Destra. D'altro canto le teorie economiche che pongono l'accento sulla profittabilità delle imprese sono parte dell'ordito politico della Destra. Non è stato forse il padre del neoliberismo concepito nella Scuola di Chicago, Milton Friedman, a dire che l'unico imperativo morale per l'imprenditore è produrre profitto? Le sue teorie influenzarono, negli anni Ottanta dello scorso secolo, le condotte di due fari indiscussi della destra politica: Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Freeman sfidò apertamente tutte le posizioni "aperturiste" nel campo della responsabilità sociale delle imprese sostenendo una ferma opposizione alla istituzionalizzazione degli stakeholders quali soggetti diversi dagli azionisti/proprietari che potessero avere voce in capitolo nelle scelte strategiche delle aziende. Eppure, per quanto la cosa possa apparire paradossale, c'è dell'altro da questa parte della frontiera. Lo attestano gli stessi Karl Marx e Friedrich Engels che nel Manifesto del Partito Comunista, passando in esame le ideologie nemiche del movimento operaio, vi includono il "socialismo feudale" per il suo carattere anticapitalistico, antiborghese e antiliberale. La qualificazione "feudale", richiamerebbe una visione del mondo totalmente reazionaria. Sebbene la lettura marxiana

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appaia chiaramente forzata per effetto di un'interpretazione faziosa, resta il fatto che non ci si sia allontanati troppo dalla realtà. Vi è un'intera generazione di uomini della Tradizione, orgogliosamente radicati nella Destra italiana, che sono cresciuti apprendendo gli insegnamenti autentici e correttamente interpretati di chi, come Julius Evola, sosteneva che la natura profonda dell'economia non avesse un'essenza angelica, bensì demonica. Seguendo questa linea di pensiero è agevole comprendere del perché in molti a Destra ritengano che il consumismo sia oppio per le viscere dei popoli e non balsamo per le coscienze. Questa apparente contraddizione rinvia alla problematica di fondo degli ultimi anni di cui la vicenda del piano sul lavoro rappresenta una delle tante conseguenze. La verità è che l'idea di una Destra italiana si conferma un concetto in sé fallace giacché non è possibile, alla luce del pregresso storico datato dalla fase risorgimentale, che si riesca a ridurre l'intero campo, avversario della sinistra, a una sola componente. Per questo motivo è più sensato che si parli di Destre che nel nostro sistema politico-sociale sono sorte e hanno trovato quartiere. A cominciare dall'Ottocento dello scorso millennio allorquando ideologie autoctone, originatesi nello schieramento progressista prodotto dagli esiti della propagazione dell'illuminismo filosofico e politico, sono state espulse a seguito dell'avvento totalizzante dell'ideologia marxista. E' il caso del liberalismo, come pure del frutto maturo caduto dall'albero del sindacalismo anarco-rivoluzionario di Georges Sorel: il fascismo. Analogo discorso potrebbe essere svolto sulla questione delle radice storica del nazionalismo. In ultimo, è il caso più recente, si deve registrare la diaspora della quota del socialismo autonomista italiano che, a seguito delle vicende connesse alla caduta traumatica della Prima Repubblica, è approdata, armi e bagagli, in quell'"altrove" che pure i suoi militanti avevano fieramente osteggiato fino a qualche tempo prima. Con una certa dose di ironia si potrebbe asserire che se si fosse applicata la cosiddetta "Bossi- Fini" alle ideologie migranti, oggi gli allievi del pensiero di Destra starebbero a scambiarsi considerazioni e commenti su un Edmund Burke, un Donoso Cortés o un Carl Schmitt alla luce del sole, piuttosto che leggerli nella clandestinità o passarseli sottobanco nel timore che, se scoperti, si venga etichettati come soggetti alieni (peggio ancora: alienati). D'altro canto era del tutto evidente che le ondate successive di trasmigrazione ideologica dall'una all'altra parte del campo, in senso unidirezionale, avrebbero determinato contaminazioni e rimescolamenti di idee e di proposte, certamente a vantaggio della ricchezza degli argomenti prodotti ma in danno della sintesi, indispensabile per un agire politico omogeneo. La Sinistra, al contrario di ciò che è accaduto per la Destra, ha vissuto con minore difficoltà il problema della frantumazione delle correnti ideologiche al suo interno. Sebbene la sua storia sia stata fondata sulla proliferazione dei tanti "marxismi" inimicissimi tra loro, espressione cara a Norberto Bobbio, nel tempo la prassi politica ha consentito una sostanziale riduzione a due grandi canali/contenitori del mainstream che ha attraversato, fertilizzandolo, il campo della Sinistra storica. Si può dire che, alla fine, tutto sia ricondotto, in una sorta di rudimentale antropologia, alternativamente al massimalismo, incardinato nelle scelte della "Terza Internazionale" che dà luogo, ovunque nel mondo, alle esperienze totalitarie del comunismo al


CULTURA POLITICA

potere declinato secondo la teoria politica di Lenin o al revisionismo riformista, frutto della correzione di rotta Kautskiana avvenuta con la "Seconda Internazionale", che riapre le porte al socialismo interpretato secondo il principio del libero sviluppo di ognuno come condizione del libero sviluppo di tutti. Tuttavia, la differenza sostanziale che la Sinistra marca concettualmente rispetto alla controparte, risiede nella sua esclusiva caratteristica di farsi portatrice di "una nuova e superiore civiltà" fondata su di una riconfigurata disciplina delle forze produttive. Ne consegue la sua propensione ad essere forza agente nel macrocosmo egualitarista che ingloba il suo campo. La Sinistra possiede in sé gli strumenti in grado di assorbire, riducendolo mediante processi di sintesi dialettica, il maggior numero di contraddizioni esistenti al proprio interno. A cagione di ciò non rappresenta un assurdo logico che si sia dato vita alle stesse coppie assiologiche che avrebbero invece dovuto connotare i due campi avversi. Così che nello sviluppo dell'ideologia marxista ritroviamo i binomi alternativi di progressista/conservatore, di giustizialista/garantista, di operaista/migliorista o, per riprendere la formula introdotta da Carl Schmitt, di amico-nemico, applicati alle posizioni interne alla medesima parte politica. Dunque, tornando alla vicenda della Destra italiana, l'aver albergato, sotto le stesse insegne, offerte politiche sostanzialmente diverse, se non addirittura opposte, ha sovente generato quell'immobilismo la cui conseguenza finale ha comportato l'incapacità strutturale di produrre politiche coerenti. Bisogna riconoscere che, nell'agone politico, il "campo d'Agramante" sia stato fondamentalmente quello di Destra. Noi siamo per il ristabilimento della dialettica interclassista o per il suo superamento? Il principio verticale della gerarchia trova ancora posto nella concezione liberale dello Stato-orizzontale? E spingendoci oltre: siamo per la protezione corporativa delle categorie o pensiamo che nel mercato del lavoro debba regnare incontrastata la libertà assoluta del matching domanda/offerta? Lo Stato deve essere regolatore delle dinamiche delle relazioni industriali o deve limitarsi a sussidiare l'impresa, quando richiesto? La contrattazione collettiva è un valore da sostenere o un tabù da abbattere? La flessibilità è per noi un orizzonte che si apre sul futuro delle nuove generazioni per cui ci apprestiamo ad accoglierla con favore nel nostro lessico domestico? Se è così, allora come la mettiamo con il dogma dell'inamovibilità dal posto di lavoro del pubblico dipendente? E lo Stato, vogliamo che faccia ancora la parte del guardiano del gregge attraverso uno stringente reticolo di norme che condizioni il mercato del lavoro, oppure diamo ascolto alla logica della globalizzazione pensando che la sua funzione debba limitarsi a quella di erigere lo steccato entro il quale stiano "libere volpi in libero pollaio"? Sono solo alcune delle domande che una persona di destra potrebbe porsi avendo a disposizione non una sola, come sarebbe logico, ma una molteplicità di risposte tra loro alternative. Se, dunque, la patologia diagnosticata è quella dell'incapacità di fare sintesi delle diverse proposte che emergono dalla stessa parte del campo, allora appare inutile, e dannoso, intestardirsi sulla vicenda della leadership dell'ipotetica destra. Non saranno certo le sfide tra improbabili personaggi in cerca d'autore, in elezioni primarie pirandelliane, a ridare forza e vigore a una parte politica la cui capacità propulsiva appare, al momento, dimidiata.

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Occorrerebbe una stagione di confronto interno, ancorché serrata, per l'identificazione di alcuni punti programmatici omogenei sui quali ricostruire l'identità finale della Destra. Per fare ciò è necessario che ci si sfidi, o meglio, si ingaggi una sfida tra differenti modelli ideologici da offrire al giudizio del popolo di Destra. Sarebbe una gran cosa se si combinassero le "primarie" delle idee. Solo allora si potrebbe cominciare a costruire un "Renzi di Destra" che abbia un profilo di leader realmente in sintonia con la sua gente. Comunque, sarebbe estremamente salutare per le sorti future della Destra che si producessero interazioni tra posizioni omogenee per giungere quanto meno a restringere il campo a soli due grandi filoni ideologici, aperti tra loro al confronto, nei quali incanalare tutte le espressioni e le correnti di pensiero che dichiarano di collocarsi nella medesima parte del campo. Richiamando il giudizio di un allora giovane Ernesto Galli della Loggia, forse è giunto il momento in cui la Destra nel suo complesso faccia i conti con il proprio tempo. Se la Sinistra è sempre stata in linea con l'avanzare della storia, non altrettanto è stato per l'altra parte. Sebbene a diverso grado e con differenti modalità, tutte o quasi le correnti ideologiche che hanno animato il campo della Destra, invece, hanno posto in discussione la modernità, chi negandola radicalmente, chi limitandosi a criticarne le manifestazioni e chi sopravanzandola attraverso la proiezione direttamente verso il futuro. L'odierna realtà restituisce un'immagine di un Paese in crisi profonda che attende risposte efficaci per riprendere il proprio cammino. E per quanto a molti piaccia credere nella suggestione dell'insegnamento cristiano del "Voi non siete di questo regno", trovando più consono acconciarsi a vivere l'eternità, è indispensabile che ci si prepari ad agire "hic et nunc" sul piano della proposta organica prodotta a Destra. E' utopia realizzarla? Forse. Tuttavia, è un dovere provarci. Cristofaro Sola


GEOPOLITICA

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CULTURA DOSSIER

Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

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