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Aeromensile di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

Nuova serie - Numero 29 Ottobre 2014 - Anno XVI

CAPIRE PER CAMBIARE


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Confini Aeromensile di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Numero 29 - Ottobre 2014 - Anno XVI

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettore: Massimo Sergenti +

Hanno collaborato a questo numero: Pietro Angeleri Giuliano Bifolchi Francesco Diacceto Gianni Falcone Giny Enrico Oliari Angelo Romano Massimo Sergenti Cristofaro Sola

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Segreteria di redazione: confiniorg@gmail.com

+ Registrato presso il Tribunale di Napoli n. 4997 del 29/10/1998

confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

COMPRENDERE E AGIRE Alle scuole elementari dei miei tempi, che sono stati i "mitici anni Sessanta", ci raccontavano la storia di Marco Atilio Regolo, console romano vissuto nel III secolo a.C.. Regolo fu anche comandante delle legioni di Roma nel corso della prima guerra punica. Alla vicenda bellica contro Cartagine è legata la leggenda della sua vita. E della sua morte. Si narra che, dopo essere stato tenuto prigioniero per lunghi anni, Regolo fosse rimandato in patria come latore di una proposta di pace. I cartaginesi, però, ne avevano subordinato la definitiva liberazione al buon esito della missione. Se Regolo avesse convinto i romani a porre fine alla guerra sarebbe stato libero. Diversamente avrebbe dovuto fare ritorno a Cartagine dove sarebbe stato messo a morte. Regolo era convinto che Roma avrebbe dovuto incalzare il nemico fino ad averne ragione. Per questo, trascurando le conseguenze del suo gesto, giunto a Roma si spese con tutte le forze perché la repubblica respingesse le profferte cartaginesi. Riuscì nell'intento. A quel punto, pur potendo restarsene a casa, decise di ritornare a Cartagine, conscio dell'infausto destino che lo attendeva. Respinse le suppliche degli amici e dei parenti che volevano costringerlo a non partire dicendo loro che prima ancora della vita gli era più caro l'onore. Aveva dato la sua parola ai nemici cartaginesi che sarebbe tornato e così fu. Di lui la tradizione tramanda la celebre espressione: “Non è importante che viva. E' importante che vada". La storiografia attribuisce la diffusione di questa leggenda alla necessità della propaganda romana di costruire su di un personaggio realmente esistito l'evento mitico attraverso il quale trasmettere alle generazioni successive il contenuto di un insegnamento di natura etica. In tempi a noi più vicini, il modello educativo adottato dalla scuola della riforma gentiliana ne aveva tratto ispirazione per veicolare tra i giovanissimi quei principi morali che avevano segnato la grandezza di Roma e che, nel XX secolo, avrebbero dovuto servire la medesima causa. Di recente mi è capitato, per ragioni professionali, di provvedere alla stesura del patto per una costituenda associazione di imprenditori. All'atto della discussione sul progetto statutario, alcuni dei soci fondatori chiedevano di emendare un articolo, cassando la proposizione con la quale si sanciva: "L'associato è tenuto a comportarsi con onore e nel rispetto della dignità della persona umana". Costoro eccepivano che il termine onore fosse "troppo forte" e proponevano di sostituirlo con il più appropriato concetto di "interesse". Così è stato. Ho citato questi due accadimenti della mia esistenza verificatisi a distanza di mezzo secolo l'uno


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dall'altro per dimostrare, di là da ogni riflessione di carattere pseudofilosofico, quale sia la vera natura della società del nostro tempo storico. Le società tradizionali si reggevano sulle geometrie degli archetipi i quali fungevano da supporti assiologici per lo svolgersi ordinato della vita comunitaria. L'avvento della modernità generata dalla "dea ragione" ha fatto dello scardinamento di quelle architetture armoniche la propria ragion d'essere . Dobbiamo avere il coraggio di dire la verità. Questa società che pure tanto ci ha dato, altrettanto ci ha tolto. La perdita degli assoluti etici è stato il prezzo più iniquo che l'individuo collettivizzato abbia dovuto pagare per inseguire il miraggio del suo affrancamento dal bisogno. Promessa di libertà che, nel tempo, si è trasfigurata in nuova, sebbene più sofisticata, schiavitù. Era inevitabile che accadesse. La prassi dell'identificazione di una comunità nei suoi valori perenni è stata sovvertita dalla logica dell'interesse e dalla sua natura relativa e contingente. Non è questa la sede opportuna per indagare la genesi della mutazione. Probabilmente si tratta delle medesime cause che hanno accompagnato la regressione della società fondata sui rapporti di produzione fino al suo tramonto. Tuttavia, è bene intendersi. L'idea di società incubata nell'età dei lumi non smette di essere fonte di valori. Solo che il bene finisce per identificarsi con ciò che alla società è utile, mentre il male si traduce in ogni azione che reca nocumento ai suoi processi integrativi o all'efficacia delle sue dinamiche auto-riparative. Le leggi dei padri sono state abbandonate per essere sostituite con l'interesse "sociale" a sottomettere l'individuo alla convenienza della collettività. Interesse e fede sono entrate in rotta di collisione. La formazione di un nuovo pensiero politico e sociale è divenuta una variante funzionale dell'idea di una modernità secolarizzata. Una modernità che fin troppo presto ha imparato a fare a meno di Dio. Questa concezione della modernità ha recato in seno l'immagine razionalistica di un mondo che integra il microcosmo nel macrocosmo cancellando ogni forma di dualismo tra corpo e anima , tra dimensione fisica e trascendenza spirituale. E l'albero della modernità, privato del suo apparato radicale, ha generato frutti velenosi. Come un farmaco di cui ci serviamo per curare una specifica patologia ha le sue controindicazioni, allo stesso modo la forma democratica che in Italia abbiamo imparato a frequentare dalla fine del secondo conflitto mondiale considerandola il migliore antidoto ai pericoli insiti nell'arbitrio della tirannide, fonda la propria natura ultima sulla rappresentanza di interessi concorrenti. Appunto di interessi! Si potrebbe opinare che la dialettica che si produce grazie al libero confronto di interessi contrapposti sia foriera di una dinamica virtuosa. Dove la virtù sia da ricercare nel fine di progresso a beneficio di un'umanità indistinta. Questa bizzarra concezione di una virtù che guarda ai risultati incurante degli strumenti usati per ottenerli non corrisponde all'archetipo che la tradizione della nostra civiltà intendeva trasmettere. E, in qualche misura, ci spaventa.

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EDITORIALE

Non si tratta di fare del moralismo bigotto. L'V D g J Z , tramandataci dagli antichi greci non ha in sé alcun intendimento moralistico. Piuttosto, parla di ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Non di un'esistenza ricca, di successo, piena di relazioni, attiva, simpatica , frenetica, oziosa, intrigante, dinamica o contemplativa. Semplicemente, un'esistenza degna. Chiediamoci allora cos'è che rende una vita degna di essere vissuta. E' stata degna l'esistenza del leggendario Atilio Regolo sacrificatosi per tenere fede alla parola data? E allo stesso modo come deve essere valutata la vicenda umana di Salvo D'Acquisto che scambiò la sua vita con la salvezza di molti innocenti? E' forse più degno ciò che i governi italiani, succedutisi in questi ultimi anni, hanno fatto ai due nostri marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, lasciandoli nelle mani dell'arrogante governo indiano, permettendo che venissero accusati falsamente e illegittimamente? Tutto in nome di interessi, non propriamente confessabili. Viene da pensare che il sacrificio generi una particolare dimensione etica appannaggio esclusivo di quella speciale categoria umana che sono gli eroi. Forse sono loro gli "individui differenziati" di evoliana memoria a cui è concesso l'onere della separazione dalla nuova categoria antropologica della massa dei consumatori. Nel tempo della postmodernità, che ha sciolto i propri assoluti nel mainstream della società liquida, riconoscere peso preponderante all'impianto dei valori perenni rispetto alla dinamica del perseguimento dell'interesse, non è compito che spetta all'uomo comune. A costui è consentito il diritto a una vita dedita al consumo. Come contropartita l'individuo che si consegna alla logica di un'esistenza conveniente rinuncia alla piena sovranità sulla sua medesima natura. Chiediamoci allora se questo sia il mondo che desideriamo. Chiediamoci cosa possa dare senso alla vita che si priva dei suoi poli d'orientamento, dei suoi valori perenni. Coraggio, fede, patriottismo hanno ancora prospettiva di senso nel nostro tempo? Contro le tentazioni più subdole che sono le sfrenate ambizioni e i piaceri ingannevoli si richiede autocontrollo e spirito di sacrificio. Abbiamo ancora voglia di impegnare l'individuo in una lotta che, a tratti, sembra impari? Prima di rispondere ciascuno dovrebbe addentrarsi nelle profondità del proprio animo e cercare lì quelle risposte che non è dato di rinvenire altrove. Non si tratta di impersonare virtù eroiche quanto di dare senso compiuto alla quotidianità. Fu Bertolt Brecht a dire: "Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi". Forse la somma virtù sta nell'attitudine a comprendere la propria condizione e ad agire coerentemente. Capacità di comprensione e volontà d'azione danno la malta che cementa le élite. Se non di eroi questa odierna società ha bisogno di vere élite a cui affidare con fiducia il proprio destino prima che sia tardi. Bisogna avere coraggio. Nel tempo del melting pot, di gran moda nei circoli dei benpensanti, si deve pur dire "viva la differenza". Non si dovrebbe essere timorosi nel sostenere che un principio fondamentale costitutivo della società umana è la disuguaglianza naturale degli uomini. E se si riconosce che la libertà sia un grande ideale si deve anche ammettere che essa è un ideale


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aristocratico. Giuseppe Prezzolini sosteneva che le masse non sentono il bisogno della libertà: sentono il bisogno del cibo. Lo diciamo o lo sussurriamo lievemente perché non si dia troppo disturbo ai pedanti? Se non pensiamo che la conservazione sia un istinto vitale, una forma dello spirito, l'essere che sopravanza il divenire rendendolo possibile solo quando sia la risultante ordinata del suo sviluppo, cosa ci stiamo a fare appollaiati sul bordo destro del campo? C'è ancora tempo per fermare la caduta nel vuoto. Alla società consumistica si deve opporre una società conservatrice. Il progresso illimitato richiede un prezzo troppo alto che questa umanità a breve non potrà più pagare. E' giunto il tempo per i costruttori di arche. E' bene che ci si prepari anche a costo di sopportare il ghigno volgare della massa ottenebrata dai fumi del benessere comprato a buon mercato. Non si abbia paura di comprendere e agire. Un poeta che ha frequentato le pagine della mia adolescenza disse, a proposito della dignità umana: " Se un uomo non ha il coraggio di difendere le proprie idee, o non vale niente lui, o non valgono niente le sue idee". Quel poeta era Ezra Pound. E noi, quanto pensiamo di valere? Cristofaro Sola

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SCENARI

CAPIRE PER CAMBIARE Capire dove sta andando il mondo, sia come pianeta che come "nido" dell'umanità. Comprendere la scienza, le implicazioni sulla vita e sulle abitudini dei risultati della ricerca e delle tecnologie che ne derivano. Cogliere i mutamenti sociali, desideri e bisogni emergenti, tenendo conto delle emozioni e delle specificità di popoli e individui. Analizzare i propri punti di forza, come popolo, e quelli di debolezza e scegliersi un futuro ed un ruolo sugli scenari che si intravedono. Definire obiettivi e programmi in grado di conseguirli sapendo di dover competere sempre più duramente per crescere o solo per mantenere le posizioni sulla trincea della storia. E' questo il senso ed il compito della politica alta che può riassumersi in tre parole: attenzione, lungimiranza, responsabilità, nel quadro di un approccio sistemico ai problemi. E' iniziata la quarta rivoluzione industriale. E' già in commercio la prima automobile con la carrozzeria interamente stampata in 3D, la Nasa ha costruito le prime parti di motori di vettori spaziali con la stessa tecnologia e non è lontano il giorno in cui molti prodotti, oggi di serie, audacia temeraria igiene spirituale diventeranno on-demand, prodotti e personalizzati a richiesta. Accadrà anche per il cibo? Al ristorante stamperanno pure spaghetti e cotolette? Gli astronauti sono già vicini a questo tipo di alimentazione, come sono vicinissime, alle nostre tavole - come ben sa la UE - le proteine ricavate dagli insetti. La robotica industriale è matura da anni e nel giro del prossimo decennio ci sarà l'avvento della robotica di servizio. Badanti, colf, autisti, raccoglitori di pomodori, fattorini e facchini possono già ritenersi pensionati. Un drone intelligente ci porterà a casa le merci che ordiniamo o ci porterà da un posto all'altro più velocemente di un taxi. Gli eserciti saranno soppiantati da soldati automi, che gli Stati Uniti già stanno mettendo a punto, e fors'anche i corpi dei vigili urbani saranno soppiantati da "Robocop" urbani. Lo spazio di fa sempre più vicino e con esso il turismo spaziale e la colonizzazione di altri pianeti alla ricerca di risorse. E' questo uno dei terreni su cui deve cimentarsi la lungimiranza e l'attenzione della politica. Per trovare risposte e nuove regole, per arginare le conseguenze negative del futuro prossimo, per favorire ciò che di buono ci porterà, per preparare i popoli, in particolare i giovani, alle sfide che verranno. L'umanità è in corsa da quando è apparsa sul pianeta seguendo il suo destino. Un destino fatto anche di sopraffazioni, di guerre, di competizione sfrenata e di conquiste.


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Non si può quindi pensare di fermarla con divieti e proibizioni, ma se ne può canalizzare l'impeto affinché non sia disutile, affinché si contengano gli inevitabili danni. In questo la responsabilità. La politica italiana è sideralmente lontana da una visione d'insieme correlata al futuro. Quella europea solo un po' meno. Per questo, nel vecchio continente, non si intravede una strategia, un progetto che non sia quello di tenere i conti in ordine. Eppure la portata delle sfide dovrebbe entusiasmare i cuori coraggiosi, le menti curiose, le intelligenze creative. Non è "Erasmus" la risposta ad una scuola europea di eccellenza che doti i giovani di capacità logico-matematiche in grado di farli competere con gli studenti cinesi ed indiani. Non è la babele linguistica a rendere possibile una miglior comprensione tra i popoli europei, si scelga una lingua - l'inglese o l'esperanto non importa - e la si renda obbligatoria dalle scuole materne. Non sono i trattati a rendere l'Europa desiderabile e competitiva, ma una Costituzione degna di questo nome e valida per tutti gli europei. Angelo Romano

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POLITICA

DIO CI LIBERI DAGLI INNOVATORI DISSENNATI

Dio ci liberi dagli innovatori dissennati. Non sono mai stato un conservatore ma se essere progressista e riformista significa diventare come Renzi, allora mi voglio abbarbicare alla più bieca salvaguardia dell'esistente, prima che un'inverosimile alienazione regni sovrana e travolga tutti, naufraghi in un mare d'ignoranza. Già. Perché scelgo di ricordare, di ragionare, di comparare, di dedurre. La rivista ha già affrontato l'aspetto della riforma del senato e tornarci su per ripetere quanto essa sia astrusa e cervellotica non giova perché non si farebbe che rivangare, inutilmente, lo strazio di veder fare strame del diritto istituzionale, oltre che del buon senso. Sì, del buon senso, perché, ammesso per un attimo che l'iniziativa abbia un fondamento giuridico, ben altri problemi erano preliminarmente da affrontare per ammodernare il Paese. Invece, nel mentre lo strazio della riforma del senato, tacitate con discutibili compromessi le voci dissenzienti, si dipana tra i passaggi parlamentari senza che un concreto beneficio, al suo termine, audacia si riverberitemeraria su imprese eigiene lavoratori, il job act è balzato imperioso all'attenzione della spirituale pubblica opinione come panacea di tutti i mali. Esso, invece, rappresenta la negazione del diritto del lavoro e delle politiche per il lavoro. Non voglio cominciare dando l'impressione di essere un vetero-comunista o un vetero-fascista (potrebbe apparire paradossale l'accostamento mentre in realtà non lo è); in realtà, non sono vetero, né fascista né, men che meno, comunista. Però, la verità è che le proposte contenute nell'atto per il lavoro (non comprendo l'uso dell'inglese in un testo legislativo italiano), hanno il solo scopo di solleticare, inutilmente, gli imprenditori. Non sappiamo se, da qui alla pubblicazione del giornale, i contenuti saranno cambiati o, più che altro per l'opposizione interna, addolciti. O addirittura se, vista la boria di Renzi di pretendere addirittura il voto di fiducia su tale atto, Renzi stesso non venga sfiduciato. In ogni caso, non è con la cancellazione, in pratica, delle norme di tutela del lavoro che l'occupazione tornerà a crescere. Quando mai un imprenditore del passato si è preoccupato dell'esistenza di un articolo 18, nella sua versione originaria, cioè prima della riduzione Fornero? Se doveva ristrutturare, riorganizzare c'era la cassa integrazione guadagni (che oggi verrebbe ridotta). Se doveva chiudere, c'era il licenziamento per riduzione di personale. Se, poi, doveva licenziare per motivi disciplinari lo faceva. Semmai, c'era la demagogia dei magistrati a sentenziare la reintegra col risultato che lavoratori, colti addirittura in flagranza di reato, oggi prestano ancora la loro opera, come Malpensa insegna.


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In ogni caso, il datore di lavoro non ha mai avuto le mani legate: nel caso, ha dovuto barcamenarsi un po' e sperare di non incappare in un magistrato simpatizzante di avanguardia operaia. Come la FIAT insegna, il suo organico in Italia, da circa duecentocinquantamila dipendenti degli anni '80 è passato, oggi, a poco più di 63.000. Per cui, spacciare per riforma un ulteriore ritocco dell'art. 18, onestamente, mi sembra un fuor d'opera. Inoltre, imbarcarsi in una regolamentazione della contrattazione nazionale, materia di esclusiva pertinenza sindacale, mi sembra addirittura stravolgente, non solo del diritto del lavoro ma anche delle prerogative sindacali che si credevano consolidate. Persino un referendum, quello per l'abolizione della delega contributiva sindacale del giugno del '95, è andato perso perché pur avendo vinto i "sì", le parti, rappresentanze sindacali datoriali e dei lavoratori, hanno deciso di mantenerla come norma contrattuale. Se fosse stipulato un contratto collettivo nazionale, come sembra richiedere il job act, dove le tutele del lavoratore sono graduali verso l'alto, a seconda dell'anzianità lavorativa, significherebbe espropriare di fatto le parti sociali delle loro prerogative e cantare il de profundis per l'organizzazione sindacale che già è agonizzante. Comunque, dov'è la ratio sociale nel facilitare il licenziamento (perché di questo si tratta) e, per giunta, rivedere l'Aspi, l'assicurazione per l'impiego (sostitutiva dell'indennità di disoccupazione), commisurando l'assegno all'anzianità lavorativa e non anche, come l'ordinamento tedesco insegna, alla composizione del nucleo familiare? Nel senso che ad avvantaggiarsene sarebbero le fasce medio alte, visto che quelle basse sono soggette ad un ricambio continuo, anche se paradossalmente è lasciato intendere che anche i lavoratori atipici e precari potrebbero beneficiarne. A dire la verità, neppure per le fasce medio-alte sembra andare bene visto che il testo proposto consentirebbe alle aziende di demansionare i propri dipendenti in caso di crisi. Cioè, un impiegato può ritrovarsi addetto alle pulizie, con retribuzione corrispondente, s'intende. E, per giunta, nello stesso testo, è stata posta un forte sollecitazione verso i contratti di solidarietà. Come dire che, in caso di crisi, se un quadro non può passare uomo di fatica può, comunque, cedere una parte della sua retribuzione. Questo è un concetto mutuato dal sistema giapponese dove il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore è simbiotico. Per cui, nella cd. giapponesità, l'azienda non mira a perdere personale che considera un patrimonio: infatti, in caso di crisi, demansiona temporaneamente parte dei suoi lavoratori per impiegarli in servizi sino ad allora forniti da società esterne. Ovviamente, le società esterne perdono il contratto di fornitura di servizio, sia esso di pulizia, di sorveglianza, di accoglienza, ecc. Proviamo ad immaginare cosa mai potrebbe accadere in Italia dove il lavoro è ormai considerato una merce e non una risorsa datoriale. I pannicelli caldi, si fa per dire, sono due: uno, fondato sempre sulla travisata solidarietà, consentirebbe ad un lavoratore di usufruire di ferie extra (cedute da colleghi) per la cura di un figlio disabile e l'altro, basato su un discutibile senso di giustizia, fisserebbe il salario minimo a vantaggio di lavoratori atipici, precari, ecc.

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Ecco. Siamo giunti alla fine dell'esame e, come abbiamo visto, i buchi normativi e giuridici da riempire sono diversi: a tanto provvederebbe il governo attraverso una delega. Dovrebbe, in sostanza stabilire come superare la contrattazione collettiva a proposito di gradualità nelle tutele, di ferie extra, di demansionamento. Inoltre, dovrebbe decidere come applicare le forme di sostegno al reddito, a cominciare dall'Aspi, a lavoratori il cui inquadramento giuridico non è per nulla chiaro, a cominciare dai co.co. pro. Infine, dovrebbe stabilire l'ammontare del salario minimo, compito non facile visto che sul piano giuridico-legislativo, le soglie di povertà sono plurime, addirittura legate al territorio. Mentre scrivo, apprendo che il senato, con 165 sì, ha votato la fiducia al governo e pertanto il job act ha incassato la prima approvazione. Non credo che alla Camera sia così facile, viste le dichiarazioni di Cuperlo. In ogni caso, "Tantu scrusciu ppi nenti" - Tanto rumore per nulla scriveva alla fine del '500, un tal Michele Agnolo Florio, messinese emigrato in Inghilterra. Già, tanto rumore per nulla. Perché non credo che, concesso per un attimo, il varo conclusivo del cosiddetto atto per il lavoro, le aziende italiane facciano a gara a chi assume di più. Ovviamente, ringrazieranno il presidente del consiglio del regalo fatto che consentirà loro di gestire con maggiore, come dire, naturalezza il personale attualmente impiegato ma non amplieranno i loro organici. Per farlo, sia pur nella loro dipendenza sempre più da una cultura ultra liberista, avrebbero bisogno di liquidità per ammodernare impianti e prodotti e le banche, a questo proposito sono alquanto sorde. La poca disponibilità di quest'ultime, peraltro, è stata dimostrata dalla loro scarsa partecipazione alla prima maxi asta indetta a seguito del recente Eurotower di Napoli dove la BCE si è impegnata ad acquistare Covered bond (obbligazioni garantite) e Abs (titoli cartolarizzati) di banche fino a 1.000 miliardi di euro in due anni. Forse, non vorranno applicare alla clientela, come sarebbe conseguente-mente opportuno fare, i risibili tassi d'interesse, recentemente stabiliti sempre dalla BCE, ammontanti allo 0,05%. Lo dico per ridere: sarebbe opportuno, pertanto, che Renzi costringesse il sistema creditizio e finanziario (e non solo il mondo del lavoro) a partecipare allo sforzo di risanamento del Paese. Conclusa la risata, per tornare alle aziende, queste, inoltre, avrebbero ne-cessità di minore gravame fiscale (almeno quelle che ancora mantengono la domiciliazione in Italia) e dovrebbero riscontrare una maggiore fiducia dei consumatori, per nulla solleticati e sollecitati dagli 80 euro mensili, recentemente elargiti. Per inciso, ammesso che passi, non sarà neppure il TFR in busta paga (peraltro, riservato nelle intenzioni ai soli lavoratori privati) a far risalire il macro indice della fiducia, vista la situazione di estrema incertezza e di alta disoccupazione: almeno un componente familiare è disoccupato o inoccupato. In ogni caso, non credo che vi siano timori al riguardo: le banche, stante la scarsa liquidità delle aziende, dovrebbero anticiparlo. Ma la domanda è: ammesso che lo facciano, a quale tasso e chi lo paga? E ciò senza considerare il totale snaturamento di un istituto concepito come ammortizzatore sociale in caso di intervenuta inattività. Ma, per tornare ab ovo, è stato detto che la deregolamentazione del "mercato" del lavoro


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richiamerà in Italia maggiori investimenti esteri. Orbene, vorrei conoscere l'elenco delle multinazionali in attesa di investire. Ma anche questa è una battuta per ridere amaramente perché non credo che gli investitori esteri siano attratti dall'alta imposizione fiscale (sia pur per quello scarso utile che farebbero risultare, a seguito delle consentite alchimie contabili), dalla farraginosità della macchina amministrativa pubblica, centrale e periferica, dalle problematiche nella logistica che la scarsità di infrastrutture comporterebbe loro. Ora, per concludere, anziché mettere mano alle complessità che creano disagio e affossano il sistema produttivo (tasse, infrastrutture, burocrazia, ecc.), anziché tagliare la spesa pubblica improduttiva consentita dai ritardi nella costituzione di centri di spesa, dal mancato accorpamento dei comuni di modesta entità per creare città metropolitane, da inutili comunità montane, da superflue 14 Authority alle quali, umoristicamente, presto si aggiungerà quella per l'impiego, dalla mancata riforma della Pubblica Amministrazione e dalla sua dissennatezza nello spendere, anziché riformare lo Statuto del Lavoro per dar vita ad un più attuale Statuto dei Lavori, anche a tutela dei precari, anziché riformare il sistema di welfare per una migliore distribuzione delle risorse, Renzi ha scelto la via tutto sommato più facile e più inutile. Già. Ma ha incassato l'approvazione del cancelliere tedesco Angela Merkel al recente vertice Ue di Milano dove i Capi di Stato e di Governo si sono riuniti per discutere di politiche per il lavoro, si pensi. Ovviamente, alla Merkel il nostro presidente del consiglio ha ri-assicurato che l'Italia rispetterà il 3% di sforamento. E la Merkel, miracolo, ha risposto: Bravo, ma lavoreremo per rivederlo. Forse è preoccupata dai piazzali delle case automobilistiche tedesche pieni di auto invendute e dal calo degli ordini del 9%. Del resto, in un'Europa travagliata anche dalla cecità chi potrebbe comprarle? E senza un minimo di "solidarietà", è difficile rimanere il partner europeo che detiene, da solo, il 36% degli scambi commerciali Massimo Sergenti

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I NUOVI CANONI DEL PROGRESSISMO Però! Questa è una sinistra davvero progressista e illuminata. Non potendo porre mano alla ripresa della vecchia economia perché mille problemi attanagliano la vita politica e amministrativa, a cominciare dai severi moniti della Unione Europea, gli uomini della sinistra, nuovi unti dal Signore (speriamo che non giurino sui loro figli e che non si siano fatti da sé), hanno pensato bene di incentivare la new economy. E, poiché sarebbe stato troppo facile e, comunque, scontato mettere mano allo sviluppo dell'informatica, della domotica, dell'ingegneria genetica, della tecnologia biologia, troppo semplice creare poli di ricerca e think tank di indirizzo programmatorio, stanno pensando bene di ritornare a stimolare l'economia dal basso incentivando vecchie, ma sempre nuove, iniziative: quelle dell'assistenza sociale delegata e quella legata al lavoro (sic) più vecchio del mondo, la prostituzione. Recentemente, il sottosegretario all'Interno dell'area renziana, Domenico Manzione, ha proposto l'affidamento degli immigrati alle famiglie italiane, dietro compenso di ben 30 euro per soggetto affidato. Il ragionamento del sottosegretario è singolare: dato che nei centri di accoglienza non si trovano più posti (ben 130.000 dall'inizio dell'anno), i profughi potrebbero essere ospitati in casa dalle famiglie, che riceverebbero in cambio un corrispettivo in denaro, pari a 30 euro al giorno, datosi che allo Stato ogni profugo nei centri di accoglienza costa 900 euro al mese. Sembra di essere tornati al 19° secolo, quando gli orfanelli venivano affidati a gruppi familiari o a istituti, tipo "Salem House" di concezione dickensiana, i quali ricevevano dallo "Stato" un risibile compenso e, per non rimetterci, davano poco da mangiare e facevano molto lavorare gli orfanelli affidati. Nella stragrande maggioranza, sono certo che le famiglie italiane non accetterebbero una simile offerta, e non per motivi di razzismo quanto per snobismo verso una stravaganza pseudo politica da parte di soggetti che, non sapendo come contenere i flussi migratori, pensano come gestirli nel territorio patrio facendo ricorso, more solito, alle sensibilità degli italiani. Certo, non mi nascondo che a qualcuno 30 euro al giorno potrebbero far comodo e non per questo adotterebbero nei confronti dell'immigrato una politica di risparmio sul suo benessere. Tuttavia, se a pensar male si fa peccato, qualche volta s'indovina, come diceva il Belzebù della politica italiana, Andreotti: perciò, vi sarebbe sicuramente qualcuno che, pur di arraffare le 900 euro mensili, non si periterebbe di ammannire la tavola del profugo con mortadella e acqua e di


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riservare allo stesso un polveroso sottoscala. Oddio! Mortadella non credo, visto che la maggior parte sono musulmani e, quindi, rifuggenti dalla carne di maiale per motivi religiosi. Beh! Rimane il pane, naturale elemento di connubio con l'acqua. E chi verificherebbe, poi, le condizioni di vita di ciascun migrante che dovesse essere ospitato? L'obbligo di un controllo è in vigore per le colf a orario pieno e continuato per le quali, effettuata la denuncia di lavoro, un vigile urbano dovrebbe controllare se le condizioni di "ospitalità" sono confacenti alla decenza e al decoro. Se ne fosse visto mai uno. Il ministro Alfano, molto prudentemente, non si è espresso sull'ipotesi "accoglienza presso privati". In ogni caso, sarebbe rimasta una boutade priva d'importanza se il primo cittadino di Roma, Ignazio Marino, non avesse ripreso la proposta. "Insieme a Manzione - ha precisato recentemente il sindaco della Capitale - abbiamo immaginato la proposta che oltre all'affido di minori ci possa essere l'affido alle famiglie anche degli adulti, con una partecipazione economica da parte del governo di 30 euro al giorno per l'ospitalità di un migrante adulto nelle nostre città". Poi, ha aggiunto: "Pensiamo che, senza alterare il bilancio dello Stato, perché i soldi investiti per ogni migrante sono 900 euro al mese, il fatto di poterli affidare a una famiglia che decide di ospitare un migrante possa creare una situazione di maggiore disponibilità all'accoglienza e all'integrazione sociale". Non c'è che dire. In mancanza di politiche per la città, come gli hanno imputato persino i costruttori edili, "un anno di niente", forse pensa di includere in tale iniziativa i pensionati al minimo e gli esodati. Chissà! Oppure, pensa di dare uno schiaffo metaforico all'Unione Europea, visto che i burocrati di Bruxelles sono restii a comprendere che i contorni dell'Italia sono le frontiere della casa europea e, in conseguenza, spetta loro la politica (e i costi) dell'accoglienza. Comunque, l'intraprendenza del sindaco Marino non si è arrestata qui ed è giunta a contemplare le attività felicitanti dei romani, con l'ausilio di consulenti specializzati. Su sua iniziativa, i Municipi hanno dato via libera per la "zonizzazione" della prostituzione che porti alla creazione di veri e propri "quartieri a luci rosse". Tuttavia, il piano, messo a punto dal vice capo di gabinetto Rossella Matarazzo, per stessa ammissione del primo cittadino, ha bisogno di un assist a livello nazionale, di un nuovo quadro normativo licenziato dal Parlamento che riformi e regolarizzi la prostituzione. Infatti, tutte le iniziative finora adottate in merito da diversi comuni sono state bocciate per incostituzionalità. Come potranno meglio ricordare gli ultrasettantenni, la materia specifica è regolata dalla legge 20 febbraio 1958, n. 75, nota come legge Merlin, dal nome della promotrice nonché prima firmataria della norma, ovvero il senatore socialista Lina Merlin, che portò alla chiusura delle oltre 700 "case chiuse", esistenti a quella data sul territorio nazionale. Con quel provvedimento, la parlamentare intese seguire l'esempio dell'attivista francese, ed ex prostituta, Marthe Richard, sotto la cui spinta, già nel 1946, erano state chiuse le case di tolleranza in Francia. Esisteva, inoltre, l'intento di riprende i principi della Convenzione per la repressione della tratta degli esseri umani e dello sfruttamento della prostituzione, adottata

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dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite con risoluzione 317 del 2 dicembre 1949, entrata in vigore il 25 luglio 1951 (resa esecutiva in Italia nel 1966). Nel '55, infatti, con l'adesione dell'Italia all'ONU, il governo Segni dovette sottoscrivere diverse convenzioni internazionali tra cui la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo che, tra l'altro, faceva obbligo agli Stati firmatari di porre in atto "la repressione della tratta degli esseri umani e lo sfruttamento della prostituzione". In conseguenza, il PSI di allora intese, come deriva della ratifica di questi trattati, abolire le case di tolleranza gestite dallo Stato. Tuttavia, l'allora ministro degli Interni, il democristiano Mario Scelba, aveva smesso di rilasciare licenze di polizia per l'apertura di nuove case già dal 1948. La proposta Merlin, perciò, basò i suoi capisaldi sull'articolo 3 della Costituzione italiana che sancisce l'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, sull'articolo 32 che annovera la salute come fondamentale diritto dell'individuo, nonché sul secondo comma dell'articolo 41 che stabilisce come un'attività economica non possa essere svolta in modo da arrecare danno alla dignità umana. In sostanza, l'abolizione della compravendita del sesso con l'approvazione dello Stato e dell'uso statale di riscuotere la tassa di esercizio. Alcuni lungimiranti dissidenti del PSI, come il medico Gaetano Pieraccini, pur essendo d'accordo nell'eliminare lo sfruttamento, considerarono ine-stirpabile il fenomeno in sé, e avrebbero voluto che, comunque, la prostituzione restasse regolamentata, anche senza il sistema delle case chiuse; affermarono che relegare nell'ombra il tutto poteva anche essere peggio e portare conseguenze disastrose per la salute pubblica, aumentando persino lo sfruttamento. A favore dell'introduzione della legge si schierarono socialisti, comunisti, repubblicani, socialdemocratici e democristiani, mentre contrari furono liberali, radicali, missini, monarchici e vari dissidenti di partiti favorevoli (socialisti, socialdemocratici, repubblicani, ecc.). La legge impose, entro sei mesi dalla sua entrata in vigore, la chiusura delle case di tolleranza, l'abolizione della regolamentazione della prostituzione in Italia e l'introduzione di una serie di reati intesi a contrastare lo sfruttamento della prostituzione altrui con la contemplazione di punizioni verso "chiunque in qualsiasi modo favorisca o sfrutti la prostituzione altrui". Tutto ciò posto, arrivare oggi a costituire in Italia zone deputate alla compravendita di sesso non sembra un'impresa facile ma la sinistra illuminata non demorde: un disegno di legge è stato presentato dalla senatrice PD Maria Spilabotte, immediatamente condiviso dalla forzitaliota Alessandra Mussolini e da esponenti del Movimento 5 Stelle. Tale disegno prevede la possibilità per i sindaci di trasformare alcune zone della città in quartieri a luci rosse dove concentrare le prostitute non solo su strada, ma anche all'interno di condomini dedicati al sesso a pagamento, gestiti da cooperative di prostitute (nessuna "maîtresse") o ospitanti professioniste a partita Iva. In ordine all'ubicazione, la senatrice Spilabotte spiega che "Ovviamente, queste scelte vanno concertate con i residenti, i negozianti e le forze dell'ordine, altrimenti il progetto avrebbe poca possibilità di successo". Ora, per l'amor del cielo, nessuno è contrario ad una sana, gioiosa copula. Qualche dubbio potrebbe sorgere sul pagamento dell'atto ma, suvvia, non sottilizziamo, direbbe Federico


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Salvatore. Del resto, li hanno sia la protestane Germania che la cattolica Austria. E se l'Italia è sede del Papato, Papa Francesco, tutto sommato, ha dimostrato di essere comprensivo e aperto. E' che una così drastica inversione di tendenza avrebbe richiesto, a mio avviso, una preventiva evoluzione culturale e politica, un coinvolgimento intellettuale, la formazione di una coscienza popolare, sulla scorta delle quali, poi, procedere per il deposito del disegno di legge e, in conseguenza, l'apertura di quartieri "hard". Così, invece, il PD non spiega come sia giunto ad una decisione del genere, come abbia maturato una scelta così marcata sia sul piano culturale sia, ovviamente, su quello sociale. In sostanza, com'è ormai suo costume da più di vent'anni, ne ha fatto un'iniziativa estemporanea, contingente, buona a portar quattrini nelle casse pubbliche, a prescindere dal resto. More solito, Contrordine compagni, avrebbe scritto Giovannino Guareschi. Ma forse mi sto sbagliando. Forse è un ritorno alle origini, improntate ad un più aperto, sfrontato, opportuno pragmatismo, come le azioni di Lenin e di Stalin insegnano. Nel novembre del 1905, dopo aver pubblicato il suo primo saggio, A pro-posito dei dissensi nel partito, Stalin divenne direttore del periodico Notiziario dei lavoratori caucasici e, in Finlandia, alla conferenza bolscevica di Tampere, incontrò per la prima volta Lenin, accettandone le tesi sul ruolo di un partito marxista compatto e rigidamente organizzato come strumento indispensabile per la rivoluzione proletaria. Passato a Baku, dove fu in prima linea nel corso degli scioperi del 1908, Stalin venne di nuovo arrestato e deportato in Siberia; riuscì a fuggire, ma fu ripreso e internato a Kurejka, sul basso Jenisej, dove rimase per quattro anni, fino al marzo del 1917. Nei brevi periodi di attività clandestina, riuscì progressivamente a imporre la sua personalità e a emergere come dirigente di livello nazionale, tanto da essere chiamato da Lenin, nel 1912, a far parte del Comitato centrale del partito. A dir la verità, durante quel periodo il rivoluzionario bolscevico georgiano Josif Vissarionovic Dzugascvili, detto Stalin o Koba, si faceva chiamare David Citikov. Siamo nel 1907, a Tiflis nel Caucaso e, in quel periodo, i bolscevichi russi avevano le casse vuote. Così, con l'assenso di Vladimir Il'ic Lenin, sostenitore delle rapine per il finanziamento dell'attività politica, avvenne una delle prime "espropriazioni", affidata alla banda del bolscevico armeno Ter-Petrosian. Che fosse coinvolto anche il futuro Piccolo Padre nell'organizzazione sembra assodato. In altre precedenti operazioni, pur non partecipandovi attivamente, era stato la mente logistica. I complici erano georgiani da lui reclutati e, peraltro, Stalin fu incaricato di nascondere i componenti del gruppo di Ter-Petrosian dopo la rapina. In sostanza, la mattina del 13 giugno, sul carro blindato addetto al trasporto valori, proveniente da Pietroburgo e guardato a vista da un reparto di cosacchi, furono gettate sette bombe che uccisero la scorta e ferirono cinquanta passanti. Un'ottava granata fu lanciata per sfracellare i cavalli che, impazziti dagli scoppi, stavano trainando il furgone fuori strada. La rapina per l'autofinanziamento del partito fruttò oltre 300 mila rubli: la maggior parte in titoli

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di Stato, obbligazioni, azioni. Il contante era composto di banconote da 500 rubli, tutte dell'identica serie, difficilissime da smaltire: perciò Citikov/Stalin decise, in attesa degli eventi, di nasconderle nell'Osservatorio della città dove poteva contare su numerosi complici. La sanguinosa rapina divise l'ala riformista dei menscevichi, contrari all'operazione e disgustati dal suo esito crudele, dalla fazione dura dei bolscevichi che, a malapena, convivevano dentro il partito socialdemocratico. Stalin, ritornato a farsi chiamare Koba, fu espulso dal partito a causa delle sue complicità nella sanguinosa rapina di Tiflis. Ma, forte della totale fiducia di Lenin, continuò diritto per la sua strada. Appena la polizia allentò la morsa, le banconote furono mandate a Parigi, dove un incaricato tentò di convertirle ma venne scoperto e arrestato. Il bottino in contanti fu recuperato quasi tutto dagli zaristi ma, da allora, i bolscevichi furono ritenuti dei sanguinari banditi che, spacciandosi per idealisti, rapinavano le banche. Quando Citikov/Stalin fu individuato dal Corpo caucasico d'investigazione criminale quale il pregiudicato Koba Ivanocich, alias Dzugascvili, scattarono le manette ai suoi polsi. Il Consiglio speciale del Ministero degli interni lo mandò in soggiorno obbligato per due anni in Siberia. Stalin se ne infischiò. Cambiò ancora nome, s'intestò un passaporto, fuggì a Mosca e, poi, tornò a Baku, centro di raffinerie petrolifere nell'Azerbaigian, sul Mar Caspio. Qui, visto che nonostante minacce e incendi, alcuni commercianti si rifiutavano di finanziare il partito, rimasto senza dirigenti né capitali, Stalin pensò, secondo alcuni biografi non ufficiali, di organizzare bordelli in città. Sfidando i lenoni locali perché appoggiato da un certo Lajos Korescu, faccendiere con le mani in pasta nel traffico d'armi, puttane e stupefacenti, convinse le professioniste a non battere più per strada ma a "accasarsi" nei tanti bordelli da lui aperti. Per trovare nuove leve, esortò operaie, lavandaie, campagnole sottopagate, si presume carine, ad abbandonare il lavoro e ad abbracciare quella da sempre definita "la più antica professione del mondo". Peraltro, le puttane, improvvisate o veterane, stavano al caldo e guadagnavano il 10 per cento dei proventi ottenuti con le prestazioni nelle case di tolleranza, aperte non solo a Baku ma anche a Tiflis, Batum e altri centri agricoli. Al moralista Lenin, che pur approvava le rapine, le sovvenzioni al partito dal mondo della prostituzione non andarono a genio e, in proposito, scrisse a Stalin: "Che tu abbia traffici con donne o no, non mi riguarda, e neppure mi riguarda se tu cambi donne come cambi la camicia. Ciò a cui tengo è il buon nome del nostro partito. Non sono d'accordo con te che sia una giusta politica per il nostro partito avere a che fare con i bordelli che tu e Korescu avete organizzato e che ben in realtà felicemente prosperano. Benché capisca perfettamente l'impellente necessità di trovare fondi per proseguire la lotta senza badare alla loro provenienza, non posso pensare si possa arrivare a tanto. Ti rendi conto che non è degno di noi usare la prostituzione come fonte di reddito per la nostra opera rivoluzionaria? Sarebbe tremendo per il partito se un giornale zarista intitolasse una cronaca: "Capo bolscevico del Caucaso tenitore di bordelli" e ci attaccasse come profittatori di donne di malaffare. Se noi, che combattiamo contro lo sfruttamento


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dell'individuo, fossimo accusati di sfruttare chicchessia, siano pure semplici prostitute, metteremmo in grave pericolo la buona riuscita della nostra causa". In conclusione, il leader della rivoluzione bolscevica consigliò Stalin di dichiarare, consegnando le somme ricavate al partito, che trattavasi di generosi esborsi di simpatizzanti anonimi. Stalin si trovò d'accordo con Lenin che lo sfruttamento delle prostitute, anche per nobili ideali, era deleterio all'immagine dei bolscevichi ma, al tempo stesso, addusse una giustificazione al suo agire asserendo che, nel mestiere improvvisato di tenutario, procurava una coscienza di classe a ragazze del proletariato, aiutandole "a vivere in condizioni migliori di quelle in cui si trovavano prima, non più costrette a battere i marciapiedi con qualsiasi tempo e col pericolo di essere portate in carcere dalla polizia.". Con lui, "avevano la casa, cibo buono e guadagnavano di più". Ecco. Forse, è lo stesso spirito umanitario e altruista che pervade il sindaco della Capitale. Voglio, tuttavia, augurarmi che, qualora andasse in porto, l'iniziativa di Marino non si arresti alla classica, stantia, prostituzione femminile ma contempli anche quella gay e trans; giusto per non creare disparità. Inoltre, con mentalità davvero progressista, auspico che il progetto possa inglobare anche la prostituzione minorile. Del resto, quando sono le stesse mamme a procurare clientela per le baby squillo, smitizzando così sia l'atto che il rispetto alla minore età, quando il fenomeno della prostituzione minorile, in un solo anno, ha avuto un incremento del 442%, come si fa a non tener conto dell'esigenza della società, come si fa a non considerare l'impennata della domanda e dell'offerta? Non stiamo a baloccarci in futili questioni morali: quello che conta è la più proficua regolamentazione del convivere civile, senza alcuna considerazione per l'etica, i principi, i valori. E non c'entra neppure il fatto giuridico che il minore, tutto sommato, non ha ancora formato una coscienza per discernere. Oddio! Certo che una coscienza del genere non si acquisisce da un giorno all'altro. Beh! Come la magistratura insegna, l'importante per il minore che vuole prostituirsi è che dimostri più di diciotto anni. Nel senso che il suo aspetto, il suo look, il suo comportamento lascino intendere una maggiore età del soggetto che si prostituisce tale da trarre in inganno l'ignaro cliente al fine di non farlo incappare nei rigori della legge. In questa ventata di progressismo applicato, però, qualcuno si ricordi di avvertire il compagno …. di viaggio, Angelino Alfano, il quale, in un'Europa che, ovunque, riconosce il matrimonio o, quanto meno, l'unione civile tra gay, in Italia ne vieta la trascrizione. A parte le discrasie di governo, forse pensa così di salvarsi l'anima. Pietro Angeleri

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LA SCUOLA TRA DEMAGOGIA E INUTILITA’ Alcuni giorni fa, migliaia di ragazzi - 100.000 secondo le associazioni stu-dentesche (Udu, Uds, Rete degli studenti) che hanno promosso la protesta - sono scesi in piazza in tutta Italia per la prima mobilitazione dell'anno scolastico 2014-2015. Hanno gridato slogan contro la "Buonascuola", la riforma proposta dal governo Renzi, ma anche contro il Jobs Act. "La buona scuola siamo noi". Dietro questo striscione è partito il corteo degli studenti romani: centinaia di liceali hanno sfilato tra le strade della Capitale al grido di "Tutti insieme famo paura", "No alla scuola dei padroni 10, 100mila occupazioni"'. A Milano, il corteo di circa tremila persone ha attraversato le strade del centro fino ad arrivare davanti all'Ufficio scolastico territoriale dove il provveditore è uscito per dialogare con i manifestanti. Lungo il percorso un sacchetto di letame era stato rovesciato davanti alla sede dell'università Cattolica in via Carducci. "La scuola non si paga, la scuola non si vende": c'era scritta questa frase sullo striscione che ha aperto il corteo, composto da diverse centinaia di studenti, che ha percorso le vie del centro cittadino di Bari. Tra i tazebao esibiti, quelli con le scritte: "La Grande Bellezza italiana siamo noi", "Privati nelle scuole, privati sui diritti". A Torino, sono stati bruciati, in corteo, i fantocci di Renzi e di Giannini, di Silvio Berlusconi e di Maria Stella Gelmini mentre, a Palermo, sono state lanciate uova contro l'ingresso della Banca d'Italia per protestare "contro le politiche di tagli e di privatizzazioni, che in piena continuità con i governi precedenti, sono tutte poste a tutelare ancora una volta gli interessi delle banche a discapito degli studenti e delle loro famiglie costrette a pagare tasse onerose e vivere in condizioni sempre più precarie". Anche a Cagliari è stato dato vita ad un corteo studentesco al quale si sono aggiunti i Cobas e il personale dell'Ufficio Scolastico Regionale. Nel giorno della protesta, il ministro Giannini ha fatto notare che "Il Rap-porto 'La Buona Scuola" parla anche degli studenti e agli studenti". Poi, ha aggiunto: "Abbiamo tutti un'occasione unica per dire quello che pensiamo, per confrontarci. Il governo sta mettendo la scuola al centro del dibattito e questo non accadeva da anni". A parte il fatto che mi sembra quantomeno tautologico affermare che il rapporto per la scuola del governo Renzi parli di studenti e, già che c'è, si rivolga anche agli studenti, l'aspetto curioso dell'evento è che formazioni studentesche, generalmente sinistreggianti, manifestino contro un governo dichiaratamente di sinistra.


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Ora, non spetta a me difendere un governo che sta caratterizzando la sua esistenza con una politica di annunci e di impegni non certamente prioritari, però va detto che da una lettura del Rapporto (frettolosa, lo confesso) il contenuto a me non sembra peggio di tutte le pseudo riforme che si sono succedute negli ultimi trent'anni. Anzi, devo dire che, almeno nelle intenzioni, si presenta persino meglio, anche se non esaustivo: per intanto, si propone la fine del precariato, l'assunzione nel tempo di 148mila docenti, la revisione delle retribuzioni, un migliore indirizzo dei giovani verso il lavoro, ecc. Per cui, l'impressione che si trae dalle suddette manifestazioni studentesche è quella di una loro strumentalizzazione da parte di forze, sempre di sinistra, che tuttavia non si riconoscono nell'operato del presidente del consiglio. Ed, infatti, la partecipazione a quei cortei di rappresentanze di soggetti estranei al movimento studentesco sostiene verosimilmente un'ipotesi del genere. Inoltre, a maggior supporto dell'ipotesi, c'è l'ulteriore rimostranza, per nobilitare l'azione, sulle generalmente onerose tasse scolastiche e sulle precarie condizioni degli studenti. Invero, essi dovrebbero ricordare che non è stato il governo Renzi a rendere la scuola schizofrenica, né (mi spiace dirlo) sono stati i governi di centro-destra. E' stata, invece, la misera demagogia di dirigenti prima e di governi, poi, di sinistra che, nei trascorsi cinquant'anni, hanno reso il mondo scolastico da fiore all'occhiello di un Paese a un risiko. Nel rapporto dell'OCSE "Education at a Glance 2010" troviamo un confronto tra le tasse universitarie di diversi paesi. In particolare si nota che "Tra i paesi dell'Europa a 19 per i quali i dati sono disponibili, solo l'Italia, l'Olanda, il Portogallo e l'Inghilterra hanno tasse annuali al di sopra di 1100 dollari per studente a tempo pieno". Tuttavia, va aggiunto, che l'Italia si colloca ultima come percentuale di studenti beneficiari di contributi per diritto allo studio. Attualmente, per legge, le tasse universitarie a carico degli studenti non possono superare il 20% del Fondo di Finanziamento Ordinario, imposto dal Dpr del 25 luglio 1997 sotto il governo Prodi; il resto lo dovrebbero pagare tutti gli altri cittadini, anche chi l'università non la fa, tramite la fiscalità generale. Il problema, perciò, sarebbe quello di dare più opportunità alle classi più povere, di rendere accessibile al maggior numero possibile di cittadini l'accesso all'istruzione universitaria e, dunque, di costruire un sistema socialmente più equo oltre che più efficiente e di migliore qualità. Anche perché, a questo proposito, basti notare che meno del 15% della popolazione dichiara un reddito superiore a 29.000 euro/anno. E, tuttavia, perché, allora, non è stata fatta una rimostranza da parte del mondo studentesco chiedendo una decurtazione, che so, dal 20 al 10%? Ovvero, perché non c'è stata sollevazione studentesca quando numerosi atenei, negli anni, non hanno rispettato il limite nello stabilire le tasse scolastiche, sforando a mani basse? E, ancora, perché non vi sono state proteste quando il Governo Monti, pur rilevando lo sforamento, ha stabilito che, anziché restituire il maltolto, le Università con il "surplus" istituissero delle borse di studio? E perché non si sono elevate contestazioni a quel governo, tanto caro ai sodali di sinistra, quando ha decurtato il fondo integrativo statale per le borse di studio passandolo da 246 a 76 milioni (-

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69%, una enorme riduzione) equivalente al taglio di 45.000 borse su 150.000 erogate (che già coprivano solo l'82.5% degli aventi diritto)? Dov'erano, allora, gli studenti e le forze che li sostengono? Perché, in seguito, a Letta o allo stesso Renzi, non è stato richiesto il rifinanziamento del fondo integrativo statale, istituito, appunto, per premiare i volenterosi bisognosi? E per quale accidente di motivo, nel tempo, le brillanti studentesche, private della borsa di studio seppur zelanti ma in condizioni disagiate, non hanno richiesto la rimodulazione del prestito d'onore, istituito sin dal 1991, il quale se inizialmente poteva rappresentare un sostegno finanziario per l'avvio e il prosieguo degli studi universitari, nelle attuali condizioni economicosociali del Paese contribuisce ad accrescere l'indebitamento delle famiglie e, con esso, il gap sociale tra chi ha (pochi) e chi non ha (molti)? No. La protesta si è fermata al Rapporto (senza che se ne sappia, in dettaglio, il perché) e, in alcuni casi, si è estesa alle tasse. E' vero: le rette in Italia sono paragonabili, se non più alte, a quelle d'altri paesi europei, ma il bisogno più rilevante non è la drastica riduzione generalizzata quanto una mancata equità sociale data dal fatto che studenti meno abbienti ma capaci non ricevono aiuto, vedendosi così precluso non solo il diritto allo studio ma anche il privilegio di abbeverarsi ad una fonte di tutto riguardo. Ed è un peccato perché l'Università italiana non è di pessima qualità. La ricerca italiana si colloca al settimo posto nel mondo per volume totale di citazioni. Anche considerando il volume totale di pubblicazioni o l'H-index globale, l'Italia si posiziona sempre tra le prime dieci posizioni, tenendo conto che l'investimento in ricerca e sviluppo, sia in termini assoluti che come percentuale del PIL, è minore di quello francese, tedesco, inglese o americano. Inoltre, l'Università pubblica è, tutto sommato, migliore di quella privata: lo dimostra il fatto che, sebbene la qualità di un ateneo non possa essere misurata solo dal ranking nelle classifiche internazionali, tuttavia, se seguiamo questo criterio, troviamo che la Bocconi e la Luiss non compaiono tra le prime 500 posizioni in nessuna classifica internazionale, a differenza di un discreto numero di università statali, dove le rette, per quanto alte, sono notevolmente più basse rispetto alle due private. Questa situazione è spesso chiamata "paradosso italiano". E d'altra parte, secondo uno studio dettagliato del prof. Marino Regini, ordinario nel Dipartimento di Scienze sociali e politiche dell'Università di Milano, "il vero svantaggio delle università italiane non risiede nella qualità della ricerca quanto nella bassa internazionalizzazione dei loro studenti e docenti". Oltreché nello scarso rapporto tra docenti e studenti. In sostanza, è un fatto di criteri gestionali. Ma, se vogliamo dirla tutta, nell'ambito dei criteri gestionali c'è l'annoso busillis di quale debba essere, nel terzo millennio, il ruolo della scuola pubblica all'interno di una società. Un quesito, questo, che né i giovani contestatori, né i loro mentori hanno provato a sciogliere significativamente. Tutt'al più, l'hanno tradotto con "l'Università del fare", attenta e legata all'evoluzione. E, nella stessa identica maniera l'ha tradotta Renzi. Nessuno, invece, rimarca il profondo disinteresse pubblico che accompagna ormai le vicende


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della scuola, un tempo infuocata palestra di dibattiti culturali, civili e politici: gli unici sussulti, in questi ultimi quarant'anni, hanno riguardato le rivendicazioni dì categoria. Ma l'attenzione sulla scuola come laboratorio culturale e civile della società ventura, come luogo di integrazione comunitaria e di formazione del cittadino e dello spirito pubblico, sembra ormai svanita. Il declino è cominciato con gli ultimi riflessi del '68 che è stato, in fondo, l'ultima epoca dove la scuola ha avuto una centralità nella società: si può affermare che la dichiarazione di morte della scuola fu sottoscritta proprio in quegli anni, mentre essa veniva gravata eccessivamente di una responsabilità civile e politica. Per cui, la defiance culturale e civile della scuola odierna è figlia dell'abbuffata ideologica e politica di quegli anni. Infatti, tra la scuola accalorata e concitata di allora e la scuola assonnata e afflitta di oggi c'è più di un anello di continuità: la crisi del sapere umanistico è figlia della dichiarazione di morte del pensare e del ricordare, pronunciata proprio in quegli anni; la morte della filosofia e il trionfo della prassi furono consentiti proprio negli anni della contestazione; analogamente, la fine della scuola come luogo di integrazione nella vita civile di una collettività nazionale, fu decretata in quei tempi nel nome di una scuola senza frontiere, liberata da referenti nazionali. Ma il legame più intenso di continuità tra le due scuole è l'idea che la scuola debba aprirsi il più possibile alla società che cambia. Si tratta di un'affermazione che, assunta nella sua astratta superficialità, non può che raccogliere generali quanto generici consensi. Ma cosa significa esattamente? Negli anni della contestazione, la scuola aperta alla società significava una scuola che subordinava il suo sapere, le sue cattedre, i suoi processi educativi al sapere pratico-politico, alle discipline ideologiche, al processo necessario della rivoluzione mondiale. Oggi, aprire la scuola al sociale significa rendere il sapere, le sue discipline, i suoi processi educativi subalterni al sapere pratico dell'utilitarismo tecnologico, agli insegnamenti, evasivi o merceologici della televisione, al processo necessario della omologazione mondiale. Ora, quest'idea della scuola appiattita sulla società, al rimorchio dei suoi cambiamenti, neutra, agnostica e in definitiva remissiva rispetto ai "valori" della società (ieri la rivoluzione, oggi il profitto), ha inevitabilmente reso inutile la scuola stessa. L'ha devitalizzata, impoverita, privata di una sua specifica consistenza; fotocopia sbiadita, e oltretutto inefficace, della società che cambia; affannosa e frustrata inseguitrice del mutamento, del modello-azienda. É esattamente il contrario di quel che dovrebbe essere la scuola, la cui funzione non dovrebbe essere quella di inseguire il sapere pratico e variabile della società dei consumi, ma di interpretarlo e di trascenderlo. Perché ad una scuola si deve chiedere, soprattutto in una società in continuo mutamento, un sapere di ancoraggio. Basta la tecnologia e la vita a darci stimoli e informazioni in evoluzione; la scuola dovrebbe fornire gli strumenti, le costanti per filtrare quell'evoluzione. Al sapere utile dovrebbe saper opporre, come integrazione e retroterra del primo, un sapere significativo. Il sapere utile è l'esperienza, guida necessaria per andare avanti nel cammino della vita. Il sapere significativo è la cultura, guida necessaria per andare in alto, dando cioè forma, spessore e direzione alla

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propria esistenza. Un sapere cioè che dia senso alle cose e al rapporto col mondo. Non si tratta, naturalmente, di negare i necessari raccordi tra le due dimensioni; si tratta di fondare le nozioni pratiche in una cultura, in una visione del mondo. Da qui, l'esigenza di ripristinare, sia pur in senso nuovo e con nuovi scenari, la missione educativa della scuola, ed anche il suo ruolo di formazione dello spirito pubblico di una comunità, e di sede della memoria collettiva che si trasmette. La scuola che insegna a "funzionare" nella società, non solo fallisce nel suo scopo, ma partorisce giovani incomunicanti, frustrati, solitari, lontani da ogni senso pubblico, comunitario, etico, facili prede della decomposizione sociale e dei suoi infelici santuari. La scuola "serve" alla società proprio quando non si appiattisce su di essa. Viceversa, la soluzione più coerente è la liquidazione della scuola o quantomeno, della scuola pubblica perché se la scuola non conserva una sua preziosa alterità dalla società, tanto vale che sia la società stessa ad assumersi direttamente il compito di scuola, come già pensavano agli inizi del secolo i Papini e i Giuliotti, prima e meglio degli Illich. Francesco Diacceto


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IL MERCATO ENERGETICO DEL MEDITERRANEO ORIENTALE Intervista a Karen Ayat, analista geopolitica. Il Mediterraneo Orientale è divenuto un argomento centrale nei dialogi inerenti il settore del gas naturale grazie alla scoperta di sostanziali riserve nei depositi marini. L'aumento dell'attenzione per tale regione può essere spiegato dal fatto che fino alla scoperta israeliana del deposito offshore Leviathan e di Tamar, il Mediterraneo Orientale era considerato una regione povera dal punto di vista energetico e soggetta alle importazioni. Dopo Israele anche Cipro ha scoperto le proprie risorse gasifere nel Blocco 12; il suo deposito Aphrodite è stimato possedere da 3.6 a 6 Tcf (trillion cubic feet) di gas naturale. A questi due paesi possiamo unire il Libano, paese considerato ricco di petrolio e gas naturale, il quale però ha incontrato diversi ostacoli politici ed interni che hanno causato il rinvio del lancio della prima licenza. 1 Abbiamo discusso la tematica energetica con Karen Ayat , analista libanese di base a Londra specializzata in geopolitica energetica e partner associato presso Natural Gas Europe, portale che fornisce informazioni ed analisi in merito al mondo del gas e che si focalizza sul ruolo di tale risorsa in Europa. In che modo il deposito di gas naturale offshore Leviathan può migliorare lo sviluppo economico dello stato di Israele? Secondo Lei, può tale risorsa rappresentare la "chiave" di cambiamento e miglioramento delle relazioni arabo-israeliane? "Il giacimento Leviathan è situato a 130 chilometri da Haifa ad una profondità marina di 1.500 metri. Rappresenta l'offshore più grande scoperto dalla Noble Energy in Israele ed è stimato possa avere 21 Tfc. Nel giugno 2013 il gabinetto di Governo di Netanyahu ha approvato le esportazioni di gas con una quota pari al 40% delle riserve totali. L'Alta Corte di Giustizia ha ratificato la contestata decisione nell'ottobre del 2013. Il Governo di Israele crede che la vendita di gas porterà circa 60 miliardi di shekel nell'economia israeliana, fondi che saranno destinati per progetti focalizzati sulle infrastrutture, la Sanità, l'Educazione e le opportunità di lavoro. Il Governo sta anche prendendo diverse misure con l'obiettivo di controbilanciare il potenziale declino del boom delle risorse (in modo da prevenire 2 il fenomeno del Dutch Disease .

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L'energia non potrà fondamentalmente alterare le storiche tensioni esistenti tra Israele ed i paesi arabi vicini. Comunque, partnership temporanee potranno essere siglate tra le parti come ad esempio gli accordi di vendita tra Israele e Giordania oppure tra Israele ed Egitto. Tali accordi rimangono collegati direttamente alle sensibilità politiche ed i governi arabi avranno la necessità di gestire i sentimenti nazionali quando annunceranno di aver siglato degli accordi con il Governo israeliano. Per esempio, con l'intento di giustificare i recenti colloqui tra la compagnia statunitense Noble Energy in rappresentanza dei partner di Leviathan e la compagnia giordana National Electric Power Company (NEPCO), fonti ufficiali giordane affermarono che non si trattava di un accordo discusso tra lo stato di Israele e quello di Giordania. Il governo giordano spiegò infatti che tali colloqui erano intercorsi tra la compagnia nazionale NEPCO e quella del Texas Noble Energy". Alcuni analisti, in particolare quelli russi, hanno affermato che le operazioni militari condotte da Israele negli ultimi mesi ai danni di Gaza, volute secondo Tel Aviv dopo la morte di tre ragazzi israeliani e con l'obiettivo di combattere il terrorismo, siano in realtà una strategia pensata per limitare le esportazioni di gas palestinese ai paesi arabi. Cosa ne pensa a tal proposito? Possiamo considerare l'ultima operazione militare una diretta conseguenza del miglioramento delle relazioni tra la British Gas Group e la NEPCO? Israele non ha bisogno di attaccare Gaza con l'obiettivo di prevenire lo sfruttamento del gas naturale. Israele ha imposto il blocco terrestre, aereo e marittimo alla Striscia di Gaza sin dal 2007. Io credo che la recente azione israeliana su Gaza sia indipendente dal gas. Gaza Marine fu scoperto nel 1999, e da quel momento i palestinesi sono stati incapaci di sviluppare un deposito stimato possedere 1 Tcf (dato interessante commercialmente per i palestinesi). L'inabilità dei palestinesi di portare il loro deposito alla produzione è dovuta ai problemi politici con Israele. Io trovo che sia difficile immaginare uno sviluppo di Gaza Marine in modo da poter guidare le vendite sul mercato dell'export. Comunque, ipoteticamente parlando e pensando che il deposito possa raggiungere il suo stadio di sviluppo, Gaza Marine non potrà competere con il gas israeliano a causa della sua capacità (1 Tcf opposti ai 21 Tcf di Leviathan)". Quale potrebbe essere la strategia di esportazione di Israele adottata per vendere il gas naturale sui mercati europeo ed asiatico? La strategia di export israeliana è stata oggetto di differenti speculazioni. I colloqui di Israele con la compagnia Woodside sono stati iniziati con l'obiettivo di esplorare la possibilità del gas naturale liquefatto (LNG). Comunque, i colloqui con il gigante australiano sono decaduti a causa di una disputa fiscale. E' stata pensata l'ipotesi di un gasdotto dal deposito Leviathan verso la costa turca, ma le ultime


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azioni di Israele su Gaza hanno distrutto questo scenario e deteriorato i recenti miglioramenti delle relazioni diplomatiche turco-israeliane (grazie alla mediazione di Obama che aveva portato alle scuse di Tel Aviv). Questo scenario è inoltre complicato dalla divisione di Cipro. Lo Stato cipriota aveva sperato per un momento alla contribuzione di Israele nella realizzazione di Vassilikos LNG, ma gli israeliani non hanno mai espresso un interesse tale. Di conseguenza Israele ha iniziato ad avviare la propria strategia di esportazione. In effetti gli anni di dipendenza dal gas egiziano hanno insegnato una lezione ad Israele, quella di non dipendere da uno stato straniero. Lo Stato israeliano aveva infatti sofferto dalla rottura del gas egiziano e non è intenzionato a porre il proprio export del gas naturale sotto il controllo di un paese estero. Per evitare ciò Israele è vicino ad optare per una diversificazione delle rotte in modo da assicurarsi un flusso continuo ed ininterrotto di esportazione di gas. I colloqui tra i partner che sviluppano Leviathan e la NEPCO rivelano l'interesse di Israele di sfruttare il momento che vede la Giordania alla ricerca della propria sicurezza energetica e pronta a soddisfare la necessità di riduzione della bolletta causa dell'acquisto di prodotti energetici esosi per poter rimpiazzare l'interruzione del flusso di gas egiziano. I colloqui tra i partner di Leviathan e quelli di Tamar con gli operatori delle strutture in Egitto rivelano inoltre l'intenzione di Israele di usare il terminale delle esportazioni egiziano per raggiungere i mercanti distanti. L'Egitto pertanto non comprerà solo il gas israeliano, ma faciliterà anche il trasporto verso mercati lucrativi come quello europeo oppure quello più importante asiatico temeraria dove il gas haigiene un prezzo veramente elevato. audacia spirituale Israele è attualmente alla ricerca di una via per esportare il proprio gas naturale mentre Cipro è impegnata nelle operazioni di perforazione per poter definire la propria strategia di esportazione futura. Potranno i due paesi cooperare ed aiutarsi l'un l'altro per raggiungere i propri obiettivi? "Cipro ha l'ambizione di divenire un hub energetico per il Mediterraneo Orientale attraverso il suo terminale LNG a Vassilikos il quale potrebbe accogliere e processare il gas proveniente dagli stati vicini. Comunque Israele non ha espresso un interesse nell'isola con l'obiettivo di permettere a questa di raggiungere la decisione finale di investimento per la costruzione della struttura. Cipro sta conducendo ulteriori attività di esplorazione (eseguite da ENI/Kogas e presto da Total e Noble Energy) con la speranza di scoprire ulteriori riserve di gas ed iniziare la costruzione del terminale. Una collaborazione con Israele potrebbe essere possibile nel futuro, ma nel breve termine, Tel Aviv sta pianificando le proprie soluzioni. Noble Energy ha disegnato una strategia di esportazione che attualmente è alla fase del vaglio da parte delle autorità competenti. Ci si aspetta che tale strategia prenderà in considerazione sia la vendita immediata agli stati vicini e sia la modalità migliore per vendere il gas naturale ai mercati lontani attraverso gasdotti e LNG".

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Pensa che il Mediterraneo Orientale possa essere inserito nella strategia energetica europea con l'obiettivo di diversificare le rotte di importazione del gas, specialmente dopo lo scoppio della crisi ucraina e le tensioni sorte tra l'Unione Europea e la Federazione Russa? Gli sforzi europei di incrementare la sicurezza energetica e di diminuire la stretta russa sul mercato europeo coincidono con l'emergere del Mediterraneo Orientale come regione di produzione di gas naturale. Comunque, io non credo che il Mediterraneo Orientale possa liberare l'Europa dalla Russia. Diverse ragioni si oppongono a tale scenario: la quantità di gas modesta, la non immediatezza nel raggiungere il mercato europeo da parte del Mediterraneo Orientale (Cipro sta ancora conducendo le attività di esplorazione, la costruzione del terminale LNG quando verranno scoperte le risorse necessarie impiegerà 6-10 anni, il Libano non ha ancora lanciato la sua prima licenza e il deposito Leviathan, la cui strategia di esportazione deve essere ancora finalizzata, raggiungerà la produzione nel 2018). Giuliano Bifolchi

Note: 1. Karen Ayat è analista specializzata in geopolitica energetica e partner associato presso Natural Gas Europe, quotidiano di informazione sul settore del gas naturale in Europa. Lettrice di Relazioni Internazionali e Conflitti Contemporanei presso il King's College London ha incentrato la sua area di ricerca e studio sulle risorse naturali ed i conflitti. Ha ottenuto la specializzazione in Diritto Commerciale presso la City University London ed il baccellierato in Legge presso la Université Saint Joseph in Beirut. E' possibile contattare Karen Ayat al seguente indirizzo emailkaren@minoils.com e seguire i suoi aggiornamenti su Twitter: @karenayat 2. Dutch Disease (Male Olandese): termine coniato nel 1977 da "The Economist" per descrivere il declino del settore manifatturiero nei Paesi Bassi dopo la scoperta di un ampio bacino di gas naturale a Slochteren nel 1959, culminata nella più grande public-private partnership del mondo, la "N.V. Nederlandse Gasunie" tra la Esso (ora ExxonMobil), la Shell e il governo olandese nel 1963. Tale termine esprime il concetto economico ideato per spiegare la relazione apparentemente esistente tra lo sfruttamento delle risorse naturali ed il declino del settore manifatturiero; secondo tale teoria l'incremento del reddito dovuto allo sfruttamento delle risorse naturali porta al fenomeno della deindustrializzazione dell'economia nazionale attraverso l'apprezzamento del tasso di cambio il quale rende il settore manifatturiero meno competitivo ed i servizi pubblici direttamente legati con gli interessi privati.


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LA TURCHIA OFFRE OSPEDALI ALL’ISIS

L'Isis (Stato Islamico dell'Iraq e del Levante) è il frutto di un'iniziativa spericolata principalmente di Usa, Qatar e Turchia ideata per combattere Bashar al-Assad in Siria, paese in cui non è stato possibile intervenire direttamente come in Libia e in Egitto in quanto alleato di Mosca. E difatti a Tartus vi è una fornitissima base militare russa, fino a poco fa l'unica, in un panorama che dal Marocco al Kirkizistan, con l'esclusione di Iran e Siria, vedeva basi statunitensi. In particolare il contributo turco alla nascita e allo sviluppo dell'Isis è consistito nel far transitare i molti combattenti jihadisti nordafricani, caucasici e occidentali attraverso il proprio territorio, come ha confermato a in passato uno dei leader di Ansar al-Sharia, il tunisino Hassan Ben Brik, il quale già a gennaio aveva dichiarato al quotidiano on line Notizie Geopolitiche che "In Libia c'è il caos, organizzare campi di addestramento da quelle parti sarebbe impossibile per chiunque. Chi va in Siria passa per la Turchia, viene addestrato una volta entrato in Siria, da lì"." Sempre dalla Turchia sono passati armamenti e denaro, ma il Paese di Ankara ha fornito anche assistenza nei propri ospedali ai combattenti feriti. A differenza del supporto logistico al transito di uomini e armamenti diretti all'Isis, che è oggi stato interrotto con l'annunciata partecipazione della Turchia alla coalizione anti-Califfato, l'assistenza ai feriti jihadisti che combattono in Siria e in Iraq per il Califfato sembra continuare: il quotidiano Diha ha infatti reso noto che presso Urfa, non distante dal confine con la regione curdo-siriana (Rojava), è possibile vedere il doppio atteggiamento del governo turco in materia di Isis, proprio perché le bande di jihadisti entrano nel territorio turco sotto il controllo dei militari di Ankara e portano i loro feriti negli ospedali pubblici della città. Il tutto mentre il governo guidato da Ahmed Davutoglu (in realtà dallo stesso Erdogan), ha annunciato di aver stanziato 10mila soldati lungo la stessa porzione di confine e mentre i jihadisti combattono per prendere la città curda di Kobane, della quale hanno già conquistato alcuni quartieri. Enrico Oliari

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IL NEGUS DI INVERNOMUTO Dal 23 ottobre al 13 novembre alla galleria Marsèlleria di Milano (Via Paullo 12/A ) mostra personale del duo artistico Invernomuto, costituito dal 2003 dagli eclettici artisti: Simone Bertuzzi e Simone Trabucchi che hanno al loro attivo numerose ed importanti eventi nazionali ed internazionali. La mostra è concepita come panoramica sugli ultimi tre anni di ricerca e produzione artistica del duo e prende la forma di una narrazione meditata su temi apparentemente slegati che, tuttavia, determinano un insieme armonico e coerente. L' approccio degli artisti si basa sulla combinazione di rituali popolari, simboli del folklore e della cultura urbana, reinterpretati utilizzando diversi linguaggi come immagini in movimento, suoni e installazioni. La mostra è organizzata in forma di un percorso non cronologico, che comprende sculture e opere video, appositamente adattati e modificati per gli spazi della Marsèlleria, insieme a una serie di nuove installazioni realizzate appositamente per l'occasione. Il ciclo "Negus" - un ampio documentario che traccia una immaginaria linea di collegamento tra Vernasca (nei pressi di Piacenza, luogo di origine di Invernomuto), l'Etiopia e la Giamaica, è il lavoro, o meglio il ciclo di opere, con la maggiore presenza in mostra. Negus si basa su un evento storico che risale al l'occupazione italiana dell'Etiopia. Nel 1936, un soldato che era stato ferito tornò a Vernasca. Per festeggiare il suo ritorno, la comunità locale organizzò una festa ed un sinistro rituale allo stesso tempo, bruciando l'effigie di Hailè Selassiè I, l'ultimo Negus, nella piazza del paese. Negus d'Etiopia che è una figura messianica per il culto rastafari che si era sviluppato in Giamaica nel corso del 1930. Il progetto di Invernomuto segue un percorso che inizialmente è biografico, ma che si espande e si sviluppa, collegando Vernasca, Etiopia e Giamaica secondo due punti di vista: certi momenti critici della storia coloniale d'Italia vengono messi in relazione al simbolismo della tradizione rasta. Negus rappresenta per gli artisti un ciclo in continuo sviluppo. Giny


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Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

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