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Aeromensile di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

Nuova serie - Numero 28 Settembre 2014 - Anno XVI

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PRIMO PIANO: La Destra e la questione di genere di Francesca Vitelli


www.confini.org

Confini Aeromensile di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Numero 28 - Settembre 2014 - Anno XVI

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettore: Massimo Sergenti +

Hanno collaborato a questo numero: Arktos Gianni Falcone Giuseppe Farese Roberta Forte Giny Pierre Kadosh Angelo Romano Massimo Sergenti Cristofaro Sola Giuseppe Valditara Francesca Vitelli

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Segreteria di redazione: confiniorg@gmail.com

+ Registrato presso il Tribunale di Napoli n. 4997 del 29/10/1998

confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

IL DIRITTO DEI POPOLI Dal referendum scozzese, al di là del suo esito, si traggono alcune lezioni e spunti di riflessione. Tra le lezioni, la prima riguarda la qualità della democrazia inglese all'interno dei suoi confini, mai sarebbe stato possibile un referendum sull'autonomia di Gibilterra o delle isole Malvine; la seconda la si trae dall'astuzia degli scozzesi che sono riusciti ad ottenere, con la sola arma di un referendum, autonomia e poteri che in trecentosette anni di "unione forzata" mai erano riusciti a spuntare; la terza concerne l'affermazione di un "diritto dei popoli" che, ancorché mai sancito compiutamente nel diritto internazionale, emerge prorompente ed inoppugnabile quando si sa farlo valere. Molti sono i popoli con diritti negati o attenuati o costretti a subire convivenze forzate. In Europa è il caso dei Baschi, dei Catalani, dei Galiziani, dei Fiamminghi e dei Valloni, degli Irlandesi del Nord, delle minoranze russofone in alcuni paesi dell'est, dei Lapponi, dei Grecoalbanesi, dei Sardi, dei Siciliani, dei Veneti, degli Altoatesini, dei Valdostani, dei Ladini e di quanti si rifanno ad identità perdute dopo la nascita degli stati nazionali. Ma il problema è intercontinentale. Canadesi francofoni e anglofoni, nativi nord e sud americani e indigeni di altri continenti, Palestinesi, Kurdi, Mongoli, Tibetani e le infinite etnie africane. L'Onu ha sancito il diritto all'autodeterminazione dei popoli, ma ha omesso di definire il concetto di popolo. L'Europa, con il suo mito dell'unità nelle differenze, ha in qualche modo accentuato gli autonomismi anche se questi, su uno scacchiere continentale sempre più largo, hanno sempre meno speranze di poter contare qualcosa anche ad autonomia ottenuta. Occorre approfondire la riflessione sul diritto dei popoli partendo dal presupposto che l'equazione stato - popolo è ambigua, non sempre valida e spesso declinata per mere ragioni politiche che poco hanno a che fare con i principii ed il diritto. Anche il tema del rapporto, molto poco approfondito, tra diritti umani e diritti dei popoli merita attenzione come sottolineato dallo studioso italiano Luciano Ardesi che ha affermato: “ In primo luogo si consideri il principio di autodeterminazione «interna». Questo consente di mettere in evidenza uno dei presupposti dei diritti fondamentali: l'esistenza di uno Stato ordinato secondo principi giuridici che rispettino i diritti fondamentali. Tale principio comprende un insieme di elementi che caratterizzano il processo democratico il quale se da una parte si fonda su alcuni requisiti minimi universali (elettività dei rappresentanti, suffragio universale, uguaglianza del voto, libertà di ogni cittadino di eleggere e di essere eletto con la sola limitazione dell'età e di altri


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gravi impedimenti, esistenza di alternative nella scelta) dall'altra non propone modelli specifici di democrazia proprio in virtù della libertà lasciata ad ogni popolo di decidere le forme del proprio statuto politico-istituzionale. I diritti dei popoli consentono di superare la tradizionale identificazione del popolo con lo Stato. Questa identificazione avanzata dalle dottrine classiche, anche del XX secolo, non resiste alla prova dei fatti. Si pensi ad esempio all'identificazione che veniva fatta dalle potenze coloniali tra lo Stato e i popoli coloniali che in quello Stato non potevano certo identificarsi e contro il quale combatteranno la lotta per l'indipendenza. Il fatto di rifiutare tale identificazione significa concedere al popolo il diritto di contrastare e se necessario abbattere un determinato ordine statale, come sarà appunto per le lotte di liberazione nazionale. Il punto di vista dei diritti dei popoli permette di affrontare in modo più completo il problema delle «diversità».” Approfondiremo il tema nei prossimi numeri, a partire dalle riflessioni di John Bordley Rawls, il filosofo statunitense, che ha posto al centro delle sue riflessioni l'equità e la giustizia delle istituzioni ed ha evidenziato le contraddizioni insite nel concetto di diritto alla felicità e che, nel suo "Diritto dei popoli", analizza le differenze di vedute nelle società democratiche, tra chi priorizza il concetto di libertà e chi il principio di uguaglianza e ritiene che, sulla base di un liberalismo politico e non metafisico, sia possibile arrivare a punti di mediazione che definisce "accordi per intersezione". Pierre Kadosh

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SCENARI

LA DESTRA CHE NON C’E’ In politica, ormai, ci si può autodefinire a piacimento. Renzi si dichiara di Sinistra perché gli avrebbero insegnato che "essere di Sinistra" significa "combattere le ingiustizie", saldando così, indebitamente, l'ideale cavalleresco alla Sinistra. Eppure niente come la sinistra è mai stata tanto lontana dalla cavalleria sia nei riferimenti ideali che nella prassi, tant'è che le ingiustizie che Renzi vuol combattere, oggi sul mercato del lavoro, sono state tutte perpetrate proprio dalla sinistra. Ma i "rottamatori" non hanno storia né memoria. Non ci si può quindi stupire se, da sinistra, la Camusso paragona Renzi alla Thatcher e 110 parlamentari (di un Parlamento delegittimato) del partito di Renzi sono orientati a non votare i provvedimenti del loro Segretario. La schizofrenia dell'agonizzante Seconda Repubblica è resa palpabile non solo dalle Camere che non riescono ad eleggere i membri della Consulta ma, soprattutto, perché le riforme "di destra" può farle solo la sinistra e quelle di sinistra solo la destra, come l'aumento delle pensioni di berlusconiana memoria e perché l'alternanza italiana è diventata la via per disfare l'operato dei governi di segno opposto. Fortuna che ci sono i guardiani dell'Europa a fissare un minimo di rotta da seguire. Ma se Atene piange, Sparta non ride. Anche a Destra ci si autodefinisce a piacimento. Anti-Euro e pro-Euro, nazionalisti ed europeisti, liberisti e socialisti, mercatisti e statalisti, no global e mondialisti, pippieisti, aldisti e lepenisti, futuristi e conservatori, multiculturalisti e xenofobi, filo israeliani e filo palestinesi, filo tedeschi e filo russi, tradizionalisti e progressisti, mediterranei e atlantici, indipendentisti e secessionisti, finiani ed antifiniani. Una vera Babele. E in questo quadro allucinante, ancora una volta, rispunta il "federatore" per unire le destre contro le sinistre, come se il "patto del Nazareno" non fosse mai esistito e come se, alle ultime regionali sarde, il "federatore" non avesse tirato la volata a Renzi. Col paradosso che Fini, tra i pochi leader di destra con una caratura indiscutibile, sia il solo ostracizzato. Bisognerebbe ripartire dal Gaber di "Cos'é destra e cos'é sinistra" e cominciare a fare ordine. Un ordine ideale e programmatico, innanzitutto, dandosi poi regole chiare e partecipate. Ma per gli ideali ci vuole un retrostante sistema di valori condivisi, per i programmi le buone idee sviluppate in progetti realizzabili e per le regole ci vogliono verità, responsabilità, autentico spirito di servizio verso la nazione. Nessuno pensa che debba esistere una sola Destra, soprattutto nell'Europa delle differenze, ma


SCENARI

un minimo comun denominatore è necessario, addirittura un presupposto di sopravvivenza se un renzismo pragmatico e populista continuerà ad innalzare i migliori vessilli della Destra e ad appropriarsi delle sue istanze per annullarne il senso. Le conseguenze sarebbero tragiche per gli italiani e per la democrazia. Eppure c'é già chi stupidamente ne gioisce e si compiace che la Sinistra sta finalmente facendo sue le ragioni della Destra. Nulla di più falso, le cornici valoriali e culturali, le visioni del mondo e della società sono e restano profondamente diverse e radicalmente inconciliabili. Purtroppo il momento storico non è dei più favorevoli. In Europa, per timore degli euroscettici, hanno realizzato una "larga intesa" tra PPE e PSE per effetto della quale, cambiando "democraticamente" le regole in corsa, i due grandi agglomerati si sono spartiti tutto, senza lasciare una sola briciola a chi non la pensa come loro. Nella potente Germania le larghe intese sono ormai consolidate e l'Italia segue a rimorchio. Si tratta di uno scenario che tende ad annacquare le differenze, anche quelle sostanziali, nel nome della condivisione del potere. E questo è anche il brodo di coltura del renzismo. Per far rinascere la speranza a Destra occorre coraggio. Il coraggio di fare autocritica, di diventare consapevoli attraverso l'umiltà, di abbattere le diffidenze, di guardarsi negli occhi, di incontrarsi e, all'occorrenza scontrarsi, lealmente ed a viso aperto facendo propria la vecchia massima, civile prima che liberale del "rispetta chi non la pensa come te". Per amore dell'Italia e degli italiani e non di sé stessi. Altrimenti la Terza Repubblica sarà peggiore della Seconda e della Prima. Angelo Romano

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ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA Storico acuto ed editorialista tagliente e spesso fuori dal coro, Ernesto Galli della Loggia è un campione del pensiero conservatore. Un conservatorismo non passatista, che gli consente di cogliere con largo anticipo i pericoli che alcuni mutamenti, in atto nel mondo globalizzato, possono portare alla tenuta della vita sociale, culturale e politica delle nostre comunità. Ne sono prova i suoi editoriali nei quali richiama spesso alla riscoperta delle radici identitarie e culturali del nostro Paese e dell'Occidente in un momento in cui, le stesse, sembrano affievolirsi di fronte all'avanzare di un pericoloso multiculturalismo. Facendo un’istantanea dell’Italia, alla fine del 2010, ha detto che abbiamo un sistema scolastico che rende poco; una burocrazia, sia centrale che locale, sovrabbondante e molto incapace; una giustizia approssimativa e tarda; una criminalità organizzata che non ha eguali all'estero; le periferie delle grandi città sono fra le più brutte del mondo e invivibili; la rete degli acquedotti è tutta rotta; il territorio con un po' di maltempo è sconvolto da frane e alluvioni. Musei, siti archeologici e biblioteche fanno pena. Ciò che è pubblico, tra cui concorsi, appalti, è preda della corruzione. Le condizioni economiche: tasse audacia temeraria igiene spirituale ed evasione fiscale fra le più alte d'Europa, gli operai percepiscono i salari più bassi della media di tutta l'Unione Europea; il sistema pensionistico è fra i più esosi d'Europa. Il debito pubblico, creato da Tangentopoli, strangola le casse dello Stato mentre il pagamento degli interessi dei Titoli di Stato, emessi per coprire il debito pubblico, impedisce di iniziare qualunque sviluppo. Nessuno dall'estero viene a fare investimenti, però multinazionali straniere si appropriano di quel che resta del meglio delle nostre aziende; contemporaneamente la deindustrializzazione va avanti e la disoccupazione giovanile è molto alta. Professore, in un recente editoriale lei ha sostenuto che la sfida portata avanti dal fondamentalismo islamico non è tanto di carattere militare quanto culturale ed è diretta a quello che lei ha definito il principale luogo comune culturale degli ultimi decenni: l'idea cioè che possa esistere una società multiculturale. Su quali errati assunti poggia tale idea? Credo vi siano due erronei assunti sui quali si regge il multiculturalismo. Il primo è che possano esserci società in cui coesistono culture diverse tra loro sol perché vi è un apparato di leggi e di regole che le tiene insieme. Tutto ciò, tuttavia, non tiene in considerazione il fatto che i legami sociali scaturiscono dalla condivisione di valori e radici di natura identitaria, storica ed ideale. Il secondo assunto errato è che le identità , le culture e finanche le religioni possano essere uguali


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ed assimilabili tra loro. Come se si potessero equiparare tra loro il Dio cattolico e quello islamico: mi sembra francamente difficile avallare tesi del genere. Il problema vero è che questo tipo di società, neutrale e senza valori di riferimento, comincia ad incontrare parecchi dissensi e così accade che tanti europei vadano ad ingrossare le fila del fondamentalismo islamico. L'assoluta libertà, il vivere sapendo di poter fare tutto ciò che si vuole alimentano in realtà la solitudine di tanti individui che, al contrario, in una società caratterizzata da legami forti sentono degli indirizzi valoriali vincolanti. Nella sua domanda lei faceva riferimento all'Islam. Anche nella regione mediorientale vi sono degli Stati in cui nel tempo hanno convissuto due o tre culture diverse, come ad esempio in Siria. Poi, anche lì, l'avvento della modernità ha prodotto degli effetti dirompenti sui fattori identitari. Sull'avvento del multiculturalismo in Occidente ha sicuramente influito quella che lei, in più di un'occasione, ha definito la rivoluzione anticristiana che si nutre di attacchi continui ai capisaldi della cristianità e di una sostanziale espulsione delle Chiese cristiane da qualunque ambito della vita pubblica. Da cosa deriva questo indebolimento del ruolo pubblico della religione in Europa e nel nostro Paese? Vede, la modernizzazione è nata in antitesi al Cristianesimo cattolico e a sua volta quest'ultimo si è opposto con forza alla modernità: basti pensare alle tante pronunce papali contro la libertà di stampa e la libertà di coscienza. Vi è stato in sostanza uno scontro reciproco in cui la modernità ha avuto la meglio e ha portato ad una lenta ed inesorabile scristianizzazione. Nel caso in cui avesse prevalso la Chiesa avremmo assistito, invece, ad un fenomeno inverso di de-liberalizzazione. Ritengo, tuttavia, vi sia stata una cecità da parte del magistero cattolico nei confronti della modernità che ha finito con il far prevalere le idee illuministe ed individualiste. In nuce, infatti, non è detto che la libertà di coscienza debba essere considerata necessariamente anti-cristiana: il problema, mi lasci dire, è stata la pochezza culturale di tanta parte della gerarchia ecclesiastica che è rimasta prigioniera del suo stesso potere. La stessa accettazione dello Stato unitario avrebbe significato una rinuncia allo Stato della Chiesa con tutte le perdite in termini di privilegi che ciò avrebbe comportato. E poi c'è la politica. La cessione di sovranità a sfere sovranazionali ha portato ad un progressivo svuotamento dell'identità statuale e nazionale dei Paesi che compongono l'Unione Europea. Lo svuotamento di cui lei parla riguarda, in questo particolare momento storico, soprattutto l'Italia. All'interno dell'Unione Europea vi è sempre stata una gerarchia e, almeno in una fase iniziale, l'Italia era considerata nel gruppo di testa. Da una quindicina di anni, invece, siamo scivolati in coda e ciò è dovuto alla mancanza di una classe politica adeguata e capace di portarci fuori dalle secche di una lunga crisi economica e

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sociale. La Spagna, che pure ha affrontato momenti difficilissimi, sta mostrando al contrario una grande capacità di reazione. Eppure, professore, tra i cittadini europei sono diffusi un malcontento e una forma di rifiuto verso le storture della società globalizzata e multiculturale. Malcontento che si trasforma in voto di protesta per i partiti di estrema destra, penso al Front National in Francia o all'Ukip in Gran Bretagna. Per quale motivo i partiti conservatori moderati non riescono a farsi interpreti di questa inquietudine trasformandola in una nuova proposta politica? Perché per maneggiare un materiale politico così altamente esplosivo i partiti conservatori avrebbero bisogno di una grande capacità politica, che attualmente faticano a mostrare. Dovrebbero muoversi, infatti, su due fronti: da una parte, contrastando i partiti di estrema destra e, dall'altra, opponendosi alla sinistra benpensante che tende a negare con fermezza le istanze che provengono dal voto di protesta. In Italia, poi, un polo conservatore degno di questo nome non è mai esistito, complice anche il fascismo che ha costituito un tabù per qualsiasi operazione politica che intendeva richiamarsi ad un partito di destra. Personalmente ritengo che vi sia oggi una percentuale di popolazione europea, che si aggira intorno al 15%, che è priva di una rappresentanza politica spendibile. Senza naturalmente dimenticare una parte dei cittadini che vanno ad ingrossare le fila degli astenuti. Ecco, credo che a questa parte dell'elettorato potrebbe la proposta di un polo conservatore in grado di audacia temeraria igienerivolgersi spirituale raccoglierne le istanze e di opporsi alle politiche del centro-sinistra. Tornando all'Italia, da cosa deriva l'assenza di qualsiasi richiamo identitario e culturale al passato e alla tradizione? Essenzialmente da una modernità che ha avuto un carattere fortemente distruttivo. Una modernità, badi bene, che è stata caratterizzata da una grande rapidità: in Italia la modernizzazione si è compiuta nel giro di appena trenta anni ed ha avuto un effetto devastante. A ciò si aggiunga il fatto che nel nostro Paese non ci sono mai state élites di stampo conservatore, vale a dire gruppi sociali che fossero affezionati e legati alla tradizione. Lo Stato unitario, d'altronde, nasce da una rivoluzione, dal Risorgimento ed è davvero difficile che le élites che nascono da una rivoluzione possano avere un legame forte con il passato. In Inghilterra, al contrario, la Rivoluzione industriale viene avversata da larga parte delle élites: questo perché in quel caso la modernizzazione si accompagna ad un aumento della ricchezza nazionale e, al contempo, ad una crescita della povertà individuale. E tutto ciò provoca una reazione ed una critica da parte delle élites. Da noi, invece, accade l'esatto contrario laddove la modernizzazione comporta un aumento della ricchezza personale di fronte alla quale non si manifesta alcuna disapprovazione.


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Mancanza di élites conservatrici, nell'Italia unita, e quindi assenza anche di polo politico conservatore. Certamente. Consideri che tutte le forze politiche, dall'Unità in poi, hanno avuto come segno distintivo la ricerca del progresso e quindi un agire progressista. I liberali, i cattolici, i socialisti volevano fortemente il progresso e la modernizzazione di un Paese che si mostrava storicamente arretrato. Tutto ciò ha costituito, però, un macigno su qualsiasi velleità di proposta politica di stampo conservatore e tradizionalista. Sempre lei ha osservato come l'eccesso di formalismo e di regole stia lentamente prendendo il sopravvento sui valori. Viene da pensare alla recente sentenza della Consulta che, dichiarando incostituzionale il divieto di fecondazione eterologa, ha di fatto autorizzato le Regioni a procedere con l'eterologa. Il tutto in assenza di una legge dello Stato in materia. La politica si mostra incapace di concretizzare gli obiettivi ideali e valoriali del proprio agire lasciando alle sentenze un ruolo suppletivo. Il fatto è che alcuni temi, che afferiscono alla sfera più profonda dei valori, finiscono inevitabilmente per spaccare le maggioranze politiche. In questi casi non vi è linea o disciplina di partito che tenga e prendere delle decisioni, in un senso o in un altro, può generare aspri conflitti interni. Così si preferisce non decidere, non legiferare e in definitiva rinviare il problema. Ed è in questo vuoto decisionale che qualche altro potere, vedi la magistratura, finisce con il sostituirsi alla politica esercitando un ruolo suppletivo. D'altronde la vicenda italiana degli ultimi anni è tutta segnata dall'inazione della politica, che si è mostrata incapace di svolgere le funzioni di indirizzo e di guida dei processi politici e culturali. Le conseguenze della globalizzazione, la crisi economica, l'esaurirsi di una certa ubriacatura tecnologica, hanno portato tanti italiani a riscoprire la tradizione. Penso alla riscoperta del patrimonio artistico e culturale, della gastronomia, dei centri storici. E' solo “reazione” o c'è spazio per recuperare un tradizionalismo fondato sui valori? Non mi sembra, a dire il vero, di vedere particolari sintomi in fatto di ritorno ai valori tradizionali. Vede, mi fa sorridere il tentativo di alcuni imprenditori del settore alimentare che propugnano il rilancio dei sapori e dei prodotti tradizionali. Peccato che quegli stessi prodotti vengano poi commercializzati all'interno di supermercati che rappresentano il luogo della modernità per eccellenza… Insomma una tradizione immersa nella modernità… Credo, al contrario, che un'inversione di tendenza in termini valoriali si possa verificare unicamente in presenza di avvenimenti geo-politici di una certa rilevanza. Una frattura del processo storico, determinata ad esempio da una recrudescenza del fondamentalismo islamico, quella sì potrebbe portare, in Occidente, ad un recupero di idee, valori e sensibilità che si richiamino alle radici identitarie. Giuseppe Farese

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SI FA PRESTO A DIRE DESTRA

Una miriade di soggetti politici e culturali sembra agitarsi sotto l'imprecisa, evanescente, definizione di "destra italiana": una destra i cui tre angoli sono costituiti da realtà tra loro tutt'altro che omogenee: dal radicalismo di destra in via di ridefinizione e di rilancio attraverso nuove formazioni, a formazioni che si definiscono tout court "destra" o nuova (centro) destra, al reducismo politico di segno apertamente missino. Tre tipi di destra che vanno dalla radicalizzazione del movimentismo nazionalpopolare, al raschio del barile del nostalgismo, al perseguimento di una indistinta modernizzazione. Tre "destre" che, in realtà, sono antitetiche l'una alle altre. Ai margini, si intravedono altri microgruppi più propriamente di destra: tradizionalisti cattolici, conservatori, ecc. i quali, alternativamente, si sono avvicinati alle prime due categorie. È difficile intravedere in questo variegato panorama un soggetto politico degno di attenzione. Non solo per l'intrinseca debolezza quantitativa e organizzativa di ciascun riferimento, quanto per la congenita introversione di questi gruppi. Si tratta, in quasi tutti i casi, di gruppi residuali o che, comunque, giocano all'interno di un quadro "ideologico" fisso; difficilmente capaci di proiettarsi all'esterno, di "combinarsi" con altri soggetti e dar luogo ad una trasfusione vitale che si rivolga alla società e non al consueto e decrescente segmento minoritario di appartenenza. Va anche detto che in Italia è difficile configurare un movimento di destra perché, ad aggravandum, sembra esservi una curiosa incompatibilità tra destra politica e destra culturale. Ad esempio, circa trent'anni fa, apparve una inedita nebulosa culturale che si definì Nuova Destra. Benché povera di mezzi e costituita in larga parte da giovani al di sotto dei trent'anni, la Nuova Destra conquistò, nei primi anni ottanta, una considerevole attenzione nei mass media. Nata in Francia da una costola del '68, o meglio da un Sessantotto parallelo, incubata in Italia negli anni settanta, emersa, infine, a cavallo di alcune riviste e case editrici, la Nuova Destra ha vissuto un decennio anomalo ma abbastanza significativo. Le ragioni di quell'anomalia non si possono solo attribuire al non conformismo delle sue posizioni ma anche ad una serie di equivoci originari e sopraggiunti: in primo luogo, la definizione stessa di Nuova Destra, rivendicata e pure respinta da coloro ai quali è stata attribuita. Inoltre, la Nuova Destra si poneva al di là delle categorie di destra e di sinistra e, dunque, questa definizione, se rendeva omaggio al suo contenuto di novità, la ricacciava nella vecchia topografia assiale. Infine, contemporaneamente all'attenzione per una Nuova Destra


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culturale, si parlava di nuova destra politico-economica in relazione ad ambienti finanziari, a ventilate soluzioni tecnocratiche, al craxismo o, addirittura, a repubblicani come Visentini. Accadeva cioè il paradosso che si definissero contemporaneamente di nuova destra non solo realtà diverse ma addirittura opposte. E che si confondesse, a volte, nella stessa definizione di nuova destra, il conservatorismo politico ed il suo contrario, l'egemonia economica ed il suo opposto, l'americanismo e la sua negazione. A questo equivoco se ne aggiunsero altri. Ad esempio, la "fatalità" per ogni destra in Italia di essere preliminarmente esaminata per identificare eventuali germi di nostalgismo. Peraltro, il retroterra culturale della nuova destra, soprattutto per quel che atteneva al cosiddetto pensiero rivoluzionario-conservatore europeo, aveva forti consonanze con l'humus culturale dal quale nacque il fascismo. In ultimo, sembrò decisivo al formarsi della nuova destra il revisionismo storiografico sul fascismo, liberato dall'identificazione con la destra statal-autoritaria. Ciò che, comunque, pesò considerevolmente sull'evoluzione della Nuova Destra fu la commistione operata dai mass media i quali, si sa, sono abituati ad inquadrare fenomeni, pensieri e soggetti in categorie precostituite: così, per dare consistenza culturale al fenomeno, per rintracciare le linee di un pensiero autonomo anche se parallelo con la Nouvelle Droite francese, per trovare riferimenti nella produzione libraria, estesero la definizione di "nuova destra" a intellettuali non propriamente compresi nel piccolo gruppo iniziale. Quella commistione generò comprensibili crisi di rigetto, distinguo e polemiche; ma, nel suo complesso, si può dire che a dare maggiore consistenza teorica, e magari maggior prestigio, alla nebulosa della Nuova Destra e ad impedire che restasse un rispettabile ma ristretto circolo, furono proprio quelle iscrizioni d'ufficio dei mass media, quegli apporti "esterni". Tra le caratteristiche salienti della Nuova Destra italiana che le infusero una sua peculiare autonomia rispetto alla Nouvelle Droite francese, oltre un maggiore approfondimento revisionistico del fascismo e in generale della "ideologia italiana", spiccò una diversa attenzione verso la tradizione cattolica. Rispetto al più accentuato "paganesimo" di De Benoist e di altri protagonisti francesi, in Italia la Nuova Destra si spinse anche al di là della fenomenologia del sacro, attinta da un Eliade o un Heidegger, per incrociare segmenti del pensiero religioso, da Simone Weil ad Augusto Del Noce. Ma, in questo, pesò, e non poco, la mantenuta matrice cattolica di alcuni suoi esponenti. Che ne è oggi della nuova destra di quegli anni? Si potrebbe dire che per essa si è verificato un processo di musealizzazione come un piccolo reperto degli anni ottanta, non più di moda, anche se citato nell'archeologia del pensiero forte. Più esatto sarebbe parlare di dispersione e neutralizzazione in contesti eterogenei o in logiche di mercato. Infatti, a voler trovare dei forti punti di riferimento editoriali, accademici o politici, l'esito della ricerca sarebbe deludente. A differenza della crisi del comunismo che ha lasciato una vivacità editoriale, variamente eretica, la crisi dell'ambiente di "destra", non ha prodotto vistose effervescenze multimediali.

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Né la crisi del pensiero marxista e l'avvento del pensiero debole, post-ideologico e tecnologico, ha portato a nuova luce autori di scuola liberale, seppure arcinoti. Oggi, negli ambienti cd. di destra culturale, tutt'al più, si discute del cattolico tedesco Carl Schmitt che dell'austriaco Karl Kelsen o del francese Raymond Aron, più di Martin Heidegger, il teorico dell'esistenzialismo, e di Ernst Jünger che dell'americano-irlandese William James o dell'inglese Bertrand Russell, più di Friedrich Nietzsche che del costituzionalista inglese Jeremy Bentham o del filosofo economista John Stuart Mill, più di Gentile che di Croce. Sul piano prettamente politico, il discorso non è diverso: è paradossale che soggetti, i quali potrebbero essere tranquillamente annoverati nella destra culturale, operino trasversalmente nello scenario partitico o restino confinati nell'Iperuranio. Eppure, oggi più di ieri, non mancherebbero i temi sui quali cimentarsi. Venuto meno l'antagonista storico, il comunismo, un confronto possibile potrebbe essere tra il modello capitalistico neo-liberista e una via diversa alla modernizzazione e al progresso; tra l'egemonia dell'individualismo e il risveglio comunitario; tra culture del nichilismo e del consumismo e culture del sacro e delle identità; tra la coalizione dei liberalismi moderati e progressisti, e l'incontro tra le culture comunitarie, provenienti da destra e da sinistra. Inoltre, l'esplosione delle etnie, la crisi economica statunitense, le problematiche giapponesi e le turbolenze del mondo arabo darebbero consistenza ad un "manifesto di destra", fino a delineare l'alternativa probabile degli anni futuri: tra un Nuovo Ordine Mondiale, ovvero mondo ad una dimensione, e mondo delle identità e delle differenze garantite da un equilibrio multipolare. E si potrebbe continuare. Tutto ciò, però, neppure lontanamente qualcuno ha pensato di tradurlo in termini politici o di comunicazioni di massa. Rimane, così, la sterile definizione di "destra", richiamata nelle enunciazioni, direttamente o indirettamente, da formazioni partitiche, buona solo come miglio per gonzi. Prima di concludere, però, un'appendice va considerata e riguarda la Lega, una formazione definita tout court di destra: anzi, per meglio dire, concerne il recente viaggio in Corea del Nord del leader di quella formazione, Matteo Salvini, e dell'umoristicamente noto Senatore abruzzese Antonio Razzi, pluriimitato da Crozza. Salvini e Razzi non hanno alcunché in comune, né tra di loro né con la Corea del Nord: l'uno costretto a reinventare la Lega dopo gli sconquassi procurati dal Senatur e dalla sua famiglia, e l'altro un estemporaneo, si fa per dire, politico italiano residente in Svizzera. Eppure, insieme, su invito dell'associazione parlamentare Amicizia Italia-Corea, si sono recati in Corea del Nord dove, tra l'altro, hanno incontrato esponenti del partito comunista nordcoreano. Ambedue prudenti nelle esternazioni dopo il viaggio, Salvini, però, ha teso a sottolineare che, sebbene il suo modello di libertà non sia certo quello inteso dal regime di Pyongyang, ma senza condannare né giudicare, pensa "all'emarginazione di milioni di cittadini che pagano il dazio di un embargo ingiusto e fuori dal tempo" e che, "di sicuro, la Corea del Nord non è il Regno di Satana". Durante la visita hanno discusso anche di questioni commerciali ed economiche, in vista di futuri


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accordi bilaterali. Infatti, insieme a Salvini e Razzi vi erano anche alcuni imprenditori italiani che già lavorano sul territorio di Pyongyang: "Hanno bisogno di know how per quanto riguarda l'agricoltura, il turismo e le energie alternative - ha spiegato Salvini - e le imprese italiane possono trarre grandi benefici da tutto questo. Ci sono già due milioni di piante di mele del Trentino in Nord Corea e molto ancora è possibile per esportare i nostri modelli di agricoltura biologica. La Nord Corea è una sfida che dobbiamo saper cogliere". Archiviato il viaggio in Nord Corea, Salvini si prepara a quello del prossimo mese in Russia. Decisamente più politico, visti gli ottimi rapporti che il Carroccio mantiene da alcuni mesi con Vladimir Putin e la presa di posizione filorussa in occasione della crisi in Ucraina. Con Salvini ci saranno i vertici dell'Associazione Lombardia - Russia e gli europarlamentari del Carroccio a Strasburgo. Ecco. Conclusa l'appendice, questo per dire che laddove manca, ammesso che manchi, la capacità o la voglia di costruire un percorso cultural-politico con il quale pervadere le masse, si cerchi almeno di essere anticonformisti nella sostanza e non di maniera. Del resto, la storia non l'hanno mai scritta né i benpensanti né i moderati. Massimo Sergenti

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L’ESTINZIONE DEI MODERATI Dopo gli esiti del voto per le europee si fa un gran parlare del problema di riunire i cosiddetti moderati, per tornare a contrastare la sinistra, oggi vincente nelle scelte degli elettori. Per la riunificazione le ricette non mancano. Dal "tutti insieme appassionatamente", alle soluzioni "ad escludendum": FI+Ncd+Fd'I, fuori la Lega, o FI+Lega+Fd'I, fuori l'Ncd e il possibile monoblocco moderato dell'Udc. Per i più fantasiosi vi sarebbe anche l'opzione "fusione fredda" al centro di Udc, Ncd, Popolari per l'Italia, affranti della moritura Scelta Civica nonché scampati alla deflagrazione annunciata del movimento di Silvio Berlusconi. A ramengo tutti gli altri. Insomma, come se nulla fosse accaduto in questi ultimi anni e come se non si fosse consumata una visione della destra che va ben oltre la parobola di una stagione politica, si continua a pensare che la semplice aritmetica possa rimediare alla falla che si è determinata nel sistema. Le analisi di cortissimo respiro non riescono a cogliere il senso della radicale trasformazione, che è alle porte della nostra civiltà. Quanto impiegheranno gli italiani di destra a dichiarare apertamente che l'Unione Europea, retta dalla sua nascita, alternativamente sia dal blocco socialdemocratico della sinistra riformista, sia da quello popolare della destra moderata, ha fallito? O meglio, che non sia stata conseguita la missione prioritaria la quale era nella prima configurazione di scenario, quello tracciato da Robert Schuman, Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer negli anni Cinquanta: cooperare per diffondere il benessere, redistribuendo ricchezza alle fasce medie e basse della popolazione europea? Quando comprenderanno che il disegno di un'Europa fondata sullo sviluppo di una società della conoscenza, qualitativamente più competitiva e solida abbastanza da reggere le sfide imposte dalla globalizzazione, è carta straccia? Per raggiungere l'obiettivo la strada ridelineata, oltre vent'anni orsono dalle classi dominanti dell'epoca, avrebbe condotto all'instaurazione di un nuovo ordine economico-politico. Il principio fondante della nuova Europa avrebbe fatto perno sulla progressiva riduzione della sovranità individuale dei Paesi membri. La ritrazione dalla potestà decisionale degli Stati nazionali in un numero crescente di materie avrebbe dato luogo al consolidamento di un potere sovraordinato, impermeabile alle oscillazioni connaturate al funzionamento dei regimi democratici e amministrato da strutture tecnocratiche di governance le quali avrebbero fatto volentieri a meno della legittimazione del voto popolare. L'abbattimento di tutte le barriere avrebbe consentito l'ingresso trionfale di un liberismo economico tout court, del tipo "libere volpi, in libero pollaio". L'antropologia, non la politica, avrebbe poi certificato il mutamento genetico della specie umana


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a massa liquida di consumatori onnivori, in particolare del superfluo. I consumi, non i valori etici, avrebbero dovuto stimolare la domanda interna. La maggiore produttività avrebbe dovuto portare, ai privati, occupazione e nuove opportunità d'impresa e agli Stati, più soldi in cassa per pagare i debiti. E' di tutta evidenza che non sia andata così. Il meccanismo è saltato. Gli Stati si sono indebitati oltre misura, giungendo a pagare interessi da usura per il denaro acquistato sul libero mercato. Ora, la priorità è divenuta quella di contenere la spesa pubblica. Soprattutto, di non operare in deficit. La conseguenza di questa brusca frenata ha prodotto, nella maggior parte d'Europa, disoccupazione, povertà e debiti. E non è finita, visto che il continente nel suo complesso cresce poco, in prodotto lordo, rispetto alle altre zone del pianeta. Il futuro riserva ancora amare certezze. La più crudele di tutte sarà, a breve, l'entrata in vigore del trattato sulla stabilità, coordinamento e governance (TSCG) dell'area euro dell' Unione europea. L'Italia, al pari degli altri Stati firmatari del trattato, si è obbligata a rientrare della parte di debito pubblico che eccede la quota del 60%, con un ritmo medio di un ventesimo all'anno del valore dell'eccedenza certificata in sede di organismi europei. Tradotto, vuol dire che nel prossimo futuro i bilanci dello Stato, oltre a non violare l'obbligo del pareggio, dovranno farsi carico del rientro dall'eccesso di debito, in quota parte. Il fatto è che si tratta di una montagna di soldi che non riusciremo a mettere insieme. A meno che non si pensi di tagliare il welfare, la previdenza, privarci quasi del tutto del sistema di difesa nazionale e operare una robusta potatura dell'organico della pubblica amministrazione. Lo Stato resterà in piedi soltanto per fare da gabelliere e da poliziotto fiscale, incaricandosi di riscuotere le tasse e, quando occorre, aggiungerne di nuove. A quel punto al popolo di destra si imporrà una scelta di campo. Dovrà decidere da che parte schierarsi. Se continuare a stare nella scia di chi promette la terra promessa, nella speranza che il moderatismo politico abbia ancora una possibilità di sopravvivenza o piantarsi a terra e mandare tutto a carte quarantotto. Quando saremo giunti lì, dove mai avremmo immaginato di essere, pensate che abbia più un senso dirsi alfaniani o casiniani o diversamente berlusconiani? Altro conterà che l'essere più giovani, più belli o più simpatici. Probabilmente la leadership verrà contesa sul consenso a uno o all'altro modello di civiltà, al quale si pensa di approdare. Allora, prima degli uomini, conteranno le idee. Cristofaro Sola

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MME NE VOGL’I’ A LL’AMERICA Certo è che l'italiano non conosce per nulla il significato di coerenza. Passa di palo in frasca e di frasca in palo con una tale naturalezza che rasenta la sfacciataggine. E questo a voler essere buoni perché, altrimenti, sarebbe da pensare che le sue condizioni intellettuali sono preoccupanti, da rasentare l'alzheimer. La recente vicenda della Ferrari ce ne fornisce un ottimo esempio. Era risaputo, da tempo, che i rapporti tra l'amministratore delegato di FCA (Fiat-Chrysler Automobiles), Sergio Marchionne, e il sempiterno Luca Cordero, il Montezemolo nazionale, Presidente della casa di Maranello, non erano idilliaci. Diciamo che, cortesemente, si sopportavano. Comunque, in questa diatriba sia pur "garbata", voci di popolo affermano non si sono risparmiati, nel tempo, bordate indirette, tipo l'interdizione a Pininfarina di continuare ad operare per FCA, vista la sua collaborazione con Ferrari. Ma queste cose, si sa, non vanno avanti in eterno. Una volta posizionate e incastrate le tessere, Marchionne ha fatto le sue mosse e, attribuendo la colpa ad un motore che da sei anni non ne vuol sapere di portare la "rossa" prima al traguardo, nonostante la bravura di Alonso, si è tolto il sasso dalla scarpa. Il prossimo 13 ottobre, Marchionne subentrerà nella presidenza a Montezemolo che lascia con un bonus di consolazione di poco più di 27 milioni di euro. Poverino, il rischio che corre è di non trovare un angolo di chiesa dove andare a tendere la mano, visto che la maggior parte è già occupata. Ma gli italiani, che di Luca Cordero alla fine se ne fregano, improvvisamente sono stati colti da un moto d'orgoglio nazionale e l'unica preoccupazione sonoramente manifestata è che la Ferrari diventi americana. Ma, si domanda, chi si è preoccupato del passaggio della Perugina alla Société des Produits Nestlé S.A., la più grande azienda mondiale nel settore alimentare, con sede a Vevey, in Svizzera? Oppure, della Ferrarelle passata alla francese Danone? O di Algida, oggi marchio di proprietà del colosso Unilever, società mezza inglese e mezza olandese? O di Motta Gelati, acquistata sempre dalla Nestlé? O di Parmalat, controllata per l'83,30% dalla francese Lactalis? O dell'Ariston, oggi Indesit, venduta lo scorso luglio, per il 60,4% del capitale, all'americana Whirlpool? O della casa di moda Valentino, venduta il 12 luglio 2012, insieme al marchio M Missoni, alla società Mayhoola for Investments dal Qatar? O della arcinota gioielleria Bulgari, oggi di proprietà della francese LVMH Moët Hennessy Louis Vuitton S.A?


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Chi si è interrogato sulle vicende Alitalia - Compagnia Aerea Italiana S.p.A., non più compagnia di bandiera, gestite con ogni evidenza da schizofrenici, che negli ultimi 10 anni ha cancellato rotte intercontinentali, ha pagato fior di milioni al manager che ne è stato l'artefice, è stata chiusa per pesante indebitamento, è rinata nel 2008 e a causa di nuova, pesante situazione gestionale, è stata recentemente ceduta per ben il 49% alla compagnia degli Emirati arabi Etihad, con l'unica consolazione del ripristino delle rotte intercontinentali? Potrei proseguire l'elencazione ma, sentendo la depressione che si avvicina, mi fermo qui. Sono passati quasi due anni da quando, nel novembre 2012, Roberta Forte scriveva "Ci hanno rubato il sogno" a proposito dell'opera nefasta del Soter Monti. E non perché ambissimo comprare una Ferrari, acquistare un gioiello Bulgari, indossare un capo firmato, mangiare un cioccolatino, fare una bevuta di latte o d'acqua frizzante, ma più semplicemente perché l'identità italiana di alcune case produttive ci riempiva d'orgoglio. Alcune di quelle ipotetiche iniziative, peraltro, non avremmo potute realizzarle in un'intera vita. Ma, insieme al sogno, ci hanno rubato la ricchezza, materiale e culturale. Forse "rubato" è una parola forte; certo è che, in nome di uno pseudo progressismo di maniera, abbiamo portato l'Italia in una congerie di psicopatici che si chiama Unione Europea la quale, come unico effetto pregnante finora registrato, ha realizzato la perdita d'identità nazionali, sia sul piano valoriale che operativo. Il secondo effetto è stata la coniazione dello slogan "Internazionalizzarsi è bello". Certo, sto facendo del sarcasmo, ma non c'è dubbio che da circa vent'anni le aziende abbiano cominciato a comprendere che la volontà dei demiurghi, appena al di sotto degli eoni, era la dilatazione dei mercati fino a configurarsi con l'intero globo terracqueo. Chi ha sollevato interrogativi in questo ventennio? Nessuno, neppure quando aziende italiane, dal Veneto alla Lombardia, dall'Emilia al Piemonte, alla Toscana, si sono trasferite o hanno dislocato gli impianti in Paesi europei vicini o, addirittura, in Paesi extra europei, più accoglienti sul piano logistico, normativo, fiscale. Come nessuno si è posto interrogativi sulle risultanze dell'attuale costruzione del cosiddetto "mercato interno" che abbraccia i territori di ben 28 Paesi; una costruzione che, appunto, ha consentito ad un dirigente di nazionalità canadese, domiciliato in Svizzera, nel Canton Zurigo, di nome Sergio Marchionne, di trasformare la ex FIAT S.p.A. in FCA, di avere la sede fiscale a Londra per utilizzare i vantaggi che il sistema inglese, compreso quello fiscale, accorda a chi matura dividendi all'estero; di avere la sede legale ad Amsterdam quale occhio di riguardo per la famiglia Agnelli perché, in base alla legislazione olandese, quella stessa famiglia, anche con meno del 30% della nuova Fiat, può controllare la società, cosa che con le leggi italiane sull'Opa non sarebbe possibile; di collocarsi in borsa a New York, come sede primaria, lasciando Milano come secondaria. Un mercato interno, quindi, che anziché inalberare regole comuni, ha creato e crea, ad onta del sedicente commissario europeo sulla concorrenza, una competizione nei fatti tra sistemi-Paese, senza che vi sia stato alcuno che abbia sollevato il problema.

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Oddio! Dobbiamo, comunque, essere grati alla FIAT, e ad altre aziende, a prescindere da come si chiamino, per aver lasciato parte dei loro impianti in Italia, consentendo (ancora per un po') una fetta di occupazione. Del resto, gli operai intervistati, dopo che i loro sindacati avevano sottoscritto contratti a perdere, sembravano penitenti che innalzavano preci alla Madonna delle Grazie. E, quando gli ordini per la Maserati sono aumentati, da un anno all'altro, del 112% grazie al mercato americano e in parte cinese, hanno confezionato ex voto e, come dimostrano le successive interviste, sono andati ad apporli ai cancelli di Mirafiori, grati che persino la comunista Cina acquisti le potenti vetture FCA. Ma, al di là della scarsa retribuzione corrisposta ad un metalmeccanico che lavora in Italia per un'azienda non più italiana e che paga le tasse in un Paese estero, dov'è la ricchezza del nostro Paese? Se n'è andata, dispersa, volatilizzata da pseudo solidali centristi, illuminati progressisti e dotti benpensanti che, più che alle sorti del Paese, hanno pensato, a voler essere buoni, a consolidare la loro posizione e quella dei loro sodali. Ed il bello è che tutti questi solidali, illuminati, dotti (sic) si ostinano a dichiararsi moderati e liberali sebbene ignorino totalmente, platealmente, i più elementari canoni del pensiero liberale, basato preliminarmente sulla responsabilità sociale della persona. Non che quella dottrina escluda le opportunità di mercato, ma postula l'esistenza di un ubi consistam da valorizzare: un valore aggiunto. Ma, forse, ritengono Smith un generico cognome anglosassone e, praticano, senza conoscerli, gli insegnamenti del padre della tecnocrazia, Claude-Henry de Rouvroy, conte di Saint-Simon che agli albori del 19° secolo teorizzava che la libertà illimitata va data solo agli uomini consacrati all'industria, e quelli del suo discepolo, Comte, teorizzatore dell'Unione europea che meglio la definì attraverso l'atteggiamento delle masse ovvero la loro disponibilità a credere, senza dimostrazione preliminare, ai dogmi proclamati da un'autorità competente. E Montezemolo, nella sua conferenza stampa, ha la faccia di sollevare dubbi per i sempliciotti, sia pur velati, circa i destini della casa di Maranello? Ma mi faccia il piacere e, con lui, tutti quelli che, come massima pulsione, la domenica pomeriggio sono incollati davanti al televisore a vedere la Formula 1 e mal sopporterebbero l'idea che la "rossa" nostrana possa fregiarsi di stelle e di strisce. Oggi, non possiamo più dire Made in Italy perché, altra faccia della medaglia, anche la maggior parte di quelle aziende che hanno fatto grazia di restare in Italia produce all'estero grazie ai bassi costi della manodopera e a norme più permissive. Per inciso derivato, ogni iniziativa che tenda a valorizzare oggi il Made in Italy non è altro che un modo per bruciare un po' di soldi a favore degli iniziatori. Parimenti, non si può parlare neppure di Created in Italy, cioè concepito, ideato in Italia come frutto di quel patrimonio di cultura, genialità, inventiva che ci appartiene (ci apparteneva???) perché i centri di ricerca di aziende italiane sono in buona parte all'estero, perché la ricerca


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pubblica ha visto una progressiva drastica riduzione delle risorse da almeno dieci anni a questa parte e perché i piccoli produttori, che pure sono ancora il nerbo produttivo di questo Paese, che pure in alcuni casi hanno una produzione di qualità, sono troppo piccoli per internazionalizzarsi e, nel contempo, troppo ottusi per consorziarsi. Senza considerare, poi, perché argomento stantio, della fuga di cervelli, dell'emigrazione di giovani brillanti ricercatori che, dopo aver conseguito una laurea con 110 e lode, bacio accademico, menzione speciale e pubblicazione della tesi, lavorano, ad esempio, in centri ricerche spagnoli (si pensi). Dinanzi a questa desolazione, il nostro arguto presidente del consiglio dimostra una lungimiranza che non ha eguali: si è imbarcato in una discutibilissima riforma del Senato che non porterà alcunché nelle tasche dell'inflazionato popolo e ha avviato una spendig review che, da un lato, lesinerà le matite copiative, dall'altro imporrà la stesura di bozze sul retro della carta stampata e, dall'altro lato ancora, forse (grande come una casa), porterà alla costituzione, tra una decina d'anni, di un centro comune di spese per la sanità del quale, peraltro, se ne sta parlando da almeno un quinquennio. E, a tutto questo, i vetero-progressisti, i solidali centristi e i dotti moderati assistono immoti, tutt'al più con il volto velato da un leggero disappunto. E' indicativa l'intervista, rilasciata tempo addietro, da un dirigente sindacale della FIOM di Torino il quale, dopo aver constatato che gli ordini per la Maserati erano in aumento, alla domanda di quale passato rimpiangesse, nonostante gli amorosi sensi che intercorrono tra Renzi e Landini, ha risposto "Quello in cui c'era un principio di solidarietà di classe. Oggi prevale l'individualismo. Gli operai non interessano più a nessuno. È mancata completamente la politica". Al di là della "classe", la solidarietà si è persa, l'individualismo impera, gli operai sono una veterocategoria di superati concetti del lavoro e la politica è completamente assente e non si ha notizia di qualsivoglia élite in grado di sovvertire culturalmente lo sfacelo. Nel 1912, Bovio e De Curtis composero la celeberrima 'A canzona 'e Napule che, a distanza di 102 anni, mantiene inalterata la validità del messaggio: Mme ne vogl'í a ll'America, ca sta luntana assaje: Mme ne vogl'í addó' maje ve (te) pòzzo 'ncuntrá cchiù. Se non fosse per l'età, quasi, quasi……. Roberta Forte

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LA DESTRA E LA QUESTIONE DI GENERE Introduzione Una riflessione sulla destra non dovrebbe prescindere da una definitiva resa dei conti con luoghi comuni e leggende metropolitane che ne hanno contaminato l'essenza, relegandola a terreno di coltura di stereotipi datati. E' stato il caso della questione sociale. Si da per scontato che la destra economica, figlia di una concezione liberista del mercato, neghi cittadinanza ai diritti primari del "sociale". Si dimentica, però, che il primo a porre la necessità di una politica sociale pubblica fu, nell'Ottocento un campione dell'ortodossia di destra, quale Otto Von Bismarck. Il cancelliere tedesco sosteneva, a ragione, che sarebbe stato un madornale errore politico, "regalare" il primato sulle politiche sociali alla sinistra. Aveva visto giusto. Allo stesso modo, in tempi più recenti, la destra politica italiana ha sostanzialmente abdicato al confronto con la questione della parità di genere, concedendo che la materia divenisse una "bandiera" del mainstream politicoideologico della sinistra. Anche nel recente passato, nel tempo della cosiddetta "Seconda Repubblica", il centrodestra che ha occupato il campo della politica moderata e conservatrice non ha dato il meglio. Al contrario, nella visione del mondo offerta alle masse dal leader Silvio Berlusconi la selezione del personale politico ha risposto a criteri estetici, più che a canoni meritocratici e sostanziali, come invece avrebbe dovuto. Oggi, che con la parabola della vicenda personale del "vecchio leader" di Arcore, si apre uno spiraglio importante per ridefinire concettualmente l'essenza della destra politica, è opportuno che si affronti in una diversa chiave interpretativa anche la questione, insieme alle altre, della parità di genere. La riflessione che segue si propone come contributi a un dibattito che deve essere svolto a destra. E non più rinviato. 1. L'opportunità di Horizon 2020 per il gender mainstreaming Horizon 2020, il programma di ricerca finanziato dalla UE per il periodo 2014-2020, offre una grande opportunità: la concretizzazione del gender mainstreaming. La formulazione è sì vaga, tanto da richiedere la predisposizione di un vademecum per la Gender Equality, ma consente di orientare la ricerca verso un'ottica non più rimandabile, come nel caso della medicina e dei test sperimentali su nuovi farmaci. Quello che il buon senso suggerisce ha impiegato anni per essere riconosciuto, la fisiologia umana maschile e quella femminile non sono uguali, il peso e le caratteristiche corporee tra uomo e donna differiscono, pertanto la farmacologia non può prevedere protocolli, posologie e terapie uniformi. Ma oltre l'ambito sanitario vi è l'intera


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quotidianità da declinare secondo una distinzione di genere. Per la prima volta la programmazione dei fondi comunitari prevede, in ogni progetto, la presenza di un esperto di genere che ne valuti le ricadute. Le modalità con cui questo avverrà non sono ancora chiare ma il rischio concreto è che se la declinazione di genere non si sostanzierà attraverso i singoli progetti essa scomparirà dalle priorità programmatiche facendo sfumare una importante occasione. La corsa ad accaparrarsi la patente di "esperti" è aperta. Master, corsi e seminari inondano il web. L'improvvisa attenzione al tema suscita un alone di scetticismo. Prima di tutto perché essa appare come fenomeno modaiolo da cavalcare e poi perché in nome di una supposta parità si legge, si ascolta e si assiste a un pout pourri in cui si mescola, a seconda del caso, sociologia in pillole, racconto storico raffazzonato e reinterpretato, luoghi comuni e parole in libertà. Chi ne ha fatto, da anni, oggetto di studio assiste a questa momentaneo interesse con fastidio ben sapendo che maître à penser televisivi e opinionisti prezzolati sanno come far danno. La superficialità che nella società contemporanea tutto avvolge sta masticando, per poi sputare una volta triturato, un argomento ben più serio e complesso. Non credo nell'economia di genere, trovo sia sciocco parlare di economia maschile ed economia femminile quello che ritengo, invece, degno di attenzione è la diversa modalità di approccio al lavoro che distingue gli uomini e le donne. Mentre i primi sono esclusivamente focalizzati sul raggiungimento del risultato secondo un diagramma che tenga conto di costi e benefici in un'analisi SWOT che evidenzi opportunità e criticità le seconde sono interessate al modo nel quale i risultati si raggiungono, le donne non badano soltanto al raggiungimento degli obiettivi aziendali ma sono attente al clima di lavoro, all'adesione al modello aziendale, all'ascolto dei problemi delle persone che con loro lavorano, al rispetto per l'ambiente, alla promozione del territorio. Gli uomini, quando interpellati, si soffermano sul dato tecnico, le donne sulle relazioni. Non stupisce che siano interessate oltre che al bilancio economico patrimoniale anche a quello sociale nel quale trovano spazio indicatori riguardanti fattori immateriali intangibili. 2. La crisi economica e la semantica di genere La fase ciclica economica nella quale siamo immersi ha comportato una forte contrazione del mercato interno e le imprese che vivono minori difficoltà sono quelle che hanno puntato al mercato estero. Che il mercato interno fosse sull'orlo del baratro le imprenditrici lo avevano capito da tempo come dimostrano le strategie aziendali adottate dalle imprese manifatturiere da loro condotte. Così come le imprenditrici del terziario avevano compreso che l'offerta dei servizi andasse diversificata, rivisitata nel prezzo e arricchita con bonus aggiuntivi. I dati congiunturali con i quali dal 2008, anno d'inizio della crisi, stanno facendo i conti mostrano un andamento territoriale che non lascia spazio alle illusioni1 il Sud è al tracollo. Secondo i dati del Rapporto Svimez sull'Economia del Mezzogiorno il PIL meridionale nel 2013 è crollato del 3,5% marcando con un calo di oltre due punti percentuali superiore a quello del Nord (-1,4%). Nei sei anni di crisi, dal 2008 al 2013, il Sud ha perso il 13,3% contro il 7% del Centro-Nord. Nel 2013, il divario di PIL pro capite tra le due aree del paese è sceso al 56,6%, facendo un balzo indietro ai

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livelli di dieci anni fa, con la regione più ricca Val d'Aosta (34.442 euro) e quella più povera la Calabria (15.989 euro). Sul fronte dei consumi il 2013 si è chiuso con un calo del 2,4% nel Sud e del 2% nel Nord. Gli investimenti fissi lordi sono scesi, rispettivamente, del 5,2% e del 4,6%. L'analisi degli investimenti in senso stretto dell'industria evidenzia come dal 2008 al 2013 ci sia stata una decrescita nelle regioni meridionali del 53,4%, contro il comunque pesante -24,6% del Centro Nord. Il rischio serio è che la crisi da fenomeno ciclico potrebbe assumere caratteristiche strutturali impedendo al Mezzogiorno una ripresa. Il numero degli occupati è sceso sotto i 6 milioni (per la prima volta dal 1977 il primo anno in cui sono disponibili i dati) e oltre 1 milione e mezzo di persone sono emigrate dal Sud alle regioni del Centro Nord nei sei anni della crisi senza contare le migrazioni verso l'estero. Questa attenzione al trend economico ha reso le imprenditrici ricettive agli strumenti di programmazione innovativi e attente alle nuove strategie, come nel caso delle reti di impresa. L'accesso delle donne al mercato del lavoro ha posto anche l'accento sull'adeguamento linguistico ad una mutata realtà socio-economica. Risale al 1960 la storica sentenza emessa dai Giudici della Corte Costituzionale conseguente al ricorso promosso da Rossana Oliva avverso la decisione di escluderla dal concorso alla carriera prefettizia. La sentenza n. 33 della Suprema Corte riconosce alle donne l'esercizio di diritti e potestà politiche correlate alla carriera pubblica. Su iniziativa di dieci parlamentari donne, tre anni più tardi l'Assemblea legislativa abrogava la ormai datata legge risalente al 1919 riconoscendo il diritto di accesso per le donne a tutte le carriere con la sola esclusione delle forze armate. Ultimo baluardo della segregazione di genere a cadere la carriera militare, essa è diventata possibile anche per le donne allo spirare del secolo scorso, nel 1999. A dicembre del 2013 nell'arma dei carabinieri ha ricevuto il grado di generale la prima donna nella storia delle forze armate italiane. Il nuovo millennio si apre con una modifica costituzionale, nel 2001 l'art 117 della Costituzione viene riformulato con la previsione: "Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive". Dopo ventiquattro mesi è la volta dell'articolo 51 dove si fa menzione di azioni in applicazione del principio delle pari opportunità. Le norme si sono messe al passo con i tempi anche in sede europea e a cascata negli stati membri come nel caso della legge italiana 903/1977 sulla Parità tra uomini e donne in materia di lavoro che discende dalla direttiva del Consiglio 76/207/CEE febbraio1976 all'articolo 1 non si presta ad equivoci: È vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l'accesso al lavoro indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività a tutti i livelli della gerarchia professionale anche (...) in modo indiretto (...) a mezzo stampa o con qualsiasi altra forma pubblicitaria che indichi come requisito professionale l'appartenenza all'uno o all'altro sesso. Se non poteva esserci discriminazione nell'accesso al mercato del lavoro avrebbe dovuto esserci un conseguente adeguamento della terminologia ad una mutata condizione sociale, economica e culturale. All'indomani dell'entrata in vigore della legge si parlò di utilizzo linguistico del maschile neutro, un' invenzione poco credibile poiché


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nella lingua italiana, diversamente da altri idiomi, non esiste il genere neutro. Si ripiegò allora sulla definizione di maschile inclusivo intendendo con tale locuzione che il genere maschile ricomprendesse anche le donne che svolgevano lo stesso lavoro degli uomini: architetti, medici, avvocati, magistrati, dirigenti etc. Prima ancora che la lingua parlata è il linguaggio istituzionale a non far distinzioni. Bisognerà aspettare il nuovo millennio per assistere all'avvio di un dibattito acceso in Europa dal concetto di gender e di identità di genere affermatosi in America. Aver affrontato la questione semantica significa riconoscere la presenza delle donne nel mercato del lavoro non più come omologate ad un modello maschile ma come portatrici di una identità differente. In Italia l'argomento fu trattato con metodo e rigore dal lavoro di Alma Sabatini alla fine degli anni Ottanta ne Il sessismo nella lingua italiana, promosso dalla Commissione Nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, ispirati dal programma di governo presentato alla Camera il 9 Agosto 1983. Nel testo si legge: "la lingua italiana, come molte altre, è basata su un principio androcentrico: l'uomo è il parametro intorno a cui ruota e si organizza l'universo linguistico". All'epoca della pubblicazione il lavoro fu accolto con sorrisetti e mal celati sberleffi, si proponeva l'adozione del suffisso -ora per le professioniste e le cariche di prestigio, non più professoressa ma professora. Successivamente entrò in vigore la Direttiva 23 maggio 2007 - Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche -, emanata per dar attuazione alla Direttiva 2006/54/CE del Parlamento e del Consiglio europeo: [le amministrazioni pubbliche devono] utilizzare in tutti i documenti di lavoro (relazioni, circolari, decreti, regolamenti, ecc.) un linguaggio non discriminatorio come, ad esempio, usare il più possibile sostantivi o nomi collettivi che includano persone dei due generi (es. persone anziché uomini, lavoratori e lavoratrici anziché lavoratori). Suggerire di declinare il genere nei diversi aspetti della vita: pensieri, oggetti, cariche istituzionali e professioni, corrisponde alla volontà di evidenziare la differenza ma se tale visione riuscirà ad affermarsi dipende dall'adozione reale del linguaggio di genere. Se esso entrerà a far parte del vivere quotidiano acquisirà peso e profondità caricandosi di significati condivisi e riconosciuti, diversamente esaurirà la sua funzione in un mero esercizio accademico. Ma le cose si muovono lentamente, è del marzo 2013 la Risoluzione del Parlamento europeo sull'eliminazione degli stereotipi di genere nell'Unione europea (2012/2116(INI) in cui si legge: "considerando che nel 2012, secondo uno studio elaborato dalla Commissione nel 2011, nell'Unione europea il 14% dei membri dei consigli di amministrazione delle maggiori società quotate in borsa sono donne, un dato che suggerisce l'esistenza di un cosiddetto "soffitto di vetro" che ostacola l'accesso delle donne ai posti di alta dirigenza e le pari opportunità in materia di promozione; considerando che, nonostante vi siano stati alcuni progressi negli ultimi anni, le donne continuano a non essere rappresentate a sufficienza nel processo decisionale politico, tanto a livello locale e nazionale quanto a livello dell'UE; che la presenza femminile nei governi e nei parlamenti nazionali è aumentata dal 21% nel 2004 al 23% nel 2009, mentre nel Parlamento

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europeo è passata dal 30% al 35% nello stesso periodo; che gli stereotipi di genere e il sessismo sono tuttora diffusi negli organi decisionali sia politici che economici, dove sono frequenti i casi di osservazioni sessiste e molestie, comprese alcune forme di molestie sessuali e di violenza contro le donne; che gli stereotipi di genere devono essere eliminati, soprattutto all'interno delle imprese, ove la maggior parte delle posizioni dirigenziali è occupata da uomini, in quanto tali stereotipi contribuiscono a limitare le aspirazioni delle giovani e fanno sì che le donne siano meno propense a candidarsi a posizioni dirigenziali nell'ambito del processo decisionale finanziario, economico e politico, tanto nel settore pubblico quanto in quello privato; la UE prende atto della grave assenza di progressi per quanto concerne il rispetto degli impegni assunti sia dall'UE sia da diversi governi nel quadro della piattaforma d'azione di Pechino e sottolinea la necessità di nuovi indicatori per gli stereotipi di genere e di relazioni analitiche a livello dell'UE; invita l'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere ad affrontare tale questione; osserva che, nonostante l'impegno dell'UE a favore della parità tra uomini e donne, la normativa che disciplina la non discriminazione nei confronti delle donne e la parità di genere presenta ancora lacune in settori quali la sicurezza sociale, l'istruzione, i mezzi di informazione, l'occupazione e la retribuzione; sottolinea la necessità di rafforzare l'attuazione della legislazione esistente in questi ambiti e di introdurre nuove normative; invita la Commissione a integrare la questione della parità di genere in tutti i settori politici quale strumento per rafforzare il potenziale di crescita della forza lavoro europea". 3. Il cambiamento culturale Il processo di cambiamento culturale in cui dare cittadinanza alla distinzione di genere è avviato. E' interessante vedere come esso si sviluppa. Negli anni Ottanta le donne che entravano in contesti di lavoro maschili tendevano ad omologarsi ad essi anche nel modo di vestirsi. Mocassini, giacca e pantaloni dal taglio e dai colori decisamente maschili: grigi, marroni e grisaglie con cui qualcuna arrivava a indossare anche la cravatta. La femminilità, se non negata, andava quantomeno celata. Oggi l'abbigliamento delle donne riflette la loro personalità a prescindere dal luogo di lavoro e la posizione ricoperta, se si indossano pantaloni e giacca con scarpe basse è perché lo si è scelto e non per mimetizzarsi. Squarci di colore, gonne, vestiti, scarpe dal tacco alto e accessori di ogni foggia sono stati finalmente sdoganati. Come questa molte altre cose sono cambiate anche grazie alla viralità della rete Internet. La dinamicità della rete e dei social network rende possibile il fiorire di numerose iniziative. Tra queste vi è la nascita del gruppo Toponomastica femminile (2012) che propone ricerche e studi volti a sensibilizzare le amministrazioni locali a riequilibrare la presenza di genere nell'attribuzione della nomenclatura di strade e piazze. "Nell'Italia preunitaria prevalevano i riferimenti ai santi, a mestieri e professioni esercitate sulle strade e alle caratteristiche fisiche del luogo. In seguito la necessità di cementare gli ideali nazionali, portò a ribattezzare strade e piazze dedicandole a protagonisti, uomini, del Risorgimento e in generale della patria; con l'avvento


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della Repubblica si decise di cancellare le matrici di regime e di valorizzare fatti ed eroi, uomini della resistenza. Ne deriva un immaginario collettivo di figure illustri esclusivamente maschili" Dai dati raccolti e pubblicati sul sito internet la percentuale di intitolazioni femminili si aggira attorno al 3-7% mentre quelle maschili superano quasi ovunque il 50%. Questa fotografia dell'esistente ha spinto il gruppo della Toponomastica a chiedere all'ANCI di promuovere una azione di divulgazione presso i comuni affinché si recuperi il gap di genere intitolando strade, piazze e luoghi pubblici alle donne, si adotti un regolamento comunale per la toponomastica, si introduca, dove non presente, una donna proveniente dal mondo della cultura in ogni commissione toponomastica comunale e si avvii un processo di condivisione del recupero di figure femminili di spicco con le scuole e la cittadinanza al fine di rendere il percorso culturale partecipato. E' singolare che in quasi la totalità degli ottomila comuni italiani esista un Corso, una Via o una Piazza intitolata a Giuseppe Garibaldi e di Anita, che pure combatté al suo fianco e partorì tra le paludi, non se ne rivenga ugual memoria. Si rinvengono le tracce di un dibattito che, travagliato nell'avvio, sta prendendo corpo. Personalmente ho sempre ritenuto che l'economia, e pertanto l'impresa, non abbiano genere pur tuttavia non bisogna cadere nel facile errore di negare una differenza di approccio che discende dal genere. Come i figli nati e cresciuti in uno stesso ambiente familiare sviluppano caratteristiche e inclinazioni diverse così il lavoro pensato e agito da uomini e donne si differenzia per molteplici aspetti. Il modello aziendale interpretato dalle donne ha rivisitato le relazioni industriali. Nelle PMI si riscontra la creazione di un clima collaborativo improntato alla distensione in cui letemeraria asperità si superano per ricercare la gratificazione individuale e il senso di audacia igiene spirituale appartenenza collettivo a una realtà produttiva da salvare dalla bufera e difendere dagli schianti dell'economia. Il vero cambiamento socio-culturale è racchiuso nella percezione del fattore "differenza". Fino a ieri esso era considerato come una naturale conseguenza dei ruoli ascrittivi che una determinata società in un preciso tempo storico assegna agli uomini e alle donne. Oggi, che tale ascrittività è messa in discussione, il portato del pensiero innovativo risiede nella concezione che questo fattore possa assicurare pari affidabilità ed egual merito. La differenza, così concepita, restituisce arricchimento e diversità di metodologie. E' il modello di società mediterraneo ad essere messo in discussione, e come la storia insegna, le spallate più forti arrivano sempre cavalcando i marosi dell'economia. Che non si possa far a meno dell'apporto del lavoro delle donne nell'economia del singolo nucleo familiare e nella costruzione del PIL lo dimostra il permanere della crisi economica. Rinunciare alle competenze, conoscenze e abilità delle donne è un lusso che la società non può permettersi. Se ne facciano una ragione gli scettici. Del resto se ne parla da due secoli, il filosofo inglese John Stuart Mill nel 1869 in "La schiavitù delle donne" scriveva: "Siamo così certi di avere sempre sotto mano un uomo adatto a svolgere qualsiasi dovere o funzione di importanza sociale si renda necessario, che non vi sia niente da perdere nell'interdire la metà dell'umana specie, ricusando anticipatamente di tener conto delle sue capacità, per quanto distinte possano essere?" I numeri, che tendono ad essere fastidiosamente testardi, mostrano una fotografia nella quale si

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evidenzia quanto le donne siano capaci non solo di produrre reddito ma di conseguire brillanti risultati negli studi e di gestire con profitto attività private e pubblici impieghi. Al terzo trimestre 2013 le imprese femminili della provincia di Napoli sono 68.503, il 32% società di persone, il 17,7% società di capitale, il 47,2% imprese individuali e il 2,2% altre forme. La parte del leone la fa 2 il commercio con oltre 30.000 imprese . Accanto a questi dati è importante osservare quelli relativi al trattamento pensionistico letto in ottica di genere. Secondo l'ISTAT3 oltre la metà (52%) delle donne percepisce una pensione inferiore ai 1.000 euro al mese, contro un terzo dei colleghi maschi. Gli uomini con una pensione mensile pari o superiore ai 5.000 euro sono 178 mila, cinque volte il numero delle donne (33 mila). In media le donne, il 52,9% dei pensionati (8,8 milioni su un totale di 16,6 milioni), percepiscono un importo annuo di 8.965 euro, che rappresenta il 60,9% di quello medio degli uomini, pari a 14.728 euro. Le donne hanno un tasso di pensionamento (rapporto tra numero di pensioni e popolazione residente) pari al 43,1% contro il 35,6% degli uomini, ma percepiscono solo il 44% del totale erogato (271 miliardi di euro nel 2012). In totale nel 2012 sono stati erogati 23.577.983 assegni previdenziali, dei quali il 56,3% è andato a donne e il 43,7% a uomini. Questo dato fa sì che il divario economico di genere si riduca al 42,9% se calcolato sul reddito pensionistico (13.569 per le donne, contro i 19.395 euro degli uomini). Rispetto al passato la situazione mostra un leggero miglioramento, nell'intervallo tra il 2002 e il 2008 il divario di genere è aumentato del 2,1% mentre a partire dal 2008 si registra una progressiva riduzione anche se i livelli di disuguaglianza sono attestati su piani superiori a quelli del 2004. Questi dati vanno letti alla luce del gender pay gap che vede una divaricazione nelle remunerazioni tra uomini e donne a pari condizioni di carriera, ruolo, anzianità e funzioni e della discontinuità contributiva che discende dall'atipicità delle forme contrattuali applicate alle lavoratrici precarie. Le statistiche vanno non solo lette ma anche interpretate. Oltre i numeri ci sono i ragionamenti. L'impennata della quota delle imprese femminili di per sé non vuol dire che stiamo andando verso la società delle amazzoni né che solo le donne siano in grado di fare impresa ma che lo scenario di riferimento sta mutando. Con la legge 215 del 1992 si prevedevano incentivi economici per le donne che avviavano un'attività di impresa. La legge fu più volte finanziata e i meccanismi rivisti ma una cosa rimase ferma, furono diversi i padri, fidanzati, mariti e figli che volevano approfittare dell'opportunità prendendo in prestito il nome della congiunta o aspirante tale. Allora i dati dell'imprenditoria femminile andavano scremati alla luce di tale fenomeno, oggi vanno ponderati sulla base di altre considerazioni. Se accanto all'andamento del tasso di natalità e mortalità delle imprese si valutano altri fattori come l'artigianato realizzato e venduto tra le mura domestiche, il lavoro di pulizia, cura e accudimento non dichiarato e l'indice di emigrazione delle giovani donne laureate allora si delinea uno scenario composito all'interno del quale, quel che emerge con forza, è la tenacia e la determinazione con cui le donne stanno lottando per far fronte alla crisi e per non farsi ricacciare indietro una volta che questa sia, anche parzialmente, rientrata. Le grandi emergenze del passato come lo sforzo bellico e la ricostruzione post conflitto con lo svuotamento delle campagne a seguito dell'inurbamento di vaste fasce della


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popolazione e dei flussi migratori videro le donne in prima linea occupare i posti lasciati vacanti dagli uomini. Si trattò di una supplenza temporanea. Il sistema sociale si riaggiustò sulle mutate condizioni lasciando permanere nel mercato del lavoro una quota minima di donne e soltanto in alcuni segmenti del sistema produttivo. Massima segregazione orizzontale e verticale. Questo risulta oggi impensabile, bisogna immaginare meccanismi di assestamento diversi, nuovi. Siamo all'alba del superamento della guerra dei mondi, quello maschile contrapposto a quello femminile, ci dirigiamo verso una fase storica in cui si creano spazi dedicati all'elaborazione di teorie e prassi sulla differenza di genere intesa come opportunità di crescita e arricchimento collettivo in luogo della odiosa disuguaglianza. Come sempre accade quando si istituzionalizzano nuovi luoghi di discussione ed elaborazione di pensiero e idee essi vengono avvertiti come centri di potere e pertanto appetiti. Non è certo il destino biologico che rende le donne più appropriate ad occuparsi di contrasto alle discriminazioni ma vedere uomini sgomitare per presiedere comitati e assemblee votate alla promozione delle pari opportunità, intese come strumenti per promuovere la presenza femminile in luoghi economici e gangli decisionali, stride. In certi casi è un ossimoro, in altri una prevaricazione inutile. Interessante appare il dibattito avviato agli inizi degli anni 2000 sui nuovi modelli organizzativi del lavoro. Tanto si è scritto e detto sull'atteggiamento delle donne che, entrando in segmenti di mercato dominati dagli uomini, ad essi si omologavano non soltanto nel modus agendi ma addirittura nell'abbigliamento e nello stile relazionale. Ciò era imputabile ad un modello sociale nel quale le caratteristiche connaturate al mercato del lavoro erano tipicamente maschili: forza fisica, tempi dilatati, spirito competitivo, assenza di empatia, scarsa attenzione alle abilità relazionali etc. Le donne che entravano in contesti di lavoro così costruiti erano straniere in territorio spesso ostile. La grammatica del mondo lavorativo era per loro sconosciuta e solo di rado si faceva in modo che non rimanesse tale. 4. Il vento del cambiamento Che il vento stia cambiando scompaginando anche le modalità del pensiero all'osservatore attento non sfugge. Basti notare che dopo la riflessione sul linguaggio di genere si è fatta avanti, in maniera del tutto spontanea e dal basso, la richiesta di colmare il gap esistente tra uomini e donne in alcuni aspetti della cultura e della vita quotidiana. Nel 2010 l'Unione Donne Italiane lancia la campagna Womenpedia affinché in rete siano presenti più storie femminili recuperate dalla polvere della dimenticanza nella quale erano relegate: "Le donne sono state occultate, dimenticate, cancellate dall'arte, dalla letteratura, dalla filosofia perché la storia dell'umanità è scritta e descritta quasi esclusivamente da uomini . In questa storia le donne hanno solo il ruolo di personaggi delineati dalla mente maschile e mai di soggetti che creano, scrivono e progettano, nonostante testi, ricerche, scoperte delle donne occupino ormai interi scaffali di librerie e biblioteche". Nel 2011 la Novartis avvia in Italia con cinquantaquattro centri universitari e ospedalieri la ricerca gender attention. Nell'arco di diciotto mesi si è osservata la differenza tra uomini e donne

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nella manifestazione e nell'incidenza di effetti collaterali nel trattamento di specifiche patologie dermatologiche. Per la prima volta si considera con rigore scientifico la differenza fisiologica tra generi e non soltanto tra sessi. La distinzione riposa nell'ampliamento dello spettro d'osservazione che passa dai soli parametri biologici uomo/donna alle categorie socio-culturali che definiscono l'identità di genere. Non siamo in presenza di un mero esercizio teoretico, per conferire concretezza alla serietà di approccio basta pensare al modo nel quale le differenze sociali incidono sulla salute. Nello stesso anno cade la ricorrenza dei centocinquant'anni dell'Unità d'Italia, in occasione della quale si organizzano molte iniziative, sparse per lo stivale ve ne sono diverse pensate per far conoscere le tante donne che agli eventi unitari parteciparono senza però che ve ne fosse traccia alcuna nei libri di storia, se non una fuggevole menzione per Anita Garibaldi citata in quanto compagna dell'eroe dei due mondi o la Principessa Cristina Trivulzio di Belgiojoso anch'ella solo superficialmente riportata in qualche testo più illuminato. Su tutte le altre è calata la scure dell'oblio: Jane Meriton White, altrimenti nota come Jessie White Mario giornalista e scrittrice che contribuì a divulgare gli ideali risorgimentali, Rosalia Montmasson Crispi e Tonina Masanello donne tra le fila dei Mille, Virginia Oldoini Verasis, Contessa di Castiglione e cugina di quel conte di Cavour che le chiese di usare la sua avvenenza per avvicinare Napoleone III, Margaret Fuller Ossoli giornalista impegnata per i diritti delle donne, Giuditta Bellerio Sidoli musa mazziniana che cucì le bandiere tricolori sfidando la pena di morte, Colomba Antonietta Porzi che seguì il marito in battaglia, Bianca Milesi Mojon una "giardiniera" così definita perché le donne impegnate nei moti risorgimentali a differenza degli uomini non si riunivano al chiuso nei locali adibiti alla vendita del carbone ma all'aperto nei giardini, Giannina Milli Cassone, poetessa, Giuditta Tavani Arquati una donna contro il Papa Re, Maria Sofia di Wittelsbach, regina soldato del regno delle Due Sicilie, Giulia di Barolo che si occupò della riforma delle carceri, Adelaide Cairoli che perse quattro dei suoi cinque figli in battaglia e non abbandonò mai gli ideali risorgimentali, (di lei Garibaldi scrisse: "L'amore di una madre per i figli non può nemmeno essere compreso dagli uomini. Con donne simili una nazione non può morire"), Antonietta De Pace l'eroina di Gallipoli che entrò a Napoli con Garibaldi e la napoletana Enrichetta Caracciolo costretta dalla famiglia a una monacazione forzata che scappò dal convento approfittando dell'arrivo di Garibaldi dando alle stampe un libro denuncia "I misteri del chiostro napoletano". Nella storia napoletana vi sono figure femminili consegnate all'oscurità del passato ancor prima del periodo risorgimentale, è accaduto con la Rivoluzione e la Repubblica del 1799, centoquarantaquattro giorni di fuoco, sangue e passione. La città ricorda Eleonora de Fonseca Pimentel e Luisa Sanfelice ma con loro ce ne furono altre, i cui nomi non sono giunti fino a noi che lottarono e persero la vita, come i loro compagni rivoluzionari. L'identità di genere è un processo sociale che va letto e andrebbe vissuto non come la teorizzazione di un apparato concettuale per abbattere il nemico, gli appartenenti al genere maschile, ma come l'opportunità per ricondurre ad armonia un rapporto dicotomico e asimmetrico. In passato il modello sociale occidentale imponeva alla donna di occuparsi del


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benessere familiare vivendo un'esistenza limitata al contesto privato, l'impegno al di fuori di questo, le incursioni nella società, riguardavano le attività filantropiche ammesse quali naturali estensioni dell'inclinazione femminile all'attività di cura. La sfera pubblica era interamente occupata e gestita dagli uomini che ricoprivano il ruolo sociale di "procacciatori di sostentamento" - breadwinner. Oggi recuperare spazio in quell'arena pubblica, troppo a lungo preclusa alle donne, costa molta fatica ma non è con la contrapposizione di genere che tale spazio va ricercato, bensì con l'equilibrio. Le quote riservate alle donne, con orribile accezione cromatica definite "quote rosa", sono un esempio di strumento volto a riequilibrare la presenza di donne e uomini nei luoghi decisionali. Per alcuni esse sono una aberrazione, per altri una spiacevole necessità, sia come sia esse rappresentano il segno dei tempi. Una società che vuol cambiare deve darsi degli strumenti per poterlo fare, non è detto che si imbrocchino subito quelli migliori così come non è utile affezionarsi troppo ai tentativi. Ciò che importa è che al cambiamento si lavori. Qualcuno (rete Wister - Women for Intelligent and Smart TERritories) ha suggerito una misurazione della presenza di genere negli eventi come convegni, workshop, fiere e manifestazioni attraverso l'apposizione di un bollino, rosso in caso di iniziative women free, giallo qualora la presenza femminile tra i relatori sia inferiore al 40% e verde quando questa si attesti al 40%. 5. Leadership e management Appare utile qui far chiarezza su alcuni aspetti fondanti che caratterizzano l'impegno nella sfera pubblica: la leadership e il management. In molti tendono a usare i due termini come interscambiabili facendo, così, confusione tra ruoli diversi. Cosa è chiedere che più donne vengano liberate dalla segregazione verticale raggiungendo posizione di management cosa è riconoscere un esercizio della leadership esercitata dalle donne. Nel primo caso ciò che sostanzia l'operato è la capacità di organizzare e strutturare il lavoro in modo produttivo attraverso l'osservanza di criteri gerarchici e procedurali nel secondo, a venir in rilievo, è la capacità di avere una visione conquistando ad essa altre persone. Un manager pianifica, un leader innesca un cambiamento. In diversi contesti istituzionali e privati, esempi di buone prassi di interventi formativi dedicati alla leadership di genere dimostrano che la spinta al cambiamento va sostenuta e supportata. La legge Mosca - Golfo (legge 120/2011) sulle quote di genere nei CDA ne è un esempio. Entrata in vigore nell'agosto del 2012 prevede che allo scadere dei dodici mesi tutte le società quotate in Borsa abbiano una presenza di donne nei CDA pari ad almeno il 20%. Entro la fine del 2013 tutti i CDA e le spa quotate avrebbero dovuto avere almeno un quinto di rappresentanti donna mentre per il 2015 la percentuale dovrebbe arrivare ad almeno un terzo. Dati recenti mostrano che prima dell'entrata in vigore della legge, nell'agosto 2011, la percentuale di donne nei CDA si attestava al 12,6%, tra l'agosto 2011 e l'agosto 2012 è salita al 15% per passare al 24,9% nel periodo successivo. Le donne presenti sono più giovani dei colleghi uomini, lo erano in passato e lo sono adesso. Ma il dato che rimane ancora scandalosamente basso è quello relativo alla

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posizione di Amministratore Delegato, appena il 6.3% prima dell'Agosto 2012 e addirittura il 2,3% dopo quella data. La considerazione fatta da più parti è che l'introduzione delle donne nei Cda abbia comportato un innalzamento del livello di preparazione non solo per le neo entrate ma anche per gli uomini4. Si rinviene, dunque, un fermento sulle questioni di genere che sembra voglia andare oltre un fenomeno meramente modaiolo per affermare un interesse verso una lettura dell'umana vicenda in ottica non esclusivamente maschile. Il contrasto agli stereotipi di genere è il primo passo da compiere per un'azione seria di riequilibrio e armonizzazione tra uomini e donne. Questi rappresentano lo strumento cui si ricorre per semplificare una realtà complessa attraverso la compressione di atteggiamenti, propensioni e tendenze in categorie stringenti e facili da ricordare. La nascita dello stereotipo serve a cristallizzare, in un dato momento storico, l'attribuzione di un valore sociale. "Le donne sono materne e naturalmente portate alla cura e l'accudimento, gli uomini sono competitivi e ambiziosi, le donne sanno essere comprensive, gli uomini sono leader, gli uomini non vogliono un capo donna, le donne sono emotive e gli uomini razionali, le donne sono portate per le materie umanistiche gli uomini per quelle scientifiche, le donne parlano molto e gli uomini rifuggono il pettegolezzo…", questa è la vox populi, come dire che "a Milano… la nebbia si taglia con il coltello" e che "non ci sono più le mezze stagioni di una volta". Ogni stereotipo è stato applicato al mercato del lavoro indebolendo le donne anche quando il valore sociale traslato era positivo. Se qualcuno dice: "le donne hanno un'ottima abilità relazionale e comunicativa" ci si aspetta il riconoscimento di una competenza per la mediazione invece l'affermazione successiva è: "si fanno coinvolgere troppo, sono emotive" o ancora ascoltare qualcuno dire: "le donne sono brave nella pianificazione economica e nell'amministrazione delle risorse finanziarie" dovrebbe preludere a un apprezzamento per le capacità manageriali invece spesso si sente: "le donne tendono a fare scelte conservative e non assumono il rischio legato a nuovi investimenti". Insomma dopo una premessa di valore positivo arriva uno scardinamento della medesima. L'analisi dell'uso degli stereotipi come meccanismi di consolidamento e difesa di un determinato modello socio-economico fa comprendere come il loro superamento richieda tempo ed energie da investire nel cambiamento culturale. Lo stereotipo è una leva del controllo sociale. Alle nuove generazioni è necessario mostrare una realtà nella quale il potenziale dell'individuo prescinda dal genere, a ognuno va garantita la possibilità di coltivare i propri talenti senza sottostare all'ineluttabilità del determinismo biologico, ogni persona è libera di seguire le proprie inclinazioni e le proprie passioni a prescindere dalla categorizzazione sociale in aspettative, comportamenti e atteggiamenti previsti per uomini e donne. 6. Quando e dove inizia la cultura di genere La cultura di genere per affermarsi deve essere assimilata nei modelli educativi. Per perseguire tale obiettivo è necessario passare al vaglio i testi scolastici sui quali le nuove generazioni si formano. Nel 1981 l'Onu invitava gli stati membri a intraprendere "ogni misura propria a


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eliminare ogni concetto stereotipato dei ruoli dell'uomo e della donna, in particolar modo rivedendo libri e programmi scolastici". Alcuni stati, come la Francia, hanno abolito in alcuni asili gender free l'assioma cromatico rosa-bambina, azzurro- bambino. Inoltre hanno adottato una regolamentazione per il rispetto della parità di genere nei libri illustrati per lettori fino a i sei anni (1994). In Italia la materia delle pari opportunità nei testi scolastici viene affrontata con il codice di autoregolamentazione "Polite" redatto alla fine degli anni Novanta. Da allora i lavori continuano. Con "l'istruzione riparte" viene varato un decreto legge, il n. 104/2013, coordinato con la legge 128/2013 che all'art. 16 comma d) prevede: "l'aumento delle competenze relative all'educazione all'affettività, al rispetto delle diversità e delle pari opportunità di genere e al superamento degli stereotipi di genere, in attuazione di quanto previsto dall'articolo 5 del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119". Non solo adeguamento dei testi scolastici ma anche dei docenti. Uno sguardo al mercato dei giocattoli basta a far rapidamente intuire quanto la strada sia ancora lunga e impervia. Barbie è l'incarnazione, o meglio la plastificazione, dello stereotipo di genere, siamo ancora in attesa di accogliere, tra Barbie ballerina e Barbie Saint Morritz, una Barbie Primo Ministro e una Amministratore Delegato di una multinazionale. Le ultime generazioni di bambole, tra cui le vampissime Winx, non vanno nel senso di un superamento dell'immagine femminile slegata dal genere minigonna, tacchi alti e futilità. Fulgidi esempi di modelli positivi vengono, con sommo gaudio, dal mondo dello sport dove si son superati i tempi nei quali Sara Simeoni e Novella Callegaris erano viste come due extraterrestri, oggi sui podi olimpici vediamo salire velociste, schermidrici, nuotatrici, pallavoliste, pallanuotiste, ginnaste, sciatrici, judoke, karateke, pugili, amazzoni e tiratrici con armi da fuoco. La speranza è che i tempi siano maturi per un'affermazione dei talenti femminili nella ordinarietà quotidiana e non solo nei casi di innegabile eccellenza, non tutte sono nate Aspasia di Mileto, Ipazia, Cleopatra, Artemisia Gentileschi, Marie Curie o Rita Levi Montalcini ma ognuna dovrebbe poter ambire a veder riconosciute con pari dignità di persona competenze, abilità e talenti. Francesca Vitelli

Note: 1 Fonte: Rapporto Svimez 2014 sull'Economia del Mezzogiorno 2 Fonte: CCIAA Napoli 3 Fonte: ISTAT “Trattamenti pensionistici e beneficiari: un'analisi di genere” 4 Fonte: P.Profeta. G.Ferrari “Board Women Database” European Conference “PROMOTING GENDER BALANCE IN DECISION MAKING” 9 July 2014, Rome

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OBAMA E IL CALIFFO Barack Obama ha parlato agli americani e al mondo di ciò che intende fare per contrastare l'avanzata del terrorismo islamico dell'Is. Era ora! Dopo mesi di silenzi e di errori il capo della Casa Bianca ha compreso che la situazione in Iraq non sarebbe stata più sostenibile. Oggi, dunque, il suo obiettivo diventa quello di fermare il nemico mediante l'intensificazione dei bombardamenti aerei delle basi operative del nuovo califfato. Obama intende attaccare dall'alto, sia in Iraq sia in Siria, per non impegnare le sue forze terrestri in una nuova lunga e costosa guerra di teatro. L'opinione pubblica americana non lo vuole e il bilancio federale non lo consente. Inoltre, dispiegare truppe di terra che potrebbero dover operare anche in Siria, senza un preventivo ok del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, significherebbe un'aggressione contro il governo di Damasco. Quindi, una plateale provocazione alla Russia di Putin che, com'è noto, è schierata dalla parte di Bashar Al Asad. Obama non intende agire da solo. Non desidera fare la parte dello sbirro cattivo, caricando sui soli Stati Uniti il costo di eventuali azioni ritorsive del terrorismo islamico. Come dargli torto. Per questa ragione ha preteso che altri dieci Stati arabi dichiarassero la disponibilità a far parte della costituenda coalizione anti Is. Tra questi compare anche il Qatar, il cui emiro Al Thani deve farsi perdonare non pochi comportamenti ambigui tenuti a beneficio dei movimenti dell'islamismo radicale di matrice sunnita. In particolare, la dinastia qatarina deve allontanare da sé l'atroce sospetto di essere stata la cassa occulta proprio dei tagliagole dell'Is. Insieme ai paesi del mondo arabo è scontato che anche il blocco occidentale faccia la sua parte. L'Inghilterra e la Francia saranno in prima fila, com'è ovvio che sia per due ex potenze coloniali che in quell'area hanno radicati interessi economici e strategici. Meno scontato, invece, è l'apporto che dovrebbe offrire la Germania. La solidarietà non è mai stata la principale aspirazione dei governanti tedeschi. Lo sappiamo bene noi europei del Sud. Inoltre, la cancelliera Angela Merkel è fin troppo concentrata sulla questione ucraina e sull'allargamento a Est dell'Unione europea a trazione germanica per desiderare di volgere lo sguardo altrove, in particolare a Sud- Est. Nella visione comunitaria di Berlino gli Stati meridionali della Ue sono considerati anche per il loro naturale ruolo di "cuscinetto" tra la stabilità dell'area settentrionale del continente e i fattori endemici di conflittualità presenti nella regione mediorientale e nel Nord Africa. Poi c'è l'Italia. Come spesso accade quando c'è da prendere una posizione precisa, la nostra classe politica rievoca la figura di Ponzio Pilato. Ci siamo, ma non ci siamo. La ministra della Difesa


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Pinotti, dopo l'invio del "pacco" di ferraglia spacciato come aiuti militari ai combattenti curdi, ha reso noto che l'Italia farà la sua parte mettendo a disposizione dell'alleanza un' aviocisterna per i rifornimenti di carburante ai bombardieri - degli altri - in volo e un gruppo di esperti per addestrare meglio le truppe curde e dell'esercito iracheno impegnate sul campo. Forse, se proprio gli americani dovessero insistere sarebbero assegnati alle missioni operative alcuni nostri cacciabombardieri AMX, probabilmente gli stessi che erano impiegati sul fronte afghano. Bello sforzo…bellico! Siamo alle solite. Si pretende di avere insieme botte piena e moglie ubriaca. Vogliamo garantire la nostra popolazione dai rischi di propagazione del terrorismo islamico, ma non vogliamo sentirci chiamare guerrafondai perché andiamo a sganciare anche noi bombe su quei "poveracci" di combattenti islamici. A sentire certa "intellighenzia" nostrana, della solita sinistra ideologica, anche i tagliagole avrebbero buon diritto di essere incavolati con l'Occidente. Sostengono i santoni del pacifismo arcobaleno che se oggi i fondamentalisti sono così indisposti verso l'Occidente, è perché in passato la nostra civiltà è stata molto cattiva con loro. Se queste sono motivazioni? Fate un po' voi. La verità è che almeno una volta nella vita dovremmo tutti noi prendere coraggio e dire a chiare lettere che siamo disposti a perdere poco o molto di ciò che ci appartiene e sacrificarlo per una giusta causa. Difendere la nostra civiltà è la giusta causa. Sapevamo che un giorno o l'altro saremmo stati chiamati al fronte. Non pensavamo, però, che la linea del fronte passasse per le nostre città, entrasse nelle nostre case. Fosse così spaventosamente vicina alla nostra routine quotidiana. Ora, che il momento è giunto, ci toccherà gridare un forte e chiaro "Non si passa!". L'Italia deve fare fino in fondo la sua parte. Hic et nunc. Qui e ora. Arktos

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L’IMMIGRAZIONE NELL’ANTICA ROMA: UNA QUESTIONE ATTUALE Giuseppe Valditara è professore ordinario di istituzioni di diritto romano nella Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Torino e Coordinatore del corso di laurea in Giurisprudenza dell'Università Europea di Roma, dove insegna anche Diritto Pubblico Romano. Nel 1992 ha vinto, con il libro "Studi sul magister populi", il Premio internazionale per la storia delle istituzioni politiche e giuridiche messo in palio dal Presidente della Corte Costituzionale. Senatore nella XIV, XV, e XVI Legislatura (An, Pdl, Fli). Roma antica è alle origini dell'Occidente, ma che cosa spiega il successo di una civiltà millenaria? Soprattutto che aveva consapevolezza di essere una civiltà. Sapeva unire grande apertura e grande rigore e soprattutto le sue classi dirigenti sapevano sviluppare una politica seria, che aveva di mira innanzitutto l'interesse della res publica. Roma era soprattutto un'idea. Fondamentale era l'orgoglio di condividere quell'idea, di far parte di quella comunità. Gli alleati italici arrivarono addirittura a fare una guerra per diventare romani. Commovente l'esempio di Tullio Romolo, un centurione libico che militava nel Nord Africa, che con fierezza un po' goffa portava un nome che ricordava i mitici re. È singolare la storia dell'ufficiale romano Marco Porzio Iasuchtan, dal nome chiaramente semita, che rivendicava con orgoglio la sua nuova appartenenza. Roma nasce dalla fusione di popoli diversi. L'unità nella diversità è il sintagma che riassume al meglio questa condizione. Roma integra tutti e non conosce discriminazioni di razza nè, almeno fino all'impero, di religione. Si narra che Tiberio avesse proposto di inserire nel Pantheon persino Gesù Cristo. Claudio, nel suo discorso davanti al senato per perorare la estensione della cittadinanza ai maggiorenti delle Gallie, afferma: nostro merito è di aver trasformato nello stesso giorno i nemici in cittadini. Gli orientali rendevano i nemici sudditi, i romani li assimilavano, rispettando di norma la loro autonomia. Il municipio, che garantiva ampie libertà ai suoi cittadini, fu non a caso il grande strumento di romanizzazione. Non era possibile tuttavia la doppia cittadinanza: o si sta da una parte o dall'altra. L'identità romana è molto chiara e molto forte. Le espulsioni a partire dal III secolo a.C. molto frequenti. Livio le giustifica dicendo: gli stranieri erano troppi, creavano problemi, rischiavano di condizionare la politica romana. I migranti se non sono utili alle necessità dell'impero o se rischiano di turbare equilibri sociali o economici vengono respinti o cacciati, anche con durezza.


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La cittadinanza si revoca a chi non la merita. Il merito e l'interesse superiore della repubblica sono i principi cardine della politica romana in tema di immigrazione e di cittadinanza. Dice bene Elio Aristide: i romani sono l'unico fra i popoli antichi ad avere una concezione aperta di cittadinanza, ma la cittadinanza è stata concessa solo a chi se la meritava per capacità individuali e morali, per prestigio o per ricchezza. Caracalla estende a tutti coloro che vivevano entro i confini dell'impero la cittadinanza, ma esclude i barbari, e i delinquenti. Aurelio Vittore, africano, ma orgogliosamente romano, conclude: la crisi di Roma è colpa di quegli imperatori che hanno lasciato entrare chiunque, persone per bene e delinquenti, civilizzati e barbari, favorendo la decadenza e consentendo ai barbari di governarci. Giuseppe Valditara

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OLIGARCHIA AL POTERE (Segue dal numero precedente - Terza ed ultima parte) L' Atto Unico Europeo comprende 300 direttive, approvate dal Consiglio dei Ministri dei Dodici, allo scopo di cancellare tutti gli ostacoli alla "libera circolazione di merci, uomini, capitali e tecnologie". I laudatori dell'Europa 1992 sostennero che quella liberalizzazione, basata sul modello degli Stati Uniti, avrebbe portato enormi vantaggi e benefici generali. Le linee generali dell'Atto furono ratificate in due anni, praticamente senza dibattito, e persino senza attenzione. I politici non furono in grado di capire quanto stavano preparando e proponendo gli "esperti" e fino a che punto il progetto spogliava le sovranità. I pochi che capirono, si illusero che l'Atto Unico sarebbe rimasto un pezzo di carta senza valore. Poi, il crack di Wall Street del 19 ottobre 1987 e il panico del mercato mondiale finanziario crearono un'atmosfera di urgenza e di paura, che il presidente della Commissione Cee Jacques Delors fu abile a sfruttare per mettere realmente in moto l'idea del Mercato Unico. Come al solito, la tattica fu quella dei piccoli passi, ciascuno dei quali non abbastanza allarmante per coalizzare le eventuali opposizioni, ma alla fine irreversibile. Finché, nel giugno dell'88, Delors annunciò trionfalmente che il processo verso l'Europa 1992 era "inarrestabile". L'Atto Unico, recependo quanto già introdotto con l'Accordo di Schengen, provvide all'abolizione di ogni restrizione alle istituzioni bancarie e finanziarie. Fu una deregulation totale che ha provocato, e sta provocando, una sorta di lotta darwiniana per la sopravvivenza del più forte. La liberalizzazione del flusso dei capitali ha significato e significa che le più grosse e aggressive concentrazioni capitalistiche divorano le più deboli e piccole. "Scalate" e "leverages buy-out" (una tattica, molto usata in Usa, per cui il raider rastrella le azioni di un'azienda indebitandosi, e poi paga i debiti vendendo settori dell'azienda comprata) sono divenuti la regola anche in Europa. Fu per questo che l'establishment italiano che ruotava attorno ad Agnelli si arroccò in apposite fortificazioni finanziarie, Gemina e Ifil, che dovrebbero sottrarlo agli assalti. L'abolizione di ogni ostacolo alla circolazione dei capitali, e di ogni legge di Stato, predisposta contro la fuga dei capitali, produsse e continua a produrre un rilevante drenaggio di risorse finanziarie dai Paesi a struttura debole, dove i capitali sono meno retribuiti, ai Paesi ricchi di attività "innovative" (specie nei settori finanziari, e in generale dei servizi), dove il capitale investito frutta di più, e più rapidamente. E' un fenomeno già accaduto e studiato. Anche l'Italia, prima del 1860, non era un "mercato unico". Al riparo delle frontiere e dei dazi, il Regno delle Due Sicilie aveva sue prospere


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manifatture, una sua struttura industriale, un certo benessere. L'unificazione d'Italia fece sì che immediatamente i capitali, attratti dagli alti tassi di interesse pagati dall'amministrazione di Vittorio Emanuele II per il decollo del Settentrione, fuggissero dal Sud al Nord. Fu una delle cause dell'impoverimento e della degradazione sociale del Sud. Per l'Italia, è prevedibile che due sole regioni potranno beneficiare della deregulation: Piemonte e Lombardia. È qui che si vedranno le conseguenze maligne della "regionalizzazione". Di fatto, ogni Stato nazionale ha le sue zone depresse e le sue zone avanzate: i capitali, infatti, sono fuggiti da queste ultime per concentrarsi in un centro transnazionale di zone ad alta redditività del capitale. Si può delineare la mappa di questo "centro": oltre a Lombardia e Piemonte, vi sono comprese l'area di Lione in Francia (concentrazione di industrie innovative, software ed elettronica), e la Baviera in Germania (anche qui software ed elettronica). Se si guarda una carta geografica, si noterà che queste zone sono confinanti tra loro, comprendono il Lussemburgo e circondano la "cassaforte" svizzera. Esse si collegheranno verso nord con l'Olanda, sede delle tre multinazionali di Bernardo, il principe-affarista (e fondatore del Bilderberg Club), Philips, Unilever, Royal Dutch Shell; e, oltre la Manica, con Londra, sede del mercato finanziario più "deregolato" del mondo. Le zone periferiche (Scozia e Danimarca, Portogallo, Meridione d'Italia) resteranno prive di capitali. Chi finanzierà imprese portoghesi o pescherecci scozzesi, potendo investire i suoi capitali in azioni britanniche o buoni del Tesoro tedeschi? Sul piano bancario, si assisterà all'emergere di "cinque o dieci mega banche", come ha detto Alfred Herrhausen, presidente della Deutsche Bank. E, come ha spiegato nell'aprile dell'88, il sistema bancario tedesco - il più forte e quindi favorito nella lotta - si trasformerà da sistema fortemente legato al finanziamento delle imprese industriali, in conglomerato gigante diretto, sullo stile americano, alla finanza speculativa: "Fino ad oggi, la Deutsche Bank è stata una banca tedesca con sussidiarie in altri Paesi: io intendo farne una vera banca globale e multinazionale, la cui sede centrale è solo per caso in Germania". Queste cinque o dieci "mega banche" decideranno l'allocazione del credito per l'Europa nel suo complesso: decideranno se concedere credito alle attività primarie e secondarie (agricoltura e industria), che possono retribuire il capitale solo in misura modesta, o se farlo fluire nelle attività post-industriali, come alberghi, casinò, turismo, servizi voluttuari, che rendono molto di più. C'è qualcuno che dubita dove si dirigeranno le preferenze degli speculatori? Tutta l'economia teorica del dopoguerra è una variante del monetarismo: in altre parole, privilegia il fattore finanziario e l'astrattezza contabile rispetto ai fattori fisici e materiali dell'economia: infrastrutture, produttività del lavoro, tecnologie, produzione di beni materiali. L'accanito perseguimento di "Prezzi di mercato" per l'agricoltura, i beni capitali e le materie prime ha sostituito la ricerca per le sane priorità degli sviluppi economici nazionali. Per capire come sia successo, ripercorriamo brevemente gli ultimi decenni di storia economica. 1957 o LA RECESSIONE USA L'ordine monetario uscito da Bretton Wood diede segni di cedimento nel 1957, anno in cui

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l'economia Usa esaurì il potenziale degli investimenti in beni capitali fatto durante la mobilitazione bellica del 1939-43. Fu anche l'anno in cui l'Urss "superò" l'Occidente lanciando per primo lo Sputnik; e fu l'anno della firma del Trattato di Roma fra i sei paesi europei che avevano dato vita alla Ceca nel '51. Questi tre eventi hanno plasmato la politica del trentennio seguente, fino all'"Ottobre Nero" esploso a Wall Street il 19 ottobre del 1987. Oggi sappiamo che gli Stati Uniti avevano due vie per uscire dalla china recessiva: o investire nelle industrie nazionali, nelle infrastrutture di trasporto e soprattutto nel miglioramento della qualità dell'istruzione della sua manodopera; oppure consentire agli interessi finanziari con base a New York di volare verso mercati più "redditizi". Queste due vie riflettono anche i due settori di potere economico che si scontrano negli Usa e, in qualche misura, persino nella Commissione Trilaterale: gli interessi riconducibili alle industrie "dure" (siderurgia, meccanica, armamento, spaziale) e quelli delle attività "soffici", finanza e consumo. La "riscossa spaziale" americana, la straordinaria Missione Apollo, fino al progetto reaganiano di "Scudo stellare" ebbero l'appoggio dell'industria "dura", e avrebbero potuto creare il volano tecnologico capace di mantenere all'America il primato industriale conseguito con la guerra, trascinando un gigantesco tentativo di "upgrading" del sistema produttivo. Il progetto è fallito perché tenuto costantemente a corto di finanziamenti, come insegna la triste storia dei drastici tagli al bilancio della Nasa all'indomani del suo miglior successo, la spedizione dei primi uomini sulla Luna. Non mancarono invece i fondi alla seconda via. Dal '57, le banche e le industrie Usa furono indotte a "pensare multinazionale", ad estendersi nei più "facili" mercati esteri. Il risultato finale è stato una reale deindustrializzazione americana, come dimostrano gli impianti siderurgici che arrugginiscono nel "Rust Belt" (la cintura della ruggine) del Midwest, la sotto proletarizzazione di fasce vastissime di popolazione un tempo operaia, le città industriali diventate slums cadenti, e soprattutto l'indebitamento estero degli Usa (oggi massimo debitore mondiale) e l'incapacità di resistere alla competizione tecnologica giapponese. Il fatto è che proprio col Trattato di Roma le multinazionali Usa trovarono predisposto in Europa un mercato più vasto ed "efficiente" di quello che avrebbero incontrato nei sei piccoli mercati nazionali preesistenti. Dal 1957 al 1965, l'investimento netto di capitali Usa in Europa raddoppiò, da meno di 25 a più di 47 miliardi di dollari. Ma gli investimenti non furono concentrati su tecnologie innovative; nell'Europa uscita dalla guerra, ancora per molti anni, il costo del lavoro (di una manodopera istruita, non come quella del Terzo Mondo) furono molto più bassi rispetto ai più prosperi Stati Uniti. Il fatto poi che a Bretton Wood il sistema monetario fosse fissato sul dollaro, agganciato all'oro al rapporto di 34 dollari per oncia, consentiva alle multinazionali di far fluire capitali all'Europa che ne era affamata, e di comprare con un dollaro relativamente sopravvalutato industrie locali. La Honeywell comprò allora la francese Bull; la General Motors, la tedesca Opel; la Dow, l'italiana Lepetit; la Reynolds Aluminium l'industria dell'alluminio britannico, e così via.


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E dal 1963 Washington, nell'interesse delle multinazionali cerealicole guidate dalla Cargill e dalla Continental Grain (che regolarmente piazzano loro ex dipendenti al Ministero Usa dell'Agricoltura), persuase la Commissione Europea di Bruxelles a firmare un accordo nel Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade) che obbligava l'Europa a non imporre tariffe su semi oleosi importati da "Paesi terzi". Ancor oggi le esportazioni americane di soia in Europa sono, la voce più profittevole dell'agricoltura americana, e la causa più distruttiva della crisi agricola europea. LA DESTABILIZZAZIONE Nel 1967 questo fiume di dollari, unito al deficit cronico della bilancia dei pagamenti Usa causato dalla guerra del Vietnam, mise in crisi il sistema di Bretton Wood. Invece di diminuire il flusso finanziario, come prescritto dalle regole di Bretton Wood, svalutando il dollaro rispetto all'oro, la Casa Bianca (e l'establishment finanziario di New York) cercarono di forzare gli alleati a pagare il conto. Questa politica di "persuasione" perse colpi nella metà degli anni '60, a causa delle tensioni provocate dal Vietnam sugli alleati europei. Allora gli strateghi finanziari di Washington approntarono uno schema di creazione di "oro-carta" per coprire il drenaggio delle riserve d'oro dalla Federal Reserve. Washington propose che il Fondo Monetario Internazionale costituisse un fondo con porzioni delle riserve dei paesi membri, ed emettesse nuovi crediti a fronte di tali riserve, i cosiddetti Diritti Speciali di Prelievo. Dato che le "quote di voto" nel Fmi erano dominate da Usa e Gran Bretagna, l'establishment finanziario della cerchia del Bilderberg ritenne di poter finanziare la propria sopravvivenza senza dover ridurre l'estensione del suo impero denominato in dollari. Poiché gli Stati Uniti insistevano a mantenere il prezzo dell'oro al livello artificialmente basso di 35 dollari l'oncia (il livello del 1934), non era economico estrarre le grandi quantità d'oro richieste dal sistema di Bretton Wood per espandere le riserve monetarie delle economie mondiali. Sicché o l'economia del mondo crollava per carenza di credito sotto le regole di Bretton Wood, o le economie industriali dovevano accordarsi per rivalutare le divise in modo da assicurare la ne-cessaria crescita delle riserve d'oro. Il consigliere finanziario di De Gaulle, Jacques Rueff, chiese allora una svalutazione del 100 per cento del dollaro, la divisa dominante di riserva, per prevenire il collasso e assicurare la crescita economica. Se gli Stati Uniti avessero accettato allora (negli anni '60), la rivalutazione a 70 dollari per oncia dell'oro monetario avrebbe accresciuto il credito delle banche centrali ad un costo modesto: oggi il prezzo dell'oro sul mercato libero è di 430 dollari. Rueff calcolò che gli Usa avrebbero potuto mantenere immutato il valore in dollari delle loro riserve auree, e nello stesso tempo riacquistare tutti i dollari accumulati nelle banche estere, prosciugando la pericolosa bolla degli eurodollari. Questo avrebbe creato una base sana per l'espansione industriale, facendo affluire nuovo oro alle banche centrali al prezzo più alto. Nel giugno 1967, vista l'opposizione americana, De Gaulle passò all'azione più decisa: con notevole grancassa propagandistica, ritirò la Francia dal novero delle dieci nazioni che avevano

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formato nel '61 il "pool dell'oro". Questo pool aveva cercato di coordinare le vendite di riserve auree delle dieci banche centrali in proporzione predeterminata, quando la speculazione tentava di spingere al rialzo il prezzo dell'oro. Ma non funzionò: nel '67 le vendite d'oro avevano raggiunto massimi allarmanti, e il deficit Usa cresceva. La Francia si ritirò di colpo per porre fine al drenaggio delle proprie riserve; il bluff anglo-americano rimase scoperto. Nel novembre '67 Londra svalutò la sterlina, e il filo che teneva Bretton Wood fu rotto definitivamente. Ma l'establishment dichiarò guerra a De Gaulle, colpevole di aver tentato di forzare gli Stati Uniti a cambiare politica monetaria. Il maggio '68, il "maggio francese", esplose non senza aiuti finanziari provenienti da Washington e da Londra; la Francia fu afflitta da una fuga massiccia di capitali; l'anno seguente, De Gaulle si dimise. IL GRANDE CONTRABBANDO De Gaulle uscito di scena, e giunto al vertice della Germania occidentale l'accomodante Willy Brandt, l'establishment "liberal" anglo-americano mise in atto il suo piano d'inflazione globale per sostenere il proprio crollante impero del debito. Il 15 agosto 1971 Richard Nixon annunciò al mondo che il dollaro non era più pagabile in oro. La divisa americana cominciò a fluttuare selvaggiamente sui mercati monetari, destabilizzando gli investimenti a lungo termine e il commercio mondiale. Il messaggio che i finanzieri Usa inviavano al mondo era chiaro: essi ripudiavano il loro debito, semplicemente si rifiutavano di pagarlo. Autori della mossa furono due dirigenti del Tesoro americano, destinati a diventare noti più tardi: Paul Volcker e George Schultz. Il segretario al Tesoro, John Connally, ebbe solo il compito di comunicare agli europei la decisione unilaterale presa dall'Amministrazione Nixon. Dal 1971, inoltre, i circoli finanziari del Bilderberg misero a punto un più potente strumento a loro favore: il mercato dei capitali di Londra, sommamente "privato" e deregolato, la camera di compensazione dove si trafficavano (e contrabbandavano) i dollari accumulati in mani straniere dal 1957. Fu Siegmund Warburg e un club esclusivo di banchieri con sede a Londra, fra cui, White, Weld and Co., Merril Lynch e la Deutsche Bank, a mettere in piedi il mercato parallelo dove si davano e prendevano in prestito i dollari circolanti "fuori" dagli Usa. Di fatto, questi traffici non erano sottoposti alle regole né della Federal Reserve, né della Bank of England; ancor oggi il mercato di Londra sta fuori di ogni regolamento nazionale. È la Tangeri della finanza. I meccanismi del mercato dell'Eurodollaro erano stati messi a punto su scala sperimentale negli anni '60, dopo una discussione privata tra Warburg e George Ball, fondatore del Bilderberg, allora sottosegretario di Stato. I prenditori dei nuovi "eurobonds" erano note imprese (come la Ericsson o la Fiat), o addirittura governi; i prestatori erano anonimi. Qui sta l'ingegnosità del sistema: l'anonimato permetteva l'investimento di capitali di provenienza dubbia e consentiva di lucrare gli interessi senza pagare le imposte nazionali. Nel mercato di Londra, "offshore" per il governo britannico, furono buttati di dollari dei


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"risparmiatori anonimi" (si parla antonomasticamente di "dentisti belgi"), e ovviamente quello di provenienza criminale, dello spaccio di droga. Le banche svizzere e lussemburghesi, con la loro segretezza, furono un elemento indispensabile dell'apparato di "lavaggio". A causa della forbice creatasi dal '71 tra il dollaro e l'oro, enormi capitali furono convertiti in eurobonds, provenienti da "paradisi fiscali" come Panama e le Isole Cayman. Il mercato del denaro sporco fu l'immediato beneficiario della decisione di Nixon; capitali legittimi di imprese tenuti fuori dagli Usa si mescolarono a liquidità provenienti dal commercio della droga e delle armi. La "fluttuazione" dei tassi di cambio ingigantì i profitti di questo denaro sporco. Dal '71 la speculazione attraversò i confini di singoli mercati monetari nazionali, cominciando a minare la stabilità delle economie nazionali. Di fatto, l'Eurodollaro, il potere finanziario privato, sostituì Bretton Wood, gli accordi politici statali, nel determinare le questioni monetarie e la fornitura internazionale di credito. Sui tardi anni '70, quando i petrolieri arabi cominciarono anch'essi a far affluire i loro petrodollari sul mercato speculativo di Londra, il volume degli eurodollari raggiunse la fantastica cifra di 1300 miliardi di dollari. L'alta finanza era all'origine anche di questo fenomeno. Tutto fu deciso nel 1973 durante la riunione del Bilderberg tenutasi a Saltsjobaden, in Svezia: lì fu deciso di generare una maggiore liquidità in dollari provocando un aumento del prezzo dell'energia mondiale. Dal '71, infatti, i centri finanziari si trovavano di fronte ad un grave dilemma: avrebbero potuto creare nuovo credito per il loro sistema finanziario obbligando la Federal Reserve a stampare miliardi di dollari, ma dopo il caso De Gaulle il metodo s'era dimostrato rischioso. L'alternativa più intelligente era che fossero gli sceicchi a "creare" dollari, inducendoli ad aumentare il prezzo del greggio. L'azione di Henry Kissinger, iniziato del Bilderberg e a quel tempo segretario di Stato e membro del Consiglio di Sicurezza Nazionale, fu essenziale nel "provocare" la risposta dell'Opec all'offensiva israeliana dello Yom Kippur (ottobre 1973). Mostrata la situazione come un'incontrollabile iniziativa degli "infidi" stati arabi, i signori del Bilderberg avrebbero potuto tranquillamente estrarre miliardi di petrodollari dalle nazioni importatrici di greggio. Poiché sette imprese anglo-americane controllano l'intero mercato mondiale del petrolio, il rischio per loro era minimo. Una nuova entità fu creata per "organizzare il consenso" e il controllo sovranazionale sulle tre regioni produttive del mondo, America, Europa e Giappone: la Commissione Trilaterale, fondata appunto nel 1973. I padri fondatori del nuovo gruppo furono David Rockefeller (Chase Manhattan Bank, Standard Oil), Robert Roosa (Brown Brothers), Harriman, George Ball, e Lord Roll di Ipsden, della banca Warburg. Lo stesso Jimmy Carter fu un presidente "fabbricato" dalla Trilaterale e circondato da "pensatori" della Trilaterale, Zbigniew Brzezinsky, Cyrus Vance e Walter Mondale. Non a caso l'amministrazione Carter si sforzò (con successo) di bloccare lo sviluppo dell'energia nucleare pacifica, che avrebbe potuto far fallire la strategia degli alti costi petroliferi voluta dal Bilderberg. Ma già dal '75 i Paesi dipendenti dal petrolio, ma con forti esportazioni in-dustriali - Giappone,

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Germania, Francia - cominciarono a negoziare con i fornitori Opec per pagare le forniture di greggio in marchi o nelle divise nazionali: con vantaggio reciproco, perché i compratori non dovevano più fornirsi di dollari né i venditori accettare dollari inflazionati. Nell'anno però re Feisal dell'Arabia Saudita fu misteriosamente assassinato: subito dopo i paesi Opec - fatto curioso - si accordarono fra loro per accettare solo dollari in pagamento del loro greggio. Così il secondo shock petrolifero del '79 invase di capitali in dollari New York, Londra e le collegate istituzioni "offshore". David Mulford, della White, Weld and Co. di New York, era divenuto nel '75 membro del consiglio dell'Agenzia Monetaria dell'Arabia Saudita: posizione ideale per controllare la destinazione dei petrodollari. Ha lasciato quel posto solo nell'84, per affiancare il segretario al Tesoro Don Regan nello staff della segreteria per gli affari monetari internazionali. La White, Weld and Co. guidava ormai il riciclaggio dei petrodollari dentro la precedente struttura dell'eurodollaro. LA GRANDE INFLAZIONE Ma l'enorme aumento dei costi energetici (+ 1300 per cento fra il '73 e 1'81) precipitò il mondo nella recessione. Crollarono la produzione navale e quella siderurgica, dato che gli investimenti infrastrutturali a lungo termine erano ormai irripagabili. E il dollaro, nerbo dell'impero finanziario Bilderberg, continuò a cadere, fino a toccare i minimi del dopoguerra. L'alta finanza aveva creato un mostro di Frankenstein. Dall'ottobre 1979 Paul Volcker, spedito in fretta dalla Federal Reserve Bank di New York alla presidenza della Riserva Federale Usa, impose la "medicina forte" necessaria per stabilizzare il dollaro e "combattere l'inflazione". Lo fece restringendo drasticamente la fornitura di moneta e forzando il rialzo dei tassi d'interesse americani. Volcker non fece mai menzione dei 1300 miliardi di euro e petrodollari il cui flusso speculativo poteva uccidere all'istante qualunque tattica antinflazionistica. Nemmeno menzionò mai il rincaro del greggio come causa della crisi; la dottrina ufficiale fu che l'inflazione aveva motivi "interni", e precisamente era da cercare nei rialzi salariali. Il caso britannico esemplifica l'effetto di questa strategia monetaria. Tra il 1971 e 1'81 (il vertice della politica restrittiva di Volcker) la disponibilità inglese di moneta aumentò del 292 per cento, e i prezzi del 264 per cento; mentre la produzione industriale britannica crebbe di un patetico 6 per cento. Lo stesso caso si verificò nelle principali economie industriali, segno che la liquidità speculativa spiazzò dovunque gli investimenti a lungo termine. Con interessi al 20 per cento da pagare, nessuna impresa poteva intraprendere investimenti che non garantissero un ritorno rapidissimo, e solo la speculazione finanziaria a breve poteva offrire queste condizioni. Fu l'ultimo chiodo sulla bara dell'economia industriale. Intanto gli alti interessi praticati in Usa provocarono un'infiltrazione nel paese della liquidità speculativa, determinando un arresto poi un rovesciamento della caduta del dollaro fino al marzo 1985. Se le economie occidentali subirono la depressione, le economie dell'America Latina e dell'Africa, costrette a rivolgersi al mercato "off-shore" delle banche private per finanziare le importazioni petrolifere e i loro investimenti infrastrutturali, scoprirono che il debito superava le


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loro possibilità di ripagarlo. La bomba-debito del Terzo Mondo era innescata. Non sorprende che, mentre la produzione materiale cadeva, i banchieri "post-industriali" si rendessero conto che la loro situazione diventava sempre più instabile, e il loro bisogno di nuova liquidità, di qualunque provenienza, sempre più pressante. Per loro fortuna, la crescente "importazione" di cocaina dal Sudamerica agli Stati Uniti e agli altri Paesi industriali portò altri miliardi di dollari nelle centrali di lavaggio di New York e Londra, sostituendosi al declinante fiume di petrodollari. Come il greggio, la coca è una "materia prima" che si traffica in dollari. Questa fonte di profitti finanziari è tuttora operante. Nel 1988, il giro d'affari della droga si è stimato in 600 miliardi di dollari l'anno. Fatto notevole, dalla primavera dell'88 il settimanale londinese Economist (Rotschild) e i circoli finanziari internazionali hanno cominciato a chiedere apertamente la legalizzazione degli stupefacenti. IL MERCATO GLOBALE Il crack di Wall Street dell'ottobre 1987 ha fatto capire agli iniziati della finanza che ormai le soluzioni-bricolage non bastano più a tenere in piedi l'impero della speculazione. Era venuto il tempo, previsto dalla Commissione Trilaterale, di mondializzare la "libera circolazione di merci e capitali". Di mettere in piedi un "mercato globale" privatizzato e deregolato, un offshore planetario. In Europa, lo strumento prescelto è stato quello di accelerare il progetto di Mercato Unico fra le dodici nazioni. In Nord America, si è giunti prestissimo alla zona di libero commercio Usa-Canada (gennaio 1989). Il terzo pilastro della strategia "trilaterale", la piena inclusione del Giappone nel potere finanziario transnazionale, sarà l'ultimo passo. Una zona Ecu per l'Europa, un'area del dollaro per il Nord America (e domani anche per il Sud), un'area dello yen nell'Asia orientale, avvicinerebbero il sogno di Keynes di una banca centrale globale capace di dettare le sue condizioni ai governi del mondo intero. Alla fine, anche le renitenti economie dell'Est socialista sarebbero costrette ad unirsi al sistema. L' ottobre nero (Wall Street 1987) ha molto contribuito a ridurre le resistenze degli stati europei alla cessione della loro sovranità finanziaria. La causa del Mercato Unico e della Banca Centrale Europea prossima ventura ha guadagnato il cancelliere tedesco Helmut Kohl, convinto che la Germania sarebbe vincente nell'Europa '92. Francois Mitterrand è della partita. L'italiano Ciriaco De Mita è un personaggio cooptato e promosso dall'Establishment finanziario. Il progetto, del resto, è pronto da anni. Ed ha preso una forma istituzionale nel giugno 1985, nel corso di una serie di riunioni tra il presidente della Commissione Cee Jacques Delors e gruppi d'interesse privati, fra cui "esperti" della Philips, la multinazionale olandese. Ne è uscito un documento di sole 35 pagine, dal titolo Completing the Internal Market. Abolizione di ogni barriera. L'introduzione del Libro Bianco di Delors è esplicita: "Unificare un mercato di 320 milioni di consumatori presuppone che gli stati membri accettino l'abolizione di qualunque tipo di barriera, l'armonizzazione delle regole, l'unificazione della legislazione e delle strutture impositive, il rafforzamento della cooperazione monetaria (...) al fine di assicurare che il mercato diventi così flessibile da consentire il flusso delle risorse, umane materiali e finanziarie, nelle aree di maggior vantaggio economico".

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Sotto il titolo "rimuovere gli ostacoli tecnici", il documento propone di consentire alle multinazionali maggiori, come Philips, Nestlé, Unilever, di conquistare il monopolio sul mercato unico. La cartellizzazione dell'industria e della finanza è esplicitamente caldeggiata: "La Comunità darà al mercato le dimensioni che consentiranno alle industrie di operare economie di scala, e di diventare perciò competitive". Il documento riconosce inoltre: "C'è il rischio che l'accresciuta possibilità per merci, uomini e capitali di spostarsi liberamente verso le zone di maggior profittabilità economica acuisca le differenze di sviluppo fra le varie regioni". Ciò significa che, nel processo di concentrazione-cartellizzazione dell'economia, le regioni povere saranno abbandonate. Le zone "ad alta crescita di tecnologia innovativa" (quelle che saranno salvate) sono state già identificate: l'Inghilterra meridionale (Londra) con la dirimpettaia Olanda (il tunnel sotto la Manica sarà completato per il 1992); l'Italia del Nord (Milano e Torino); la Germania meridionale da Stoccarda a Monaco; la Francia sudorientale (Lione) e in Spagna la regione di Barcellona. Il diritto di veto Una costosa proiezione computerizzata dei "benefici del mercato unico" elaborata dal consigliere Cee Paolo Cecchini, è stata prodotta per convincere i politici ignoranti. Si tratta dell'uso di semplici modelli lineari di calcolo, che misurano i valori strettamente in termini di costi o prezzi di mercato. Il trucco sta nel fatto di fornire ai computers i dati "giusti", per ottenere risultati "giusti", cioè quelli desiderati. Il rapporto ("Il Costo della Non-Europa", 6000 pagine) presuppone un prodotto interno lordo, per le 12 economie nazionali di 3.300 miliardi di Ecu. E calcola che l'"Europa '92 produrrà un complesso di "minori costi" per al massimo "l'1,8 per cento del valore dei beni commerciati nella Comunità, ossia circa 9 miliardi di Ecu". Ma l'entità del "risparmio", dunque, sarebbe lo 0.27 per cento (un terzo dell'1 per cento) del prodotto interno lordo europeo. Per questa patetica percentuale si metterebbero a rischio le sovranità nazionali, le strutture economiche e la stabilità politica. Anche il rapporto Cecchini asserisce che i massimi vantaggi andrebbero alle multinazionali. Ma dando per scontati i guadagni di profitto provenienti "da economie di scala prima non sfruttate", ne deduce che i profitti maggiori incamerati dalla Philips o dalla Unilever andrebbero a beneficio di tutti. Cecchini sostiene che la cartellizzazione dell'Europa porterebbe un "risparmio di costi globale di 60 miliardi di Ecu". Ciò, se fosse dimostrabile scientificamente (Cecchini ammette che non lo è) porterebbe ad un "risparmio" pari all'1,8 per cento del Pil europeo complessivo. Comparato con le perdite valutarie dovute alla fluttuazione del dollaro nell'ultimo anno, o con quelle dovute allo shock petrolifero del '79, quell'1,8 ha qualcosa di ridicolo. Per di più, una nota a piè di pagina ammette "un margine di errore del 30 per cento". A parte questa "certezza", il rapporto Cecchini ammette che "diventa più rischioso azzardare l'ordine di grandezza di altri tipi di guadagni dovuti alla migliorata competitività". Dopodiché, sostiene di poter provare che l'Europa '92 creerà 2 milioni di nuovi posti di lavoro e miliardi di Ecu di crescita economica.


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Questo libro dei sogni è servito a far passare nell'Atto Unico Europeo una potente e incompresa "bomba a tempo", inserita negli articoli 6 e 7, ed ora incorporata nel Trattato di Roma all'articolo 149. Questi articoli eliminano l'ultimo strumento di difesa delle sovranità nazionali contro i disegni dell'oligarchia transnazionale: ossia il diritto di veto che ogni singola nazione poteva opporre contro gli aspetti più pericolosi delle proposte eurocratiche. Ora le proposte possono passare a "maggioranza qualificata": nessun nuovo De Gaulle potrebbe più opporsi alle trame degli oligarchi. La banca europea Il 28 giugno 1988 Jacques Delors, già dirigente della Banque de France e presidente della Commissione Cee, è stato nominato alla guida di una commissione incaricata di studiare la creazione di una Banca Centrale Europea nel contesto della liberalizzazione dei mercati del '92. Il comitato Delors includeva dodici esperti della Banca per i Regolamenti internazionali, un economista della Trilaterale (Niels Thygesen) distaccato dal Comitato per l'Unione Monetaria fondato da Schmidt e da Giscard d'Estaing, il direttore esecutivo della Banca per i Regolamenti Internazionali (Bri) Alexandre Lanfalussy e il dirigente della Banca d'Italia Tommaso Padoa Schioppa; i due ultimi partecipano al gruppo Bilderberg. Questa cerchia di iniziati deciderà sull'ultimo diritto sovrano degli stati: il diritto di battere moneta e controllare il credito nazionale e i tassi d'interesse interni. Non a caso, la signora Thatcher si è ribellata energicamente a questo proposito, asserendo che il sogno di Delors di "un governo sovrannazionale" non si sarebbe realizzato lei vivente. L'attuale presidente della Banca per i Regolamenti Internazionali è William Duisenberg della Banca d'Olanda, un altro "iniziato" del Bilderberg. Costui, in un discorso pronunciato il 2 giugno '88 alla Camera di Commercio Americano-Olandese di Amsterdam, ha asserito che il compito fondamentale di tale Banca Centrale futura sarà "la stabilità dei prezzi". Per assicurarla, tale banca dovrà essere totalmente "autonoma" da ogni potere politico. Insomma, il futuro di 320 milioni di europei sarà nelle mani di banchieri: quegli stessi "saggi" che hanno provocato la deindustrializzazione di interi continenti, il rovinoso mercato finanziario "globale" da cui derivò l'Ottobre Nero di Wall Street, la bomba del debito impagabile del Terzo Mondo, e che continuano a dedicarsi al lavaggio dei profitti del traffico mondiale di droga e armi. Le proposte della Commissione Delors sono esplicite. Nel 1987, Padoa Schioppa emise un rapporto ("Efficienza, Stabilità. Equità") che indica le linee direttrici in base alle quali la Commissione Cee deve procedere a impiantare la dittatura sovrannazionale bancaria: Delors ne è rimasto così entusiasta da scriverne la prefazione, e da proporre Padoa Schioppa come segretario esecutivo del gruppo che darà vita alla Banca Centrale del '92. Ciò che il progetto prevede è quel che Delors, con un entusiasmo che ricorda Nietzsche, chiama "distruzione creativa", echeggiando una nota espressione di Shumpeter. Esso prevede che la deregulation provocata dall'Atto Unico scatenerà un'ondata di trasferimenti speculativi selvaggi e di anarchia economica in tutta Europa, fino al punto che i governi nazionali dovranno accettare di cedere i loro poteri sovrani alle élites che promettono di poter controllare il caos.

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Così Delors è convinto che la Banca Centrale sarà creata "sotto la pressione popolare". Delors ammette che la "liberalizzazione dei flussi di capitale diminuirà la capacità di controllare i contraccolpi interni ed esterni"; perciò, per "assicurare la stabilità, le economie nazionali dovranno essere più strettamente coordinate". Ma la sua idea di "coordinazione" non passa, ovviamente, per consultazioni tra i responsabili nazionali. Delors fa proprio il principio (suggerito da Padoa Schioppa) di "sussidiarietà". Secondo tale principio, la centrale di Bruxelles si arrogherà le funzioni che gli stati non riescono più a dominare. "Dovremo amministrare la nuova ricchezza (che il Mercato Unico creerà, secondo loro) da una base centrale. Ciò significa che la Commissione Cee deve avere più poteri regolatori. Deve controllare il bilancio globale". E precisa: "La Commissione deve coordinare le politiche macroeconomiche, e per questo bisogna abolire il protezionismo". Tommaso Padoa Schioppa è stato per molti anni uno dei più utili esecutori del piano, nello spingere ad un più diffuso uso dell'unità di conto europea. Nel 1979, durante la prima fase di creazione del Sistema Monetario Europeo (Sme) sotto gli auspici di Helmut, fu lui a premere perché le banche centrali coordinassero i loro sforzi per tenere in uno stretto spettro di fluttuazioni (il "serpente monetario") i valori relativi dei cambi di fronte a pressioni di divise estere, come il dollaro. La "fase due" del progetto Schmidt/Giscard d'Estaing contempla, appunto, la creazione di una moneta comune europea per tutte le transazioni pubbliche e private, e una banca unica sovranazionale per controllare la centralizzazione monetaria. “Pochi capiscono quanto avanti si siano già spinti gli Stati del Sistema Monetario Europeo", scriveva il 23 giugno 1988 Samuel Brittan, fratello di Leon Brittan, il delegato del governo inglese a Bruxelles sul Financial Times: "Il punto-chiave è l'abolizione dei controlli sui cambi e la libera circolazione dei capitali come parte di un mercato unificato; da quel momento sarà impossibile ai Paesi dello Sme perseguire politiche monetarie indipendenti o anche imporre alle proprie banche obblighi di riserva differenti". Pax euro-sovietica Il 24 giugno 1988 un accordo di mutuo riconoscimento è stato firmato tra il Comecon (la Comunità dell'Est) e la Cee ad Hannover, segnale simbolico della volontà di stringere maggiori legami commerciali fra Est e Ovest. In una serie di negoziati a Bruxelles nel corso di dicembre, è apparso chiaro che "i negoziatori della parte sovietica erano quelli che più premevano per normalizzare le relazioni". Sorprendente rovesciamento di un'attitudine pluridecennale, secondo la quale la Cee non era che uno strumento dell'"imperialismo della Nato". Ma la risposta si trova sul numero del 3 agosto 1988 della Literaturnaya Gazeta, a firma di O. Prutkov: "L’Europa occidentale, con i suoi 320 milioni di abitanti, ha un enorme potenziale economico, superiore a quello americano, dell'Urss o del Giappone. Noi non abbiamo valutato correttamente le prospettive del suo sviluppo e le possibilità di un'integrazione economica". Un'integrazione che Prutkov non vuole limitata alla Cee, bensì (parole sue) ad una "Casa Comune Europea, denuclearizzata, dall'Atlantico agli Urali". Per lui la firma del patto Cee-Comecon è "il primo passo verso la cooperazione vicendevole".


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Il 18 agosto, ossia pochi giorni dopo, il Commissario Cee per le relazioni esterne Willy de Clerq (membro della Trilaterale) annuncia "un passo di incontestabile importanza nel miglioramento dei rapporti commerciali in Europa": ossia l'approvazione della richiesta formale, avanzata da Urss, Cecoslovacchia, Germania Orientale, Ungheria e Bulgaria, di stabilire relazioni diplomatiche con la Cee. Il 1° luglio, la Banca Sovietica per l'Economia Estera esprime l'intenzione di usare l'Ecu, anziché il dollaro o il marco, per contratti e crediti esteri. Una spiegazione, sorprendentemente esplicita, di quali intenzioni "globali" stiano dietro a questo frettoloso avvicinamento è stata offerta da James Goldsmith, il noto editore anglofrancese. Sul Wall Street Journal del 15 aprile 1988, Goldsmith delinea il nuovo pensiero di Mosca: "I sovietici capiscono che il loro sistema politico rende impossibile alle loro industrie competere con quelle delle società libere (...) perciò i sovietici sono condannati a basarsi sulle loro forze, anziché sulle loro debolezze. E la loro forza è militare. Se essi riescono a dar forma ad una Nuova Europa, separata dagli Usa, essi hanno l'opportunità di usare la loro forza militare per guadagnare forza economica prima che la loro società si decomponga". In che senso? Goldsmith aggiunge: (I sovietici) "contribuiranno alla Nuova Europa con la loro potenza militare. L'Europa occidentale contribuirà con la sua infrastruttura industriale e finanziaria. Stavolta i sovietici cercheranno di evitare gli errori commessi quando inglobarono nel loro impero l'Europa Orientale: capiranno che il totale soggiogamento (sotto il sistema socialista) è incompatibile con la produttività economica; perciò tenteranno di creare stabilità facendo (dell'Europa occidentale) un protettorato anziché una colonia. Si formerà un mercato di 780 milioni di uomini dall'Atlantico agli Urali... Il blocco sovietico sarà visto come il mercato privilegiato per le merci euro-occidentali". Perché sia destinato a fallire il progetto super capitalista di integrare l'Est sovietico nel sistema finanziario mondiale, ossia in "un lavoro preordinato solo da misure senza vita", dove l'economia serve solo se stessa; perché sia impossibile ridurre l'oriente a venerare "le incognite della partita doppia", gli accartocciati listini dei prezzi, gli interminabili annuali statistici che "sono la metafisica del capitalismo" senile; tutto ciò è spiegato da Geminello Alvi in "Le seduzioni economiche di Faust" (Adelphi, 1989). "Il privilegio delle Russie è nella loro insita inefficienza al calcolo mercantile", ossia all'impossibilità orientale di aderire a "un modo di pensiero del tutto dissacrato, rivolto solo al calcolo". La "collaborazione" e "integrazione" che qui si adombra è quella che si stabilisce il rapinatore e il rapinato: una "società" in cui il primo mette il mitra, e il secondo il portafogli. L'Europa occidentale, la più densa concentrazione mondiale di mano-dopera industriale addestrata e di ricchezza produttiva, sarà la parte disarmata della società; e dovrà nutrire l'insaziabile appetito dell'impero russo. Nel giugno 1988, durante la Conferenza del Partito Sovietico, Yuli Kvitsinsky, ambasciatore Urss nella Repubblica Federale, ha affermato che l'Occidente, raggiunta la "parità militare" con l'Est (sic), deve ora concedere la "parità economica". "Dobbiamo premere per un controllo internazionale sull'uso del potere economico nelle relazioni tra i Paesi, e sulla cessione della ricchezza in eccesso, troppo grande per i bisogni di alcuni stati, a beneficio della comunità internazionale". Kvitsinsky ha precisato che non si riferiva al Terzo Mondo parlando di "comunità internazionale", bensì al Comecon.

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PAOLA ANGELINI: REGIO Personale di Paola Angelini alla Galleria Massimodeluca (via Torino, 105q - Venezia - Mestre) dal 26 settembre al 7 novembre 2014. La mostra è il risultato di un intenso lavoro quotidiano dell'artista tra aprile e giugno 2014 durante il soggiorno presso il Centro artisti nordici Dale (NKD) in Sunnfjord, sui fiordi norvegesi. Durante questo periodo Angelini ha sviluppato la sua arte pittorica circondata dalla solitudine della foresta del nord ed i risultati sono oggi la caratteristica principale della mostra Regio (parola latina usata per indicare in modo generale una vasta area sulla superficie di un pianeta). Saranno presentati lavori su tela di grande e piccolo formato, in cui tutti i soggetti rimandano ad un vecchio ricordo, ad un tempo, che in pittura pone il presente e il passato sullo stesso piano. “La mostra offre una interpretazione del paesaggio da due punti di vista: dalla realtà della natura, e dalla rappresentazione umana, quasi di natura archeologica, che evoca da tempi antichi, popolati da santi e da eroi, e che affida la sua rappresentabilità ad elementi del paesaggio che intersecano l'architettura classica con le vedute di città contemporanee e paesaggio”, secondo la definizione di Marco Goldin in Storia del Paesaggio (storia del paesaggio). L'artista ha goduto di un dialogo costante con Arild H. Eriksen, direttore della residenza e curatore della mostra, che le ha permesso di fare confronti e di percepire i lati positivi e negativi del rapporto con il suo paese d'origine. Il periodo di residenza si è concluso con la pittura Landskapet, che rappresenta un punto centrale nell'arte di Angelini ed è stata realizzata interamente nel bosco dove l'artista ha trascorso una settimana per attingere dalla natura. L’artista, per la mostra, ha anche realizzato una grande scultura in cartapesta ispirata da un periodo trascorso lavorando a Nola a stretto contatto con gli artigiani che realizzano i famosi Gigli per l’omonima festa. Il catalogo, oltre alle opere, contiene un testo di Arild H. Eriksen, nonché i contributi di Antonio Grulli, Andrea Bruciati, Alice Ginaldi e Eva Comuzzi, con i quali l'artista ha corrisposto costantemente durante la preparazione del progetto. Giny


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Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

www.confini.org


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