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Aeromensile di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

Nuova serie - Numero 26/27 Luglio/Agosto 2014 - Anno XVI

EPPUR SI MUOVE

PRIMO PIANO: SPECIALE DEDICATO ALLA MANIFESTAZIONE “PARTECIPA” Editoriale: Lettera aperta a Silvio B. di Angelo Romano Europa una, dall’Atlantico ali Urali di Cristofaro Sola La cosiddetta rivoluzione federalista di Giuseppe Murolo L’Italia contraria a sanzioni alla Russia di Enrico Oliari


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Confini Aeromensile di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Numero 26/27 - Luglio/Agosto 2014 - Anno XVI

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettore: Massimo Sergenti +

Hanno collaborato a questo numero: Arktos Gianni Falcone Giuseppe Farese Roberta Forte Giny Maryam Hanifi Pierre Kadosh Giuseppe Murolo Enrico Oliari Gustavo Peri Angelo Romano Massimo Sergenti Cristofaro Sola

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Segreteria di redazione: confiniorg@gmail.com

+ Registrato presso il Tribunale di Napoli n. 4997 del 29/10/1998

confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

LETTERA APERTA A SILVIO B. Caro Silvio, caro non per particolare affetto o affinità, soltanto quale riconoscimento alla tua simpatia e generosità e per umana solidarietà per i troppo duri colpi che ti infliggono. Da italiano voglio ringraziarti per alcune buone cose che hai fatto - o tentato di fare - per l'Italia. Certamente hai cercato di tutelare gli interessi italiani: nell'intesa con la Libia, nei buoni rapporti con gli Usa e con la Russia di Putin, nel cercare di trasformare le ambasciate in centri di promozione del made in Italy, nel rilanciare l'iniziativa all'estero dell'impresa italiana. Ti ringrazio anche per aver saldato insieme, almeno per un periodo, le varie anime del Centrodestra e per alcune speranze che sei riuscito ad alimentare, ma non a realizzare. Non posso ringraziarti per il tuo modo di concepire il potere, troppo monarchico per i miei gusti, per lo scarso rispetto delle istituzioni che hai riempito di amici ed amiche senza particolari meriti, per alcune tue frequentazioni poco consone per un uomo di stato, per aver più volte tentato di fare leggi che ti facessero da scudo. Non che tu non sia stato pervicacemente attaccato, persino perseguitato in maniera asfissiante. Non che non si sia tentato di interpretare la legge in modo tale da procurarti il maggior danno possibile. Ma modellare la legge sul caso singolo, sia pure nel disperato tentativo di difendersi, non va mai bene. Gli statisti sono tali solo se sono capaci di dare l'esempio, sempre e comunque, anche quando il rischio è la cicuta. Non posso ringraziati per aver sprecato l’occasione di fare dell’Italia un paese moderno e liberale, né per l’onnipotenza del “ghe pensi mi”, nè posso ringraziarti per non aver promosso una Costituente per riformare davvero, piuttosto che cercare l’inciucio in Bicamerale o lamentarti degli scarsi poteri di un Presidente del Consiglio. Non posso ringraziarti per non aver riformato la giustizia nel solo modo che ti era consentito: con la univoca chiarezza della legge che pochi margini concede alla sua interpretazione ed alle distorsioni interpretative, delle quali oggi, nella vicenda Ruby - come in altre in passato - forse sei vittima. Infine non posso proprio ringraziarti per aver rabbiosamente usato, nel tentativo di abbattere Fini - un uomo che in trent’anni di parlamento non è mai stato sfiorato neanche da un sospetto e che a capo di un partito patrimonialmente solido avrebbe potuto approfittarne e non lo ha fatto proprio quella “macchina del fango” che tante volte hai sperimentato sulla tua pelle.


EDITORIALE

Nel cercare di abbattere il solo che ti faceva ombra hai soltanto abbattuto le speranze della Destra. Molte cose non sono andate bene ed, a maggior ragione, non andrebbe bene se il tuo intenderti con Renzi fosse determinato non dal bene degli italiani ma dalla salvaguardia dei tuoi interessi: imprese, famiglia, libertà personale, ruolo politico. Non andrebbe bene perché rappresenterebbe il tradimento di tutti coloro che ti hanno dato voto, fiducia e solidarietà. Non vorrei credere che ciò sia nel novero del possibile, tuttavia non riesco a scorgere il bene degli italiani e, segnatamente, degli elettori di centrodestra né nell'Italicum, né nei progetti di riforma, soprattutto valutandone gli effetti a regime, in particolare la cristallizzazione di un regionalismo inefficiente, deleterio e fonte di spese senza fondo e lo squilibrio tra i poteri. Posso capire che tu e Renzi, sia pur da punti di vista culturali relativamente lontani, avete una naturale predilezione all'accentramento del potere, siete accomunati dal fastidio verso chi vi si oppone e da una grande simpatia verso "l'altra metà del cielo". Posso anche capire che il Paese ha bisogno di una certa dose di decisionismo e collaborazione per uscire dalle secche verso il mare aperto, tuttavia, non riesco a capire perché tu voglia andare nella palude per affondarvi tutto il centrodestra. Dopo di te, non deve esserci il diluvio. AR

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SCENARI

EPPUR SI MUOVE In Italia qualcosa si muove. Matteo Renzi prova a dare una scrollata al sistema e questo è positivo. Condivisibile l'operazione trasparenza sui conti pubblici grazie al liberalizzato accesso a Siope, la piattaforma sulla quale, ogni giorno, vengono annotate le entrate ed uscite di tutti gli enti pubblici, condivisibile la riforma del servizio civile e la possibilità di impiegare, in tre anni, 100.000 giovani volontari che guadagneranno 433 euro al mese in cambio del loro impegno per la tutela del patrimonio culturale e geologico (questa misura va esattamente nella direzione auspicata dalle colonne di questa testata a proposito del "lavoro di cittadinanza" attraverso il volontariato sociale, anche se per noi dovrebbe trattarsi di un diritto di cittadinanza esercitabile da ogni cittadino senza lavoro e non solo dai giovani tra i 18 ed i 28 anni), condivisibile l'annuncio, per ora, di una riforma della giustizia che introduce la responsabilità civile dei magistrati e la durata di un anno per i processi in primo grado, condivisibile anche l'idea di un'Europa dei cittadini uniti da una comunità di destini e non delle banche, dei tecnocrati e delle lobby, uniti da una comunità di interessi. Per nulla condivisibile la riforma del Senato perché "cristallizza" un regionalismo fallimentare e spendaccione aumentandone, addirittura, rango e ruolo, perché ne rende molto più complessa la necessaria riforma (e non basta la revisione del Titolo V), perché stravolge l'assoluto ossequio al principio di legalità che è alla base del bicameralismo perfetto, perché sottrae ai cittadini un'ulteriore quota di quella sovranità che dovrebbe appartenere loro, perché, infine, esistono già i luoghi istituzionali di confronto Stato - autonomie e le regioni italiane non sono i Lander tedeschi. Molto meglio il monocameralismo, senza doversi arrampicare sugli specchi, equilibrato dal presidenzialismo e senza dimenticare che il Senato è istituzione autenticamente italiana, anzi romana. Per nulla condivisibile è l'ipotesi di quintuplicare il numero di firme necessario per una proposta di legge di iniziativa popolare e quella di quasi raddoppiare le firme necessarie per un referendum. Anche qui una limitazione all'esercizio diretto della sovranità in un tempo storico che, al contrario, dovrebbe prevedere l'allargamento della partecipazione e la sperimentazione di nuove forme di democrazia diretta. Peraltro, un Parlamento dichiarato largamente illegittimo dalla Consulta non dovrebbe nemmeno azzardarsi a sfiorare la Costituzione. Non è condivisibile l'Italicum, la bozza di nuova legge elettorale figlia del "patto del Nazareno". E' giusto garantire - come affermano i difensori dell'Italicum - la governabilità attraverso


SCENARI

maggioranze chiare e solide ma perché questo lo si possa ottenere solo con parlamentari nominati e a danno del pluralismo resta un mistero o meglio un'equazione di potere. La fedeltà dei parlamentari al mandato ricevuto dagli elettori ed ai programmi elettorali sottoscritti la si potrebbe ottenere, piuttosto che con la nomina, introducendo il vincolo di mandato per gli eletti. Ciò garantirebbe la fine del trasformismo senza ledere la libertà di coscienza degli eletti, i quali, in caso di prorompenti turbe morali, potrebbero sempre dimettersi lasciando il posto al primo dei non eletti. Andrebbe anche garantito un diritto di tribuna per le forze minori, qualche seggio distribuito ai migliori perdenti non altererebbe gli equilibri garantiti dal premio di maggioranza e garantirebbe un miglior pluralismo e più democrazia perché, a volte, come diceva Eraclito: "L'opinione dei molti non ha valore, ma uno solo, se ottimo, vale per diecimila". E ancora: ad evitare l'inutile polemica tra "preferenzialisti" e non, perché non ricorrere ad un sistema maggioritario plurinominale dove la coalizione vincente si aggiudica il seggio ma viene eletto il candidato del partito che ottiene più voti? Questo costringerebbe le forze politiche a schierare i migliori e non costringerebbe gli elettori a votare "turandosi il naso". Infine per tutelare la legittima istanza dei partiti di tutelare le loro classi dirigenti, piuttosto che ricorrere alle candidature multiple, non sarebbe più sano e trasparente esporle in listini nazionali di una trentina di nomi al massimo? In tal modo gli elettori di ciascun partito potrebbero anche premiare o punire la linea politica dei loro dirigenti. Queste sì che sarebbero primarie sui risultati ottenuti e non sulle promesse. Qualcosa si muove anche su altri fronti. Mediaset, per bocca di Piersilvio, ha cominciato a tifare Renzi, Ferrara dal Foglio ha invitato ad un'apertura di credito ed a valutare i fatti, il Cavaliere ci tiene a precisare che lui rispetta i patti e Renzi, di sponda, dichiara che i patti sono più che trasparenti. Che vi sia dietro un biblico esodo alla faccia degli ex moderati, oggi "incazzati"? Corrado Passera ha fatto il suo esordio con un piano da 400 miliardi, una parte dei quali da impegnare per un bonus badanti, e la suggestiva idea di un Ministero per la bellezza. Sul fronte delle tasse è arrivato il raddoppio di quella su pc, televisori e telefonini e all'orizzonte si profila un nuovo bagno di sangue per i proprietari di immobili dovuto alla rivalutazione in corso degli estimi catastali, escluse ovviamente scuole e cliniche cattoliche, mentre molti imprenditori hanno fatto istanza per scoperchiare i loro capannoni pur di abbattere l'Imu. E grazie a Renzi torna l'odioso anatocismo bancario. Visto il flop della vendita di Poste Italiane, il governo pensa di vendere ulteriori pezzi di Eni ed Enel, anche se facendo così si allontana sempre più la prospettiva di costituire un appetibile "Fondo Italia", con dentro beni mobili ed immobili pubblici, le cui quote potrebbero essere offerte in concambio ai detentori di titoli di Stato per aggredire di petto la riduzione del debito pubblico. Si è mosso anche Fini, di nuovo in campo da allenatore di una nuova e credibile Destra. Il primo passo, la manifestazione "Partecipa" svoltasi lo scorso 28 giugno a Roma, ha avuto un buon successo ed ha dato l'innesco per lo svolgimento, entro la fine di ottobre - di analoghe

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manifestazioni regionali. Speranza, interesse ed entusiasmo sono palpabili, ma guai a fare passi falsi. Vorrebbe muoversi Vendola per trasferirsi in Canada amareggiato dalla scissione in seno a Sel, ma il troppo freddo lo tratterrà in Italia. Si è mosso il sottosegretario Ferri, o meglio, ha mandato, da capocorrente dei magistrati insediato al governo, un po' di sms elettorali facendo infuriare Renzi. Si sono mossi i magistrati dando un colpo di grazia al modello emiliano della "ditta", tanto caro a Bersani, determinando le dimissioni di Vasco Errani e, nel contempo, la conversione al garantismo di tutto il Pd, via Twitter. Si muovono anche i frondisti delle riforme (la dinastia Min), per ora forse una sessantina ma a rischio di neutralizzazione dall'intesa Pd - Grillo. Improvvidamente si è mosso Alfano proponendo di abbassare le tasse alle famiglie in difficoltà senza tener conto che i senza reddito se ne impipano degli sconti fiscali. Si è messo in viaggio verso casa, con un foglio di via firmato Merkel, il capo dei servizi segreti Usa in Germania. Si è involata Alitalia seguita dall’Indesit . Si sono fermate le processioni in Calabria per divieto di sosta sotto le case dei boss e galoppano i cavalieri del’Apocalisse poco lontano dai nostri confini. Non si sono mossi i decreti attuativi fermi da 2 o 3 governi, tanto che in lista d'attesa ce ne sono ben 812, non si è mossa la capacità di impiego virtuoso dei fondi europei: 7 e più miliardi buttati alle ortiche nel finanziare 500.000 corsi di formazione che non hanno prodotto occupazione, né si e smossa la disoccupazione: mancano all'appello sei milioni di posti di lavoro e senza quelli audacia temeraria igiene spirituale l'Italia non riparte e l'Europa, per ora, non vuol concedere nulla. Non si sono mossi i consumi con il bluff dell'elargizione elettorale degli ottanta euro, ma si muove lo spettro di una nuova manovra e i depressi in Italia hanno già superato i due milioni e mezzo. Angelo Romano


POLITICA/SPECIALE “PARTECIPA”

IL RITORNO IN CAMPO DI FINI Lo scorso 28 giugno, in un'assolata giornata romana, Gianfranco Fini ha ritrovato il suo popolo. Non tutto, soltanto una parte. Una piccola parte, ma certamente motivata. Per lui è stata una bella giornata e lo è stata anche per la politica italiana nel suo complesso. Perché il migliaio di persone che ha risposto all'appello del leader mai dimenticato ha dato prova che, talvolta, i luoghi comuni con cui si è soliti descrivere gli italiani sono semplicemente falsi. Non c'era alcun carro di vincitore sul quale provare a saltare, non c'era, e non c'è, alcuna prospettiva di benefici personali, niente collegi elettorali e prebende da spartirsi, nessun consiglio di amministrazione di municipalizzata da rivendicare. Soltanto un uomo che ha attraversato, negli ultimi decenni, la storia della destra italiana, oggi fuori dal "palazzo". Egli si è offerto senza schermi protettivi, in corpore vivo, per una riflessione sul Paese, sul suo stato di salute e sulle possibilità di riprendere il cammino per una società civile stanca, affaticata e per una classe dirigente incapace di rispondere ai bisogni di vita che affliggono la quotidianità della maggioranza dei cittadini. Questo è stato l'incontro al palazzo dei Congressi dell'Eur. E non solo. Almeno due elementi hanno sorpreso, in positivo, gli osservatori. Il primo ha riguardato la persona del leader. Chi si aspettava un discorso carico di acrimonia verso gli amici e gli alleati di un tempo, è rimasto deluso. L'approccio di Fini è stato caratterizzato dalla doppia cifra dell'autocritica sincera per gli errori commessi, senza sconti e senza cedimenti verso la prassi, tutta italica, dello scaricabarile e, nel contempo, dell'analisi lucida sulla condizione in cui versa il centrodestra italiano in un momento storico nel quale tutti gli indicatori politici tendono a rimarcarne la sostanziale inutilità per la costruzione dell'Italia di domani. Contrariamente all'immagine algida e distaccata che i media avevano ricamato addosso al leader che per lungo tempo, quasi l'intero arco di vita della "seconda Repubblica" era stato considerato, a ragione, il "delfino", il successore in pectore alla guida della coalizione del Popolo della Libertà, una volta uscito di scena il suo fondatore e leader carismatico, Silvio Berlusconi, il Fini di questi giorni si è mostrato autenticamente interessato all'ascolto dei militanti. Ha interagito con loro cogliendone non soltanto gli umori ma gli spunti di riflessione, le proposte, le indicazioni di percorso. Il secondo elemento di novità, invece, ha riguardato proprio il popolo chiamato a Roma. Durante la manifestazione hanno preso la parola oltre 70 persone. Ci si aspettava forse che la cosa sarebbe finita in una gigantesca seduta di psicanalisi collettiva. Insomma, uno sfogatoio per

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liberarsi in un colpo solo di un bel po' di rospi che, individualmente, i militanti della destra hanno dovuto ingoiare negli ultimi anni. Non è stato così. La platea ha stupito. Gli interventi sono stati tutti rivolti al futuro. Ciascuno ha inteso portare il proprio mattone, grande o piccolo che fosse, per la riedificazione di un nuovo edificio comune. Si sono udite cose sensate. Niente passerelle per i vecchi tromboni. Tanti i giovani che si sono espressi. Elevato il livello di competenze mostrato dagli intervenuti. Non si è avvertito sentore di reducismo, al contrario tra interventori e ascoltatori è prevalsa la forza aggregante della motivazione politica, alle cui spalle ha fatto capolino, di tanto in tanto, la voglia di risvegliare una condivisione ideologica. Il sabato romano di Gianfranco Fini è stata una pagina di buona politica. Come di quelle che non si vedevano da tempo. Per troppo tempo l'universo della militanza è stato intorpidito con manifestazioni-show, tutte lustrini ed effetti speciali, ma totalmente prive di contenuti. Sembrava di essere tornati indietro nel tempo quando, nella capitale, si celebravano i congressi dei partiti. E si faceva sul serio. Ci si confrontava sulle idee e sui programmi. Magari si litigava e ci si rompeva, ma si faceva politica. Il vizio mortale della "seconda Repubblica" a cui neanche il centrodestra si è sottratto, è stato di mandare in soffitta la politica dei partiti rappresentata come marcescenza, cancro della società produttiva, clientela, parassitismo in danno alla cittadinanza. La politica come teatrino. E' stato un errore grave che ci ha condotto al punto in cui siamo, non solo come parte della società ma come Paese. Anche pensare al futuro può essere di per sé un puro esercizio di stile se non è sostanziato rappresentazione di idee e di programmi che concorrano a offrire una audaciadalla temeraria igiene spirituale visione complessiva di comunità che si desideri proporre al corpo elettorale. Pensare che il consenso possa essere costruito esclusivamente sull'appeal della figura del leader carismatico si è rivelato un abbaglio assoluto. L'elemento partecipativo nella ricostruzione e nella gestione dei processi di regolazione della cosa pubblica costituisce il vero discrimine per la democrazia degli anni a venire. Gianfranco Fini ha mostrato di credere nella bontà del nuovo approccio. Di certo, come una rondine non fa primavera, un'assemblea, benché riuscita, non fa una nuova offerta politica. Questo è stato chiaro a tutti, da subito. In realtà la sensazione diffusa è che si stesse vivendo un nuovo inizio al quale dovranno seguire ulteriori passi su un percorso che appare difficile e lungo. Dopo il momento emozionale è bene che l'aggregazione di spiriti liberi che si sta raccogliendo intorno al leader inizi a pensare agli obiettivi che intende perseguire. Lo stesso Fini deve essere consapevole del fatto che la ricostruzione della destra in Italia sia una priorità per la democrazia. Nell'ultimo ventennio è stata privilegiata la logica del rassemblement, del contenitore unico nel quale infilarci tutti al solo scopo di fare risultato. La storia ha dimostrato che questo modo di concepire la costruzione di un campo che non è solo politico o d'interessi, ma è soprattutto ideale, è stato del tutto fallimentare. Non è bastato dirsi della stessa parte per trasformare la società.


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Bisognava dirsi anche perché si stesse dalla stessa parte. Nell'area del cosiddetto centrodestra hanno trovato dimora gli orientamenti più diversi e, spesse volte, tra loro contraddittori. Per il futuro, è indispensabile che prima di decidere con chi stare si discuta bene del cosa fare insieme. Ci si metta d'accordo su un progetto di società che connoti la destra per coerenza e dignità. Affermare di voler una destra laica ma rispettosa dei valori spirituali, moderna ma attenta alla tradizione, evoluta ma conservatrice è una tautologia. Può volere dire tutto e nulla. Ciò che davvero conta è prospettare agli italiani cosa si pensa di fare per risolvere i problemi della quotidianità senza distogliere lo sguardo dalla visione del futuro. Gianfranco Fini oggi ha un'opportunità che deve sfruttare al meglio delle sue capacità, che non sono poche. Riuscirà nell'intento? E' presto per dirlo. Tuttavia, se il buongiorno si vede dal mattino, quello dello scorso 28 di giugno è stata un'alba piena di luce. Arktos

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UNA DOMANDA ILLUMINANTE

La rottamazione è una sorta dii lotta generazionale sostitutiva della vecchia lotta di classe. Lasciamola alla sinistra e a Renzi, che è figlio di quella incultura ipocrita e supponente che sempre si arroga il diritto di escludere. In questa chiave si comprende meglio la voglia del Presidente del Consiglio di far fuori il Senato. Noi siamo qui per includere, per armonizzare e non per rottamare. La sola cosa che rottamerei volentieri sono i vizi della Repubblica, mai le virtù degli italiani. Oggi voglio raccontarvi la storia di una "domanda illuminante". Sul finire degli anni ottanta ero a capo di una nota società di comunicazione. Un giorno venne a trovarmi un amico che aveva sposato una hostess delle linee aeree di Taiwan e che oggi è la più grande importatrice di griffe italiane in quel paese. La bella straniera mi fece una domanda illuminante: "Perché qui in Italia quando uno ha un'idea da portare avanti tutti gli mettono i bastoni tra le ruote? Da noi, se uno ha una buona idea tutti l'aiutano a realizzarla perché sanno che, se avrà successo, in tanti ne trarranno beneficio". Lì per lì non seppi darle una risposta adeguata, ma quella domanda mi è rimasta dentro finché non ho trovato la risposta. Qualche tempo dopo mi sono imbattuto nelle opere di Francis Fukuyama, il famoso economista che fu consigliere di Rudolph Giuliani, il sindaco di New York che restituì sicurezza e fiducia ai suoi concittadini. Fukuyama ha teorizzato il concetto di capitale sociale che vale per qualunque organizzazione. Questo è generato da lealtà e reciprocità che significa: fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te. Lealtà e reciprocità producono fiducia e se c'è affidabilità, questa come un lubrificante, fa sì che una società, un'organizzazione, una comunità progredisca. Maggiore è il capitale sociale più crescono le interazioni fiduciarie e le opportunità si diffondono e vengono collettivamente sostenute. Questa è la risposta a quella domanda illuminante. Nella mia esperienza di cittadinanza e politica mi sono imbattuto in tutt'altra regola: "E' bravo? Uccidiamolo nella culla". Una regola praticata e diffusa più di quanto non si immagini, che azzera il capitale sociale e che rappresenta una delle principali ragioni del declino civile italiano. Abbiamo costruito un Paese in cui la furbizia regna sovrana: è furbo lo Stato quando pensa che si possano tassare i cittadini senza limite, quando impone una tassa sui servizi indivisibili: come se quei servizi non fossero da sempre i principali compiti dei comuni. E' furbo il trasformista. E' furba la cattiva politica nell'accumulare privilegi, nel fare leggi lessicalmente incomprensibili e largamente interpretabili, è furba la burocrazia nel costruire bandi su misura, a volte a


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pagamento, sono furbi i magistrati quando piegano la legge ai loro interessi, come furbi sono i troppi corrotti in circolazione e i troppo protetti. Ma la peggior furbizia è l'arrivismo senza meriti, sono le carriere costruite sulla fedeltà e mai sulla qualità. Oggi sono qui perché voglio contribuire a cambiare questo stato di cose. Voglio un'Italia accogliente, avanzata, equa, solidale con un alto capitale sociale perché ha riscoperto la fiducia. Voglio leggi chiare perché un cittadino ha il diritto di capire. Voglio uno stato leggero, snello, efficiente al punto da poter competere con il privato. Voglio dignità di cittadinanza e trovo intollerabile che dei cittadini italiani siano costretti, nel disinteresse dello stato, a fare la fila davanti alle mense della Caritas e per questo invoco il rimedio del volontariato sociale; voglio uno statuto del cittadino che fissi i limiti dell'ingerenza statale e del carico burocratico, voglio la riduzione di un debito pubblico che strozza noi e le future generazioni. Voglio più cultura, intesa come capacità ideativa e creativa che lasci dispiegare il genio italiano, la sola vera risorsa rinnovabile che possediamo. Voglio un Paese che riconosca il merito, anche quello civile, una scuola con più cultura scientifica, voglio una nazione armonica e con meno squilibri territoriali e sociali e che abbia una strategia per il futuro. Voglio un'Italia dove il possesso non sia criminogeno e fare figli torni ad essere una gioia e non una preoccupazione economica. Voglio l'armonia e la bellezza intorno a me, acque limpide, aria tersa e terra senza veleni. In sintesi voglio quella Destra che oggi non c'è, con una identità rinnovata, specificante e non omologante, fondata su lealtà e reciprocità e per questo in grado di accumulare un formidabile capitale sociale, una Destra europea, responsabile, meritocratica, partecipativa, che garantisca il ricambio senza escludere, che sappia dare risposte ai quesiti di scenario perché anticipatrice del futuro, che incarni, con le regole ed i comportamenti esemplari, l'Italia che verrà e che non lascia nessuno indietro. Gianfranco Fini è il solo leader di destra, lungimirante, leale, ritemprato anche dall'autocritica, responsabilmente consapevole, attento ai contenuti e che può guidare il cambiamento e la riscossa e noi con lui. Io ci sto. (Dall’intervento del direttore di Confini alla manifestazione “Partecipa” - Roma, 28 giugno 2014)

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PATRIOTTISMO CULTURALE Un afoso sabato di fine giugno. A Roma, Palazzo dei Congressi dell'Eur. Prove generali per una nuova destra. Entusiasmo ma anche tanta prudenza per una comunità che prova a ritrovarsi e ad elaborare sconfitte e lacerazioni del recente passato. Non è più tempo, però, di guardarsi alle spalle ripete Gianfranco Fini nel suo lucido e puntuale intervento di metà mattinata. C'è da immaginare e costruire la destra del futuro nel segno di un ricambio generazionale in cui l'insegnamento dei padri non sia necessariamente un lascito da rottamare. Modernità e tradizione, allora. In sala tanti volti nuovi e tanti giovani che discutono con passione della destra che verrà. Già, ma quale destra? Patriottica e nazionale, prova a delineare Gianfranco Fini. Escludendo da subito che una destra di tal genere possa essere affetta da derive nazionaliste o da richiami alla sovranità in chiave antieuropea. E' giusto, allora, intendersi sul modo in cui una destra moderna possa definirsi autenticamente nazionale e patriottica. Una destra è, a mio avviso, patriottica se restituisce autorevolezza e dignità alle istituzioni repubblicane, se investe nella ricerca e prova a trattenere o a riportare in Italia i cervelli in fuga, se difende nelle sedi opportune il valore del made in Italy, se promuove e tutela l'immenso patrimonio artistico e paesistico della Nazione. Se, in definitiva, riporta al centro del suo agire politico l'Italia con il suo complesso di bellezze, talenti e prodotti. E proprio sulla bellezza e sul patrimonio culturale credo che la destra abbia il dovere di lanciare un grande progetto improntato alla sussidiarietà nel segno di un sincero patriottismo culturale. Un rinnovato orgoglio, cioè, verso il passato e la tradizione unito alla consapevolezza che, dalla tutela e dalla promozione del patrimonio, possono scaturire enormi potenzialità in termini di ritorno turistico ed economico. Certo in una stagione di crisi c'è da fare i conti con le difficoltà di reperire fondi e risorse per i beni culturali. I crolli a Pompei e in tanti altri siti di interesse storico e artistico sono la plastica rappresentazione dello stato di abbandono in cui versa il patrimonio anche a causa di una gestione che è, troppo spesso, burocratica e verticistica. Mancanza di fondi, quindi, ma anche cattiva amministrazione. Di fronte a tale scenario il coinvolgimento dei privati, attraverso sponsorizzazioni e donazioni per finanziare restauri e manutenzioni, appare certamente auspicabile. In favore del mecenatismo, d'altronde, si è mosso il governo Renzi con l'introduzione dell'Art Bonus, che prevede un credito d'imposta del 65% sulle donazioni finalizzate al restauro e alla protezione dei beni culturali.


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Di recente, poi, il decreto è stato implementato con l'allargamento dello sconto fiscale anche alle donazioni a favore dei concessionari e affidatari di beni culturali pubblici, per la realizzazione di opere di manutenzione. In tal modo si è cercato di andare incontro alla fondata richiesta che proveniva dalle associazioni di volontariato attive nel settore della conservazione dei beni culturali. Ed è proprio con il vasto mondo del privato sociale che la destra deve iniziare a dialogare per lanciare un programma di tutela e promozione incentrato sulla sussidiarietà e sul coinvolgimento della big society. Un progetto secondo il quale la gestione di tanti siti di interesse storico e artistico possa essere trasferita, sussidiariamente e con il supporto di finanziamenti e donazioni di privati, alle associazioni di volontariato e alle fondazioni attive nel settore culturale. Il tutto, naturalmente, in un quadro di indicazioni di interesse collettivo definite dalla Pubblica Amministrazione. Esistono già, in giro per l'Italia, esempi virtuosi di sussidiarietà culturale che incrociano, in taluni casi, anche finalità sociali. A Napoli nel quartiere Sanità, dove certo non mancano criminalità e disoccupazione giovanile, alcune associazioni e il parroco del quartiere, con il supporto di finanziamenti privati, hanno recuperato l'immenso patrimonio delle Catacombe di San Gennaro rendendolo fruibile ai visitatori. Oggi il sito è gestito da una cooperativa che dà lavoro a tanti ragazzi impegnati come guide turistiche del sito. Lo stesso accade in tanti altri siti culturali dove la passione e la dedizione di tanti volontari fa sì che la memoria del nostro passato venga mantenuta viva e, grazie alla tutela e alla promozione, proiettata nel futuro. La destra che verrà, allora, non potrà che avere tra i suoi punti qualificanti la difesa e il rilancio del patrimonio artistico e paesistico della Nazione. Patriottismo dei beni culturali e sussidiarietà dovranno certamente essere le direttrici lungo le quali portare avanti il programma culturale. Un'iniziativa simbolica, che definirei "un tricolore per ogni monumento", potrà rappresentare il punto di partenza di tutto ciò. In ogni sito di interesse culturale e paesistico venga simbolicamente innalzato un piccolo tricolore, segno di un rinnovato orgoglio nazionale verso la nostra tradizione artistica e paesistica. Giuseppe Farese

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TRA CONVERSIONI E LAPSI Parafrasando un celebre passaggio del coro del Conte di Carmagnola del Manzoni, si potrebbe dire: S'ode a destra uno squillo di tromba - A destra risponde uno squillo. Di quali destre si tratti, in ogni caso, è tutto da scoprire; un po' come l'ambiguo titolo che Manzoni ha dato alla sua tragedia. Infatti, Francesco da Bussone, il personaggio centrale, era effettivamente detto Il Carmagnola e, pur essendo di umili origini, era stato fatto conte da Filippo Maria Visconti, ma era stato nominato conte di Castelnuovo Scrivia e non di Carmagnola, che apparteneva al marchesato di Saluzzo. Chi pensa che si tratti di una "svista" del Manzoni e chi, invece, di un voluto riferimento visto che, proprio pochissimi anni prima, Carmagnola era il noto canto rivoluzionario dei più accesi sanculotti. In ogni caso, se la cosiddetta sinistra, dopo aver perso la sua connotazione storico-culturale per divenire un contenitore di convenienze, è in piena aggregazione renziana, la destra è frantumata in una miriade di sigle, gruppi, sodalizi, associazioni, movimenti. Non parlo di NCD, di Fratelli d'Italia, della Destra di Storace perché quelle formazioni della destra hanno poco o nulla, a prescindere dal loro nome: sono, più che altro, anch'esse dei contenitori di convenienze, con l'unica differenza rispetto al PD che non hanno quel potere che una rete di rapporti, interessi, legami, costruita e costantemente ampliata nei decenni scorsi, può dare. Infatti, l'obiettivo di Renzi, tra gli altri, è quello di impadronirsi di quella ragnatela, fatta da una miriade di punti nodali amministrativi e istituzionali, sapendo che tale conquista rappresenta l'espugnazione dell'Italia. Per certi aspetti, Renzi, in quanto al lancio di boutade, è l'alter ego di Berlusconi con l'unica differenza che il primo sa che le dichiarazioni politiche (o pseudo tali) possono andar bene per vincere ma che, per consolidare una vittoria, occorre la tela che, tra trama e ordito, consente di stabilizzare il consenso. Inoltre, sa che ciò che conta è la squadra, agguerrita, determinata e che di ogni obiettivo assoggettato va posto a guida un soggetto di apparato. Berlusconi, di contro, non aveva e non ha una squadra se non una congerie di personaggi ognuno dei quali ha tirato e tira l'acqua al suo mulino; non concepisce un apparato, una rete e, nella sua sconfinata vanagloria, non ha esitato a lasciare a guida di punti nodali uomini dello schieramento avverso, nella illusoria speranza di aggregarli a sé. Tutt'al più, ha pensato di accattivarsi gli oppositori facendosi carico dei loro mutui (tutti tengono famiglia): ma un atteggiamento del genere poteva andar bene con tipi come Razzi e Scilipoti i cui orizzonti si fermano, per il primo a Giuliano Teatino e, per il secondo, a Barcellona Pozzo di Gotto.


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D'altro canto, Fratelli d'Italia della Meloni/La Russa e Destra di Storace vengono ambedue da Alleanza Nazionale dove il galleggiamento del capo ha consentito non alle squadre ma alle fazioni, ingiustamente nobilitate in correnti, di usare il partito per tornaconti propri. Non credo che, nella nuova veste, personaggi del tipo di La Russa e di Storace abbiano mutato filosofia; di certo, hanno perso quella con-notazione di destra moderna, identitaria ed europeista al tempo stesso, sensibile alle problematiche sociali ma non astratta da quelle economiche, aperta alle tematiche civili; una connotazione che, mi dispiace ammetterlo, era riuscita a darsi, sia pur senza elaborazione culturale ma solo per le sortite audaci dello stesso capo. Non parliamo proprio di NCD dove i suoi componenti, nel passato, non hanno mai operato al di fuori di logiche governative-democristiane e, nel presente, di filosofie confessionali all'apparenza ma di potere settario nella realtà; un contesto, quello, avulso dall'elaborazione cultural-politica delle problematiche. Figuriamoci a definirlo "di destra". E non serviranno le prove tecniche di aggregazione tra le formazioni di cui sopra, camuffate da "primarie di coalizione", lanciate lo scorso 9.9., per cambiare un destino per il quale la Parca Atropo ha già impugnato le forbici. Mi spiace la presenza di Salvini a quell'evento. Beh! Se gli altri avessero un po' di sale in zucca, nominerebbero lui a guida della compagine. Ma, ovviamente, non accadrà. No. Per ricostruire una casa di destra, non possiamo contare sulle "note" formazioni esistenti. Ma lo scenario ci presenta altre iniziative, embrionali invero. Anch'esse, per le loro prime proposte politiche, non sono collocabili, tout court, a destra, nonostante le dichiarazioni ma, perlomeno, a differenza delle prime, provano a convivere vergini con pazienti frequentatrici di chirurghi estetici. Nei giorni scorsi, un evento dal titolo "Assemblea Popolare 2014", promosso da Isabella Bartolini, ex parlamentare del PdL, ha radunato una serie di associazioni, Slancio Italiano, Italia nel cuore, Valori e Libertà, Roma per una nuova Italia e Futuro oggi, da dove è stato lanciato un appello per "reagire, organizzarci, preparare le condizioni per la nascita di una forza che abbia come obiettivo la crescita dell'economia: unica strada per evitare che il debito pubblico distrugga il nostro futuro". Un appello che è stato sottoscritto anche da Pellegrino Capaldo, economista e presidente della fondazione "Nuovo Millennio - Per una Nuova Italia", fino a qualche mese fa considerato in sintonia con l'ex ministro Corrado Passera. Dichiarano di non cercare (per ora) alcuna alleanza o interlocutore predefinito e di bandire il leaderismo, considerato ormai sorpassato. Su questo non hanno torto. Qualche perplessità la suscita la sintesi del loro programma dove dichiarano che il loro "target sono le imprese, gli artigiani, le partite iva e i professionisti, quel ceto medio dimenticato dalla politica" e, alla dichiarata bisogna intendono provvedere con leggi straordinarie e liberalizzazioni, superando le griglia dell'articolo 18 e dello Statuto dei lavoratori. Non è specificato di quali leggi straordinarie possa trattarsi né a quali liberalizzazioni si riferiscano però mi sembra un po' confuso legare un indistinto programma, sebbene

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opportunamente fondato sulla tutela del ceto medio, allo Statuto dei lavoratori. Speriamo che si chiariscano le idee. Quello che, all'apparenza, sembra averle chiare è, invece, Corrado Passera, l'ex ministro dello Sviluppo economico e delle Infrastrutture del governo Monti. Il suo movimento, Italia Unica, definito cantiere liberal-popolare, tra febbraio e aprile scorso si è sobbarcata una peregrinazione sul territorio nazionale, alla ricerca di giovani, professionisti, insegnanti, piccoli imprenditori, artigiani, agricoltori, definiti il tessuto di un'Italia reale che vuole tornare a essere orgogliosa. L'appuntamento conclusivo del primo step è stato a Roma lo scorso 14 giugno. Propugnano il rifiuto dell'elitarismo, dell'auto-posizionamento e si dichiarano aperti ai contributi di tutti, senza preclusioni di sorta, con l'intento di costruire "la seconda gamba di una democrazia competitiva, maggioritaria". Come premessa, potrebbe anche andar bene ma, intanto, dovrebbe sciogliere una contraddizione emersa nella presentazione ufficiale del progetto: l'adesione di gran parte del ceto politico legato all'esperienza del governo Monti, e di una élite che, sebbene non abbia demeritato nelle ultime politiche, si è sfaldata subito dopo. L'ulteriore aspetto positivo è la critica rivolta alle riforme renziane e alle sue politiche distributive ma, atteso questo, non è assolutamente chiaro dove possano reperire i dichiarati 400 miliardi necessari per produrre un effetto shock per crescita e occupazione. E, last but not least, c'è da segnalare l'iniziativa di Gianfranco Fini," Partecipa" lanciata lo scorso 28 giugno dal Palazzo dei Congressi di Roma da LiberaDestra, sotto il titolo "L'Italia che vorresti". Ci sarebbe molto da dire sull'azione di Gianfranco Fini in questi ultimi venti anni (non solo sugli ultimi quattro) ma, come lui stesso ha sottolineato, non giova sottopor(lo)si ad una seduta psicoanalitica con recriminazioni, rimpianti, accuse, sfoghi. L'iniziativa, per dichiarazione, si rivolge ai cittadini delusi dall'offerta politica di tutte le formazioni di centro-destra, non ai partiti presenti in Parlamento, perché la strada per "restituire valore a un'identità gloriosa e pulita" non passa per le alleanze tattiche tra oligarchie né per una sommatoria delle sigle esistenti. Ricalcando la traiettoria tracciata pochi giorni prima da Corrado Passera, Fini denuncia lo stallo di una destra che rischia di far governare l'abile e pragmatico Matteo Renzi per vent'anni a causa della mancanza di una credibile alternativa. E punta, con toni più morbidi e senza evocare rottamazioni, a una ricomposizione della diaspora conservatrice. Ma al contrario degli esponenti di Forza Italia, non ritiene realistico aggregare in un caravanserraglio variopinto realtà incompatibili su Europa, moneta unica, immigrazione come Nuovo Centro-destra, Lega Nord, Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale. Il rinnovamento della destra richiede per Fini la creazione di una nuova classe dirigente. La "sintesi di tradizione e modernità" esclude logiche di cooptazione ma anche una selezione generalizzata dal basso che a suo parere premierebbe chi ha più risorse economiche. La ricetta è l'adozione di criteri meritocratici. Inoltre, la "destra repubblicana" prefigurata osteggia i populismi demagogici a partire da quelli anti-euro. È fortemente europeista e non


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teme la condivisione della sovranità. Punta sull'Europa delle patrie prospettata da Charles De Gaulle, e spera che, in una UE protagonista sul piano politico, diplomatico e militare, Federica Mogherini (sic) diventi la responsabile della politica estera e di difesa comunitaria. Sul terreno economico-finanziario europeo, l'ex presidente di Montecitorio reputa essenziale una strategia unitaria per sostenere la valuta unica, non limitandosi al rispetto dei parametri di bilancio. Ma rendere più flessibili tali vincoli "non può tradursi in alibi per alimentare una spesa pubblica improduttiva". Grande rigore, unito a una sottile allergia verso lo spirito garantista, caratterizza la visione di Partecipa nel campo della giustizia. E, inoltre, combattere la corruzione diffusa e onorare chi serve lo Stato vestendo una divisa, evitare di essere feroci con i più deboli e accondiscendenti verso i privilegi e le illegalità dei potenti "perché chi viene coinvolto in indagini giudiziarie scabrose deve fare un passo indietro rispetto al suo ruolo pubblico". Rifiuta, infine, le tendenze xenofobe e punta al riconoscimento della cittadinanza a chi lo merita e lo vuole. Si presenta, quindi, lontana da velleità stataliste e vuole riprendere e attualizzare la "rivoluzione liberale" del 1994 con uno Stato credibile, leggero ed efficiente, con leggi comprensibili e una burocrazia efficace. Il fulcro del tessuto economico, poi, Partecipa lo vede nella creazione reale di ricchezza e non nella finanza che ne è lo strumento. Per tale ragione, afferma che "bisogna ridurre una pressione fiscale intollerabile per il reddito da lavoro e per i nuclei familiari, mantenendo una tassazione significativa verso le rendite speculative". Tuttavia, l'ex leader di AN reputa paradossale che le forze del centro-destra rimangano silenziose o guardino altrove nel momento in cui il governo Renzi prefigura un cambiamento rilevante nel mercato del lavoro e nel welfare, sfidando i veti conservatori della CGIL. In conclusione, l'iniziativa di Partecipa osserva il percorso in atto di riforme istituzionali e, in primis, valuta positivamente il confronto per archiviare il bicameralismo perfetto, ma preferirebbe passare a un assetto mono-camerale, puntando al contempo sull'elezione popolare del Capo dello Stato, antica bandiera della destra italiana. Ritiene, inoltre, che l'autentica modernizzazione dello Stato debba riguardare l'aggressione alla montagna della spesa regionale, "vera causa del debito pubblico", provocata da una revisione costituzionale che ha conferito agli enti territoriali troppe competenze, spesso concorrenti con le prerogative dello Stato. Singolare, di contro, è stato il rifiuto di pronunciarsi sul contenuto del meccanismo di voto all'esame di Palazzo Madama perché, dichiaratamente, "la riforma elettorale è l'ultimo dei problemi per i cittadini". E ciò, indubbiamente, è strano per un politico, artefice dell'iniziativa, che non solo punta a realizzare una rivoluzione liberale dove l'individuazione di una forma di democrazia è essenziale ma che è stato, nel 1999, promotore con i radicali di un referendum per abrogare la quota proporzionale del Mattarellum e giungere a una legge maggioritaria uninominale di stampo britannico, per favorire un regime di tendenziale bipartitismo e la costruzione di una grande forza unitaria liberal-conservatrice, plurale e aperta, che manca tuttora nel nostro paese.

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Allo stesso modo, nessun passaggio sui fermenti sorti attorno alla proposta di una "Leopolda Blu" per l'azzeramento del ceto dirigente moderato e la scelta della nuova leadership tramite elezioni primarie. Né una parola viene pronunciata in merito ai temi eticamente rilevanti e alle libertà civili su unioni civili, testamento biologico, fecondazione assistita, ricerca scientifica, clonazione, ecc. viste, tra l'altro, le ardite uscite dell'ex presidente della Camera negli ultimi dieci anni. Tra le presenze, soggetti del MSI, di AN e di FLI ma l'unica partecipazione curiosa è stata quella dell'ex segretario di Fiamma Tricolore, Luca Romagnoli, che condivise con Rauti l'avversione radicale alla storica svolta di Fiuggi. Conclusa la carrellata sulle iniziative in atto, vanno fatte alcune osservazioni generali. Innanzi tutto va plaudito ogni sforzo che punti a dare un volto ed una consistenza ad una vera forza liberale in Italia. Detto questo, c'è anche da dire che tutte e tre non hanno dato convincenti segnali di liberalismo, al di là delle affermazioni. Non si nota un vero pensiero liberale dietro le tematiche introdotte e, soprattutto, nelle soluzioni proposte, spesso apodittiche. Manca, cioè, un manifesto ideologico (che nessuno si spaventi della parola) per rappresentare organicamente i pensieri che animano le iniziative. Altrimenti, restano ancorate alla logica, al buonismo e alle opportunità. Difetta, inoltre, l'intento di una "rivoluzione" culturale che tragga dall'imbarbarimento attuale questo Paese. Difettano anche le sensibilità sociali, sia sul piano squisitamente politico che sul piano più squisitamente ideale: non ci sono, infatti, riferimenti ai tanti gaps esistenti sul territorio nazionale e al loro recupero né cenni verso un'uguaglianza di diritti che, al di là della retorica affermazione, sia ammantata da un sentimento al fine di dare vita ad una libertà di individuo e di comunità. E ciò senza scomodare Locke, Hume e Smith. Ad ogni buon conto, non si registra un pensiero sul ruolo dei soggetti intermedi se non in negativo sebbene tutte abbiano rifiutato il leaderismo e l'elitarismo, (aspetti tipici di Renzi) e, direttamente o indirettamente, si siano richiamate alla meritocrazia. In ogni caso, occorre necessariamente che una élite si manifesti perché, altrimenti, non vi sarà "rivoluzione". L'unica accortezza è che essa sia colta, non compromessa e non degenerata. Possiamo dire che, in ogni caso, a fronte della inesistenza di una forza di destra e liberale, le iniziative in corso lasciano ben confidare? Confidiamo nel futuro. La storia ci racconta che Galileo, al tribunale dell'Inquisizione, al termine dell'abiura dell'eliocentrismo, tra sé e sé abbia detto: "Eppur si muove" e, come sappiamo, è vero ma, in realtà, la frase di per sé fu inventata da Giuseppe Baretti, che costruì la vicenda in maniera anticattolica, per il pubblico inglese, in un'antologia, Italian Library, pubblicata a Londra nel 1757. Speriamo bene. Roberta Forte


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EUROPA UNA, DALL’ATLANTICO AGLI URALI

La crisi ucraina ha mostrato l'attuale grado dei rapporti tra la Russia e i Paesi dell'Occidente. In realtà bisogna ammettere che le relazioni degli ultimi due decenni in Europa non siano state mai così difficili come in questo momento. Entrambe le parti si scambiano accuse sulle responsabilità di questo deterioramento. Il risultato è che dopo anni di laboriosa costruzione del processo d'integrazione dalla realtà russa nel contesto geopolitico dell'Occidente, in pochi mesi si stanno compiendo passi indietro molto negativi per il futuro della sicurezza e della stabilità della parte del mondo più sviluppata. Il rischio è che si torni alla logica dei blocchi come ai tempi della cortina di ferro, con la differenza di uno spostamento a est dei confini di due mondi che tornano a contrapporsi. Questo scivolamento all'indietro coincide, non casualmente, con il crollo verticale del peso politico dell'Italia nel consesso della comunità degli Stati, in particolare di quelli aderenti all'Unione Europea. Quest'ultimo aspetto assume rilevanza per il fatto che debba essere attribuita alla politica italiana, realizzata durante i governi del centro-destra, la scelta di puntare su una progressiva integrazione della Russia nel partenariato occidentale allo scopo di estendere ai Paesi sottrattisi al comunismo l'area d'influenza strategico-economica in grado di competere nelle sfide imposte dalla globalizzazione. La storia ricorderà quella stagione felice di politica internazionale che ha inaugurato il nuovo millennio come "lo spirito di Pratica di Mare", dal nome della cittadina laziale dove nel maggio 2002 venne firmata l'intesa. Il contenuto dell'accordo prevedeva un nuovo approccio alla gestione delle crisi, mediante il ricorso al dialogo e al consenso. La partnership tra i Paesi membri della NATO e la Russia avrebbe consentito la cooperazione dei rispettivi sistemi di difesa nella gestione delle più rilevanti emergenze in materia di lotta al terrorismo e di blocco alla proliferazione delle armi di distruzione di massa. A seguito degli eventi prodottisi nel corso del 2011, a cominciare dalla perdita dell'influenza italiana sulla Libia, Paese chiave per gli equilbri nel quadrante mediterraneo, fino alla caduta del governo Berlusconi e alla sua sostituzione con un commissariamento di fatto, ordinato dalle autorità monetarie internazionali e dalla Commissione della UE, l'Italia è stata declassata. In concreto il Paese ha perso il potere d'incidere nelle grandi scelte d'indirizzo di politica estera nell'ambito dell'Occidente sviluppato. In compenso, nell'ultimo triennio è cresciuto a dismisura l'ascendente della Germania della cancelliera Angela Merkel, sulle politiche comunitarie, in particolare quelle collegate all'argamento del perimetro della UE.

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A chi si deve l'attuale stato di crisi? La ricerca della cause può essere condotta con due differenti modalità. Una di esse prevede un approccio demagogico/propagandistico all'analisi. Questo metodo consente, per i desiderosi di motivazioni pretestuose, di avvalersi del collante ideologico per trasformare una valutazione responsabile ed equa in una caccia alle streghe. L'altra, invece, meno popolare, anche perché meno urlata, prevede una lettura della complessità del contesto nel quale tutti gli attori della crisi attuale interagiscono. Ritenendo la prima modalità di valutazione inadeguata allo scopo e, se esasperata, anche pericolosa per gli esiti che potrebbe produrre, tentiamo una riflessione incardinandola nella seconda e più efficace modalità d'analisi. La vicenda ucraina è sostanzialmente questione d'interessi. La Germania, ormai stabilmente al comando della politica estera dell'Unione Europea, ha puntato a realizzare l'antica aspirazione all'allargamento a est della propria sfera d'influenza attraverso la leva economica dell'Unione. Una volta inseriti nel contesto comunitario gli Stati che ai tempi della guerra fredda costituivano il fronte di separazione tra l'occidente democratico e l'impero comunista dell'Unione Sovietica, l'attenzione è stata rivolta a quei Paesi, geograficamente europei, che erano parte organica del sistema delle repubbliche socialiste sovietiche. Tra questi la più ambita è l'Ucraina. Sebbene il Paese viva una condizione di crisi profonda, le sue ricchezze naturali, le sue estensioni territoriali e la sua posizione di confinante con la Russia hanno attratto l'interesse occidentale. Per alcuni anni, almeno dal 2008, si è tentato, da parte della UE, di spingere l'Ucraina all'interno del sistema economico europeo sottraendola di fatto all'influenza russa. In realtà quel Paese, dal punto di vista del suo sostentamento, finora ha poggiato tutto sui rapporti con Mosca, anche perché una parte consistente di popolazione è russofona e avverte intensamente il legame con quella che un tempo era la madrepatria. L'Ucraina, dal punto di vista del fabbisogno energetico, dipende completamente dal vicino russo e anche la sua manifattura industriale ha come sbocco prevalente di mercato quello russo. Quindi, le autorità del Cremlino non hanno mai visto di buon occhio i tentativi europei di mutazione degli equilibri ricomposti dopo la fine della guerra fredda. Per quanto riguarda l'aspetto politico, i governi insediati a Kiev hanno altalenato tra posizioni spiccatamente filorusse e tentativi di aperta rottura con le autorità di Mosca come nel periodo 2007 - 2010 di premierato dell'ambigua figura di Juljia Tymošenko. Le crescenti pressioni sui governi di Kiev per accettare il cambio di rotta sono state esercitate attraverso l'azione costante del commissario europeo all'allargamento e alle politiche di vicinato della UE che, dal 2010, è il ceco Štefan Füle. La svolta si è avuta alla fine del novembre dello scorso anno quando, giunti sul punto di firmare l'accordo di partenariato con l'UE, il presidente ucraino Viktor Janukovyc, si è tirato indietro ritornando sui suoi passi. Il fallimento del negoziato è stato la scintilla che ha fatto esplodere nel Paese la protesta, in parte pilotata dall'esterno, con l'occupazione di Piazza Majdan a Kiev. La rivolta ha riacceso i sentimenti antirussi di una parte della popolazione a cui hanno fatto da contrappeso quelli separatisti delle regioni dell'Est, a maggioranza russofona.


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L'azione di forza della piazza ha determinato la fuga del presidente Janukovyc, giudicato troppo piegato agli interessi del Cremlino. Al suo posto si è insediato un governo provvisorio che avrebbe dovuto guidare il Paese a nuove elezioni. Cosa che è avvenuta lo scorso maggio. L'intervento nella partita prima dell'Unione europea e immediatamente dopo dell'amministrazione Obama, che ha visto nella rivolta di Kiev aprirsi uno spiraglio per la penetrazione in un'area storicamente ricadente nella sfera d'influenza degli antichi nemici, hanno acuito il livello di crisi. Questa sciagurata intrusione nella vicenda interna dell'ex Repubblica sovietica ha causato l'innescarsi di inevitabili contromisure strategiche da parte russa. In realtà, la Joint-venture occidentale per l'acquisizione dell'Ucraina, sostenuta in primis dagli USA e dalla Germania, con l'appoggio incondizionato di alcuni Stati dell'ex blocco orientale, tra cui le Repubbliche baltiche e la Polonia, ha sottovalutato, o volutamente ignorato, il problema costituito dalla presenza della flotta del mar Nero di stanza nella base navale di Sebastopoli in Crimea, concessa ai russi in base a un contratto pluriennale d'affitto. Integrare l'Ucraina nel contesto occidentale significava assorbire anche territori strategici, come appunto la penisola crimeana. Per i russi una mossa decisamente inaccettabile, a limite della provocazione. Nulla di strano, dunque, se Mosca abbia favorito in tutti modi il processo di immediata separazione della regione peninsulare dal resto del territorio nazionale ucraino. L'operazione è stata condotta alla luce del sole, senza spargimenti di sangue ma rispettando la volontà della popolazione che si è espressa per l'adesione alla federazione russa attraverso un regolare referendum. I partner occidentali, in particolare gli americani, hanno finto di non mandarla giù. Formalmente l'hanno considerata un atto di ostilità contro l'integrità dello Stato ucraino che si andava ad aggiungere all'altra decisione di parte russa, considerata anch'essa ostile, di schierare le truppe sulla frontiera ucraina con chiaro intendimento intimidatorio. In realtà, per gli occidentali il distacco della Crimea appariva come una buona soluzione risarcitoria per la danneggiata Russia. In cambio si richiedeva una disponibilità a lasciare approdare l'Ucraina ai nuovi lidi occidentali. Inoltre, la soluzione crimeana avrebbe costituito la prima mossa del "domino" la cui conclusione sarebbe stata la concessione del nulla osta, da parte russa, al riconoscimento dell'indipendenza del Kosovo dalla Serbia. A complicare lo scenario, negli ultimi mesi, si è aggiunta la decisione delle regioni orientali di Donetsk e di Luhansk di rendersi indipendenti da Kiev. Il governo centrale, fiancheggiato dai nuovi alleati occidentali si sta opponendo con la forza alla possibilità che la secessione vada a buon fine. Se, nel teatro della regione del Don, le truppe regolari ucraine hanno usato il pugno di ferro contro i separatisti, a livello internazionale USA e Unione europea hanno buttato alle ortiche il metodo del dialogo preferendo le strada dell'isolamento della Russia attraverso l'applicazione di sanzioni che, mettondo in difficoltà Mosca, rendono più difficili i rapporti, soprattutto economici. Dal canto suo, la Russia ha nei confronti dell'Ucraina un'arma nella mani che se azionata metterebbe in ginocchio il già debole Paese dell'est europeo. Si tratta delle forniture di gas per le quali Kiev dipende totalmente da Mosca.

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Non solo. Vi è una partita commerciale aperta che fa dell'Ucraina un debitore insolvente rispetto alla Russia. Ora, le speranze di alcuni partners occidentali di vedere, con le elezioni presidenziali di maggio, un trionfo netto della linea oltranzista anti-russa sono andate deluse. A vincere ancora una volta è stato un esponente di quella classe di oligarchi contro la quale si era levata la sommossa popolare di piazza MJejdan. Il presidente eletto Petro Porošenko ha vinto staccando di molti punti percentuali i suoi avversari. Porošenko intende tenere unita l'Ucraina, senza, tuttavia, giungere alla rottura con Mosca. Inoltre, è sua intenzione proseguire nel processo di integrazione con l'Unione Europea. Al momento, meno chiaro appare il suo punto di vista rispetto alla questione dell'adesione alla NATO. Sul fronte interno, il neoeletto non ha mostrato incertezze. E' sua intenzione riportare la zona orientale filorussa sotto il controllo del governo centrale di Kiev. Con le buone o con le cattive. In segno di concessione alla parte più oltranzista della destra animatrice delle giornate di Piazza Majdan, Porošenko, che di quella lotta è stato tra i primi sostenitori, ha ribadito che non riconoscerà mai la separazione della Crimea dal resto del Paese. E' suo diritto/dovere farlo ma agli osservatori non è sfuggita la scarsa convinzione con la quale il nuovo presidente ha rivendicato i diritti ucraini sulla penisola del mar Nero. Responsabilmente le autorità di Mosca hanno lanciato un forte segnale di distensione verso Kiev, impegnandosi di fatto a non sostenere la rivolta delle regioni separatiste. Ora il bandolo della matassa è nelle mani del nuovo presidente che dovrà trovare la giusta via d'uscita evitando di soccombere sotto le pressioni dei nuovi alleati occidentali che vorrebbero una sua azione più decisa nei riguardi della Russia, in particolare lo vorrebbero i governi della Polonia e delle repubbliche baltiche che più degli altri si sono spesi per alzare il tono muscolare del confronto tra le due aree continentali. Alla luce di questa sommaria ricostruzione bisogna chiedersi a chi giovi aver abbandonato la politica del dialogo e perché. L'obiettivo apparente degli Stati Uniti pare sia di mantenere il confronto con la Russia negli stessi termini conflittuali e ideologici di sempre, come se la fine del comunismo e la caduta del Muro non avessero offerto la concreta opportunità di radere al suolo le incomprensioni e le rivalità sedimentate, dalla fine della seconda guerra mondiale, in anni di contrapposizione frontale dei due blocchi. In realtà, l'offensiva americana è dettata dalla preoccupazione che l'intensificarsi della presenza commerciale russa sul mercato europeo possa mettere a rischio il progetto-madre di creazione di un grande mercato unico transatlantico, attraverso la realizzazione dell'accordo sul libero scambio, in grado di imporre un "nuovo ordine commerciale" con il quale tutte le altre potenze economiche dovrebbero fare i conti. Nella proiezione visuale di Barak Obama vi è il convincimento di realizzare una seconda NATO, di carattere economico che tagli la strada al gigante russo nella sua marcia di penetrazione del mercato europeo. Il problema è che in questa prospettiva l'Europa non verrebbe mai a costituirsi come potenza globale ma resterebbe semplicemente un mercato aperto, per di più fortemente condizionato dal vantaggio offerto al partner d'oltreoceano. L'esempio più immediato che si può fare per rendere esplicito il progetto americano riguarda la sorte del South Stream, il gasdotto che dalla Russia dovrebbe fornire di gas i Paesi del Sud dell'Europa.


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Con il pretesto della guerra di religione contro il nemico russo, l'amministrazione Obama sta esercitando forti pressioni su tutti i Paesi interessati perché interrompano la costruzione dell'opera già in fase avanzata. L'alternativa offerta da Obama agli europei del meridione e dell'est è quella di vendere loro lo shale gas, prodotto di punta dell'industria petrolifera statunitense che, per il momento, non ha trovato il favore dei mercati come invece avrebbe dovuto. Se ci affidassimo nuovamente ai magnati americani per comprare materia prima energetica torneremmo a pagare un bolletta insostenibile per le nostre imprese e per le nostre famiglie. Certamente più costosa di quella che viene pagata alla Gazprom russa per le sue forniture. L'altro player interessato alla separazione della Russia dal contesto europeo è la Germania. In effetti, la Cancelleria di Berlino, dopo aver pazientemente tessuto la tela che l'ha condotta a impossessarsi delle istituzioni comunitarie divenendo di fatto il perno centrale dell'Unione europea, non intende rischiare, in futuro, di dover condividere la posizione di comando con altri attori che, per forza economica, per ricchezza di risorse e per potenza bellica potrebbero pretendere, a ragione, un ruolo di co-protagonisti nelle scelte comuni di un'area d'influenza euro-asiatica di immense proporzioni. La Germania punterebbe a tenere a distanza di sicurezza la Russia, mantenendo con essa solo un forte legame di scambio commerciale, dal quale trae grandi benefici. In concreto, per Berlino, Mosca deve restare un mercato privilegiato, non altrettanto un partner comunitario. Questa scelta strategica consentirebbe alla Germania di puntare all'allargamento a Est di un'Europa posto sotto il suo diretto controllo, quale coronamento di una visione antica che affonda le sue radici nel primo Reich. Per questa ragione la strategia dell'allargamento a Est dell'UE è stata vissuta come una continua sfida volta a sottrarre terreno al "nemico". Tuttavia questa logica, nell'odierno tempo storico, mostra la corda. Non è più adeguata a interpretare i segni di un mondo in rapido cambiamento. In una realtà globale è del tutto illusorio pensare che l'attuale perimetro comunitario possa garantire all'Unione europea la dimensione di potenza economica e strategica. Ragioni collegate alle superfici territoriali, alla demografia complessiva degli Stati membri, alla capacità produttiva del mercato interno e alla inadeguatezza nel possesso di materie prime, contrastano con le sue ambizioni di leadership globale. La condizione di predominio poteva esser vera fino alla prima metà dello scorso secolo quando ancora una buona parte del globo era occupato da terre conosciute e sottomesse, ma incognite dal punto di vista delle potenzialità espansive. Oggi sono saliti alla ribalta nuovi attori che, per dimensioni e spinta produttiva, sono dei veri e propri giganti. Cina, India, Brasile, ad esempio, sono potenze globali ben più consistenti delle antiche nazioni coloniali che, per diritto di blasone, siedono ancora con voce propria nei massimi consessi internazionali. Ora, in un mondo che tende a dividersi per grandi aree d'influenza è pensabile che qui da noi, in Europa, si ragioni ancora avendo sul tavolo le vecchie carte geografiche delle imprese napoleoniche?

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Messa così, la politica di allargamento pensata dalla Germania finisce con l'essere la brutta copia della strategia del "Lebensraum", lo spazio vitale di hitleriana memoria, con la non piccola differenza che se, negli anni '40 dello scorso secolo, la conquista di territori come l'Ucraina poteva apparire la logica conseguenza di una politica di accaparramento di aree fertili e ricche di materie prime di origine minerale, oggi lo stesso territorio, per le dimensioni dell'economia globale, ha uguale valenza strategica del cortile di casa. Chi perde in questa partita? Certamente l'Italia. Gli anni di governo della destra hanno significato l'intensificarsi di un partenariato strategico che ha portato massimi benefici al nostro sistema industriale. Fino al 2013 la bilancia degli scambi commerciali si è incrementata giungendo a fare dell'Italia il quinto fornitore della Russia con un fatturato di oltre 10 milardi di euro. Con un'aspetto caratteristico estremamente significativo. Mentre l'italia acquista dalla Russia esclusivamente prodotti petroliferi, i mercati interni russi attingono da tutte le categorie merceologiche della nostra produzione nazionale, financo i tabacchi e i prodotti in carta. Quindi, la Federazione Russa rappresenta un mercato fondamentale per l'economia italiana giacché il nostro Paese ne è il quarto partner commerciale. Al 2011, si evidenziava un flusso di scambi attestato a un controvalore in euro di circa 27 miliardi. Una massa importante ma ancora insufficiente rispetto all'estensione del bacino di potenzialità che le due economie hanno l'una rispetto all'altra, essendo del tutto complementari. In realtà il livello di interdipendenza dei due sistemi economici è molto più elevato di quanto non lo sia quello della Federazione Russa con altri paesi suoi partner, a cominciare dal suo primo fornitore: la Germania. Con un espressione un po' colorita si potrebbe azzardare che: la Federazione Russa ha bisogno dell'Italia quanto questa lo ha della Federazione Russa. Forse il rapporto più significativo, da citare a modello di partnership bilaterale, è quello stipulato tra la russa Gazprom e l'italiana ENI, per la costruzione e l'attivazione del metanodotto "South Stream" che dalla Russia porterà, attraverso il Mar Nero ed evitando di transitare su suolo ucraino, il gas a tutta l'Europa centro-meridionale. Il terminale sarà in Italia. Inoltre, molto attivi risultano i comparti produttivi dell'aero-spaziale, dell'aeronautica e del trasporto ferroviario, oltre a quelli tradizionali del "made in Italy": abbigliamento, pelletterie e accessori del vestiario. Ma lo sguardo del mercato è puntato sul segmento dell'elicotteristica. Dal 2012 è stata avviata la produzione del primo elicottero assemblato " AW-139", realizzato grazie a una joint-venture tra AOA "Elicotteri della Russia" e il gruppo " Agusta Westland" di Finmeccanica. Il prodotto, sul quale molto si è scommesso, è destinato al mercato interno russo e a quello della Comunità degli Stati Indipendenti. Nel corso dell'ultimo vertice bilaterale, svoltosi a Trieste il 26 novembre dello scorso anno, sono stati siglati 21 accordi bilaterali e 7 intese intergorvernative per attivare gli investimenti russi in Italia. Sul fronte strategico è proseguita l'iniziativa prevista dal progetto "Ioniex" che consiste in esercitazioni aeronavali congiunte tra unità della Marina italiana e quella della flotta russa del mar Nero. Anche nel novembre 2013 l'appuntamento è stato rispettato. L'iniziativa costituiva il primo risultato concreto delle intese stipulate a Pratica di Mare nel 2002.


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Un orgoglio per la nostra politica e un mattone per la costruzione della sicurezza e della stabilità nel quadrante mediterraneo. Ora, la crisi ucraina che sta trascinando il debole governo italiano in un' insensata contrapposizione frontale con il partner russo rischia di porre in seria crisi il complesso delle nostre relazioni strategiche e commerciali con Mosca. L'odierna cecità dei nostri partner occidentali rischia di compromettere il futuro italiano molto di più di quanto sia pensabile. Per essere realisti bisogna riconoscere che, con la crisi ucraina l'Italia perde e non guadagna, come invece guadagnano Stati Uniti e Germania. Quindi asserire che questa Europa germanizzata sia un gran fregatura per gli interessi italiani non è fare demagogia spicciola. Lo ha compreso perfino il flebile Renzi che ha dichiarato nel documento programmatico del semestre italiano di presidenza dell'UE che, "la Russia resta un partner strategico". Ed è bene che le autorità del Cremlino dicano, come ha fatto il presidente Putin in occasione della recente visita a Mosca del ministro degli Esteri Federica Mogherini che: ''la presidenza italiana dell'Ue sia l'occasione per riportare i rapporti tra Mosca e l'Europa al livello di quelli tra Italia e Russia''. Questa è la strada giusta. Appiattirsi su posizioni di rottura sarebbe un errore irrimediabile per il nostro Paese. E' necessario che l'attuale governo rivaluti la politica estera varata dal centrodestra. La visione del governo Berlusconi dei primi del millennio è stata chiara e lungirante. Lo stesso premier l'ebbe a ribadire nel corso di un incontro con i lavoratori italiani residenti a Mosca, a latere del vertice Italo-Russo del 2002: "Credo che l'Unione Europea si debba aprire alla Russia poiché con Lei l'Europa diventerebbe più forte politicamente, economicamente e anche militarmente". L'odiernoaudacia clima internazionale, invece, spirituale restituisce un'idea di Europa e di Occidente che, temeraria igiene francamente, speravamo fosse stata archiviata. Ma così non pare. Poteva essere logico pensare che solo più Russia in Europa avrebbe impedito l'insorgere di situazioni di crisi come quella che si sta vivendo in queste ore. Invece i governi dell'Occidente non mostrano interesse per il superamento di contrapposizioni antiche e obsolete. Bisognerebbe spiegare a Mister Obama che di un partner come lui, così miope nella politica delle alleanze, così datato nell'analisi di contesto e così "agée" nell' individuazione delle contromisure strategiche, l'Europa di oggi, e quella di domani, proprio non saprebbe che farsene. Alla Merkel e alla sua "compagnia del Nord" andrebbe detto una buona volta che l'Unione Europea germanizzata, che parla una sola lingua, quella tedesca, non si può fare. Non sono riusciti in passato a prendersi il mondo, e non ci riusciranno in futuro. Si mettessero tutti l'anima in pace e decidessero di fare l'unica cosa giusta: evocare lo spirito di Charles de Gaulle che esclamava: "Sì, è l'Europa, a partire dall'Atlantico fino agli Urali, è tutta l'Europa, che deciderà il destino del mondo". Cristofaro Sola

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IL DISASTRO DELLA COSIDDETTA RIVOLUZIONE FEDERALISTA Un movimento politico che si riconosca nella Destra Repubblicana non può prescindere da un momento di riflessione e verifica della politica federalista che ha caratterizzato la cosiddetta Seconda Repubblica. Un'ubriacatura ideologica che ha entusiasmato non solo la destra liberista e la sinistra di potere, ma che ha visto economisti, costituzionalisti, politologi e "maître à penser" del politicamente corretto arrivare a sponsorizzare il federalismo come la panacea a tutti i mali, sino ad esaltare forme localistiche di egoismo collettivo ed economico con sfumature razziste. Su tale onda si arrivò alla nefasta riforma del titolo V della Costituzione, che vide l'abolizione della centralità dello Stato e la proliferazione di fatto dello sperpero, della corruzione e dell'inefficienza nelle competenze regionali e nei pubblici servizi locali. In questi 20 anni le leggi su regionalismo, federalismo amministrativo, principio di sussidiarietà verticale e decentramento politico hanno permesso ad ogni ente elettivo (Comuni, Province, Regioni e relativi consorzi) di sfornare "entusiasticamente e fantasiosamente" norme e regolamenti che permettono di spendere la stragrande parte del proprio bilancio per mantenere il proprio esercito di dirigenti e dipendenti, mentre solo una minima parte viene erogato a favore per servizi primari; inoltre sono state dilatate le procedure burocratiche e ristretti i diritti dei cittadini e la loro partecipazione effettiva alla gestione della res publica. Ma ancora più grave: è stata istituita una rete perversa di società di parziale o totale proprietà di tali enti pubblici, che non solo rende quasi impossibile il controllo della Corte dei Conti per il moltiplicarsi dei soggetti, ma in concreto ha creato un socialismo reale campanilistico che è la vera palla al piede dell'economia italiana. In Italia esistono oltre 8.000 società private, partecipate da comuni, province e regioni, che hanno una perdita secca di oltre 26 miliardi e che mantengono altre 150.000 tra amministratori delegali, presidenti, consigli di amministratori e dirigenti. I quali non sono assunti attraverso un concorso pubblico, ma vengono nominati da Sindaci e Presidenti di Provincia e Regioni a loro totale discrezione. In nome dell'Amor di Patria è necessario prendere atto del fallimento economico del modello federalista nostrano, ritrovando la forza di andare controcorrente e proponendo il ritorno allo Stato Centrale (da non confondere e tracimare nello Stato centralista). Il concetto di Patria quindi viene trasposto nell'istituzione di uno Stato Tutore e Custode dei diritti fondamentali dei cittadini: non solo l'uguaglianza sostanziale, il diritto alla sicurezza, alla sanità,


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all'istruzione, ecc., ma anche il diritto ad una spesa pubblica produttiva di servizi efficaci ed ad un fisco equo. Perfino Renzi si è posto il problema dello sviluppo abnorme delle cosiddette società pubbliche, "annunciando" un loro accorpamento che riduca a mille le società partecipate e "annunciando" alle regioni la minaccia di ritiro dei finanziamenti, se continueranno a mal utilizzarli. È l'ennesima annunciazione di riforma renziana che comunque tenderebbe a ridurre la febbre, ma non guarire l'ammalato, e in tutti casi qualora dovesse tramutarsi in provvedimenti di governo, questi verranno ulteriormente annacquati da un parlamento a guardia dei privilegi della peggior politica. Le risposte, in tempi di forte crisi economica e sociale, non possono invece che essere risolutive e drastiche, con la volontà di guardare lontano, a quella rivoluzione di Destra, intransigente ma non estremista, pragmatica ma non liberista, che svecchi il nostro paese e lo liberi da pregiudizi ideologici e culturali. Ad esempio valutare l'opportunità di sottrarre alle regioni la competenza sulla sanità e tornare ad una gestione diretta dallo Stato, tenendo ben presente che, anche a causa dell'invecchiamento della popolazione, la quantità e la qualità delle prestazioni sanitarie sono destinate a crescere. Le regioni spendono tra il 75 e l'80 % del loro bilancio in sanità, con soldi raccolti non attraverso imposizioni fiscali locali che potrebbero influenzare l'elettorato, ma attraverso erogazione del governo nazionale. Un sistema nebuloso che produce un forte divario di efficienza tra le diverse regioni, forniture con costi totalmente diversi tra nord e sud o assessori regionali che "decidono" attraverso concorsi addomesticati il primario di turno. Il diritto alla salute è troppo importante per lasciare che continui questo stato di cose. Un'altra riforma urgente dovrebbe prevedere il divieto di possedere società (miste o interamente a capitale pubblico) da parte di Comuni, Province e Regioni, salvo eccezioni stabilite esplicitamente da una legge ad hoc, togliendo ai sindaci, ai presidenti e alle relative giunte la tentazione di giocare a monopoli con i soldi pubblici ed evitando che siano degli incontrollati azionisti di maggioranza non solo di banche (vedi MPS e CARIGE), ma anche di società di servizi quotate in borsa, fino a stabilimenti balneari, farmacie e terme. In tutti i casi servizi erogati relativi al ciclo dei rifiuti, dell'acqua e del trasporto pubblico dovrebbero essere sottratti ai Comuni e alle Province, accorpati e gestiti dalle regioni. Mentre le altre competenze locali verrebbero erogate esclusivamente attraverso dipartimenti interni all'Ente pubblico o con gare pubbliche d'appalto. Giuseppe Murolo

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QUESTIONE DI DIFFERENZA Ad aprile scorso, nell'articolo "Bravo! Grazie!", mi sono divertito a scherzare su Renzi e sul suo modo funambolesco di rappresentare le soluzioni per i tanti (troppi) problemi che, ancora, giacciono sul tappeto. Confesso che l'idea per quell'articolo, sul piano del paragone, me l'ha data Crozza per la sua parodia del presidente toscano, presentato come una sorta di Jerry Lewis: un "mostro sacro" del mondo dello spettacolo americano, ma celebre anche nel resto del mondo, considerato il comico per eccellenza del cinema statunitense del dopoguerra: un personaggio che si atteggiava ad una specie di bambagione, ingenuo, innocente, bambinesco, scherzosamente puntiglioso. Però, sul piano delle similitudini, non volendo ripetere Jerry Lewis, mi sono avvalso di un'altra maschera, quella che Petrolini ha reso grande: Nerone e la sua vanagloria, il suo autocompiacimento, la sua auto-incensazione. Tuttavia, ha avuto più occhio Crozza perché, fuor di dubbio, Jerry Lewis era ed è un personaggio che tutto è meno che ingenuo e bambinesco. Anzi, in verità, è l'esatto contrario dell'immagine che ha dato, per circa cinquant'anni, dai palcoscenici, dai microfoni radiofonici, davanti alle telecamere, sul grande schermo. E credo fermamente che tutto questo Crozza lo sappia e che, quindi, volutamente, al di là della somiglianza fisiognomica, abbia scelto un'apparente ingenuità per rappresentare una reale scaltrezza. Perché di scaltrezza si tratta, camuffata da sano decisionismo; mascherata da oclocrazia, avrebbe detto Polibio: una democrazia, certo, ma degenerata. Il debito pubblico non accenna minimamente a frenare la sua salita, nonostante i conti da lacrime e sangue pagati sotto la strabicità di Monti e la presbiopia di Letta jr.; il PIL non registra tendenze al rialzo, l'export non decolla per l'alto apprezzamento dell'euro e per lo scarso valore aggiunto sui prodotti, le banche continuano a ridurre il credito, i consumi languono, la disponibilità economica familiare si riduce progressivamente, il potere d'acquisto del denaro scema in continuazione, la disoccupazione giovanile è arrivata a ridosso del 50% e quella generale ha oltrepassato il 13%. Eppure, i notiziari radiofonici, televisivi e buona parte della carta stampata, corifei dell'attore fiorentino, proiettano segnali rassicuranti, annunciano "timidi" segnali di ripresa, promettono salvifiche iniziative. Non sto attribuendo a Renzi un tale stato di cose ma certamente gli imputo la "disattenzione" che sta dimostrando verso tali questioni, puntando invece a sedicenti, miracolose riforme, la prima delle quali, stranamente, è quella del Senato. L'ho scritto ad aprile e lo ripeto: non che il Senato non vada riformato per uscire dal cosiddetto, paludoso, bicameralismo perfetto ma una cosa è


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riformare mantenendo l'equilibrio armonico istituzionale e costituzionale e un'altra cosa è stravolgere. La riforma renziana, invero, è lo stravolgimento non solo delle istituzioni repubblicane ma è anche l'occupazione manu militari della prima camera parlamentare. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che il presidente del Senato è la seconda carica istituzionale di questo accidente di Paese. Quindi, che senso avrebbe un senato composto da designati dalle regioni, a larga maggioranza centro-sinistra, che esprimono, tra loro, la seconda carica dello Stato? Non solo. Che senso avrebbe tornare a riformare il titolo V della Costituzione per ridurre i poteri dei "governatori" regionali e, poi, concedere loro addirittura la spropositata dignità di "nominare", nei fatti, il secondo cittadino della Repubblica? E, nonostante tali evidenti discrasie, nessuno, sottolineo, nessuno avanza perplessità; né i compagni di governo della moribonda NCD, né, più, i dissidenti, benpensanti, pidiini nonostante abbiano al loro interno uomini del livello di Chiti, Mineo e altri, né la sedicente opposizione. Già, sedicente perché non possono essere considerate tali quelle forze che, pur non facendo parte del governo, appoggiano sostanzialmente tali riforme fasulle, sia pur con timide obiezioni strumentali. Non mi meraviglia tanto il Cavaliere e la rinata Forza Italia perché non vada abrogato il cosiddetto Patto del Nazareno, indiscusso atto innovatore nella politica degli ultimi venti anni. Ma resta il fatto che il contenuto di quel patto è sconosciuto ai più: attiene alla sola legge elettorale e in quale forma? Ingloba la riforma del Senato e i suoi metodi? Contiene indicazioni per la riforma della giustizia e in quale maniera? Tutti interrogativi che, dal 14 gennaio scorso, restano appesi e che né Renzi né, men che meno, Berlusconi intendono sciogliere. Ma, come sappiamo, il Cavaliere, al di là della facciata del Nazareno, ha altre questioni da risolvere, buona parte delle quali relative alla sua persona e alle sue aziende. Quindi, nessuna meraviglia che il capogruppo al Senato, Romani, spieghi con ponderatezza i distinguo di Forza Italia e i buffetti che darà sulle paffute gote del presidente del consiglio. Sotto certi aspetti, non mi meraviglia neppure la riconversione dei grillini che, finalmente, hanno capito che tenere bloccati, inutilmente, otto milioni di voti non fa loro bene. Quanto al Paese, è difficile capire le ragioni della tempistica di tale scelta; avrebbero potuto compierla prima e con maggiore significato: non ci sarebbe stata l'insignificante parentesi Letta, Firenze avrebbe avuto ancora il suo sindaco rottamatore e, vista la sempre manifestata sensibilità per le riforme, l'opera innovativa avrebbe potuto cominciare prima e con maggiori e migliori risultati per l'M5S e per il popolo. In ogni caso, a sforzarci, l'unica ragione della intempestiva scelta del M5S che viene alla mente non gli arreca plauso: forse, hanno capito che le elezioni politiche sono di là da venire e che a nessuno interessa andare al voto. Nemmeno a loro, visto che, dopo tante fantasmagoriche promesse, hanno perso pezzi (uomini e voti) e, al momento, non hanno nulla da offrire all'elettorato. Meglio, per tutti, cercare di consolidare posizioni. Chi vivrà, vedrà. L'evento che, invece, mi ha suscitato stupore è la diaspora in casa SEL, questa sinistra ecologica e libertaria che tutto è meno che sensibile all'ambiente e che ha sempre considerato la libertà,

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appunto, come un ossimoro. Nessuno, evidentemente, sa resistere al richiamo delle giovani, rampanti, sirene renziane che stanno procedendo alla conquista di questo Paese come le legioni romane nelle Gallie. Oddio, il colloquio cordiale non si rifiuta ad alcuno, specie se sconfitto. Lo si coccola, lo si blandisce, lo si ospita come un re e poi, una volta sfilato nel trionfo del vincitore, lo si manda a morte. E' stato il destino di Vercingetorige, artefice Caio Giulio Cesare. Il fatto è che l'unico a fare opposizione a Renzi è Crozza. Il che non va bene perché la sua è una satira che, per quanto vera, fa ridere. Anche l'oggetto della satira fa ridere ma nessuno se ne accorge: una spending review che lesina sui pennini quando i centri di spesa inutile e infruttuosa sono ben altri; ottanta euro nella speranza di rilanciare i consumi quando, scontato il brunch, il pranzo (fa fine conoscere l'inglese), c'è il problema del dinner (la cena); una sbandierata riduzione fiscale, si pensi, dello 0,6% quando a settembre la Tasi suonerà il deghejo per gli assediati di Alamo, gli italiani; spettacolari promesse per il semestre europeo a guida italiana quando, solo per confezionare un ordine del giorno, passeranno quattro mesi e altri due per convocare una riunione. E, a proposito di Europa, davvero esilarante l'intervento fatto nell'aula di Strasburgo. Due chicche: la prima, il richiamo al concetto edipico rovesciato che, tranquillamente, avrebbe potuto chiamare figlicidio. In sostanza, per Renzi, i padri stanno uccidendo i figli perché non vogliono mollare, non vogliono cedere il passo, non vogliono farsi da parte. Chissà dove ha visto un quadro del genere. Forse, all'interno del PD. In ogni caso, ciò che ha detto è una bestemmia delle peggiori perché non si può sostituire la lotta di classe con la lotta generazionale: non ha ragion d'essere e introduce un falso, drammatico, scopo nonostante che David Parenzo (forse un renziano di ferro) ne abbia fatto, su Rai 3, una trasmissione di prima serata con ospiti del livello di Carla Cantone, segretario del sindacato dei pensionati della Cgil, Giampiero Mughini, scrittore e protagonista del '68, Paolo Cirino Pomicino, ex-politico e simbolo della Prima Repubblica, Guido Martinetti, fondatore della catena di gelaterie Grom, Emanuele Ferragina, docente di politiche sociali ad Oxford e Sofia Sabatino, rappresentante del mondo studentesco. La seconda chicca, poi, è grandiosa: il richiamo esaltante a Telemaco, paragonandolo alle nuove generazioni, che hanno il compito di raccogliere l'eredità dei padri fondatori dell'Unione e "assicurare un futuro a questa tradizione". E' dato il caso che, di contro, la memoria della gente, per reminiscenze scolastiche, attribuisce la salvezza di Itaca, proprio al padre, a Ulisse. Il figlio, invece, Telemaco, mentre la madre il giorno tesseva e la notte disfaceva, cercava di convivere con i Proci. In quanto al futuro della "tradizione" bisognerebbe stabile quale dal momento che l'Europa è un insieme di identità. Comunque, a prescindere dai due svarioni, il vero disastro è la scomparsa di ogni sprazzo culturale dalla vita politica. Lo so, la cultura non si veste e non fa muovere la vettura, e con essa non si mangia, non si mandano i figli a scuola, non si riscalda casa; ma, perlomeno, se vi fosse non saremmo così abbruttiti, con essa si potrebbe tornare a nutrire un desiderio, a confidare nel prossimo, a


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confezionare una speranza. Invece, continuiamo ad abbarbicarci ai pochi schei che abbiamo, sperando unicamente che il governo non se ne accorga e non ci tassi. Potrebbe anche apparire paradossale ma (non tiratemi 'e cuppetiell), allo stato dei fatti, l'unico soggetto politico verso il quale nutrire una qualche, sommessa, aspettativa è Salvini, il segretario della Lega. E' presto per tracciarne un ipotetico quadro operativo: resta, comunque, il fatto che il tanto criticato Borghezio, con un rilevante passato nella destra extra parlamentare, eurodeputato tradizionalmente eletto nel Nord-Ovest per tre legislature, dal 2014 è un parlamentare del Centro, sostenuto nella competizione elettorale da Casa Pound. Rappresenta una testa di ponte della Lega che, finalmente, con un segretario che ragiona, dopo ventisei anni esce dall'auto confino padano con i suoi pittoreschi riti bossiani? Lo vedremo. Va bene, d'accordo, in ogni caso l'Italia si muove e i suoi fondamentali restano solidi; e, sebbene sia scaduta di una posizione nella classifica dei maggiori Paesi del mondo, è comunque al settimo posto. Che ribattere? Beh! C'è sempre la grande, fondamentale differenza tra la solitaria masturbazione, se vogliamo anche un po' frustrante a posteriori, e l'appagante, vivificante, gioioso coito. Massimo Sergenti

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NO A NUOVE SANZIONI ALLA RUSSIA Sarebbe l'Italia, ora, a tergiversare sulle sanzioni alla Russia: lo afferma il Financial Times, dove si legge che i diplomatici di diversi paesi europei, in particolare della Polonia e delle repubbliche Baltiche, favorevoli ad un appesantimento delle misure di ritorsione nei confronti di Mosca per la crisi ucraina, hanno lamentato che è Roma, e non più la Germania, a volerla tirare per le lunghe e quindi ad ostacolare l'attuazione della "fase tre" delle sanzioni. Questa prevede il passaggio dal colpire singoli individui (uomini d'affari, banchieri, imprenditori, diplomatici) all'attuare misure contro l'economia, ma, come ha spiegato al quotidiano londinese un diplomatico dell'Europa occidentale, "Fin dal primo giorno è stato chiaro che gli italiani avrebbero assunto una posizione estrema". Bella scoperta. L'Italia è legata a doppio filo con la Russia in diversi settori, basti pensare che al vertice italo-russo di Trieste del 26 novembre, al quale avevano preso parte Vladimir Putin con 11 suoi ministri e l'allora premier Enrico Letta, con i ministri corrispondenti, erano stati firmati una trentina fra intese ed accordi in ogni campo, da quello industriale a quello del commercio, da quello culturale a quello turistico. E difatti lo scorso 9 luglio il ministro degli Esteri Federica Mogherini si è recata da Kiev a Mosca dove ha potuto incontrare l'omologo Serghei Lavrov: intervistata dall'agenzia di stampa ItarTass, Mogherini ha detto che: "Le sanzioni contro la Russia sono soltanto uno strumento, e non un fine in sé" e che "Noi non abbiamo esitato a farvi ricorso, e non esisteremo se l'Unione Europea deciderà d'inasprirle nel caso in cui la crisi si aggravasse ulteriormente. Sono già in corso preparativi". Per il ministro italiano, alla sua prima missione con la presidenza italiana dell'Ue, " Una soluzione durevole passa attraverso la diplomazia e il dialogo politico", e "Insieme ai nostri colleghi dell'Ue sosteniamo iniziative che conducano a negoziati e al raggiungimento di obiettivi concreti. Vale a dire la salvaguardia dell'integrità territoriale dell'Ucraina, garanzie per i diritti delle minoranze, riforme omnicomprensive, il rilancio dell'economia e forniture energetiche sicure". "E' tempo di azioni concrete e determinate quali un cessate il fuoco da ambedue le parti - ha continuato il ministro nel quadro di una mediazione italiana alla crisi - il rilascio di tutti gli ostaggi, l'instaurazione di controlli al confine russo-ucraino con la partecipazione dell'Osce". Mogherini si è poi compiaciuta per il consenso della Russia al dispiegamento di "osservatori, anche ucraini, lungo la sua frontiera". Non è un caso se a borbottare per l'atteggiamento italiano sono i paesi dell'Europa nord-


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ordientale: alcuni di loro, come la Lettonia e l'Estonia hanno al loro interno inquiete minoranze russe, mentre tutti, compresa la Polonia (oggi filoamericanissima), hanno i conti aperti con Mosca poiché dall'Unione Sovietica si sono staccati a suon di rivoluzioni. Sulla stampa moscovita, tuttavia, non è filtrato solo l'argomento Ucraina dalla visita di Mogherini a Lavrov, bensì anche una sorta di "placet" alla costruzione del gasdotto "South Stream", osteggiato in tutti i modi da Bruxelles al punto di averne bloccato gli appalti in Bulgaria e di aver trasformato in niente più che una passeggiata il recente viaggio del ministro russo in Slovenia. Nulla di strano neanche in questo caso, dal momento che il gasdotto è per il 50% della Gazprom, per il 20 dell'italiana Eni e per i restanti 15 + 15 della francese Edf e della tedesca Wintershall, controllata da Basf. Bruxelles teme che il South Stream possa rappresentare una sorta di cappio al collo dell'Europa, nonostante dall'Azerbaijan stia per arrivare il gas azero e forse anche iraniano (che ne ha per più anni della Russia) in Puglia attraverso il Tanap e il Tap e nonostante che già arrivi il gas dal Nordafrica (l'Algeria è il primo fornitore dell'Italia). L'Italia, insomma, guarderebbe un po' troppo ai propri interessi (cosa che fanno tutti), anche se spesso dalle parti di Varsavia e di Riga ci si dimentichi che l'Europa unita è stata fatta anche con i soldi degli italiani, quando ancora da quelle parti l'inno era quello cantato dal coro dell'Armata rossa e quando, poi, proprio da quelle parti sono state costruite le necessarie infrastrutture. Lo scorso fine settimana Bruxelles ha inserito altri 11 nomi nella lista delle 61 personalità russe e ucraine colpite dalle sanzioni, molti dei quali sono di leader separatisti filorussi di Donesk e Luhansk, e fino a qui ci si può stare. Ma arrivare a sanzioni che colpirebbero l'economia russa significherebbe dare bastonate a paesi esposti come l'Italia, per sostenere una bega estranea proprio perché l'Ucraina, altro paese dissestato e tutto da ricostruire, non fa parte dell'Europa unita. A Donetsk, Lugansk e Slaviansk continuano gli scontri con i filo-russi, ma è bene leggere la situazione senza tralasciare il fatto che la situazione attuale è, giusto o meno che sia, scaturita dal rifiuto di Kiev di aderire all'Unione doganale ideata da Putin, nonostante i molti debiti del paese con Mosca. E forse la crisi in corso risponde al disegno russo di tenere alta la tensione per rendere definitiva l'annessione della Crimea, penisola dove Mosca ha la Flotta del Mar Nero, proprio quale risarcimento per la decisione di Kiev di guardare a occidente. Una baruffa tutta in alfabeto cirillico, quindi, per cui non si capisce perché debba essere proprio l'Italia a pagarne il conto. Enrico Oliari

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IL CAMPO PROFUGHI DI IDRIB Dall'inizio del conflitto siriano un numero enorme di profughi ha cercato rifugio nei paesi vicini. I rifugiati arrivati nel Kurdistan iracheno sono stati sistemati nei campi di Idrib e Barikeh. Idrib si trova nel sud-est della provincia di Sulaimaniya, situata nella parte settentrionale dell'Iraq, dove le Nazioni Unite (Unhcr) hanno sistemato un accampamento di tende nei pressi della città, nelle campagne agricole, dove ci sono pochi edifici deputati all'amministrazione dei campi coltivabili. Le tende sono dislocate senza una precisa organizzazione, il campo ne conta 400 e accolgono 5mila profughi curdi siriani.

Come spesso accade per questo genere di strutture spesso manca l'acqua corrente, l'energia elettrica non è fornita in modo continuo, vi è carenza di acqua potabile e vi è consistente pericolo dovuto alla presenza di rettili velenosi; la situazione è resa ulteriormente dura dal calore estenuante d'estate e dal freddo rigido d'inverno. I ragazzi, con i loro grandi desideri di cambiare il mondo, studiano nonostante le attrezzature minime, senza accesso ai sistemi comunicativi e quindi a internet: la maggior parte delle famiglie vorrebbe inviare i figli a studiare a Idrib, ma ciò è reso difficile dalla distanza e dai costi. Gli uomini, spesso i giovani, si recano a Soleimanieh per guadagnarsi da vivere facendo duri lavori. La maggior parte dei rifugiati di questo campo ha perso uno o più dei familiari nella guerra civile siriana, negli attacchi dei gruppi estremisti legati ad al-Qaeda di al-Nusra e dell'Isil, o dell'esercito di Bashar al-Assad. Tutti hanno il desiderio di tornare un giorno nel loro paese e di vedere i propri figli crescere in una società libera. Maryam Hanifi


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IL SOGNO AMERICANO Tanto di cappello agli Stati Uniti. La loro capacità di innovare lascia sempre stupiti e dovrebbe essere un esempio per la vecchia e lenta Europa che somiglia sempre più ad un bradipo, per dirla con Grillo. Gli Usa, con determinazione e massicci investimenti, stanno perseguendo l'obiettivo di aprire il nuovo mercato dei voli spaziali commerciali, dopo aver favorito l'apertura di molti altri. Il 13 luglio è stato lanciato con successo il missile Antares con a bordo la navicella Cignus, carica di 3000 libbre di apparati e rifornimenti per la stazione spaziale internazionale. Si tratta del secondo lancio effettuato dalla Orbital, una società privata che si è aggiudicata per 1,9 miliardi di dollari, i rifornimenti della stazione spaziale. La Orbital fu fondata nel 1982 da tre amici conosciutisi alla Harvard Business School. Il suo primo contratto con la Nasa riguardò la fornitura di veicoli spaziali Tos, nel 1987 realizza il sistema satellitare di comunicazione Orbcomm, nel 1990 sforna il razzo Pegasus, nel 1993 allarga i suoi interessi alle immagini dallo spazio e si consolida con numerose acquisizioni societarie e la quotazione alla borsa di New York. Nel 2000 allarga i suoi interessi ai sistemi di difesa e nel 2001 lancia la serie di razzi Minotaur, Tra il 2002 ed il 2004, in partenariato con Boeing, sviluppa sistemi di intercettamento di missili e sistemi di difesa antimissile, nel 2007 lancia la sonda Alba verso Marte e Giove, nel 2008 acquisisce il contratto di approvvigionamento per la stazione spaziale internazionale, nel 2013 lancia la sua nuova serie di razzi Antares e Minotaur V e mette in orbita i satelliti di comunicazione Geo e Landsat. Oltre a questo si occupa anche di sistemi avanzati di volo. Ha 3300 impiegati, la sua capitalizzazione in borsa è di 1,8 miliardi di dollari, il general manager è Antonio L. Elias di chiare origini europee. Questo semplice esempio, ma se ne potrebbero citare a migliaia, fa comprendere cosa significa l'interazione positiva pubblico - privato, quanto sia importante canalizzare verso il mercato i risultati della ricerca scientifica e come va orientato lo spirito competitivo di una nazione. E si tratta di un processo che parte da molto lontano e che inizia dai valori di contesto. Si tratta di quelle regole non scritte che orientano a conformarsi a certi valori e comportamenti. Come semplice esempio basti pensare ai differenti atteggiamenti che assumo, per emulazione comportamentale, gli studenti che frequentano una scuola rinomata o "alla moda". Essi assumono un medesimo status, ancorché non codificato. Lo stesso si riscontra tra i dipendenti di particolari compagnie che, al di là del loro successo commerciale, godono di un'aura di particolare distinzione.

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Per i cittadini vale la stessa regola. Se i valori di contesto della nazione sono quelli giusti, ne scaturisce la fierezza dell'appartenenza, il desiderio di competere e di vincere le sfide. Negli Stati Uniti i valori di contesto sono fortemente motivanti per gli americani e questo nasce dal coinvolgimento della popolazione, in particolare degli studenti, nella curiosità verso la scienza e la tecnologia, nell'ambire a competere per eccellere, nel darsi grandi obiettivi e nel pianificare il loro raggiungimento. Lo stato investe, da sempre, ingenti risorse per trasmettere ai cittadini la "voglia di fare" e di competere. Si inizia dai primi anni della scuola: le gare di conoscenza, lo sport, l'epopea nazionale, il rapporto con le eccellenze e si prosegue con svariati stimoli di coinvolgimento lungo il corso dell'intera esistenza. Il risultato è il "sogno americano", basato sulla certezza che farcela è possibile, per chiunque. A quando il "sogno europeo"? Pierre Kadosh


SCIENZA & TECNOLOGIA

LA CIVILTA’ DELL’IDROGENO Si avvicina a grandi passi il giorno in cui disporremo di energia pulita, in grande quantità ed a basso costo, già perché sarà estratta dall'acqua. La National Science Foundation, il più grande ente governativo Usa, insieme alla Nasa, che promuove la ricerca scientifica, ha annunciato, alla fine dello scorso giugno, la messa a punto di una nanoparticella, composta da nichel e fosforo, in grado di estrarre idrogeno dall'acqua mediante reazione chimica. L'immagine in alto mostra del gas idrogeno che ribolle sulla superficie di un cristallo di nichel. La scoperta è stata fatta da un team di ricercatori della Penn State University guidato dal chimico Raymond Schaak. "Ora andranno meglio compresi i meccanismi che generano la reazione" - ha dichiarato il professor Schaak - "e cercati ancora nuovi catalizzatori costituiti da materiali ancor più abbondanti del nichel e del fosforo". Il team collabora con l'equipe guidata dallo scienziato Nate Lewis, del California Institute of Technology, specializzata in fotoelettrochimica, ossia la il corpo di tecniche utili a sfruttare la luce solare per generare combustibili chimici tra i quali l'idrogeno. L'obiettivo finale è quello di generare una cella fotoelettrochimica (foto in basso).

Tale cella è costituita da matrici nanostrutturate di anodi e catodi catalizzatori di ossidoriduzione e da una membrana conduttiva centrale che consente lo scambio ionico. Vari team di esperti stanno lavorando per vincere la sfida della messa a punto di tale cella. Gustavo Peri

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OLIGARCHIA AL POTERE Il mese di luglio ha registrato una rilevante presenza del Governatore della Bce, Mario Draghi, negli spazi massmediali. Le occasioni, del resto non sono mancate. Dall'invito, rivolto agli Stati, al rispetto delle regole europee, all'affidamento alle riforme strutturali nei Paesi europei una governance europea come avviene per la disciplina di bilancio, alla contrarietà a quest'ultimo riguardo verso ogni forma di flessibilità, all'annuncio del "Quantitative Easing" e poi del TLTRO, una potente iniezione di capitali verso il sistema creditizio europeo da destinare al credito all'economia. Se le precedenti, generali, dichiarazioni del Governatore hanno lasciato il tempo che hanno trovato, le ultime, invece, hanno creato un certo rumore Tra queste la seguente dichiarazione: "Non si possono escludere fusioni, acquisizioni e chiusure di istituti bancari", lasciando intendere che non tutti supereranno indenni la prova. Come è noto, tra le banche i cui attivi sono in questo momento al vaglio degli ispettori ce ne sono 15 italiane: da Unicredit a Intesa Sanpaolo, da Bpm al Banco Popolare, passando per Mps, Banca Carige e Ubi Banca. Con tale dichiarazione la Bce ha scippato l'ultimo residuo compito alle Banche centrali nazionali, quello del controllo, divenendo di fatto non solo la banca di emissione e di impostazione della politica monetaria ma anche l'inappellabile giudice sull'allineamento degli istituti bancari ai voleri di Bruxelles. Può darsi che i futuri risultati dell'indagine Eurotower porteranno a provvedimenti non solo giusti ma anche morali. Ma, resta il fatto, che essa, in totale assenza della politica, diverrà, di fatto, la sola insindacabile artefice dello sviluppo e dei luoghi dove determinarlo. Atteso questo, reminiscenze di vecchie letture ci hanno indotto a ricercare nel nostro archivio e abbiamo trovato in un numero di una vecchia rivista, Pagine Libere, un interessante dossier composto da tre articoli. Il suo aspetto rilevante è che è stato redatto venticinque anni fa. Ve lo sottoponiamo. Jean Monnet è il padre spirituale dell'Europa 1992 o meglio dell'Europa nata il 1° gennaio 1993. Primo presidente dell'iniziale embrione della Comunità Europea, la Ceca (Comunità del Carbone e dell'Acciaio), fondatore e anima del Comitato d'Azione per gli Stati Uniti d'Europa, proclamato "primo cittadino d'Europa" dal Consiglio dei capi di stato e di governo nell'aprile 1967. È in suo nome che Jacques Delors parlò della Commissione Cee come destinata a diventare, dal 1992, un "embrione di governo europeo". Il disegno soprannazionale, finalizzato a cancellare la nozione di sovranità degli stati nazionali, è stato quello al quale Monnet ha dedicato la vita. Il suo grande avversario fu il gen. Charles De Gaulle. Non a caso Margareth Thatcher si rifece a lui nella sua opposizione solitaria ai "piani" di Delors e dei suoi colleghi eurocrati di Bruxelles. Val la


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pena di ricordare cosa De Gaulle diceva di Monnet e dei suoi progetti. "Ciò che si propone è di impiantare un potere sovrannazionale, reclutato per cooptazione, senza base democratica né responsabilità democratica. Qualcosa di simile a una sinarchia" (Ch. De Gaulle, 12 dic. '51). "Essi hanno concepito nell'ombra, negoziato nell'oscurità e firmato in segreto... Sono al lavoro i sinarchisti che sognano un impero multinazionale" (7 aprile '54). "Il loro ispiratore (Monnet) era pronto con la sua panacea, chiamata unificazione, a creare un governo apatride su misura della tecnocrazia. Un mostro artificiale, un robot, una creatura di Frankenstein" (12 nov. '53). Oscurità deliberata. C'è una frase di Jean Monnet, questo ignorato padre dell'Europa dei tecnocrati, degli oligarchi e dei cartelli finanziari, che val la pena di citare: "Avevo di meglio da fare che esercitare il potere io stesso. Non è forse il mio ruolo, da molto tempo, influire su coloro che esercitano il potere politico? Al momento critico, quando mancano le idee, [i politici] accetteranno le vostre con gratitudine, purché voi rinunciate a reclamarne la paternità. Dal momento che loro si assumono i rischi, abbiano pure gli allori... Se restare nell'ombra è il prezzo da pagare per vedere le cose marciare, allora scelgo l'ombra" (J. Monnet, Memoires, Parigi 1976, p. 273). Di fatto, la creazione della Cee e la firma del Trattato di Roma fu opera di questo lavoro "nell'ombra"; fu opera di un gruppo, piccolo ma potente, di finanzieri e "teste d'uovo" guadagnati al progetto di un Nuovo Ordine Mondiale. Monnet fu il "manipolatore" delle personalità politiche per conto di questo gruppo. Con quali scopi, leggiamolo dalle stesse parole di Monnet: "Attaccare le sovranità nazionali" (Memoires, p. 324). "Superare la nozione di interesse nazionale" (p. 66). "Organizzare l'Europa su base federale" (p. 350). "La trasformazione della forma capitalista del passato" (p. 398). Lo "svuotamento" delle sovranità doveva essere la premessa per uno scopo complementare: creare la "coesistenza pacifica" tra Europa e Russia. "Lo scopo di tutti i nostri sforzi è questo: organizzare la pace tra Est e Ovest... La coesistenza pacifica tra il loro e il nostro modo di vita è possibile. Per ottenerla, l'Occidente deve cercare l'unione delle sue nazioni in una civilizzazione comune (piuttosto che nell'antica forma superata e impossibile) dall'Atlantico agli Urali. Dobbiamo raggiungere tra Est e Ovest, e i loro metodi di gestire gli affari pubblici, un accordo che richiede comprensione e accettazione" (p. 273). L'uomo che presiedeva, il 20 giugno 1950, la conferenza dei delegati di sei governi europei a Parigi, non era uno sconosciuto. Robert Marjolin, un protetto di Monnet, futuro membro della Trilaterale, derivava il suo potere - enorme per un'Europa uscita dalla guerra - dal fatto di essere il segretario dell'organizzazione creata per sovrintendere e destinare gli aiuti del Piano Marshall: L'Oecd, in seguito Ocse. Marjolin era, dunque, colui che teneva i rubinetti del flusso di beni americani, dosandolo secondo la "buona volontà" degli stati europei. "Io riesco a piazzare i miei collaboratori - scrisse lo stesso Jean Monnet - in posizioni che sono gli avamposti della battaglia che guido, e così penetro tutti i corridoi del potere". Il 18 aprile 1951, Francia, Germania, Belgio, Italia, Olanda e Lussemburgo sottoscrissero la creazione della Ceca, nominando Monnet capo di questa "High Authority". Era il risultato del lavoro di Monnet, preparato durante il suo soggiorno in Usa nell'aprile del '48, durante il quale incontrò le più eminenti figure del cosiddetto Eastern Liberai Establishment, i miliardari "liberal" della costa orientale.

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André Meyer, noto in Italia per la sua amicizia con Enrico Cuccia (Mediobanca) capo della banca d'affari Lazard di New York, la quale trafficava (e traffica ancora) il debito pubblico americano, marito di Bella Lehman (banca Lehman Brothers); uno dei padroni della Lazard, Eugene Meyer (omonimo ma non parente di André), messo da Bernard Baruch a capo del War Industries Board, l'agenzia che organizzava la produzione bellica americana, fonte di enormi profitti e di immenso potere; Dean Acheson, più volte segretario di Stato; George Ball, socio della finanziaria Lehman Brothers, futuro sottosegretario di Stato e membro della Trilaterale; McGeorge Bundy, destinato a diventare il capo del National Security Council sotto Kennedy. Costoro (e altri), manovrando gli aiuti del Piano Marshall per l'Europa devastata, ne volevano subordinare la distribuzione alla rinuncia, da parte degli stati europei, di porzioni della loro sovranità: il tutto sotto il pretesto dell'"unità" e dell'"efficienza". Jean Monnet, proprio perché partecipava a questo disegno, era stato cooptato come assistente del segretario generale della Società delle Nazioni di Ginevra, entità ostinatamente voluta da Bernard Baruch, consigliere di Woodrow Wilson. Armato, dunque, del mandato del Grande Fratello americano, ed essendo lui stesso commissario alla pianificazione in Francia (un posto-chiave alla quale non era estranea la sua posizione di "fiduciario" degli americani), Monnet selezionò un politico francese, il democristiano Robert Schumann, come vettore delle sue politiche. "Siccome non possiedo personalmente il privilegio di prendere decisioni nell'interesse generale - scrisse - fui obbligato ad usarlo tramite un vicario". La conferenza del Movimento Europeo dell'Afa (maggio 1948) fu l'occasione di guadagnare al progetto alcune personalità: Churchill, Eden, MacMillan, Mitterrand, il tedesco Walter Hallstein. L'estorsione verso la Germania Occidentale (allora priva della sovranità) si dimostrò lo strumento più efficace. Le avidità dei Paesi europei vincitori si concentravano sullo sfruttamento e il possesso del bacino carbonifero della Ruhr; offrendo alla Germania una porzione di sovranità concreta in cambio della rinuncia al principio della sovranità, fu messo in moto "il processo globale europeo". Ma Monnet si accorse presto che gli "amici" inglesi non avevano intenzione di prendere direttamente parte nel processo. Il compito di "determinare gli insensibili cambiamenti necessari alla nostra politica estera" fu affidato a Schumann. Il metodo: "L'unione europea avrebbe dovuto gradualmente essere provocata dalla dinamica stessa creata dal primo risultato. [...] Bisogna impedire il cristallizzarsi delle resistenze". Le "resistenze" da rompere vennero identificate nei gollisti in Francia, nei "baroni dell'acciaio" tedeschi, e in generale nelle forze nazionali preoccupate della sovranità. In nome del governo francese, ma senza alcun mandato da esso, Monnet formulò la seguente proposta: "L'Europa deve essere organizzata su base federale... Il governo francese propone che l'intera produzione di acciaio e carbone francese e tedesca sia posta sotto un'autorità internazionale aperta alla partecipazione degli altri paesi... Le decisioni dell'Alta Autorità sono obbligatorie per Francia, Germania e per gli altri Paesi". Nelle sue Memorie avrebbe, poi, spiegato: "Il governo francese non sapeva ancora nulla della proposta né tantomeno l'aveva adottata. L'uomo che aveva il potere e il coraggio di provocare un così grande cambiamento era


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Robert Schuman". E "a parte", per i suoi co-ispiratori: "Questa proposta apre una breccia nelle sovranità nazionali, breccia abbastanza limitata da incontrare acquiescenza, ma larga abbastanza per portare gli stati nella direzione che la pace richiede". Di fatto, il segretario di Stato Dean Acheson ne fu informato prima del governo francese. Lo seppe anche Montagu Norman, capo della Bank of England, che commentò: "Monnet non è un banchiere, è un congiurato". Compiuta la Ceca, Monnet pose mano al progetto di Comunità di Difesa Europea (Cde). Oggi caduto nel dimenticatoio, questo progetto prevedeva la creazione di un esercito europeo, in cui sarebbero state fuse tutte le armate nazionali. Ancora una volta, il progetto era stato elaborato tra finanzieri, con l'esclusione di esperti militari. "Non abbiamo bisogno di esperti militari scrisse Monnet - più di quanto abbiamo avuto bisogno di esperti dell'acciaio per la Ceca". L'idea guida era quella di "mettere le forze armate e la produzione di armi sotto una sovranità congiunta" e sotto una unica "autorità"; ciò lascia indovinare l'enorme possibilità di profitti che sarebbero stati messi in mano a questa "autorità": Bernard Baruch, che aveva fondato in Usa il War Industries Board, sapeva bene quali vantaggi si potevano trarre da un organismo committente unico di forniture militari, arbitro assoluto del "complesso militare-industriale". Lo stesso Monnet, che durante la prima guerra mondiale aveva diretto da Londra la Ragioneria Alleata che concentrava la responsabilità degli acquisti e della distribuzione delle merci necessarie alla guerra (dagli alimentari ai cannoni) per Gran Bretagna, Francia e Italia, ne era al corrente: "Nel '17-18 - scrisse - le forniture per gli eserciti e le popolazioni furono assicurate da un sistema dotato di poteri semi-dittatoriali". Questo doveva diventare per lui la Cde: il principio per "la trasformazione della passata forma di capitalismo", ossia un monopolio occulto capitalistico. John McCloy, amico di Monnet, a quel tempo "semi-dittatore" della Germania occupata per conto degli Alleati, diede il suo appoggio al progetto. Il ministro degli esteri francese René Pleven (assistente di Monnet dal 1929) divenne l'apostolo dell'"esercito europeo, unico per forniture, organizzazione e finanziamento, e posto sotto un'autorità sopranazionale". Per guadagnare l'acquiescenza politico-parlamentare, una forte corrente sotterranea di "persuasione" fu messa in moto in tutta Europa. Vi partecipò, col peso della sua autorità, Averell Harriman, l'ambasciatore Usa amico di Stalin, il creatore di Yalta. Fu a questo punto che De Gaulle oppose la sua vittoriosa resistenza, ottenendo che la Francia rigettasse il piano della "Babele militare" progettata dalla "cospirazione tecnocratica". Per Monnet fu solo una battuta d'arresto. Dall'agosto 1952, la Ceca mise le tende in Lussemburgo, cominciando a funzionare come un "piccolo governo europeo", e a prendere decisioni che avrebbero cambiato la faccia dell'Europa. In tempi diversi, furono cooptati il finanziere Pierre Uri, il monetarista (e seguace di Theilard de Chardin) Robert Trifin, Guido Carli, l'olandese Max Kohnstamm (fondatore del ramo europeo della Trilaterale), Jean Guyot, partner della Lazard Frères di Parigi, Jan Tinbergen, del Club di Roma. Gli amici di Monnet a Washington, compreso Foster Dulles, fornirono il credito internazionale, e quello finanziario: la Ceca ottenne dagli Usa un grosso prestito, a condizioni migliori di quelle che venivano accordate ai singoli stati sovrani. "Si sparse una leggenda", scrisse Monnet: "che un nuovo tipo umano stava nascendo nelle istituzioni del Lussemburgo": infatti,

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nacque allora l'eurocrate tecnocratico, cosmopolita ed elitario, convinto di non dovere il suo potere a nessuno. Monnet concepì il disegno della creazione di una "Camera dei popoli" da eleggere a suffragio universale, e di un Senato Europeo che, invece, sarebbe stato designato dai parlamenti nazionali; questo avrebbe scelto il presidente dell'Esecutivo europeo con quattro colleghi. Se fosse stato realizzato pienamente, questo progetto di rappresentanza estremamente indiretta, in una sede discosta, facilmente manipolabile da mani non viste dagli elettori, avrebbe sottratto, già allora, ogni vera sovranità ai parlamenti nazionali. Altro progetto di Monnet fu sottrarre ad ogni nazione europea il controllo sull'energia nucleare. L'Euratom era quel progetto, derivato direttamente da un'idea di Bernard Baruch, il quale - nella sua veste di finanziere di Stato - aveva proposto nel '45 di subordinare tutte le capacità nucleari del mondo sotto un'"autorità internazionale" del genere che abbiamo già visto in atto: il che significava mettere la nuova forma di energia alla discrezione del potere tecnocratico-finanziario internazionale. Baruch era stato, ricordiamolo, l'ideatore della Lega delle Nazioni, dove (dice Monnet) "uomini cooptati uno per uno, sciolti da ogni lealtà verso le rispettive nazioni, ma padroni di potenti reti di influenza nei loro Paesi", lavoravano "in intima, sovrannazionale comprensione con il Segretariato". L'Euratom - riduzione del disegno originario, che era stato rifiutato dagli USA allora monopolisti della bomba atomica - avrebbe assicurato che nessuna nazione europea venisse a disturbare il condominio americano-sovietico. Ancora una volta, fu De Gaulle ad opporsi al disegno, creando la Force de Frappe e garantendo almeno alla Francia il possesso dell'arma strategica e della tecnologia nucleare. Il 10 febbraio 1955, Monnet lasciò il suo lavoro a Lussemburgo. L'Alta Autorità era salda nelle mani del suo protetto René Meyer (della Banca Rotschild). "Penso che sarò più utile altrove", disse agli amici. Stava elaborando una strategia che tenesse conto dei passati scacchi. "Una strategia basata sulla scommessa che le forze nazionalistiche fossero in declino era incerta, come avevamo sperimentato. Pensai di suscitare le organizzazioni imprenditoriali e i movimenti pro-europei (..) ma i secondi non avevano potere, e i primi usavano le loro vaste risorse a profitto delle loro imprese private. Solo i partiti politici e i sindacati avevano sia la forza sia l'elemento di altruismo necessario per sviluppare l'Europa (..). Limitai il mio approccio a quelli, e a quegli uomini in essi, la cui volontà avevo soppesato negli organismi della Comunità". Era ancora la cooptazione di "congiurati del potere sovrannazionale" di cui parlava De Gaulle. L'idea che De Gaulle aveva dell'Europa era l'esatto contrario del sogno di Monnet: "Costruire l'Europa, ossia unirla, è ovviamente essenziale. Ma bisogna partire dalla realtà. Ora, quali sono le realtà in Europa? Quali i pilastri su cui costruire? Sono gli stati, ciascuno differente dall'altro, ciascuno con una sua anima, una sua storia, una lingua propria: stati, le sole entità dotate del diritto di ordinare e dell'autorità di agire (...). Ammetto che, prima che il problema dell'Europa sia assunto come un tutto, possono essere impiantati organismi più o meno sovrannazionali. Tali organismi hanno un'utilità tecnica ma non hanno e non possono avere né autorità né efficienza politica. Finché non accade nulla di serio, essi agiscono senza troppi problemi: ma, nell'emergenza, ciascuno capisce che tali "Alte Autorità" non hanno alcun potere


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reale sulle varie categorie nazionali e solo gli Stati possono averlo" (5 sett. 1960). "In altre circostanze, egli (Monnet) aveva proposto come rimedio di grandi difficoltà la mescolanza di elementi che sono differenti come se stati, eserciti, ideologie potessero essere "fusi" come si fondono i capitali di due imprese un tempo in competizione". Il 13 ottobre 1955, Monnet fondò il Comitato d'Azione per gli Stati Uniti d'Europa, annunciato simultaneamente nelle sei capitali Cee. Nell'elenco dei membri è dato vedere lo stato maggiore del potere politico europeo negli anni '60 e '70, e in filigrana il ramo europeo della Trilaterale. Germania: Herber Wehner e Erich Ollenhauer (Spd), Walter Scheel (liberale), Hemult Schmidt, Kurt Birrenbach (Cdu), Willy Brandt, e i sindacalisti Freitag (Dgb), Imig (minatori), Straeter (siderurgici). Hallstein era del gruppo. Francia: Guy Mollet e Gaston Defferre (socialisti), Maurice Faure (radicale), Giscard d'Estaing e Michel d'Ornano (liberali), René Pleven e Robert Lecourt (democratici), più sindacalisti della Cfdt e Fo. Italia: Ugo la Malfa, Giovanni Malagodi, Giuseppe Saragat, Amintore Fanfani, oltre a Malfatti, Matteotti e Nenni. Il comitato non aveva una struttura formale: era, come disse un giornalista, una "forza intellettuale federativa", il nodo centrale di reti di potere che penetravano le strutture nazionali. Queste reti ricevettero a loro volta molto potere dal fatto che avessero membri nel Comitato, che divenne come un passaporto per le stanze dei bottoni in molti paesi Cee. La grande efficacia di Monnet dal punto di vista del disegno oligarchico consisteva proprio nell'abilità di tenere insieme questi rappresentanti nazionali, denazionalizzandoli e privatizzandoli. La "forza federativa" produsse, il 25 marzo 1957, la firma del Trattato di Roma, ratificato dai parlamenti nazionali. I primi commissari europei furono: Marjolin (che poi sarebbe asceso ai vertici della Royal Dutch Shell), Jean Rey (un politico belga) e Sicco Mansholt, olandese, che un decennio dopo avrebbe determinato il rovesciamento delle politiche europee dall'assenso allo sviluppo economico alle preoccupazioni "ecologiste" e malthusiane della "crescita zero". Il prossimo passo, secondo Monnet, doveva essere questo: "Creare un mercato monetario e finanziario europeo, con una Banca Europea e una Riserva Federale europea e l'uso in pool delle riserve nazionali (...). Il libero flusso dei capitali tra i paesi membri e, infine, la creazione di una politica finanziaria comune". È il progetto in atto sotto i nostri occhi. Fu allora che avvenne il grande scontro tra De Gaulle e Monnet. Il terzo della loro vita. Il primo era avvenuto nel 1940, in piena guerra. Monnet, rappresentante a Londra degli interessi dell'Establishment americano e del loro braccio finanziario (l'asse Baruch-Morgan-Lazard), si tenne ben lontano dall'organizzazione gaullista Francia Libera, mantenendo anzi i canali aperti con le "forze sane" del governo di Vichy. Offrì, invece, i suoi servizi alla Gran Bretagna. Diventato funzionario britannico, fu spedito da Churchill a Washington: e qui inserito nel "consiglio privato" di Roosevelt, dove operavano personaggi come Felix Frankfurter, McCloy, Harriman, Acheson, i giornalisti "liberal" Walter Lippman e James Reston. Le vie di De Gaulle e Monnet si erano separate allora: il primo, capo della resistenza francese, il secondo, l'esecutore dell'élite angloamericana. Il secondo dissenso avvenne ad Algeri nel 1943. Monnet si era fatto mandare là da Roosevelt

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come una sorta di plenipotenziario: suo compito letterale era di liquidare De Gaulle e mettere al suo posto il più malleabile e insignificante generale Henry Giraud, eliminando l'ala nazionalista della Resistenza francese. La determinazione di De Gaulle, che emerse dallo scontro come unico leader riconosciuto dalla Francia, fu una sconfitta dura per Monnet. Naturalmente, De Gaulle dovette pagare un prezzo: Monnet era il canale attraverso il quale potevano giungere o essere bloccati i mezzi e i rifornimenti americani. Il generale dovette associarselo come ministro nel governo provvisorio, e dopo la guerra affidargli la carica di commissario del Piano, incaricato della ricostruzione e riorganizzazione dell'economia francese. Nel 1960, De Gaulle prese l'iniziativa dello scontro frontale. In una conferenza stampa lanciò l'idea di una cooperazione politica tra i governi degli stati sovrani europei. La sua uscita seminò nel Comitato panico e rabbia; ma Monnet, più abile pragmatico, pensò di utilizzare questa iniziativa, piuttosto che opporvisi frontalmente. Non poté trattenersi, tuttavia, dal criticare il generale: "Le concezioni di De Gaulle sono fondate su nozioni superate, che ignorano le lezioni della storia recente (...). È impossibile che stati che mantengano la piena sovranità possano risolvere i problemi d'Europa". Ma la posizione di Monnet fu di fatto indebolita dalla posizione del governo di Sua Maestà britannica, che voleva entrare nella Cee ma, beninteso, senza rinunciare ad uno iota della sua sovranità. Ciò contrastava un poco con le visioni sovrannazionali di Monnet, ma l'entrata della Gran Bretagna era per lui, d'altra parte, un aiuto nella sua battaglia contro De Gaulle. Ci fu un suo viaggio in Usa, dove ebbe contatti con il "gruppo degli amici americani" che allora circondavano il presidente John Kennedy: gli "influentissimi" (parole sue) McCloy (disarmo) e Acheson (rapporti con la Nato), il finanziere Douglas Dillon, McGeorge Bundy e Katherine Graham, proprietaria del Washington Post e figlia di Eugene Meyer, il finanziere messo da Baruch a capo del War Board. Sarà il caso di notare che, proprio in quel periodo, il Dipartimento di Stato e la Cia furono variamente coinvolti in giochi destabilizzatori in Algeria e con l'Oas. Monnet tornò, dunque, recando il pieno appoggio degli "amici americani" alla sua politica. Ma De Gaulle aveva trovato un alleato in Konrad Adenauer, leader di una Germania ormai assai più forte di quanto non fosse nel '50, quando Monnet le aveva strappato la Ruhr. "La sua alleanza con De Gaulle", scrisse Monnet, "lascia al generale ogni iniziativa sulle questioni dell'Europa, le quali ai suoi occhi sono ora ridotte alla solidarietà occidentale contro l'Est. La fiducia (di Adenauer) nell'appoggio americano è spezzata, ed egli si comporta come se avesse ricevuto ferme promesse francesi su Berlino. Tuttavia, molti nel suo partito non condividono le sue vedute...". Adenauer, in quel tempo, si opponeva alla prima "distensione" voluta dall'amministrazione Kennedy, in cui era visibile la prospettiva verso il disarmo, il disimpegno americano in Europa e l'atteggiamento "soft" verso le tattiche di Kruscev. In questo processo di distensione ebbe molta parte il Comitato creato da Monnet. Del resto, il comunicato che ne segnò la nascita recita: "L'unione economico-politica dell'Europa, Gran Bretagna inclusa, e lo stabilimento di relazioni Usa-Europa su basi d'uguaglianza sono le sole condizioni per (...) la pace fra Est e Ovest". Nel 1963, la Gran Bretagna entrò nella Cee. Il primo ministro Harold MacMillan aveva ricevuto


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(da George Ball) il "fermo consiglio del governo americano" di entrarvi alle condizioni dettate da Monnet. Il gruppo di negoziatori che i britannici mandarono a Bruxelles comprendeva noti europeisti alla Monnet quali Michael Palliser (che aveva sposato la figlia di Spaak), Eric Roll (un allievo di Harriman, trilateralista, divenuto socio della "Kissinger Associates"), e Edward Heath, un seguace di Monnet. Le trattative continuarono a lungo: ma quando si profilò in esse la prospettiva di una "forza nucleare multilaterale" anglo-americana (il che avrebbe rafforzato l'egemonia dell'Establishment anglofono in Europa), De Gaulle pose il veto all'entrata dell'Inghilterra. È curioso notare che a quel tempo il banchiere Pierre Uri (Lehman Brothers e Rotschild), organizzò nella sua abitazione privata una serie di riunioni, note come "Riunioni dell'Alma", in cui l'intero spettro delle opposizioni a De Gaulle furono convocate per preparare un governo alternativo, "nel caso dovesse accadere qualcosa a De Gaulle". Il generale era allora minacciato di morte dall'Oas. "E' il tempo della pazienza", scriveva allora Monnet. Ma aggiunse, "il tempo della pazienza non è tempo di inazione". Di fatto, fedele alla sua tattica del "passo dopo passo", gettò le basi dell'accordo che sarebbe passato sotto il nome di Kennedy Round, il negoziato fra Europa e Stati Uniti che ridusse le tariffe doganali e facilitò i commerci. Kennedy, in un pubblico discorso a Filadelfia, paragonò lo sviluppo della Cee all'unione delle prime tredici colonie negli Stati Uniti d'America. Ma, a quel punto, la firma del Trattato Franco-Germanico (1963) fra Adenauer e De Gaulle, prototipo di un accordo sovrano fra stati sovrani, fu un altro duro colpo per Monnet: "Non solo i partner europei sono allarmati da una troppo stretta intimità tra Francia e Germania - scrisse allora - e sospettano che un Adenauer insenilito abbia pagato troppo cara un'ipotetica protezione francese. Il timore è che questo accordo possa far naufragare la politica di integrazione europea. La forma del Trattato privilegia l'idea di "cooperazione", ciò che pone un serio dubbio sulla futura integrazione". La strategia di Monnet fu, ancora una volta non quella dell'attacco frontale, ma dell'accettazione modificatrice: "Ne abbiamo dato un'interpretazione (del Trattato franco-germanico) che gli strateghi parlamentari tedeschi hanno riversato in un preambolo votato all'unanimità dal Bundestag il 25 aprile (1963) ... Il Trattato così concepito ha perso le caratteristiche di un'alleanza politica esclusiva, per diventare l'espressione amministrativa della riconciliazione francotedesca decisa 12 anni prima col Piano Schumann". Di lì a pochi mesi, Adenauer avrebbe dovuto dimettersi. E Monnet si adoperò non poco per la successiva creazione della "grande coalizione" tra Cdu e Spd nella Repubblica Federale, e per promuovere il membro del Comitato per gli Stati Uniti d'Europa, Willy Brandt, come futuro cancelliere. Dal '64, Monnet cominciò a porre le basi dell'organismo che, dieci anni dopo, sarebbe divenuto la Commissione Trilaterale. Ma ciò che allora egli battezzò "Comitato d'intesa Europa-Usa" rimase lettera morta per l'indifferenza del presidente in carica, Lyndon B. Johnson. Lo scopo del comitato era il solito: "evoluzione attraverso graduali accordi verso la coesistenza pacifica Est e Ovest, che risolverà i problemi europei e permetterà la riunione nella Cee delle Germanie oggi

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divise". Il progetto dell'organizzazione del mondo in "blocchi di potere" (Pan-America, PanEuropa, una Pan-Eurasia egemonizzata dall'Urss) era fermamente consolidato. Imbaldanziti per la rinuncia di Adenauer, l'appoggio americano e le imminenti presidenziali francesi del dicembre '65, la Commissione europea di Bruxelles, Sicco Mansholt e Hallstein si convinsero che era venuto il momento di liberarsi dell'ostacolo De Gaulle. Così, all'improvviso, essi proposero una vasta estensione dei poteri sovrannazionali della Commissione: in particolare, la sostituzione del finanziamento attraverso stanziamenti degli Stati europei con l'imposizione diretta di imposte Cee. Credevano che De Gaulle, ricattato sul fronte elettorale, avrebbe ceduto. Invece il generale reagì violentemente, tenendo i funzionari francesi per sei mesi lontani da Bruxelles, con la celebre politica "de la chaise vide". Ciò ridusse all'impotenza la commissione; e De Gaulle vinse le elezioni. Il lavoro degli "europeisti" fu allora, per tre anni, quello di dare forma in Francia ad un clima intellettuale anti gaullista. Il maggio '68, con le manifestazioni e gli scioperi che ne seguirono, fu il risultato del lungo lavorio propagandistico - giornalistico. Monnet si affrettò a lodare il Movimento studentesco per i suoi "sentimenti di giustizia", asserendo che "la causa per la quale si sono sollevati è la causa dell'Uomo". Come si sa, Pompidou riuscì ad organizzare una grande contro-manifestazione gaullista, che fu un'ulteriore battuta d'arresto per i disegni monnettiani. Ma il 28 aprile 1969, il generale, dopo che una piccola maggioranza di francesi aveva votato contro di lui in un referendum, si dimise: era un uomo ormai vecchio, stanco, demoralizzato. Il fronte del "no" era stato capeggiato da Giscard d'Estaing, futuro membro della Trilaterale, del comitato Monnet. Se Monnet non poté contare su Georges Pompidou, divenuto presidente in Francia, aveva un suo uomo nello staff presidenziale, Michel Jobert. Il summit europeo (Parigi 1972), col suo ambizioso programma di unificazione economica e monetaria, con la messa a punto di progetti tecnologici congiunti, fu essenzialmente una vittoria europeista. Monnet propose (e Heath e Brandt accettarono, e anche Pompidou non ebbe la forza di rifiutare) che i capi della Cee si riunissero in un secondo vertice "per costituirsi come governo provvisorio europeo". L'elezione con suffragio universale di un parlamento europeo fu accettata in quella sede. L'andata al potere di Helmut Schmidt e di Giscard d'Estaing decretò il trionfo per Monnet: mai prima aveva avuto uomini così "suoi" ai massimi posti di Germania e Francia. Nel 1975, un anno dopo, Henry Kissinger venne a rendere omaggio al "primo cittadino d'Europa", un omaggio della Trilaterale al potere del suo padre spirituale. Monnet morì nel 1979, quasi novantenne. Nel giugno dell'88, il governo di Mitterrand ne ha traslato i resti al Pantheon. ***


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La vastità e l'accurata complessità della strategia elaborata dai circoli tecnocratici è rivelata da Michel Albert, ex commissario generale del Piano francese (il posto che fu di Monnet nel dopoguerra), nonché presidente delle Assurances Générales de France (una delle grandi entità finanziarie che si preparano al '92, nel saggio che il Mulino (una delle case editrici che diffondono il verbo tecnocratico), nel 1989, ha pubblicato in italiano con il titolo "Crisi, disastro, miracolo". Michel Albert parte (pp. 170-179) da un'analisi sulla natura degli Stati che, per il suo inconfondibile sapore economicista e illuminista, tradisce l'origine della sua formulazione: viene sicuramente dai think tanks della Trilaterale. Eccola, in breve: "Lo stato monarchico era soprattutto il potere del padrone sulla terra", era la forma politica necessaria quando l'economia era basata sull'agricoltura. Lo stato nazionale "nasce insieme alla rivoluzione industriale", ne è il prodotto, ed ha avuto una funzione provvidenziale: perché l'industria, "con gli sconvolgimenti che ha provocato (urbanizzazione, tensioni sociali, lotta di classe) ha rischiato di far esplodere la società": la forte coesione nazionale ha impedito l'esplosione. Ma ora, siamo entrati in una fase nuova: nell'economia "smaterializzata", "un universo sofisticato di tecniche avanzate, di scambi liberati, di alti livelli di vita". A questa nuova economia dei servizi e della finanza "vanno strette le frontiere nazionali, che sono ormai solo interruzioni di flusso". Tutte le crisi del nostro mondo "hanno una radice comune: l'impossibilità di gestire" la nuova complessità "nel vecchio quadro dello Stato nazionale", specie da quando l'universo finanziario non ha più "un padrone, ossia uno stato nazionale che impone la sua tutela agli altri, come sono stati gli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale". Va notato il carattere materialista storico di questa "dottrina dello Stato" super capitalista: la forma politica non è che la "sovrastruttura" della forma dominante di economia (struttura). "Riscopriamo un'incompatibilità di fondo tra la logica dello stato nazionale e quella della società mercantile": perciò "a poco a poco ci si accorgerà che gli stati non possono fare a meno di un ordine superiore al loro". "non ci sarà crescita equilibrata per l'economia mondiale senza una moneta mondiale". Ma ovviamente, Mi-hel Albert e i suoi co-ispiratori sanno che gli stati nazionali opporranno una forte resistenza al loro superamento verso un "ordine sovrannazionale". E per questo, rivela Albert, che nei circoli dove si medita e si decide si è stabilito di far affrontare agli stati, e a coloro che li rappresentano "il duro apprendistato dell'ordine attraverso il disordine". Che cosa significa questa frase sibillina? Né più né meno che questo: che un periodo di disordine, di sofferenze, di squilibri economico-sociali è stato freddamente programmato, affinché si arrivi al punto in cui l'opinione pubblica invochi quell'ordine "superiore" già deciso dai saggi. E' per questo, spiega Albert, che il Mercato Unico Europeo si va avviando prima che siano state approntate le istituzioni sovrannazionali che ne consentirebbero il funzionamento: "l'obiettivo del 1992 è questo, sperimentare per la prima volta nella storia un mercato interamente libero e senza frontiere in una società plurinazionale che non riesce a prendere decisioni comuni". I saggi sanno già che non funzionerà: "il rapporto Padoa Schioppa, consegnato alla commissione di Bruxelles, dimostra né più né meno che il Mercato unico - che implica totale libertà dei flussi

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finanziari - è incompatibile con il Sistema Monetario Europeo, cioè senza armonizzazione delle politiche monetarie e dunque dei tassi d'interesse. Diagnosi esplosiva", per-ché ora si sa che "a partire dal '92, la liberalizzazione delle attività finanziarie solleverà ondate di denaro che circoleranno per l'Europa", provocando "squilibri inevitabili tra tutte le regioni del Vecchio continente". In altre e più chiare parole, "l'Europa '92 lancia il Mercato unico all'assalto degli Stati nazionali. Li smantellerà" con "l'anarchia che ne risulterà", fino a rendere necessaria "una moneta comune, una Banca centrale europea e un bilancio comunitario". Non possiamo indovinare che la proliferazione di separatismi, regionalismi e autonomismi minimi sia anch'essa parimenti programmata, come parte del "disordine" che è necessario suscitare? Gli autonomismi sono anch'essi un "assalto" allo stato nazionale, sia direttamente sia indirettamente, in tutte quelle aree dove i regionalismi di confine si estendono su un territorio transazionale (come l'Alpe-Adria, il Sudtirolo, il Kossovo). Inoltre danno alla gente una preoccupazione vicina, che le impedirà di occuparsi delle cose lontane che avvengono a Bruxelles, dove si sta preparando la sconfitta della Politica per opera della Finanza. C'è motivo di credere che, nella mente degli architetti dell'Europa 1992, il "federalismo" coincida con il "regionalismo". In questa visione, gli autonomismi, i particolarismi e i campanilismi regionali sono visti come i benefici antagonisti degli stati nazionali, del concetto stesso di "sovranità nazionale" che deve essere "superato" in vista dell'unione (soprattutto monetaria) voluta dai tecnocrati. "L'idea del regionalismo e quella del federalismo coincidono", ha dichiarato nell'88 Alexandre Marc, collaboratore di Denis De Rougemont, uno degli ispiratori del federalismo europeo. Gli stati nazionali sono, per motivi diversi, i nemici comuni dell'Establishment tecnocratico e dei vari separatismi, siculi o corsi, sudtirolesi o baschi. È possibile indovinare qui taluni collegamenti fra i centri del potere finanziario e i vari terrorismi europei? Ci consta che, per esempio, alcuni personaggi della Massoneria triestina si vantino di finanziare taluni movimenti separatisti nella zona. Negli ambienti dell'Inter-Action Council, (cui partecipa Helmut Schmidt) è consueto sentir dire che "una soluzione per il problema basco e dell'Irlanda del nord può essere trovata nel quadro dell'Europa '92". Vale la pena di segnalare che, nel corso dell'88, mentre Bruxelles si dava uno statuto autonomo come futura (e già decisa) capitale dell'Europa federale, il Belgio stesso si è federalizzato in due aree, la vallone e la fiamminga, autonome. Lo stesso anno, Giscard d'Estaing ha proposto che in Francia siano aboliti i vecchi dipartimenti - strumenti amministrativi dello Stato napoleonico accentrato - per tornare ad una divisione del territorio fondata sulle antiche regioni. Il motivo è facilmente comprensibile: i particolarismi etnico-territoriali di cui pullula l'Europa non possono aspirare che ad una autonomia, e mai ad una vera sovranità. Inoltre, il livello intellettuale in cui i particolarismi prosperano è così infimo, che essi sono facilmente strumentalizzabili da chi sia pronto a cedere loro quel che vogliono in termini di campanilismo e di culto del folklore, per impossessarsi di quel che veramente conta: il potere di emettere moneta e di decidere le politiche globali. Va rilevato che il disegno non è nuovo.


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Basterà ricordare che il Movimento Indipendentista Siciliano di Finocchiaro Aprile fu finanziato e coltivato dall'Oss (oggi Cia) durante la guerra; che nei programmi del Partito d'Azione di La Malfa c'era la "regionalizzazione" dell'Italia, realizzata infine negli anni del centro-sinistra. Si noterà infine che Emilio Lussu, fondatore del Partito d'Azione, fu un'eminente figura del separatismo sardo. Oggi la Fondazione Cini, presieduta dall'azionista e repubblicano Bruno Visentini, sembra essersi data il compito di coltivare ed elaborare culturalmente i fermenti regionalistici. Nel settembre 1986 ha sponsorizzato a Venezia una grande manifestazione, "Europa Genti", con il dichiarato scopo di mettere in rilievo "le radici etniche e regionali del nostro continente, dall'Atlantico agli Urali, dal Mare del Nord al Mediterraneo", nonché "le tradizioni locali come radici dell'Europa". La Repubblica annunciò che dalla manifestazione sarebbe uscita una mappa di "un'Europa delle regioni, capace di sottolineare le particolari culture locali". Nell'88, la F. Cini ha sponsorizzato un simile convegno dell'associazione "Alpe Adria", con la partecipazione di delegazioni slovene, croate, ungheresi. L'Internationales Institut fuer Nationalitaetenrecht und Regionalismus (Intereg), fondato a Monaco nel 1977, ha dichiarato all'atto della fondazione di voler coniugare il sub-nazionalismo regionalistico con il disegno sovrannazionale dell'Europa federale. "Ai nostri giorni, gli stati nazionali tradizionali stanno perdendo la loro "sacralità", perché non possono più far fronte da soli alle pesanti responsabilità della nostra epoca. È un'età in cui l'esigenza di libertà, autodeterminazione e liberazione dalle strutture tradizionali non si arresta più ai confini statali. Ci sono cose che possono essere fatte solo all'interno di una più vasta associazione, solo nel quadro di un'alleanza sopranazionale. Nessuna di queste innegabili necessità, tuttavia, può giustificare l'abolizione di adeguate misure di indipendenza per le piccole entità, Laenders, regioni o provincie. In vista della necessità di una riorganizzazione sovrannazionale (...) bisogna tener fermo che queste più vaste unioni potranno funzionare solo se hanno un contrappeso regionale, se sono sostenute da strutture federali e regionali". Nel numero 1 (1987) della rivista Regional Contact, uno dei suoi fondatori, Rudolf Hilf, descrive come una "delle crisi più gravi" del nostro secolo la sopravvivenza della "struttura statuale in Europa, lo Stato nazionale". Hilf annuncia anche l'elaborazione, a cura dell'Intereg, di una "Convenzione Internazionale per i diritti dei gruppi etnici, insieme ad un Protocollo Europeo delle Regioni". Regional Contact è stampato, con il concorso di Intereg e di altre associazioni localistiche (Euregio, Uf-icio Europeo per le Lingue Minori, Associazione delle regioni europee di confine), dal Danske Selskab (Istituto Danese), che nel settembre 1978 organizzò a Copenaghen un convegno su "Europa delle Regioni", a cui furono invitati elementi separatisti anche in odore di terrorismo, come il corso Edmund Simeoni. Il capo dell'Istitu-o Danese, Folmer Wisti, intervistato nell'agosto 1988 sull'"Europa del '92", ha risposto: "Seguiamo la situazione da vicino e con grande favore. C'è la prospettiva di costruire un'Europa finalmente non aggressiva; gli stati nazionali sono stati una ro-vina (...). Inoltre, il 1992 aiuterà la collaborazione Est-Ovest (...). La conferenza sulle Regioni di quest'anno era tutta puntata sull'Europa Orientale".

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Regional Contact ha pubblicato la recensione di un volume dell'austriaco Leopold Kohr: "Spezzare le Nazioni" (prima edizione 1957, ripubblicato nel 1987): dove si attribuiscono i problemi mondiali al fatto che "una o più unità politiche sono diventate troppo grandi e potenti (…) Il rimedio è di dividere le grandi nazioni in piccole e più innocue parti". Per esempio, "in Europa si dovrebbero abolire le esistenti nazioni per ridare vita ai piccoli antichi principati di Burgundia, Piccardia, Normandia, Navarra, Alsazia, Lorena, Saar, Savoia, Lombardia, Napoli, Venezia, gli Stati Pontifici, la Bavaria, il Baden, il Galles, la Scozia, la Cornovaglia, l'Aragona, la Catalogna, la Castiglia, e la Galizia...". Si vede qui, come avviene tipicamente nel radicalismo contemporaneo, l'esaltazione simultanea di motivi "progressisti" e di fenomeni "regressivi" (come sono appunto i particolarismi risorgenti dalla marcescenza attuale degli Stati europei). Questo miscuglio, quest'ambiguità fra progressismo e regressione è una delle forze-qualità tipiche, grazie alle quali le idee elaborate e formulate nei pensatoi dell'Establishment tecnocratico-finanziario possono apparire ad libitum "di destra" o "di sinistra", possono permeare gli ambienti progressisti (come Repubblica) e strumentalizzare i rancori dei particolarismi reazionari (come quelli, per esempio, della "Liga Veneta" o del terrorismo altoatesino). A questo proposito, bisogna esortare a stare in guardia gli ingenui benintenzionati, tentati forse di approvare il disegno di un'Europa unita e sovrannazionale, ma anche "regionalizzata" come una sorta di avatar degli stati pre-nazionali, dell'Impero Absburgico (che ha ancora parecchi nostalgici) o dell'Impero Romano (che, significativamente, non viene mai evocato dagli europeisti attuali). Qui, si tratta dell'esatto contrario, della contraffazione degli imperi supernazionali del passato. Questi erano fondati su una base spirituale, che era precisamente un superamento del "dato naturale": nell'Impero Romano si poteva essere gallici, ispani, ebrei o africani, ma si era "civis romanus" in quanto titolare di diritti e doveri chiaramente espressi. In una misura che oggi sottovalutiamo, l'obbedienza di Roma si fondò meno sulle armi che sul volontario assenso dei sudditi provinciali (la rivendicazione di San Paolo dello status di "civis romanus" ne è prova), che vollero - e talora perfino combatterono per ottenerlo - entrare nel cerchio dello ius. I Galli e gli Iberici divennero romani, semplicemente perché Roma proponeva concretamente un modello di vita più alto ed esigente di quello della tribù; perché chi voleva giustizia la otteneva dal magistrato romano meglio che dallo stregone tribale; perché il civis romanus entrava in un'atmosfera culturale incomparabilmente più vasta e chiara, profonda e prestigiosa delle culture locali. Il Sacro Romano Impero e l'Impero Absburgico fondarono la loro coesione essenzialmente sulla comune identità cristiana dei loro popoli; un'identità cementata dalla minaccia secolare del Nemico, il Maomettano, la cui pericolosità era evidente anche al più ignorante dei sudditi, e contro cui lo Stato si ergeva a difesa delle nazioni cristiane. L' affermarsi dello Stato-nazione, e delle frenesie nazionalistiche romantiche, rappresentò un decadere da questa prospettiva spirituale, una regressione verso il "naturale" e il biologico. Come accade che oggi certi uomini identifichino se stessi con il benessere dei propri organi, con


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la propria salute fisica, e non già con il loro compito e la loro vocazione nella vita, è avvenuto che si volessero stati dove la gente si riunisse non "per fare qualcosa di grande insieme" (così Ortega y Gasset delinea il compito dello Stato, la sua "chiamata"), bensì perché aveva - o credeva di avere lo stesso sangue, perché parlava la stessa lingua (senza accorgersi che la lingua comune è sempre indizio che in precedenza ha agito uno Stato: nel nostro caso, Roma), o perché voleva vivere entro i suoi confini "naturali". Il regionalismo separatistico è un'ulteriore discesa verso il biologismo naturalistico, indotto dalla rinuncia degli Stati odierni a chiamare la gente "ad una vita più alta ed esigente". Scozzesi o gallesi non si sentivano altro che sudditi di Sua Maestà Britannica, finché l'Inghilterra propose ed impose l'impero come "grande impresa comune", che richiese disciplina e sacrificio. Oggi al contrario gli autonomismi risorgono: coltivano retoricamente il loro folklore, ma più concretamente (e abiettamente) rivelano egoismi locali e bottegai, l'attaccamento a privilegi e precedenze meschine, la perdita del senso di solidarietà che segue allo smarrimento della certezza di avere un destino comune. Di qui nasce l'odio sudtirolese per gli italiani, o l'astio dei veneti e lombardi per i "terroni". Il fenomeno dovrebbe preoccupare chi sinceramente vuole un'Europa unita. Invece rallegra chi ha il piano di imporre un potere oligarchico e incontrollato sopra popolazioni degradate e fisse su interessi localistici. *** La terza parte sul prossimo numero.

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ANNIKA LARSSON AL MACRO Dal 13 giugno al20 setembre, al Macro di Roma - Sala Enel, prima personale italiana dell’arista svedese Annika Larsson. La mostra, curata da Benedetta Carpi De Resmini dal titolo “Introduzioni” è aperta tutti i giorni dalle 11 alle 19, il sabato dalle 11 alle 22 e presenta le opere più recenti dell'artista, con due video: Blu, 2014 e EAV 2011. L’iniziativa è in collaborazione con l’Accademia Tedesca di Roma, dove l'artista è attualmente sarà ospite fino a dicembre. Il titolo della mostra, Introduzione, proviene dalla etimologia latina della parola intro-ducere: "portare dentro", per portare una persona in un luogo, e si riferisce alla formulazione di un pensiero, per un dialogo diretto con il lavoro dell’artista. La ricerca di Annika Larsson qui si concentra su temi controversi nella storia sociale del moderno e contemporaneo occidentale. Nel film Blu 2014, l'artista trae ispirazione principalmente dal libro blu di Noon, scritto da Georges Bataille nel 1935, ma pubblicato solo nel 1957 in quanto considerato troppo intimo e personale. Questa novella, scritta dopo l'ascesa al potere di governi totalitari in Europa, coglie i segni premonitori del progresso del fascismo e della guerra imminente: "Quando ho letto blu del Mezzogiorno, per la prima volta nel 2010", dice Larsson, "Sono rimasta stordita dai paralleli tra la storia e le vicende della moderna Europa ". L'artista, con una selezione accurata di immagini potenti, ipnotiche, e talvolta provocatorie, si concentra sui fondamenti della società moderna, e sui confini ed eccessi della democrazia. I concetti di ciclicità storica, di relatività e di soggettività dell'interpretazione, sono al centro dei due video in mostra. Lo spettatore viene disorientato da una successione continua di immagini che lo coinvolgono razionalmente, psicologicamente ed emotivamente. Annika Larsson è nata a Stoccolma nel 1972. Attualmente vive a Berlino e lavora principalmente attraverso il video. Le sue opere trattano temi il potere, l'impotenza, l’emozione e la percezione. Ha studiato al Royal College of Fine Arts di Stoccolma. Il suo lavoro è stato presentato in mostre personali in numerosi musei quali: Le Magasin, Grenoble, Kunsthalle Nürnberg, Museum für Gegenwartskunst, Basel, Sala Montcada - Fundacion La Caixa e ICA e in festival internazionali: come la 49a Biennale di Venezia, il 6 ° Biennale di Shanghai 2006 e il Festival Internazionale del Cinema di Berlino 2011 . Giny


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Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

www.confini.org


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