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Aeromensile di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

CITTADINANZA : ISTA RO V R D TE L’IN SAN

S ALEMPI CA

PRIMO PIANO: CITTADINO, QUINDI UOMO DI ALDO DI LELLO LEGA 2.0: LA METAMORFOSI DI CRISTOFARO SOLA

Nuova serie - Numero 24 Maggio 2014 - Anno XVI


www.confini.org

Confini Aeromensile di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Numero 24 - Maggio 2014 - Anno XVI

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettore: Massimo Sergenti +

Hanno collaborato a questo numero: Pietro Angeleri Arktos Aldo Di Lello Gianni Falcone Giuseppe Farese Roberta Forte Giny Pierre Kadosh Pennanera Angelo Romano Massimo Sergenti Cristofaro Sola

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Segreteria di redazione: confiniorg@gmail.com

+ Registrato presso il Tribunale di Napoli n. 4997 del 29/10/1998

confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

PER UNO STATUTO DEL CITTADINO Il rapporto stato - cittadino in Italia non è mai stato, salvo brevi parentesi, particolarmente buono. Ciò a causa, via via, delle forzature imposte dall'amministrazione piemontese agli stati annessi, soprattutto al Sud, nella fase post-unitaria, degli abusi perpetrati dalle classi dirigenti fin dai tempi dell'"Italietta" giolittiana, dei sacrifici per guerre non sempre condivise, della cascata di scandali, brogli, ruberie e malversazioni dell'Italia repubblicana. Il culmine lo si è raggiunto prima con "Tangentopoli" e poi con le vicende della "Casta" e degli abusi di potere che ancora si perpetuano. Ciò ha fatto sì che il rapporto dei cittadini con lo Stato e le sue istituzioni non sia mai stato limpido, anzi è diventato sempre più guardingo, pregiudiziale, sfuggente. In particolar modo nei rapporti politici, erariali e giurisdizionali. Il danno che ne subisce il sistema Paese è enorme. L'evasione fiscale, la scarsa competitività, il complessivo declino, la debole credibilità internazionale, sono, per buona parte, figli di quel rapporto viziato. Se il cittadino è considerato solo una pecora da tosare senza che la sua lana concorra visibilmente al benessere generale l'evasione deve dilagare, se l'imprenditore ha per nemico lo Stato e le sue bizzarre ed ottuse regole e non i suoi concorrenti non c'è competitività ma solo declino, se le scelte dello Stato non sono supportate dal coeso favore popolare non c'è credibilità per quelle scelte. Per queste ragioni, oltre che per motivazioni di "adeguamento civile", occorre rifondare il patto sociale e fare un salto di qualità stabilendo, una buona volta, i diritti dei cittadini ed i limiti dello Stato nei loro confronti a cominciare da quelli impositivi. Per questo occorre uno "Statuto del cittadino". Questa è la prima riforma necessaria al Paese, la più essenziale. Senza questa riforma tutte le altre rischiano di essere soltanto "aria fritta". Con legge costituzionale va introdotto il richiamo ad uno "Statuto del cittadino" e con legge subcostituzionale esso va realizzato. Nello Statuto vanno declinate le regole della cittadinanza, le libertà e i diritti inviolabili, i limiti che lo Stato non può travalicare, i reciproci doveri dei cittadini e dello Stato su di un piano di reciprocità fiduciaria. Vanno elencati i requisiti per la cittadinanza, le libertà assolute (di pensiero, di coscienza, di


EDITORIALE

opinione, di affettività, di generazione, di autodeterminazione, di credo politico e religioso, di lavoro, iniziativa e impresa, di proprietà, di disponibilità del proprio corpo e patrimonio) e quelle regolate (come l’uso dei beni pubblici e dell'ambiente, la mobilità e la circolazione, l’insediamento, la riservatezza, l’aggregazione, la partecipazione, e via dicendo); vanno enumerati i diritti civili inviolabili (dignità, parità e rispetto, educazione e istruzione, sviluppo del talento, sicurezza, salute, giustizia rapida, equa, accessibile, informazione corretta e plurale, solidarietà sociale, diritto alla trasparenza ed alla rendicontazione sull'uso delle risorse pubbliche, al riconoscimento dei meriti civili, alla chiarezza e comprensibilità di leggi, regolamenti e provvedimenti e quello di non dover subire l'obbligo di intermediazione nei rapporti ordinari con la burocrazia, oltre ai limiti massimi del prelievo fiscale e del carico burocratico, i limiti alle restrizioni legali della libertà personale e le particolari caratteristiche della custodia cautelare con esclusione del carcere ordinario. Vanno precisati i doveri di cittadinanza e tra questi il voto, la contribuzione fiscale, il rispetto e la cura della cosa pubblica, il rispetto delle leggi, contribuzioni solidali in caso di calamità nazionali e piccole quote di impegno solidale volontario che danno luogo al riconoscimento di meriti civili. Infine vanno posti severi limiti all'ingerenza, al peso ed al costo dello Stato e dei suoi apparati. Solo così si può rinverdire la coesione nazionale, necessaria per cambiare passo, per ritrovare le ragioni dello stare insieme, per condividere nuovamente un comune orizzonte, per essere comunità nazionale. Angelo Romano

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SCENARI

CITTADINANZA Negli ultimi duemila anni di storia dell'essere umano, la cittadinanza, in quanto concetto, ha avuto molte definizioni e, in conseguenza, ha dato luogo a modi difformi di sua realizzazione. Nell'antica Grecia nacque e si affermò con la polis, dove si era cittadini in quanto nati da genitori già cittadini, entrambi liberi, e si esercitavano i diritti civili, di norma, appena raggiunti i 20 anni, ma a determinate condizioni, ovvero se si aveva una proprietà fondiaria oppure se si raggiungeva un determinato censo, ecc. L'aspetto interessante fu che quando le città-stato greche avvertirono l'esigenza di federarsi, all'interno della federazione trasportarono la condizione di cittadinanza fino a determinarne due: quella federale e quella municipale. Così fu per la lega licia, la più vecchia tra le leghe greche, in alleanza addirittura con gli ittiti, contro gli egiziani del faraone Ramesse II nel 1274 a.C.; per la Lega Acarnana, nel VII secolo a.C., costituitasi all'indomani della guerra del Peloponneso, tra le città dell'Acarnania e Atene; per la lega beotica, formatasi tra l'VIII e il VII secolo a.C.: una lega che, all'epoca della spedizione di Serse contro la Grecia, nel 480 a.C., si schierò a fianco dei Persiani; per la lega achea, costituitasi tra le città del Peloponneso centro-settentrionale, tra il 280 e il 146 a.C. Ovunque lo status di cittadino era permanente: si perdeva solo per atimia, cioè la messa al bando, o per esilio. Nel diritto romano, la cittadinanza designava l'appartenenza alla civitas. Si diventava cittadino per nascita da padre cittadino, o, in assenza di giuste nozze, attraverso la nascita da madre, o per adozione da parte di padre cittadino, o per volontà collettiva di chi già possedeva la cittadinanza. Anche lo schiavo manomesso da un cittadino romano acquistava, con la libertà, la cittadinanza; erano, altresì, assimilati ai cittadini romani i cittadini legati a Roma da un foedus aequum, se però rinunciavano alla cittadinanza originaria. In particolare, nella Roma repubblicana soltanto i cittadini potevano esercitare il diritto di voto nelle assemblee popolari; porre in essere i negozi solenni previsti dallo ius civile; essere titolari della patria potestas e del dominium su cose e schiavi, con i relativi poteri di emancipazione; sottrarsi alla condanna a morte tramite esilio, ecc. La cittadinanza si perdeva, oltreché con la morte, per alienazione a estranei da parte di colui del quale l'individuo fosse in potestate, o per solenne esclusione, o per servitù da prigionia di guerra, o per migrazione in città legate da foedus aequum con rinuncia alla cittadinanza romana (esilio). In conseguenza dell'espansione territoriale di Roma, la cittadinanza fu estesa ad altre popolazioni: nell'89 a.C., a conclusione della cosiddetta guerra sociale, tanto animata da Caio


SCENARI

Mario e da Lucio Cornelio Silla, venne concessa a tutti gli uomini liberi dell'Italia e, nel 49, a.C. anche ai Transpadani. Nel 212 d.C., con la Constitutio Antoniniana, l'imperatore Caracalla concesse la cittadinanza a tutti gli uomini liberi dell'Impero, ponendo con ciò le premesse per un successivo declino della nozione di cittadinanza; un declino che si protrasse per tutto il Medioevo e per parte dell'età moderna, fino alla fine del 18° secolo. Quindi, come è storicamente riscontrabile, nelle varie epoche e nei diversi contesti, l'acquisizione della cittadinanza fu, quindi, una qualità ambita perché dal suo possesso derivava una serie di diritti: politici, civili, sociali ed economici. Solo l'impero romano cancellò tale ambizione facendone una sorta di diritto legato al luogo di nascita; quello che oggi chiameremmo ius soli, dove l'unica condizione richiesta era la "libertà" del cittadino. Nella sostanza, la cittadinanza, connessa alla sola condizione della libertà, fu privata da tutti gli altri "benefici" che essa aveva fino ad allora comportato, per realizzare una sorta di insignificante uguaglianza. L'evento che provò a ridare smalto al concetto di cittadinanza fu la Rivoluzione francese: alla figura del suddito si sostituì quella del citoyen, quale componente della nazione e depositario della sovranità. Tra la cittadinanza e l'esercizio dei diritti politici rimase, tuttavia, una discrasia, in quanto la titolarità dei secondi non era riconosciuta a tutti cittadini, ma solo ai più benestanti (citoyens actifs); discrasia che fu superata soltanto con l'affermazione storica del suffragio universale e del principio della sovranità popolare. Infatti, prima con l'introduzione della monarchia costituzionale, poi, nella stragrande maggioranza dei casi, con il venire meno della stessa figura del "Principe/Re", si cominciò a delineare, insieme al moderno concetto di repubblica, quello della sovranità popolare dove il popolo, sovrano appunto, ai fini della civile convivenza, decise di darsi delle regole configurando diritti e doveri, di dare vita ad istituzioni di rappresentanza attraverso lo strumento del suffragio, divenuto successivamente universale, di battere moneta. In sostanza e all'apparenza, una evoluzione incardinata sul trinomio rivoluzionario libertéegalité-fraternité. E' solo che, nelle democrazie moderne, ad una astrusa interpretazione della libertà, si è affiancato uno oscuro senso di eguaglianza, nella totale assenza di fraternità. Attualmente, se volessimo sintetizzare i concetti che caratterizzano la cittadinanza nell'ordinamento italiano, dovremmo inquadrarla nella condizione della persona fisica, il cittadino, al quale l'ordinamento di uno Stato riconosce la pienezza dei diritti civili e politici, tra i quali, ad esempio, il diritto di voto e la possibilità di ricoprire pubblici uffici. Essa, comunque, configura un rapporto giuridico tra cittadino e Stato e dà luogo a doveri a carico del cittadino stesso, tra i quali, ad ulteriore esempio, la fedeltà e l'obbligo di difendere lo Stato. La Costituzione italiana, nella prima parte, oltre a proclamare la titolarità di alcuni diritti e di alcuni doveri in capo ai cittadini, si occupa specificatamente della cittadinanza solo all'art. 22, stabilendo il principio per cui non si può essere privati di essa, così come del nome e della capacità giuridica, per motivi politici.

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In sostanza, la intende più come "nazionalità" e, analogamente, in tale modo la intende la legislazione ordinaria. Infatti, a farvi riferimento attraverso una legge del 1912 e un'altra del 1992 (si pensi alla distanza trascorsa tra il primo ed il secondo testo legislativo) per ciò che riguarda l'acquisto della cittadinanza/nazionalità, la legge del '92 fissa tre criteri fondamentali: il c.d. ius sanguinis, secondo cui è cittadino italiano chi nasce da uno o da entrambi i genitori italiani, principio accolto anche nella vecchia normativa; il c.d. ius soli, secondo il quale è cittadino italiano chi nasce nel territorio italiano, se i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non abbia acquistato la cittadinanza dei genitori in base alla legge del loro Stato; la volontà dell'interessato, secondo cui lo straniero o l'apolide può chiedere la cittadinanza, qualora si trovi in determinate condizioni, cioè rapporti di parentela con cittadini italiani, ovvero una residenza legale e ininterrotta nel territorio italiano per un non breve periodo di tempo (dieci anni nel caso dello straniero; cinque in quello dell'apolide), ovvero avere prestato servizio, anche all'estero, alle dipendenze dello Stato italiano. La legge del '92, inoltre, non solo ha rimosso la previsione secondo la quale perdeva la cittadinanza/nazionalità italiana la persona che aveva acquistato la cittadinanza anche in altro Stato, ma ha configurato l'ipotesi della doppia cittadinanza; un aspetto che ha portato a garantire l'esercizio del voto ai cittadini italiani residenti all'estero. Come si vede, siamo nel pieno concetto di "nazionalità". E non parliamo della cosiddetta cittadinanza europea, a completamento di quella nazionale, per la cui effimera delineazione sono stati coniati "diritti" e "doveri", in ogni caso pressoché tutti audacia temeraria igiene spirituale rinviabili agli ordinamenti nazionali, ad eccezione del diritto di tutela dell'autorità diplomatica e consolare di qualsivoglia Stato dell'Unione, in caso di permanenza in un Paese terzo, del diritto di petizione al Parlamento europeo e di quello di agibilità verso il Mediatore europeo. L'ultimo, precario, "diritto" del cosiddetto cittadino europeo dovrebbe essere quello della libera circolazione entro i confini dell'Unione ma, come sappiamo, non in tutti gli Stati membri si applica l'accordo di Schengen e, laddove si applica, la sua applicazione può essere temporaneamente revocata. A prima conclusione del ragionamento, perciò, nelle società attuali il quadro connesso alla cittadinanza è da un lato abbastanza confuso e dall'altro, per la stragrande maggioranza dei cittadini, sostanzialmente insignificante, nonostante esso continui a fondarsi sui evanescenti concetti di libertà e di uguaglianza, comunque tralasciando quelli meta-religiosi della fraternità. Invero, le moderne democrazie, nella loro accattivante delineazione letteraria, sono portate a concepire l'individuo libero e autosufficiente per natura. Ma ciò richiederebbe l'eliminazione di tutti i vincoli di dipendenza da poteri personali o sociali. Per questo, le democrazie moderne, prima ancora di qualificarsi con un regime politico, tendono a valorizzarsi inalberando la forza con la quale, al loro interno, liberamente si manifesta la domanda di riconoscimento dell'eguaglianza fra tutti gli uomini. Quello di cui sopra è un aspetto che la coscienza moderna avverte, tralasciando però altri


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fondamentali aspetti, a cominciare dalla sostituzione del legame sociale con il rapporto giuridico secondo il quale l'individuo può entrare in rapporto con gli altri soltanto tramite le leggi e il contratto giuridicamente sanzionato, sotto l'egida dell'inventato rappresentante della collettività, lo Stato, inteso come astratta autorità, come potere impersonale che detiene il monopolio legale della forza. Il diritto si pone, dunque, come il principio organizzativo per il quale i singoli individui entrano in rapporti reciproci; perciò, al di fuori di tali rapporti, gli individui stessi non possono che intrattenere relazioni sociali non significanti e non sanzionabili normativamente. Le società attuali, insomma, sono società giuridiche; società che si identificano con l'istituzione giuridica che pone i divieti e sanziona il vincolo dell'accordo delle volontà individuali. Ne consegue che l'individuo moderno può essere interamente libero solo a patto che eserciti la sua libertà come libertà giuridica, cioè come libertà di utilizzare in astratto tutte le norme giuridiche. Quello che, invece, gli è vietato è il potere di modificare le condizioni materiali dalle quali, all'atto pratico, dipende l'effetto concreto di quella utilizzazione che formalmente gli è assicurata. L'assurdo sostanziale sta nel fatto che, da una parte, la società appare solamente nella trama dei rapporti che si istituiscono mediante il diritto contrattuale; da un'altra parte, l'eguaglianza giuridica realizza la parità formale, ma lascia che si ri/producano le disparità economiche e sociali, perché queste sarebbero prodotte da rapporti privati, sprovvisti, in quanto tali, di rilevanza giuridica. L'eguaglianza moderna, infatti, riguarda gli individui considerati astrattamente e non già nelle loro determinazioni concrete e particolari. Questo vuol dire che l'eguaglianza di fronte alla legge non genera altrettanta eguaglianza davanti al potere di disporre dei mezzi necessari a produrre risorse materiali. Ora, sebbene questa "sistemazione" teorica sia stata funzionale all'occultamento della profonda contraddizione che divide la democrazia moderna tra l'aspirazione all'eguaglianza e il mantenimento di una costruzione sociale che produce continuamente diseguaglianze, è proprio l'eguaglianza formale a far emergere le diseguaglianze sostanziali, con la conseguente forte crisi dello "Stato di diritto". Non c'è, quindi, da stupirsi che il problema della cittadinanza, delle prerogative e dei contenuti che questa comporta, stia per esplodere, liberando tutte le sue tensioni le quali, per allentarsi, pretendono che la cittadinanza come effimera eguaglianza si tramuti in cittadinanza come partecipazione diretta alla formazione della volontà generale e, soprattutto, come titolo all'attribuzione di risorse e beni necessari alla ri/produzione di se stessi; in sostanza, il passaggio dalla cittadinanza politica a quella economica e sociale. Solamente una democrazia intesa come partecipazione all'elaborazione e alla scelta di fini condivisi, infatti, può restituire la giusta articolazione tra diritto e politica, tra diritto e giustizia sociale, rendendo così ragione ad un altro concetto fortemente vilipeso dalla "modernità": quello della sovranità del popolo. Se è vero che, in democrazia, il popolo non ubbidisce più a un re, è però altrettanto vero che, solo

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per un artifizio retorico, il popolo ubbidisce a se stesso ubbidendo alla legge. In realtà, il momento del popolo introduce nelle concatenazioni della sovranità l'autonomia della legge dello Stato. Lo Stato giustifica il suo principio nel "popolo" e, attraverso la legge, giustifica la sua autorità su di esso ma il "corpo" per la cui sovranità vive, se non è più quello del re, non è ancora quello dei cittadini. Formalmente, lo Stato traduce giuridicamente il popolo, ma quelli nei quali si materializza l'entità astratta del popolo sono gruppi ristretti, poteri privati, che espropriano di fatto il popolo di quella sovranità della quale è, invece, esclusivo detentore. Occorre, allora, far compiere un ulteriore passo avanti alla storia della sovranità, trovarne una nuova "figura" che dall'interesse di pochi divenga derivazione sostanziale della titolarità personale e patrimoniale di tutti i cittadini. Certamente, le difficoltà legate a un progetto del genere sono numerose ma più tempo passa e meno tempo resta per sottrarci da una dittatura sedicente democratica. Roberta Forte

audacia temeraria igiene spirituale


RIFORME

IL DIRITTO DI CAPIRE C'è un diritto scarsamente invocato e praticato eppure essenziale per la vita civile: il diritto di capire. Un cittadino è membro attivo e importante della comunità nazionale, è "socio" dell'azienda Italia, eppure gli viene negato il diritto di comprendere le ragioni delle scelte politiche, la "ragion di Stato", le motivazioni della burocrazia, finanche le scelte operate a livello locale. Spesso le leggi sono incomprensibili anche per gli addetti ai lavori, così come molti regolamenti redatti in "burocratichese" stretto, così per moltissimi provvedimenti, compresi quelli dell'autorità giudiziaria e del fisco. La situazione è degenerata al punto tale che alcune facoltà di giurisprudenza hanno dovuto introdurre cervellotici esami sull'ermeneutica delle leggi. Eppure la legge, qualunque legge o atto pubblico, visto che i destinatari sono i cittadini, dovrebbe sempre essere comprensibile da chiunque abbia frequentato, con profitto medio, la scuola dell'obbligo. La stessa oscurità la presentano, spesso, le decisioni degli enti locali, dalle delibere ai regolamenti di gara. Questa generalizzata prassi delle istituzioni e degli apparati nostrani che tendono ad occultare i loro margini di presunta discrezionalità dietro la cortina fumogena del linguaggio oscuro e che raramente si pongono, in buona fede, il problema della piena comprensibilità dei loro atti è indice certo dell'arretratezza civile del sistema pubblico e quindi della società italiana nel suo complesso. E' la furbizia elevata a sistema. Tale prassi stigmatizza anche il perdurare nel sistema di una cultura ottocentesca per la quale il cittadino era comunque prima di tutto suddito, non importava se del monarca o dello Stato. Ed il concetto di sudditanza lo si coglie all'opera in molti aspetti del rapporto autorità - cittadino. La genesi del premio alla furbizia purtroppo è in Costituzione. Si tratta dell'assenza di vincolo di mandato per i parlamentari. Questo odioso privilegio castale fa sì che, dietro il paravento della libertà di coscienza, un parlamentare, una volta eletto, possa legittimamente dimenticarsi di tutti gli impegni solenni presi con i suoi concittadini-elettori, possa cambiare partito a suo piacimento fregandosene del mandato ricevuto e dei programmi sottoscritti senza mai sentire l'obbligo, almeno verso la sua coscienza, di dimettersi preventivamente. La mancanza di vincolo di mandato si è estesa a macchia d'olio, ha contagiato gli altri poteri e, per capillarità, si è diffusa negli apparati pubblici.

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Il risultato è che nessuno risponde dei suoi atti e scelte: non un politico, non un ministro, non un giudice, non un burocrate, non un professore, e che i cittadini meno sanno, meno capiscono, e meglio è. Per porre un argine, per invertire la rotta, va sancito, per i cittadini, il diritto di capire, va introdotto tra i diritti civili inviolabili. Soltanto cosÏ si otterranno leggi chiare, nette, comprensibili da tutti e con scarsi margini di interpretabilità , solo con l'obbligo di farsi capire e di rendicontare gli apparati usciranno dal cono d'ombra che li avvolge, li protegge e li estrania dalle quotidiane cure dei cittadini. Pierre Kadosh


POLITICA/L’INTERVISTA

ALESSANDRO CAMPI

Alessandro Campi è professore associato di Storia delle dottrine politiche nell'Università di Perugia e direttore della "Rivista di Politica", trimestrale di studi e approfondimento politico e culturale. Si è occupato, nel tempo, dell'evoluzione storica del concetto di Nazione, delle trasformazioni che hanno interessato lo Stato e i partiti politici nel corso del Novecento e, infine, di temi ed autori riguardanti il mondo della destra italiana ed europea. Noto editorialista è autore di diversi volumi, tra i quali "Mussolini" edito da Il Mulino nel 2001, "Nazione" uscito per la stessa casa editrice nel 2004 e "La destra in cammino. Da Alleanza Nazionale al Popolo della Libertà" edito nel 2008 da Rubbettino. Nazione, cittadinanza e futuro dell'Unione europea sono i temi dell'intervista che il professor Campi ha rilasciato a Confini. Professor Campi, si discute ormai da qualche tempo della possibilità di concedere la cittadinanza ai figli di immigrati nati in Italia. Anche da destra, negli ultimi anni, è arrivata qualche apertura. E' possibile immaginare un graduale passaggio dallo ius sanguinis allo ius soli, legando quest'ultimo ad un ciclo di studi o al necessario apprendimento della lingua italiana? Mi sembra un passaggio divenuto ormai necessario e ineluttabile, anche se bisognerà definire con attenzione tempi e modalità di concessione della cittadinanza. La permanenza stabile su un territorio è ormai un criterio di definizione del proprio status di cittadino, in senso pienamente legale, che non può essere trascurato. Purché ovviamente si evitino le esagerazioni demagogiche di chi lega la cittadinanza al semplice fatto di nascere (magari casualmente) in un determinato luogo. Ma mi sembra che queste posizioni non abbiano, al di là dell'enfasi umanitaria che sembra accompagnarle, un grande seguito nemmeno negli ambienti della sinistra politico-culturale, almeno quella più avveduta e realistica. La vita dei cittadini e il diritto nazionale risultano sempre di più condizionati dalla legislazione europea. Al contempo circolano liberamente merci, cultura e persone, in particolare i più giovani che si spostano da un Paese all'altro per motivi di studio. In che modo è possibile vivificare la cittadinanza europea al fine di avvicinare sempre di più i cittadini alle istituzione europee? Sembrerà un paradosso ma si diventa cittadini europei nella misura in cui si è cittadini dei rispettivi Stati. E' un errore contrapporre identità europea e identità nazionale, come se la

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prima, in prospettiva, potesse surrogare o superare la seconda. Dal punto di vista storicoculturale e politico, l'Europa è indissociabile dalle nazioni e dagli Stati che la compongono e che l'hanno fatta nascere. Il disegno di un'Europa unita è nato, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, con l'idea di superare il nazionalismo (che di quella guerra era stato una delle cause scatenanti), non di negare le appartenenze nazionali. Che sono, ricordiamolo, il frutto di una sedimentazione storica secolare. E dunque tra l'essere italiani o francesi o irlandesi e l'essere, al tempo stesso, dei buoni europei non c'è alcuna contraddizione. Naturalmente sto parlando più di un sentimento dell'appartenenza collettiva che di una cittadinanza in senso meramente legale e formale. Ma sono convinto che solo la prima può dare un senso alla seconda. Non è dotandosi di un passaporto o di una carta d'identità targata Ue che diventeremo dei buoni cittadini europei. In questo momento, la debolezza dell'Europa, agli occhi delle persone, è di essere per l'appunto una costruzione giuridica e non uno spazio politicosimbolico nel quale ci si possa riconoscere pur nelle differenze che esistono e che, a mio giudizio, sono destinate a permanere, anche perché sono la ricchezza di questo continente. L'Europa senza le sue nazioni diverrebbe un'altra cosa. Di fronte all'avanzare dell' integrazione europea, che cosa ne sarà nel prossimo futuro degli Stati Nazionali? E in che modo evolverà il concetto di Nazione? Approfondisco ciò che ho accennato. L'ideale nazionale, per come si è storicamente sviluppato in Europa, è stata la base materiale, ma anche il perimetro simbolico e legale, all'interno dei quali si è potuta sviluppare la democrazia. La nazione, per dirla con Pierre Manent, è la forma politica della democrazia. Questo nesso democrazia-nazione non può essere dimenticato o sottovalutato. Coloro che parlano di una democrazia post-nazionale, coloro che auspicano un superamento delle appartenenze politiche di tipo nazionale, dovrebbe prima spiegarci che tipo di organizzazione politica hanno in animo di voler costruire, come immaginano che possa funzionare una democrazia che abbia come confine, non più gli Stati-nazione, ma l'Europa. Tornando al nostro Paese, la scarsa fiducia dei cittadini verso lo istituzioni e il carente senso civico minano la salute dello Stato nazionale. Come recuperare il rapporto cittadino-Stato? Di sicuro il senso dello Stato o dell'appartenenza ad una stessa comunità nazionale non si possono inculcare sulla base di una pedagogia dall'alto studiata a tavolino. E' stata la strategia del Presidente Ciampi, che durante il suo settennato cercò - peraltro meritoriamente - di rivitalizzare negli italiani il loro senso civile, unito a un certo orgoglio patriottico. Lo fece attraverso discorsi e atti simbolici: l'omaggio alla bandiera, grandi cerimonie laiche, celebrazioni collettive, la rivalutazione del Vittoriano come "casa degli italiani", il riconoscimento della partecipazione dei militari alla Resistenza, ecc. Ma visto come sono andate le cose, avendo dinnanzi un Paese che appare sempre più lacerato e diviso, poco solidale al suo interno, direi che quel generoso tentativo è stato fallimentare. Anche perché si basava, a mio


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giudizio, su un equivoco culturale: contrapponeva l'idea politica di nazione (giudicata implicitamente pericolosa) all'idea, tutta giocata in una chiave sentimentale e civica, di patria. Per ricostruire un rapporto virtuoso tra cittadino e Stato, più che atti simbolici che però vengono percepiti come artificiali e improntati ad un spirito pedagogico, servirebbe a mio giudizio una classe politica capace di comportarsi in modo virtuoso e responsabile nei confronti dei cittadini. La sfiducia verso lo Stato, fa il pari con il debole sentimento di appartenenza alla Nazione. C'è spazio per risvegliare un sano patriottismo repubblicano o siamo destinati a rimanere divisi da mille corporazioni e interessi contrapposti? Il patriottismo repubblicano, come viene definito nella domanda, implica, per cominciare, una comunità consapevole della propria storia e del proprio passato. Se non si conosce ciò che si ha alla spalle, difficile di può immaginare di avere un futuro comune. La mia impressione è che gli italiani, soprattutto le nuove generazioni, conoscano poco e male la storia del loro Paese, ivi comprese le sue pagine fondamentali. Serve, poi, lo ripeto, una classe politica che i cittadini possano rispettare, della quale possano fidarsi: ma in Italia non esiste nulla del genere da anni. Serve poi un lavoro di elaborazione culturale che vada nella direzione di un sentimento dell'appartenenza collettiva che possa dirsi condiviso e radicato. Ma anche su questo versante si registra un grande vuoto. Gli intellettuali italiani, esterofili a causa del loro intrinseco provincialismo, non sono più in grado di "pensare l'Italia", di trasmettere, nei rispettivi campi, un'immagine o visione del loro Paese. Se non si rispetta più nemmeno la lingua, che di una nazione è il principale vettore, un elemento identitario imprescindibile, come si può pensare di salvaguardare un qualunque senso dell'identità nazionale? La nostra Costituzione riconosce ad ogni cittadino il diritto al lavoro (articolo 4) e una retribuzione sufficiente ad assicurare un'esistenza libera e dignitosa (articolo 36). Viviamo in un'epoca segnata, al contrario, dalla mancanza di lavoro e da una forte crisi economica che spinge tanti cittadini verso la soglia di povertà. Il reddito di cittadinanza può rappresentare un valido strumento di inclusione sociale? Il lavoro non significa solo dotarsi dei mezzi necessari a condurre un'esistenza per quanto possibile nel segno della tranquillità e di un relativo benessere. Il lavoro conferisce agli uomini un'identità soggettiva e uno status a livello collettivo. Esserne privi, non apre solo lo spettro della povertà, ma produce frustrazione, un senso di impotenza, mancanza di fiducia in sé, perdita di soggettività. E' per questo che la nostra Costituzione riconosce il lavoro come un "diritto". Il problema è che quest'ultimo - specie in un contesto di crisi come quella odierna - non può più essere garantito nelle forme del passato, quando l'economia cresceva e il modello dello Stato assistenziale poteva fare leva su ampie risorse pubbliche. Il "reddito di cittadinanza" sarebbe auspicabile, ma dove trovare i soldi, specie con i livelli di disoccupazione giovanile che l'Italia ha raggiunto?

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POLITICA/L’INTERVISTA

L'unica strada mi sembra quella di potenziare tutti gli strumenti normativi che consentano un più facile inserimento dei giovani nel mondo del lavoro e delle professioni semplificando le procedure e concedendo sgravi e vantaggi alle imprese che assumono. Così come andrebbero incentivati tutti gli strumenti - legali, finanziari - che possano favorire la creazione di nuove attività economiche e d'impresa da parte dei giovani. Il voto è lo strumento per eccellenza in cui si concreta la cittadinanza attiva. Cresce, però, il fenomeno dell'astensionismo unitamente ad un forte disillusione verso la classe politica. La web-democrazia può essere utile a invertire questa tendenza, come molti ritengono? Non mi faccio grandi illusioni sul web e quindi sulla cosiddetta "democrazia elettronica". Tanto per cominciare ci sono ancora milioni di persone (la maggioranza direi) che sono estranei all'uso di certe tecnologie. Che magari le adoperano, ma non vanno oltre l'uso della posta elettronica. Coloro che fanno della rete un uso attivo e massiccio sono ancora una minoranza. C'è poi l'evidente rischio che la rete si presti a manipolazioni di vario tipo. I social network tanto enfatizzati sono in realtà controllati, nella circolazione delle informazioni, da coloro che li gestiscono e ne sono proprietari. Il mito dell'assoluta libertà di comunicazione è appunto tale. A facebook, per fare un esempio, basta modificare qualche algoritmo per selezionare o modificare (o magari censurare ed eliminare) i contenuti che circolano sulla sua piattaforma. Non dimentichiamo che in rete siamo tutti degli utenti, cioè dei potenziali clienti: non siamo, come qualcuno crede, i padroni della rete. Come se non bastasse, la partecipazione non può essere solo virtuale. La politica ha una dimensione fisica, corporale, carnale che certo non può essere sostituita da una votazione anonima on line o dal fatto di schiacciare ogni tanto un bottone, o dal mettere in rete la propria opinione su questo o su quello. Al di fuori di internet e dei social network, la voglia di partecipazione e di cittadinanza attiva presente in tanti cittadini può trovare sbocco in un grande progetto di big society? La Thatcher diceva polemicamente che non esiste una cosa chiamata società: esistono solo gli individui, singolarmente considerati. Mi sembra più corretta la posizione di David Cameron: gli individui, pur restando tali, quando interagiscono tra di loro, quando cooperano in vista di un fine comune (il che non impedisce il perseguimento del proprio tornaconto individuale) danno vita ad una realtà più grande che si chiama appunto società e che, a sua volta, è indipendente dalla sfera politico-istituzionale. Il problema, secondo me, sono coloro che enfatizzano da un lato gli individui (i liberali estremisti) o dall'altro lo Stato e la sfera pubblica (gli statalisti), come se in mezzo non ci fosse nulla. In mezzo invece c'è appunto una grande sfera vitale, dotata di una sua autonomia, che è appunto la società, che ha bisogno degli individui per poter agire, crescere e prosperare e ha bisogno dello Stato, non per farsi imporre dall'alto delle regole di condotta, ma per far sì che vengano rispettate da tutti quelle che spontaneamente ci si è dati. Giuseppe Farese


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IL CARROZZONE VA AVANTI DA SE’ Non c'è che dire: questo è il Paese dei poeti, dei santi e dei navigatori. Ha perso gli eroi ma, in compenso, ha acquistato comici. E mi spiace precisare che i soggetti in questione non sono né Beppe Grillo né, tantomeno, Berlusconi, come si potrebbe pensare. I personaggi esilaranti, al limite dello scompiscio, sono i politici in generale, insieme ai manager che ad essi rispondono; e la loro verve, le loro performance umoristiche e le loro ridicole imprese sono di livello così basso da porli ai primi posti della graduatoria per l'assegnazione dell'oscar del trash. Non si ferma l'ingannevole pubblicità televisiva: si va dall'Europa per informare non influenzare, all'Europa della quale si deve parlare; dalla sicurezza alimentare europea alla costruzione del Cantiere Europa. Beh! Dopo 56 anni di esistenza dell'Idea Europea, si potrebbe benignamente dire: non è mai troppo tardi. Un po' meno benigni, però, si dovrebbe essere nei confronti di quello spot che, relativo al risparmio energetico italiano (un quinto di consumi in meno entro il 2020), afferma essere stato attuato solo grazie agli impegni presi con l'Europa. Non sarebbero da cacciare quei dirigenti che solo per gli obblighi europei attuano politiche e pratiche di contenimento dei consumi? Ma il massimo è raggiunto da un altro spot, davvero unico nel suo genere. Per chi avesse voglia di dilettarsi: http://www.europarlamento24.eu/scegliere-chi-guidera-l-europa-lo-spot-delparlamento-europeo/0,1254,106_ART_6798,00.html. Uno spot, quello, messo in onda in 21 Stati tramite 90 emittenti, dove l'ectoplasma, quel Parlamento, come lo definiva Francesco Diacceto nel precedente numero, invita gli ignari elettori a votare per scegliere, si pensi, "chi guiderà l'Europa". Non ho la possibilità né la forza per rivolgere una domanda al Parlamento europeo, ovvero al suo Presidente, il tedesco socialista Martin Schulz; ma, se l'avessi, vorrei chiedere al beneficiato dal cavaliere, al soggetto posto in luce per essere stato sarcasticamente candidato al ruolo di kapò nell'ipotetica produzione cinematografica di Mediaset: egregio presidente, sia serio. Come può l'elettore europeo influenzare la scelta di chi guiderà l'Unione? Nel senso che il voto degli elettori determinerà certamente la composizione del futuro parlamento ma non è forse vero che lo stesso parlamento, sotto la sua presidenza, ha già operato perché la presumibile ondata delle truppe differentemente europeiste che approderanno da qui a breve a Bruxelles, vada a frangersi contro nuove barriere normative, concepite recentemente per l'evenienza, al fine di limitare fortemente, se non addirittura annullare, il potenziale di quella stessa onda?

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Come potrebbe, allora, il voto degli elettori nella prossima consultazione determinare veramente la guida dell'Unione? Ovviamente, non mi aspetto una risposta dal presidente Schulz, per cui gli formulo una seconda ipotetica domanda. Egregio presidente, non è forse vero che lei, dopo il Parlamento europeo, è candidato a presiedere la Commissione Esecutiva, il vero governo, la vera guida (si fa per dire) dell'Unione? E, perciò, come potrebbe l'elettore europeo favorirla o contrastarla in questa sua scalata, visto che il voto non ha alcuna attinenza con la formazione della Commissione stessa? La verità è che non può perché la riuscita o meno della sua scalata è data solo ed esclusivamente dalle contrattazioni compromissorie tra governi e tra partiti. Eppure, nonostante queste sacrosante, ineludibili, verità, l'ectoplasma da lei presieduto spreca il suo prezioso tempo per dedicarsi ad umoristiche gags. Non parlo di soldi perché sembra che lo spot abbia impiegato risorse finanziarie solo per la sua realizzazione mentre la sua messa in onda da parte delle 90 emittenti pare sia avvenuta a titolo gratuito; parlo di tempo che avrebbe potuto essere diversamente impiegato. Ed a proposito, comunque, di tempo e di soldi, capisco che l'imperiosa avanzata delle truppe antieuropeiste e differentemente europeiste impensierisca in ogni caso il management politico e burocratico di Bruxelles. Ma i diversi presidenti del Parlamento europeo che si sono succeduti nel tempo, e da ultimo lei, non avrebbero fatto cosa migliore nel cercare di intervenire sul Consiglio europeo, se non per ottenere maggiori poteri per lo stesso Parlamento, almeno per far cessare quella umoristica farsa mensile data dalla carovana che, a costi iperbolici, si sposta da Bruxelles, sede operativa, a Strasburgo, sede ufficiale, e viceversa? Ogni mese, oltre 700 casse in metallo (una per ogni singolo parlamentare), devono essere prese dagli uffici di Bruxelles, collocate su Tir e trasportate, per circa 500 Km, presso Strasburgo e là ricollocate fuori dalla porta dei rispettivi uffici. E, al seguito di quelle casse, altre casse date dalla documentazione amministrativa cartacea delle segreterie delle varie commissioni parlamentari di lavoro, degli uffici amministrativi, di quelli del personale, della presidenza, ecc. ecc. ecc. E, alle casse del Parlamento, si aggiungono quelle della Commissione Esecutiva e del Consiglio con gli stessi analoghi criteri. Qualcuno immagina i mirabolanti costi mensili di un'operazione del genere? Senza considerare le indennità di missione per migliaia di dipendenti dello stesso Parlamento e dei suoi Gruppi politici, della Commissione Esecutiva e del Consiglio. La necessità politica di accontentare la Francia nell'avere la sede legale del Parlamento (a distanza, comunque, di 5 Km dall'ex confine tedesco), funzionante solo cinque giorni al mese, e di porre, invece, la sede operativa nel cuore dell'Europa, a Bruxelles, vale i mirabolanti, tragicomici costi sopportati senza alcun senso? Non certamente per la comunità europea: per quell'insieme di persone, cioè, che finanziano le istituzioni comunitarie attraverso due principali gettiti: lo 0,73% del reddito nazionale lordo di ciascun paese membro (che rappresenta i due terzi del bilancio UE), e una percentuale della base imponibile armonizzata dell'imposta sul valore aggiunto (IVA) di ciascun paese dell'UE. Non mi sembra poco per un'Europa che fa ottusamente le pulci sulle ge-stioni economico-


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finanziarie dei Paesi membri e dissipa in futili giochetti mensili un'ingente somma. In riferimento allo spot, come potrebbe l'elettore far cessare una tale mostruosità? Semplicemente, non può. Ma l'ottusità europea non si arresta qui. Dalla legislatura ancora in corso, è entrato in funzione lo Statuto del parlamentare europeo che ha spostato il carico retributivo di ogni singolo onorevole dai rispettivi Ministeri del Tesoro nazionali al bilancio comunitario, livellando gli emolumenti. Il che potrebbe apparire come la realizzazione di un intento lodevolmente egualitario se non fosse per le storture che l'iniziativa comporta. Non parlo tanto della conseguente riduzione delle retribuzioni dei parlamentari tedeschi, francesi e italiani (fino a cinque anni fa, pari a quelle dei colleghi dei parlamenti nazionali e perciò sottoposti allo stesso trattamento fiscale). Né, in conseguenza, mi riferisco al fatto che un consigliere regionale italiano oggi percepisce una retribuzione doppia rispetto a quella di un parlamentare europeo. Ma si pensi per un attimo cosa ha determinato l'egualitarismo verso parlamentari, che so, rumeni, bulgari, polacchi, fino al giorno prima retribuiti con 2/2.500 euro e oggi con circa 7.000 (una retribuzione doppia rispetto a quella del loro presidente del consiglio). Inoltre, la stortura, già aberrante, diviene perversa. A parità di retribuzioni, infatti, si osservano i differenti regimi fiscali: per cui l'italiano sarà tassato per circa il 55%, il francese per circa il 45%, il tedesco per il 42% e così via fino ad arrivare agli irlandesi e ai rumeni o bulgari dove l'imposizione sarà attorno al 25%. Ovviamente, questo per chi dichiarerà il cespite, non essendoci alcun documento inviato agli Stati nazionali. Di contro, i dipendenti delle istituzioni comunitarie hanno retribuzioni tali che l'apice del livello C guadagna quanto un deputato; non parliamo dei livelli B e A. L'emolumento della dirigenza, infatti, arriva a superare i 22.000 euro al mese (più del triplo rispetto a quello del parlamentare europeo). Dal che, ancora una domanda: a fronte di tali fatti, l'Unione ha il coraggio di chiedere agli Stati membri ancora riforme del "mercato" del lavoro e una maggiore flessibilità? Da pazzi. E lo spot ha il coraggio di indurre al voto per "scegliere chi guiderà l'Europa". Da sbellicarsi. Premesso che ancora si ignora il programma del governo italiano, prossimo presidente semestrale alla guida del Consiglio europeo, da sganasciarsi dalle risate, in ogni caso, è la propaganda fatta dai candidati alle prossime consultazioni elettorali. Chi promette strenue battaglie per portare più Europa in Italia e chi per portare più Italia in Europa. Con questi chiari di luna, dice un vecchio adagio, sarà impossibile ma le promesse continuano allegramente. Chi garantisce di fare i conti con la sorda farraginosità europea e chi di impegnarsi per uniformarne le differenti politiche. Da non credere. C'è persino chi, per dare maggiore enfasi alle promesse, le esprime in inglese, un po' pressappochistico. Veramente spassoso. Mi chiedo cosa capiranno i suoi elettori, ma forse si è adeguato alla moda, ormai invalsa, degli Atenei italiani di fare corsi e svolgere esami esclusivamente in quella lingua. Una moda che, in una distorta interpretazione della modernità, si sta affermando a discapito

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dell'identità nazionale senza che nulla, ribadisco nulla, dall'Europa giunga per una valida, equipollente sostituzione; senza che nulla susciti un analogo senso di appartenenza. Finiremo per essere tutti apolidi, accomunati non dallo stesso tetto bensì dalla categoria di appartenenza: utente, consumatore, contribuente, cliente, malato, viaggiatore. Tutte categorie che hanno beneficiato di un manifesto di relativi diritti, sia a livello europeo che italiano. Ma, si domanda, non era più facile stendere un decalogo dei diritti relativi al cittadino che, nel loro alta portata, inglobassero quelli relativi alle svariate condizioni della sua vita? Bah! Valli a capire i comici. E' solo che di una tale comicità comincio ad averne abbastanza. L'altro giorno, stavo ragionando con un amico sul concetto di cittadinanza ed io mi ostinavo a legarlo, inopinatamente, ad ulteriori concetti quali l'amor di patria e l'orgoglio dell'appartenenza. L'amico, invece, molto più pragmaticamente, mi faceva notare che tali ulteriori concetti non c'entravano nulla perché la cittadinanza non è niente altro che, da un lato, la condizione della persona fisica alla quale l'ordinamento di uno Stato riconosce la pienezza dei diritti civili e politici, dall'altro, il rapporto giuridico tra lo stesso Stato e la persona medesima, detta, appunto, cittadino. Anzi, continuava l'amico, oggi è di moda scegliersi la cittadinanza, soprattutto in base alla convenienza. Niente a che vedere con gli emigranti italiani verso il Nord e il Sud America che, alla fine hanno deciso di divenire cittadini degli Stati ospitanti. E nemmeno con gli immigrati dai Paesi del Nord Africa verso l'Italia per i quali si discute dello ius soli. No. La convenienza, riservata oggi ai soli maggiorenti, è data dal più libero agire operativo, dalla minore imposizione fiscale, dalle location più organizzate, da norme più permissive. Bene: è vero che non sono mister Fiat e quindi non posso stabilire la sede operativa in Olanda e quella fiscale in Inghilterra, ma non mi dispiacerebbe, sul piano della qualità e del costo della vita, della tranquillità civile, dell'afflato sociale, del rispetto comune, stabilire la mia residenza, ad esempio, nella Repubblica di Cina, meglio conosciuta come Taiwan, e prendervi la cittadinanza. Chissà se è sufficientemente lontana dall'avanspettacolo che ci circonda. E' una provocazione? Bah! Pietro Angeleri


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IL REDDITO DI CITTADINANZA. TRA CULTURA E ISTINTO Sempre più spesso, da ultimo, studiosi del diritto del lavoro, sociologi e qualche filosofo evocano la comunità come aggregazione salvifica dai mali della nostra epoca: ad esempio, la prospettazione del cd. Welfare community come soluzione per la realizzazione non eccessivamente onerosa del III pilatro previdenziale. D'altro canto, però, politici, legislatori, imprenditori, economisti continuano indifferentemente a parlare di società, come forma di associazione umana, aggettivandola, umoristicamente, persino come civile. Da ultimo, in questa mai ravvisata discrasia tra il concetto di comunità e quello di società, si è inopinatamente innestata una proposizione che, pur possedendo oggettive ragioni politiche, economiche e sociali, manca di una base concettuale sulla quale poggiarsi: mi riferisco al reddito di cittadinanza. Non c'è dubbio alcuno che una moderna democrazia debba presupporre, e comunque richiedere, una partecipazione attiva del cittadino alla vita del Paese non solo sul piano politico e civile ma anche su quello sociale ed economico. Eppure, non è riscontrabile nella sfera economica una partecipazione della cittadinanza se non attraverso forme surrettizie: il sindacato, limitatamente ad alcuni piccoli brani, informazione e consultazione, e le amministrazioni politiche ai vari livelli, limitatamente alla soluzione di vertenze. Il reddito di cittadinanza, quindi, verrebbe parzialmente a compensare una carenza nella pratica della cittadinanza e, per conseguenza, nel vissuto della democrazia. Ma alla sua impostazione manca una base, un fondamento che, prima di essere filosofico, è antropologico e sociologico e rinvia alla necessità di definire significativamente l'associazione umana: comunità o società, dizioni apparentemente simili ma, in pratica, diametralmente opposte. Il processo lungo il quale si è venuto a costituire il mondo occidentale moderno, si è svolto secondo una tendenza che ha favorito la scelta societaria a danno di quella comunitaria. Non c'è, allora, da stupirsi troppo se nel tempo attuale, in cui si registra l'esistenza di comunità, seppure "involontarie", lo stesso termine comunità significhi, al massimo, un valore solamente evocatorio, inadeguato, tuttavia, per mettere veramente in forma un dato raggruppamento umano. E ciò perché il dominante "immaginario collettivo", costruito sui filoni portanti dell'utilitarismo e dell'individualismo, ha finito per rimuovere sia il significato originario di "comunità", sia quel concetto di philia, di amicizia, basilare per l'effettiva concretezza di una stessa comunità. L'idea di philia è un topos centrale del pensiero filosofico-politico classico, e sta ad indicare il

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vincolo che unisce due o più persone. È, dunque, un legame personale, un segno di affezione intima, ma è anche la trama della socialità politica, prerogativa peculiare della natura umana. Un'amicizia, nel secondo caso, che potremmo definire "civile" il cui criterio è il bene comune perché unendo tra loro gli individui, nel pubblico come nel privato, ne deriva stabilità, sicurezza e costanza nelle relazioni esistenziali. La società moderna, diversamente, si è fatta prendere da un modello di riferimento che prospetta la convivenza umana su quel particolare tipo di "amicizia utilitaristica", già conosciuto, ma stigmatizzato dal mondo classico, dove l'unico criterio discriminante dell'agire è rintracciabile nell'egoismo, nell'interesse personale; in ciò che, insomma, non attribuisce valore alcuno all'altro con il quale ci si trovi a vario titolo in rapporto. Così, è stata bandita quella "volontà naturale", che costituisce il principio di tutte le azioni che conferiscono all'esistenza unità autentica, facendo perdere ogni senso, intimo e profondo, al significato di comunità; un significato che, neppure a farlo apposta, deriva etimologicamente dal latino munus, "carica ufficiale", "dovere"; un termine a sua volta legato alla radice mei, la cui accezione è quella di "dare in cambio". Con munus si designavano, nei doveri del magistrato, gli spettacoli e i giochi. Colui che era nominato magistrato riceveva dalla sua carica vantaggi e onori, ma questo lo obbligava a sua volta a controprestazioni, sotto forma di spese, in particolare per gli spettacoli, che giustificano così questa "carica ufficiale" come "scambio". Se munus è un dono che obbliga a uno scambio, communis significa propriamente "chi ha in comune" dei munera. Ora, quando un tale sistema di compensazione è presente all'interno di una stessa cerchia, la risultante è una "comunità", un insieme di uomini uniti da un legame di reciprocità positiva. Per di più, il termine latino munus ha un parallelo in tedesco, gamains, "gemein", da cui deriva la Gemein-schaft, la comunità, in contrapposizione alla Gesell-schaft, la società: una distinzione molto ben strutturata dal grande sociologo tedesco Ferdinand Tönnies nella sua opera "Comunità e società", appunto. In sostanza, alla base della vera comunità si ritrova quel complesso meccanismo di doni che richiedono controdoni per attivare la dimensione comunitaria perché è proprio la circolarità del dono e del contro dono che da concretezza all'espressione e che etichetta le relazioni umane come comunitarie, insieme alla philia. Le cronache odierne, a prima vista, sembrano indicare che l'"evoluzione" sociale stia prefigurando un "ritorno alla comunità". Non può sfuggire, però, che dall'esame odierno abbiamo a che fare solo con farse di comunità: "comunità senza comunità" perché da esse ciò che latita è proprio quel nesso stretto di philia, dono e contro dono, che rappresentano la sola forza generatrice di vita "in comune". A prendere la questione da un altro verso, possiamo dire che le democrazie occidentali devono ancora fare tutti i conti con quella parte dimenticata del trinomio liberté-égalité-fraternité: la fraternità. Non si tratta di una "innocente" dimenticanza nella quale sono incappate le


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democrazie moderne quanto di una smemoratezza voluta perché, diversamente, l'evidenza del problema le avrebbe obbligate ad una svolta qualitativa, tanto nell'ambito politico quanto in quello individuale, in dirompente contrasto con i principi individualistici e utilitaristici, sui quali, come detto, si modulano le stesse democrazie moderne. Allora, per tornare al reddito di cittadinanza, esso acquisterebbe senso e ragione se l'attuale aggregazione sociale fosse strutturata come una vera, concreta, efficace comunità ma fintanto che i parametri della nostra aggregazione sociale fondano su formalità, su egoismi, su utilitarismi e razionalismi, parlare di reddito di cittadinanza significa evidenziare l'assenza di una democrazia economica; significa sottolineare l'errato senso di cittadinanza, comunque diverso da uguaglianza sostanziale; significa, in ultima analisi, fare una battaglia di retroguardia accontentandosi di prendere prigioniere delle pattuglie, dimenticando che una "guerra" è in corso e fregandosene di chi la vince. Significa, in estrema sintesi, ignorare che il problema, prima di essere politico ed economico, è, si potrebbe dire, culturale, se non fosse antropologico. Una precisazione è d'obbligo: è noto che la cultura, alla fin fine, non è altro che una sovrastruttura posta sui naturali istinti dell'essere umano. Ecco: qui si tratta di ricondurre l'essere umano verso quegli istinti che, prima di divenire culturalmente egoista, lo rendevano istintivamente comunitario. C'è una frase della grande opera di Tönnies che mi piace sottolineare: <<La teoria della società riguarda una costruzione artificiale, un aggregato di esseri umani che solo superficialmente assomiglia alla comunità, nella misura in cui anche in essa gli individui vivono pacificamente gli uni accanto agli altri. Però, mentre nella comunità gli esseri umani restano essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, nella società restano essenzialmente separati nonostante i fattori che li uniscono>>. E, fintanto che così sarà, il reddito di cittadinanza assomiglierà ad una boutade elettorale. Massimo Sergenti

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CITTADINO, QUINDI UOMO Nell'Italia dei primi decenni del 2000 la cittadinanza sta regredendo a fatto meramente burocratico, perdendo quella forza etica e politica che ne ha sostenuto il valore nei decenni del consolidamento della democrazia e dell'affermazione del welfare. Il legame tra promozione dei diritti di cittadinanza e processo di inclusione sociale risulta oggi innanzi tutto indebolito dalla crisi economica e dalla regressione morale e culturale che ne è conseguita. Prova ne sia, tra gli altri fenomeni, la scomparsa nel dibattito pubblico del tema relativo alla nuova cittadinanza e ai nuovi italiani. Un'Italia stremata non ha le risorse, sia economiche sia morali, per allargare (e rigenerare), il significato della cittadinanza nell'epoca delle migrazioni e delle frontiere abbattute dalla globalizzazione. E' il segno, certamente, di una crisi nazionale: lo Stato che non sa includere gli stranieri è lo stesso Stato che, contemporaneamente, sottrae progressivamente diritti agli italiani. Tale regressione è però anche il segno di una caduta più generale del valore della cittadinanza nelle stesse società occidentali che ne hanno rappresentato la storica culla. La figura del cittadino impallidisce ovunque, di pari passo con la ritirata del suo tradizionale luogo di affermazione: lo Stato nazionale. Il fenomeno cui abbiamo assistito negli ultimi due decenni contraddice infatti i teoremi delle più sofisticate filosofie del diritto. L'indebolimento della nazione, intesa come comunità politica, non ha portato all'affermazione di un nuovo e più evoluto concetto di cittadinanza (la "civitas maxima", cioè la cittadinanza cosmopolitica, di kelseniana memoria), ma alla scarnificazione del "cittadino" stesso in favore dell'"uomo". Sembrerebbe una conquista morale. Si tratta in realtà di un passo indietro, giacché l'evoluzione sociale (e le conquiste democratiche) della seconda metà del Novecento hanno imposto i diritti del cittadino come forma massima di tutela dei diritti dell'uomo. Tale mutamento di paradigma è ben rappresentanto, tra le altre, dalle tesi di uno dei pensatori liberal oggi più in voga: Michael Walzer. "Stiamo vivendo il processo di svalutazione della cittadinanza per il bene dell'umanità": questa perentoria affermazione il filosofo americano l'ha espressa in una conferenza tenuta recentemente in Italia (il cui testo è stato anticipato da "la Repubblica"). Tale proclamazione è tutt'altro che innocua. L'afflato umanitario si converte infatti nella visione di un inesorabile atomismo sociale: "Se non ci sentiamo intimamente connessi agli altri abitanti del nostro paese, se non abbiamo in comune storia, religione e così via, se pensiamo a noi stessi come a una serie sartriana di individui scollegati tra loro - se tutto ciò è vero, chi mai sosterrà politicamente il welfare state o sarà disposto a pagare le tasse di cui esso necessita?".


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Il sapore amaro del divorzio tra i diritti dell'uomo e i diritti del cittadino proclamati a suo tempo dalla Rivoluzione francese è indorato dalla motivazione etica dell'emergenza profughi. Questo mutamento epocale sarebbe infatti giustificato dalla "migrazione su vasta scala di profughi disperati e di uomini e donne alla ricerca di una vita migliore, immigrati legali e illegali". Va da sé che tale demolizione della cittadinanza, oltre che frettolosa, è anche sospetta: se il cittadino consapevole dei propri diritti cede il posto al migrante disperato, se l"antropologia" emergente nella società globale è quella connessa al diritto elementare alla sopravvivenza, ne consegue che il neocapitalismo trionfante potrà contare su una forza lavoro sempre più a buon mercato. Ma il punto che ora va messo in risalto è la perfetta specularità di tali posizioni con le suggestioni e i rancori del populismo, del razzismo e della xenofobia montanti in Europa. Il valore universale della cittadinanza non è in questo caso svalutato dall'"umanità" ma dall' "etnia". La risposta a tale processo di degenerazione culturale, ideale e morale non può che essere la riaffermazione della cittadinanza su basi sovra-nazionali, basi che non negano, facendolo evolvere, il concetto stesso di cittadinanza nazionale. All'utopia della "civitas maxima", come anche, su un altro versante, al mito del sangue e del suolo, va contrapposto l'ideale della cittadinanza europea. E deve essere chiaro che il concetto di sovranazionalità è opposto a quello di globalità. Se il primo richiama l'idea di un più largo spazio storico, politico e geografico, il secondo è la negazione di ogni spazio in favore di un luogo piatto e virtuale. Certo, dalla crisi della cittadinanza in Italia si può solo uscire con uno Stato (nazionale) che torni ad essere inclusivo. Ma gli orizzonti ideali, sia delle classi dirigenti sia dell'opinione pubblica, devono essere decisamente più vasti di quanto risultano oggi, in questo tempo di caduta morale e politica. Aldo Di Lello

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LEGA 2.0: LA METAMORFOSI Cos'hanno in comune un cappio e una spigola? Pressappoco venti anni di leghismo padano. E' il tempo che corre tra la minaccia del cappio fatto oscillare, nel 1993 nell'aula della Camera dei Deputati, dall'onorevole Luca Leoni Orsenigo contro i "corrotti della Prima Repubblica", e l' esibizione della spigola, agitata di recente nella stessa aula, dagli stessi banchi parlamentari da un altro onorevole leghista: Gianluca Buonanno, in segno di invito alla "lobby dell'accoglienza" a preoccuparsi dei nostri poveri piuttosto che degli immigrati clandestini che la "pasdaran" Boldrini vorrebbe ospitare negli alberghi a 5 stelle. Tra questi due atti, ugualmente provocatori, prende corpo il segmento più importante della storia della Lega Nord che incrocia l'altra storia, quella della cosiddetta "Seconda Repubblica", riflettendone specularmente luci e ombre. Ma quanto ha inciso, nella vita del Paese, la presenza della Lega? Non vi è dubbio che il partito abbia incarnato un modello politico molto dinamico. La Lega, nel corso del tempo, ha cambiato più volte pelle, modificando le parole d'ordine e adattando gli schemi operativi alle convenienze della contingenza. La sua governance si è distinta per la spiccata attitudine al posizionamento tattico, peccando nella capacità di definire un orizzonte strategico solido al quale vocare il progetto politico. L'unica eccezione di rilievo è stata, nei primi anni Novanta, la partecipazione al movimento di Gianfranco Miglio, intellettuale di razza dalla vista lunga. La sua presenza in campo ha fatto compiere alla Lega un importante passo avanti trasformando l'espressione di un generico, quanto confuso, secessionismo "padano", nell'individuazione di un processo consensuale di destrutturazione dello Stato centrale. Per Miglio la fonte metagiuridica che legittima la mutazione dell'entità centrale, prima indivisibile, in tre macroaree territoriali è il "foedus", il patto. Più attori territoriali si accordano affinché, una volta ricomposte sulla base di autonome regolazioni normative le articolazioni macroregionali, si concorra di comune accordo a formare un'entità statuale sovraordinata di tipo federale, dotata di specifici poteri sovrani. Prende corpo, nell'orizzonte politica del movimento, un progetto che consente d'individuare con certezza il perimetro della nuova proiezione statuale immaginata dai leghisti, la cui scaturigine è di fonte pattizia e non più violenta. L'immagine della "Padania" si riconfigura nello schema della macroregione del Nord che copre la parte settentrionale del Paese da Ovest a Est. Miglio è un seguace ideale di Carlo Cattaneo. Nel suo progetto si materializza la separazione del concetto di Stato da quello di nazione. Uno stato federale, per Miglio, può contenere e assorbire differenti identità nazionali: da quella padana a quella dell'Etruria, alla civiltà mediterranea. Tuttavia, egli è anche seguace di Carl


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Schimitt per cui, nella sua ricostruzione del vertice federale non fa mancare la presenza del fattore "decisionista" tra gli elementi caratterizzanti la "testa" del nuovo soggetto istituzionale. L'apporto di pensiero di Miglio alla Lega consente a quest'ultima di concedersi a una visione del destino della propria missione altamente motivante per dirigenti, iscritti e simpatizzanti del movimento. Inoltre, la sua intuizione possiede il dono, non frequente in politica, di costituire un progetto organico concretamente applicabile. La presenza all'interno del partito, però, è stata troppo breve perché le sue idee potessero sedimentare nella base dei militanti e nei quadri dirigenti quel senso di profondità della prospettiva strategica orientata a costruire un'egenonia non più di classe, ma di popolo e territorio. Il rapporto dell'intellettuale con Bossi e i suoi s'interrompe bruscamente nel '94 per insanabili contrasti con la leadership che accettava, sbagliando secondo Miglio, l'alleanza elettorale con Forza Italia, movimento politico portatore di valori distanti da quelli leghisti. Comunque, andando indietro con lo sguardo, è possibile individuare almeno due grandi fasi che tagliano di netto la vicenda leghista, incidendo nella sua natura fondamentale. Si può distinguere una prima fase, classificabile come "movimentista" da una successiva, che si produce per partenogenesi, propriamente di incardinamento nella logica di regime. La scissura tra i due "momenti" potrebbe essere collocata all'inzio di questo millennio. Fino alla fine degli anni Novanta, la Lega non si discosta dallo spirito delle origini di cui, seppure con qualche incertezza e non poche contraddizioni, mantiene integre le motivazioni e gli obiettivi di fondo della proposta politica. Con il successo elettorale, a fianco dell'alleato Berlusconi, nella primavera del 2001, si assiste a un graduale processo diigiene calcificazione della struttura-partito. Da soggetto collettivo di audacia temeraria spirituale contrasto al sistema, caratterizzante la fase movimentista e iconoclasta di "Roma ladrona!", si trasforma in forza organica alle meccaniche di potere dei ceti dominanti. La differenza netta tra i "due momenti" è rilevabile anche ad occhio nudo. La prima fase si caratterizza per gli slogan di protesta-limite contro il potere "romano". Gli anni Novanta sono quelli segnati dall'ostensione della "canottiera di Bossi", immagine simbolo e di culto per marcare una diversità ontologica del leghismo dal "politically correct". Sono anche gli anni delle battaglie, come quella contro il finanziamento ai partiti, che generano una nuova etica pubblica padana, della quale prima non si aveva contezza. Conclusa la parentesi Miglio, la Lega ritorna ai suoi argomenti totemici: la secessione da Roma e l'indipendentismo padano. Viene archiviata con estrema rapidità la parentesi di governo del Primo gabinetto Berlusconi. Alla fine essa si rivelerà per ciò che è stata nella realtà: un' esperienza vissuta con disagio da un movimento acerbo, perchè non compresa nelle sue valenze prospettiche e, dunque, abortita prematuramente. Per marcare il preteso divario ontologico che separerebbe la Lega dal resto della politica convenzionale, il movimento si dota, negli anni Novanta, di un impianto simbologico-iniziatico che vorrebbe richiamare, all'immaginario collettivo delle proprie "genti", pulsioni ancestrali. Il corpo fisico del capo richiama la natura virile del movimento, fecondatrice della sottostante società civile. La bandiera con il "Sole delle Alpi" rimanda ai miti della tradizione polare sulla centralità dell'astro più luminoso. Nasce la festa dei Popoli Padani con il rito dell'ampolla

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contenente l'acqua del "sacro Po". Si tratta di suggestioni di origini pagane, funzionali a connettere il vissuto storico della Lega a un mitico passato celtico. L'obiettivo è una riscrittura della mappa genetica del popolo di cui il movimento politico incarnerebbe soltanto una temporanea espressione. S'identifica nell'epifania delle "camicie verdi" la ricomposizione identitaria di una immaginifica "nazione padana". Si tratteggia un abbozzo di estetica leghista che vorrebbe essere un prodromo nella riconfigurazione su basi razziali del fenotipo padano. Si organizzano concorsi di bellezza per eleggere "Miss Padania", dove la forzata ricerca del riconoscimento "in natura" di un profilo ideale di femminilità autoctona incrocia la causa della pretesa di un fondamento etnico alla proclamata "diversità" del nord rispetto al resto d'Italia. Anche la scelta dell'inno personifica lo spirito fondante il pensiero leghista. Durante le adunate, nei luoghi della storia dell'indipendentismo del Nord come Pontida, si intona in coro il "Va pensiero" verdiano. Poco conta che nell'opera lirica, da cui l'armonia è tratta, si parli di Ebrei che dalla cattività babilonese invocano la patria lontana. Non importa che si canti "Del Giordano le rive saluta, Di Sionne le torri atterrate..." Ai leghisti stanziali sta bene così, anche di invocare una patria lontana che in realtà è sotto i loro stessi piedi. Tra "celodurismo" di ritorno e atmosfere simil-vagneriane tramonta il secolo e con esso tramonta la Lega di lotta e di protesta. La seconda fase della Lega Nord, quella di regime, si apre con il nuovo millennio e reca i simboli e gli status della partecipazione al governo del Paese. Non ci sono più "barbari" nell'orizzonte leghista. Solo una sequenza di ordinati amministratori in "doppiopetto" e di colletti bianchi inamidati. E' il momento di entrare nei consigli di amministrazione delle banche, soprattutto del Nord, e delle grandi aziende della mano pubblica. Gli elmi con le corna, della fase "sturm und drang", casoe?la e polenta, del periodo romantico della Lega, vengono accuratamente collocati nel fondo del baule dei ricordi. La vittoria berlusconiana consente anche ai leghisti una messe di poltrone e di posti di sottogoverno solo sfiorati nella precedente fulminea esperienza di potere del '94. In fondo, si potrebbe azzardare che si tratti di un ripresa parziale del pensiero di Miglio, ad uso di un novello utilitarismo della classe dirigente leghista, divenuta nel frattempo più dialogante con l'odiato "sistema". Ne è prova lo Statuto federale approvato nel 2002 nel quale la categoria concettuale del secessionismo permane, sebbene in una dimensione escatologica, metastorica, di un "altrove" la cui esplorazione è ammessa, però non è all'ordine del giorno, anzi è rinviata "sine die". In realtà nel programma trova spazio un più concreto progetto federalista di tipo funzionale, declinato nella forma della "devolution". La strada del decentramento di alcune competenze dal centro alla periferia era stata aperta, in precedenza, dalla maldestra manovra del centro-sinistra culminata con l'approvazione, in coda alla XIII legislatura, di una modifica costituzionale. L'affrettata riforma, per infime ragioni di consenso elettorale, proponendosi lo scopo di aumentare le competenze esclusive regionali, di fatto ha contribuito a far crescere esponenzialmente il disordine istituzionale nei rapporti tra Stato e nuovi centri di governo periferico del territorio. E' con la riforma costituzionale, ispirata da Umberto Bossi e approvata nel novembre del 2005, che l'approccio federalista prende forma compiuta nell'architettura istituzionale dello Stato. L'idea-simbolo della trasformazione è consegnata alla Storia mediante


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la mutazione della "Camera Alta" del Parlamento in Senato federale. Purtroppo, la sconfitta elettorale del 2006, anticipando di poco il referendum confermativo della legge costituzionale, approvata senza la maggioranza dei due terzi del Parlamento, infrange il sogno leghista. Gli italiani, non comprendendo l'importanza epocale della scelta, disertano le urne. Cosicché uno striminzito 31% degli aventi diritto pone un NO sulla scheda referendaria e una pietra tombale sul cambiamento. La Lega degli anni "Duemila", ha mutato ancora una volta il piano tattico. In positivo, non persegue più l'obiettivo della separazione per sottrazione di territorio allo Stato centrale, piuttosto sceglie la strada della immedesimazione in un paradigma. La Lega punta, attraverso i suoi esponenti più rappresentativi, a farsi modello nazionale di buon governo riproponendo specularmente lo schema di buona amministrazione dei territori. La significativa diversità del movimento rispetto al resto degli alleati sta proprio nell'aver curato, negli anni, la crescita di una classe di nuovi amministratori pubblici, per lo più giovani, preparati e nient'affatto rozzi come certe manifestazioni folkloriche dei primi tempi tendevano a rappresentarli. Anche in questo caso i simboli estetici aiutano a interpretare il cambiamento. Le appariscenti camicie verdi lasciano il posto, nella frequentazione parlamentare e istituzionale, alle più discrete cravatte verdi e alle "Pochette"in tinta a tono. Nel cosiddetto decennio berlusconiano, durante il quale il governo è stato nelle mani del leader di Forza Italia, tranne che per la parentesi, nel 2006-2008, della sciagurata "Unione" di Romano Prodi, le performance dei ministri leghisti sono sostanzialmente positive. Probabilmente colui che resterà, più di ogni altro, nei cuori e nella memoria del popolo dei garantisti sarà il "duro" Roberto Castelli che, da Ministro della Giustizia, riesce a varare la più importante riforma del sistema giudiziario che la Repubblica avesse conosciuto. La normativa precedente, infatti, sopravviveva dal gennaio del 1941. La nuova legge reca un tratto rivoluzionario nella violazione del tabù dell'intangibilità della funzione giurisdizionale. La novità è data dall'introduzione del principio di separazione delle funzioni tra magistratura inquirente e giudicante. Il leghista Castelli osa fare ciò che a nessun altro libertario riformista era riuscito. Lo scossone per l'ordine giudiziario è così forte che, il successivo governo di centro-sinistra appena insediato nel 2006, provvede, con un d.d.l. del nuovo ministro della Giustizia Clemente Mastella, a far cancellare dal Parlamento l'impianto della riforma "Castelli" per tornare in tempi record allo spirito del precedente regime normativo. Quello del '41. A disdoro di Prodi e di tutti i suoi accoliti va detto che l'abrogazione della legge "Castelli" costituisce la prova regina, la "pistola fumante", nel processo di accertamento della subalternità totale della sinistra ai diktat della corporazione dei magistrati. Nel Gabinetto che si insedia all'apertura della XVI legislatura, la guida del Ministero dell'Interno viene affidata all'altra punta del Movimento: Roberto Maroni. Il giudizio positivo sul suo operato è abbastanza diffuso. La lotta alla criminalità organizzata, per Maroni, diviene una priorità dell'azione di governo. C'è anche il contrasto alla piaga dell'immigrazione clandestina. La Lega di governo si appropria dei temi della legalità e della difesa dei confini nazionali per farne due

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proprie bandiere ideologiche. La fede assoluta nel conseguimento della trasformazione in senso federalista dello Stato, diviene, nella retorica leghista, la ragione utilitaristica della permanenza al governo, nonostante la sconfitta della riforma costituzionale del 2005. In realtà, dietro la volontà di restare all'interno delle logiche del potere si nasconde l'interesse prevalente ad avere il sostegno degli alleati, in particolare di Forza Italia, per continuare ad amministrare un buon numero di territori del nord. La vocazione maggioritaria del Partito delle origini, invece, si rivela una crudele utopia per le ambizioni dei "duri e puri" riuniti sotto l'effigie di Alberto da Giussano. Tuttavia, la Lega dovrà attendere le elezioni regionali del 2010, cioè nella fase terminale del decennio berlusconiano, per avere due suoi esponenti, Cota e Zaia, alla guida, rispettivamente, del Piemonte e del Veneto. A costoro si aggiungerà, nel 2013, anche Roberto Maroni, eletto al vertice di "Regione Lombardia". Nonostante gli esiti sventurati dell'esperienza di governo del centro-destra, la Lega trae il suo utile politico nel vedersi alla guida di quelle realtà che avrebbero dovuto costituire l'asse portante della macroregione del nord, pensata da Gianfranco Miglio. Non vi è dubbio alcuno che il movimento leghista abbia beneficiato della disponibilità prestata, oltre ogni misura, dal leader del centro-destra, Berlusconi. Quest'ultimo, a sua volta, ha assecondato il consolidarsi di uno schema tattico in base al quale alla meno diffusa articolazione di Forza Italia al Nord avrebbe fatto da contrappeso l'azione capillare del movimento leghista. A compensare il costo della minore incidenza locale del più grande partito della coalizione, che ritagliava per se il ruolo di movimento vasto d'opinione, si conteggiava la totale devozione alla leadership personale di Berlusconi, in ambito governativo e parlamentare, dei rappresentanti della Lega-Nord. Non si andrebbe lontani dalla verità se si affermasse che il patto politico che ha cementato la coalizione di governo del centro-destra non fosse tra Forza Italia e Lega, bensì tra Berlusconi e Bossi. Il mitico "asse del Nord" traeva legittimazione dalla solidità di un rapporto personale, intimo, rafforzatosi negli anni, tra due uomini che dopo molto tempo si erano intesi e avevano deciso di mettere a disposizione della causa comune i rispettivi "carismi", per fare qualcosa nella quale nessun altro avrebbe potuto mettere becco. Della solidità granitica di questa unione se ne resero ben presto conto, a loro spese, sia Casini sia, due anno dopo, Gianfranco Fini. A prescindere dal dato umano del rapporto personalissimo tra i due leader, ciò che interviene a sostenere la qualità e la resistenza del "progetto settentrionale" è la presenza unificante, nel ruolo chiave di uomo-cerniera tra i due progetti politici, di Giulio Tremonti. Ma questa è un'altra storia. La vita della Lega Nord degli anni duemila incrocia la vicenda umana di Bossi e della malattia debilitante che lo colpisce nel marzo del 2004. Il fatto che il leader carismatico sia stato colpito nell'integrità del corpo fisico non è questione secondaria. Nei primi anni del cammino leghista, la mimica del capo, i suoi gesti duri, a volte violenti, mirati a rappresentare un machismo radicato nel retroterra valoriale del movimento, avevano fatto da sfondo al suo progetto politico. Era, quindi, inevitabile che si ricorresse anche alla "mistica" del corpo fisico del leader per spiegare il fenomeno leghista. Per i militanti valeva quel meccanismo di immedesimazione in un Bossi "ipostatizzato", che avrebbe segnato un modo nuovo, diverso rispetto al passato, già da


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"seconda repubblica", di intendere e interpretare la costruzione della rappresentanza democratica. Il corpo vulnerato, invece, reca lo stigma della sofferenza dell'uomo che si fonde con il sentire del suo popolo in un rapporto esclusivo, non scalfibile dalla volontà o dai calcoli di convenienza degli altri esponenti di contorno della dirigenza leghista. Maroni, Calderoli, Castelli e compagni non avrebbero neanche lontanamente pensato di liquidare il capo con un putsch, come invece avevano fatto nel maggio del 1988, senza alcun imbarazzo morale, i giovani comunisti Occhetto, D'Alema e Veltroni, "dimissionando" dalla segreteria del Partito Comunista Italiano il debole Alessandro Natta, direttamente dalla stanza dell'ospedale in cui era ricoverato per un lieve infarto. La base gli si sarebbe rivoltata contro. Tuttavia, la necessità di conservare integra l'immagine sacrale del capo reca una pesante controindicazione: essa attiva, sulla lunga distanza, un meccanismo distruttivo del fattore carismatico. Cosa accade? Viene steso un cordone di sicurezza intorno al leader per proteggerlo, almeno negli intendimenti iniziali, dagli eccessi della lotta politica. Il filtro posto alla comunicazione diretta tra il capo e la base diventa lo strumento mediante il quale condizionarne la volontà. La vulgata mediatica, per eccitare l'immaginario dell'opinione pubblica, definisce "cerchio magico" l'insieme di persone, familiari e amici, che gestisce di fatto la vita pubblica, e privata, di Bossi. L'azione nefasta che questo gruppo avrebbe esercitato sul leader, a cominciare dagli anni dell'opposizione al secondo governo Prodi, farà capolino in tutte le analisi sul crollo di consensi alla Lega. Inoltre, il teorema del "cerchio magico" insediato nella cabina di comando alle spalle di un Bossi "marionetta" servirà, nella fase di elaborazione della sconfitta, ai contendenti interni per scarirare le responsabilità complessive del fallimento dell'azione politica del partito sulle spalle di un solo facile capro espiatorio, sebbene questo ne abbia dato ampio motivo. Sarà un bel modo di nascondere tutta la polvere sotto il tappeto. La brusca interruzione dell'esperienza del governo Berlusconi, nel 2011, si ripercuote inevitabilmente sugli assetti interni della Lega. In realtà, l'eclissi della leadership bossiana trae origine dal mancato conseguimento dell'obiettivo primario che il movimento si era dato all'indomani della cancellazione della riforma costituzionale dello Stato in senso federalista. Non potendo contare su una rapida trasformazione dell'architettura istituzionale, la dirigenza leghista si era indirizzata verso la battaglia per la redistribuzione delle risorse di finanza pubblica sulla base dell'effettivo gettito fiscale prodotto dai territori. Dopo lo smacco del 2006 erano state riformulate anche le parole d'ordine del movimento a sostegno della nuova correzione tattica. "I nostri soldi a casa nostra", "Padroni a casa nostra", sono alcuni degli slogan che accompagnano il tentativo di revisione della fiscalità in senso federalista. Gli uomini della Lega al governo, nell'intento di approdare a una riforma condivisa, si convincono della necessità di rallentare l'iter del processo normativo per ricercare l'accordo con le forze di opposizione. In effetti, il tentativo ha successo. Vi è la condivisione bipartisan della legge delega n.42/2009 (voto favorevole della coalizione di maggioranza, astensione del PD, voto contrario dell'UDC). La legge assegna al Governo il compito di emanare "entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore", cioè entro il 21 maggio 2011, "uno o più decreti legislativi" (art. 2 c.1) per dare attuazione all'art. 119

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della Costituzione, oltre a concedere due anni di tempo per l'adozione di decreti legislativi correttivi e integrativi. Fissata la cornice, toccava all'esecutivo collocare i contenuti. Cosa che nel tempo trascorso fino al novembre del 2011 è stato parzialmente fatto. Ma non è bastato. La caduta del governo Berlusconi, sostituito, grazie a un colpo di mano dei "poteri forti" nostrani ed europei, dal "commissario" Monti, congela il processo di superamento del sistema di finanza derivata correlato a una maggiore autonomia di entrata e di spesa degli enti decentrati. Questa è la ragione principale che innesca la crisi della Lega e della sua leadership. Le inchieste giudiziarie porteranno, soltanto dopo, a scoprire la "mala gestio" dei fondi accumulati dalla Lega Nord grazie al sistema dei rimborsi elettorali. Tuttavia, gli investimenti in Tanzania, fatti del tesoriere del partito, i soldi intascati dal "Trota", figlio ed erede politico del capo assoluto, i diamanti di Rosy Mauro e il potere d'interdizione di Belsito e degli adepti del "cerchio magico", asserragliati nel bunker di Via Bellerio, a prescindere dalla loro rilevanza penale, restano pur sempre meri sintomi della crisi e, in alcun modo, possono essere confusi con le cause reali del tracollo. Nella tornata del febbraio 2013, la Lega dimezza il proprio consenso rispetto alla precedente elezione del 2008. I dati sono drammatici. Solo alla Camera perde 1.634.366 voti, scendendo in percentuale dal 8,30 del 2008 al 4,08 del 2013. Neanche la separazione da Forza Italia e la decisione di essere all'opposizione del governo Monti, restituiscono credibilità e consenso al partito che già non è più di Bossi. Dopo la caduta del governo Berlusconi e lo scoppio dello scandalo sulla gestione dei fondi, la seconda punta, Roberto Maroni, rompe gli indugi provocando un'escalation interna al partito che determinerà, nell'aprile del 2012, le dimissioni del capo storico dalla segreteria federale. Dopo una breve transizione gestita da un triumvirato, al congresso federale del 30 giugno-1 luglio 2012 Maroni diviene segretario federale, chiedendo la fiducia ai militanti su un programma di rigoroso riassetto morale delle strutture interne. La svolta proposta dallo storico alter ego di Bossi punta sul rinnovamento totale della classe dirigente del partito. Maroni, intanto, ha creato un gruppo organizzato per affrontare la sfida congressuale contro la vecchia guardia determinata a resistere. La corrente è denominata "i barbari sognanti". Non si tratta di lapsus freudiano. E' il tentativo, in realtà molto debole, di invocare una palingenesi che restituisca il movimento agli ideali delle origini. Tradotta, l'espressione suona pressappoco così: "Giovani non inquadrabili negli schemi convenzionali della politica che hanno voglia di affidarsi a un'utopia". Quale? "l'indipendenza del Nord", è chiaro! Il fatto è che Maroni non ha il carattere carismatico del suo amico e sodale Umberto Bossi. E' uomo di mediazione più che di rottura. Inoltre, per quanto sia persona perbene, universalmente stimata, non può spacciarsi per il nuovo che avanza. Trent'anni di vita, e oltre, spesi a fianco del capo, non possono essere dimenticati. Nella vena giustizialista del popolo leghista riecheggia l'ambigua teoria del: " Non poteva non sapere". Per questa ragione anche Bobo Maroni è destinato a essere una figura di transizione che prepara il terreno alla vera novità. Dopo aver fatto il lavoro sporco di spazzare via con la ramazza, presa a simbolo del nuovo corso, i


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responsabili del decadimento morale della vecchia Lega, Maroni indica il suo successore alla guida del partito. E' Matteo Salvini, un quarantenne dalla faccia del giovanotto ruspante, che viene dalla gavetta e sa parlare alla gente. Ma per diventare un vero leader anche l'arrembante Salvini deve affrontare la prova iniziatica del parricidio rituale. Il 7 dicembre 2013, Salvini sfida alle primarie per la segreteria federale della Lega Nord un Bossi "kamikaze". Vince ottenendo 8162 preferenze, pari all'82% dei voti espressi. Il vecchio leone battuto viene giubilato dalla guida del movimento per essere relegato nell'empireo vivente delle cariche onorarie. Cala un sipario mentre un altro se ne apre. Matteo Salvini è da pochi mesi alla guida della Lega nord, quella del "2.0". La nuova formula avrebbe dovuto rappresentare la volontà politica dei nuovi quadri di partito di fare piazza pulita dei comportamenti deviati dei dirigenti del passato. D'altro canto la Lega era conciata malissimo, e più d'uno avrebbe scommesso sulla sua sparizione dalla scena politica nazionale, una volta affidata a un giovane di belle speranze ma di poca esperienza di vertice. Invece, la scarsa frequentazione, in passato, dell'iperuranio leghista si è rivelata l'arma vincente di Salvini. Egli ha potuto affrontare la base del suo partito, inferocita con i predecessori per i pochi risultati politici ottenuti e per i molti interessi personali coltivati, e dire loro: "da oggi si ricomincia daccapo. Noi siamo un'altra cosa". Il primo passaggio politico di rilievo, il neo segretario lo ha compiuto confermando, da una parte, l'azione di contrasto alle politiche dell'accoglienza dei migranti clandestini volute dalla sinistra e spostando, dall'altra, il baricentro della contestazione, dall'ormai poco attendibile attacco a "Roma ladrona", in direzione dello strapotere della burocrazia di Bruxelles. L'approccio è stato quello della critica radicale all'Unione Europea e al suo strumento più pericoloso: l'euro. La proposta leghista punta, in prevalenza, al ritorno alla sovranità monetaria dei singoli Stati. Nell'analisi di Salvini, che conosce meglio di altri i palazzi del potere continentale, essendo parlamentare a Strasburgo dal 2008, il nemico ha assunto dimensioni sovrannazionali. Coloro che da Roma animano il teatrino della politica avrebbero, nella realtà, minore voce in capitolo di quanto facciano credere. Salvini è convinto che la partita più importante si stia giocando fuori dei confini dell'Italia. I nuovi bersagli della polemica sono a Bruxelles, come a Berlino, nel Bundeskanzleramt dove è rintanata la cancelliera Angela Merkel e a Francoforte, nell'Euro Tower della BCE. Nella visione dela nuova Lega si palesa il rischio di un'Unione Europea che si pieghi definitivamente alla volontà del capitalismo finanziario internazionale, e alla sua filosofia guida che è il mondialismo. Viene rilevato, nella conduzione "burocratica" della casa comune europea un tratto dirigista del tutto assimilabile a quello che vigeva nell'Unione Sovietica. Per quanto possa apparire azzardato il parallelo, l'assimilazione tra i due sistemi sta nella tendenza di entrambi gli ordinamenti giuridici, quello comunitario attuale e quello sovietico cancellato dalla Storia, a stendere una rete normativa di controlli "polizieschi", piuttosto che a disciplinare un sistema di civile coesistenza su una base di giustizia e di rispetto delle diversità. L'obiettivo sarebbe tutelare la volontà egemonica di un determinato regime contro eventuali pericoli che potrebbero scaturire dall'affermazione elettorale di forze politiche

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eterodosse rispetto agli equilibri di potere consolidati. I "poteri forti" che oggi sono quelli delle banche, dei grandi fondi d'investimento e degli speculatori internazionali, desiderano per l'Europa governance affidabili. E cosa altro sono le governance se non forze di governo che non necessitano di legittimazione popolare? Il timore è che il cristallizzarsi di un siffatto sistema possa condurre, nel tempo, all'instaurazione di una nuova forma di dittatura. Sarebbe un potere impalpabile perchè non riconducibile a persone fisiche immediatamente individuabili. La sua sostanza sarebbe la medesima di un potere opaco, indistinguibile a occhio nudo, che si sviluppa, vive e prospera facendo affari negli interstizi della realtà virtuale. Un potere, dunque, che si veicola mediante la rete globale delle comunicazioni telematiche. La Lega propone, come antitodo contro l'infezione da contagio afferente da questa modalità aberrante di "globalizzazione"di stampo orwelliano, il ritorno alla politica identitaria. Sarebbe infatti il riconoscimento del fattore territoriale l'agente propulsivo della costruzione di una identità di secondo livello, d'ampiezza europea, coordinata e non contrastante con quella primaria delle patrie d'appartenenza. Siamo in presenza di una svolta in direzione di un radicalismo di destra della Lega? Probabilmente sì, anche se la tesi prevalente nel movimento si fonda sul superamento dell'antinomia storica del binomio destra/sinistra. A questo proposito, sebbene meno propagandata rispetto alla decisione di allearsi alle europee con il Front National di Marine Le Pen, è molto indicativa la scelta di Salvini di prendere contatti con Alain de Benoist. Per quei lettori che non abbiano avuto opportunità di incrociare le sue opere, valga sapere che il filosofo francese, padre nobile della corrente culturale della "Nouvelle Droite", è un estimatore e profondo conoscitore dell'opera di Julius Evola, fonte inesauribile d'ispirazione della destra radicale italiana ed europea. Tuttavia, non vi è dubbio che l'intuizione del neo segretario di esplorare le radici di un pensiero fortemente identitario abbia una sua originalità. Egli propone al dibattico politico una nuova coppia assiologica alternativa, che potrebbe essere espressa così: mondialismo/identitarismo. Sarebbe una nuova specie rispetto a quelle conosciute e abusate. Tuttavia, il genus a cui essa appartiene è quello risalente alla coppia antinomica amico/nemico di schmittiana memoria. Per la Lega l'azione oppressiva delle forze votate alla mondializzazione dell'economia si realizzerebbe attraverso il controllo della moneta unica. Esso agirebbe, in particolare, sulle meccaniche del valore di cambio dell' euro, consentendo al capitalismo finanziario di intervenire a determinare il collasso dei sistemi produttivi autoctoni. Nell'orizzonte ideologico della nuova Lega non compaiono indizi di progetti mirati allo scontro di classe. Al contrario, si scorge nelle parole del suo leader la volontà di giungere a una "reductio ad unum" della dialettica tra le differenti categorie coattoriali del sistema produttivo (capitale, forza lavoro, profili intermedi e di supporto alla produzione), al fine di restituire egemonia a un soggetto unico, che sia espressione di sintesi di tutte le istanze sociali che in esso trovano ricomposizione: il popolo. Dalla declinazione dell'espressione concettuale di popolo con l'altra che è il territorio, si genera l'identità. Nella cultura della nuova Lega la persona del lavoratore si associa, e non si contrappone, a quella dell'imprenditore nella difesa del radicamento locale


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della produzione. Al più, il comune denominatore si ritrova nella lotta integrale del territorio, in tutte le sue istanze e componenti, alla globalizzazione e ai suoi frutti velenosi, quali ad esempio la delocalizzazione delle produzioni, l'annichilimento delle diversità o la tolleranza per le pratiche di saccheggio industriale, poste in atto dalle multinazionali straniere ai danni delle manifatture locali, in particolare dei prodotti e del know-how delle PMI. Salvini sta preparando la Lega a giocare un ruolo importante. Intende recuperare terreno rispetto al passato e soprattuto vuol dare respiro politico al suo "populismo" che non ha alcuna relazione con il "cesarismo" del Movimento 5 Stelle, diretto competitor, sul piano del marketing elettorale, della Lega 2.0. Il fatto che Grillo ripeta molti degli argomenti storici del "Carroccio" non lo pone nello stesso orizzonte politico leghista. Lui è un cane sciolto che si nutre dello scontento popolare al quale, però, non sa offrire prospettive. La Lega aveva maturato, in passato, un bel problema d'incomprensione con il territorio della "Serenissima". Tuttavia, il nuovo segretario ha saputo trovare le chiavi comunicative giuste per ristabilire la sintonia. Salvini ha compiuto un atto di generosità politica nell'appoggiare senza condizioni il proposito dei veneti di indire un referendum sulla volontà o meno di richiedere l'indipendenza dallo Stato centrale. Nel prossimo futuro della nuova Lega vi è certamente il nodo irrisolto del rapporto con il partner Forza Italia. La lega di Bossi, con tutti i limiti e le contraddizioni possibili, non ha mancato di sostenere le ragioni, magari solo utilitaristiche, dell'alleanza con il partito di Berlusconi. Ci si domanda: Salvini farà altrettanto? O nel suo orizzonte è segnato qualcosa di diverso? Se è del tutto chiara la posizione anti-euro, assurta a leitmotiv di un riposizionamento strategico del movimento in relazione ai futuri assetti nell' organismo parlamentare della UE, suscita sorpresa la forte assunzione di responsabilità su alcuni temi per i quali Salvini auspica debba esistere un "idem sentire" con le regioni meridionali. A cominciare dalla questione dei respingimenti degli immigrati clandestini. La decisione di schierarsi al fianco della popolazione siciliana che, più di tutte, sta vivendo sulla propria pelle il dramma degli sbarchi quotidiani di disperati in fuga dal sud del mondo, non è solo scelta propagandistica. Essa cela una visione del Paese piuttosto attraente. Salvini sembra voler riprendere la teoria della distinzione tra "Stato" e "Patria", riconducibile alla produzione di un pensiero che potremmo definire prerisorgimentale. Il giovane leader sembra voler evocare una nuova coscienza di identità collettiva, per tutti gli italiani, che sappia fare a meno dell'assioma sulla imprescindibilità dallo Stato- nazione. Per ottenere questo risultato egli opera una separazione, anche plasticamente visibile, tra Stato e italiani. "Lo Stato dà 10 euro al giorno ai disabili, e 40 a chi sbarca la mattina da clandestino. E' razzismo contro gli italiani, basta con queste schifezze", sono parole sue. L'obiettivo finale che appare all'orizzonte del nuovo leghismo è una diversa Europa. La sua fonte di legittimazione sarebbe nella proiezione, all'interno del prerimetro continentale, dell'aspirazione comunitaria, non già di organismi statuali o di tecnostrutture dotate di speciali poteri, ma di popoli connotati da una specifica identità territoriale. Nelle tesi della Lega 2.0 affiora una consapevolezza, sconosciuta al leghismo tradizionale, circa la necessità di un'

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interazione degli effetti delle scelte politiche sull'intero sistema sociale italiano. Salvini è cosciente che il battito d'ali di una farfalla a Siracusa possa causare uno smottamento tellurico nel profondo nord di una valle alpina. Con questa convinzione l'egoismo padano dei tempi di Bossi appare una fase datata e non riproponibile nei nuovi scenari. Salvini ha ben chiaro quanto il battito d'ali di un barcone che scarica cento disperati possa ripercuotersi sulla tenuta sociale dell' amato nord nel momento in cui quei cento disperati finiscono per accamparsi nei sottopassi della stazione ferroviaria di Milano. Messa così, diventa anche spiegabile la scelta non più tattica, ma evidentemente strategica, di unirsi alla spinta movimentista della "nazionalista" Marine Le Pen per un'intesa che guarda ben oltre al 25 maggio prossimo. Ma c'è dell'altro. La lega di Salvini propugna la mobilitazione del "terzo Stato". Nel suo orizzonte politico il ceto medio è in marcia verso la creazione di nuovi equilibri per le dinamiche sociali. Non resta fermo a guardarne la distruzione. "Oriana Fallaci ci ricordava che lottare per la libertà non è un diritto, ma un dovere. Lo è lottare contro l'euro. Quanti di voi stavano meglio, lavoravano di più, avevano il negozio, non avevano l'ansia di pagare il mutuo o di avere i soldi per cambiare il grembiule del figlio, e quanti invece si sono arricchiti con l'euro? Tanti hanno chiuso le imprese al Nord per aprire in Cina e in Turchia, e riempirci di merce contraffatta. Torniamo padroni di casa nostra, della nostra moneta, del nostro lavoro, della nostra fatica, dei nostri negozi, delle nostre aziende agricole. Viva l'agricoltura massacrata da quegli stronzi di Bruxelles! Ci riempiono di schifezze che arrivano dall'altra parte del mondo come se non fossimo più capaci di produrre niente". Il messaggio è chiaro e forte. La Lega propone al tradizionale blocco sociale del centrodestra un nuovo patto che escluda il moderatismo politico dalle sue opzioni strategiche. E' una presa di posizione coraggiosa e lungimirante ed è un modo astuto per cavalcare, senza particolari danni, la tigre dell'indipendentismo il quale, soprattutto in Veneto, è tutt'altro che morto. Ma questa scelta rappresenta anche un colpo micidiale assestato alle speranze elettorali dell'alleato forzista. Appare ormai evidente che la corsa per le europee la Lega la stia puntando più alla conquista del bacino di consensi di "Forza Italia" che non a quello del centrosinistra di Renzi o al fuoco fatuo del "cesarismo" grillino. Salvini, per l'occasione ha coniato uno slogan seducente: " la rivoluzione del sorriso". Sembra innocuo, ma non lo è. Piuttosto è un ossimoro. " Rivoluzione" è in primo luogo lotta e sangue. Semmai, il sorriso viene dopo. A cose fatte. Allora dobbiamo pensare che il giovane Salvini abbia toppato? No. Al contrario. Dietro lo slogan ancora una volta c'è un ragionamento sottile. Vi è indicato un metodo: la lotta politica agita con la forza e, allo stesso tempo, vi è tratteggiato l'obiettivo: la pacificazione conquistata con una vittoria. Contro chi? Si chiederanno i lettori. Salvini sul punto è esplicito. I suoi nemici sono i poteri forti che siedono nella cabina di comando dell' Unione Europea. Quelli che lui, icasticamente, chiama: " Gli stronzi di Bruxelles". Di costoro, l'algido volto della Merkel raffigura l'incarnato. Che il futuro della Lega sia di lotta combinata al governo dei territori, non vi è dubbio. Anche il ricorso costante a riferimenti simbolici segna la scelta politica. Nel Pantheon leghista Salvini ha collocato la figura controversa di Bobby Sands, patriota nordirlandese combattente del


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Provisional Irish Repubblican Army, morto nel 1981 per le conseguenze di uno sciopero della fame, attuato durante la sua detenzione nel carcere di Maze. Sands protestava a oltranza contro il duro regime penitenziario inglese. Se non ve ne fosse già ampia prova, i richiami simbolici confermano la presenza, nell'orizzonte politico salviniano, di un progetto inequivocabilmente radicato a destra benché camuffato sotto le mentite spoglie di un moderno populismo deideologizzato. E' questo, quindi, che dovremo aspettarci dalla Lega 2.0, nel prossimo futuro? Molto dipenderà dagli esiti della consultazione elettorale del prossimo 25 maggio. Se, per ipotesi, il movimento si collocasse intorno al 6/7% del consenso espresso, a fronte di un risultato di "Forza Italia" inferiore alla soglia psicologica del 20% e, allo stesso tempo, dovesse ulteriormente liquefarsi l'area centrista, oggi in parte tenuta dalla collocazione del Nuovo Centrodestra in combinata con l'U.D.C. di Casini, sarebbe molto difficile immaginare, per i futuri assetti nazionali, un suo ritorno nell'alveo naturale del tradizionale centrodestra berlusconiano. Alcuni commentatori osservano che una tale prospettiva sia praticamente irrealizzabile perché Berlusconi, secondo il gossip, avrebbe nelle mani carte segrete che bloccherebbero all'origine ogni tentativo leghista di smarcamento. Se ciò sia vero non lo sappiamo. Può anche darsi che, in passato, Berlusconi, noto per la sua proverbiale generosità, abbia dato una mano a Bossi e compagni a tirarsi fuori da qualche pasticcio finanziario. Ma questo, se è stato, oggi è acqua passata. Le obbligazioni derivanti da crediti sono prescritte. I dirigenti leghisti di un tempo sono stati pensionati d'ufficio dai nuovi leader. Salvini e i suoi sono un' altra cosa, rappresentano una storia nuova. Sarebbe salutare che "Forza Italia" ne prendesse coscienza al più presto e si preoccupasse di adottare le opportune contromisure. Al popolo di Berlusconi di certo non farebbe piacere ricevere, il 26 maggio, un'amara sorpresa. Cristofaro Sola

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GEOPOLITICA

C’ERA UNA VOLTA LA LIBIA Sono passati tre anni dalla "defenestrazione" di Gheddafi ad opera delle democrazie occidentali e sono tre anni che la Libia è nel caos. A riprova che non sempre le "categorie" occidentali hanno validità universale e che l'"esportazione della democrazia" comporta, troppo spesso, un inaccettabile prezzo di disordini e di sangue, soprattutto per le popolazioni inermi. La sede del Congresso nazionale (il Parlamento libico) è stata attaccata ad opera del colonnello Fernana proclamatosi "mano dell'esercito" libico, sette parlamentari sono stati sequestrati, il bilancio di vittime è stato di due morti e 55 feriti. Nell'est del Paese il generale (a riposo) Khalifa Haftar, benvoluto dagli americani, è in guerra contro gli islamisti e bombarda Bengasi dove sono arroccati. Vi sono poi gli agguerriti miliziani di Zintan che ancora tengono prigioniero (ostaggio?) Saif alIslam, figlio di Gheddafi che, tuttavia, è sotto processo a Tripoli senza che il governo sia stato capace di farselo consegnare. Il debole governo libico non riesce ad arginare la dissoluzione del Paese, le violenze sulla popolazione civile e la miseria crescente a causa del fermo delle attività estrattive. L'Italia ha pagato e sta pagando un altissimo prezzo per la destabilizzazione libica: un prezzo energetico, a causa del sostanziale blocco della produzione libica di gas e petrolio, ed un prezzo immigratorio in ragione degli accresciuti flussi di disperati che ogni giorno sbarcano sulle nostre coste. Come ha cominciato a pagare un alto prezzo per la crisi ucraina in termini di minori investimenti russi e, molto probabilmente, di minori flussi turistici dalla Federazione russa, sperando che a ciò non si aggiunga un prezzo energetico. Che siano queste le ragioni vere dell'ulteriore decremento del Pil? La lezione che se ne trae è che la politica estera, in particolare in tempi globalizzati, non può essere delegata a terzi, soprattutto in assenza di una comune politica europea. Ma il Governo italiano sembra non esserne consapevole se il ministro degli esteri Federica Mogherini non ha avuto di meglio da dichiarare: "prima che la situazione sfugga a ogni controllo e la Libia imbocchi la strada della conflittualità in modo irreversibile la comunità internazionale, dall'Unione Europea all'Onu, deve mobilitare tutti gli strumenti della diplomazia affinché la transizione verso la democrazia si compia con successo, con il coinvolgimento di tutte le parti". Pennanera


SOCIETA’

IL CUORE DELL’ARMA E LA CRISI Quanto vale il costo dell' austerity imposta dall' Unione Europea a quei Paesi-membri che, a insindacabile giudizio degli organismi di Bruxelles, sarebbero poco virtuosi? Senza attendere i dati della B.C.E. o le statistiche di Eurostat, oggi siamo in grado di fornirvi il valore esatto della crisi che stiamo vivendo: 6,58 euro. Avete letto bene, non è un refuso. La cifra è esatta e corrisponde all'ammontare del costo della merce (due confezioni di hamburger surgelati) rubata dagli scaffali di un supermercato di Telese, nel beneventano, da due mamme, due sventurate che dovevano sfamare i loro bambini. Già! Perché questa è la scena che si sono trovati davanti i carabinieri quando, allertati da una segnalazione del proprietario del negozio dove era stato compiuto il furto, si sono recati a casa delle due donne, identificate grazie alle riprese delle videocamere di sorveglianza. Avrebbero dovuto arrestarle per il furto, ma c'erano i ragazzini così felici perché a pranzo avevano mangiato hamburger. E i carabinieri? Come sempre sono i migliori. Quando occorre, sanno anche essere "diversamente carabinieri". Sanno inventarsi un po' psicologi giacché questo li aiuta a comprendere meglio i contesti in cui sono chiamati a operare. E cos'altro c'era da capire se non che erano in presenza di una scena vera, autentica, non forzata, non recitata di pura disperazione. Allora, niente manette, niente lacrime, niente "dovete venire con noi in caserma", niente urla di bambini spaventati, niente minacce di gesti disperati di persone colte in flagrante stato di umiliazione. Ha pagato il comandante, il luogotenente Roberto D'Orta, il misero conto al negoziante derubato. Causa di estinzione del reato: umanità. I militari dell'Arma hanno compiuto il loro dovere, applicando una legge che è più alta del precetto giuridico. E' la legge della pietas, strumento da rabdomanti, in grado di farci cogliere, nella profondità delle viscere di una società arida in superficie, l'esistenza di un'umanità migliore che c'è e vive, nonostante tutto. Nonostante la crisi. Nonostante la follia dei tempi. Nonostante l'agire criminogeno dei tanti falsi amici, veri nemici, del nostro Paese e delle sue comunità. Ma i carabinieri hanno fatto dell'altro. Hanno avvisato della situazione i servizi sociali del Comune. Poi hanno provveduto a mettere insieme un po' di viveri e a recapitarli alle due donne per assicurare loro qualche giorno di autonomia alimentare. Un bel gesto che fa bene al cuore, che dona speranza. Tuttavia è gesto che condanna, una volta di più, la politica. E' un indice accusatore che punta in direzione di quanti, ai massimi livelli del governo della cosa pubblica, indulgono in toni trionfalistici cianciando di presunte riprese economiche alle porte, immagini di fantasia di un'Italia- Neverland, da "isola che non cè".

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SOCIETA’

Sono menzogne! Stupide, pericolose bugie per raccontare un Paese che non è reale. A voler stare con i piedi piantati a terra bisognerebbe ammettere che parte dell'Italia sta lì, a Telese, in quelle due confezioni di hamburgher, rubate per fame. E' l'Italia che reca il segno indelebile di una povertà la quale ha colto molta gente impreparata ad affrontarla, a reggerne l'impatto violento nelle proprie vite. E' un episodio isolato, si dirà. Niente affatto, se il caso ha avuto gli onori della cronaca e perché c'è stato il nobile epilogo del comportamento dei carabinieri. La verità è che vicende come questa sono drammaticamente all'ordine del giorno. Neppure si raccontano, tante ne sono. Basta leggere i dati dell'ultimo rapporto della Caritas sull'andamento della povertà in Italia. E' semplicemente impressionante. Nel 2013 le persone che si sono rivolte ai centri di ascolto dell'organizzazione per problemi legati alla sopravvivenza sono state il 59,2% dell'universo osservato, mentre per motivi connessi alla mancanza di occupazione il 47,3%. Non si tratta delle fasce di povertà endemica. I nuovi utenti della Caritas provengono dal ceto medio o da gruppi tradizionalmente estranei alla fascia del disagio sociale. La vulnerabilità economica del ceto medio ha fatto da incubatore a una nuova emergenza sociale che riguarda le condizioni in cui vivono numerosi genitori separati. La rottura del meccanismo di solidarietà familiare sta generando un'area d'incampienza, se non di povertà conclamata, del tutto diversa rispetto alle dinamiche sociali del passato, a cui non si riesce a fare fronte con i mezzi oggi disponibili. Abbiamo citato la Caritas, ma non tutti coloro che vivono in condizione di disperazione si rivolgono a quell'organizzazione. In queste cose fa aggio un senso di pudore che condiziona l'agire di tante persone che vivono la povertà con un profondo senso di colpa. Costoro si condannano al silenzio e all'invisibilità sociale. Sebbene siano stati masticati da quella stessa società di cui un tempo sono stati alfieri orgogliosi, fino a restarne stritolati e poi sputati fuori come scorie non metabolizzate, essi cercano, con un comportamento auto-punitivo, una modalità sanzionatoria a difesa di un equilibrio che pensano di avere alterato con il proprio fallimento esistenziale. Ora, il premier Renzi sta sbandierando ai quattro venti la storia degli 80 euro in busta paga. Un successo del governo del fare. Una rivoluzione. E tante belle storie. Tuttavia, al nostro presidente del Consiglio sfugge che questo provvedimento non solo non risolve la crisi del potere d'aquisto dei salariati, piuttosto rischia di scatenare una guerra tra poveri alimentata da una crescente invidia sociale verso i cosiddetti "garantiti". In effetti, Matteo Renzi quei soldi li sta dando a chi un reddito lo ha già, a prescindere da ogni valutazione di merito. Quindi, il bonus lo riceverà anche quel tale pubblico dipendente scansafatiche che maltratta gli utenti in coda al suo spartello. Lo riceveranno quei fantastici componenti del corpo dei vigili urbani di Napoli che si sono distinti per assenteismo e uso improprio dei privilegi sindacali, e non solo di quelli. Li riceveranno anche quegli impiegati degli enti locali che in ufficio non ce li vedi mai: sono troppo impegnati a mandare avanti le loro seconde e terze attività private.


SOCIETA’

Li riceveranno tutte quelle famiglie dove si lavora in due con un solo figlio a casa, magari accudito da una nonna a cui a fine mese lo Stato stacca un discreto assegno di pensione. Non li riceveranno, invece, tutti coloro che un reddito non l'hanno più. Non li riceveranno i pensionati che tirano a campare, non si sa come, con meno di mille euro al mese. Non li riceveranno quei tanti piccoli e micro imprenditori che avevano un'impresa e che ora sono sul lastrico per l'effetto combinato della crisi incrociata alla contrazione del credito, all'aumento della pressione fiscale e all'inasprimento delle condizioni di recupero del debito da tasse e imposte non pagate. Non le avrebbe ricevute Eddy De Falco, il panificatore di Casalnuovo di Napoli che sì è tolto la vita "per multa ricevuta". Matteo Renzi ha dato ascolto alle voci di dentro del suo bacino elettorale. Va bene! E'umano, la competizione elettorale ha le sue regole! Ma abbia il buon gusto di tacere sul resto. Non insista, glissi sull'argomento. Altrimenti, se proprio ci tiene a battere lo stesso tasto abbia la cortesia di andare lui da quelle due sciagurate donne di Telese. Vada a spiegare perché devono stare serene e non preoccuparsi, che tutto si risolve. Provi lui a stare a tavola con un hamburgher ciascuno. Forse soltanto allora potrà comprendere quanto insostenibile sia il peso della crisi. E il suo prezzo: 6 euro e 58 centisimi. Arktos

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RUBRICHE/ARTE

ARTE CONTEMPORANEA A BASILEA "Volta", la fiera dell'arte emergente di Basilea, festeggerà la sua decima edizione al 16 al 21 giugno. 68 espositori - tra cui 50 gallerie - provenienti da sei continenti convergeranno sotto la cupola del Markthalle per rappresentare i progetti di arte contemporanea. Saranno presenti artisti come gli scultori colombiani Daniel Gomez e Miler Lagos, il figurativo Richard Stipl, il fotografo di Città del Messico Daniela Edburg, il pittore narrativo svedese Anna Bjerger, Alex Da Corte e l'inimitabile Keith Tyson, vincitore del Turner Prize 2002. Inoltre la Galerie Jochel Hempel (Leipzig / Berlin) giustapporrà capolavori del 17° secolo dalla Collezione Rusche con le nuove opere di sei artisti della galleria; Pierogi (Brooklyn) proporrà un dialogo multigenerazionale a quattro voci, animato dai disegni espressivi dell'iconoclasta Kim Jones, che ha esposto al Pacific Standard Time ( MoCA , Los Angeles), alla Biennale di Sydney del 2010 e a quella di di Venezia del 2007, dalle opere su carta di David Scher, dalla fotografia del giovane artista berlinese Nadja Bournonville e dalle affascinanti vetrine lenticolari di Patrick Jacobs. Progetti solisti e dialoghi a due artisti costituiranno la base per la piattaforma di VOLTA 10: Brenna Youngblood (Honor Fraser, Los Angeles), Peter Feiler, Ryan McGinness, Athi - Patra Ruga (Whatiftheworld, Città del Capo), Frohawk Due piume (Morgan Lehman Gallery, New York ), Greta Alfaro e il giovane peruviano concettualista Andrea Canepa (vincitore del 2014 Premio Generación Premio Fundación Caja Madrid), Rosa Santos (Valencia), Farley Aguilar (Spinello Projects, Miami), Aimé Mpane (NOMAD, Bruxelles), vincitore del Dorothy Vogel Herbert Prize 2012, i giapponesi lacca Urushi e Tomotaka Yasui (MA2 Gallery, Tokyo). Markthalle - Viaduktstrasse 10- Basel. Dal 17 al 21 giugno dalle 14 alle 20 esclusa la domenica. Inaugurazione: 16 giugno dalle 14 alle 20. Giny


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Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

www.confini.org


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