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Aeromensile di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

PARTECIPARE

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PRIMO PIANO: IL CAPITALISMO PARTECIPATIVO DI MASSIMO SERGENTI CRITICA DEL MONOCAMERALISMO DI CRISTOFARO SOLA

Nuova serie - Numero 22 Marzo 2014 - Anno XVI


www.confini.org

Confini Aeromensile di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Numero 22 - Marzo 2014 - Anno XVI

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettore: Massimo Sergenti +

Hanno collaborato a questo numero: Pietro Angeleri Francesco Diacceto Giuseppe Farese Gianni Falcone Roberta Forte Nate Hagens (con la prima parte del suo libro)

Pierre Kadosh Enrico Oliari Angelo Romano Massimo Sergenti Cristofaro Sola

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Segreteria di redazione: confiniorg@gmail.com

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confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Silvio alle Europee? Si può fare.

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

I “DERIVATI” DELLA DEMOCRAZIA I derivati, sui mercati finanziari, hanno varie funzioni, tra queste, una delle più utilizzate è l'effetto leva. Tale effetto consiste in un moltiplicatore di rischio o di beneficio sull'andamento di un valore sottostante. Una sorta di amplificatore del valore di una scommessa. Un derivato su un ambo giocato al Lotto, ad esempio, consentirebbe ai giocatori interessati di guadagnare o di perdere ben più delle canoniche 250 volte la posta, investendo, al momento della scommessa, solo una frazione della giocata. Le primarie all'italiana - che non sono regolamentate per legge come negli Usa - a ben guardare, sono molto simili a un "derivato della democrazia". Una piccola frazione del corpo elettorale, iscritti, elettori, semplici simpatizzanti di un partito o, addirittura, avversari infiltrati, "scommette" su un leader rischiando poche monete. Se il leader vince la competizione i vantaggi per gli "scommettitori", in particolare per gli organizzatori della riffa, diventano enormi. E' quanto accaduto con Renzi. Con circa un milione e settecentomila voti (l'intero corpo elettorale italiano è composto da oltre 50 milioni di elettori) è diventato Segretario del suo partito e Capo del Governo. I suoi sostenitori più agguerriti sono diventati ministri, sottosegretari o esponenti di rilievo nel partito. Ad altri, molti altri, toccheranno le nomine nel vasto ambito del sottogoverno e persino in Europa, visto l'imminente turno di presidenza italiana (pare che vi siano in ballo una cinquantina di nomine).. Un altro "derivato" è il premio di maggioranza. Alle ultime elezioni politiche la coalizione di Centro sinistra capeggiata da Bersani ha raccolto 10.047.603 voti pari al 29,54% dei voti validi (meno del 20% degli aventi diritto), quella di Centrodestra capeggiata da Berlusconi ha raccolto 9.923.109 voti pari al 29,13% dei voti validi (meno del 20% del corpo elettorale). Le due coalizioni con il solo 40% degli aventi diritto al voto si sono assicurate il 100% dei seggi in palio. La differenza di suffragi a favore del Centro sinistra pari a 124.494 (pari ad un cinquecentesimo degli aventi diritto al voto) ha determinato un bottino di 340 seggi contro i 124 assegnati al Centro destra.


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In altri termini un cinquecentesimo degli elettori ha determinato, per il "vincitore" l'assegnazione di ben 216 seggi in più del "perdente". Neanche il derivato più aggressivo avrebbe determinato un simile effetto leva. Così come il sistema finanziario è diventato sempre più "economia della scommessa", il sistema politico italiano si è orientato sempre più alla "democrazia della scommessa". E da questo punto di vista la prospettiva non sembra migliorare con l'Italicum. L'intesa Renzi - Berlusconi, con la scusa della salvaguardia del bipolarismo all'italiana, che tanti danni ha prodotto, e della governabilità (limitatamente alla durata di un governo e non ai suoi risultati) si avvia a consolidare i "derivati": far fuori i piccoli senza neanche concedere un diritto di tribuna, alla faccia del pluralismo, garantire al vincitore un congruo premio di maggioranza, assegnare i seggi solo ai fedelissimi prescelti dai partiti e non votati dai cittadini. Che questo possa essere desiderato dal Cavaliere è pacifico, il suo modo di concepire il potere è noto, ma che Matteo Renzi, il "rottamatore" voglia perpetuare il "centralismo democratico" di leninistica memoria lascia basiti. Va ancora aggiunta una considerazione più generale sulla partecipazione dei cittadini alla vita politica. Nei 60 anni di vita elettorale media di un cittadino, con governi stabili, questi viene chiamato ad esprimere un voto soltanto 12 volte. A questo di riduce la partecipazione alla vita democratica della nazione. Eppure la società moderna, sempre più liquida, connessa, interattiva e coinvolta dalle scelte, spesso pesanti, della politica, presupporrebbe un più ampio livello di coinvolgimento e partecipazione dei cittadini. Andrebbe presa a modello la Svizzera dove, sulle questioni davvero importanti, sono sempre i cittadini ad avere l'ultima parola grazie ai referendum. Angelo Romano

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SCENARI

PARTECIPARE

Ogni volta che si è voluta delineare la necessità di una via diversa dalla pianificazione centralizzata del socialismo realizzato e dal liberismo capitalista è stato necessario ricorrere alla, apparentemente indistinta, dizione: terza via. Una definizione culturalmente appartenuta, fino alla fine degli anni '80 dello scorso secolo, alla destra politica e alla Chiesa cattolica. La Chiesa, sin dal 1891, con la Rerum Novarum di Leone XIII, pur senza esplicitamente citarla, ne afferma i concetti, sia sul piano morale che su quello economico e sociale. E' nella Centesimus Annus del 1991 che Giovanni Paolo II la menziona espressamente, dopo averne varie volte ribaditi i concetti nelle precedenti encicliche Laborem exercens e Sollicitudo rei socialis; una menzione accompagnata dalla sottolineatura che i concetti che essa richiama non hanno altra origine se non quella degli insegnamenti del Vangelo. Ma la ricerca della terza via, la sua costruzione, dalla fine degli anni '80 non è solo prerogativa culturale e programmatica della destra e dell'area cattolica. Dal 1989, la CGIL, ancora ufficialmente legata a quel tempo ad una visione marxista-leninista, introduceva nella sua cultura un aspetto del più vasto concetto della partecipazione: la codeterminazione, un termine che oggi ha assunto una sua universalità nell'uso ma che allora fece scalpore. Per la Bolognina dovevano trascorrere ancora due anni, si era a qualche mese dalla caduta del muro di Berlino e i risvolti di tale evento erano tutti da dispiegarsi. Peraltro, alla fine degli anni '80 non si parlava ancora molto di globalizzazione. Le uniche avvertenze in tal senso derivavano dalle attività dei mercati finanziari internazionali che iniziavano visibilmente ad interagire tra di loro. L'economia aveva ancora una base prevalentemente nazionale e l'avvio di grandi aggregati economici, Nafta, Mercosur e Ue era ancora lontano. Il Giappone, allora, era la locomotiva dell'economia mondiale e l'ulteriore contesto geografico di forte espansione economica era, ed è, quello del sud-est asiatico anche se la Cina non aveva ancora lanciato la sua economia (si pensi, sociale) di mercato. La cultura economica era ancora industrialista, i connotati prevalenti della produzione erano ancora quelli di massa e, tra i fenomeni imperanti, vi era ancora il consumismo. Eppure, non mancavano i segni della palese, attuale evoluzione. L'occupazione era già fondata per i 3/5 sulla piccola e media impresa, la grande industria cominciava a parcellizzarsi ed a specializzarsi riorganizzandosi; aspetti che, insieme alla massiccia introduzione della tecnologia, avevano già cominciato a dispiegare i loro effetti sul piano occupazionale. Né mancavano i segni di disgregazione di un sistema di organizzazione del lavoro, quello fordista, la cui unica evoluzione nel corso di oltre un cinquantennio era stata l'introduzione della tempistica di tayloriana memoria. Dalla Svezia, alla fine degli anni '80, erano già giunti sistemi alternativi: le isole di produzione, dove si manifestava una discrezionalità di intervento e quindi una maggiore partecipazione, un più responsabile coinvolgimento dell'operaio nel processo produttivo. Né mancavano i segni di trasformazione delle basi dell'economia, oggi del tutto evidenti: quelli della sua terziarizzazione, l'economia dei servizi; ad iniziare


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proprio dal sistema industriale, trasformandosi, poi, in servizi all'impresa in generale e, quindi, in quelli alla persona. A spingere in tal senso erano, del resto un insieme di fattori: la riduzione dell'orario di lavoro, la maggiore flessibilità dello stesso, l'emergere di nuove forme giuridiche nei rapporti di lavoro, la nascita di nuove figure professionali ad alta qualificazione più indirizzate verso un lavoro autonomo, un desiderio di più elevata qualità, anche onerosa, dei servizi “pubblici. Cominciava, nel contempo, ad emergere, dall'evoluzione del mondo del lavoro, una diversa connotazione del sommerso, fondato nel passato esclusivamente sul deprecabile sfruttamento del lavoratore scarsamente qualificato e maggiormente ubicato al Sud. I nuovi dati facevano emergere una consistenza almeno pari tra Nord e Sud, altrettanto paritaria tra lavoratori a bassa e quelli ad alta qualificazione. Nel senso che iniziava a manifestarsi quello scollamento tra cittadini e lo Stato, non ritenuto più affidabile e persino ingiusto e, pertanto, da “frodare”. Lo Stato sin da allora, e non solo per i germi di Tangentopoli in incubazione, cominciava a mostrare la corda della sua concezione centralista. Del resto, la continua dispersione dei poteri verso l'alto, verso potenti strutture internazionali, e nel contempo verso il basso, verso le Regioni dalle richieste di trasferimenti e di prerogative sempre più pressanti, rendevano sempre meno efficace, se non vanificavano ad-dirittura, ogni politica economica e sociale nazionale. E, nel contempo, la inefficacia di tali politiche cominciava a dimostrare non solo l'esistenza di bisogni e di interessi diversi, a volte contrastanti, velocemente mutevoli, ma anche l'impossibilità di rispondere alla evoluzione della società attraverso strumenti e metodi tradizionali. Il grande sociologo canadese McLhuan, già dagli anni '60, aveva teorizzato, proprio per effetto del realizzarsi del “villaggio globale”, il ritorno a forme di “tribalizzazione” della società che hanno iniziato a comportare il formarsi di nuove identità a seguito della perdita di antiche identità, la ricerca di una specificità, un ritorno ai localismi. Infatti, dai primi effetti della globalizzazione, per quanto discreti allora, cominciavano già a manifestarsi le specificità del Nord, quelle vere e quelle strumentali. Il Sud era già una specificità, da oltre centocinquant'anni. E in effetti, le politiche centraliste non rispondevano, né rispondono, alle nuove esigenze settentrionali, oggetto di deindustrializzazioni ma più favorite dal contesto geografico e infrastrutturale nei processi di riconversione. Ma, del resto, non avevano mai risposto, né lo fanno oggi, alle, ormai croniche, esigenze del Mezzogiorno. Si cominciò proprio in quegli anni, peraltro, ad assistere ad un fenomeno che avrebbe dispiegato, negli anni a venire, i suoi significati e i suoi effetti: quello del ritorno all'associazionismo. Del resto, il rampantismo e lo yuppismo americano erano ormai alla fine, la globalizzazione cominciava discretamente a dispiegarsi, consolidate identità iniziavano a vacillare, gli ordinamenti delle società si preparavano a mostrare la corda. Il rinverdirsi del fenomeno associativo, quindi, dimostrava, al pari della ricerca di nuove identità, del ritorno ai localismi, un bisogno di “protezione” che gli ordinamenti dello Stato garantivano sempre meno. Cominciava, cioè, a delinearsi quella che De Rita definì la “società di mezzo”: un ampliarsi della sfera della rappresentanza degli interessi, non più delegata alla politica partitica, bensì essa stessa soggetto politico, a confronto con i “tradizionali” artefici politici (partiti, governi, ecc.) per la manifestazione di esigenze e per il riconoscimento di diritti. Prese piede proprio agli inizi degli anni '90 l'avvio di quella politica che passerà, poi, sotto il nome di

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politica della concertazione. Soggetti privati che, unitamente allo Stato, ovvero con la sua massima espressione nella gestione della cosa pubblica, il Governo, presero a concertare l'impostazione della politica economica e sociale. I decenni precedenti ne avevano visto gli embrioni: dal macrocorporativismo degli anni '60 e '70 al neocorporativismo degli anni '80, tuttavia con finalità e in un quadro di riferimento sociale e politico completamente differenti. Infatti, la concertazione degli anni '90 trasse motivo dalla accennata dispersione dei poteri dello Stato, dall'esigenza di un consenso più vasto nel governare vista l'esigenza di emanare politiche non propriamente popolari, dalla sempre maggiore ristrettezza delle risorse da distribuire secondo giustizia, nonché dall'ulteriore esigenza di mediare tra interessi della società, maggiormente accresciuti e più diversificati. Cominciò, cosi, a delinearsi quel fenomeno che un altro grande sociologo, il tedesco Teubner, definì policorporatismo, consistente nel processo di “privatizzazione dello Stato” e di “pubblicizzazione” di soggetti collettivi privati, di associazioni, in rappresentanza di interessi. Un fenomeno che, nella sostanza, coincise con l'avvio della terza fase evolutiva del capitalismo o, meglio, degli attori della economia di mercato: la fase delle responsabilità, dopo quella del laissez faire fino alla fine degli anni '30 e quella delle garanzie dalla fine della II guerra mondiale ad oggi. Quello che è passato alla storia politica e sindacale come il protocollo sul costo del lavoro, completato da quello sulla politica dei redditi, è il primo atto della politica concertativa che, nel contempo, evidenzia il fenomeno “policorporatista” ma anche l'esercizio delle responsabilità degli attori sociali nella odierna economia di mercato e nel suo governo. Da quell'accordo, negli ultimi venti anni, vari atti ed accordi simili si sono succeduti per gli argomenti e sulle materie tra le più disparate: dalle riforme pensionistiche, alla valutazione delle tariffe e utenze, alle ipotesi di riforme del sistema di welfare e fiscale, alle politiche del lavoro. audacia temeraria igiene spirituale Dopo questa premessa, indubbiamente prolissa ma necessaria per delineare contesti e scenari, emergono alcuni fattori che, a dispetto dei risultati del passato, stravolgono, distorcono o, persino, ignorano la bontà del metodo “partecipativo”, della “concertazione sociale”. Il primo aspetto di tali fattori è il grado di rappresentanza dei soggetti concertanti. Un primo richiamo al riguardo lo troviamo nella Costituzione che, all'art. 39 - 4° comma -, stabilisce che “I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.” Ne deriva che, costituzionalmente parlando, coloro che possono stipulare contratti o, in via traslata, accordi sono le organizzazioni sindacali, sia datoriali che dei lavoratori. Anzi, meglio, solo quelle organizzazioni sindacali definite “maggiormente rappresentative”. Per inciso, la “maggiore rappresentatività” è data da un insieme di fattori quali: il numero dei contratti di lavoro stipulati, l'estensione sul territorio del soggetto collettivo, il numero delle vertenze svolte, nonché la vincolante presenza di un rappresentante nel Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro. Già questo limita, nei fatti, la “concertazione sociale” perché si è teso, nei trascorsi vent'anni, a coinvolgere nelle discussioni sulle più articolate materie da “concertare” sempre e soltanto gli stessi, ripetitivi soggetti. In ogni caso, dato lo specifico richiamo costituzionale, manca la “registrazione” del soggetto sindacale e l'attribuzione della prevista “personalità giuridica”, ovviamente di diritto privato.


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Ora, in un mondo del lavoro totalmente evoluto e diversificato rispetto alla data di stesura della Costituzione, si rende paradossalmente ancor più necessario attuare il dettato costituzionale perché l'attribuzione della “personalità giuridica” e, quindi, della maggiore rappresentatività incontri criteri più estensivi, in presenza della differenziazione delle istanze, ed articolati sul territorio, data la presenza degli Enti Regione, e dei rispettivi Governi, la cui autonomia legislativa è stata notevolmente ampliata dalla riforma costituzionale del 2001. Il secondo aspetto dei predetti fattori di svilimento della “partecipazione concertativa” è l'esecuzione del contenuto degli accordi raggiunti nonché la loro durata nel tempo. Nel corso degli ultimi vent'anni, come si diceva, vari accordi si sono succeduti su disparate materie. Tuttavia, la loro prevalente caratteristica è stata la soluzione di una contingenza e non un intervento strutturale, durevole nel tempo. Dal ché la ripetitività di accordi simili a correzione dei precedenti. Accanto ad un uso aleatorio del metodo, si riscontra fortemente la mancanza di una visione politica prospettica. Il terzo aspetto dei fattori di deprezzamento sopra cennati riguarda l'uso del metodo stesso, fino ad oggi, prevalentemente centralizzato e saltuario, quando non improprio, contingente o interlocutorio. Il quarto ed ultimo aspetto dei fattori di impoverimento del metodo concertativo riguarda il soggetto che deve fungere da mediatore tra gli interessi contrapposti: il Governo, nei suoi livelli istituzionali. Non c'è dubbio che questo soggetto deve essere forte, nel senso di autorevole, con ampio consenso parlamentare e duraturo, dotato di determinazione e di prospettiva politica. La causa della ripetitività, a volte fumosa, degli accordi di quest'ultimo ventennio è stata proprio l'instabilità governativa. E quando si è registrata una stabilità, il Governo di turno ha spesso ritenuto di fare a meno del consenso delle rappresentanze sociali. Purtroppo, la politica è restia a comprendere che la concertazione sociale non è un depauperamento delle prerogative che le competono, non è un'invasione di campo da parte di soggetti privati né, tantomeno, è un'arbitraria condivisione di qualità operative. La partecipazione concertativa è, più semplicemente, capacità di proposizione, mediazione, assunzione di responsabilità, coerenza di comportamento; in una parola, la condivisa costruzione di un percorso di competitività del sistema-Paese e di un progresso da parte della società, nelle sue molteplici espressioni. A maggior ragione, oggi, che le istituzioni sono avvertite come lontane dai cittadini e la politica ha raggiunto il più alto grado di disaffezione. Roberta Forte

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POLITICA/L’INTERVISTA

MAURIZIO FERRERA

Di partecipazione dei lavoratori agli utili e alla gestione d'impresa si è tornato a parlare,in Italia e in Europa, nei primi mesi del 2014. Il progetto di privatizzazione di Poste italiane, infatti, rimanda a forme di democrazia economica laddove riconosce la cessione gratuita di quote di azioni dell'azienda ai dipendenti. Il Parlamento europeo, al contempo, con una risoluzione approvata il 14 gennaio, ha invitato gli Stati membri ad approntare misure legislative che prevedano forme di partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa. Le idee partecipative, insomma, sembrano poter rappresentare una terza via utile al superamento del conflitto tra capitale e lavoro, in una fase in cui l'uscita dalla crisi economica impone la ricerca di nuove forme di relazioni industriali. Per parlare di democrazia economica e partecipazione, Confini ha sentito Maurizio Ferrera, professore ordinario di Politiche Sociali e del Lavoro presso l'Università di Milano nonché editorialista di punta del Corriere della Sera. E', inoltre, membro di numerosi comitati scientifici nazionali e internazionali, fra cui: l'High Level Expert Group on Social Investment in the European Union presso la Commissione Europea, il Comitato Scientifico di Confindustria, il Comitato Direttivo del Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi di Torino.

audacia temeraria igiene spirituale

Professor Ferrera, dove si rinvengono le origini delle idee partecipative? Il tema della partecipazione dei lavoratori all'impresa, o meglio della loro “associazione” alla e nell'impresa, è presente in molte correnti del pensiero liberale e riformista della prima metà dell'Ottocento. Pensiamo a John Stuart Mill che, nei suoi Principi di Economia Politica, parla di un progressivo superamento della relazione salariale fra padroni e lavoratori, e della sua sostituzione, appunto, con nuove forse di associazione fra lavoratori e capitalisti, da un lato, e lavoratori fra loro, dall'altro. Mazzini sostenne posizioni simili, anche prima di Mill, e vedeva nell'associazione dei lavoratori all'impresa un sentiero di emancipazione non solo economica, ma anche civica e morale. Nella prima metà del novecento il fascismo cerca di dar vita ad una terza via dapprima con il corporativismo e poi con la socializzazione, nella fase finale della sua parabola politica. La socializzazione delle imprese diviene obiettivo ufficiale del fascismo con la Carta di Verona del 1942 e si trasforma negli anni di Salò in una progetto concreto, dal quale nasce il Decreto Legge sulla socializzazione del febbraio 44. Naturalmente il progetto fascista nasceva da un humus autoritario ben diverso da quello mazziniano. Il progetto suscitò immediatamente proteste da parte del movimento, che paralizzarono la produzione bellica repubblichina nei mesi successivi. Anche nella dottrina sociale della Chiesa si ritrova il richiamo alla partecipazione dei lavoratori alla gestione d'impresa. Quale è il messaggio che arriva dalle encicliche papali? Nella dottrina sociale della chiesa il lavoro ha una posizione e soprattutto un valore preminente rispetto al


POLITICA/L’INTERVISTA

capitale. Perciò il pensiero cattolico auspica la partecipazione dei lavoratori alla proprietà d'impresa, alla sua gestione, ai suoi “frutti”. L'organizzazione della vita economica deve basarsi su una ricca gamma di corpi intermedi che godano di una effettiva autonomia nei confronti dei pubblici poteri e che perseguano i loro specifici obiettivi in rapporti di “leale e vicendevole collaborazione”. Quali sono i motivi per i quali l'articolo 46 della Costituzione, che riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende, è rimasto sostanzialmente inapplicato nell'Italia repubblicana? Giocò senz'altro il ricordo del progetto fascista. Ma la causa principale di perplessità e sospetti, anche da parte delle imprese, nei confronti della partecipazione d'impresa fu il marcato radicalismo della sinistra italiana e del suo più grande sindacato, la CGIL. La collaborazione dei lavoratori alle scelte aziendali non poteva trovare spazio in una strategia volta a “fuoriuscire” dal capitalismo tramite una dura lotta di classe. Certo, negli anni Settanta emersero correnti più moderate, sia Trentin che Lama flirtarono esplicitamente con gli orientamenti delle socialdemocrazie continentali, e cioè concertazione e co-gestione. Ma l'esigenza di conservare unità interna e di non avere nemici a sinistra mantennero la CGIL su posizioni molto distanti da quelle tedesche e decisamente più massimaliste rispetto a quelle degli altri due grandi sindacati nazionali. Esaurito il breve esperimento di convergenza e moderazione durante i governi di unità nazionale (1976-1978), gli anni Ottanta segnarono il ritorno di una strategia di antagonismo conflittuale da parte della CGIL e di netta rottura con la UIL e la CISL Come nasce, nel 1976, in Germania la legge sulla codecisione (Mitbestimmung)? Sin dagli anni Cinquanta esisteva in Germania una tradizione di co-gestione delle imprese nel settore dell'acciaio e del carbone. Questa tradizione diventa poi parte integrante della nozione largamente condivisa di “economia sociale di mercato”, dalla quale nacque appunto la Legge del 1976 In che modo il lavoratori partecipano concretamente alla gestione d'azienda nel sistema tedesco? Quale è il bilancio di ormai quaranta anni di relazioni industriali improntate alla cogestione? La legge del 1976 stabilì il principio della parità dei seggi nei CDA fra azionisti e sindacato nelle aziende con più di 2000 dipendenti. In caso di parità dei voti in consiglio, prevale il voto dei rappresentanti degli azionisti. Gli accordi fra le parti sociali sono vincolanti ed esigibili per via giudiziale, la politica generalmente non entra nel merito delle condizioni della forza-lavoro e delle tematiche riservate dalla legge alla cogestione. Il bilancio è largamente positivo, sia da parte dei partecipanti al sistema della Mitbestimmung, sia da parte degli studiosi. Negli altri Paesi della UE, come è la situazione in termini di partecipazione dei lavoratori alla gestione di impresa? Nell'ultimo ventennio la democrazia economica è intanto diventata una realtà in molti paesi. La Mitbestimmung esiste da tempo in Olanda. Il 25% circa delle imprese UE adottano schemi di profit sharing, con punte superiori al 40% in Gran Bretagna, Francia, Germania e Olanda. Quali sono, a suo giudizio, vantaggi e rischi dell'applicazione del sistema partecipativo? Dai suoi fautori la democrazia economica è stata storicamente presentata come strumento per rendere il capitalismo più efficiente; per controbilanciare le asimmetrie di potere fra capitale e lavoro; per attenuare il conflitto distributivo. I critici di orientamento liberale l'hanno invece accusata di minacciare il

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corretto funzionamento sia del mercato sia della politica democratica. Dal canto loro, i marxisti ortodossi hanno sempre trattato compartecipazione e cogestione come inutili diversivi rispetto agli obiettivi “strutturali” della lotta di classe. Sulla scia delle concrete esperienze europee, si è fatta strada la convinzione che la partecipazione dei lavoratori possa svolgere un ruolo virtuoso per il sistema produttivo, senza compromettere né i fondamenti dell'economia liberale né il fisiologico confronto fra capitale e lavoro. Più che sulle questioni di principio, l'attenzione è oggi concentrata sulle cornici regolative capaci di far emergere “buone pratiche”, caratterizzate da ricadute positive in termini di crescita e di equità distributiva. Sono maturi i tempi, nel nostro Paese, per dar vita a forme di partecipazione all'interno delle aziende? In che modo, secondo lei, potrebbe strutturarsi una proposta di legge improntata alla democrazia economica? Nel panorama europeo l'Italia è il fanalino di coda per quanto riguarda le esperienze partecipative. Ben vengano dunque le aperture degli ultimi governi e delle parti sociali a procedere rapidamente su questo fronte. In Parlamento già esiste da tempo un disegno di legge elaborato da Ichino e volto a promuovere una vasta gamma di sperimentazioni partecipative, non solo di natura finanziaria. Giuseppe Farese


POLITICA\RIFORME

CRITICA DEL MONOCAMERALISMO

Il momento di mettere mano alle grandi riforme dell'architettura istituzionale dello Stato, dopo l'accordo tra la destra rappresentata da "Forza Italia" e la sinistra personificata da Matteo Renzi, pare sia giunto. Ora bisognerà verificare che cambiamenti attendono le nostre istituzioni pubbliche. In particolare quello che appare più a rischio è il futuro del Senato della Repubblica. Sembra che, a parafrasare il titolo di un noto film di alcuni anni or sono, siano diventati "tutti pazzi" per il monocameralismo. A sentire gli odierni rappresentanti politici, essi sostengono che la fonte di tutti i guasti, e i ritardi, della nostra disastrata Repubblica sia stata individuata e che abbiano trovato finalmente il colpevole da processare: il bicameralismo perfetto di cui l'esistenza della Seconda Camera, il Senato, rappresenta l'incarnazione della prova. L'antidoto sarebbe quindi la riduzione dell'intera funzione parlamentare all'attività legislativa e decisionale di uno solo dei due rami del Parlamento, che sopravviverebbe: la Camera dei Deputati. Per quanto attiene alla sorte dell'altro, il Senato, si rinvia ad altra sede la facoltà di intonarne un "de profundis" commemorativo. Sarà certamente vero che la nostra legislazione sia divenuta, soprattutto negli ultimi decenni, lumaca rispetto all'accelerazione che la trasformazione continua del quadro socio-economico ha imposto anche alla dinamica statuale. Non v'è dubbio che il potere sovrano del Legislatore italiano sia stato fiaccato dall'azione di governo, sempre più incalzante sul fronte dell'esercizio della funzione legislativa. Ciò che doveva restare eccezionale ai sensi del dettato costituzionale (artt. 76/77 C.), con il ricorso ordinario alla decretazione, è invece divenuta prassi costante. La necessità e l'urgenza di cui parla la norma di rango superiore hanno ceduto il passo alla consuetudine. Di questa situazione anomala tutti si dolgono. Se ne duole il Parlamento che, a intervalli ricorrenti, reclama, soprattutto per bocca delle forze d'opposizione di turno, il ripristino della legalità costituzionale. Se ne duole il Presidente della Repubblica che non manca di far sentire la propria voce contraria all'abuso dello strumento della decretazione quale attività surrogatoria della corretta funzione legislativa. Se ne dolgono le parti sociali che giudicano la frammentazione dell'agire "a scatti", propria dell'azione di governo, la causa occlusiva del fluire ordinato di una legislazione coerente. E se ne duole lo stesso Governo che lamenta come un soverchio affanno il fatto di dover intervenire laddove l'immobilismo dell'azione parlamentare non consenta tempestivi adeguamenti dell'Ordinamento Giuridico agli scenari che mutano. Sotto accusa è finito il cosiddetto "sistema navetta" in base al quale un progetto legislativo fa la spola tra le due Camere che hanno la stessa competenza. Solo al termine dell'iter parlamentare, quando i due rami del Parlamento avranno approvato l'identico testo di legge, esso vedrà la luce. Nel frattempo, la proposta deve aver superato tutti gli ostacoli e le trappole che una sapiente tattica parlamentare può porre in essere per ritardarne o "insabbiarne" l'approvazione. Se a questa condizione si aggiunge il fatto che tutte

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le proposte hanno un arco temporale di vita definito che è quello stesso della durata della legislatura giacché tutto quanto è in corso di valutazione, all'atto di scioglimento delle Camere, diviene fatalmente carta straccia, si comprende come tante buone idee siano finite per lastricare la strada dell'inferno della politica "politicante", fatta non di fiamme ma di inconcludenza. Volontaria, colpevole inconcludenza. Questa pur vera constatazione ha spinto gli attuali leader riformatori a convenire sul fatto che l'abolizione di una Camera dimezzerebbe i tempi di approvazione delle proposte di legge rendendo l'intero iter legislativo più snello e, soprattutto, funzionale alle dinamiche sociali ed economiche del nostro tempo storico. Sembra tutto così chiaro da apparire quasi scontato, superfluo perfino il ragionarci sopra. Vi è una sorta di meccanicismo concepito dai fautori delle nuove architetture da far sembrare automatico il nesso tra l'abolizione di una Camera e la soluzione del problema dei ritardi legislativi del nostro sistema. A fronte di tanta granitica certezza alzo la mano per rivendicare il diritto di dissentire radicalmente dall'agire lapalissiano nella definizione di questa bizzarra Teoria dello Stato. Sono dell'idea che nulla possa essere dato per scontato in materia di sovranità e di governo della "cosa pubblica". Quindi, pongo la questione: siamo proprio certi che l'immobilismo nel quale è rimasta impantanata la "seconda Repubblica", molto più di quanto non lo fu la "prima", che pure conobbe una stagione di grandi riforme, sia dovuto all'esistenza del bicameralismo perfetto? Penso invece che la causa principale dell'inefficienza del sistema sia da ricercare nel nodo irrisolto tra mediazione e decisione che è il binomio alternativo su cui si fonda l'essenza del principio di governo. In uno Stato a forma democratica, o meglio, in un sistema nel quale il costituzionalismo sia declinato con la forma democratica, la sovranità attribuita al popolo riconosce le proprie modalità realizzative nel ricorso all'azione dei partiti per la determinazione della politica nazionale (art.49 C.). Questo fondamento concettuale introdotto dall'Ordinamento superiore incrocia l'altro principio cardinale del nostro impianto istituzionale: "la pari dignità sociale" di tutti i cittadini, sancita dall'art. 3 C.. Si può ben dire che lo spirito che informava l'azione dei Padri Costituenti già volgeva verso un' interpretazione evoluta del principio democratico, nel senso che l'idea prevalente fosse quella non già di realizzare una democrazia parlamentare in senso classico, piuttosto di dare vita a "una democrazia dei partiti", espressione vivente della volontà dei cittadini di partecipare alla vita politica del Paese, senza discriminazioni di sorta, sia di tipo individuale sia di tipo collettivo. La via tracciata dava luogo a un 1 processo di costituzionalizzazione della libertà d'associazione in forme preordinate . Ma l'universalizzazione del diritto, contenuta nella struttura formale dell'articolo 49, teneva fuori dalla previsione del legislatore superiore l'eventuale necessità di costituzionalizzare, immediatamente dopo, il principio maggioritario quale strumento operativo nell'ambito di una struttura sociale disomogenea e interclassista, com' era e si rappresentava l'Italia risorta dalle ceneri della disfatta bellica e della guerra civile vissuta. Si è trattato di un errore fatale. In realtà, non vi sarebbe stata possibilità alcuna per l'affermarsi del principio maggioritario, in quanto la stessa Carta Costituzionale, venuta fuori dall'opera di mediazione dei partiti presenti nell'Assemblea Costituente, era profondamente intrisa dello spirito proporzionalistico a cui venivano informati tutti i livelli istituzionali dell'impianto statuale. Scrive un noto costituzionalista: "Gli articoli 72 e 82, prescrivendo i criteri per la composizione delle commissioni parlamentari, assumono la proporzionalità come presupposto istituzionale da essi articoli 2 normativizzato" . Lo spirito della Carta reca l'inconfondibile segno del suo tempo storico, segnato com'era, da un'esperienza ventennale di dittatura che aveva condotto all'affermarsi dello Stato totalitario. E' di tutta evidenza che le forze emerse dalle ceneri della guerra desiderassero garantire, a sostegno del principio democratico, il concorso plurale di tutte le espressioni partitiche emergenti dalla


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società civile. Ancora il Ferrara: " Basterebbe la sola norma dell'art.2 a dimostrare che quello della rappresentanza analitica della realtà comunitaria, in tutte le sue possibili articolazioni, è un valore costituzionale realizzabile solo attraverso la proporzionale e da questa, infatti, realizzato"3 . Questo principio cogente non calava semplicemente sulla realtà da un iperuranio dottrinale. Piuttosto emergeva dalle viscere del corpo elettorale che quel pluralismo lo avevano introiettato immediatamente come valore non negoziabile. La prova se ne ebbe nel 1953, quando per dare stabilità all'azione di governo fu tentata una svolta in senso maggioritario mediante l'introduzione di un meccanismo elettorale che stabilisse un premio di maggioranza, in termini di attribuzione di un maggiore numero di seggi alla Camera al partito che avesse conseguito la metà più uno dei consensi validamente espressi in tutte le circoscrizioni elettorali4. La Democrazia Cristiana si presentò alla competizione del 7 giugno dello stesso anno in coalizione con altre forze di centro puntando all'obiettivo del premio ma il corpo elettorale, sebbene fortemente orientato a votare per i partiti moderati, le negò la maggioranza assoluta5 . La frammentazione, dunque, del quadro politico, negli anni della cosiddetta "Prima Repubblica", assume il proporzionalismo come strumento vitale invocato a sostegno dell'ordinamento di cui desidera consolidare l'adesione della base sociale. E' opinione diffusa che se avesse prevalso, in quel dato momento, un differente sistema di rappresentanza degli interessi del corpo elettorale, magari meno inclusivo, vi sarebbero stati rischi concreti per la tenuta democratica della giovane Repubblica italiana. Ciò spiega del perché il legislatore costituente non introdusse la regola della maggioranza quale canone ermeneutico dell'articolo 49 C., determinando di fatto l'inverarsi di una lacuna dal punto di vista ordinamentale. Al contrario si attestò sull'affermazione della partecipazione paritaria dei soggetti collettivi alla formulazione della politica nazionale richiamando, nel testo, la parola "concorrere". L'effetto però non fu quello desiderato giacché l'assenza di vocazione maggioritaria spinse ogni partito a competere non già per la conquista del potere quanto ad acconciarsi per la partecipazione ad esso. Ne è conseguito lo scadimento dell'offerta programmatica da parte di ciascun partito che dalla originaria vocazione alla partecipazione concorsuale alla politica nazionale, secondo il dettato dell'art 49 C., deviava in direzione esclusiva dell'accesso alla sfera del potere governativo, inteso in senso lato. Nella prassi istituzionale, la richiamata lacuna conduceva le strutture partitiche a caratterizzarsi come luoghi di ricomposizione della pluralità delle istanze promananti dal tessuto civile della nazione, in vista di un processo di sintesi che doveva concretare l'agire politico. Per la Costituzione, dunque, la funzione dei partiti si sublimava nell'azione di raccordo tra società e Stato. Tuttavia, la doppia funzione di rappresentanza di interessi diffusi, da una parte, e, dall'altra, di decisore reale della regolazione delle meccaniche dello Stato-apparato, ha fatto del soggetto "partito" l'espressione di un'intima contraddizione rappresentata dalla sua natura di "parte totale"6. In sostanza, i partiti sono chiamati ad agire all'interno di una struttura sociale frazionata non solo dal punto di vista della differenziazione culturale e ideologica, quanto della pluralità di interessi riconducibili all'appartenenza a una classe. E' un fatto che la società civile nell'ambito della quale essi si collocano, sia divisa in classi come anche il dettato costituzionale riconosce (art. 3, 2 co., C.). Tuttavia, il tentativo di porsi concettualmente come strumenti di superamento delle divisioni sociali e delle separazioni castali ha determinato una fragilità di sistema non recuperabile a causa del depauperamento di forza coesiva subita dal soggetto "partito" rispetto alla sua funzione tradizionale. Da questo ossimoro, dall'essere allo stesso tempo rappresentazione elettorale della parte, mediante la ricerca e il conseguimento del maggior suffragio, e proiezione dell'intero in quanto sistema che trova materializzazione nella funzione di determinazione della politica nazionale, prende vita quel processo degenerativo che è stato individuato

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come la principale causa di degrado nella prassi della "Prima Repubblica". E', in altri termini, il fenomeno che l'immaginario collettivo conosce come "partitocrazia". Non è un caso se la cosiddetta "Seconda Repubblica" nasca dandosi come "mission", in segno di apparente discontinuità col passato, proprio la 7 lotta alla partitocrazia . Sul banco degli imputati sale il concetto di "metodo democratico" che dovrebbe sovrintendere alla creazione della politica nazionale attraverso i partiti. La dottrina giuridica attribuisce a questa 8 espressione significati diversi . L'orientamento prevalente tende a ritenere che il legislatore costituzionale avesse reso implicita l'idea che i partiti dovessero dotarsi, al proprio interno, di regole democratiche. Nell'accezione comune "metodo democratico" significa che, nella costruzione della proposta politica, debba vedere prevalere la volontà della maggioranza ma, nel contempo, la maggioranza non deve sopraffare la minoranza, al punto di conseguire la condizione perfetta dell'iperbole del metodo democratico per il quale "si governa anche dall'opposizione". Un altro ossimoro! Di fatto, negando il principio di supremazia assoluta della libera espressione maggioritaria, il sistema costituzionale apre le porte alla "dittatura della minoranza". In altre parole, l'esigenza di dare spazio, nella implementazione del processo normativo, al diritto della minoranza, finisce con l'indebolire la forza di penetrazione sociale della proposta. Allo stesso tempo la percezione di cedimento nella forza maggioritaria, spinge la minoranza ad "alzare il tiro" delle sue pretese fino a conseguire il massimo risultato nello snaturamento del progetto iniziale come proposto dalla maggioranza. Questa prassi determina, in primo luogo, l'adozione di un provvedimento giuridico che nella sua formulazione finale quasi mai coincide con il suo contenuto originario. In secondo luogo, la ricerca di un maggior consenso, o quanto meno di un dissenso temperato, provoca una perdita di tempo eccessiva a detrimento dell' attualità delle risposte programmatiche alle domande afferenti dal contesto sociale. In realtà a segnare la strada che ha sostanzialmente ingessato il cosiddetto "metodo democratico", inchiodandolo alla prassi obbligata della mediazione, è l'espressione concettuale di "concorso" che il legislatore ha inteso introdurre nella norma superiore. Il termine rinvia all'idea che debba sussistere un principio di parità tra le singole forme della partecipazione alla determinazione della politica nazionale. Si tratta di un fattore decisivo nella configurazione del nostro sistema costituzionale. L'inderogabilità del principio paritario, sancito dalla presenza della parola "tutti" nel dettato costituzionale all'art.49, spazza via ogni possibile diversa interpretazione che assegni a parti specifiche, o qualificate, dell'insieme del corpo popolare, il diritto di stabilire la politica nazionale. Il problema della composizione del quadro politico entro il quale rendere praticabile l'esercizio del metodo democratico, subisce un altro colpo dal fatto che le normative sulla rappresentanza del corpo elettorale nel nostro Paese, siano state concepite per non consentire con facilità a un partito di conseguire una maggioranza assoluta dei suffragi. Per questa ragione, nella "Prima Repubblica" si è consolidato il sistema del cosiddetto "governo di coalizione". Con questo strumento si è pensato di porre rimedio all'inattitudine dei singoli partiti a conseguire un'autosufficienza parlamentare per poter governare, e legiferare, secondo il principio del consenso maggioritario. Ne è conseguito che il concorso nella costruzione della politica nazionale, venisse a materializzarsi nella prassi delle alleanze tra partiti. Si dirà: il contatto tra diverse offerte avrebbe dovuto provocare una crisi della rappresentanza. Al contrario, le aggregazioni partitiche, decidendo di estendere il proprio livello di rappresentatività alla protezione di interessi ulteriori, si sono prestate al rischio di mutazione genetica dando luogo, sulla base di una prassi del compromesso, alla elaborazione di piattaforme programmatiche, le quali, di volta in volta e in base alle circostanze, contenessero prodotti di sintesi scaturiti dal confronto dialettico delle


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parti in campo, fuoriuscite dal rigido schema della difesa degli interessi di classe. Ma per prodursi la sintesi desiderata si richiedeva l'adesione unanime dei componenti dell'alleanza alla proposta che successivamente passava al vaglio della controparte minoritaria. In questa fase le componenti numericamente meno forti dell'alleanza avevano l'occasione di far sentire la propria voce, agendo con l'arma della pressione sul gruppo più consistente. Atteso che i voti delle piccole realtà presenti nell'alleanza di governo erano solitamente decisivi per l'ottenimento di un consenso maggioritario, i progetti proposti all'approvazione subivano sovente una rimodulazione significativa in favore dell'accoglimento delle istanze delle cosiddette forze minori. A cagione di ciò il cittadino, durante la vita della "Prima Repubblica", si era assuefatto all'idea, di per sé frustrante, di vedere annichilite le proposte del partito per il quale aveva votato, dalla prevaricazione programmatica delle forze alleate, anche nel caso che il partito prescelto avesse tecnicamente vinto le elezioni. Altra conseguenza della prassi della mediazione era che si giungesse a tracciare una linea programmatica sottodimensionata rispetto alla potenziali possibilità di un blocco elettorale risultato vincente. Per la nefasta azione dei veti incrociati, restava realisticamente alle forze riunite in una coalizione di governo concentrarsi sui punti comuni, in realtà pochi, sui quali sarebbe stato possibile registrare un consenso unanime. Tutto il resto delle proposte sulle quali era stato ottenuto il consenso del corpo elettorale finivano per arenarsi nelle sabbie mobili del Parlamento. Questa prassi che si è protratta per l'intero arco di vita della "Prima Repubblica" ha, nei fatti, operato il totale scollamento del principio di "politica nazionale", richiamato in Costituzione, dal diverso e autonomo concetto di "indirizzo politico". L' estenuante ricerca della continua mediazione, prima tra le forze interne al governo di coalizione e, successivamente, con quelle di maggior peso dell'opposizione, è stata scaturigine del convincimento, autorevolmente rappresentato nella letteratura giuridica che "…i cittadini associati in partiti politici non concorrono a determinare la politica nazionale se con essa si vuole 9 intendere la determinazione dell'indirizzo politico" . In sostanza, il legislatore costituzionale riconosce l'essenzialità indeffettibile dei partiti in quanto "portatori privilegiati delle domande che costituiscono il 10 contenuto della politica nazionale" , mentre non interviene a porre condizioni e limiti al processo di costruzione dell'indirizzo politico. La volontà dei Costituenti si precisa nel riconoscere che i partiti non debbano essere considerati come i soggetti esclusivi della politica nazionale. Altre espressioni afferenti dalla cosiddetta società civile sono chiamate a concorrere alla stessa funzione della quale i partiti rappresentano l'elemento privilegiato non eliminabile. I partiti, dunque, sono configurabili come un organizzato "status activae civitatis", alla stregua di un congegno propulsore installato all'interno della comunità che abbia la funzione di innescare la volontà popolare. La politica nazionale, quindi, si rappresenta come un "luogo" , un ôïðïò, una piazza nella quale ciascuno espone il proprio prodotto, e attende di essere scelto. La meccanica è quella di un matching tra domanda e offerta nella sfera della ricerca del consenso. Ma soltanto il mescolarsi del magma delle domande politiche, che si contaminano fra di loro, fa solidificare un progetto concreto e attuabile che assume la veste di indirizzo politico. E' soltanto quest'ultimo passaggio che trasforma una informe, astratta volontà decisionale del popolo, sostenuta in via di principio, in atto politico destinato a produrre effetti giuridici cogenti. In concreto, se la politica nazionale resta una dimensione teorica per noi comuni cittadini, l'indirizzo politico costituisce la modalità della sua trasformazione in atto concreto. Ma perché potesse funzionare, negli anni della Prima Repubblica, era necessario che ci si mettesse d'accordo e quanto più largo fosse stato il consenso intorno a una proposta tanto più essa avrebbe goduto della possibilità di trasfondersi in un provvedimento di natura legislativa. Tutto ciò con buona pace delle differenze di vedute, delle divisioni ideologiche e

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programmatiche e con la sostanziale separazione della comunità in base a differenti visioni del futuro. Tuttavia, anche negli anni della Prima Repubblica vi sono stati momenti nei quali la mediazione tra diverse impostazioni programmatiche è saltata provocando un vulnus nella coesione del sistema sociale. Queste occasioni hanno riguardato prevalentemente scelte di carattere etico o bioetico. Nei casi specifici, la determinazione della rappresentanza politica non è stata ritenuta sufficiente per dirimere i conflitti generatisi, per cui si è fatto ricorso allo strumento giuridico divisivo per eccellenza: la consultazione referendaria. A titolo esemplificativo basti ricordare quello per l'abrogazione della legge sul divorzio e quello per l'abrogazione della normativa sull'aborto, o ancora quello per l'abrogazione della legge sull'energia nucleare. Non v'è dubbio che dopo le scelte radicali imposte dagli esiti referendari la società sia cambiata, provocando mutazioni profonde nell'idem sentire della coscienza civile. Con la "Seconda Repubblica" le forze politiche, che si sono candidate a sostituire quelle annientate della " 11 Prima" , hanno immediatamente affrontato il problema della restituzione del potere decisionale alla volontà della maggioranza del corpo elettorale. Per questo scopo da più parti si è posto l'accento sulla necessità di realizzare una vera democrazia dell'alternanza quale espressione matura di uno Stato costituzionale a forma di governo democratico. Per raggiungere l'obiettivo, che era totalmente alieno alle rappresentanze partitiche in vita durante la precedente stagione istituzionale, i nuovi attori politici, sbagliando, avevano ritenuto sufficiente approvare una modifica della legge elettorale in senso maggioritario come se ciò bastasse a trasformare "ab ovo" un intero impianto istituzionale. Nulla di più illusorio. La fallacia dell'approccio era nella sottovalutazione dell'esperienza storica repubblicana. Sarebbe bastata quella per comprendere "l'impossibilità strutturale di utilizzare il principio maggioritario come soluzione al problema della formazione della maggioranza e del governo al livello di scelta elettorale"12 . Dopo un primo tentativo di governo maggioritario durato pochi mesi nel 1994 (I governo Berlusconi), la logica d'impianto ha avuto la meglio sul tentativo "avventuristico" di cambiare la modalità di governo del Paese, a cagione del fatto che i cosiddetti rinnovatori non avevano compreso quanto fosse necessaria una riforma radicale dell'architettura dello Stato prima di poter affermare pienamente il principio maggioritario. La realtà degli anni successivi ha restituito l'immagine di un Paese per nulla cambiato rispetto al passato. Al contrario alcuni elementi patologici della Prima Repubblica hanno trovato spazio sistemico nella Seconda, fino a diventarne cifra distintiva. E' il caso del principio della "concertazione" e della sua variante criminogena: il consociativismo. Questa regola aurea ha messo a frutto l'idea originaria del concorso del maggior numero di soggetti collettivi alla formulazione della politica nazionale, portandola all'estreme conseguenze. Alle decisioni di interesse pubblico, a tutti i livelli del sistema amministrativo, è stato applicato il principio del consenso vincolante non solo dei partiti ma anche degli altri attori sociali e territoriali, non esclusi i gruppi di pressione e i portatori di istanze localistiche o particolari. Questa prassi ha ingessato il sistema ancor peggio di prima. Il risultato è stato che in questi ultimi venti anni il processo riformatore si è interrotto determinando una perdita complessiva di valore per l'intero "sistema Paese", direttamente proporzionale all'aumento del grado di corruzione pubblica rilevato. La compressione degli spazi di agibilità consentiti a una rappresentanza maggioritaria della società si è accompagnata con un'altra decisiva compressione, coeva della prima, che ha ridotto sensibilmente il perimetro della sovranità nazionale dello Stato. Il richiamo è al processo d'integrazione europea che, implementato dagli accordi di Maastricht del 1993, passando per alcuni momenti topici come l'introduzione della moneta unica, la costituzione di una


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specifica area dell'Euro nonché la progressiva introduzione di norme compressive dei poteri autonomi del singolo Stato-membro, è oggi in piena fase di coronamento. Il combinato disposto di queste due diverse e convergenti condizioni ha agito da freno all'azione di governo, indipendentemente da quale parte fosse stata chiamata dal corpo elettorale alla guida del Paese. Lo stato di sostanziale paralisi a cui viene condannata la macchina pubblica da siffatto sistema ha spinto gli elettori a perdere fiducia nella efficacia dell'espressione del consenso. Gli elettori rimproverano, altresì, 13 alla nuova classe politica di non aver debellato il fenomeno del "frazionismo" che, al contrario, è cresciuto e si è irrobustito grazie all'ibridazione del sistema elettorale maggioritario innestato su di un impianto istituzionale strutturalmente proporzionalistico. Ma cosa è concretamente accaduto? Per poter ottenere il maggior consenso numerico, cioè per poter addizionare i voti utili, il meccanismo del sistema cosiddetto "maggioritario" imponeva ai singoli partiti di aggregarsi in coalizioni omogenee. Purtroppo il risultato che si è prodotto è stato, a dir poco, devastante, giacché quello che prima costituiva dinamica del confronto tra componenti partitiche diverse per dare vita all'azione di governo, con il nuovo corso si è trasformato in conflittualità permanente agita all'interno del perimetro coalizionale. Ne è conseguito che l'intenzione di ridurre al minimo l'incidenza della mediazione nella formulazione dell'indirizzo politico si è rivelata un' illusione ottica. Al contrario, rispetto al passato, il livello di mediazione è salito significativamente riuscendo, nella maggior parte dei casi, a innalzare il tasso di corruzione nella prassi politica. Le problematiche connesse ai rapporti tra differenti organizzazioni, una volta trasferite all'interno della coalizione elettorale, hanno dato l'infelice esito di paralizzarne la capacità decisionale. Negli ultimi venti anni, sebbene si siano alternati al governo del Paese i contrapposti cartelli del centrosinistra e del centro-destra, non sono state realizzate quelle riforme strutturali che avrebbero consentito all'Italia di tenere il passo con le nazioni più progredite. Il male è stato che entrambe le coalizioni si siano condannate all'immobilismo concedendo che i veti incrociati posti, di volta in volta, da ciascuno dei componenti del cartello elettorale e gli interessi di parte, sopravanzanti rispetto al più ampio interesse nazionale, facessero aggio sull'azione di governo. Naturalmente, non si è trattato di un fenomeno rilevabile soltanto dagli studiosi della dottrina dello Stato. Le ricadute dell'inazione delle coalizioni sono state percepite dalla società civile in termini di mancata crescita economica, di perdita dei posti di lavoro, di mancato ammodernamento del sistema produttivo e più in generale di aumento del grado di sfiducia nelle possibilità di miglioramento del tenore di vita delle persone e delle comunità. Il senso di delusione si è tradotto in un convincimento, che va di giorno in giorno estendendosi, circa l'impossibilità di conseguire il benessere diffuso mediante il concorso dei partiti, e dei soggetti collettivi istituzionalizzati, alla costruzione di un'efficace politica nazionale. Il segnale inequivoco di questa sopraggiunta disaffezione dei cittadini è rappresentato dal significativo calo dell'affluenza alle urne. Attualmente, gli istituti di rilevazione, evidenziano che la tendenza dell'ultimo quinquennio preveda soltanto un cittadino su due interessato a recarsi alle urne per esprimere il proprio voto. Altro indicatore della crisi del consenso è rappresentato dalla comparsa sulla scena politica di movimenti cosiddetti antisistema, cioè che presentano come punto qualificante dei loro programmi la liquidazione totale dei partiti tradizionali dalla vita politica. Nella tornata elettorale per il rinnovo del Parlamento, svoltasi nel febbraio del 2013, ha votato il 75% degli aventi diritto. Di questi ben il 25,5% si è espresso, nelle elezioni della Camera dei Deputati, in favore di un movimento dichiaratamente antisistema qual è l'M5S di Beppe Grillo. Se si rapporta la percentuale di voto espressa per M5S al dato dell'astensione, il quadro che emerge è allarmante: un cittadino su tre non

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crede più ai partiti tradizionali della cosiddetta "Seconda Repubblica". E' pur vero che le ragioni del default della rappresentanza politica sono molto più profonde di quelle elencate sommariamente, anche perché si deve tenere conto degli effetti della crisi strutturale che ha colpito globalmente le economie di tutti i paesi dell'Occidente sviluppato e che ha avuto riflessi particolarmente negativi sull'Italia. A squilibrare il nostro sistema economico-sociale hanno contribuito alcune scelte sbagliate di politica estera compiute, sebbene in fasi storico-congiunturali diverse, dai governi di entrambi gli schieramenti nonché una congenita debolezza della finanza statale appesantita da uno stock di debito pubblico tra i più alti al mondo. Inoltre, il sopravvento preso, nell'ambito delle politiche comunitarie, dalla Germania, la quale ha imposto ai Paesi partner severe strategie di austerity allo scopo di proteggere la moneta unica da rischi inflattivi, ha ulteriormente condizionato l' agibilità di governo delle coalizioni, al punto da rendere fondato il dubbio sull'effettivo grado di sovranità residuato al singolo Stato nazionale, all'indomani dell'intensificazione del processo d'integrazione fiscale-monetaria dei Paesi UE. In realtà, la questione che rileva ai fini della nostra analisi attiene, ancora una volta, all'impossibilità strutturale di superare la logica della mediazione obbligatoria a beneficio di un sistema governato dal principio della decisione. Resta del tutto illusorio pensare che per raggiungere l'obiettivo sia sufficiente cambiare ancora una volta la legge elettorale. In tal modo si continua a operare a valle senza rimuovere a monte gli ostacoli che impediscono la realizzazione di un sistema istituzionale coerente. Ora, il nuovo corso politico varato con la benedizione di tutti, o quasi, gli attori in campo, assume a postulato della proposta di abolizione del Senato, l'esigenza di consentire, mediante il monocameralismo, maggiore efficienza, in termini di tempo e di economia di spesa, nel processo di creazione delle leggi. E' naturale che, così posta, la questione non potrebbe che raccogliere unanimi consensi se non fosse per il fatto che è fallace l'asserto su cui fonda il processo logico. Dov'è scritto che sinonimo di efficienza sia produrre più leggi? Al contrario, se si potesse diagnosticare un male che causa la paralisi del Paese questo sarebbe proprio la superfetazione legislativa. Il nostro è uno Stato che rischia di perire soffocato dalle troppe leggi. Non si tratta di un'asserzione apodittica dal momento ché, ad oggi, neanche i massimi esperti giuridici possono indicare con esattezza il numero delle leggi vigenti in Italia. Indubbiamente il paradosso in cui versa il sistema giuridico italiano è causato da un consolidato "policentrismo normativo" che ha visto aumentarne, e non diminuirne, i centri di produzione. Si pensi al classico caso di scuola: la concessione di una licenza commerciale. Su siffatto atto amministrativo intervengono più fonti normative di differente grado a partire dal livello comunitario, a quello statale, a quello regionale, provinciale e, quindi, comunale. In realtà, il caso citato riguarda la questione spinosa della cosiddetta "semplificazione normativa". Sull' argomento la classe politica ha offerto il peggio di sé. Sebbene in ogni programma elettorale sia stato preso l'impegno solenne a un effettivo disboscamento legislativo, la cronaca parlamentare, invece, narra di uno stock normativo in costante aumento. L'immediata conseguenza di questa situazione rinvia allo strapotere che la burocrazia, negli anni, ha consolidato. Allo stato, dunque, si conferma profondamente errato il comportamento di quanti, aggregati al movimento dei moralisti della prima e dell'ultima ora, pongano l'accento sull'inefficienza della classe politica che, a loro dire, sarebbe pigra, oltre che corrotta. L'indicatore della negatività etica dei politici sarebbe individuato nello scarso volume di atti prodotti rispetto a quelli che l'opinione pubblica avrebbe atteso. Secondo questa bizzarra corrente di pensiero,


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sostenuta da inchieste giornalistiche a sfondo scandalistico e da fortunati pamphlet che hanno fatto la ricchezza di autori ed editori, pur di giustificare il pagamento dei lauti stipendi ai tanti politici assisi nelle aule parlamentari, si dovrebbe pretendere che costoro legiferino "ad libitum". In tal modo, però, si continua a danneggiare il Paese, anziché aiutarlo. La verità è che in questo momento servirebbe un'iniziativa di "profilassi normativa" di segno diametralmente opposto a quello invocato dai "Censori" di turno. Piuttosto che una fase costituente, oggi occorrerebbe un tempo sabbatico per la produzione legislativa. Non si tratta soltanto di sfoltire quantitativamente l'ordinamento giuridico, il numero di per sé potrebbe non voler dire nulla. Si pensi al caso del "mostro mitologico": il decreto "mille proroghe". Si conta per uno ma, dal punto di vista dell'ordito normativo, produce più danni di decine di leggi messe insieme. Vi è inoltre un problema in ordine alla incomprensibilità delle leggi nella loro stesura che sovente si presenta ambigua, contraddittoria, oscura. La modalità di scrittura sembra concepita apposta per dare spazio a ogni tipo di interpretazione, perché si produca un modello di legge personalizzato, declinabile in modo piuttosto che in un altro, a seconda delle convenienze del destinatario. Ma la libertà dell'ermeneutica giuridica si traduce in maggior potere per l'interprete. E' necessario un riordino sostanziale poiché le disposizioni che regolano singole materie sono sparse all'interno di un gran numero di leggi. E individuarle tutte si trasforma in una sorta di caccia al tesoro. Sarebbe, quindi, più salutare concedersi un periodo di destrutturazione e di deregolazione, al fine di rendere più snello ed efficace il rapporto tra il cittadino, in particolare il cittadino- imprenditore, e lo Statoapparato. Un'idea che si è fatta strada nelle recenti legislature sarebbe quella della cosiddetta "ghigliottina", che è stata prima inserita e poi, nel 2009, abrogata dalla Legge-delega sulla semplificazione, n. 69/2009. La ratio della "ghigliottina" era di stabilire ipso iure una decadenza generalizzata per tutte le leggi approvate prima di una data prestabilita, nel caso specifico il 1970, con la sola esclusione di quelle indicate come insopprimibili dai decreti legislativi. Il meccanismo applicato in un'unica occasione ha comunque consentito di tagliare molte norme che erano in vigore da oltre un secolo e che nessuno mai, in precedenza, aveva pensato di abrogare. Si pensi al caso paradossale del provvedimento, imposto da Mussolini nel 1936, istitutivo dell' accisa sulla benzina per sostenere la guerra d'Etiopia che i cittadini continuano a pagare. E' vero che, con la XVI legislatura, il governo si è dotato di uno specifico Ministero per la Semplificazione che ha iniziato a lavorare nella giusta direzione. Si calcola che su iniziativa del Ministro Calderoli siano stati abrogati 375.000 atti, tra leggi e regolamenti, il più vecchio dei quali risaliva al 1864. Successivamente, i governi che si sono succeduti hanno ritenuto di non rinnovarlo. Secondo le stime dell'allora Ministro Calderoli si sarebbe giunti, dopo un'accurata ricognizione, ad un ammontare dello stock pari a 21.691 atti legislativi vigenti a livello statale. Una massa spaventosa. Il lavoro, benché incominciato, è lontano dal determinare una soddisfacente ripulituta dell'ordinamento. In realtà il legislatore, anche negli anni più recenti, ha perseverato nel malvezzo di aggiungere strumenti sempre più farraginosi nel buon intento di combattere le "cattive prassi" della macchina amministrativa. Per fare bene si è fatto peggio. In concreto, solo un effettivo periodo speso a tagliare leggi potrebbe tradursi in un colpo decisivo allo strapotere di quella burocrazia che fonda la sua forza e la sua ragion d'essere sulla vastità invasiva, sovente contraddittoria e oscura, dell'impianto normativo- regolamentare della Pubblica Amministrazione. Dunque, se qualcuno dovesse sfidarci nel porre l'alternativa: vorresti una filiera più corta nell'iter di

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formazione delle leggi così che velocizzandone l'approvazione se ne avranno di più, o preferiresti concedere maggiore tempo al legislatore per creare un minor numero di leggi, in compenso più qualitative e performanti? Ogni persona di buon senso dovrebbe optare convintamente per la seconda tesi respingendo al mittente la prima, come nefasta per l'ordinato sviluppo democratico di una società fondata sullo Stato di Diritto e sulla separazione dei poteri Sovrani. La proposta di abolizione di un ramo del Parlamento, inoltre, genera un vulnus molto grave per l'equilibrio tra Poteri sovrani. In una realtà nella quale gli interessi individuali e collettivi dei cittadini sono ampiamente parcellizzati, è concepibile squilibrare il potere legislativo senza prevedere opportuni contrappesi? E' pensabile che si possa cedere per intero la funzione legislativa a un organo nel quale le maggioranze politiche potrebbero variare in qualsiasi momento giacché ogni singolo parlamentare, anche nella nuova configurazione costituzionale, manterrebbe il vantaggio della libertà di mandato (art.67 C.)? Il sistema bicamerale ha costituito un appena sufficiente riparo contro il rischio di eccessiva instabilità del quadro politico. In realtà, il fenomeno delle trasmigrazioni da un settore all'altro del Parlamento, quasi del tutto sconosciuto alla Prima Repubblica, è esploso in questi ultimi venti anni proprio per effetto della sostanziale disarticolazione dei partiti tradizionali che avevano maggiore presa sui loro rappresentanti. La crisi del collante ideologico ha privato la logica dell'appartenenza di quel fattore identitario sul quale era costruito il tradizionale modello di rappresentanza politica al tempo della "Prima Repubblica". Un comunista era un comunista, e lo era prim'ancora di essere senatore, deputato e financo semplice cittadino. Altrettanto, un democristiano restava orgogliosamente democristiano, qualsiasi cosa accedesse alla sua personale vicenda politica. Non parliamo della destra missina la cui esclusione permanente dal cosiddetto "arco costituzionale" rappresentava, per gli iscritti e per i rappresentanti parlamentari, motivo d'orgoglio e di distinzione di tipo quasi antropologico. Nella "Seconda Repubblica" il vuoto lasciato dall'elemento "ideologia" è stato occupato da un più concreto pragmatismo che ha condotto l'eletto, percepito come soltanto "civis" e non più "fidelis", ad approcciare la rappresentanza come un fattore di opportunità, se non di convenienza personale, al più di gruppo o di cordata. Il voto parlamentare ha assunto un valore fungibile del pari di qualsiasi altro bene a cui sia possibile conferire un controvalore economico, finendo per riconoscersi in una dimensione sinallagmatica della dialettica istituzionale. Questo fenomeno, che non va confuso con un altro analogo: il trasformismo, è divenuto prassi nella vita repubblicana di questi ultimi venti anni. Esso è approdato nel lessico della politica con svariati termini, tutti suggestivi: "Ribaltone"," Scouting parlamentare", "Scilipotismo" dal nome del parlamentare Scilipoti che, passando dal Gruppo Parlamentare d'opposizione " Italia dei Valori" a quello di maggioranza del P.d.L., con il proprio voto concorse al salvataggio del governo Berlusconi, sfiduciato da una parte della sua stessa coalizione. Attualmente, il frazionismo per un verso e la personalizzazione della politica dall'altro hanno reso più frequente il rovesciamento, in corso di legislatura, del risultato elettorale emerso dalle urne. Delle ultime cinque legislature, esclusa quella corrente, che si sono succedute durante la cosiddetta "Seconda Repubblica", a far data dal 1994, ben quattro si sono concluse con maggioranze diverse da quelle espresse al momento del voto dal corpo elettorale. E di queste, ben due si sono interrotte anticipatamente rispetto alla scadenza naturale. Orbene, secondo i progetti di riforma illustrati dalle forze politiche, alla sola Camera dei Deputati spetterebbe il compito di dare la fiducia al governo. La riforma prevede anche la riduzione drastica del numero dei parlamentari. Ciò condurrebbe ad una mutazione genetica della rappresentanza ai fini della


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costruzione del consenso in vista della composizione del governo, o del concorso alla determinazione delle leggi. Di fatto i voti non verrebbero più soltanto contati ma anche pesati, costituendo ogni singolo parlamentare un referente diretto di negoziazione per la composizione della maggioranza necessaria a esprimere il voto di fiducia al governo o a deliberare sull'approvazione di un testo di legge. Torneremmo in tal modo a forme predemocratiche di concezione della dinamica parlamentare, da "feudalesimo repubblicano" dove la centralità del delegato non ha più genesi politica, ma contrattuale. Il Parlamento della Repubblica sarebbe trasformato in una sorta di novella "Sala dei baroni". A questo punto è lecito domandarsi: procedendo alla sola abolizione di un ramo del Parlamento, senza intervenire sulle norme che regolano la rappresentanza, come si ritiene possibile assicurare la stabilità? Non si rischia invece, lasciando assoluto campo libero al singolo parlamentare di assegnare il proprio voto al miglior offerente, di precipitare il paese in un sistema di assoluta precarietà? E' di tutta evidenza, dunque, che l' idea di un monocameralismo il quale renda più incerta la vita della legislatura e quella dei governi ad essa collegati sia, nella condizioni date, un errore macroscopico. Al contrario, andrebbero rafforzate le meccaniche del bicameralismo perfetto, così come incardinate dai padri Costituenti nell'impianto istituzionale dello Stato, per garantire certezza del Diritto e di Governo ai cittadini. In concreto, l'Italia dovrebbe anelare ad avere Esecutivi stabili e poche leggi chiare e giuste. Dovrebbe, altresì, desiderare che vi siano meno poteri concorrenti nell'azione di governo e meno fonti giuridiche da cui dipendere. Il nostro Paese non è uno Stato federale benché la classe politica, in questi ultimi anni, abbia finto che lo fosse. Piaccia o no, siamo ancora in uno Stato unitario, sebbene siano state affidate alle regioni molte competenze che avrebbero dovuto rimanere nella ferrea giurisdizione del governo centrale. Al di là delle contorsioni dell'apparato politico, lanciato alla continua, spasmodica ricerca di soluzioni istituzionali miracolistiche, la realtà che abbiamo innanzi è elementare nella sua crudezza: il nostro sistema è stato mortalmente vulnerato dall'istinto di conservazione della sua Pubblica Amministrazione, tanto quella centrale quanto ancor più quella locale, che ha operato scientemente affinché nulla cambiasse nel rapporto di sudditanza del cittadino nei confronti dello Stato. La perenne instabilità degli esecutivi e l'inestricabile giungla legislativa hanno perfettamente servito lo scopo: avere una potente macchina burocratica al comando, in contrapposizione vincente con una sequenza di governi deboli e scarsamente rappresentativi. In conclusione, pensare di introdurre il monocameralismo come soluzione ai problemi di inefficienza e di ritardo della macchina dello Stato, senza modificarne integralmente l'impianto istituzionale, è una scelta semplicemente sbagliata. Di più, è una scelta pericolosa. Con l'assegnazione ad una sola Camera della responsabilità suprema di dare o revocare la fiducia al Governo, in combinato con il dimezzamento del numero dei deputati eletti, si paventa un concreto rischio per la tenuta democratica dei massimi organi costituzionali. Il potere di vita e di morte del governo affidato a uno sparuto numero di individui materializzerebbe lo spettro di un potere oligarchico. Se poi si vuole applicare il monocameralismo ad ogni costo, allora lo si faccia modificando, contestualmente, l'assetto attuale della bilancia dei Poteri. Si lasci al Parlamento monocamerale la potestà legislativa, introducendo correttivi al meccanismo di approvazione delle leggi di modo da evitarne l'eccessiva precarietà. L'investitura dell'esecutivo, invece, venga direttamente dal corpo elettorale, il quale, per ragioni di equilibrio, deve riappropriarsi di questa funzione sovrana. Non importa se la forma di governo sia quella presidenziale o del premierato. Se ne discuterà.

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Ciò che importa è che la vita della democrazia non venga posta esclusivamente nelle mani di partiti trasformati in centri di potere. Senza le necessarie variazioni d'impianto i singoli eletti, svincolati per norma costituzionale da ogni vincolo di mandato e favoriti da una legge elettorale che, non prevedendo le preferenze, ne consenta la cooptazione, finirebbero per consolidare un assetto di regime estraneo alla forma democratica di Stato a cui è ispirata la Carta fondamentale della Repubblica Italiana. Altri aspetti di una reviviscenza del feudalesimo, quale fenomeno storico-culturale, potrebbero attrarci, ma non quello, eticamente deprecabile e politicamente fallimentare, di un rinnovellato oligarchismo baronale. Cristofaro Sola

NOTE: 1 In tal senso può essere letta la proposta Basso presentata alla I Sottocommissione dell'A.C. (Seduta del 20 novembre 1946, pag. 409 e segg.) volta a riconoscere funzioni costituzionali ai partiti politici. La proposta, in realtà, non fu riversata nel testo definitivo. Tuttavia, il richiamo al ruolo dei partiti, sostanziato nell'art. 49 C., ha di fatto concorso a promuovere quel clima nel quale si è consolidata l'equazione istituzionale partitidemocrazia. La ricostruzione degli eventi è in Ferrara, Il Governo di Coalizione, pag.10, nota, Milano 1973 2 Ferrara, Op. Cit., pag.53, Milano 1973. 3 Ferrara, ibidem, pag.54. 4 Promulagata il 31 marzo del 1953 (n.148/53) la legge recava un correttivo a quella vigente al momento. Essa è ricordata come " legge Scelba" dal nome del suo proponente e primo firmatario. Il provvedimento approvato con i soli voti dell'allora maggioranza, fu avversato dalle opposizioni che la definirono "legge truffa". Il malcontento generato per la sua introduzione spinse il Parlamento l'anno successivo ad abrogarla. 5 Il clima politico di quel particolare momento della storia italiana è magistralmente descritto nei racconti di "Mondo Piccolo", partoriti dalla penna di Giovannino Guareschi, che descrivono quei genuini riquadri di vita semplice di cui sono intessute le storie di Peppone e Don Camillo. 6 Cfr. Mortati, Istituzioni, vol.II, pag 796. 7 L'antesignano della lotta alla partitocrazia, nel corso della "Prima Repubblica", fu Randolfo Pacciardi, esule antifascista durante il ventennio, combattente per la libertà nella guerra civile di Spagna, ispiratore, nel 1964, del movimento politico denominato "Unione Democratica per la nuova Repubblica". Il programma del movimento si centrava sullo slogan "disfare le sette per rifare lo Stato". Si trattava, nel progetto concepito da Pacciardi, di combattere il sistema della partitocrazia, il quale si mostrava portatore di un paradosso: dichiararsi democratico, praticando nei fatti un metodo dispotico di esercizio assoluto del potere. Nella prospettiva pacciardiana vi era la creazione di una Repubblica presidenziale, fondata sulla separazione dei Poteri sovrani e sul principio di responsabilità. Pacciardi, non più segretario del Partito Repubblicano Italiano, nelle cui fila aveva militato, in un intervento alla Camera dei Deputati, in occasione del voto di fiducia al primo governo Moro- Nenni, il 12 dicembre 1963, lancia la sua sfida alla partitocrazia: "Molti di noi hanno tentato…hanno fatto il possibile, hanno dedicato la loro vita per rovesciare re e tiranni; ma almeno quelli ci erano imposti! Il colmo sarebbe che, dopo essere diventati cittadini e uomini liberi, volontariamente, diventassimo sudditi e schiavi di queste moderne baronie che sono i partiti politici, ai quali si deve obbedire ciecamente con la scusa che decide la maggioranza". 8 Sul punto cfr., tra gli altri, Mortati, Note introduttive a uno studio sui partiti politici, pag.138 e segg.; Crisafulli, la Costituzione della Repubblica Italiana e il controllo democratico dei partiti, in Studi Politici, 1960, pag.271 e segg.; Rossano, Considerazioni sulla democrazia e sullo stato di partiti, pag.689 e segg.; Predieri, I Partiti Politici, pag.202. 9 Martines, Contributo ad una teoria giuridica delle forze politiche, pag.189 e segg. La citazione è tratta da Ferrara, Op. Cit., pag.31, nota. 10 Giovanni Ferrara, Op.Cit, pag.34/35, Miano, 1973. 11 Per una sintetica giustificazione delle ragioni che hanno determinato la crisi della cosiddetta "partitocrazia", possiamo condividere l'analisi gramsciana, sebbene i giudizi complessivi conducano a conclusioni antitetiche. "A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono, li rappresentano, e li dirigono non sono più riconosciuti come propria espressione della loro classe o frazione di classe. Quando queste crisi si verificano, la situazione immediata diventa delicata e pericolosa, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all'attività di potenze oscure, rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici". Gramsci, Note sul Macchiavelli, pag.74, Roma 1974. 12 Ferrara, Op.Cit., pag.54 13 Sulla differenza tra frazionismo di "convenienza" e di "principio" per gli effetti remunerativi prodotti cfr. G. Sartori, Proporzionalismo, frazionismo e crisi dei partiti, in Rivista di Scienza Politica, pag. 638 e segg., 1971.


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PARTECIPAZIONE DAL SIGNIFICATO VARIABILE Tutte le tematiche sociali che animavano l'Europa fino alla fine degli anni '90 si sono perse nelle nebbie dell'efficientismo, del razionalismo, dell'economicismo. Eppure, sino ad allora, lo sforzo europeo, dichiaratamente, era quello di superare la visione riduttiva e paralizzante che vedeva (e vede) nel modello sociale europeo un insieme di costi e vincoli che grava sulla competitività delle economie europee. Si vedano, ad esempio, le risultanze del lavoro del Comitato dei Saggi, convocato per la preparazione del Forum di Bruxelles del marzo 1996; risultanze sintetizzabili in “quattro grandi messaggi” ampiamente sottoscritti dall'allora Presidente della Commissione Santer: 1. la dimensione sociale si identifica, si riunisce con quella della cittadinanza; 2. la dimensione sociale deve essere dinamica e di prospettiva (risponde ai mutamenti profondi, implica un progetto di società, si accompagna a quella dell'allargamento dell'Unione); 3. la dimensione sociale, non si oppone, ma anzi sostiene la ricerca di competitività; 4. la dimensione sociale implica la partecipazione di tutti (richiede la partecipazione democratica di tutti i cittadini europei). In quell'occasione, il presidente della Commissione si spinse fino ad ammettere la propria disponibilità a considerare una "audace" proposta elaborata dal suddetto Comitato dei saggi: la convocazione degli "stati generali dei cittadini d'Europa". L'impegno che in quell'occasione emerse era talmente forte che la proposta finale lanciò un “Patto europeo di fiducia per l'occupazione" la cui scommessa era quella di “convincere”: "convincere per mobilitare i consumatori, gli attori economici e sociali, gli operatori sui mercati finanziari.". “E se le parole hanno un senso, - concluse Santer in quell'occasione, - "volere un patto, significa fortemente rivolgersi agli attori, e mobilitarli. Perché niente si farà senza il dialogo né senza il loro coinvolgimento" ……”si potrà così parlare in un prossimo avvenire, senza che ciò faccia alzare le spalle, di un vero pacte sociétal - tutto il contrario di una società o di una Europa à la carte - nel quale tutte le forze vive saranno mobilitate". Era l'ammissione della necessità di un processo di costruzione di cittadinanza europea che, muovendo dal coinvolgimento di grandi masse di cittadini nei meccanismi del solo sviluppo industriale delle singole nazioni, ribadiva la sua indispensabilità a carattere sovranazionale, proprio con l'allora approssimarsi della globalizzazione. Le ragioni di quel convincimento risiedettero, peraltro, nella percezione che senza quella costruzione sarebbe stato molto difficile incontrare il consenso politico necessario per “costruire” un'unione economica e, ancor di più, “costruire” un coinvolgente quadro istituzionale comunitario in grado di evitare la presagita, devastante, competizione fra sistemi di regolazione nazionale. In secondo luogo, e per conseguenza, si comprese che se a molti dei problemi economici e finanziari dell'età della globalizzazione deve rispondere con strumenti accentrati e "globali", ai problemi

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dell'occupazione e del mercato del lavoro si può far fronte solo con un efficace coinvolgimento di attori sociali entro processi codificati di tipo negoziale. Del resto, sono gli attori sociali a disporre dei dati sulle situazioni decentrate, delle capacità di gestione del consenso necessarie per la sperimentazione di politiche innovative, ma anche della possibilità di compensare con tutele di tipo associativo o contrattuale l'inevitabile rimodulazione della protezione sociale di fonte pubblica. Perciò, parlare del ruolo degli attori sociali, di un loro dialogo europeo, di un loro contributo decisivo nella costruzione di una cittadinanza europea, non è peregrino; ciò che successivamente interessa, però, è la possibilità concreta di adire quel percorso. Le tesi al riguardo sono almeno due: quella, scettica, della "impossibilità", e l'altra, forse un poco volontaristica, della "possibilità". La prima tesi si fonda soprattutto sul prevalere degli interessi alla non-azione da parte del fronte imprenditoriale. Secondo questa tesi, il dialogo sociale europeo e le relazioni industriali sovra-nazionali, non riuscirebbero ad andare oltre la produzione di immagini o di "ideologia" proprio a ragione del privilegio di cui godrebbe la parte degli imprenditori. Il privilegio di poter ottenere buona parte dei propri obiettivi anche attraverso la non-azione, la non-organizzaziane, attraverso la strategia della "sedia vuota". Su temi come quelli della deregolazione dei mercati, ovvero degli interessi alla integrazione in negativo, - è stato detto - "la non-organizzazione è la migliore organizzazione". La seconda tesi si ricollega, invece, sia alla necessità di una regolazione sovranazionale, avvertita da molti settori sindacali, sia agli interessi di quei settori imprenditoriali attenti non tanto alla competitività sui "fattori di prezzo" quanto alla competitività di sistema (che comprende gli aspetti della qualità). Del resto, eventi significativi, occorsi nel contesto comunitario negli ultimi vent'anni, dimostrano come la seconda tesi, da una base volontaristica, dovrebbe evolversi verso una codificazione, forse non eccessivamente strutturata, ma comunque sistemica. Per altro verso, ciò che dovrebbe fare premio nell'Unione, per evitare il trascorrere vano degli anni e il subire di devastanti fenomeni, è la riscoperta delle sue nobili linee di progresso e di sviluppo che possiamo trovare sintetizzate nel Libro Bianco sulla politica sociale europea del 1994: "i grandi cambiamenti strutturali che attualmente l'Unione si trova ad affrontare costituiscono nuove sfide per tale sistema. …. Ciò richiede una nuova complementarità tra legislazione e accordi collettivi, una maggiore partecipazione delle parti sociali nella preparazione delle misure in via di elaborazione a livello dell'Unione e nazionale nonché una più stretta cooperazione tra le Organizzazioni dei padronato e quelle dei lavoratori". Ed ancora. "D'ora innanzi la normativa sociale europea potrà essere fondata sia sull'iniziativa legislativa delle istituzioni dell'Unione sia sulla contrattazione collettiva fra le parti sociali.". Sono affermazioni significative sia dal punto di vista delle esigenze poste dalle politiche in oggetto, sia da quello delle logiche di regolazione. L'intervento degli attori sociali e del metodo dell'accordo, d'altro canto, è necessario sia per compensare eventuali inadeguatezze della strumento legislativo, sia per favorire la diffusione ed il rafforzamento di quelle forme di regolazione meglio in grado di interpretare i contenuti potenzialmente più innovativi del modello europeo. Ma, come detto, negli ultimi venti anni poco o nulla è stato fatto per individuare metodi, luoghi e occasioni per dare significato all'intento dichiarato. Tutto ciò posto, è paradossale che l'Unione abbia manifestato tanto interesse, fino a realizzare il suo intento di averli come membri, verso i Paesi dell'Europa centro-orientale. Infatti, quei Paesi, usciti dai


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sistemi del socialismo reale, sono oggi annoverati tra i detentori di una democrazia politica con assetti liberal-democratici, tipici di tutte le società europee. Ma se il varo di una costituzione che affermi la democrazia politica è raggiungibile rapidamente una volta che si presentino le condizioni storiche favorevoli, altro è raggiungere una adeguata organizzazione pluralistica della società e delle relazioni fra i diversi interessi dei gruppi sociali; aspetto parimenti importante in una società civile. E, infatti, ciò che in quei Paesi maggiormente si evidenzia è una scarsa rappresentanza di interessi, uno scarso dialogo sociale, la carenza di percorsi di confronto e, in conseguenza, insieme ad una notevole disparità reddituale tra fasce sociali, un accentramento della ricchezza in sempre minori mani. Una prospettiva, questa, che, per inciso, comincia a caratterizzare anche i Paesi europei di più vecchia democrazia. Il tutto, nel più assoluto silenzio comunitario. Il problema ancor più grave, comunque, è che una situazione del genere si riverbera immancabilmente sul territorio e ciò in ulteriore contrasto con le dichiarate politiche di coesione che trovano il fondamento proprio a livello regionale dei singoli Paesi. Sono noti gli intenti di realizzare impianti gestionali dei fattori di sviluppo a livello locale; impianti che vedono al loro interno situazioni e itinerari risolutivi differenti da territorio a territorio e che trovano punti di ancoraggio nelle relative politiche finanziarie comunitarie. Parimenti importante, sul piano dichiarativo, è lo sviluppo delle aree multiregionali tra Francia, Germania e Nord Italia, dotate di non dissimili caratteristiche economico-sociali e infrastrutturali, organizzative e finanche legislative regionali. Ora, se questi sono gli intenti che, dichiaratamente, animano l'Unione per la coesione comunitaria, che incitano i governi regionali per la programmazione del territorio e che, di riflesso, spronano gli attori sociali attraverso una congiunta partecipazione nell'uso di strumenti di monitoraggio e di governo del territorio eaudacia nel territorio, essi sostanzialmente si frangono a livello comunitario per l'assenza di strumenti, temeraria igiene spirituale luoghi, percorsi, obiettivi di dialogo sociale. Nel senso che il quadro comunitario di sostegno, una volta impostato nel suo periodo di valenza, articola meccanicisticamente i suoi effetti finanziari a prescindere dalla bontà o meno del percorso realizzativo e l'unica condizione che lo fa venir meno, fino al rimborso, è la sua mancata attivazione. La frontiera del dialogo sociale europeo, quindi, è ancora tutta da delineare e, tuttavia, essa è assolutamente fondamentale data la necessità di armonizzare contesti, categorie, Paesi, all'interno di un sistema di solidarietà con itinerari di sviluppo complessivo, per quanto graduali e diversificati. Un'ultima notazione al riguardo riguarda la rappresentanza sociale. La strutturazione della società in categorie è di tutta evidenza; per cui vediamo categorie a forte valenza politica con scarsa sensibilità sociale e categorie a forte valenza sociale con scarsa dignità politica, con rivendicazioni che rispettivamente vanno dalla difesa e dall'accrescimento di interessi particolari alla richiesta di esercitare giusti diritti. Strumenti di mediazione, quale ad esempio la concertazione nazionale (quando viene praticata), solo apparentemente e temporaneamente risolvono il conflitto di interessi il quale puntualmente ricompare ad ogni piè sospinto. Ma il fatto è che oggi il conflitto rivendicativo corporativo o locale paga sempre meno. Non paga più neppure il conflitto come connotazione ideologica perché non può più rispondere ad una pratica. Peraltro, la società, attraverso l'opera surrettizia della politica, ha sviluppato strumenti di forte inibizione del conflitto. E, di contro, la responsabilità dei soggetti sociali, in special modo sindacali, è giustamente portata a contemperare le esigenze degli utenti. Paga meglio il conflitto annunciato, o meglio la minaccia

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di esso, da parte gruppi di interesse a forte valenza politica. Il fatto è che la loro sensibilità sociale è alquanto graduata fino all'inesistente. Quest'ultimo aspetto dimostra sostanzialmente tre fatti, tra loro trasversali: non tutti i gruppi di interesse hanno adeguato ruolo politico, non tutti i gruppi di interesse hanno una politica adeguata alla bisogna, non tutti i gruppi di interesse hanno adeguata dignità di rappresentanza. Inoltre, se la concertazione (quando praticata) può essere oggi definita come lo strumento più elevato di mediazione di interessi plurimi e, nel contempo, come una esigenza della ricerca di un più ampio consenso alle politiche da emanare a causa della "debolezza" dei Governi e della ristrettezza delle risorse, ciò che va rilevato è che essa non include la totalità degli interessi manifestati dalla evoluzione della società stessa. Oggi assistiamo a configurazioni della rappresentanza che vanno dal rilancio del neo-corporativismo, a quelle che nominalmente rappresentano un pluralismo strutturato; credo, invece, che la situazione attuale possa ben definirsi come quella di un pluralismo dissolvente. Un pluralismo che, dalla sua originaria concezione di fondamento della democrazia, si è trasformato in una ridda di rappresentanza di interessi di status, di identità sociale o collettiva, di apice, di fascia, di luogo, peraltro oggi sempre meno esaudibili specificatamente. Eppure, il fenomeno preoccupante è che la frantumazione della rappresentanza si è articolata e si articola all'interno di categorie che possiamo definire tradizionali del mondo del lavoro e non ha, almeno per ora, in animo di rappresentare le nuove figure professionali, i nuovi lavori che pure iniziano a manifestarsi in maniera sempre più evidente. Ora, se per affrontare la complessità del momento, nel piccolo come nel grande, occorrono alcuni presupposti: - un impianto normativo, derivato da una visione cultural-politica, che preveda impianti e percorsi partecipativi; - una dimensione della rappresentanza sociale adeguata al livello dei problemi da affrontare, misurabile, disposta a misurarsi e a misurare, munita anch'essa di background politico-culturale confacente. Non sono mai stato abbacinato dal dubbio gramsciano sul primato della politica. Credo nel primato della politica, cioè nel primato delle istituzioni e degli strumenti capaci di ridurre il grado di complessità delle società avanzate e di governare gli effetti perversi, le nuove povertà e le innovate ingiustizie che essa produce. Alla politica, quindi, voglio riferirmi, soprattutto nella convinzione che la complessità che essa deve guidare vada prima compresa. Pietro Angeleri


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PARTECIPAZIONE: L’AMBIGUITA’ EUROPEA Il concetto di partecipazione nell'Unione Europea è delineato nella Direttiva 2001/86/CE, coeva al Regolamento n. 2157 dell'8 ottobre 2001, attuativo della società di diritto europeo. Una direttiva che ha preso le mosse dalla precedente 94/45 CE circa la possibilità di costituzione dei cosiddetti Comitati Aziendali europei, organismo sovranazionale per l'informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese multinazionali. Anche a questo riguardo, ancora una volta, va constatato che l'Europa in termini di progresso sociale, di conquiste collettive, di coraggio giuridico lascia alquanto a desiderare e ciò in ulteriore contrasto con il suo intento di internazionalizzare sempre più le imprese comunitarie. Una superficialità riconducibile al motto latino "Quieta non movere et mota quietare" che può essere tradotto con "Non agitare ciò che è calmo, ma calma piuttosto ciò che è agitato"; un motto che si coniuga perfettamente con l'antico brocardo della common law (il modello di ordinamento giuridico di matrice anglosassone) stare decisis che suggerisce di uniformarsi alla decisione adottata in una precedente sentenza, e di procedere, dunque, con la dovuta cautela e prudenza. I trascorsi tredici anni di silenzio, poi, dove neppure una mera riflessione politica al riguardo ha animato le istituzioni dell'Unione, stanno a dimostrare che l'argomento non rientra minimamente nelle attenzioni comunitarie e che la filosofia che anima l'Unione è quella liberista, inasprita da un oppressivo impianto tecnico-burocratico circa il laissez faire. La ormai vetusta impostazione giuridico-legislativa comunitaria, infine, attesta che l'adozione delle norme è generalmente sganciata da ogni consolidato bagaglio giuridico e dottrinario e sposa unicamente, a volte in maniera pedestre, le convenienze, se non gli opportunismi. Eppure, negli anni di dibattito che hanno preceduto l'adozione delle succitate norme comunitarie e negli anni di silenzio trascorsi dalla loro emanazione, la dottrina, anche a livello internazionale, ha tracciato precisi quadri di riferimento sull'argomento, completamente ignorati. Eppure, ve ne erano e ve ne sono a iosa. In uno scritto di alcuni anni fa, l'economista MacPherson tracciava la seguente distinzione teorica fra democrazia industriale e democrazia economica: mentre la prima "riguarda in primo luogo le decisione relative alla produzione (condizioni di lavoro, metodi di produzione e anche fini e allocazione della produzione)", la seconda "riguarda in primo luogo la distribuzione dei beni sociali nell'intera società". Con quest'ultima espressione - chiariva lo studioso - non deve intendersi soltanto la

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distribuzione dei redditi, quanto e soprattutto la distribuzione dei poteri e delle opportunità nella sfera economica. Sebbene facciano riferimento a soggetti ed oggetti differenti, tanto le proposte di democrazia economica che quelle di democrazia industriale hanno assunto, nel lungo dibattito che le ha accompagnate, un comune dato di partenza: l'impresa e il mercato costituiscono luoghi tendenzialmente inadeguati a garantire la partecipazione attiva dei cittadini ai processi che governano la produzione e la distribuzione della ricchezza. Attribuita in epoca liberale, la sovranità assoluta della proprietà privata dei mezzi produttivi e del potere dell'imprenditore, ha lungamente impedito che i criteri adottati per definire la cittadinanza civile e politica nelle democrazie moderne potessero riguardare anche la vita economica. Come da più parti è stato fatto notare, i diritti democratici di cittadinanza si sono sempre fermati, quando non davanti alla burocrazia, di fronte ai cancelli della fabbrica. La ragione di questo, secondo la scienza economica classica, va ricercata nella constatazione che l'impresa industriale non è, e per sua natura non può essere, un'organizzazione democratica nel senso che siamo soliti attribuire a questa espressione. Secondo tale visione, dell'organizzazione democratica manca, innanzitutto, il requisito fondamentale dell'uguaglianza formale fra tutti i membri che di essa fanno parte. O, per meglio dire, la finzione giuridica dell'uguaglianza formale fra datore di lavoro e lavoratore sussiste all'atto della compravendita della forza lavoro, nella stipula del contratto individuale di lavoro, ma scompare durante l'esecuzione del rapporto, nel quale alla logica formalmente egualitaria del contratto subentra quella gerarchica dell'istituzione. A giustificazione dei maggiori poteri dell'imprenditore, la scienza economica classica ha posto la nozione di rischio. "Solo all'imprenditore, e non ad altri, spetta di dirigere l'impresa perché solo l'imprenditore, che è esposto ai rischi dell'impresa, offre la garanzia di una responsabile direzione". La correlazione fra diritto di proprietà e rischio dell'impresa conferirebbe, quindi, all'imprenditore, quale sua specifica "prerogativa", il potere direttivo e gerarchico di disporre strumentalmente della prestazione dei lavoratori suoi subordinati, con virgolette o senza, fino alla realizzazione del risultato finale. In tale contesto, il proprietario - imprenditore - che rischia, egli avrà il diritto e il potere di determinare i beni da produrre e la loro entità, i contenuti del lavoro altrui, l'organizzazione del processo produttivo; in altre parole, sarà il solo abilitato a decidere discrezionalmente il cosa, il quanto, e il come produrre. Ed è ovvio dedurre che la natura di tale decisione sarà orientata innanzitutto all'efficacia e all'efficienza del risultato, ossia alla continua riduzione dei costi di produzione, al loro calcolo e alla loro esatta previsione, alla massimizzazione tendenziale del profitto, in poco o nullo conto di scelte strategiche fondate sulla capacità del capitale sociale "subordinato". Per inciso, anche a livello nazionale, la contrattazione è rimasta, al riguardo, strutturalmente generica e indeterminata proprio per consentire che il potere direttivo sulla prestazione di lavoro rimanga al riparo da limiti e controlli restrittivi perché eventuali "diritti" di partecipazione dei lavoratori nell'impresa potrebbero costituire un limite, un condizionamento procedurale, di


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questa autorità gerarchica. Anzi, da molti, all'atto di emanazione delle suddette norme comunitarie, è stata sottolineata, proditoriamente, l'erosione di tale autorità, stante l'emersione di un "contropotere" dei lavoratori, qualificato, peraltro, dalla produzione di norme. In ogni caso, è paradossalmente vero che, attraverso l'espansione di istituti e di procedure, sia pur attinenti alla sola democrazia industriale, il potere direttivo dell'imprenditore, capo gerarchico dell'impresa, sta perdendo la dimensione titanica e l'assolutezza originaria, per ricevere un positivo condizionamento dal basso reso possibile quantomeno dalla formalizzazione di diritti collettivi di informazione, di esame congiunto e, in alcuni rari casi, di codeterminazione. Questa, del resto, è l'unica prospettiva fino ad oggi a disposizione dei lavoratori per costruire un argine allo strapotere imprenditoriale, che definisca e limiti quella zona franca "vuota del diritto" ove l'esercizio del potere direttivo organizzativo dell'imprenditore evidenzia tutta la sua unilateralità e discrezionalità. In ogni caso, una situazione ben lontana da quell'approdo, mitico ma universalmente riconosciuto come "partecipazione dei lavoratori alla gestione dell'impresa". Sul piano etimologico, partecipazione è una parola generica, se non equivoca o ambigua e significa prendere parte a qualche cosa insieme ad altri. Dalla sociologia sono venuti molti contributi alla definizione della partecipazione dei lavoratori nell'impresa, intesa di volta in volta come tecnica di gestione avanzata del management, come fattore di riduzione del conflitto industriale, oppure come caratteristica intrinseca ai nuovi paradigmi organizzativi. Gran parte delle teorie sociologiche e giuridiche concordano nel ritenere che il carattere unificante della partecipazione possa essere rappresentato comunque dalla valorizzazione del lavoro cui essa tende, per esempio attraverso la promozione umana del lavoratore, la riduzione dell'alienazione, la sua emancipazione da oggetto a soggetto della produzione. Da un punto di vista più strettamente giuridico, il significato del termine "partecipazione" risiede in quegli istituti e in quelle procedure che consentono ai lavoratori di esercitare un potere di intervento, di bilanciamento sul potere dell'imprenditore di dirigere l'impresa, sulle c.d. managerial prerogatives. Più precisamente, si è soliti descrivere al riguardo l'insieme di organismi e procedure che possono essere istituiti a livello dell'impresa societaria o delle sue articolazioni organizzative, assegnando una specifica rilevanza al punto di vista dei lavoratori. In quest'ambito teorico, trova spazio una pluralità di esperienze e di modelli che, sotto un comune profilo funzionale, vanno articolandosi dai diritti sindacali di informazione, a quelli di esame congiunto, di codecisionecodeterminazione, fino alla cogestione. Tutto ciò costituisce momenti e gradi diversi di ogni processo scalare di procedimentalizzazione dei poteri gestionali dell'imprenditore e, per quanto questi momenti possano essere accomunati nel rappresentare elementi costitutivi dell'iter formativo di determinati atti di gestione dell'impresa nel quale prendono parte i destinatari degli atti finali, ciò che li differenzia

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è la diversa intensità del coinvolgimento partecipativo che essi comportano sul terreno dei rapporti collettivi. La scala ottimale, a personale avviso, è data da una serie di diritti configuranti un continuum di influenza e di potere. Di questo continuum, l'informazione e la consultazione costituiscono i gradini di base dell'azione propulsiva di autotutela dei lavoratori che, in prospettiva, dovrebbe concretizzarsi nel diritto di controllare, di proporre, di vietare e infine di contrattare la decisione. Del resto, l'informazione rappresenta la condizione preliminare necessaria all'azione sindacale, una sorta di fattore propedeutico, finalizzato che sia alla contrattazione e al controllo, come nella tradizione italiana, ovvero alla cogestione, come in alcuni casi stranieri. Anche la consultazione e l'esame congiunto, del resto, risultano sterili se non agganciati ad un processo che preveda il diritto di esprimere pareri e di fare proposte nel merito delle decisioni che l'impresa intende assumere. E perché l'espressione di pareri e la formulazione di proposte non rimanga un vuoto esercizio della parola, nel passo successivo siamo alla codecisione - codeterminazione che rappresenta un grado particolarmente intenso di partecipazione nel quale, pur manifestandosi le distinzioni di ruolo e di responsabilità fra le parti, si realizza una bilateralità decisionale molto forte nelle relazioni industriali di impresa. Inoltre, aspetto doppiamente importante, se i primi fattori "partecipativi" sono, nella stragrande maggioranza, sempre esterni agli organi societari dell'impresa, il modello normativo della cogestione prevede solitamente la partecipazione interna dei lavoratori agli organi decisionali dell'impresa societaria, sia pur attraverso la mediazione delle rappresentanze sindacali. Tutto ciò posto, tornando alla normativa comunitaria, non ha ragion d'essere, in alcun Stato membro, la costituzione della rappresentanza dei lavoratori secondo stadi successivi; cioè, come indica la direttiva, i rappresentanti dei lavoratori, la delegazione speciale di negoziazione e, poi, il Comitato Aziendale Europeo, legati da scelte discrezionali sia degli Stati membri che delle stesse organizzazioni sindacali. Ora, si può ben capire perché il legislatore comunitario, nella sua "timidezza" abbia voluto mantenere una "neutralità" esaltando la "negoziazione continua" rispetto ad un impianto di certezze. Resta, comunque, il fatto che se in una società di diritto europeo si volesse dare vita alla cosiddetta "partecipazione dei lavoratori", essa sarebbe in partenza limitata all'informazione e alla consultazione e si realizzerebbe in un mare di eterogeneità di situazioni, da azienda ad azienda e da Paese a Paese, influenzate da scelte pregresse, risultanze di momenti negoziali contingenti e formazione occasionale delle rappresentanze. Inoltre, anche se, nel mare di eterogeneità di partenza, vi fosse una società illuminata, con management illuminato e con rappresentanze (quali?) di lavoratori illuminate a loro volta, e si volesse autonomamente proseguire in quell'ottimale continuum di coinvolgimento, ciò non farebbe altro che accrescere l'eterogeneità. E ciò perché tale "autonoma" scelta, paradossalmente, dovrebbe essere prevista a monte; cioè


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all'atto di costituzione della società stessa e della delineazione della sua struttura: monistica o dualistica; una condizione, peraltro non prevista dalla normativa comunitaria. Di contro, l'aspetto esilarante è che anche qualora non vi sia "illuminazione" nelle parti e prevalga, invece, la logica della "forza" contrapposta, la "forza" sindacale, pur volendo uscire dalle limitazioni della norma comunitaria, si vanificherebbe dinanzi alla mancanza di una struttura societaria adeguata. Qualcuno potrebbe obiettare che il discorso è limitato al lavoratore e non al cittadino ma, si domanda, le due figure non sono sovrapponibili da momento che il lavoro, e la sua giusta retribuzione, è ciò che da dignità al cittadino? In una parola, l'Unione, anche in questo campo, ha dimostrato la sua vessatoria ambiguità: una caratteristica che sempre più spesso, ormai, ricorre nella sua azione. Francesco Diacceto

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IL CAPITALISMO PARTECIPATIVO

Alcuni sosterranno che la ripresa europea nel dopoguerra sia avvenuta grazie alla “benevolenza” americana, rappresentata dall'European recovery program, (ERP) meglio noto come Piano Marshall. Beh! Mi spiace deluderli ma non è così. Alla sua cessazione, nel 1951, dopo quattro anni di attività, il Programma americano aveva erogato poco più di 17 miliari di dollari dei quali 3.297 milioni alla Gran Bretagna, 2.296 alla Francia, 1.448 alla Germania Ovest e 1.204 all'Italia. Insieme al Programma, con l'obiettivo di favorire una prima integrazione economica nel continente, nacque anche l'Organization for European Economic Cooperation (OOEC, in italiano OECE), organismo sostanzialmente tecnico che prevedeva l'invio di programmatori da Washington per cercare di spingere gli europei ad utilizzare gli aiuti, non per fronteggiare le contingenze del momento, quanto piuttosto per avviare un processo di trasformazione strutturale dell'economia dei loro Paesi. Ma, contrariamente a quanto auspicato, pur non opponendosi alla stabilizzazione delle loro valute ed all'implementazione del commercio internazionale specie con gli Stati Uniti, la quasi totalità dei Paesi beneficiari chiese alla Economic Cooperation Administration (ECA), l'ufficio preposto alla collazione degli aiuti, di poter utilizzare i finanziamenti forniti dall'ERP per l'acquisto di generi di prima necessità, prodotti industriali, combustibile e, solo in minima parte, macchinari e mezzi di produzione. La ripresa europea, quindi, soltanto in minimissima parte fu determinata dal Piano Marshall, come, peraltro, hanno dimostrato sin dagli anni '80 gli economisti Alan Milward, britannico, e Gerd Hardach, tedesco. E ciò per sfatare un'altra leggenda metropolitana d'impronta marxista creata negli anni '60 e '70, secondo la quale il Piano Marshall non fu nient'altro che uno strumento per rendere le economie europee funzionali alle esigenze del sistema produttivo statunitense. Per inciso, la “leggenda” si radicò soprattutto grazie all'insegnamento di uno storico americano, Walter LaFeber, pseudonimo di Marie Underhill Noll, Professore di Storia presso la Cornell University, il quale certamente conosce la politica espansionista americana come hanno dimostrato le sue opere tra le quali The New Empire: un'interpretazione di espansione americana. Ma, con ogni evidenza, non colse il fatto che gli aiuti americani, pur favorendo l'interdipendenza dei due sistemi economici, non impedirono la ripresa del vecchio continente; tanto è vero che l'industria europea divenne, nel giro di pochi anni, una temibile concorrente di quella statunitense. Ovviamente, la ripresa si verificò in tutta l'Europa, come detto, ma più significativamente essa manifestò i suoi effetti in Germania, sebbene in quel Paese si fossero verificati due concomitanti aspetti: l'industria era praticamente distrutta e la dimensione territoriale era stata dimezzata. Eppure, in pochi anni, la Germania divenne la prima economia europea e la locomotiva del continente. Nel 1993, le Edizioni del Mulino pubblicarono un saggio dell'economista Michel Albert “Capitalismo contro capitalismo” nel quale l'autore si interrogava sull'evoluzione del capitalismo, apparentemente senza più concorrenti, all'indomani della catastrofe comunista. In sostanza, l'economista rilevava che il capitalismo, non avendo più remore sul piano dottrinario,


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sembrava avviato ad avere una posizione di monopolio, peraltro in contrasto con la sua stessa natura di sistema fondato sul mercato; un monopolio paventato da molti come un nuovo determinismo in sostituzione di quello marxista, una forma di omologazione delle coscienze di segno quasi totalitario. Ma l'autore, anticipando il saggio del politologo americano Francis Fukuyama, “La fine della storia e l'ultimo uomo”, assicurava, in sostanza, che la storia non era (e non è) finita, che il capitalismo non è un mondo monolitico, uniformemente dominato dal Dio Denaro: “Il capitalismo è molteplice, complesso come la vita. Non è un' ideologia, ma una pratica", spiegava Michel Albert e aggiungeva che sebbene la diversità tenda alla polarizzazione tra "due grandi tipi di capitalismo d'importanza comparabile” è pur vero che tra i due “è aperta una partita ancora tutta da giocare". Da un lato il modello americano, o meglio "neoamericano", che ha ritrovato un'identità forte dopo la rivoluzione reaganiana: libertà assoluta per i capitali, esaltazione del profitto a breve termine, nessuna pietà per i deboli e gli sconfitti. Una impostazione esaltata dalla politica imperialista dei Bush e appena mitigata dalla travagliata politica sociale di Obama. Dall'altro, il capitalismo "renano", quello tedesco, meno individualista e più disciplinato, che cerca di coniugare efficienza e protezione sociale: una strada che dalle rive del Reno, appunto, dalla Germania , si snoda fino al Nord Europa e, con qualche variante, al Giappone. L'economista, pur tifando apertamente per il secondo modello, riconobbe che, purtroppo, era il primo a mantenere saldamente il comando, nonostante che il decennio di Reagan e di Bush avesse prodotto disuguaglianze ed emarginazioni intollerabili, avesse indebolito l'industria e distrutto il risparmio, avesse lasciato il campo libero ai corsari dei "junk bonds" e dell'"economia casinò". In pratica, affermava l'economista, "il capitalismo americano resta una vera e propria star", una sorta di eroe da film western dove, con pistola al fianco e un cavallo, parte per la conquista della frontiera del lontano West. Il modello renano, "virtuoso, egualitario, prudente e discreto", di contro, sebbene abbia “un volto umano”, non esercita alcun fascino sulle masse e Albert lo paragona a "una zitella di provincia" che non incontra spasimanti in Europa; tant'è che l'economista si rammarica che il Mercato unico europeo, disegnato dagli accordi di Maastricht, abbia risentito di un'ispirazione marcatamente reaganiana: più concorrenza e meno Stato. Con la conseguenza che finché non si arriverà all'unione politica, affermava più di vent'anni fa Albert, "ciascun governo dei dodici Paesi membri (gli allora sottoscrittori del trattato) sarà costretto in misura sempre crescente... a rinforzare la competitività della sua economia attraverso lo smantellamento dello Stato e ad alleggerire il peso fiscale gravante sui ricchi a scapito dei poveri" e che l'unico modo per fermare la devastante spirale era (ed è) “costruire gli Stati Uniti d'Europa”. Purtroppo, dopo un ventennio dalla firma del trattato di Maastricht, la situazione e le aspettative non sono mutate nonostante che, va detto, il modello tedesco, il capitalismo renano, continui a produrre benefici effetti, purtroppo, per la sola Germania. Eppure, quel modello non è un'invenzione aliena: è un sistema economico, ovviamente fondato sul mercato ma anche sulla partecipazione sociale, nel quale le imprese non sono chiamate a rispondere solamente allo stesso mercato ma, in un certo senso, all'intera società o, almeno a quelli che sono chiamati “stakeholders”, i portatori d'interessi, e cioè non solo agli azionisti ma anche ai sindacati, ai fondi collegati all'impresa, alle comunità locali. Insomma, si intende fondamentalmente un capitalismo più responsabile nei confronti della comunità, ovviamente con tutti i rischi connessi al fatto che questo comporta in alcuni casi decisioni meno rapide e, raramente, interferenze. Eppure, come si amareggiava l'Albert, nel mondo ha quasi ovunque prevalso il ruolo assoluto del mercato, con un peso sempre crescente dei fondi di investimento e dei vari strumenti finanziari che entrano e escono dalle imprese con una velocità vertiginosa, con un'attenzione spasmodica ai profitti di breve periodo e con un accorciamento progressivo degli orizzonti temporali, per cui anche un

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leggero spostamento dalle previsioni trimestrali provoca veri e propri terremoti nei comportamenti dei volatili azionisti e, quindi, nelle quotazioni delle azioni. Le imprese sono, quindi, sempre più lasciate all'assoluto dominio dei mercati, in più spesso penalizzate dall'assenza di una politica industriale verso la quale, a volte, si registra addirittura una opposizione ideologica che bandisce i governi dalla vita economica. E questa ideologia è stata talmente indiscussa che è ha influenzato intimamente studi accademici di tutto il mondo. Infatti, sono quasi scomparsi studi di economia applicata per lasciare spazio esclusivo ad una modellistica tutta dedicata all'analisi di comportamenti astrattamente razionali. La vita ed il mondo reale, però, sono molto più complicati dei modelli astratti, per cui al di sotto di questa dottrina, la realtà si è mossa spesso in modo autonomo e vari governi hanno preso decisioni vitali per riorganizzare settori in crisi, per spingere a fusioni e concentrazioni, per rafforzare strutture aziendali indebolite e, in ogni caso, per proteggere l'industria nazionale in risposta ai grandi eventi che hanno completamente rivoluzionato la vita economica mondiale. La Francia, ad esempio, a differenza dell'Italia, con la sua pertinace laicità e con l'assoluta convinzione sulla validità dello Stato, ha messo in azione tutte le proprie risorse per creare campioni nazionali in tutti i settori produttivi di beni materiali e immateriali e, anche se in modo meno sistematico, ciascuno ha affrontato con tutti i mezzi possibili i problemi di casa propria. Inoltre, a smentire “l'invisibile mano equilibratrice” del mercato è stata proprio la perdurante crisi a seguito della quale qualsiasi azione di politica industriale è stata praticamente legittimata. Perfino negli Stati Uniti, il pesante intervento di Obama a difesa del settore dell'automobile, pur essendo stato sottoposto a notevoli critiche, è oggi riconosciuto come uno dei casi di successo della politica economica dell'amministrazione democratica. L'Europa, invece, si è incartata in una serie di norme, vincoli, divieti che, nella sostanza, da un lato bandiscono la politica dal suo cammino, dall'altro elevano a sistema tecnicismo e razionalismo e, dall'altro ancora, cristallizzano la distanza economica e sociale tra i sistemi dei Paesi membri. Certo, il mercato è stato messo sotto accusa per i suoi eccessi, per la sua mancanza di etica e anche per la sua incapacità di prevedere gli squilibri che hanno portato alla crisi, ma tutto questo non ha comportato (e non sta comportando) il benché minimo intervento per modificare il sistema. Anzi, il varo del fiscal compact nel 2012 è l'ennesimo, arido, condizionamento tecnicistico. Tutti si rendono conto che le strutture finanziarie, soprattutto d'oltre Atlantico, sono i vettori del capitalismo “neoamericano” e che la loro forza nel movimento dei capitali verso sempre maggiori utili nel più breve tempo, supera le possibilità del singolo Stato di frenare le devastanti speculazioni finanziarie. Nessun governo, infatti, può ragionevolmente pensare di isolarsi da questi anonimi, lontani ma potentissimi decisori finanziari e tutti hanno paura che essi, spostandosi, possano mettere in crisi non solo le imprese ma tutto il sistema economico di fronte a tutto il mondo. Nessun Governo, nel contempo, sembra accorgersi di una evidente contraddizione: la globalizzazione dei mercati e il carattere nazionale della vigilanza e dei controlli che aiuta il capitalismo anglosassone nel suo libero, spregiudicato, agire. Non è argomento di dibattito nazionale per confezionare una proposta verso l'Unione, né è argomento di dibattito dell'Unione per il varo di sistemi di vigilanza e d'intervento nel territorio comunitario. E non è nemmeno argomento di pressante dibattito nell'organo politico che dovrebbe affrontare e riparare i grandi squilibri dell'economia mondiale, il G20. Riunito nel 2009 a Londra, all'evidenziarsi della crisi, il G20 all'inizio sembrava mostrare una precisa e forte volontà di riforma che, tuttavia, si è progressivamente affievolita fino al vertice di Seul nel 2010, nel quale si è solo preso atto che le diverse posizioni erano tra di loro semplicemente inconciliabili. Ora, nonostante tutto questo, nonostante una omologante dissoluzione di caratteristiche economiche e


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sociali dei singoli Paesi, nonostante le riflessioni interrogative, indotte dalla crisi, sull'effettivo, concreto significato dell'Unione Europea, nessun Governo sembra tener conto della persistente validità del modello tedesco, persino nella bufera. La Germania, al pari del periodo post-bellico di sessant'anni fa, pur adattandosi nei margini ai nuovi corsi, non ha minimamente mutato le caratteristiche del suo percorso economico e sociale, conosciuto come capitalismo renano, fondato sulla partecipazione sociale responsabile. Ovviamente, il sistema tedesco non ha potuto chiamarsi fuori dall'evoluzione negativa indotta sia dal tempo che dalla crisi: esso, invero, si è in parte omogeneizzato agli altri sistemi lasciandosi penetrare dalle evoluzioni avvenute a livello mondiale. Ed infatti, i fondi di investimento e le banche d'affari ne hanno cambiato profondamente il comportamento, i legami privilegiati fra banca e impresa e gli intrecci e le protezioni fra le diverse strutture economiche si sono allentate rendendo molto più anglosassone la Germania. Anche i rapporti di lavoro sono evoluti verso una più accentuata flessibilità, aumentando però fortemente la produttività del sistema. Tutte queste evoluzioni, comunque, si sono prodotte conservando (e, sotto certi aspetti, accentuando) la collaborazione partecipativa tra imprenditori, sindacati e autorità politiche, che sono la caratteristica principale del sistema germanico. Questa collaborazione partecipativa costituisce, in pratica, uno strumento fondamentale per una politica economica dedicata soprattutto alla razionale e concordata utilizzazione delle risorse umane, al loro potenziamento, attraverso una preparazione scolastica e processi di apprendistato dedicati a questo scopo, nonché al loro sostentamento attraverso un sistema di welfare, generalistico e complementare (altro aspetto della partecipazione), che non ha eguali La risultante è che, nel momento in cui il sistema anglosassone esce vincitore nonostante la tragica crisi che ha provocato, il paese che conserva i più forti residui del sistema alternativo è quello tedesco che, tra le nazioni ad alto livello di sviluppo, meglio si comporta nel superamento della crisi. I tassi di sviluppo tedeschi sono, infatti, oggi molto superiori a quelli britannici, francesi e italiani e il surplus della bilancia commerciale è ormai di tipo “cinese”. L'industria manifatturiera tedesca rappresenta una percentuale del PIL oltre il doppio di quella degli altri grandi paesi europei e, nonostante la globalizzazione e la concorrenza cinese, questa distanza tende ad aumentare. In poche parole la Germania si conferma l'asse portante e il punto di riferimento di tutta l'industria europea. E, azzardando una previsione, ritengo che la Germania, col suo mix di flessibilità e di rigidità, ampliamente partecipato e perciò condiviso, ha le maggiori frecce nell'arco per resistere al “turbocapitalismo” cinese che espone una presenza pubblica nell'economia, guidata con criteri privatistici verso obiettivi fortemente condivisi, sostenuta da una visione politica di lungo periodo e da risorse finanziarie gigantesche. Il concetto di partecipazione cinese è indubbiamente diverso da quello tedesco ma, dalla sua, la Germania ha quel quid pluris che, intanto, fa premio sulle economie occidentali e che, in un prossimo domani, lo farà anche verso la Cina: la snellezza amministrativa, l'affidabilità operativa, la ricerca e l'innovazione. Beh! Fosse solo la realizzazione di questi ultimi aspetti, come speranza di un domani migliore, per tutti e per ciascuno, non sarebbe cosa da poco. Massimo Sergenti

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LA RUSSIA E LE SANZIONI La Russia sempre più in odore di sanzioni: ammessa ormai da Mosca la presenza di militari russi nella penisola della Crimea, si fa sempre più concreta l'ipotesi di ritorsioni, nonostante negli anni Putin abbia tessuto importanti relazioni diplomatiche e commerciali con doversi paesi occidentali, a cominciare dall'Italia; ad esempio, lo scorso 26 aprile l'allora premier Enrico Letta si era incontrato a Trieste con l'omologo russo per stipulare ben 30 fra accordi ed intese. Certo è che se qualcuno pensa che la Russia è un gigante che può sopportare con leggerezza e noncuranza le sanzioni dei paesi occidentali, si sbaglia: se è vero che il paese dai 12 fusi orari e dall'economia in evoluzione detiene importanti risorse energetiche, altresì è evidente che a qualcuno debba venderle, e di certo non a paesi dall'economia debole e dalla situazione politica instabile. Inoltre la Russia di oggi non è l'Unione sovietica di ieri. A determinarlo sono proprio i molti interessi intrecciati con le potenze planetarie, per cui l'exploit dell'economia russa è tale e può continuare ad essere tale solo rimanendo parte integrante ed attiva di un contesto occidentale o quantomeno di congiunzione Occidente e Oriente. Tuttavia è stato proprio il diverso peso di interessi a determinare l'ennesima spaccatura, passata sotto silenzio, del Consiglio dei ministri degli Esteri dell'Unione europea dello scorso 3 marzo, basti pensare che la risoluzione adottata parla di "future sanzioni mirate" da considerare "in assenza di una soluzione concordata", che tradotto vuol dire che ognuno farà come gli conviene… altro che sogno di una politica estera europea unica. Più determinati gli Stati Uniti, i quali avrebbero la convenienza di portare in Europa il gas che, in caso di sanzioni, non arriverebbe dalla Russia: già nei giorni scorsi il Dipartimento di Stato ha diffuso una nota nella quale si legge che "A questo punto non stiamo solo considerando le sanzioni per le azioni della Russia, bensì è probabile che le metteremo in atto e ci stiamo preparando per questo". E per far vedere che non si scherza, Washington ha immesso oggi sul mercato 5 mln di barili di petrolio, cosa che ha causato tensioni e fatto scendere il prezzo del 2%. Il Segretario di Stato John Kerry ha ribadito oggi, intervenendo ad un incontro con i legislatori di una commissione alla Camera dei deputati, che un'azione nei confronti della Russia "può diventare punitiva in fretta", ovvero che "Non voglio entrare troppo nei dettagli, eccetto questo: può arrivare in fretta e in modo pesante se vengono fatte scelte sbagliate". "Ci sono molte varianti - ha continuato Kerry - motivo per cui è urgente avere una conversazione con i russi per


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trovare una via d'uscita alla crisi", rappresentata anche dal referendum secessionista di domenica prossima. In Europa a spingersi in avanti è stato il Cancelliere tedesco Angela Merkel, la quale intervenendo al Bundestag ha minacciato che "se la Russia continua il suo corso delle ultime settimane, sarà non solo una catastrofe per l'Ucraina": "Non lo vedremo solo, in quanto vicini della Russia, come una minaccia. E non cambierà solo le relazioni dell'Unione Europea con la Russia. No, questo causerà anche danni enormi alla Russia, sia da un punto di vista economico che politico". Merkel ha comunque aggiunto che "Una cosa e' chiara: l'intervento militare non è un'opzione", bensì bisogna insistere sulla strategia tripartita, di "dialogo, aiuti, sanzioni". Putin ha risposto di essere pronto a confiscare i beni di Usa e Ue, stessa misura minacciata dai paesi occidentali. Preoccupazioni sono state manifestate, seppure in modo sommesso, dagli imprenditori russi i quali, come ha riportato l'agenzia Bloomberg, temono uno scenario "in stile Iran". Intanto il pomo della discordia, ovvero l'Ucraina, si trova sempre più spinta sull'orlo del baratro economico. Prima della crisi l'allora presidente Victor Yanukovich era riuscito a strappare a Mosca un prestito di 14 mld di euro, e soprattutto forti sconti sui debiti contratti per le forniture di gas: oltre ai 10 mld da restituire alla Gazprom, Kiev deve alle banche russe altri 20 mld di euro. Oggi il numero uno del colosso del gas, Alexei Miller, ha affermato da Berlino che "Noi vorremmo che i nostri partner ucraini pagassero i debiti. Non vogliamo una crisi del gas". "I mancati pagamenti delle forniture di gas per Gazprom rappresentano un buco nei bilanci con ripercussioni sugli investimenti per l'anno corrente e sui dividendi dei nostri azionisti. Tra i nostri azionisti ci sono tanti stranieri e i ricavi e i dividendi sono anche loro", ha aggiunto. "L'Ucraina - ha poi ribadito - sta attraversando una crisi molto seria, ma deve pagare i suoi debiti per il gas che ha acquistato. Le nostre azioni nei confronti dell'Ucraina sono assolutamente leali. Avremmo il diritto, da contratto, a fare appello alla clausola del pagamento anticipato, ma non abbiamo intenzione di farlo, per evitare il collasso economico dell'Ucraina e di minacciare il transito di gas verso l'Europa. Chiediamo che i nostri partner ucraini restino solvibili e non vogliamo una crisi del gas". Ha poi concluso dicendo che "abbiamo appreso che gli Usa hanno intenzione di supportare l'Ucraina con un aiuto di 1 miliardo di dollari, ma la Russia ha già concesso un aiuto finanziario di 5 miliardi di dollari. Lo scorso anno abbiamo garantito all'Ucraina un prestito di 3 miliardi e i restanti 2 miliardi di debito in forniture di gas sono de facto un prestito". Enrico Oliari

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SCIENZA & TECNOLOGIA

BUON COMPLEANNO WEB Era il 12 marzo di venticinque anni fa (1989). Sir Tim Berners-Lee, uno scienziato britannico del CERN, formulò la proposta di un sistema di scambio istantaneo di informazioni tra scienziati di tutto il mondo. Quel sistema oggi è conosciuto come World Wide Web. Il progenitore (Arpanet) era stato creato nel 1969, c'era la guerra fredda, dall'Agenzia di Difesa statunitense in collaborazione con le università americane allo scopo di disporre di un sistema di comunicazione di scorta tra computer (all'epoca esistevano solo i mainframe) in caso di blackout delle reti telefoniche. Ben presto altre organizzazioni, militari e di ricerca, si dotarono di reti private e nacque il termine Internet.

Cronologia di Internet 1990-2007


SCIENZA & TECNOLOGIA

Nel 1974, nacque il primo provider di servizi Internet (ISP) con l'introduzione di una versione commerciale di ARPANET, nota come Telenet. Poco dopo due scienziati informatici, Vinton Cerf e Robert Kahn, introdussero un nuovo e più efficace protocollo di comunicazione tra computer chiamato TCP / IP, che ha consentito lo sviluppo di "Internet" a livello globale. Tuttavia, fino agli anni '90 era possibile scambiare soltanto stringhe di testo in maniera non proprio facile. Berners-Lee, dopo l'approvazione della sua proposta, mise a punto, scrivendone il software, il primo web-server (httpd) ed il primo web-client in formato Wisiwyg (ottieni ciò che vedi). Il 6 agosto del 1991 il World Wide Web è stato lanciato pubblicamente e si è potuto sviluppare grazie alla decisione del Cern di rendere disponibile la tecnologia in forma gratuita e per sempre. Pierre Kadosh

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LA MACCHINA DI GOLDBERG Se distruggi qualcosa di rimpiazzabile creato dall'uomo, ti chiamano 'vandalo'; se distruggi qualcosa di non rimpiazzabile creato da Dio, ti chiamano 'sviluppatore'. Joseph Wood Krutch Una macchina di Goldberg è un meccanismo progettato in maniera deliberatamente complessa per eseguire operazioni semplici o trascurabili. Inizialmente intesa solo come finzione all'interno di libri, fumetti, film e cartoni animati, la locuzione poi è andata a designare, nell'uso comune della lingua inglese, meccanismi, macchinari, ma anche azioni reali e concrete, che impiegano una quantità di risorse sproporzionata rispetto al risultato da conseguire. Un po' il ritratto dell'Italia e non solo. Queste macchine prendono il nome dal disegnatore Rube Goldberg (4 luglio 1883 - 7 dicembre 1970, premio Pulitzer nel 1948 per la satira), che utilizzava le sue conoscenze ingegneristiche per proporre macchinari di questo genere in molti suoi lavori. Secondo Nate Hagens, uno dei massimi esperti mondiali sulle risorse globali, la società attuale è un'enorme macchina di Goldberg. La sua principale intuizione è che se si vogliono raddrizzare le cose occorre disimparare i fondamenti dell'economia ed orientarsi a calcolare tutto in termini energetici, atteso che tanto il progresso dell'uomo quanto la sua vita quotidiana è sempre e solo un'equazione energetica. Nel suo libro: "Le 20 cose (importanti) che a scuola di economia non mi hanno insegnato" spiega i perché. Nel testo analizza, con acume e spirito critico, i principali concetti che oggi sostengono gli affari globali. Secondo Hugens, l'economia che oggi regola il mondo ha una serie di presupposti sbagliati e si fonda su leggi indimostrate. Di seguito si ripropone la prima parte del testo liberamente reperibile su Internet. La prima evidenza è che "Le 'leggi' dell'economia sono state create durante un periodo non ripetibile della storia umana, e sono basate su di esso". E ci si riferisce al periodo nel quale le risorse energetiche quali petrolio, gas e carbone sono diventate largamente disponibili ed a basso costo. La tabella che segue mostra la storia del pianeta su tre scale. La linea in alto è su scala temporale geologica: il minuscolo settore in nero all'estremità destra è allargato nella seconda linea, e di nuovo la parte in nero in fondo a destra di questa è allargata nella terza linea, che mostra gli ultimi 12000 anni. Noi e il nostro ambiente siamo il prodotto di questa storia evolutiva. La nostra vera ricchezza ha origine dall'energia, dalle risorse naturali, dai meccanismi degli ecosistemi che si sono sviluppati durante le ere geologiche. I princìpi del nostro comportamento si sono formati e perfezionati in base a 'quel che funzionava' in tutte e tre le epoche del grafico (ma più che altro nelle prime due). La linea scura in basso rappresenta la popolazione umana, ma potrebbe rappresentare anche il prodotto


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economico, o l'uso di combustibili fossili, essendo stati questi valori molto ben correlati lungo questo periodo. Le 'teorie' economiche su cui si basa l'attuale società sono state sviluppate esclusivamente durante il breve periodo chiamato 'A' nel grafico, su un pianeta ancora ecologicamente vuoto di sistemi umani, mentre quantità sempre maggiori di una energia fossile straordinariamente potente venivano impiegate per la prima volta in un sistema economico globale in espansione. Per decenni, le economie umane hanno mostrato di seguire un chiaro percorso di crescita, interrotto solo da brevi recessioni seguite da riprese. Ciò ha fatto sembrare, a tutti gli effetti, che sia la crescita dell'economia sia la crescita della ricchezza individuale aggregata fossero qualcosa di simile a una legge naturale - per lo meno, così insegnano le scuole di economia. La verità è che l'andamento umano (passato e futuro) non è una linea retta, ma somiglia a una polinomiale, con lunghi rami diritti, verso l'alto e verso il basso, qualche periodo ondulato nel mezzo, e alla fine stabilizzata su valori limitati. La nostra cultura, le nostre istituzioni, e tutte le nostre assunzioni sul futuro sono state sviluppate durante un lungo ramo ascendente di questa curva. Dal momento che tale periodo di andamento 'diritto' è durato più a lungo di una vita umana media, il nostro focus biologico, che è sul presente piuttosto che sul futuro o sul passato, ci rende difficile immaginare che la verità sia un'altra. Ci siamo convinti che l'ambiente è un sottoinsieme dell'economia quando è vero esattamente il contrario. Secondo i testi classici di economia e finanza, l'ambiente naturale è solamente un sottoinsieme di un'economia umana più grande. Una descrizione meno antropocentrica (e più corretta) è invece che le economie dell'uomo sono solamente un sottoinsieme dell'ambiente naturale. Nonostante l'ovvietà di ciò, attualmente tutte quelle cose che non influenzano direttamente i prezzi di mercato restano al di fuori

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del sistema economico; e il loro valore 'attivo' è semmai dato da un'imposizione governativa, oppure da un individuo particolare, e non dal sistema culturale nel suo complesso. Eppure non è assolutamente così. Ecco un breve elenco degli impatti deleteri che non vengono considerati nella formazione di prezzi e costi di mercato: inquinamento atmosferico, inquinamento delle acque, produzione animale industriale, pesca eccessiva (il 90% del pesce oceanico è scomparso), rifiuti nucleari, perdita di biodiversità, resistenza agli antibiotici, cambiamento del clima e acidificazione degli oceani (gli umani, bruciando enormi quantità di carbonio fossile, stanno influenzando i sistemi bio-geochimici globali in maniera profonda e a lungo termine). Siccome il successo si misura per mezzo del PIL, del profitto e della 'roba', l'unico parametro che valuta tali 'esternalità' è il senso di sconfitta, di inquietudine e di angoscia da parte della gente che vi pone attenzione. Tale perdita al momento non viene quantificata da chi è al potere. In passato, la società si è organizzata ed ha introdotto regole e limitazioni per le esternalità solo quando c'è stata una 'pistola fumante', come ad esempio nel caso dei clorofluorocarburi, del DDT, della benzina al piombo; ma questi esempi, per quanto seri fossero, non erano temi tabù per l'intera economia umana. Andrebbe finalmente compreso che l'energia è quasi tutto. In natura, tutto funziona grazie all'energia. I raggi solari si combinano con suolo e acqua per far crescere i vegetali (produttività primaria). Gli animali si nutrono di vegetali. Animali si nutrono di altri animali. A qualunque livello di questo processo, c'è una quantità di energia in ingresso, una quantità di energia in uscita, e del calore di scarto. Ma alla base c'è sempre dell'energia in entrata. Niente può vivere senza un tale flusso. Allo stesso modo, l'uomo e i suoi sistemi fanno parte della natura; anche alla base della nostra piramide trofica c'è energia in ingresso, per il 90% circa sotto forma di carbonio fossile. Qualunque bene, servizio, transazione venga conteggiata nel nostro PIL ha bisogno di un input di energia come prerequisito. Non ci sono eccezioni. Non importa come scegliamo di costruire una tazza, se di legno, di cocco, di vetro, d'acciaio o di plastica: il processo avrà bisogno di energia. Senza energia primaria, non esisterebbe tecnologia, né cibo, né medicine, né microonde, né condizionatori, né auto, né internet, nulla.


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L'andamento di lungo periodo del prodotto umano (PIL) è altamente correlato con il consumo di energia primaria. Per un certo tempo (dagli anni '50 ai '90 dello scorso secolo) i miglioramenti di efficienza, specialmente negli impianti a gas naturale, hanno fatto da contrappeso all'aumento del fabbisogno energetico nella contribuzione all'aumento del PIL, ma nel tempo essi sono diminuiti fino ad avere oggi scarso effetto. A partire dal 2000, il 96% dell'aumento del PIL può essere spiegato con l'aumento di uso di energia. (Per altri dettagli e spiegazioni sul punto, vedere "La crescita verde - un ossimoro" - in inglese, ndr). Alcuni economisti delle risorse hanno sostenuto che gli andamenti di consumo energetico ed economia avessero iniziato a disaccoppiarsi a partire dagli anni '70, ma quel che è successo in realtà è stato solo lo spostamento dei processi industriali in capo a terzi (outsourcing) e verso località meno care. Se si tiene conto dei trasferimenti di energia inglobati (embedded) nei beni finiti e nelle importazioni, non c'è una sola nazione al mondo in cui consumo di energia e PIL non siano correlati. Risulta che è l'energia, non i dollari, ciò che dobbiamo mettere in conto e spendere. Semplicemente, l'energia è la capacità di compiere del lavoro. Non è stata la tecnologia il principale elemento motore di ricchezza e produttività, bensì l'energia a basso costo.

La quantità di energia chimica potenziale che si rende disponibile quando bruciamo le cose (ad esempio legna) è impressionante, se la confrontiamo con l'energia che forniamo ai nostri corpi sotto forma di cibo; i combustibili fossili (carbone, petrolio, gas naturale) bruciano ancora più intensamente, e sono al contempo molto più semplici da immagazzinare e trasportare. Abbiamo imparato in fretta che usando un po' di questo calore per compiere del lavoro avremmo potuto trasformare massicciamente quel che eravamo in grado di fare. Un barile di petrolio, dal prezzo attuale di poco più di 100 dollari, fornisce 5.700.000 BTU o 1700 kWh di lavoro potenziale. A una media di 600 Wh per giornata, un uomo medio dovrebbe lavorare 2833 giorni, o 11 anni, per generare la stessa quantità di lavoro. Al salario medio orario statunitense, fanno circa 500 mila dollari di lavoro, che possono essere sostituiti dall'energia potenziale di un solo barile da 100 dollari. All'insaputa di gran parte dei procacciatori di azioni e obbligazioni di Wall Street, è questo il vero "Affare". La stragrande maggioranza dei nostri processi e attività industriali sono risultato di questo 'Affare' o 'scambio'. Usiamo enormi quantità di energia a bassissimo costo per compiti che l'uomo prima svolgeva manualmente; e ne abbiamo inventati innumerevoli altri. Ogni volta, si è trattato di uno scambio decisamente inefficiente in una prospettiva energetica (l'uso di energia è molto più alto); ma, ancor più

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decisamente, di uno scambio profittevole in una prospettiva di società umana. Per esempio, a seconda dei limiti, spostandosi in automobile su una strada asfaltata si impiega da 50 a 100 volte più energia che facendolo a piedi, però si arriva a destinazione 10 volte più in fretta. A questo "Affare" dobbiamo in larga parte qualche combinazione di: stipendi più alti, profitti maggiori, merci meno care, popolazione più numerosa. L'americano medio attualmente consuma combustibili fossili per un equivalente di 60 barili di petrolio all'anno, un 'sussidio' derivante da piante e processi geologici antichissimi per un ammontare pari a circa 600 anni di suo lavoro prima della conversione. Anche considerando l'intera popolazione mondiale di 7 miliardi di persone, ciascun kWh umano è sostenuto da oltre 90 kWh di energia fossile; tra le nazioni sviluppate (facenti parte dell'OECD) questo rapporto è 4-5 volte tanto. La tecnologia agisce da supporto, sia inventando nuovi e creativi metodi per convertire l'energia in (utili?) attività e beni per il consumo umano, e sia, ogni tanto, permettendo di usare o estrarre l'energia in modo più efficiente. Anche tutti quei servizi che possono sembrare indipendenti dall'energia in realtà non lo sono: ad esempio, l'uso di computer e smartphone è responsabile complessivamente del 10% del nostro consumo totale di energia, se consideriamo i server e tutto il resto. Certo, la tecnologia può creare prodotto interno (PIL) senza incidere sul consumo energetico, permettendo un uso più efficiente dell'energia, però: a) la gran parte dei miglioramenti di efficienza energetica teoricamente possibili sono già avvenuti; b) l'energia così risparmiata viene spesso riutilizzata nel sistema da qualche altra parte per aumentare la domanda e i consumi, così il risultato è un aumento del fabbisogno totale di energia primaria (paradosso di Jevons ed effetto rimbalzo).


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Nonostante la potenza dello 'scambio', è facile che i benefici da esso derivanti vengano ribaltati. Anzitutto, aumentando a dismisura l'apporto di energia, anche se a basso costo, la crescita di salari e benefici tende a diminuire. Ma soprattutto (ed è quel che è successo negli ultimi dieci anni circa), con l'aumentare del prezzo dell'energia i benefici dell'"Affare" cominciano a calare. Il grafico qui sopra mostra come al raddoppiare o triplicare del prezzo dell'energia il vantaggio di questo 'scambio' cala rapidamente. Ciò vale specialmente per i processi estremamente energivori, come ad esempio la produzione di alluminio o di cemento (il 30% dell'industria degli USA ricade in questa categoria). La riduzione del 'salario' può essere compensata solo in parte da misure di efficientamento o da snellimenti del processo produttivo, perché è l'"Affare" nel suo complesso ad essere fondato su grandi flussi di energia a basso costo. Sostanzialmente, i benefici che derivano all'umana società dai mastodontici depositi bancari che abbiamo scoperto nel sottosuolo sono quasi indistinguibili da una magia; eppure, col tempo siamo riusciti a confondere la Magia (energia a basso costo) con il Mago (tecnologia). L'energia è un fattore speciale, non è sostituibile nella funzione di produzione, e ha una curva di costo di lungo periodo crescente. La fisica ci dice che l'energia è necessaria per la produzione economica e quindi per la crescita. Tuttavia, i testi di economia nemmeno menzionano l'energia tra i fattori che limitano o permettono la crescita economica. La teoria finanziaria standard (modello di crescita esogena di Solow, funzione di Cobb Douglas) postula che capitale e lavoro si combinano per creare il prodotto economico, e che l'energia è solo una merce generica in ingresso alla funzione di produzione, del tutto sostituibile come potrebbero esserlo un jeans di moda, degli orecchini, o del sushi. La verità è che ogni singola transazione che crei del valore nell'economia globale richiede anzitutto un input energetico: il capitale, il lavoro, le conversioni sono TUTTI dipendenti dall'energia. Ad esempio, il testo introduttivo di Frank e Bernanke (seconda edizione, 2004, pag. 48) così spiega gli aumenti di produttività: "... aumento di capitale per lavoratore, aumento del numero di lavoratori, e forse più importante di tutti, … miglioramenti nella conoscenza e nella tecnologia". Da nessuna parte nella letteratura economica standard viene nemmeno lontanamente suggerito che il "miglioramento" tecnico di cui si parla sia, storicamente, collegato alla progressiva sostituzione dei muscoli umani e animali, alimentati dal sole, con sempre maggiori quantità di energia da carbone, petrolio e gas. Anche altri minerali e metalli sono in esaurimento o in peggioramento qualitativo e non possono essere (facilmente) sostituiti, perciò l'energia, nonostante la sua centralità (in quanto giacimenti a concentrazioni minori richiedono più sforzo per l'estrazione, in termini di gasolio e altro), non è l'unico fattore chiave limitante. Apparendo simili a qualunque altra merce, nei modelli economici energia e risorse seguirebbero la stessa curva di costo decrescente che abbiamo imparato ad aspettarci da prodotti come tostapane e tazzine da caffè, per i quali miglioramenti tecnologici, delocalizzazioni di parti produttive in paesi meno cari ed economie di scala hanno permesso in generale una diminuzione del costo nel tempo. Anche l'energia ha seguito per un po' una curva simile; però, dato che le risorse di qualità elevata sono limitate, e che richiedono esse stesse altre risorse processate di elevata qualità per essere estratte e raffinate, alla fine la curva di costo per l'energia e per altri minerali e materie prime chiave comincia prima o poi a piegare verso l'alto. Questa 'visione duale' dell'energia in confronto alle normali merci è una delle principali sviste dei libri di

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economia. Riferito a gran parte degli scorsi 60-70 anni, tale errore è magari comprensibile, essendoci stato davvero un flusso continuo di energia a basso costo - il cui valore sembrava essere solo il suo costo in dollari. Per molti è ancora questa la visione del mondo imperante: i dollari, più importanti dell'energia.

Andamenti storici del costo di petrolio, carbone e gas naturale in Europa. Fonte: Rune Likvern

L'energia ha un costo in termini energetici, che può essere molto diverso dal prezzo monetario. In natura, per avere accesso a dell'energia (le loro prede), gli animali devono consumare dell'energia (calorie muscolari). Questo meccanismo di "ritorno sull'investimento" è un processo evolutivo fondamentale che ha a che fare con metabolismo, accoppiamento, forza e sopravvivenza; gli organismi che riescono a sviluppare ritorni energetici elevati ottengono in cambio dei surplus di energia con cui resistere meglio alle minacce ed ai nemici naturali. Così è pure nel sistema umano: la quantità di energia che la società può 'spendere' liberamente è quella che rimane dopo aver 'pagato' l'energia e le risorse necessarie a raccogliere e distribuire quella quantità. Per le risorse esauribili, in genere viene seguita una logica di estrazione tipo "prima le migliori": dallo sfruttamento superficiale per mezzo di setacci, alle indagini sismiche per individuare le faglie sotterranee, allo sfruttamento di giacimenti in acque profonde e sotto saline, alla fratturazione idraulica del tight oil, il ritorno energetico per unità di energia impiegata nel processo è nel tempo diminuito da più di 100 a qualcosa intorno a 10. Economisti e decisori, durante tutto questo periodo, hanno considerato solo il costo in termini monetari e la produzione lorda, giacché alla fine dei conti più denaro avrebbe 'creato' più energia. Ma l'energia netta può arrivare a un picco e iniziare a diminuire anche mentre l'energia lorda continua ad aumentare, e può effettivamente arrivare ad azzerarsi anche in presenza di grosse quantità di risorsa lorda ancora rimanente.


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Tutto quel che facciamo diventerà più caro se non riusciamo a ridurre il consumo energetico dei processi specifici più velocemente di quanto i prezzi crescano. Eppure, i testi di finanza continuano a trattare l'attività economica come una funzione della creazione infinita di denaro, più che come funzione delle risorse limitate e dei flussi finiti di energia.

A sinistra: in giallo il costo di produzione di pareggio per le grandi imprese petrolifere occidentali, sovrapposto alla produzione di greggio OPEC / non OPEC. Fonte: IEA, relazione 'Higher long term prices required for troubled industry' (Prezzi di lungo periodo più alti richiesti per un'industria in crisi), Goldman Sach, aprile 2013. A destra: produzione totale di petrolio da parte delle grandi imprese petrolifere occidentali.

A prescindere totalmente da quel che dice l'etichetta del prezzo, ci vogliono circa 245 kilojoule per sollevare 5 kg di petrolio attraverso 5 km di sottosuolo fino in superficie. Costi biofisici di questo tipo si applicano a qualunque tecnologia di raccolta ed estrazione di energia che abbiamo a disposizione, solo che per comodità essi sono sempre tradotti in termini finanziari. Dopotutto sono in dollari (o euro, o yen, o renminbi) le quantità che il sistema cerca di ottimizzare, no? Però, i fabbisogni fisici non cambiano quando il numero di cifre nel sistema bancario mondiale aumenta, o diminuisce, o sparisce del tutto. Sebbene siano la nostra primaria fonte di benessere, i combustibili fossili si sono generati tanto tempo fa, e nell'approfittare della loro abbondanza noi non siamo tenuti a pagare il prezzo della loro formazione ma solo quello della loro estrazione. Nonostante l'enorme quantità di energia solare che incide sulla Terra ogni giorno, dobbiamo consumare (considerevoli) risorse reali per raccoglierla e convertirla in forme e luoghi dove possa essere utilizzata.

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La sostanziale differenza tra il "lordo" e il "netto" si manifesta nella sfera finanziaria per mezzo dei costi. A prescindere da come misuriamo nominalmente il PIL (pietre preziose, o dollari, o cifre, o oro), una percentuale crescente dei costi sarà destinata al settore energetico. Se l'unico obiettivo è la crescita del PIL, possiamo continuare ad aumentare la produzione energetica lorda individuando e sfruttando giacimenti di combustibili fossili sempre più in profondità, ma alla fine arriveremo a un punto in cui la nostra intera infrastruttura alimentare, sanitaria e di intrattenimento sarà unicamente al servizio di una gigantesca operazione mineraria. Col trend attuale, l'esaurimento energetico implica che le spese in energia passeranno dal 5% dell'economia al 10-15% o più. Oltre ai problemi ovvii che questo causerà, c'è anche il fatto che ci troveremo a usare energia di minor qualità: mentre il petrolio aumenta di prezzo, lo stiamo sempre più rimpiazzando con carbone e legna. Nei paesi in cui la capacità di spesa è crollata (vedi Grecia), già si stanno abbattendo i boschi per riscaldare le abitazioni in inverno. L'attenzione delle società dovrebbe essere puntata sull'energia netta, e invece la maggioranza delle persone non ne ha mai sentito nemmeno parlare. Gli strumenti monetari e finanziari sono solo degli indicatori del capitale reale. Accumulare denaro in un conto corrente bancario è come per gli animali accumulare riserve di grasso ma in realtà è un'altra cosa, perché si tratta solo di un indicatore del grasso: un beneficio calorico accumulato per il futuro, interpretato in un sistema socio-culturale legato ad indicatori creditizi e monetari. A scuola di economia (e a Wall Street) ci insegnavano che la crescita di lungo periodo di un'azione intorno al 10% ogni anno è qualcosa di simile a una legge naturale; ma risulta che la verità è ben diversa. Azioni ed obbligazioni sono esse stesse dei "derivati" del capitale primario (energia e risorse naturali) che si combina con la tecnologia per produrre il capitale secondario (trattori, edifici, attrezzature e così via). Il denaro e gli strumenti finanziari perciò sono capitale terziario, senza alcun valore: è unicamente il sistema sociale ad attribuirgli un valore, e questo sistema è basato sui capitali naturale, costruito, sociale e umano. E nell'attuale sistema di "credenze" (cioè quel che le persone ritengono di possedere) tale valore è parecchio scollegato dal "capitale reale" sottostante. Il denaro viene creato dal nulla da parte delle banche commerciali (depositi e debiti sono creati contemporaneamente). Se le società hanno bisogno di 'energia', gli individui hanno bisogno di denaro per eseguire scambi e transazioni di cose che l'energia offre. Ma cos'è il denaro? Di sicuro non l'ho imparato a scuola di business, né in alcuna lezione di materie economiche. Semplificando al massimo, il denaro è un diritto su una certa quantità di energia. Quando il sistema economico si stava avviando, agli inizi del 1900, il suo fattore limitante era il denaro (non l'energia, né le risorse): avevamo così tanta ricchezza stipata nei conti correnti delle nostre banche naturali di risorse, che cercavamo la maniera di sovralimentare l'economia perché chiunque dotato di capacità, prodotti e ambizione avesse la possibilità e il modo di intraprendere un'iniziativa produttiva. Fu in questo periodo che le banche entrarono in servizio: aveva senso aumentare il flusso di denaro, per farlo corrispondere al prodotto dell'economia, dato che con scarso denaro non si riusciva a esprimere la 'potenza' produttiva necessaria a soddisfare un mondo affamato. Individui e imprese affidabili adesso potevano ottenere prestiti da parte di banche commerciali, le quali avevano l'obbligo di mantenere una piccola porzione dei loro asset come riserve presso una banca centrale. E la cosa funzionò alla grande. Correlazione = causa, e tutta quella roba lì.


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Ci hanno insegnato a considerare il processo di creazione del credito come una serie di 'intermediazioni' bancarie successive, attraverso le quali un deposito iniziale passa di mano nel sistema bancario e crea denaro aggiuntivo per mezzo di un moltiplicatore. In altri termini, le banche non possono creare del credito per loro iniziativa, ma vivono su qualche ricchezza creata altrove. Questo è vero più o meno per il 5% del denaro in circolazione; la realtà, valida per più del 95% del denaro che viene immesso nell'economia, è molto diversa. Il concetto standard di prestito implica un trasferimento dell'uso esclusivo di un bene, già esistente, da qualche altra parte; invece il nuovo concetto 'esteso' di credito bancario non prevede la rimozione e lo spostamento di potere d'acquisto o di diritti su risorse da un posto a un altro dell'economia. Poiché l'attività bancaria è basata sui capitali, e non sulle riserve, una banca può concedere un prestito ogni volta che un cliente (provatamente) affidabile ne faccia richiesta, e non solo quando ha riserve in eccesso. Quindi, il sistema bancario della "riserva frazionaria" insegnato nei libri e tanto demonizzato nella blogosfera non è una definizione esatta. L'ho appreso solo intorno al 2007. Le banche non prestano denaro: lo creano. Il debito è un trasferimento inter-temporale non neutro.

Il grafico di sinistra mostra il disaccoppiamento tra il PIL e il debito aggregato non finanziario. Ogni anno, dal 1965 in poi, il debito è cresciuto più del PIL. Il grafico di destra mostra l'inverso: quanto aumenta il PIL per ogni nuovo dollaro preso a debito (è la produttività decrescente del debito). (Nota: I termini "credito" e "debito" sono usati indifferentemente, nonostante creditore e debitore siano soggetti opposti.)

Dei circa 60.000 miliardi di dollari di denaro complessivo oggi circolanti negli Stati Uniti, appena 1000 miliardi sono moneta fisica. Il resto può essere considerato "debito", cioè rappresenta in qualche modo un titolo, una possibile rivendicazione di qualcuno, un diritto (aziendale, domestico, municipale, governativo...). Se il contante è un diritto su energia e risorse, aggiungerci del debito (a partire da una posizione di nessun debito) diventa un diritto su energia e risorse future. Nei libri di finanza, il credito è un concetto economicamente neutro, né buono né cattivo: solo uno scambio tra due parti, che scelgono il momento in cui consumare e si scambiano tale preferenza temporale. (In finanza aziendale, ci hanno insegnato che, grazie alla deducibilità degli interessi, è preferibile indebitarsi piuttosto che usare capitale proprio quando si è in presenza di tassazione) Tuttavia, quando un debito / credito viene emesso, accadono alcune cosette che ne rendono l'impatto molto diverso da quel che c'è scritto nei libri. 1) Nel corso del periodo di validità del debito (specialmente su un pianeta affollato), l'energia e le risorse

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più facili e di miglior qualità vanno man mano esaurendosi, rendendo in generale l'energia (e quindi tutto il resto) più cara per il creditore che per il debitore. Chi sceglie di risparmiare (per consumare in futuro) viene "gabbato" da chi sceglie di consumare subito indebitandosi. In qualche punto del futuro, qualche creditore si vedrà restituito meno di quel che ha prestato, o nulla affatto (si tratta di capire "chi" e "quando"...). 2) Per timore che la domanda aggregata cali, è necessario emettere sempre più debito al fine di compensare i benefici decrescenti dell'"Affare" (scambio tra lavoro umano e energia fossile). 3) Nel tempo, consumiamo di più di quel che investiamo in nuova capacità produttiva e questo abbassa la produttività del debito (= quanto PIL si ottiene da ogni dollaro di debito aggiuntivo) nel tempo. Quando ogni dollaro di debito aggiuntivo crea un dollaro di PIL (o quasi), è più o meno come sostengono i libri, cioè un compromesso di preferenze temporali tra creditori e debitori; quando la produttività del debito è alta, si sta trasformando ed estendendo la ricchezza in forme diverse di ricchezza futura (ad es. si trasforma energia in stabilimenti produttivi); ma quando la produttività del debito è bassa (o vicina allo 0 com'è il caso adesso), il nuovo debito è semplicemente un trasferimento da una ricchezza a un reddito. E' quel che sta accadendo in tutti gli stati del mondo, a diversi gradi. Ad esempio, dal 2008 le nazioni del G7 hanno aumentato il loro Prodotto Interno Lordo nominale di 1000 milioni, aumentando al contempo il debito di 18000 milioni - senza contare le riserve patrimoniali a garanzia. Insomma, il debito può essere visto in due modi: 1) da una prospettiva di ineguaglianza della ricchezza, per ogni debitore c'è un creditore, è un gioco a somma zero; 2) tutti i debiti sono diritti su energia e risorse naturali necessarie a: a) supportare tali stessi diritti; b) ripagare il capitale. Energia e denaro sono interscambiabili solo nel breve periodo. Come l'energia è vitale per il sistema finanziario, così la finanza (specialmente adesso) mantiene attivo il flusso di energia primaria - però a un prezzo. Si genera PIL combinando energia primaria e materiali per tirar fuori prodotti o servizi, ma c'è bisogno del denaro per pagare questi beni. Nel breve e medio periodo, il denaro funziona come l'energia: possiamo usarlo per contrattare e pagare quel che vogliamo, incluse l'energia e la produzione di energia. Ma nel lungo periodo, l'unico vero motore della macchina è il "consumo di energia", il che significa che il vero costo capitale è fatto di energia e risorse naturali - e accelerare la creazione di credito nasconde piuttosto bene questa realtà. Il credito in sé non crea energia, però permette che l'estrazione di energia continui, e consente i prezzi molto (e necessariamente) più alti rispetto al caso di assenza di credito. Da qualche parte negli ultimi 40 anni abbiamo varcato la soglia di passaggio del sistema dalla situazione di "non abbastanza denaro" a quella di "non abbastanza energia a basso costo", che a sua volta significa maggior fabbisogno di denaro. Oltre questa soglia, il credito in più ha aggiunto magnetite al suo precedente ruolo di lubrificante. E' difficile da credere, ma se la società avesse vietato il debito intorno al 1975 (ad esempio richiedendo alle banche di possedere capitali e riserve per il 100%) oppure se l'offerta di denaro fosse stata rigidamente vincolata a qualche risorsa naturale (ad es. l'oro), la produzione globale di petrolio e il PIL globale probabilmente avrebbero raggiunto un picco 20 o 30 anni fa (ed oggi ne avremmo ancora qualche rimanenza in più della porzione al di sotto di 50 dollari al barile). Un esempio può aiutare a chiarire. Immaginate 3000 elicotteri che lanciano un miliardo di dollari in contante ciascuno sopra diverse comunità in giro per il paese (3000 miliardi di dollari in tutto). I cittadini che arrivano sul posto prima di tutti riempiono i loro zaini e diventano da un momento all'altro milionari; molti altri si impossessano di considerevoli somme da spendere, ancor più sono quelli che si ritrovano a caso centinaia di dollari infilati sul recinto o nelle fessure di casa, mentre un'alta percentuale della


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popolazione, lontana dalle zone di caduta del denaro, non ottiene nulla. L'effetto netto è un aumento del consumo di energia, dato che i nuovi ricchi acquistano automobili, fanno viaggi, e in generale consumano di più. Il ritorno energetico (EROEI) dei giacimenti petroliferi nazionali non cambia, ma le compagnie petrolifere possono praticare prezzi più alti ed estrarre petrolio più difficile perché l'economia è più forte, nonostante il fatto che quei 3000 miliardi siano stati creati dal nulla (o quasi). Quindi, il debito è aumentato, il PIL è aumentato, il prezzo del petrolio è aumentato, l'EROEI è rimasto uguale, qualcuno è diventato più ricco, e una grande percentuale della popolazione ha ottenuto poco o niente. Più o meno è quel che sta succedendo oggi nel mondo sviluppato. I sistemi naturali possono forse crescere del 2-3% all'anno (le foreste esistenti negli USA aumentano il proprio volume del 2,6% all'anno). Questo valore può essere incrementato grazie alla tecnologia, all'estrazione del principio (carbonio fossile), al debito, o a qualche combinazione di questi. Attraverso la tecnologia, viene resa accessibile dell'energia che magari non sarebbe stata accessibile nemmeno in futuro; attraverso il debito, invece, viene resa accessibile immediatamente dell'energia che sarebbe stata accessibile in futuro, aumentandone l'economicità con garanzie e sussidi ed aumentando il prezzo che i produttori di energia ne ricavano. In questo senso, il debito agisce in maniera simile alla tecnologia nell'estrazione di petrolio. Nessuno dei due fattori (debito e tecnologia) è cattivo di per sé, ma entrambi favoriscono il consumo immediato, assumendo che il loro intervento sarà continuamente ripetuto nel futuro. Il debito dà temporaneamente l'impressione che la produzione lorda di energia somigli a quella netta, dal momento che si consuma più energia a dispetto di prezzi elevati, e salari e profitti bassi. Inoltre la produzione energetica lorda si somma al PIL, poiché ad esempio gli 80 $ e più al barile di costo di estrazione per il giacimento degli scisti di Bakken vengono spesi a Williston e nelle zone circostanti (la storia cambia se il petrolio è prodotto in Canada, o in Arabia Saudita). Però, nel tempo, quando la produzione energetica lorda aumenta e quella netta resta costante o diminuisce, cresce la percentuale dell'economia che dev'essere impiegata nel settore energetico. Già ora diversi laureati in biologia, ragioneria o gestione alberghiera si ritrovano a lavorare presso pozzi di petrolio. In futuro, importanti processi industriali e alcune parti dell'infrastruttura non energetica diventeranno troppo dispendiosi da mantenere in piedi. Durante gli ultimi 10 anni il mercato globale del credito è cresciuto del 12% all'anno, spiazzando la crescita del PIL (appena 3,5% all'anno) mentre la produzione di greggio aumentava di meno del 1% all'anno. Siamo su tanti tapis roulant diversi, ma siamo talmente abituati a correre che il panorama non ci sembra cambiare granché. Per quanto l'energia abbia un ruolo fondamentale nella crescita, è l'accesso al credito che attualmente sostiene il sistema economico, in una specie di surreale e faustiano contratto di scambio. Finché i tassi di interesse (il costo governativo dei prestiti) si mantengono bassi e i partecipanti al mercato li accettano, questa situazione potrebbe andare avanti per parecchio tempo, mentre continuiamo a bruciare la prossima fetta di carbonio estraibile e si riduce il beneficio che otteniamo dall'"Affare". Non mi aspetto che il monopolio governativo sul meccanismo del credito finisca; ma se succederà, sia la produzione sia il prezzo del greggio saranno un bel po' più bassi. Il denaro non può creare energia, può solo permettere di estrarla più velocemente. Ad ogni modo, perché mai desideriamo energia e denaro? Nate Hagens

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Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

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