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Aeromensile di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

Nuova serie - Numeri 19/20 Dicembre 2013 Gennaio 2014 Anno XVI

SCIAPA E INFELICE CAT : R A E T IS DI M ERV E T E C L I N EL OCIA L’I S IO F

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PRIMO PIANO SEPARAZIONE DEI POTERI: IL CASO ITALIA DI CRISTOFARO SOLA


www.confini.org

Confini Aeromensile di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Numeri 19/20 - Dicembre2013/Gennaio 2014 - Anno XVI

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettore: Massimo Sergenti +

Hanno collaborato a questo numero:

Giuseppe Farese Gianni Falcone Roberta Forte Enrico Oliari Alfonso Piscitelli Angelo Romano Massimo Sergenti Cristofaro Sola

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Segreteria di redazione: confiniorg@gmail.com

+ Registrato presso il Tribunale di Napoli n. 4997 del 29/10/1998

confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

In bocca alla balena

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

LUNA GIALLA La storia cinese è lunga almeno 5000 anni. Le prime tracce scritte della lingua risalgono al 1400 a.C.. Il dizionario Zhongua Zihai elenca 85.568 caratteri, ma, nonostante l'enorme mole, ne ignora 1.500. Tuttavia quelli utilizzati di fatto sono molti di meno: per leggere un quotidiano ne bastano 3.000, mentre le persone con una buona cultura superano spesso i 5.000. Questo implica che per farsi comprendere, nella lingua cinese semplificata (vagamente simile al nostro latino classico rispetto alle lingue da esso derivate), un cinese medio deve mandare a memoria non meno di 4000 caratteri e deve ricordarne le varie inflessioni tonali. Va anche sottolineato che le sei arti antiche cinesi (l'equivalente delle nostre arti liberali) erano: la matematica, la calligrafia, la musica, il tiro con l'arco, la guida del carro e le cerimonie. Questo retaggio culturale può essere utile a spiegarsi come gli studenti cinesi risultino di gran lunga i primi nell'uso della matematica, nella comprensione di un testo, nelle scienze. A questo bisogna aggiungere la indubbia eccellenza del sistema scolastico che aiuta a farsi una ragione di quel 55,4% di studenti "top performer" contro il magro 12,6% degli occidentali. (Indagine Pisa/Ocse 2012). Queste premesse aiutano a capire come la Cina abbia potuto, in pochi decenni, colmare interamente il gap tecnologico che la divideva dalle superpotenze occidentali ed inviare, poche settimane or sono, un robot sulla luna, mettendosi alla pari con i precedenti "conquistatori dello spazio": russi e americani. Questo successo, scientifico e tecnologico, comunica al mondo e, soprattutto agli addetti ai lavori, che sul "bottino spaziale" c'è una nuova ipoteca. Che i mari di idrocarburi, pari a 40 volte le riserve terrestri, scoperti di recente su Titano, una delle lune di Saturno o l'acqua su una luna di Giove o i fosfati e le terre rare della luna sono anche cinesi, come il turismo spaziale, per quel che ci è dato si sapere sui tesori spaziali. L'impresa ci comunica anche che la Cina è stata in grado di sviluppare autonome tecnologie spaziali, ossia sistemi di lancio, vettori, propulsori, alimentatori, scudi, telecomunicazioni, controlli a distanza e robot e di integrarle in modo tale che una navicella spaziale fosse in grado di effettuare un atterraggio morbido sul suolo lunare, rilasciare un veicolo attrezzato per analizzarne il suolo ed inviare i risultati a terra. Per fare tutto questo ci vogliono fior di scienziati e di tecnici, un alto livello di organizzazione e controllo e una sofisticata padronanza delle competenze tecnologiche più avanzate.


EDITORIALE

Da notare anche che il nome dato alla navicella spaziale è "Chang'e" (alla lontana la nostra Selene) e quello del robot "Yuétù" (coniglio di giada). Tutti e due i nomi provengono dalla tradizione più remota e dal mito e già in tale scelta si può cogliere un messaggio di riconciliazione dell'élite cinese con la sua storia. La leggenda di Chang'e narra che i dieci figli del leggendario imperatore di Giada, Yao (2000 a C.) si erano trasformati in altrettanti soli che arrostivano la terra e facevano ribollire i mari. La ballerina Chang'e e l'arciere Hou Yi, suo sposo, vivevano tra gli immortali. Hou Yi, mosso a pietà per sorti del mondo, con le sue frecce magiche uccide nove soli lasciandone solo uno a riscaldare la terra. L'imperatore, furioso per la morte dei figli, castiga i due rendendoli mortali. Per l'infelicità Chang'e smette di ballare e Hou You cerca e trova l'elisir dell'immortalità, dei ladri tentano di rubarlo mentre l'arciere è a caccia e Chang'e, non sapendo dove nasconderlo, lo beve tutto, la doppia dose le restituisce l'immortalità ma, le chiude le porte del cielo. Da allora Chang'e vive sulla luna in compagnia del suo coniglio di giada. Che il messaggio sia che alla fine resterà un solo sole? Un'ulteriore considerazione ci dice che la Cina è arrivata a tanto solo con le sue forze e senza attingere, come fecero i vincitori della Seconda guerra mondiale, al know-how dei vinti, in particolare dei tedeschi. Il messaggio è chiarissimo: tra qualche anno la Cina, se manterrà il ritmo, sarà in grado di superare gli Stati Uniti in un settore che spalanca le porte del futuro e gli occhi della luna saranno sempre più a mandorla. Angelo Romano

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SCENARI

SCIAPA E INFELICE Il 47° rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese afferma, in sintesi, che la società italiana è "sciapa" e "infelice". Onestamente, non mi sento di dare torto al Censis e al suo presidente De Rita che, come succintamente vedremo in appresso, ha dipinto un quadro pieno di alienati privi di nerbo alle prese con situazioni al limite dell'inverosimile le quali, nel loro dispiegarsi, aumentano l'alienazione. Non mi sento di dargli torto, dicevo, ma mi chiedo: qual è il ruolo del Censis nel contesto del Paese? Il Centro Studi di Investimenti Sociali è un istituto di ricerca socioeconomica fondato nel 1964. Nel 1973, grazie alla partecipazione di alcuni enti pubblici e privati, è diventato una Fondazione riconosciuta con il DPR n. 712/1973 e, da oltre quarant'anni, svolge attività di studio e consulenza nei settori della società italiana, ovvero nella formazione, nel lavoro, nel welfare, nell'ambiente, nell'economia e la cultura. I suoi clienti sono essenzialmente gli apparati centrali e periferici dello Stato (Ministeri), enti locali (Comuni, Province e Regioni) ma anche grandi aziende sia private che pubbliche e organismi nazionali e internazionali. Annualmente, il Centro sforna il suo rapporto. I giornali, per un giorno o due ne riprendono i contenuti, forse un qualche talk show ne fa oggetto di dibattito e, poi, fino al prossimo anno, nessuno sentirà più parlare del Censis e del contenuto dei suoi rapporti. Può anche essere che qualche soggetto che, per caso ha letto un qualche precedente rapporto, lo citi per suffragare le tesi che sta esponendo. Ma, ancora una volta, tutto si ferma là. Quest'anno, il rapporto del Centro ha sollevato particolare attenzione perché, come dicevo, ha definito la società italiana, in estrema sintesi, "sciapa" e "infelice". Sciapa perché, per quanto rallegrati dallo scampato crollo, siamo dei sopravvissuti, senza fermento, troppo accidiosi, disabituati al lavoro, disinteressati alle tematiche di governo del sistema, ricettori passivi di una impressiva comunicazione di massa, alle prese con una furbizia generalizzata, con un immoralismo diffuso e con una crescente evasione fiscale. Inoltre, siamo infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali. Si è rotto il "grande lago della cetomedizzazione", storico perno dell'agiatezza e della coesione sociale, afferma il Censis. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti. Una società, la nostra, che nell'anno appena passato è stata aggravata da due fattori. Il primo, una sorta di sospensione da "reinfetazione" dei soggetti politici, delle associazioni di


SCENARI

rappresentanza, delle forze sociali nelle responsabilità del Presidente della Repubblica. Ma la reinfetazione, in nome della stabilità, riduce la liberazione delle energie vitali e implica il sottrarsi alle proprie responsabilità dei soggetti che, a diverso titolo e con differenti funzioni, dovrebbero concorrere allo sviluppo, che è sempre un processo di molti. Il secondo fattore negativo è stata la scelta ambigua di "drammatizzare la crisi per gestire la crisi" da parte della classe dirigente, che tende a ricercare la sua legittimazione nell'impegno a dare stabilità al sistema partendo da annunci drammatici, decreti salvifici e complicate manovre. Perciò, sottolinea il rapporto, nel progressivo vuoto di classe politica e di leadership collettiva, i soggetti della vita quotidiana rischiano di restare in una condizione d'incertezza senza prospettive di élite. Perciò, in mancanza di prospettive, la società per oltre i 2/3 ha reagito tagliando i consumi familiari (caccia alle promozioni e al prezzo più conveniente, scelta di prodotti commerciali, taglio alle spese per carburanti, a quelle per svago - cinema, ristoranti, ecc. Nonostante ciò, la pressione fiscale e le spese non derogabili comportano uno stato di tensione continua. Infatti, per oltre i due terzi delle famiglie, un'improvvisa malattia grave o la necessità di significative riparazioni per la casa o per l'auto sono un serio problema. In ogni caso, il solo pagamento di tasse e tributi e di bollette per utenze crea serie difficoltà a un quarto delle famiglie e sono circa 8 milioni quelle che hanno ricevuto dalle rispettive reti familiari o da amici una forma di aiuto nell'ultimo anno. L'ulteriore aggravio psicologico è la dilagante incertezza nel futuro, maggiormente incentrata sul lavoro: disoccupazione, precariato e sottoccupazione. Più di un quarto degli occupati è convinto che nei primi mesi del 2014 la propria condizione lavorativa andrà peggiorando: una sfiducia alimentata dal deterioramento di un quadro di contesto che ha visto, soprattutto nell'ultimo anno, allargare il perimetro della crisi dalle fasce generazionali più giovani a quelle più adulte. Infatti, anche nel 2013 è proseguita l'emorragia di posti di lavoro tra i giovani, con una perdita netta nel primo semestre di 476.000 occupati (-8,1%), che si sommano al milione e mezzo circa, bruciati dall'inizio della crisi. Ma pure nella fascia d'età successiva, tra i 35 e i 44 anni, il numero degli occupati è diminuito di quasi 200.000 unità, registrando una contrazione dell'occupazione relativa del 2,7%. Al quadro della disoccupazione, poi, si affiancano quasi 6 milioni di soggetti che si sono trovati a fare i conti con una o più situazioni di instabilità e precarietà lavorativa: lavoratori a termine, occasionali, finti prestatori d'opera con partita IVA, part-time involontari e cassintegrati. Ma il fatto ancor più inquietante è che se il numero totale degli occupati è diminuito, quello del precariato e della sottoccupazione negli ultimi cinque anni è cresciuto quasi del 10%. Chi può, se ne va a cercar fortuna altrove, aggiungendosi agli oltre 4 milioni di connazionali all'estero. Nell'ultimo decennio, il numero di cittadini che si sono trasferiti al di fuori dell'Italia è più che raddoppiato: 106.000 nel solo 2012, con un incremento rispetto all'anno precedente addirittura di quasi il 30%. La maggioranza di coloro che se ne vanno sono giovani con meno di 35 anni. Interessanti, qui,

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sono le motivazioni plurime che adducono a sostegno della loro scelta: sicuramente, per trovare un lavoro (51,4%). Poi, migliori opportunità di carriera e di crescita professionale (67,9%) alle quali si aggiunge la ricerca di una migliore qualità di vita (54,3%). Alcuni aggiungono il desiderio di vivere in piena libertà la propria vita sentimentale, come nel caso degli omosessuali (12%) ma, in ogni caso, oltre un quarto vuole lasciare un Paese nel quale non si trovano più bene. Infatti, per i giovani che espatriano, i difetti più intollerabili del nostro Paese sono l'assenza di meritocrazia, il clientelismo, la bassa qualità delle classi dirigenti, la scarsa qualità dei servizi, lo sperpero di denaro pubblico e la ridotta attenzione per i giovani. Non c'è che dire: hanno le idee chiare. Oltre all'insulsaggine della politica, tra i motivi di debolezza del nostro sistema il Censis pone, in primo luogo, il mancato ruolo strategico dell'istruzione, neppure toccato da innumerevoli sedicenti riforme degli ultimi 40 anni. Oltre un quinto della popolazione con più di 15 anni possiede al massimo la licenza elementare. E' vero che la maggior parte di essi sono ultrasessantenni ma un basso grado di alfabetizzazione, sia pur limitato a circa il 2%, lo si riscontra anche nella fascia 15/29 anni; una percentuale che sale a oltre il 7% tra i 30/59enni. L'aspetto più drammatico, comunque, è che - secondo il rapporto - il 43,1% dei 25/64enni si è fermato alla licenza media. Il circuito vizioso tra bassi titoli di studio, problemi occupazionali e scarsa propensione all'ulteriore formazione è testimoniato intanto dalla significativa incidenza tra i giovani non impiegati né in fase di formazione, di individui con al massimo la licenza media (43,7%) ma anche dalla marginale partecipazione complessiva della popolazione adulta ad attività formative, soprattutto se in possesso della sola licenza elementare o del diploma di audacia temeraria igiene spirituale scuola secondaria di primo grado. Per inciso, qui il Censis non dice che il livello di formazione, affidato in massima parte alle Regioni, è nella generalità pressoché nullo, svincolato dalle realtà imprenditoriali sul territorio, anacronistico rispetto alla tecnologia dei sistemi produttivi e totalmente ignaro dei canali di commercializzazione. Anche a livello universitario, comunque, il quadro non è allegro: l'abbandono dopo il primo anno in Italia è di oltre l'11%, con punte per il Mezzogiorno e le Isole tra il 14% e il 15%. Ma, per quanto sia di scarso sollievo, non è solo "colpa" degli studenti o della poca sensibilità delle famiglie perché, secondo il rapporto, l'università italiana rappresenta un sistema squilibrato territorialmente e con scarsa capacità di globalizzazione, aggravata dal divario territoriale tra Nord e Sud del Paese. Infatti, nel decennio 2002-2012, l'indice regionale di attrattività delle università è passato nel Mezzogiorno da -20,7% a -28,3%, con un incremento negativo di oltre 7 punti, con punte di ben 16 punti nelle Isole. Gli unici processi formativi che sembrano avere un guizzo, decuplicando nel decennio la partecipazione, sono i percorsi triennali d'istruzione e formazione professionale, al termine della scuola secondaria di primo grado. Tra le iniziative più rilevanti, quelle finalizzate a garantire il raccordo tra studio e lavoro seguite da percorsi in alternanza scuola/lavoro, da realizzazioni di didattiche laboratoriali e da attività di raccordo tra le competenze di base e le competenze professionalizzanti. In ogni caso, un po' poco per la sfida della globalizzazione.


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A questo punto, il Censis si chiede dove mai sia oggi il "sale alchemico". E qui introduce delle note di speranza nel ravvisare una lenta emersione di processi e soggetti di sviluppo che consentirebbero di andare oltre la sopravvivenza. Registra, infatti, una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell'agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), iniziative sempre più numerose di stranieri, la presa in carico d'impulsi imprenditoriali da parte del territorio, nonché la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all'estero. Ravvisa, inoltre, nuove energie e responsabilità in due ambiti: revisione dello Stato sociale e economia digitale. Il primo basato sul radicale riassetto del welfare puntando maggiormente su quello privato, su quello comunitario (enti locali, volontariato, socializzazione delle realtà territoriali), su quello aziendale e, infine, su quello associativo (ritorno a logiche mutualistiche e alla responsabilizzazione delle associazioni di categoria). Il secondo, l'economia digitale, spaziando dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati agli applicativi basati sulla localizzazione geografica, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani "artigiani digitali". Il filo rosso che può fare da nuovo motore dello sviluppo è individuato nella connettività fra i soggetti coinvolti in questi processi. È vero che restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell'interesse collettivo e nelle istituzioni. Eppure la crisi antropologica prodotta da queste propensioni sembra aver raggiunto, ad avviso del Censis, il suo apice ed è destinata a un progressivo superamento. In sostanza, ce la dobbiamo cavare da soli in quanto le istituzioni non possono fare connettività, perché sono autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo. E la connettività, secondo il rapporto, non può lievitare nemmeno nella dimensione politica, che è più propensa all'enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario, scivolando di conseguenza verso l'antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale). Fin qui, il rapporto. Sembra quasi di leggere un anno e mezzo di Confini. Con la differenza che il Censis, come dicevo, è il consulente ufficiale di apparati centrali e periferici dello Stato, di enti locali, di grandi aziende sia private che pubbliche, e di organismi nazionali e internazionali. Allora delle due l'una: o il lavoro del Censis è assolutamente ininfluente, nel senso che ciò che dice non è tenuto nella benché minima considerazione. E, quindi, la sua opera è anch'essa autoreferenziale. Oppure, il contenuto dei suoi rapporti sono propedeutici al potere di turno: una specie di Minculpop che sovvenzionava intellettuali perché attaccassero verbalmente il regime fascista. In ogni caso, nella smorfia, il 47 è un morto che parla. Roberta Forte

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NON TUTTI I MALI... Crozza dice che siccome la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale il porcellum, ci terremo Letta a vita. Può essere…. anche se "a vita" va preso, ovviamente, in senso relativo. Infatti, il presidente Napolitano non può sciogliere le Camere fintanto che il Parlamento non avrà varato una nuova legge elettorale con la quale andare al voto. Questo, naturalmente, determina una permanenza dell'attuale governo almeno fino alla realizzazione dei nuovi strumenti elettorali. E chissà che, a quel momento, Matteo Renzi non abbia manifestato appieno le sue vere intenzioni. Già, perché non è da escludere che la decisione della Corte giunga quantomeno propizia in un momento particolare della vita del PD. Quasi tre milioni di simpatizzanti si sono recati alle urne delle primarie per scegliere nella terna che vedeva "contrapposti" un Renzi, un Cuperlo e un Civati. Ora, tra i tre, il più vicino a un'ideaigiene di sinistra è indubbiamente Civati mentre Cuperlo ricorda più audacia temeraria spirituale un radicalchic con la "r" blesa che, sebbene abbia sentito parlare degli operai, li vede maggiormente come fenomeni antropologici da studiare. Se il primo non è stato votato forse per la giovane età (ha, tuttavia, la stessa età di Renzi) ma con ogni probabilità per le sue posizioni troppo a "gauche", Cuperlo non ha incontrato la maggioranza dei consensi per il suo atteggiamento dottrinario, per il suo parlare ex cathedra; da presidente del Centro Studi Pd, appunto, dimenticando, con ogni evidenza, i suoi trascorsi goliardici da presidente prima della FGCI e poi della Sinistra giovanile. Renzi, invece, è un prodotto della "società moderna", si fa per dire: un po' guascone, un po' sbragato, con quell'accento toscano che Panariello, Pieraccioni e Conti hanno reso famoso nel mondo identificandolo con una filosofia, la base del rinascimento, che le genti capiscono, forse inconsciamente: il momento di rottura rispetto al Medioevo, al trascendentismo, al teocentrismo e all'universalismo, per far emergere più un atteggiamento immanentista, antropocentrico e pure particolaristico. In sostanza, con Matteo Renzi (ma anche con Panariello, Pieraccioni, Conti) la gente ha più vicinanza, più assonanza perché non esiste argomento, per quanto ritenuto "sacro", che non possa essere affrontato, dibattuto, dipanato, con quell'umoristica ironia che fa dire le peggio cose con il dovuto sardonico garbo, espresso peraltro in vernacolo toscano. C'è di che essere in fila al botteghino del cinema….


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Sì. Si può dire che con Matteo Renzi, dopo ventidue anni dalla Bolognina, la sinistra abbia veramente rotto con il suo passato. Non più il fideistico sol dell'avvenire, la concezione universalista della società, il dogmatismo becero, peraltro praticati, dopo il 1991, nella più assoluta "libertà" interpretativa che ha condotto, in nome di un presunto interesse collettivo, a praticare politiche che, a definirle di destra, c'è di che essere accusati di buonismo. Il fenomeno Renzi, comunque, pone due distinti problemi alla politica. Il primo è interno al PD. E' vero: quasi tre milioni di persone si sono recati al voto delle primarie e, a larga maggioranza, l'hanno indicato adatto a guidare il più grande e grosso partito di sinistra. Ma quante di quelle persone sono iscritti, quadri, dirigenti di quel partito? Le primarie all'italiana, indubbiamente, sono strumenti per un coinvolgimento popolare, soprattutto da parte di chi ha (teme di aver) perso l'afflato con gli elettori, per giunta scippati da una porcata di legge elettorale del loro diritto di scelta. Così, si crea una sorta d'investitura dal basso, una specie di Santo subito! che non pone problemi se il soggetto investito appartiene all'apparatèik, composto da soggetti che, per quanto in lotta tra loro, sono animati dagli stessi atteggiamenti e dalla stessa concezione della politica: una specie di rappresentazione gattopardesca dove tutto cambia perché tutto rimanga com'è. Ma se l'investito popolare rompe lo schema, è al di fuori dell'apparatèik, se si è guadagnato il consenso delle genti affermando addirittura di voler rottamare la vecchia classe dirigente, allora il problema si pone perché sono i "vecchi" dirigenti dell'apparato ad aver in mano le strutture e le leve operative del partito. E Renzi aveva un solo modo per superare d'emblée il problema: le elezioni subito che, visti i problemi attuali della destra, lo investissero della guida del Paese così da creare una forza superiore a quella che, sicuramente, gli verrà contrapposta dall'interno per condizionarlo nell'azione. E qui interviene la "provvidenza": la Corte Costituzionale ha sentenziato che l'attuale legge elettorale è incostituzionale e, pertanto, non idonea a regolare una prossima consultazione. Certo, Aldo Bozzi, un settantanovenne avvocato lombardo, non immaginava uno scenario del genere quando, nel novembre del 2009, in qualità di cittadino elettore, aveva citato la Presidenza del Consiglio e il Ministro dell'Interno davanti al Tribunale di Milano, sostenendo che nelle elezioni politiche svoltesi dopo l'entrata in vigore della legge 270/2005, il cosiddetto porcellum, e nello specifico nelle elezioni del 2006 e del 2008, il suo diritto di voto era stato leso, perché non si era svolto secondo le modalità fissate alla Costituzione, ossia voto "personale ed eguale, libero e segreto" e "a suffragio universale e diretto". Né, probabilmente, Bozzi "immaginava" d'incontrare un'elevata riluttanza da parte dei giudici ordinari, fatta di bocciature e di ricorsi, e di mettere, quindi, in campo un notevole grado di sopportazione e di tenacia che, in ogni caso, l'hanno portato ad adire la Cassazione la quale, al 17 maggio di quest'anno 2013, aveva rimesso la questione ai giudici costituzionalisti. E la Consulta, detentrice del supremo, inappellabile, potere di legittimazione di un atto legislativo, che pure aveva respinto simili quesiti referendari nel gennaio 2012, nella sua nota del

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4 dicembre scorso, anticipatrice della sentenza ancora da pubblicare, ha fatto sapere di aver dichiarato incostituzionali sia le liste bloccate che il premio di maggioranza, delegittimando, così, l'attuale legge. In ogni caso, la Consulta ha fatto di meglio. Per circa trent'anni, i suoi pronunciamenti hanno avuto effetto ex tunc, cioè retroattivo estendendo la sua invalidità a tutti i rapporti giuridici ancora pendenti al momento della decisione della Corte, con l'esclusione soltanto dei "rapporti esauriti" come, ad esempio, quelli decisi con sentenza passata in giudicato, oppure non più operanti, per decadenza o prescrizione. Del resto, l'efficacia retroattiva era data dal fatto che la norma caducata era viziata da nullità e quindi non poteva produrre ab origine alcun effetto giuridico. Ma, negli anni '80, da parte di molti costituzionalisti, si cominciò a ritenere che un'applicazione radicale e generalizzata di tale principio potesse determinare gravi inconvenienti; si potessero, cioè, produrre effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. Perciò, in casi del genere, si reputò che la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non avrebbe aderito per nulla alla propria funzione, in quanto avrebbe dato luogo ad un grave turbamento della convivenza. Così, i pronunciamenti della Corte cominciarono a presentare casi di utilità, certamente dalla data di deposito della sentenza, ma con effetti "de futuro". E', in pratica, la circostanza che abbiamo dinanzi. In ogni caso, Renzi non può far cadere il governo Letta e non può chiedere le elezioni anticipate. Ma c'è, come detto, un secondo problema che ha di fronte: quello di impedire che energie trasversali si possano ritrovare, un domani, sotto la comune egida del popolarismo europeo perché, se così fosse, non avrebbe più senso il suo atteggiamento da "democristiano di sinistra", tanto per collocarlo in una categoria nota. E le elezioni a breve, quindi, si sarebbero prestate meravigliosamente bene per impedire che quell'operazione avesse un seguito e un qualche risultato. Certamente senza volerlo, la Corte con la sua pronuncia ha fatto, quindi, un grosso favore non solo all'apparato della sinistra ma anche ai "popolari" della sinistra, ai "popolari" della destra e perfino a quelli del centro che hanno così il tempo di effettuare tutte le prove tecniche che vogliono per provare a costruire in Italia l'appendice del PPE. Sicuramente, molto dipenderà dall'ipotetico conducator ma, intanto, ci proveranno. Tutto questo, naturalmente, lontano dal significato delle primarie, dall'afflusso di popolo, dallo scadimento della morale, dall'azzeramento delle pulsioni culturali, dalle attese di uno Stato, dalle esigenze di una nazione, dai bisogni del mondo dell'impresa e dalle urgenze di quello del lavoro: un Paese, nella sostanza, definito dal 47° rapporto Censis, "sciapo" (insipido, scialbo, grigio, ecc..) e "infelice", dove "nel progressivo vuoto di classe politica e di leadership collettiva, i soggetti della vita quotidiana rischiano di restare in una condizione di incertezza senza prospettive di élite".


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Se questa è la situazione, (e purtroppo è questa) cosa resta al neo segretario Renzi per affermare la sua linea, intanto all'interno del partito? Beh! Come pensata è geniale: il ritorno alle origini, la ricaratterizzazione della sinistra come, pensate,…. "sinistra". La presidenza a Cuperlo (alla fine ha accettato) porta l'intellighenzia e la recente intesa, dopo alcune strattonate, con Landini, segretario dei metalmeccanici FIOM, sotto la benedizione della Camusso che nel gioco delle parti sollecita Renzi ad intervenire sull'insulsa legge di stabilità, porta il mondo del lavoro: i due fattori sotto i quali la vecchia sinistra si è sempre ritrovata. Certo…..la strada è un po' impervia e un tantino anacronistica e quindi richiederà molto ingegno nel percorrerla ma chissà che, alla fine, non serva da esempio per ridare alla politica tutta (compresa quella della destra) una connotazione che la gente, sulla scorta dei propri convincimenti e delle proprie attese, possa inequivocabilmente riconoscere e votare. Pertanto, alla fin fine, munito di rinnovata speranza, voglio credere nel vecchio adagio: non tutti i mali vengono per nuocere. Massimo Sergenti

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POLITICA/L’INTERVISTA

FLAVIO FELICE Nel tentativo di immaginare una destra che sappia coniugare libero mercato ed equità sociale, l'intervista "culturale" di questo mese affronta il tema dell'economia sociale di mercato. Argomento tornato fortemente di moda in tempi di crisi economica, ma spesso trattato con superficialità e scarsa conoscenza. Per avere, allora, un quadro più chiaro della materia è opportuno affidarsi al professor Flavio Felice, tra i più importanti studiosi ed esperti italiani di economia sociale di mercato. E' lui, infatti, ad aver riportato in Italia il dibattito sull'economia sociale di mercato con un libro uscito per i tipi di Rubbettino (L'economia sociale di mercato, 2008) e ad aver poi curato, con l'ex ministro Professor Francesco Forte, due ponderosi volumi antologici sui padri dell'economia sociale di mercato: "Il liberalismo delle regole" (Rubbettino, 2010) e "L'economia sociale di mercato e i suoi nemici" (Rubbettino, 2012). Ed è sempre lui che, dalla cattedra di dottrine politiche ed economiche alla Pontificia Università Lateranense, dove è ordinario, raggiunge spesso gli Stati Uniti e l'America Latina dove è ascoltato con genuina sete di conoscenza. La sua ultima fatica editoriale è "Istituzioni, persona e mercato. La persona nel contesto del liberalismo delle regole" edito da Rubbettino. Professore, si sente parlare sempre più spesso, in politica e sui quotidiani, di economia sociale di mercato. Ma che cosa è in definitiva l'economia sociale di mercato? Per economia sociale di mercato si intende una teoria economica e un'esperienza politica che hanno avuto come centrale operativa la Germania occidentale del secondo dopoguerra. In pratica, si tratta di fissare il mercato e la concorrenza come mezzi per raggiungere obiettivi sociali. Queste proposte di fondo le condivideva il professor Alfred Müller-Armack, il quale operò per promuovere l'economia sociale di mercato, dapprima definendola teoricamente e in seguito tentando di implementarla politicamente in qualità di sottosegretario al Ministero dell'Economia Federale. Müller-Armack, al quale dobbiamo l'espressione "economia sociale di mercato", ridusse il nucleo di tale concetto a una formula agile; in pratica, si tratta di "collegare, sulla base dell'economia della concorrenza, la libera iniziativa con un progresso sociale assicurato proprio attraverso le prestazioni dell'economia di mercato". Circa le origini di tale espressione restano ancora molti dubbi. Da un lato è fuori discussione che Müller-Armack la utilizzò per la prima volta in una sua pubblicazione, intitolando Economia


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sociale di mercato il secondo capitolo del suo Economia pianificata ed economia di mercato (Wirtschaftslenkung und Marktwirtschaft). D'altro canto, si registrano alcune tracce di questo termine nel 1947 da parte di Harold Rasch, che dal 1947 al 1948 ha presieduto l'amministrazione economica di Minden; è generalmente condiviso il fatto che Rasch utilizzò tale termine indipendentemente da Müller-Armack. Chi sono gli ordoliberali, ai quali si deve la nascita dell'economia sociale di mercato? A tal riguardo, occorre menzionare innanzitutto l'opera di Walter Eucken, Franz Böhm e HansGrossman Dörth. Il nocciolo teorico della cosiddetta Scuola di Friburgo venne espresso nella raccolta di scritti di Eucken, Böhm e Grossman-Döth edita nel 1936: Ordnung der Wirtscahft. Nella premessa, intitolata Il nostro compito, gli autori misero in luce il fatto che "la costituzione economica [andrebbe] intesa come una decisione complessiva sull'ordine della vita economica nazionale" e quindi che "l'ordine giuridico [andrebbe] concepito e formato come una costituzione economica". Il nucleo del gruppo - Eucken, Böhm e Grossmann-Dörth - fu da subito ampliato a un vasto circolo di allievi e di colleghi, il che ci consente di parlare di una "scuola". Si annoverano al riguardo gli allievi di Eucken, Karl Paul Hensel, Hans Otto Lenel, Friedrich A. Lutz, Karl Friedrich Meyer e Leonard Miksch, così come Bernard Pfister. La genesi del "liberalismo delle regole" coincise con l'ascesa della dittatura nazionalsocialista, che proprio a Friburgo aveva trovato una imponente figura-guida con l'allora rettore dell'università, Martin Heidegger. Sotto il rettorato di Heidegger, Eucken fu un portavoce di primo piano dell'opposizione nel senato accademico; le lezioni di Eucken di quegli anni erano diventate un punto di incontro dei critici al regime. Secondo gli ordoliberali lo Stato non ha il compito di dirigere i processi economici bensì di agire sulle forme dell'economia. Che cosa vuol dire in concreto? Sul piano teorico, Böhm, Eucken e Grossman-Dörth, oltre a rendere esplicita la loro ferma opposizione alla ancora persistente eredità della Scuola storica tedesca dell'economia di Gustav Schmoller, affermarono il principio generale di "legare all'idea di costituzione economica tutte le questioni pratiche, politico-giuridiche o politico-economiche", convinti come erano che l'interrelazione tra diritto ed economia fosse "essenziale". Gli autori del Manifesto del '36 espressero con forza la loro posizione in ordine al metodo che lo scienziato sociale dovrebbe adottare. Appare chiaramente la consapevolezza da parte dei nostri autori dei pericoli e della delicatezza che caratterizzavano l'allora situazione storica tedesca. Non si trattava solo di incrociare le spade intorno a una pur nobile disputa sul metodo, quanto della evidente comprensione e della chiara esplicitazione dei rischi che una nazione corre allorché si perda di vista un elemento chiave della vita reale: politica, economia e cultura sono sfere interconnesse e non compartimenti stagni. Il compito dello scienziato sociale - in tal caso dell'economista - è di rendere ragione dei fenomeni, tenendo presente la loro complessità e irriducibilità al mero problema economico.

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I nostri autori individuano due atteggiamenti entrambi figli del fraintendimento metodologico in ordine alla scienza economica e giuridica: il "fatalismo" e il "relativismo". Con riferimento a tali atteggiamenti, scrivono: "Di fronte a un atteggiamento fatalista il giurista può solo adeguarsi alle condizioni economiche". In pratica, lo scienziato si arrende di fronte alla presunta necessità che governerebbe il processo storico, un inarrestabile corso degli eventi: "Non sente di avere la forza per influenzarle". Compito dello scienziato sociale, al contrario, sostengono i padri dell'ordoliberalismo, è proprio lo sforzo di porre domande. È esattamente questo sforzo che distingue con chiarezza la speculazione scientifica dal pensiero ordinario. La grande responsabilità della Scuola storica, denunciano gli ordoliberali, fu che "sotto la sua guida gli economisti politici tedeschi dimenticarono come applicare una teoria, come migliorarla e come effettuare analisi economiche. Per tale motivo essi dimenticarono anche come comprendere il funzionamento del sistema economico complesso. In breve, persero contatto con la realtà e commisero proprio quell'errore che più aborrivano, dato che la realtà non è un accumulo di fatti non collegati". La lotta ai monopoli è tra i capisaldi della corrente ordoliberale. In che modo lo Stato deve evitare il formarsi di distorsioni nel mercato e garantire, quindi, la libera concorrenza? A tal proposito, Böhm, Eucken e Grossmann-Dörth individuano quattro argomenti che delineano il percorso scientifico del cosiddetto liberalismo delle regole. In primo luogo, l'applicazione del ragionamento scientifico, nel diritto come nella scienza economica, per costruire e riorganizzare il sistema economico. In secondo luogo, considerare le singole questioni economiche come "parti costitutive di un tutto più grande", in quanto tutte le questioni pratiche, di carattere politico-giuridico e politico-economico, devono essere adattate all'idea della costituzione economica. In questo modo vengono superate l'instabilità relativista e l'accettazione fatalista dei fatti. In terzo luogo, sarà proprio aggredendo i problemi che la storia solleva con le domande fondamentali che noi comprenderemo meglio, penetreremo più a fondo e impareremo di più da essa di quanto non faccia lo storicismo. In quarto luogo: la costituzione economica deve essere intesa come una decisione politica generale su come la vita economica della nazione debba essere strutturata. In pratica, alla costituzione economica spetta l'individuazione della linea di demarcazione tra concorrenza sleale e concorrenza propriamente detta, offrire la cifra in forza della quale stabilire se esista libera concorrenza o meno, se la concorrenza sia limitata, se la concorrenza sia efficiente o invece crei ostacoli, se le riduzioni di prezzo siano o meno conformi al sistema di libero mercato; tutti questi problemi, sostengono i nostri, "possono essere decisi solo tramite indagini svolte dagli economisti sui vari stati del mercato", che poi altro non sono che le forme elencate da Eucken nel suo saggio sui fondamenti dell'economia politica. Ludwig Erhard, ministro dell'Economia della Repubblica federale di Germania dal 1949 al 1962 e seguace dell'economia sociale di mercato, sosteneva che la concorrenza è il mezzo più adeguato per il conseguimento dell'equità sociale. In che modo il libero mercato può garantire condizioni di vita dignitose ed umane?


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Erhard, coltivava la convinzione che un contributo essenziale al "progresso sociale" potesse giungere da mercati aperti e strutturati sul modello della libera concorrenza e perciò in crescita dinamica. La "questione sociale" trova la sua prima e decisiva risposta nell'ordine della concorrenza - quindi non contro o per il mercato, ma con il mercato. L'economia sociale di mercato scommette sulla capacità dei processi di libero mercato di perseguire finalità di interesse sociale, non contrapponendo affatto, di conseguenza, i concetti di "sociale" e di "mercato" e infine non identifica "sociale" con "statale"; il "sociale" riguarda in primo luogo l'ambito della società civile, articolata secondo il principio di sussidiarietà orizzontale, oltre che verticale. La politica sociale non è quindi né un'attività di correzione (da parte dello Stato) né una semplice appendice dell'economia di mercato (la filantropia privata). Al contrario, la politica sociale è una parte costitutiva equipollente e integrale del concetto di economia sociale di mercato. Non si tratta di puntuali interventi nel mercato "su base sociale", quanto soprattutto dell'accesso senza privilegi al mercato - proprio allora si può attendere dalla "libera iniziativa" anche il "progresso sociale". Altro esponente di spicco della Scuola di Friburgo è Wilhelm Ropke: cosa intendeva quando parlava di "terza via"? Non certo una via di mezzo tra il socialismo e il capitalismo. Röpke è stato sempre un fedele e coerente sostenitore dell'economia di mercato. Tuttavia, distingueva tra "economia di concorrenza" e "capitalismo storico". In pratica, tra un'economia che assume la concorrenza come principio ordinatore delle scelte individuali e le istituzioni che storicamente si danno in un dato tempo e in una determinata area geografica. Per questa ragione, Röpke, accanto ad un principio di concorrenza, individua una miriade di "capitalismi", tanti quante sono le colture con le quali il suddetto principio entra in contatto. La cosiddetta "terza via", allora, è il tentativo semantico di distinguere un'interpretazione puramente ideologica del mercato da una prospettiva che tenga conto del dato storico e culturale. Con riferimento al mercato, Röpke sosteneva che l'ordine giuridico e l'ordine morale sono indispensabili in quanto offrono i presupposti del mercato, dal momento che in loro assenza il mercato stesso non potrebbe esistere ovvero sopravvivere; sono presupposti che svolgono anche la funzione di limite. Un limite che, nella misura in cui diventa parte integrante della cultura di un popolo o di una società, pur derivando da una sfera esterna all'ordine economico, giunge a innervare la cultura di un determinato mercato, conformandolo e consentendoci di distinguere tra liberalismo e liberalismo, tra capitalismo e capitalismo, tra mercato e mercato, tra impresa e impresa, tra welfare e welfare. Röpke delinea un profilo culturale in forza del quale le attività economiche, al pari di qualsiasi altra dimensione dell'agire umano, non si realizzano mai in un vuoto morale o in un mondo virtuale, ma all'interno di un determinato contesto culturale, le cui matrici possono essere riconosciute e apprezzate ovvero trascurate e disprezzate. In questa prospettiva, Röpke sembrerebbe centrare uno dei perni teorici intorno ai quali muove l'economia sociale di

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mercato, ossia l'affermazione che una sana e dinamica economia di mercato è sempre condizionata a un ordine giuridico che la regola e a istituzioni sociali, come ad esempio la famiglia e la pluralità dei corpi intermedi, che interagiscono con essa e la influenzano, essendone esse stesse influenzate. Disciplina di bilancio, lotta ai monopoli, equità sociale, tutela dell'ambiente e protezione dei consumatori. Quale di questi punti programmatici degli ordoliberali le sembra di maggiore attualità? Credo che sia impossibile stilare una graduatoria delle priorità. L'economia sociale di mercato è figlia della tradizione "ordoliberale", di un "liberalismo ordinamentale" che postula una certa coerenza tra i sistemi. Invero, i punti programmatici rispondono ad un equilibrio sistemico che si tiene insieme proprio perché teorizza il reciproco condizionamento. Credo che sia impossibile espungere dall'agenda politica un punto senza venir meno alla coerenza teorica del modello ed è quello che la politica normalmente fa ed è il motivo per cui non credo si possa parlare di un'economia sociale di mercato realizzata nella storia, sebbene esistano soluzioni politiche che maggiormente si avvicinano al modello ed altre che, invece, più o meno intenzionalmente, ne prendono le distanze. La sussidiarietà è compatibile con l'economia sociale di mercato? La sussidiarietà forse è il principio fondamentale di tale modello. Lo stesso Eucken e in seguito Röpke individuano proprio nella sussidiarietà una sorta di principio d'ordine che strutturerebbe l'ordinamento sociale in maniera poliarchica i cui sistemi sarebbero tra loro interdipendenti. Tra i sistemi abbiamo anche la sfera economica che si confronta con le altre forme sociali e con esse stabilisce un perenne rapporto di reciproca interferenza. In base a tale principio, l'articolazione della società dovrebbe avvenire dal basso verso l'alto, lasciando che il livello di ordine superiore intervenga solo allorché le istituzioni che fanno riferimento al livello di ordine inferiore mostrino di non essere in grado di risolvere autonomamente i problemi che sono propri del loro livello. L'intervento sussidiario delle istituzioni che operano ad un livello di ordine superiore, tuttavia, dovrà essere temporaneo e volto al ristabilimento della completa autosufficienza delle istituzioni che operano al livello di ordine inferiore, giammai assorbirle e sostituirle. Il tema della sussidiarietà è fortemente presente anche nella dottrina sociale della Chiesa. Quali sono i legami tra questa dottrina e gli ordoliberali? Al di là di quanto già detto in ordine al principio di sussidiarietà e della presenza tra i teorici dell'economia sociale di mercato anche di influenti teologi tedeschi, quali ad esempio, Oswald von Neel-Breuning e il vescovo Joseph Hoffner, che ebbe Eucken come suo maestro, un riferimento significativo credo sia quello che lega il modello di economia sociale di mercato all'enciclica di Benedetto XVI "Caritas in veritate". Con particolare riferimento all'enciclica, la prospettiva di Benedetto XVI, sotto il profilo economico, è la promozione di un nuovo ordine mondiale, così come sin dagli anni Trenta del secolo scorso lo fu per i padri dell'ordoliberalismo: economisti e giuristi che contribuirono alla


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ricostruzione morale e culturale della Germania del secondo dopoguerra, la cui visione li condusse a porre le basi economiche, culturali ed istituzionali dell'Unione Europea. Ad ogni modo, nella versione ordoliberale si trattava e nella riflessione di Benedetto XVI si tratta di un'idea di ordine economico ispirato al principio di "sussidiarietà", con la felice esplicitazione da parte di Benedetto XVI del principio di "poliarchia", qualora non si voglia cadere nella trappola neo-hobbesiana, di un Leviathan globale le cui prerogative sovrane oggi non appaiono più bilanciate, quindi limitate, neppure dalle pur deboli barriere nazionali. Una prospettiva, quella ordoliberale e quella di Benedetto XVI, in sintonia con la lezione di Pio XI, il quale nel 1931 nella Quadragesimo anno rispondeva al laissez-faire, al socialismo e al corporativismo fascista - ma anche alle derive corporativistiche di matrice cattolica - con la formulazione del principio di sussidiarietà. In breve, Benedetto XVI, sebbene indirettamente e non necessariamente in modo intenzionale, sembrerebbe rinviare al significato di ordine e di ordinamento così come emergono dalla tradizione dell'economia sociale di mercato. È appena il caso di ricordare che sin dalla Centesimus annus paragrafo 42, "ordine" e "ordinamento", intesi come sistema delle regole, la cornice giuridica ed istituzionale nella quale si muovono gli operatori economici, appaiono una variabile determinante per la definizione e l'apprezzamento di un dato mercato e della stessa "economia libera". Chi sono gli intellettuali e i politici che in Italia vengono maggiormente influenzati dalle teorie degli ordoliberali? Tra gli intellettuali che hanno maggiormente risentito dell'influsso dell'economia sociale di mercato e che a loro volta hanno influenzato anche l'opera degli autori tedeschi, andrebbero ricordati Luigi Einaudi e Luigi Sturzo. Per cogliere un aspetto fondamentale del sodalizio culturale che intercorse tra gli economisti Einaudi e Röpke, credo sia importante ricordare quanto Einaudi scrisse in un'ampia recensione ad un libro di Erhard nel quale il Cancelliere tedesco spiegava il miracolo economico tedesco e la dottrina röpkiana dell'economia sociale di mercato. Einaudi scrisse che l'aggettivo "sociale" non era che un semplice riempitivo, dal momento che non implicava interventi "difformi al mercato", ossia volti a modificare il sistema di libero mercato, ma semplicemente "interventi conformi" allo stesso, volti a realizzarlo. Einaudi e Röpke furono amici e strinsero un sodalizio intellettuale che andò dalla seconda metà degli anni Trenta alla prima metà degli anni Quaranta. In pratica, un sodalizio iniziato quando l'economista italiano diede vita e diresse la "Rivista di storia economica" ed intensificato durante il periodo dell'esilio in Svizzera, durante il quale Einaudi scriverà Lezioni di politica sociale (1944) e Röpke dirigerà l'Institut des Houtes Etudes Internationales di Ginevra. È radicata nei nostri autori la consapevolezza che la libertà - tanto in economia quanto in politica (Röpke e Sturzo interverranno nella disputa Croce-Einaudi su "liberalismo" e "liberismo", argomentando le ragioni sostenute da Einaudi contro Croce) - produce strumenti estremamente fragili, ma gli unici all'altezza della dignità umana, e che la concorrenza non è il prodotto del caso, bensì il risultato di secoli di civilizzazione; è un manufatto.

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Parafrasando lo storico cattolico liberale britannico Lord Acton, Röpke, Einaudi e Sturzo condividono l'idea che "La pianta della concorrenza" è un frutto delicato, alla cui nascita hanno concorso generazioni e generazioni di donne e di uomini, spetta a noi oggi alimentarla, sostenerla e difenderla da possibili aggressioni, dai tentativi di soffocarla, dalle sempiterne tentazioni di fare a meno di essa, ricorrendo alle scorciatoie dettate dal prevalere degli interessi particolari. Monopoli, cartelli, autoritarismo, collettivismo sono i nemici mortali dell'economia di concorrenza. Einaudi riconosce a Röpke il merito di aver prodotto un'analisi critica dei concetti economici in grado di consentire la distinzione tra economia di concorrenza e capitalismo storico: il primo passo verso un possibile ristabilimento dell'ordine sociale. Un ordine nel quale il problema economico viene ricondotto entro il suo alveo ed in forza del quale si riconoscono i limiti ed i presupposti del mercato. Quale è il rapporto tra Codice di Camaldoli, che vede la luce nel 1943, e l'economia sociale di mercato? L'interpretazione finalistica dello stato che troviamo nel Codice di Camaldoli evidenzia la frattura più significativa rispetto al concetto di stato, tipico degli ordoliberali tedeschi della Scuola di Friburgo. Una nozione di ordine nella quale, con riferimento allo stato, si assume il suo carattere funzionale alla costruzione dell'ordine sociale e non "costitutivamente finalizzato" ad un tanto meritorio quanto indefinito concetto di "bene comune". Un esperimento, quello ordoliberale, che matura - anch'esso clandestino - negli ambienti culturali tedeschi proprio mentre a Camaldoli si lavorava al Codice. Ebbene, a differenza degli interpreti dell'economia sociale di mercato di impronta friburghese, ma anche a differenza della prospettiva puramente sturziana, il riconoscimento dell'autonomia e della libertà dei soggetti sociali non conduce gli estensori del Codice di Camaldoli a condividere un'idea di stato come semplice cornice giuridica, garante dell'azione dei singoli e delle comunità. Se è vero, da un lato, che il codice critica una visione monistica dello stato, d'altro canto non sembra prendere le distanze (come fece Sturzo e come fecero gli ordoliberali friburghesi) da una visione organicistica e sostanzialistica dello stesso, in forza del quale lo stato è mostrato quasi come un organismo vivente, una realtà sui generis e uno strumento a cui spetterebbe il compito di omogeneizzare le diverse aspettative, gli interessi e le prospettive che andrebbero a comporre il concetto plurale ed istituzionalizzato di bene comune. Retaggio di un corporativismo di marca cattolica, la cui teoria ha finito per influenzare profondamente il giudizio che gli intellettuali cattolici del secondo dopoguerra hanno manifestato nei confronti dello stato, del mercato e del rapporto tra cittadini ed istituzioni politiche ed economiche. In che modo le teorie ordoliberali possono giocare un ruolo nel processo di ricostruzione delle istituzioni europee? Per tentare di rispondere alla sua domanda, mi consenta di presentarle il contributo di Alfred Müller-Armack, uno dei massimi esponenti della teoria dell'economia sociale di mercato, nonché attore protagonista della stagione costituente che portò al Trattato di Roma del 1957.


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Nel 1978, Müller-Armack pubblica un saggio molto interessante dall'eloquente titolo: I cinque grandi temi della futura politica economica. L'articolo parte dall'assunto che la democrazia liberale rappresenta un elemento costitutivo del modello economico denominato "economia sociale di mercato" e che, di conseguenza, questa andrebbe assunta come lo strumento di politica sociale ed economica mediante il quale un ordinamento autenticamente liberale persegue i propri obiettivi. Müller-Armack individuava cinque compiti di fronte ai quali era posto un ordinamento tendenzialmente liberale, quello della Repubblica Federale Tedesca, il quale avesse assunto le istituzioni tipiche dell'economia sociale di mercato come strumento di politica economica. È interessante constatare l'attualità di tale programma politico economico. Tra i compiti che Müller-Armack assegna all'ordinamento liberale ispirato all'economia sociale di mercato c'è la costituzione di un ordine europeo che giunga fino alla costituzione di un ordine monetario stabile. Müller-Armack era consapevole che nessun ordine monetario sarebbe mai potuto nascere se prima non si fosse proceduto nella direzione di una progressiva convergenza dei parametri che fungono da fondamentali della politica economica dei singoli Paesi. Anche per un padre dell'economia sociale di mercato come Müller-Armack, fino a che sarebbero esistiti diversi tassi di inflazione e una diversa crescita nei singoli paesi, un ordine monetario non sarebbe potuto mai nascere. Compito dei singoli Paesi e delle istituzioni europee sarebbe stato quello creare le precondizioni di politica economica che avrebbero favorito la stabilità finanziaria, un bilancio in pareggio e una crescita duratura. In questo contesto, l'ordine monetario si sarebbe inserito come la spontanea conclusione di un lungo processo, forse un obiettivo più distante nel tempo di quanto non sia stato nella realtà, ma di certo non impossibile. Da questo punto di vista il modello dell'economia sociale di mercato esprime nel modo più radicale la convinzione che solo un ordinamento monetario "relativamente stabile" può rappresentare la premessa per una crescita ordinata e duratura. Una premessa necessaria per garantire le migliori condizioni alle imprese, ai lavoratori, ai consumatori e alla pubblica amministrazione. Infine, Müller-Armack assegna ad un ordinamento liberale di economia sociale di mercato il compito di ricercare incessantemente e creativamente sempre nuovi percorsi istituzionali che possano realizzare il "compromesso sociale" tra libertà e giustizia, pur sempre all'interno di situazioni di libero mercato e conformi ad esso. A distanza di trentacinque anni il programma politico economico di un padre dell'economia sociale di mercato come Müller-Armack mantiene inalterato il suo valore. Un valore che si misura in termini di difesa e di promozione delle istituzioni libere, di responsabilità per le generazioni future e di consapevolezza circa la funzione sociale e redistributiva del reddito che svolge il principio di concorrenza. Il mercato vive di concorrenza a muore in sua assenza, ma il mercato in primis necessita di una cultura che lo presupponga e di un arbitro che lo difenda dai mercanti infedeli, dalla spirito di frode e di sopraffazione; ha bisogno di una politica matura e liberale che lo metta al servizio della

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società civile, punendo ed espellendo chiunque - corporazioni e consorterie - pretendesse di occuparlo e di trasformarlo nel triste campo da gioco dove a vincere sono sempre gli stessi (e ovviamente neppure i migliori). Quali sono i testi da consigliare a chi volesse avvicinarsi alla conoscenza dell'economia sociale di mercato? Suggerirei i seguenti: Forte F. - Felice F. (eds), Il liberalismo delle regole. Genesi ed eredità dell'economia sociale di mercato, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010; Forte F. - Felice F. - Forte C. (eds.), L'economia sociale di mercato e i suoi nemici, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2013; Felice F., L'economia sociale di mercato, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008; Forte F., L'economia liberale di Luigi Einaudi. Saggi, Olschki Editore, Firenze 2009; Röpke W., La crisi sociale del nostro tempo [1942], Einaudi, Torino 1946; Sturzo L., Eticità delle leggi economiche, in "Sociologia", Anno III, lugliosettembre 1958. Giuseppe Farese


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PUTIN UOMO DELLA TRADIZIONE Nel suo discorso nel Giorno della Costituzione del 12 dicembre 2013 Vladimir Putin cita due personaggi russi significativi: il I Ministro Stolypin e il filosofo Berdaiev. Stolypin negli ultimi anni dell'Impero Zarista cercò di portare avanti una riforma agraria che diffondesse la piccola proprietà contadina, di affermare il principio dell'auto-governo locale (Zemtsvo) e di porre le basi di una grande modernizzazione industriale. Insomma Stolypin cercava di opporsi alla marea montante del comunismo rivoluzionario sviluppando una politica di riforme graduali, che salvaguardassero i due pilastri della tradizione politica russa: lo Zarismo e l'Ortodossia. A rivoluzione russa avvenuta, l'altro nome citato da Putin, Berdaiev abbandonò il proprio paese e in esilio sviluppò i principi della sua filosofia esistenzialista e cristiana: Berdaiev era infatti un discepolo di Dostoevskij e cercava una terza via tra collettivismo marxista e individualismo liberale. Davvero significativa è la sua citazione nel discorso del 12 dicembre. Putin si definisce conservatore nei valori e aggiunge: "citando le parole di Nikolaj Berdaiev, l'essenza del conservatorismo non è l'impedire il movimento in avanti e verso l'alto, ma l'impedire il movimento all'indietro e verso il basso, nella tenebra del caos e nel ritorno a uno stato primitivo". Con questi riferimenti molto alti lo statista russo indica le basi di filosofia politica delle ultime decisioni significative assunte dalla Federazione Russa: no alle adozioni gay, no alla propaganda della sessualità non tradizionale ai minori, disincentivo ai divorzi, lotta all'aborto, politiche per la natalità, lotta alla diffusione della droga. Putin si definisce apertamente "uomo della Tradizione" e sottolinea che tutta la sua azione di governo è finalizzata alla difesa dei "valori tradizionali". Ovviamente il tradizionalismo nei valori si coniuga nel suo pensiero politico con un "progressismo sociale", ereditato anche dalla esperienza ideologica del socialismo di Stato. Nel precedente discorso del Giorno della Costituzione del 2012 Putin aveva ribadito i valori della "uguaglianza per tutti" e la necessità di una modernizzazione per estendere a tutti i cittadini la prosperità propiziata dalla crescita economica della Russia a partire dal 2000. Il riferimento ai valori tradizionali si lega in Putin a un riferimento esplicito a una concezione spirituale della vita. Del resto lo abbiamo visto al fianco di papa Francesco baciare l'icona della Madonna di Vladimir, una icona importantissima nel suo intreccio con la storia religiosa e politica della Russia. Dice Putin: "La distruzione dei valori spirituali non solo porta a conseguenze negative per la società, ma è anche essenzialmente antidemocratica, dal momento che viene effettuata sulla base di idee astratte ideologiche, in contrasto con la volontà della maggioranza,

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che non accetta le variazioni avvenute o le proposte di revisione dei valori". Il riferimento è a quei gruppi di pressioni e a quelle lobby che egemonizzando i mass media occidentali tentano di imporre cambiamenti ai quali si oppone la maggioranza delle persone sensate: una maggioranza che spesso purtroppo rimane "maggioranza silenziosa" e indifesa. Nelle parole del presidente Putin si avverte anche l'eco di una delle preoccupazioni fondamentali del grande pontefice Benedetto XVI: "Oggi molte nazioni stanno revisionando i loro valori morali e le norme etiche, erodendo tradizioni etniche e differenze tra popoli e culture. Le società sono oggi spinte ad accettare non solo il diritto di ognuno alla libertà di coscienza, di opzione politica e di privacy, ma anche ad esse è richiesto di accettare l'equiparazione assoluta dei concetti di bene e male". La problematica additata è insomma quella del relativismo, quella concezione scettica secondo la quale non solo tutte le vacche di hegeliana memoria ma anche tutte le scelte morali sono "nere", indifferenti. Il relativismo non è solo una posizione filosofica, ma è anche quell'atteggiamento di fondo che rende oggi gli uomini occidentali caratterialmente deboli, umbratili, alla mercé di poteri forti. Tuttavia, di contro al modello occidentale Putin non ha un "russian style of life" da imporre: egli non crede nella necessità di imporre a livello mondiale un'unica regola, crede invece nel diritto dei popoli e delle civiltà di preservare le loro diversità e le loro tradizioni: "Noi non pretendiamo di essere alcun tipo di superpotenza con pretesa di egemonia globale o regionale; non imponiamo il nostro patrocinio su nessuno e non cerchiamo di insegnare agli altri come vivere la loro vita. Ma ci sforzeremo di esercitare la nostra leadership difendendo il diritto internazionale, lottando per il rispetto delle sovranità nazionali e l'indipendenza e l'identità dei popoli". L'importante però è che nessun popolo si senta "eletto" e nessuno si arroghi una missione "eccezionale". Questo era anche il senso del finale della sua storica lettera al New York Times nei giorni della crisi siriana: "E' estremamente pericoloso incoraggiare la gente a vedersi eccezionali, qualunque sia la motivazione. Ci sono paesi grandi e piccoli, paesi ricchi e poveri, quelli con lunghe tradizioni democratiche e quelli che stanno ancora trovando la strada verso la democrazia. Anche le loro politiche sono diverse. Siamo tutti diversi, ma anche quando chiediamo la benedizione del Signore, non dobbiamo dimenticare che Dio ci ha creati uguali". Il discorso di Putin ha toccato tutte una serie di questioni ovviamente non solo morali, ma anche pratiche e organizzative: il presidente ha parlato di valorizzazione delle aree rurali, della necessità di incoraggiare i russi a ripopolare le campagne, l'importanza di giungere a una piena autarchia anche nel settore alimentare. Con soddisfazione Putin sottolinea: "Abbiamo già investito molti soldi nello sviluppo del settore agricolo. Il settore sta mostrando una dinamica positiva al momento. In molte aree ora possiamo coprire interamente la domanda interna con prodotti interni russi". Per quanto riguarda lo sviluppo economico, le priorità sono indicate da Putin nella formazione professionale, nello sviluppo tecnologico, in un mercato del lavoro flessibile e in "un buon clima per gli investimenti" (abbassando ulteriormente la pressione fiscale e creando in Siberia aree di


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completa esenzione per le imprese che investono). Un fondo scientifico specifico è stato concepito da Putin per incrementare il livello tecnologico del paese. Un progetto importante della Federazione è quella della costruzione di alloggi. Lo Stato interviene direttamente nel settore edilizio per realizzare un imponente "Piano Casa": "Il governo ha già predisposto le misure strategiche necessarie per l'attuazione del programma per la costruzione di alloggi a prezzi accessibili. Questo programma prevede la costruzione di almeno 25 milioni di metri quadrati di nuove abitazioni, completi con la corrispondente infrastruttura sociale, entro il 2017". Il piano di costruzione degli alloggi rappresenta indubbiamente la "base solida" della politica di incremento demografico che Putin sta portando avanti: la vasta diffusione degli aborti in epoca sovietica e il drammatico impoverimento degli anni Novanta avevano condotto la demografia russa in una spirale "recessiva" preoccupante. A partire dal 2000 il governo si è posta l'esigenza di favorire la natalità per risollevare le sorti della demografia russa. Putin con soddisfazione sottolinea che il trend demografico è ritornato ad essere positivo. Sullo sfondo di tali prese di posizione vi è anche una questione geopolitica fondamentale: la Russia con il suo completamento siberiano è un territorio immenso e ricchissimo di risorse del sottosuolo. Si capisce a quale esito può portare il rapporto tra una popolazione che invecchia e un ricchissimo territorio, circondato da popolazioni asiatiche (i cinesi, gli indiani) che superano il miliardo… Nell'ambito della politica in favore della natalità si inserisce anche il programma culturale che punta a un fortissimo disincentivo dei divorzi e degli aborti. Politica di natalità e salute della popolazione sono strettamente intrecciati, per cui Putin ribadisce anche quello che era un cardine della vecchia politica sanitaria sovietica: il valore dell'assistenza medica estesa a tutti e completamente gratuita. Nella Russia attuale i cittadini sono chiamati a pagare una assicurazione per le malattie che consta di una cifra simbolica irrisoria, che consente cure che Obama neppure osa sognare di notte, per paura di essere accusato di "socialismo". Dal punto di vista pratico rimane il problema di ri-organizzare la sanità dopo gli anni di caos succeduti alla perestrojka. E tuttavia Putin ha progetti ambiziosi sul versante della salute e della prevenzione: "A partire dal 2015 tutti i bambini e gli adolescenti dovranno usufruire di un check-up medico obbligatorio gratuito annuale, mentre gli adulti dovranno essere sottoposti a tale esame ogni tre anni". Prevenzione e salute, a livello giovanile si sposano con l'enfasi posta sullo sport. Da qualche mese sono tornati nelle scuole i "giochi ginnico-militari": un misto di educazione fisica e militare. In questa ottica si inserisce l'esigenza di un ampliamento delle palestre, dei campi sportivi: "Dobbiamo continuare a sviluppare una vasta gamma di infrastrutture sportive per bambini e ragazzi. Dobbiamo fare di tutto per aumentare la popolarità di stili di vita attivi. Questa è stata l'idea principale alla base delle Universiadi che si sono svolte con successo a Kazan". Per quanto riguarda i docenti Putin annuncia aumenti salariali per riqualificare il valore dell'insegnamento: "Stiamo alzando i salari nel settore dell'istruzione e della sanità in modo che il lavoro di insegnanti, professori e dottori diventi di nuovo prestigioso, per attirare validi laureati".

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L'insegnamento scolastico viene concepito come un settore strategico: da un lato per trasmettere un metodo di pensiero "creativo ed indipendente", dall'altra per rafforzare il senso dell'identità trasmettendo i valori della nazione, la storia e le tradizioni. Il tema della identità viene riproposto anche in relazione al delicato problema della immigrazione. Avendo la Russia di Putin un ritmo di crescita molto superiore a quello dei paesi UE, negli ultimi anni il flusso migratorio (soprattutto dalle repubbliche ex sovietiche) si è fatto più ingente e, anche alla luce di recenti fatti di sangue, l'esigenza di regolare con chiarezza tali flussi è divenuta impellente. Ovviamente per Putin gli ingressi clandestini sono inaccettabili, gli immigrati regolari hanno il dovere di rispettare i valori e la cultura della Russia, di adeguarsi ad essa. Rispetto e reciprocità sono i principi cardine per regolare l'immigrazione. E già qualche mese fa, alla richiesta di costruire nuove moschee in Russia, Putin - forse ironicamente … - aveva subordinato l'esaudimento di tale richiesta al principio di reciprocità, richiedendo la costruzione di chiese in Arabia Saudita. E tuttavia Putin ha ritenuto di porre un argine alle ondate di xenofobia che si diffondono anche in Russia in conseguenze di crimini gravi compiuti da immigrati. Putin tiene a sottolineare che non è l'origine etnica ad essere "male in sé": "Tali tensioni non sono provocate dai rappresentanti di una specifica nazionalità, ma da persone prive di cultura e di rispetto delle tradizioni, sia delle proprie che di quelle altrui. Essi sono espressione di una sorta di Internazionale dell'Amoralità". Insomma il problema non è l'appartenenza etnica, l'identità nazionale, ma appunto l'abbandono di quella identità e lo sradicamento in nome della mescolanza multietnica. Certo in Russia ci sono forze più estremiste, di opposizione, che soffiano il fuoco sulla protesta, pensiamo ai nazionalisti di opposizione o anche ai neocomunisti, che di volta in volta invocano uno Stato più forte e meno influenzato dalle degenerazioni politiche e di costume che provengono dalla mentalità occidentale. Di fronte a questi atteggiamenti più intransigenti, il partito di Putin si pone come una forza più "centrista", questo è anche il motivo del vasto consenso democratico che Russia Unita ha riscosso nelle ultime elezioni politiche. Putin ha ribadito peraltro il riconoscimento del valore del pluripartitismo, segnando un distacco netto dal vecchio sistema del partito unico, di epoca sovietica: "Ritengo importante che molti nuovi partiti abbiano fatto sentire la loro presenza. Conquistando posti negli organismi comunai e regionali, hanno gettato le basi per la partecipazione alle prossime campagne elettorali federali. Sono sicuro che sapranno degnamente competere con i protagonisti politici di vecchia data. La Russia oggi richiede un ampio dibattito politico per arrivare a risultati concreti". Tipico del pensiero storico-politico di Putin è di non rinnegare nessuna fase della storia russia (dallo zarismo al sovietismo), ma nello stesso tempo di restaurare esperienze politiche ormai consunte e slegate dalle esigenze del momento. Già al forum di Valdai del 19 settembre aveva affermato: "Ci siamo lasciati alle spalle l'ideologia sovietica, e non c'è ritorno. Chi propone un conservatorismo fondamentale, e idealizza la Russia pre-1917, sembra ugualmente lontano dal realismo, così come sono i sostenitori di un liberalismo estremo, all'occidentale". Indubbiamente anche il liberalismo - liberismo - libertarismo occidentale è una ideologia


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consegnata al passato, così come l'attuale crisi economica e morale dell'Occidente testimonia. Andando oltre le ideologie del passato Putin prospetta l'idea di una "sintesi" tra le istanze migliori che sono emerse appunto nelle ideologie politiche di massa, e prospetta l'idea di una "terza via". Già a Valdai si espresse in tal senso: "tutti noi - i cosiddetti neo-slavofili e i neooccidentalisti, gli statalisti e i cosiddetti liberisti - tutta la società deve lavorare insieme per creare i fini comuni di sviluppo. Ciò significa che i liberisti devono imparare a parlare ai rappresentanti della sinistra e che d'altro canto i nazionalisti devono ricordare che la Russia è stata formata specificamente come Stato pluri-etnico e multiconfessionale fin dalla sua nascita". Terza via significa anche conciliare in un sistema politico Ordine e Libertà. In tal senso egli interpreta e celebra la Costituzione Federale Russa dopo un ventennio dalla sua proclamazione: "La nostra Costituzione - dice Putin - mette insieme due priorità fondamentali, il supremo valore dei diritti e delle libertà dei cittadini e uno Stato forte, sottolineando il loro obbligo reciproco di rispettarsi e proteggersi a vicenda". Questi sono i temi del pensiero politico di Vladimir Putin. Sono temi che indubbiamente sollecitano una riflessione riguardo all'opportunità di costituire uno schieramento politico, economico, culturale che vada da Roma a Mosca: incentivando le interazioni economiche e i rapporti imprenditoriali; costituendo insieme agli amici russi una "Internazionale Europea" basata sui principi cristiani, nazionali, sociali comuni; approfondendo l'idea di Europa sulla scia delle grandi intuizioni di Charles De Gaulle (l'Europa Unita dall'Atlantico a Vladivostok) e di Giovanni Paolo II (i due polmoni dell'Europa: cattolicesimo e ortodossia). Alfonso Piscitelli audacia temeraria igiene spirituale

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UCRAINA: L’UE NON SI RASSEGNA Si è svolto a Kiev l’incontro tra il capo della diplomazia europea, Catherine Ashton e il presidente ucraino Viktor Yanukovich: nei propositi della rappresentante europea il tentativo di una mediazione, oltre che dimostrare vicinanza alla piazza che da giorni manifesta nonostante le temperature rigide contro la scelta del governo di chiudere le porte a Bruxelles per legarsi a doppio filo con la Russia, attraverso l’Unione doganale voluta da Vladimir Putin. In realtà la via di Mosca per l’Ucraina è stata obbligata dal cappio dei 30 miliardi di dollari che l’Ucraina deve sia alla Gazprom (10 miliardi) per le forniture di gas non ancora pagate e il cui termine è scaduto da tempo, sia alle quattro principali banche russe (20 miliardi) per i debiti accumulati. Putin aveva spiegato lo scorso 26 novembre a Trieste che una posizione di intermezzo fra le due unioni, quella Europea e quella Doganale, sarebbe impensabile in quanto: “un paese che ha aderito all’Unione doganale, la quale prevede lo scambio di merci senza dazi, può recedere dagli accordi quando vuole. Un articolo dell’accordo prevede però che se uno dei paesi aderenti intavola rapporti con paesi terzi, può esportare le merci nei paesi dell’Unione doganale con un ribasso sui dazi attualmente dell’85 per cento, ma che arriverà al 95. Potrebbero quindi transitare dall’Ucraina merci verso l’Unione doganale a prezzi ridotti, cosa che metterebbe in crisi la nostra economia. Per coinvolgere l’Unione europea in questo progetto serve gradualità, ovvero tempo e denaro”. “In Europa – aveva poi aggiunto Putin – la disoccupazione ha livelli elevati ed addirittura quella giovanile arriva in alcune nazioni anche al 45 per cento, mentre da noi ha livelli molto bassi, intorno a poco più del 2 per cento: per noi è necessario difendere la nostra occupazione”. Sull’argomento è intervenuto da Bruxelles il Commissario europeo all’Allargamento Stefan Fuele, il quale ha cercato di dimostrare che un'intesa dell'Unione con Kiev non è un pericolo per gli interessi di Mosca, anche se però ha escluso l'avvio di negoziati a tre. Ha poi citato il presidente della Commissione Barroso, il quale ha ribadito in passato che “sul Vecchio Continente l'era della sovranità limitata di stampo sovietico è ormai tramontata”. Intervenendo poi alla televisione di Stato, Yanukovich ha spiegato che "Non possiamo parlare del futuro senza parlare anche del ripristino dei rapporti commerciali con la Russia". Nel discorso alla nazione è apparso attorniato dai suoi tre predecessori, Leonid Kravchuk, Leonid Kuchma e il filo-occidentale Viktor Yushchenko, i quali avevano nei giorni scorsi comunque espresso solidarietà alla piazza. In sintesi Yanukovich ha alzato il tiro ed ha affermato che, fatto salvo il rapporto con la Russia, un


GEOPOLITICA

processo di integrazione con l’Unione europea deve prevedere nuove clausole: "L'obiettivo è molto semplice" – ha detto - "vogliamo ricevere condizioni che soddisfino l'Ucraina, i suoi produttori e il suo popolo, e che li soddisfino adesso. Se avessi firmato l'accordo nella sua versione attuale, avrei creato molte difficoltà al nostro settore agricolo. Lo dobbiamo proteggere". Ha poi aggiunto che "Non appena riusciremo a intenderci con l'Europa e avremo raggiunto un compromesso, firmeremo". L’altolà imposto nei giorni scorsi da Mosca rende comunque di difficile interpretazione il senso dell’intervento del presidente ucraino, ovvero se formulato per placare le proteste, oppure se realmente finalizzato a cercare la quadratura del cerchio che possa permettere a Kiev di tenere il piede in due scarpe. Enrico Oliari

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SEPARAZIONE DEI POTERI: IL CASO ITALIA 1. Introduzione Nella monografia pubblicata all'interno del precedente numero di "Confini", si è argomentato sull'applicazione, nell'odierna realtà, della teoria montesquiviana della Separazione dei Poteri. Segnatamente, per enucleare dal contesto generale la questione concreta, è stato condotto in esame, a titolo paradigmatico, l'impianto statuale d'Israele. In via metodologica, dall'analisi del caso di specie illustrato si è tentato di risalire al tema sensibile della dinamica dei rapporti correnti tra istituzioni pubbliche di origine costituzionale. Le sommarie conclusioni rappresentate nella nota facevano vieppiù rinvio ad altro contesto perché, dal discorso generale sulla condizione degli Stati dell'Occidente sviluppato, si giungesse a focalizzare l'attenzione intorno alla specificità dell'architettura istituzionale dello Stato italiano e alla problematica, visibile a occhio nudo, connessa alla crisi effettiva della democrazia rappresentativa in Italia. Giacchè nella pubblicistica più frequentata, si è consolidata l'immagine di una realtà statuale in perenne transizione verso imprecisati nuovi assetti, si richiedeva di analizzare, in via propedeutica, l'efficacia, nell'odierno contesto, della Separazione dei Poteri, quale principio causale dello Stato d'impronta liberale. Il riferimento è, stricto sensu, alla teoria tradizionale così come illustrata nell'opera più famosa di Montesquieu, Esprit des Lois, e sancita dall'articolo 16 (1) della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789 . L'Assemblea Costituente affrontò la questione risolvendola in senso favorevole all'adozione del Principio costitutivo della Separazione dei Poteri, come attestano gli artt. 70 e 76 C. i quali fanno espresso riferimento alla "funzione legislativa" e come pure l'art.102 C., che menziona la (2) "funzione giurisdizionale" . Tuttavia, il rischio concreto di un'applicazione rigida della richiamata teoria avrebbe potuto dare luogo a delle disfunzioni nel funzionamento della macchina dello Stato. D'altro canto, era già ampiamente noto ai Costituenti che l'architettura istituzionale della Repubblica avrebbe dovuto prevedere delle meccaniche flessibili per adattarsi a una realtà che, inevitabilmente, si evolve a un ritmo ben diverso da quello con cui il legislatore interviene ad adeguare l'ordinamento giuridico alle necessità socio-istituzionali che progressivamente insorgono. Pertanto si osserva che la tripartizione concettuale dei macro Poteri, è temperata dalla presenza delle cosiddette "interferenze funzionali" che il Costituente ha ritenuto doversi disciplinare già dalla regolazione di rango superiore. Nella realtà, si assiste quotidianamente all'incrociarsi di fattispecie per le quali la teoria pura della tripartizione non è applicabile. E', ad esempio, il caso del Potere esecutivo che svolge funzioni legislative


MONOGRAFIA

allorquando emana decretazione avente forza di legge (norme giuridiche primarie). Così il Parlamento che assume la funzione giurisdizionale nel momento in cui è chiamato a porre in stato d'accusa il Presidente della Repubblica (Art.90, 2 co. C.). Nondimeno anche la Giurisdizione si trova a svolgere ordinariamente atti di natura amministrativa, come nel caso della gestione dei rapporti giuridico-patrimoniali a tutela del minore. In realtà, secondo la più diffusa dottrina (Barile), il collante che consente l'interazione e la sinergia tra i diversi Poteri è costituito dalla funzione di indirizzo politico la quale, sebbene autonoma rispetto a tutte le altre, di fatto risulta insita e proporzionalmente distribuita in tutti i poteri riconosciuti. Dunque, recependo in pieno la logica anglosassone dei Checks e Balances, il Costituente rafforza l'equilibrio tra Poteri introducendo pesi e contrappesi che si bilanciano reciprocamente. Ne consegue che al principio basico della "competenza generale", che spetta a ciascun organo in ragione delle funzioni tradizionali ad esso attribuite, si contrappone il cosiddetto "potere d'arresto" il quale consente, mediante il ricorso agli strumenti giuridici inseriti all'interno dell'ordinamento generale, all'un potere di arginare lo straripamento delle funzioni di altro potere. La descrizione testé offerta appartiene a un contesto istituzionale regolarmente funzionante, che riesce a mantenere le dinamiche interne a un grado assolutamente fisiologico di conflittualità. Non è però il caso del nostro impianto costituzionale che, nel corso degli anni, è stato ripetutamente vulnerato da rotture sistemiche, reciproche invasioni di campo e forzature interpretative che hanno restituito l'idea di "Costituzione" associata a quella di processo, e non di atto, per di più di "processo contraddittorio". La "Costituzione materiale"(Mortati), è divenuta il fattore agente in grado di innalzare l'elemento della volontà politica a "progetto ordinante"di (3) un sistema regolativo di cui la "Costituzione formale è un precipitato" . E ancora, la Costituzione materiale ha consentito di decrittare i codici interpretativi per qualificare la forma di Stato nonché per individuare, in un determinato contesto temporale, quali siano le norme di rango superiore effettivamente vigenti, quali siano i principi giustiziabili e quali, invece, quelli passibili di revisione costituzionale. Tuttavia, è diffuso il convincimento secondo cui l'immobilismo mostrato dalla classe politica nell'assumere il ruolo di Legislatore Costituzionale, onde mettere mano a progressivi adeguamenti della "Carta"in linea con gli avanzamenti della Costituzione materiale, abbia di fatto determinato il consolidarsi di una prassi volta a dilatare a dismisura il dettato originiario fino a ricomprendere comportamenti fattuali affatto divergenti dalla lettera stessa della Costituzione formale. Da qui trova scaturigine quella situazione di patologia istituzionale che ha indotto i più attenti osservatori a ritenere sostanzialmente fallito il tentativo di transizione da un impianto costituzionale ad un altro più adeguato al tempo storico nel quale è chiamato a incidere. In concreto, l'ultimo ventennio, che avrebbe dovuto coincidere con la prima fase di una rinnovellata Repubblica, ci consegna invece a una situazione magmatica la quale rapidamente involve verso il defintivo collassamento delle sue strutture portanti. Orbene, un resoconto sulla odierna efficacia della "Carta" imporrebbe di affrontare "a viso aperto" la realtà di un ordinamento che si mostra "schizofrenico", cioè in preda a una sindrome da sdoppiamento d' identità per una patologia aggravata dalla modifica radicale del Titolo V della

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Costituzione del 2001 . Un'operazione "verità" non dovrebbe prescindere dal cercare risposte ad alcuni quesiti maturati dopo la prima generica disamina della nota precedente pubblicata intorno alle argomentazioni prodotte. Ai fini di un'estensione del campo di ricerca sarebbe necessario, ad esempio, chiedersi quanti siano oggi i poteri direttamente agenti all'interno di una comunità statuale. Sarebbe opportuno verificare se vi siano ancora le condizioni adeguate per la realizzazione sistematica del perfetto equilibrio dei Poteri, presupposto basico dello Stato costituzionale. Sarebbe, oltremodo, interessante accertare quanto dello spirito originario della teoria montesquiviana sopravviva nell'attuale impianto statuale e, parimenti, nell'idem sentire della sottostante società civile. E, in ultimo, bisognerebbe domandarsi se uno Stato liberalcostituzionale possa reggersi su un principio diverso da quello prodotto dalla teoria della Separazione dei Poteri, sebbene ricorra alle variabili qualificative della sovranità popolare, delle libertà individuali e della forma di governo democratico. E' di tutta evidenza che, data la vastità della materia indagata, occorra segmentare il lavoro d'analisi in più elaborati. Per il momento questa nota si porrà l'obiettivo di porre le basi per rispondere a un solo quesito: premesso che si dimostri la veridicità dell'asserzione secondo cui il Potere Giudiziario in Italia, in questi ultimi venti anni, abbia prevaricato gli altri due Poteri individuati dalla teoria montesquiviana, è possibile che si giunga, in prossimo futuro, a ristabilire quell'equilibrio che si suppone violato? Il criterio d'indagine che si intende adottare impone dei confini che non devono essere valicati, pena lo scadere della riflessione medesima a mero esercizio di retorica demagogica. Il desiderio di portare fino in fondo la ricerca intrapresa impone l'assunzione di un approccio oggettivo alla materia indagata fino al limite della pura neutralità dell'osservazione. Il che non rappresenta affatto cosa agevole, soprattutto se si considera la necessità di introdurre l'argomento mediante l'illustrazione, quale caso paradigmatico, dell'annosa vicenda del supposto contenzioso in atto tra il Presidente Berlusconi e la Magistratura italiana. Si chiederà il lettore: perché proprio di Berlusconi si deve parlare? Perché ancora lui al centro di tutto ciò che in questo Paese tocca di sentire? La risposta è semplice: perché la vicenda di cui si narra in questa sede, debitamente sfrondata del suo portato contingente legato alla cronaca politica quotidiana, restituisce perfettamente quella problematica che vuole essere oggetto d'indagine. Al contrario di quanto pensi e scriva la comune vulgata mass-mediatica, la questione posta dal presidente Berlusconi assume senza dubbio un alto profilo intellettuale. Essa pone, nel contempo, due problemi l'un l'altro strettamente connessi. Da una parte bisogna domandarsi se sia definitivamente tramontato, o se invece agevolmente sopravviva, il modello di Stato edificato sul principio della Separazione dei Poteri; dall'altra, sarebbe interessante definire quale possa essere la reale natura "dell'atto di pacificazione"proposto dallo stesso Berlusconi, giacché tale atto potrebbe costituire elemento conducente per identificare un nuovo modello di leadership carismatica. Ciò comporterebbe la reintroduzione di un elemento irrazionalistico proprio nel tempo storico del trionfo della "società razionale". D'altro canto, benché le società complesse siano fortemente segnate da uno dei miti più venerati della modernità: il fondamento inderogabile della razionalizzazione di tutti i processi intrastrutturali, in particolare quelli


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connessi al funzionamento delle meccaniche collettive(5), è parimenti vero che la "società razionale", forte delle sue modalità regolative, abbia, indebitamente, depauperato lo Stato, declinato nella sua accezione organica, del portato di valori identitari e di scale assiologiche di sostegno, relegandolo a una funzione meramente utilitaristica. In concreto, non si tratta d'inseguire un' intricata teoria di supposizioni demagogiche, innescata per soddisfare biechi interessi legati all'aggregazione elettorale del consenso o, peggio, al destino personale di un leader. La condizione di eccezionalità, pur evidente all'osservatore, in una stagione lunga un ventennio, è resa tale dal succedersi senza soluzione di continuità di contrasti covati all'interno dell'impianto statuale tra Poteri che si sono combattuti tra loro. L'esito di questa guerra impropria è interamente ricaduto sulle nostre spalle. E' di tutta evidenza che il Paese sia da tempo paralizzato per un'innaturale compressione delle sue articolazioni vitali. Ciò in parte spiega perché esso non riesca, pur ricorrendo presupposti congiunturali favorevoli, a intraprendere la strada delle riforme richieste dalla comunità continentale per adeguarsi agli standard già raggiunti dalle altre democrazie occidentali. Il deficit che si riscontra non incide solo sul piano economico-produttivo. Piuttosto, è finito per intaccare il livello di coesione sociale raggiunto dopo anni vissuti come prolungamento carsico della guerra civile, seguita al secondo conflitto mondiale. Sono stati alimentati odii e rancori tra soggetti individuali e collettivi, egualmente agenti nella sfera della vita pubblica nazionale, che raccontano una storia diversa da quella, scritta su carta patinata, delle celebrazioni ufficiali dell'unità nazionale. Prima avevamo un Paese spaccato in due. Ora, dopo vent'anni dall'inizio della cosiddetta Seconda Repubblica, ci ritroviamo con uno Stato frantumato in mille pezzi. La sua ricomposizione attende a un criterio, a un canone edificatorio, che, al momento, non appare definito. Tuttavia, resta nelle prerogative della ricerca identificarlo e studiarlo con attenzione. 2. Il caso Dopo anni di bombardamento mediatico la gran parte dei cittadini italiani conoscono a menadito la vicenda personale del presidente Berlusconi. In particolare è nota la questione del tenore dei contrasti che l'uomo politico abbia avuto con l'Ordine Giudiziario(6) in relazione all' abnorme mole di procedimenti penali a cui sarebbe stato, a suo dire, indebitamente sottoposto. Il presidente Berlusconi in questi anni, seguendo un indirizzo costante, ha sostenuto che doveva trattarsi di un disegno politico preordinato da un corpo dello Stato estremamente politicizzato: la Magistratura, volto a colpire la sua persona. Secondo la sua ricostruzione, gli eventi succedutisi sarebbero stati provocati da taluni rappresentanti dell'Ordine Giudiziario, i quali avrebbero consapevolmente condotto un'autentica lotta per impedire che le destre che egli stesso era riuscito a riunire, al momento della sua "discesa in campo", sotto un'unica bandiera, o meglio, nell'ambito di un medesimo rassemblement, potessero esprimere il governo del Paese, annichilendo i propositi di potere della parte politica avversa, la Sinistra, tradizionalmente egemonizzata dalla componente comunista. Berlusconi individua nel movente politico l'azione di questi togati. In particolare egli li apostrofa

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come "magistratura rossa" cioè comunista, riunita e diretta "militarmente" dalla componente che, in seno all'Ordine Giudiziario, li rappresenta:"Magistratura Democratica". In effetti, il presidente Berlusconi è stato coivolto in 57 procedimenti giudiziari, la maggior parte dei quali si è conclusa, seppure a diversi gradi di giudizio, in modo favorevole alla sua persona. Attualmente resistono alcuni processi. Per uno di essi, conosciuto come il "caso Ruby", dove all'imputato sono stati contestati capi d'accusa particolarmente infamanti, si attende il giudizio d'appello stimolato da un ricorso presentato avverso la sentenza di condanna a sei anni di reclusione, oltre le pene accessorie, irrogata in primo grado dal Tribunale penale di Milano. Nel frattempo, lo scorso 31 luglio è intervenuta la sentenza della Suprema Corte Cassazione che ha confermato l'esito del giudizio di secondo grado, emesso dalla Corte d'Appello di Milano in ordine al cosiddetto caso dei "diritti Mediaset". Gli effetti della sentenza hanno avuto un peso decisivo nell'evoluzione della vicenda politica del Paese, giacché per la prima volta, dopo venti anni dal giorno della sua discesa in campo, sul presidente Berlusconi grava una condanna definitiva. Nel caso specifico, dopo l'irrogazione della pena detentiva, che è stata sensibilmente ridotta per effetto dell'applicazione del provvedimento d'indulto che copre parzialmente il reato contestato, l'imputato attende la ridefinizione della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici per la quale la Suprema Corte ha disposto il rinvio a nuova decisione della Corte d'Appello dovendosi procedere a rettificare il calcolo del tempo di durata della pena corollario, erroneamente conteggiato nella sentenza oggetto di ricorso per cassazione. Il presidente Berlusconi, professatosi sempre innocente, ha ribadito la denuncia in ordine al tentativo, a suo dire golpistico, di eliminazione dalla scena politico-istituzionale di un leader politico sostenuto da ampio consenso popolare, per il tramite di un attivismo giudiziario che non ha avuto eguali nella storia dell'Occidente democratico. Gli avversari politici, per canto loro, sostengono che quella di Berlusconi sia una pura demagogia. Secondo gli esponenti del centrosinistra non esisterebbe, e mai sarebbe stato concepito, un complotto giudiziario ai danni del leader del centro-destra. I giudici si sarebbero limitati ad applicare le leggi. Inoltre, i processi si sarebbero svolti nel rispetto assoluto delle norme che regolano lo Stato di Diritto. Quindi, l'evocazione da parte del Berlusconi di un complotto posto in essere ai suoi danni, e della parte politica che rappresenta, sarebbe un'asserzione destituita di ogni fondamento. A margine della situazione venuta a determinarsi a seguito della pronuncia della Corte di Cassazione, e in attesa del perfezionamento della sentenza con l'emissione della pena accessoria, l'organo parlementare, di cui il senatore Berlusconi fa parte, ha dovuto affrontare la questione dell'applicazione del Testo Unico delle disposizioni in materia di incandidabilità, la cosiddetta "legge Severino", che prevede la decadenza dalla funzione parlamentare per quegli eletti raggiunti da condanne defintive a pene superiori ai due anni di reclusione. L'art.1 della citata legge elenca i casi di applicabilità della norma(7). La questione è divenuta materia di scontro violento tra le diverse forze politiche e ha provocato significativi smottamenti nell'area del centro-destra. Il partito guidato dal presidente Berlusconi:


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il Popolo delle Libertà, ha subito una scissione di fatto, dando luogo alla nascita di due distinti soggetti politici: Forza Italia e il Nuovo centro-destra. La prima compagine, rimasta fedele al suo vecchio leader, accusa la nuova formazione di aver tradito la causa rifiutandosi di revocare, a titolo ritorsivo, l'appoggio al governo in carica. In realtà, entrambe le formazioni avevano tentato, senza peraltro alcun risultato positivo, di sollevare dubbi di costituzionalità in ordine all'efficacia retroattiva della Legge Severino. Segnatamente, i parlamentari del centro-destra obiettano che il disposto dell'art. 3 della richiamata legge, non possa essere applicato nei casi in cui il reato sia stato commesso in epoca (8) precedente all'emanazione della legge medesima . Rectius, l'art. 3, se applicato con efficacia retroattiva violerebbe palesemente il principio di legalità, consacrato nella disposizione di cui all'articolo 25, comma secondo, Cost., la quale prevede che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". In opposizione a questa intepretazione, il centro-sinistra invoca la natura amministrativa e non penale dell'interdizione prevista dall'art.3 della richiamata legge. A fortiori, la ratio della legge Severino riguarderebbe la difesa dell'onore e del prestigio dell'organo parlamentare, per cui la meccanica decadenza di un suo membro per sopraggiunta causa d'incandidabilità costituirebbe un mezzo per garantire l'integrità morale e funzionale dell'Assemblea nella sua globalità e unità di corpo, non già una sanzione accessoria aggiuntiva da porre in capo al singolo parlamentare condannato con sentenza definitiva. Il centro-destra replica che trattasi di mera finzione quella di non riconoscere il carattere afflittivo/sanzionatorio del provvedimento che, comunque, interviene a produrre effetti giuridici nella sfera individuale di un rappresentante eletto dal corpo elettorale a una funzione sovrana. Sulla scorta di siffatta argomentazione, con il conforto del conforme parere di alcuni illustri giuristi costituzionalisti, è stato chiesto un rinvio della voto dell'Aula in attesa di una pronuncia della Corte Costituzionale da adire sul punto specifico. Il centro-sinistra, forte di una maggioranza di voti disponibili in Senato, giacché sulla proposta di immediata decadenza sarebbero confluiti anche i partiti dell'opposizione di Sinistra e dei "qualunquisti" del Movimento 5Stelle, non ha inteso perdere l'occasione di eliminare il proprio competitor attraverso un voto dell'Assemblea, non ratificato dalla volontà diretta del corpo elettorale. Ciò ha prodotto la decadenza "ope legis" del presidente Berlusconi dalla funzione parlamentare. L'esito del voto ha provocato uno scontro ulteriore tra le due nuove formazioni in cui si è scisso il Popolo delle Libertà. Entrambe si sono rinfacciate la responsabilità di aver condotto il presidente Berlusconi a subire un'ingiusta marginalizzazione. In concreto, la formazione partitica di stretta osservanza ha contestato all'altra parte di aver tradito il mandato parlamentare affidato loro dagli elettori del Centro-destra, pur di conservare una posizione di potere ottenuta grazie alla permanenza in alcuni dicasteri del governo. "Gli scissionisti", come certa stampa li ha definiti, hanno spiegato la scelta di rompere l'unità del partito con la rigidità estremistica delle posizioni politiche rappresentate dall'altra parte. A loro dire i cosiddetti "lealisti"non rappresenterebbero la volontà autentica dell'elettorato di centro-destra che, per composizione socio-culturale,

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resterebbe intimamente legato alla tradizione del moderatismo riformista italiano. In sintesi, i parlamentari della nuova formazione, autodefinitisi con eufemistica espressione, "diversamente berlusconiani", stando all'accusa, avrebbero voltato le spalle al leader legittimato dal corpo elettorale a rappresentarne, pro quota, gli interessi. I fautori della scissione hanno replicato sostenendo che i parlamentari operano in ossequio alla norma costituzionale, la quale non prevede per l'eletto, nell'esercizio delle sue funzioni, alcun vincolo di mandato (art.67 C.) . Successivamente alla sentenza della Suprema Corte, Berlusconi, rivolgendosi al Capo dello Stato, rappresentante dell'unità nazionale, al Presidente del Consiglio, espressione del Potere Esecutivo, al Parlamento, esercente il Potere legislativo, ha invocato per se un provvedimento che, neutralizzando gli effetti della sentenza penale, gli restituisse l'agibilità politica, cioè il diritto a proseguire nella funzione di guidare quella parte dell'elettorato che anche alle ultime consultazioni gli ha confermato il mandato a rappresentarla. Egli ha fatto esplicito riferimento all'assunzione di un provvedimento di "pacificazione" che intervenga a porre fine a una fase ultradecennale di conflitto determinatasi tra Poteri dello Stato. L'organo costituzionale individuato per l'emanazione di questo specifico atto sarebbe stato il Presidente della Repubblica, per il ruolo che di fatto tale organismo svolge di indirizzo politico e di governo della nazione. In effetti, il presidente Berlusconi ha fatto rinvio non già alla espressione formale della Carta Costituzionale, bensì a quella realtà dinamica e fattuale che passa nell'immaginario colletivo sotto il nome di "Costituzione materiale". Nell'ambito di questa "regola generale"di recente conio, non scritta ma applicata, il Presidente della Repubblica avrebbe compiti e poteri di gran lunga più efficaci e producenti effetti giuridici di quelli che al medesimo organismo vengono assegnati dalla Costituzione formale vigente. Per fare un esempio si pensi alla facoltà di condizionare la redazione sia delle leggi sia dei provvedimenti governativi che costituisce di per sé un potere che integra la previsione costituzionale formale la quale assegna al medesimo organo solo il compito di promulgare le leggi ed emanare i decreti aventi valore di legge e i regolamenti (art. 87, 5° co. C.). Ma sull'argomento ritorneremo in seguito. Il provvedimento, invocato prima che gli eventi precipitassero, avrebbe, dunque, una natura metagiuridica, in quanto si sostanzierebbe in una decisione politica assunta da un organo costituzionale dotato di effettivo potere agente in costanza di una condizione eccezionale. Nondimeno esso, se realizzato, sarebbe destinato a produrre effetti giuridici. Occorre precisare che il provvedimento a cui facciamo riferimento è cosa diversa dalla richiesta della grazia o, in subordine, della commutazione della pena (art. 87, 11°co. C.), richiamata da alcune parti a definitiva sutura del vulnus creatosi a seguito del supposto conflitto scatenatosi tra Magistratura e Berlusconi. La principale differenza tra le due distinte categorie di atti richiesti al Presidente della Repubblica risiede nel fatto che mentre l'una misura permane nelle prerogative dell'Organo costituzionale, secondo il profilo delineato dalla norma superiore, quindi darebbe luogo a un provvedimento la


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cui natura è totalmente intra-ordinamentale, l'altra categoria si configura nella specie dei comportamenti extra-giuridici di cui l'"atto di pacificazione", invocato, rappresentanterebbe un genere allogeno. Le frazioni partitiche interrogate dalla richiesta del Berlusconi hanno reagito in modo differenziato. Come prevedibile il Centro-destra, senza significative distinzioni, ha aderito all'appello ritenendo fondato il richiamo a una lunga stagione di contrasto aperto tra Poteri dello Stato che avrebbe condotto il Paese in una sorta di scissura ideologica insanabile. La frattura, riportata nei gangli della società, avrebbe dato scaturigine all' evidente deficit d'autorevolezza del Potere esecutivo, il quale, per onore di verità, ha effettivamente mostrato evidenti incapacità a esercitare pienamente la propria funzione, e ciò a prescindere dal colore delle forze politiche chiamate, di volta in volta, dal corpo elettorale al governo della nazione. La tracimazione di un Potere dall'alveo delle proprie competenze originarie avrebbe posto l'Esecutivo in una condizione di minorità funzionale foriera di limitata capacità decisionale. Tale scarsa attività riformatrice dei governi, palesatasi negli ultimi venti anni, per il centro-destra, sarebbe quindi da ascrivere prevalentemente alla sincope istituzionale prodotta dall'invadenza del Potere giudiziario nelle questioni di governo e negli equilibri di forza tra diverse posizioni ideologiche. Nella ricostruzione storica riproposta da Berlusconi, per invadere campi d'altrui pertinenza, la "magistratura rossa" avrebbe agito avocando a sé il ruolo decisorio/funzionale, afferente dal piano etico ai fini della legittimazione sociale, di depositario e garante della legalità. Sulla questione in esame, i rappresentanti politici del centro-sinistra oppongono un categorico rifiuto anche a prendere in considerazione l'ipotesi di un provvedimento extra-giurisdizionale. Tutti loro si trincerano dietro la stretta osservanza formale del principio-guida della separazione dei Poteri per cui costituirebbe un atto illegittimo il provvedimento che si ponesse come scopo quello di annullare gli effetti di una sentenza emessa da un organismo giudiziario, costituito nella pienezza dei suoi poteri legali. In sostanza, la parte politica schierata a sinistra nega che vi sia stata una perdita d'equilibrio sulla bilancia dei Poteri Separati. Vieppiù, è negata in radice l'asserzione secondo la quale l'Ordine Giudiziario si sia costituito a custode e depositario nonché interprete autentico del principio di legalità. Essa nega altresì che l'Ordine Giudiziario abbia potuto svolgere funzioni di supplenza, attraverso il costante ricorso alla fattuale cogenza del cosiddetto "diritto vivente" in luogo di un Potere legislativo resosi assente in alcuni individuati momenti della storia del nostro Paese. Per la cronaca, la vicenda personale e politica del presidente Berlusconi ha subito una prima significativa svolta con la decisione adottata dal Senato lo scorso 27 novembre. Con un voto espresso a maggioranza, l'organo parlamentare ha dichiarato la decadenza del senatore Berlusconi dalla funzione parlamentare in ottemperanza del disposto della "legge Severino". Il centro-destra che, in tutte le sue articolazioni, ha opposto una strenua resistenza perché si evitasse di giungere al voto, contesta alla controparte di aver compiuto un atto antidemocratico, eliminando per via regolamentare il leader della coalizione avversaria dalla vita istituzionale del Paese, senza averlo "battuto nelle urne".

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Il centro-sinistra replica sostenendo che il voto parlamentare abbia restituito il Paese a una corretta vita democratica, avendo dimostrato erga omnes che il principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla Legge sia stato rispettato e non siano state permesse deroghe le quali non avrebbero trovato sostegno nella prassi di uno Stato di Diritto. Peraltro, alla persona Berlusconi non è inibito il diritto a continuare la sua vita politica potendo esercitare ruoli di vertice all'interno del partito di appertenenza. E' noto che, sebbene soggetti di rilevanza costituzionale, i partiti politici siano considerati dall'ordinamento giuridico associazioni tra privati, sprovviste di personalità giuridica. L'ampia autonomia concessa a questi soggetti collettivi si sostanzia nella creazione di una "zona franca", dove le regole, in quanto compatibili con le norme dell'ordinamento giuridico generale, sono stabilite a priori dall'insieme dei partecipanti all'associazione e sono ordinate all'interno di uno statuto la cui efficacia è (9) vincolante per tutti gli aderenti . Se, dunque, la norma interna non prevede, tra le cause di perdita della qualità di associato, quella di essere sottoposto a una condanna penale passata in giudicato, nessuno dall'esterno potrà mai vietare a quell'associazione partitica di fare del membro già condannato dalla giustizia penale, il proprio leader. Vieppiù, tale diritto, promanante da norma codicistica ordinaria, è rafforzato da norma superiore di rango costituzionale che, all'art.21, sancisce il diritto di tutti i cittadini a manifestare liberamente il proprio pensiero con ogni mezzo lecito, in combinato disposto con l'art. 49 C. che assicura a tutti i cittadini il diritto di associarsi liberamente per concorrere, attraverso la forma "partito", a determinare, mediante metodo democratico, la politica nazionale. 3. Le origini del conflitto tra Poteri dello Stato In realtà, Berlusconi non è l'unico a ritenere che l' evocata "invasione di campo" vi sia stata. Per tutti è sufficiente citare l'autorevole voce dell'ex Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, (10) che, a proposito di cosa abbia significato realmente il cosiddetto fenomeno "Tangentopoli" afferma: "…Non credo…alla vulgata che identifica Tangentopoli in una "moderna rivoluzione istituzionale" (la definizione è dell'Economist). Piuttosto credo che si sia trattato di un "Colpo di Stato". Legale. Nel senso che un ordine autonomo dello Stato, indipendente ma non sovrano, ha surrogato il potere sovrano del Parlamento, ha prevaricato altri poteri, ha modificato gli equilibri della vita politica democratica, decretato la morte dei partiti storici, usando come arma di (11) giudizio storico e politico l'indagine giudiziaria." In effetti, il presidente Cossiga esprime con magistrale proprietà di linguaggio un concetto che molti altri, con minor fortuna per la chiarezza espositiva, cercheranno in seguito di riaffermare. A sostegno delle sua ricostruzione, il presidente Cossiga riassume, attraverso l'impressionante contabilità della Giustizia, il senso autentico di quello che lui stesso ha definito "un colpo di Stato legale". Tra il 1992 e il 1995 i soli magistrati di Milano, città da cui prende le mosse l'onda lunga della maxi inchiesta sui rapporti (12) illeciti tra mondo delle imprese e partiti politici, nota con il nome di "tangentopoli" , ordinano l'arresto di 4525 persone, i giudici del Pool d'indagine emettono 25.400 avvisi di garanzia, sono inquisiti 1069 tra parlamentari e uomini politici.


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La pressione psicologica su alcuni indagati condurrà al compimento di 10 suicidi . Alla fine della tempesta mediatico-giudiziaria, della massa dei rinviati a giudizio circa la metà verrà assolto. Dalla realtà milanese, il fenomeno dell'intervento dirompente della Magistratura nel vivo della lotta politica, fino a quel momento agìta dai soli partiti, dilaga in tutta Italia, con esiti altrettanto gravi. Al termine della temperie giudiziaria, due elementi appaiono sufficientemente provati perché si possa azzardare una valutazione. Il primo è rappresentato dalla modificazione sostanziale della funzione di strumento giudiziario della custodia cautelare preventiva. Dal pool di "mani pulite" tale istituto, esondando dai casi rigorosamente circoscritti per i quali la norma giuridica ne consente l'applicazione, diviene, nel nuovo modello d'indagine, un potente mezzo coercitivo per ottenere dagli imputati, insieme a piene dichiarazioni di colpevolezza, altrettante chiamate in correità nel perseguimento e nella realizzazione concorsuale delle azioni criminose contestate. L'equazione su cui operano gli inquirenti è sostanzialmente elementare, nella sua crudezza: rilascio in cambio di confessione dei reati commessi, chiamata in correità per quelli commessi insieme ad altri e delazione su quelli commessi da altri. Il secondo dato che emerge riguarda il criterio selettivo d'indagine che ha caratterizzato l'intera stagione di "Mani pultite". Esso è di natura meramente statistica. Rispetto all'universo di rappresentanze politiche presenti in Parlamento alla data di inizio della mega inchiesta, tutti i partiti che avevano assicurato la stabilità dei governi succedutisi nei precedenti decenni, sono letteralmente falcidiati, fino alla loro totale scomparsa dalla scena politica. Altri, in particolare la maggiore forza dell'opposizione di sinistra, il Partito Comunista Italiano nella nuova veste di Partito della Sinistra, risulta sostanzialmente risparmiato dalla violenza dell'inchiesta nonostante quest'ultimo avesse forti e ramificate responsabilità nell'amministrazione di moltissime realtà locali, comunali, provinciali e regionali, dove notoriamente si concentrava una massa significativa di danaro pubblico. Lo snaturamento dell'istituto giuridico della custodia cautelare in carcere dell'indagato, insieme alla selettività dei target verso cui i diversi pool di magistrati attivi nelle procure italiane hanno indirizzato le indagini, nei fatti sostanziano la contestazione, autorevolmente mossa dalla più alta magistratura della Repubblica all'epoca dei fatti, in ordine alla ipotizzata "invasione di campo" del potere giudiziario in danno degli altri due Poteri tradizionali. Tuttavia, occorre precisare che se la Magistratura abbia agito aggredendo i rappresentanti dell'Esecutivo e del Legislativo, ciò sarebbe stato reso possibile dall' autolesionismo praticato dagli stessi Poteri attaccati. In realtà, l'architettura costituzionale italiana, frutto del lavoro prodotto dai Padri Costituenti negli anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale e culminato con l'entrata in vigore del testo costituzionale del 27 dicembre 1947, prevedeva, ai fini della fissazione dell'equilibrio tra Poteri, due gruppi di norme di alto rango, una a beneficio della Magistratura, l'altra a tutela del personale politico impegnato negli istituti della democrazia rappresentativa. In Costituzione viene sancita l'autonomia e l'indipendenza della Magistratura, quale ordine dello


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Stato, rispetto a ogni altro potere (art.104 C.). L'autonomia, ben inteso, ha riguardo alla struttura organizzativa, giacché sottrae al Potere Esecutivo la possibilità di condizionare le condotte dei singoli magistrati, mediante il ricorso a strumenti di pressione quali trasferimenti, promozioni, provvedimenti disciplinari, etc.. Tale gestione è, invece, garantita costituzionalmente da un (14) autonomo organo di governo: il Consiglio Superiore delle Magistratura (Art.104 -105 C.) . Tuttavia la competenza del C.S.M. non si estende al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia i quali, invece, restano in appannaggio al Potere Esecutivo, nella persona del Ministro della Giustizia (Art.110 C.) e, di conseguenza, del suo dicastero. Tra le competenze più rilevanti del C.S.M. si annovera il potere di trasferimento di un magistrato da una sede all'altra. Atteso che tale potere venga esercitato in parziale deroga al principio costituzionale di garanzia che sancisce l'inamovibilità del magistrato (Art. 107, 1 co., C.), la legge prevede che ogni provvedimento in tal senso debba essere deliberato dal C.S.M., previo consenso dell'interessato. Quindi sono tassativi, e circoscritti, i casi in cui sia eccezionalmente consentito un trasferimento d'ufficio. Ad assicurare che il potere dell'organo di autogoverno non si spinga, in nome di una proclamata autonomia assoluta, oltre il perimetro istituzionale dello Stato di Diritto, provvede la norma di fonte primaria che assegna la presidenza del C.S.M. al Capo dello Stato e la vicepresidenza a un componente da individuarsi tra quelli designati dal Parlamento. Ciò determina che il vertice istituzionale e il vertice operativo del Consiglio non siano attribuibili a rappresentanti togati ( Art. 104 C.). Il principio di autonomia è rafforzato dal principio d'indipendenza, sancito dalla norma di rango costituzionale che assoggetta il giudice soltanto alla legge (art.101, 2 co. C.)(15). Più in generale è l'intera funzione della Giurisdizione che viene sottratta all'influenza degli altri Poteri, giacché essa, nella previsione del Costituente, diviene una funzione delegata dalla (16) sovranità popolare . Vieppiù, il principio d'indipendenza è integrato dal principio di precostituzione per legge del cosiddetto "giudice naturale" (Art.25, 1.co., C.)(17). La norma richiamata è, peraltro, protetta da una riserva di legge assoluta la quale ne limita la disciplina alla sola competenza della fonte primaria, vietando quindi che su di essa possano intervenire fonti regolatrici secondarie o di produzioni non legislative. In questo caso il beneficio della garanzia non si limita alla posizione del solo giudice ma si estende all'interesse del cittadino a godere dell'imparzialità del giudicante nell'esercizio della funzione giurisdizionale. Al contrario, tale garanzia sarebbe annichilita se si consentisse, nel caso di un processo penale o civile, l'assegnazione di un giudice ex post, con un provvedimento "contra personam" motivato da ragioni ostili alla persona dell'imputato o del convenuto in sede civile. I Padri Costituenti, avendo recepito l'esigenza di assicurare all'ordine dei magistrati una piena autonomia funzionale e organizzativa, nondimeno si sono posti, ai fini di un corretto equilibrio della bilancia dei Poteri, di predisporre guarentigie per l'assoluta indipendenza dei membri del Parlamento. A questa scopo si ascrive, dunque, il contenuto dell'art. 68 C., in vigore nella sua interezza fino al 1993. La norma originaria prevedeva la non perseguibilità del parlamentare per le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle sue funzioni. Tale prerogativa non è stata toccata dalla successiva riforma.


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La libertà del parlamentare, anche nell'odierna definizione, resta rafforzata dal disposto di cui all'art.67 C. il quale, nel riconoscere al singolo parlamentare l'alta funzione di rappresentante della Nazione, espressamente vieta che a questi possa essere imposto un mandato imperativo. In sostanza, egli, una volta ricevuta la delega dal corpo elettorale mediante la sua elezione alla carica, non deve rispondere presso i suoi elettori dei voti dati e delle dichiarazioni fatte in corso di mandato. Al corpo elettorale compete la valutazione complessiva dell'operato del rappresentante al momento del nuovo turno elettorale. Solo in quella sede il cittadino ha la (18) potestà di decidere se rinnovare o meno la fiducia al suo rappresentante, se ricandidato . Il fulcro delle guarentigie, fino al 1993, è ruotato sulla protezione accordata dal Costituente alla persona fisica del parlamentare, anche al di fuori dell'esercizio del suo mandato. L'Art 68 C., in origine, prevedeva che il parlamentare non potesse essere sottoposto a procedimento penale senza l'autorizzazione della Camera di appartenenza. L'istituto dell'immunità parlamentare si radica nelle antiche guarentigie dei primi Parlamenti, in particolare di quello inglese. La ratio della norma è ispirata al principio che il parlamentare non possa essere condizionato nell'esercizio delle sue funzioni da minacce di alcun genere che possano provenirgli da terzi, quindi anche da rappresentanti o espressioni di altri poteri. Il fatto però che anche il parlamentare dovesse rispondere dell'accusa in ordine a possibili crimini commessi è stato considerato dal legislatore costituente. Alla Camera di appartenenza era affidato l'onere della valutazione della consistenza probatoria delle accuse rivolte al suo membro, da giudicare in relazione alla possibile esistenza di un "fumus percutionis" e, di conseguenza, la responsabilità di concedere o meno l'autorizzazione alla prosecuzione delle indagini. Vi è da osservare che, nel periodo di vigenza della prescrizione normativa, i casi di concessione di autorizzazione sono stati poco frequenti. Ciò ha indotto i critici dell'istituto ad argomentare che l'immunità si sia, nel tempo, trasformata in impunità per l'eletto rispetto agli obblighi di una condotta personale giuridicamente ineccepibile, quantomeno conforme al dettato della norma costituzionale che pone in capo a tutti i cittadini chiamati a svolgere funzioni pubbliche "il dovere di adempierle con onore e disciplina" (Art.54, 2 co. C.). Tuttavia, bisogna riconoscere che anche l'organo di autogoverno della magistratura, nella sua funzione disciplinare, sia stato molto parco nel sanzionare i comportamenti indebiti dei magistrati incolpati. Ancora, l'Art. 68 ante riforma prevedeva che il parlamentare non potesse essere arrestato o comunque privato della libertà personale, o sottoposto a perquisizione personale o domiciliare senza la preventiva autorizzazione dell'organo camerale. Solo in un caso tale guarentigia non sarebbe stata efficace: quando il parlamentare fosse stato colto in flagranza di reato, cioè nell'atto stesso di commettere un reato. Ben inteso, non un qualsiasi generico crimine, ma solo quella fattispecie di reato per cui è previsto il fermo o l'ordine di custodia cautelare obbligatorio. L'autorizzazione parlamentare era prevista anche per i casi di ordine di carcerazione in esecuzione di una sentenza passata in giudicato, quindi divenuta irrevocabile. Altra guarentigia posta per assicurare la perfetta libertà d'azione al parlamentare è la fissazione in Costituzione del diritto dell'eletto di ricevere un'indennità di funzione da stabilirsi per legge

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(Art.69 C.). E' di tutta evidenza che un parlamentare possa essere condizionato, nella sua attività, dall'aspetto economico, per cui il Costituente ha inteso proteggerlo prevedendo un'entrata prestabilita, volta a sussidiarlo nelle sue necessità quotidiane, giacché egli distoglie tempo dal proprio lavoro abituale per servire la Nazione. Sull'ammontare dell'indennizzo si è scatenata una contestazione feroce da parte dell'opinione pubblica, al punto che i politici, attualmente, vengono sovente accomunati in un unico ruvido giudizio negativo, essendo gli stessi definiti membri di una casta privilegiata, poco dedita ai bisogni della popolazione e molto, invece, all'arricchimento personale. Per quanto concerne i rappresentanti dell'Esecutivo, il primo legislatore Costituente, operando in ossequio al principio-guida dell'equilibrio tra Poteri dello Stato, aveva inteso sottrarli alla giurisdizione ordinaria per gli atti compiuti nell'esercizio della loro funzioni. L'Art. 96 C., riconduceva alla giurisdizione del Parlamento, riunito in seduta comune, la messa in stato d'accusa del Presidente del Consiglio e dei Ministri per i reati commessi nell'esercizio delle rispettive funzioni. Il combinato disposto degli artt. 134 e 135 C. assegnava alla Corte Costituzionale la competenza a giudicare sulle accuse promosse contro i Ministri. Tale competenza però non era ordinaria, nel senso che la Corte, per la funzione giudicante reati ministeriali, doveva essere integrata, in via straordinaria, da una significativa rappresentanza di giudici all'uopo scelti dal Parlamento, la cui estrazione dunque doveva essere di tipo "politica". Nello specifico l'art. 135, 7 co. C., stabiliva le caratteristiche del collegio giudicante. Ai 15 membri effettivi della Corte, dovevano essere aggregati altri 16 giudici scelti per sorteggio da un elenco di cittadini aventi i requisiti di elettorato passivo per il Senato, redatto ogni nove anni dal Parlamento mediante lo stesso sistema elettorale impiegato per la nomina dei giudici ordinari della Corte. Sebbene la competenza a giudicare Presidente della Repubblica e Ministri fosse attribuita a un diverso organo costituzionale, comunque, nella speciale costituzione del collegio, sopravviveva lo spirito della Separazione dei Poteri grazie alla presenza maggioritaria di soggetti non riferibili al Potere giudiziario. Per riassumere, il Legislatore della Costituente aveva edificato una solida impalcatura a sostegno delle dinamiche che comportano interazioni tra i poteri, giungendo a proteggere tutti con norme perfettemente bilanciate. In sostanza, la non sottoposizione del sistema giudiziario al Potere esecutivo ne garantiva l'assoluta autonomia e, al tempo stesso, la presenza di istituti quali l'autorizzazione a procedere del Parlamento per i propri membri, così come la messa in stato d'accusa dei ministri innanzi alle Camere, rappresentavano altrettante guarantigie della libertà dei rappresentanti politici di poter svolgere il loro compito senza essere sottoposti al rischio di un illecito condizionamento esercitato attraverso una impropria persecuzione giudiziaria. Ora, senza entrare nel merito delle motivazioni che determinarono la scelta, operata in due diversi momenti, di abbandonare la linea del bilanciamento, bisogna riconoscere che lo smantellamento solo di una parte del sistema delle guarentigie sia all'origine del crollo di quell'equilibrio così faticosamente costruito dai Padri Costituenti. A beneficiare di questa sincope delle istituzioni democratiche è stata la magistratura che ha potuto sfruttare la nuova situazione, determinatasi a proprio totale vantaggio.


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La questione è estramamente complessa. A una lettura superficiale potrebbe apparire la volontà di favorire il privilegio per i politici ad avere comportamenti illeciti, ancorché non sanzionabili e occultabili alla pubblica opinione. Nulla del genere. E' di tutta evidenza che si debba pretendere dai rappresentanti del popolo la massima onestà e il massimo decoro nello svolgere le funzioni loro assegnate. Altrettanto palmare, in una società aperta tipica del nostro tempo storico, è che l'amministrazione della cosa pubblica appaia, come sosteneva Norberto Bobbio, come una "casa di vetro", per cui ogni comportamento contrario ai principi di legalità o semplicemente di buona amministrazione non possa essere tollerato e debba essere opportunamente sanzionato. E' pur vero che gli ultimi decenni della cosiddetta Prima Repubblica siano stati segnati da uno sviluppo progressivo del malaffare condotto, nella sfera della cosa pubblica, principalmente dall'interesse dei partiti-apparato a procacciarsi fonti di finanziamento illecito, funzionali alla loro stessa sopravvivenza. E' altresì corretto sostenere che l'economia nazionale sia stata talmente onerata del maggior peso di un sistema intrinsecamente corrotto, da provocare un'innaturale alterazione delle regole basiche del mercato. Ed è vero che, alla vigilia della storica stagione dell'integrazione europea, il mondo produttivo italiano non potesse presentarsi al confronto con la concorrenza dei competitor degli altri Paesi dell'Unione, avendo sulle spalle il fardello del sistema tangentizio. Tuttavia, la perdita di controllo che si è impadronita delle classi dirigenti dell'epoca ha fatto sì che il tentativo di porre riparo a una situazione compromessa provocasse un danno ancora maggiore, dando forza di contropotere a quell'organo, non rimaneggiato nel novero delle sue competenze, il C.S.M. "già da Paladin assai efficacemente (19) incardinato nell'orbita dei cosiddetti correttivi della forma di governo parlamentare" . In effetti, la frattura istituzionale si giuoca in due mosse. La prima, mediante la riforma risalente al 1989 che interviene a stravolgere l'impianto della giurisdizione per i cosiddetti "reati ministeriali", introducendo quell'equiparazione tra i cittadini e i loro massimi rappresentanti, quale primo passo per giungere a un controllo effettivo delle loro condotte di governo. Con l'approvazione della Legge Costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1(20), la competenza a giudicare viene trasferita alla giurisdizione ordinaria, sebbene vengano previste procedure speciali per la costituzione dei collegi giudicanti. Comunque, al Parlamento resta una porzione del ruolo processuale che esso esercita attraverso la concessione o il diniego della preventiva autorizzazione a procedere nell'indagine. In effetti, si tratta del residuo potere di tutela opponibile avverso il possibile uso politico di accuse rivolte ai ministri e mancanti di fondamento. D'altro canto anche per le funzioni ministeriali vale la guarantigia azionabile a seguito dell'accertamento dell'esistenza di un " fumus persecutionis". Ma la nuova norma solleva più dubbi interpretativi di quanti ne risolva, a partire dalla domanda: a chi spetta stabilire se un reato (21) sia ministeriale o meno? Al P.M., al Tribunale dei Ministri o alla Camera di appartenenza ? In realtà la questione spalanca le porte all'individuazione dell'effettivo cedimento dei Poteri Legislativo ed Esecutivo rispetto al Giudiziario. La questione verte sull'ingabbiamento della funzione di governo in una disputa sospetta intorno alla facoltà concessa all'inquirente di qualificare i comportamenti e gli atti indagati nel quadro d'insieme di attività svolte nell'esercizio

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delle funzioni ministeriali o, invece, di derubricarle a comportamenti ordinari tenuti dall'indagato nella "qualità" di membro della compagine governativa. Si comprende bene quale abissale differenza vi sia tra le due diverse condizioni e, soprattutto, quale ampio potere sia affidato alla giustizia ordinaria, la quale ha l'opportunità di procedere senza immediati vincoli allorquando ritenga di valutare l'attività oggetto d'indagine non come scaturente dal diretto (22) esercizio del mandato ricevuto, ma compiuta nella sola qualità, dedotta dalla carica ricoperta . Si obietterà che la Camera d'appartenenza può opporsi alla decisione sollevando innanzi alla Corte Costituzionale il conflitto di attribuzione fra i poteri dello Stato. Tuttavia, in un tempo storico nel quale immagine e credibilità costituiscono parte prevalente del patrimonio immateriale di cui è portatore ogni individuo, in particolare colui che ambisca a ricoprire cariche pubbliche, già il solo incardinare il procedimento che assume inevitabilmente pubblica notorietà, recherebbe al soggetto sottoposto a indagine un danno difficilmente sanabile, anche in caso di successivo esito favorevole. Sul fronte del potere legislativo, invece, il colpo di grazia al sistema dei Poteri separati proviene da un suicidio collettivo della classe politica. La vita della XI Legislatura, ricordata per essere stata la più breve della storia repubblicana, coincide con un momento di particolare disagio dell'opinione pubblica, motivato dall'indignazione per il grado di corruzione a cui era giunta la vita pubblica del Paese. I parlamentari neo-eletti, forse perché terrorizzati dall'insorgere della protesta sociale, a tratti anche violenta, tentando di porre un'argine alla crisi montante col progredire delle indagini connesse a "Tangentopoli", il 29 ottobre 1993 approvano, con la maggioranza dei due terzi del Parlamento, la Legge Costituzionale n. 3. Essa, composta di un solo articolo, ha come oggetto la riforma dell'art. 68 della Costituzione(23). Il punto di svolta, segnato dalla nuova normativa, è costituito dall'abrogazione dell'istituto della concessione al magistrato inquirente, da parte della Camera di competenza, dell'autorizzazione a procedere nelle indagini a carico del parlamentare per il quale sussista una notizia di reato. In concreto, con tale decisione il vallo eretto dai Padri Costituenti a tutela della incolumità fisica e psicologica del parlamentare, viene raso al suolo in nome del prevalente diritto all'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla Legge. In modo arbitrario, una guarantigia tipica dello Stato d'impianto costituzionale viene spacciata per privilegio castale e, quindi, colpita dall'insipienza di una classe politica disorientata. Ad aggravare la perdita d'equilibrio si aggiunge la circostanza che i medesimi politici che avevano votato la soppressione dell'autorizzazione a procedere, non hanno avuto sufficiente buon senso per modificare, a fini di bilanciamento del sistema delle garanzie, la norma di rango superiore che pone in capo al Pubblico Ministero (magistrato ordinario) l'obbligatorietà dell'azione penale (Art.112 C.). Avrebbe potuto, ad esempio, il legislatore esentare il P.M. dal richiamato obbligo dell'esercizio dell'azione penale nei confronti di parlamentari nel caso di notizie non qualificate di reato. Attualmente, è sufficiente che vi sia un'informazione acquisita dagli inquirenti in forma atipica come la fonte giornalistica o quella anonima, oppure da delazioni confidenziali o derivante da fonti di prova non utilizzabili, perché il pubblico ministero, svolte verifiche sommarie sulla possibile fondatezza della notizia medesima,


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sia tenuto ad avviare un'indagine penale con l'iscrizione del fatto di cui è venuto a conoscenza nel registro delle notizie di reato (Art.335 c.p.p.). Tale iscrizione impone al P.M. di annotare, quando non si tratti di ignoti, anche le generalità complete del soggetto a carico del quale si svolgono le indagini. Successivamente, tempi, strumenti e modaltità d'indagine, salvi gli atti per i quali permane l'obbligo della preventiva autorizzazione della Camera d'appartenenza dell'indagato, saranno disposti a insindacabile discrezione dell'inquirente. D'altro canto ciò è reso ancora più agevole dal fatto che l'ultima riforma sostanziale del Codice di Procedura Penale, in attuazione della norma di rango superiore (Art.109 C.), assegna al P.M., ex Art.327 c.p.p., il compito di dirigere le attività investigative disponendo direttamente della polizia giudiziaria. L'automenomazione a cui si sono sottoposti gli stessi parlamentari, da un lato, e il crescere, dall'altro, nell'opinione pubblica dell'opportunità di estendere l'attività d'indagine anche a una verifica di merito del comportamento etico del rappresentante eletto dal popolo, ha fatto sì che la magistratura, organo del potere giudiziario, "occupasse il campo" molto oltre i confini delle proprie competenze tradizionali. L'esercizio della giurisdizione si è trasformato in strumento per la difesa della "morale repubblicana" di cui i giudici si sono autoproclamati depositari, cercando successiva legittimazione presso il titolare della sovranità, il popolo medesimo. L'asserzione è sostenuta da uno specifico orientamento della magistratura a interpretare il proprio ruolo come "missione" nell'opporsi "al naufragio delle coscienze"(24). In tal guisa si è espresso il Procuratore Generale della Corte d'Appello di Milano, Francesco Saverio Borrelli, nel giorno dell'inaugurazione dell'anno giudiziario 2002, presso il tribunale di Milano. Giacché il concetto affermato nel 2002 dall'allora Procuratore Generale Borrelli non è stato smentito da altri rappresentanti dell'Ordine Giudiziario, al contrario al momento si levò un plauso "universale" rivolto all'indirizzo del suo accorato appello, esso deve ritenersi orientamento ideologico consolidato presso l'intera categoria. In effetti, una mutazione genetica nei presupposti teoretici dei magistrati, a partire dal 1992, vi è stata. Il ruolo del giudice viene sottratto alla tradizionale concezione dogmatica del legalismo giuridico d'impianto kelseniano, per approdare a visioni eterodosse della scienza giuridica. Si pensi, ad esempio, a quella del "diritto libero" propugnata da Rudolf von Jhering che si propone di elevare il giudice al rango di creatore del diritto riformulando la funzione effettiva dell'esegesi legislativa. Vieppiù, ciò che scaturisce dai giorni di "Tangentopoli", eroici per alcuni funesti per altri, richiama la tentazione di avvicinare la prassi giuridica italiana alla teoria della "giurisprudenza degli interessi" attribuita a Philipp Heck. Questi "sostiene che in presenza di una lacuna si debba compiere <uno sviluppo assiologico del comando> del legislatore (Wertende Gebotsbildung) tenendo presenti gli interessi che sono in gioco: i giudizi di valore, ispirati comunque a quelli presunti dal legislatore, possono essere formulati dal giudice con una sua valutazione autonoma (Eigenwertung) che integri - senza però contraddirle - le norme dell'ordinamento"(25). E' ciò che è accaduto negli ultimi venti anni con l'aggravante che i giudizi di valore, per alcuni versi svincolati dagli stessi orientamenti del legislatore, sovente siano divenuti premessa e causa della decisione, esorbitando dalla mera funzione di variabile ambientale, quindi metagiuridica, nell'articolazione

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della motivazione del giudizio. In questo rinnovellato spirito, la giuridizione degli ultimi venti anni, servendosi della Costituzione materiale e del diritto vivente, ha edificato una concezione di diritto che fonda sull'incrocio, una sorta di "crossing over", con il fondamento morale dell'ideale di giustizia. Ne consegue che l'ordinamento giuridico, implementato da siffatto valore ideale di giustizia, si rappresenti come ordinamento giusto, cioè moralmente giustificato. E' evidente che un diritto, perché sia giusto, necessita dell'azione di uno specifico interprete (il giudice) il quale, attraverso un atto della coscienza condizionata da fattori emotivi che nulla a che fare con la conoscenza razionale, ne propizi la trasformazione in strumento per la realizzazione della felicità sociale. Finiscono così in archivio, in un colpo solo, anni di convinta e devota adesione ai ferrei comandamenti della fede in quella specifica funzione giurisdizionale che si limita ad accertare l'illecito e a ordinare la sanzione. Allo stato attuale, la cosiddetta "politica" non sembra essersi affrancata dall'idea, autoimposta agli inizi degli anni Novanta dello scorso secolo, che l'amministrazione della cosa pubblica richiedesse un affiancamento del potere giudiziario nella definizione dei criteri etici, politici e giuridici per la produzione degli atti legislativi, amministrativi e di governo, accentuando in tal modo la crisi di credibilità della democrazia rappresentativa. E' significativo che, nell'immaginario collettivo, il Potere Giudiziario, attraverso le sue espressioni operative venisse percepito come "il custode" della morale repubblicana. Sostanzialmente tutte le forze politiche protagoniste della "seconda repubblica", hanno accettato che tale Potere fungesse da filtro non solo per la selezione della classe dirigente ma anche per l'offerta politica da proporre al corpo elettorale. In taluni casi componenti dell'Ordine giudiziario si sono assunti in prima persona l'onere di portare tali istanze all'interno delle assemblee legislative e nelle amministrazioni locali e regionali, fino al governo della nazione. Solo a titolo esemplificativo valga ricordare la tendenza a dotare le amministrazioni locali di assessorati con delega alla legalità e alla trasparenza, da affidare alla competenza di magistrati o di rappresentanti delle forze dell'ordine(26). Tale è, dunque, la condizione di squilibrio istituzionale originatasi tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi del Novanta. Se questa situazione si sia realmente protratta nel tempo fino ai giorni nostri, o al contrario debba considerarsi una parentesi di eccezionalità nella vita democratica delle istituzioni, è oggetto di dibattito tra le forze politiche, come più in generale nel Paese. Le prove addotte a sostegno dell'una o dell'altra tesi sono innumerevoli. La maggior parte di queste ruotano intorno all'interpretazione della vicenda politica e personale del leader del centro-destra, che abbiamo preso a modello come caso di studio. L'analisi del contenuto delle tesi sostenute da Berlusconi, incrociate ad alcuni dati incontrovertibili, prodotti durante il corso della sua permanenza nell'arena politica italiana, consentiranno di accedere a un quadro più chiaro del rapporto attuale tra Poteri dello Stato. 4 Punti di forza e punti di debolezza della critica berlusconiana alla Magistratura Nell'ultimo ventennio il comportamento delle forze politiche rispetto all'azione della Magistratura è stato sostanzialmente triplice. Da una parte si sono schierati i movimenti,


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prevalentemente afferenti al centro-sinistra, che hanno tenuto un atteggiamento del tutto acritico e passivo, quando non di manifesta adesione, rispetto alle iniziative dell'Ordine giudiziario. La linea a cui su cui essi si sono attestati si riassume in poche parole:" noi rispettiamo l'autonomia della magistratura per cui non commentiamo i suoi atti, a maggior ragione non ci esprimiamo sulle sentenze emesse". Sarebbe una lodevole posizione se non fosse che essa sia sensibilmente condizionata da una sorta di viltà condita di opportunismo giacché l'ala di centrosinistra del Parlamento può vantare un trattamento da parte degli organi giudiziari alquanto differente da quello riservato alla controparte politica. Per questa ragione non è dato di registrare nulla di significativo sul fronte delle proposte per modificare la situazione determinatasi. Anzi, la parte che si definisce progressista, sulla questione "giustizia", sostiene un conservatorismo alquanto bizzarro. Peggio, taluni esponenti del centro-sinistra hanno rischiato la reazione della piazza allorquando, con estrema disinvoltura nel maneggiare lo strumento della comunicazione verbale: il linguaggio, hanno osato asserire che, per quanto fossero consapevoli dell'urgenza di una riforma dell'ordinamento giudiziario, necessaria per garantire il ripristino delle condizioni proprie di uno Stato di Diritto, far ripartire l'economia del Paese, riconferire serenità e coesione alla compagine sociale e reintegrare lo Stato italiano nel novero delle democrazie avanzate, essi hanno deliberatamente deciso di non cambiar nulla perché "il farlo avrebbe potuto recare qualche vantaggio al competitore di centro-destra, Silvio Berlusconi" (sic!). Dalla parte opposta si collocano coloro che, principalmente di centro-destra, ritengono che i magistrati abbiano compiuto un golpe e che la democrazia, in questo Paese, sia in forte pericolo. Vi è però da precisare che la posizione di contrasto alla magistratura si caratterizza per le differenti sfumature nelle quali essa è stata declinata. Non tutti hanno condiviso le più colorite accuse rivolte, con diverso grado d'intensità, all'indirizzo dei giudici. Ad esempio l'origine legalitarista del partito di AN, ex MSI, ha determinato l'assunzione di posizioni molto caute rispetto alla magistratura e comunque distanti dagli accanimenti propri del movimento maggioritario costitutivo della coalizione di Centro-destra: Forza Italia. Tuttavia resta la critica contro l'invasione di campo ritenuta globalmente, nella porzione di emiciclo destinata agli eletti del centro-destra, un'inaccettabile forzatura, foriera del vulnus agli istituti della democrazia rappresentativa. Una terza posizione la si potrebbe definire intermedia nel senso che, in particolare l'area centrista si sia ispirata al mai domo cerchiobottismo di matrice democristiana. Tale attitudine consente ai suoi sostenitori di poter difendere l'operato dei giudici, in nome del principio della separazione dei poteri, pur non negando le anomalie determinatesi sia nella gestione della vicenda "tangentopoli", sia in seguito, nel comportamento tenuto dai giudici verso alcuni esponenti politici, assai diverso da quello assunto rispetto ad altri, che sono stati vistosamente tenuti al riparo dai rigori della norma penale. Tutto ciò riporta al fatto che per comprendere le ragioni della contesa tra poteri si debba far riferimento essenzialmente alla vicenda del presidente Berlusconi per cui si intende apprestare

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un quadro da cui desumere i punti di forza e i punti debolezza delle argomentazioni sostenute, di volta in volta, nel corso degli anni dal leader del centro-destra. Il primo punto di forza della critica berlusconiana è collocabile all'inizio della sua avventura politica. Dopo la vittoria elettorale, il neo governo di centro-destra, provò a chiudere la vicenda "tangentopoli" che continuava a mietere vittime illustri nonostante la sostanziale scomparsa, con le elezioni del 1994, di quasi tutti i parti di governo della cosiddetta "Prima Repubblica" e la contestuale affermazione di un gruppo di movimenti assolutamente nuovi, o di recentissimo conio, per la politica nazionale. Probabilmente il governo fu spinto ad agire anche per allentare la tensione della comunità internazionale che guardava con preoccupazione al proseguire della crisi italiana. Per questo motivo, invocando il ripristino delle condizioni proprie di uno Stato di Diritto, il 13 luglio 1994 il governo emanò un decreto a firma dell'allora guardasigilli, Alfredo Biondi, che mirava sostanzialmente a limitare l'uso della carcerazione preventiva alle fattispecie di reato più gravi. In effetti l'intendimento era quello di riportare la custodia cautelare alla sua autentica natura, sottraendola all'uso distorto che ne aveva fatto la Magistratura a cominciare dalla vicenda di Tangentopoli. Per effetto del decreto varato, molti politici detenuti per il reato di finanziamento illecito ai partiti furono posti in libertà, non senza le reazioni della parte giustizialista del Paese che ribattezzò il provvedimento dell' Esecutivo: " Decreto salvaladri". Ai fini della nostra analisi ciò che rileva è che, in quella occasione, si fosse prodotta prova concreta dell'alterazione in corso degli equilibri tra Poteri. Contravvenendo alla regola di rango costituzionale la quale prescrive che i giudici siano soggetti alle legge (Art.101, 2 co. C.), immediatamente dopo il varo del decreto, il pool di quattro sostituti procuratori della Repubblica del Tribunale di Milano si presentò in televisione per leggere un comunicato alla Nazione. I magistrati, esprimendo un giudizio negativo sul decreto in questione, sostenevano che la battaglia per riportare la legalità nel territorio della politica non sarebbe stata più condotta, da quel momento in poi, se avessero negato l'uso non condizionato della carcerazione preventiva quale strumento d'indagine. Inoltre, avvolorando il sospetto che gli stessi avessero interpretato il proprio ruolo nella vicenda, come una missione legittimata dalla coscienza morale del popolo, imputarono alla norma approvata di contrastare "con i sentimenti di giustizia e verità". Per rendere ancor più drammatico lo scontro, i magistrati annunciarono di aver chiesto di essere asegnati ad altri incarichi dove, sono loro parole, il contrasto tra il lavoro da compiere, applicando le leggi esistenti, e la propria individuale coscienza non fosse così stridente come nel caso denunciato. Una chiara sfida al Potere esecutivo e, nel contempo, un messaggio vagamente intimidatorio al Potere legislativo a cui spettava la conversione in legge del Decreto. Tale atto di forza costituisce la "pistola fumante" che potrebbe dimostrare, fuori di ogni dubbio, la verità circa "l'invasione di campo" su cui è stata impostata parte della critica berlusconiana alla magistratura. Il primo punto di debolezza della richiamata critica si configura sulla stessa vicenda evocata. Il governo, che aveva assunto l'iniziativa per riportare nei binari della normalità la situazione politico-giudiziaria italiana, avrebbe dovuto tempestivamente coinvolgere tutte le forze


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partitiche, insieme con le espressioni più significative della società civile, in un dibattito di alto profilo sulla fase storica che il Paese stava attraversando. Attraverso la mediazione di tutte le istanze emerse, esso avrebbe dovuto tendere a quella ricomposizione, la quale avrebbe restituito agli italiani un modello di Stato temprato dall'esperienza vissuta. Invece, di fronte all'opposizione manifesta dei pubblici ministeri ai quali non si sarebbe dovuto consentire una simile contestazione, il governo si era mostrato pavido e debole. Esso non aveva avuto la forza di sostenere il suo stesso provvedimento e, su pressioni degli alleati, aveva ritirato "motu proprio" il decreto. Da quel momento la rappresentazione offerta circa i rapporti tra Poteri è stata palmare: l'Esecutivo riconosceva di fatto ai rappresentanti del Potere Giudiziario una sorta di sindacato morale, avente effetti vincolanti sul piano giuridico, sulla natura e sul contenuto delle leggi da introdurre nell'ordinamento. Tale responsabilità, di fatto esiziale per le politiche garantiste in materia di Giustizia, era ascrivibile per intero al governo Berlusconi. Ogni successiva dichiarazione dell'interessato in difformità rispetto all'accaduto, è una contraddizione in termini. Il secondo punto di forza della critica berlusconiana riguarda la cosiddetta politicizzazione della Magistratura. E' noto che il leader del centro-destra, in modo ricorrente, abbia fatto riferimento alla divisione in correnti, ideologicamente ispirate, dell'Ordine Giudiziario. La polemica ha investito anche l'organo di autogoverno, il Consiglio Superiore della Magistratura. Esso, nella rappresentazione berlusconiana, sarebbe un "soviet", cioè l'apice di una forma organizzata di potere concepito secondo una logica totalitaria. In particolare, Berlusconi accusa Magistratura democratica, la corrente di sinistra dei magistrati italiani, di essere il centro di manovra delle politiche giudiziarie di scontro con gli altri Poteri dello Stato, avendo la medesima occupato tutti i gangli vitali dell'organizzazione all'interno dell'Ordine Giudiziario. Ne conseguirebbe, secondo Berlusconi, un sostanziale ingabbiamento dell'intera categoria dei magistrati i quali sarebbero succubi del potere interno esercitato "manu militari" dalle cosiddette "toghe rosse". In realtà, essendo stati i magistrati aderenti a M.d. tra quelli maggiormente impegnati a contrastare il pericolo eversivo delle organizzazioni terroristiche, negli anni "di piombo" e, successivamente, avendo dato il sangue di alcuni dei propri aderenti per la lotta al fenomeno della criminalità organizzata, è evidente che la componente valuti il proprio impegno dentro e fuori del sistema giudiziario, come l'opera di un'élite di avanguardia, attestata in prima linea sul fronte della legalità. Quindi M.d. riconosce per se stessa un ruolo prevalentemente ideologico. A supporto di questa teoria si cita un'illuminante testimonianza di Francesco Misiani, che è stato giudice e fondatore di M.d.. Misiani, che ha avuto un ruolo nella storia giudiziaria recente del nostro Paese, ammette in un suo libro: "Non posso negare che nelle mie decisioni, e parlo delle mie decisioni da giudice, non abbia influito, e molto, la mia ideologia. Se proprio dovevamo condannare, condannavamo al minimo e poi mettevamo fuori. Ma ripeto, avevamo di fronte un esercito di miserabili, che ritenevamo ingiusto condannare in nome di una giustizia di classe, cui erano regolarmente estranei i soggetti forti. Sulle ragioni giuridiche facevano aggio quelle di carattere sociale"(27).

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L'onesta ammissione di Misiani, che richiama alla mente i favoleggiamenti tipici degli anni settanta sull'uso "alternativo" del diritto e sulla lotta dall'interno alla "giustizia di classe", consente di poter dedurre che se, fino a un certo punto della storia del nostro Paese, la motivazione sociale abbia prevalso su quella giuridica, allora, dopo la nemesi di tangentopoli, grazie alla quale anche i soggetti forti sono stati "messi a nudo", si può asserire che le ragioni politiche abbiano fatto aggio su quelle giuridiche. Il che sembrerebbe legittimare l'espressione di matrice berlusconiana di "magistratura politicizzata". Il secondo punto di debolezza si configura proprio nella ricostruzione, che Berlusconi produce, dei rapporti di forza all'interno dell'Ordine Giudiziario. Egli calca la mano su un punto apparentemente centrale della sua critica: esiste una magistratura "rossa" comunista, che, facendo proprio l'insegnamento di Antonio Gramsci sulla conquista delle casematte del potere, ha imposto il suo credo e il suo programma all'intera categoria dei magistrati, guidando così l'Ordine Giudiziario fuori delle regole democratiche che impongono l'equilibrio tra Poteri. A maggior sostegno di questa tesi potrebbe essere richiamato un prezioso scritto del giudice Caselli, anch'egli bandiera storica di M.d. che, a proposito della grande stagione di impegno giudiziario che la Magistratura stava vivendo al tempo di Tangentopoli, offre una spiegazione molto convincente circa la paternità di tale fortuna. Nel testo vi si legge:"…Di fronte a vicende come tangentopoli, o come l'impegno anticamorra a Napoli, o come l'impegno antimafia a Milano, in Toscana e in Sicilia, non si può non partire da una posizione di orgogliosa rivendicazione. Vale a dire che tali momenti giurisdizionali non esisterebbero, determinate conquiste della cultura della giurisdizione non sarebbero una realtà, certi avamposti di tutela della democrazia sarebbero impensabili, se per lunghi anni la cultura giuridica progressista (in particolare i magistrati democratici dentro e fuori Md) non si fosse ostinata a porne e riproporne anche nei momenti più difficili - le indispensabili premesse ideali; se non avesse lottato per la soggezione dei magistrati soltanto alla legge, per l'obbligatorietà dell'azione penale e per l'inidipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo, per l'eguale dignità delle funzioni ed il mutamento della figura dei dirigenti….. Quando si parla di Tangentopoli, dunque, o di altri analoghi momenti di impegno giudiziario, bisogna innanzitutto riconoscere che essi sono "figli" (28) dell'impegno della cultura giuridica progressista" . A ben vedere, però, oltre la rivendicazione di "bandiera", spesa in favore dell'associazione Md, dal ragionamento importante di Caselli si colgono alcuni aspetti che mettono in crisi, rendendola semplicistica, l'analisi berlusconiana. Allorquando il magistrato sostiene l'esistenza di "avamposti di tutela della democrazia" figli della cultura giuridica progressista, fa riferimento al principio di egemonia, anch'esso di fonte gramsciana, che non si circoscrive semplicemente, o non si circoscrive affatto, allo stretto ambito della lotta tra correnti interne alla magistratura, piuttosto riguarda l'insieme della componente Giudiziaria la quale diviene, in nome di questa cultura introiettata nel proprio codice genetico, egemone rispetto alle altre componenti (Esecutiva e Legislativa) per la dialettica dei rapporti di forza agenti nelle meccaniche dell'apparato statuale. In parole povere: non si tratterebbe, come sostiene Berlusconi, di un


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manipolo di comunisti che avrebbe occupato la casamatta "giustizia" piegando tutti gli altri al proprio volere. Al contrario, l'onda lunga di una cultura metagiuridica ispirata all'evoluzione in senso progressista dei destini dell'umanità, ha preso il sopravvento sul terreno dell'amministrazione giudiziaria, imponendo all'esterno, presso gli altri poteri, una "cultura della Giurisdizione", la quale vuole essere in sé migliorativa della condizione della persona, considerata sia nella sua esistenza individuale e sia nelle sue espressioni collettive. Al posto dell'immagine caricaturale di una Magistratura "giacobina", per quanto pure non siano mancate punte di estremismo giustizialista, si fa strada l'idea di una corporazione radicata nei principi guida dell'illuminismo filosofico e giuridico. La natura della battaglia ingaggiata per la legalità si combatte sul piano ontologico, ancor prima che su quello astrattamente giuridico. Una diversa lettura, sollecitata dalla presunta natura "comunista" della corrente ideologica riconducibile a Md, avrebbe sollecitato l'indagine sulla teoria marxiana dell'estinzione dello Stato, mediata dall'esperienza politica del marxismo politico-filosofico nella sua dimensione di matrice unitaria del pensiero di Lenin e di Gramsci. La legittimazione a condurre in porto la "rivoluzione copernicana" negli equilibri di potere, è la rivendicazione da parte della nuova classe di magistrati di aver fatto i conti e gradualmente emarginato la vecchia guardia del Potere giudiziario, impietosamente giudicata "di regime", complice dell'azione di governo della partitocrazia in auge fino a tangentopoli. Sostiene Bruti Liberati: "E' indubbio che per anni vi è stata una omogeneità (consapevole o inconsapevole) di molta parte della magistratura con il sistema di potere. Netto il contrasto tra (29) due magistrature. " Secondo il pensiero di Bruti Liberati la magistratura, ha fatto pulizia al proprio interno dei fattori negativi che avrebbero potuto condizionare la naturale espansione, in senso progressista, della funzione giurisdizionale. In ragione di questo processo catartico, essa ha le "carte in regola" per gestire una sorta di primazia rispetto al vuoto di potere determinato dalla debolezza delle altre componenti del sistema statuale. Vieppiù, gli altri poteri, che tale revisione non l'hanno prodotta, sono i soli responsabili dell'aggravarsi degli stati patologici, divenuti poi irreversibili, nelle dinamiche di relazione tra partiti, istituzioni e società civile. Secondo l'illuminate ricostruzione di Luciano Violante "è la magistratura ordinaria quella che ha trainato la corsa della giurisdizione a occupare gli spazi dagli altri lasciati vacanti"(30) e ciò è stato possibile grazie alla rottura di tutte le gerarchie esterne (ministero della Giustizia) e interne (capi degli uffici), a cui la magistratura è pervenuta dopo un lungo processo di riconfigurazione del paradigma della giurisdizione a cui non è estranea la miopia delle classi dirigenti della politica. La ricostruzione che ne fa Violante è mirabile per la sua puntualità nella scansione temporale. La "lunga marcia" prende le mosse da un postulato logico-concettuale: un giudice non pienamente indipendente non avrebbe potuto garantire pienamente i diritti dei cittadini. Allora per prima venne abolita la gerarchia interna all'ordine Giudiziario (1950), come riferisce Violante, sulla base del principio costituzionale per il quale i magistrati si distinguono soltanto per funzioni; poi venne istituito il Consiglio Superiore della Magistratura con legge 24 marzo 1958, n. 195, che

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sottraeva al Ministro della Giustizia ogni potere sui singoli magistrati. Successivamente è stato abolito il principio di cooptazione e il concetto stesso della carriera per il magistrato. Sono caduti, per effetto delle sentenze della Corte Costituzionale, tutti i vincoli formali e sostanziali all'esercizio dell'azione penale. Crollava il regime delle autorizzazioni a procedere per i "corpi separati" dello Stato come pure veniva ridimensionata la vecchia disciplina del Segreto di Stato che aveva assicurato nel tempo l'azione interdittiva del Governo sull'azione penale. La modifica del Codice di Procedura Penale del 1989, che colloca il P.M. al vertice dell'organizzazione investigativa, è l'ultimo dei tasselli che compongono il quadro di cui gli avvenimenti successivi di "mani pulite" rappresentano soltanto la cornice. In concreto, ignorare la distribuzione nel tempo degli effetti di questo lungo processo di riposizionamento strategico del Potere Giudiziario nell'ambito dell'impianto costituzionale dello Stato, riducendo il tutto a una prevaricazione di un manipolo di "comunisti" che mette sotto scacco l'intera categoria, risponde a un criterio d'analisi, forse suggestivo, certamente superficiale e di scarsa tenuta. Il terzo punto di forza dell'analisi berlusconiana attiene alla denuncia più volte riproposta dal leader, dell'eccesso di potere concentrato nelle mani di una categoria di "pubblici dipendenti" che non ha ricevuto alcuna legittimazione dal popolo, al contrario dei partiti i quali debbono fare i conti con il consenso del corpo elettorale. A parte la sgradevolezza dei toni, con picchi di ineleganza raggiunti allorquando per marcare il presunto basso rango dello "status" sociale dei magistrati, li si paragona spregiativamente "a un qualunque impiegato del catasto" come se essere impiegati del catasto comporti "una diminutio capitis", Berlusconi colpisce il cuore di una problematica di altissimo profilo. Si tratta di definire la funzione giurisdizionale nella sua essenza, che solo in minima parte incrocia l'altra problematica di rilievo riguardante l'ipotesi di assoggettamento del Pubblico Ministero al potere diretto dell'Esecutivo. L'impianto costituzionale italiano si ispira al modello normativistico secondo il quale tale funzione si compone di due soli atti fondamentali: il primo si configura nell'accertamento da parte di un giudice della presenza di un fatto "qualificato come illecito civile o penale da una norma generale da applicarsi al caso concreto", il secondo si sostanzia nell'ordine del giudice a irrogare "una cocreta sanzione civile o penale stabilita generalmente dalla norma da applicarsi"(31). Ciò fa del giudice un mero esecutore di disposizioni normative stabilite in altre sedi. La facoltà concessagli di interpretare le norme in relazione al caso concreto lascia al medesimo un residuo margine di discrezionalità da riversare nell'atto decisionale. Tuttavia, nel tempo, si è andata consolidando una prassi in base alla quale vengono concessi alla funzione giurisidzionale spazi "creativi" in un orizzonte ermeneutico che va gradualmente ampliandosi. Ciò pone un problema di legittimazione del giudice che altrove, per esempio in alcuni sistemi di "Common Law", passa per il conferimento di un mandato attraverso un voto espresso dal corpo elettorale. Attualmente in Italia al magistrato è richiesta una particolare capacità "tecnica" la quale viene desunta dagli esiti di un pubblico concorso. Dunque, non è peregrino il richiamo di Berlusconi alla condizione di pubblici dipendenti dei magistrati giacché essa sottende una visione della funzione


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giurisdizionale prettamente "esecutiva". Qualora invece si dovesse optare per una radicale inversione di rotta, soppiantando il diritto legislativo con il diritto giurisprudenziale o semplicemente consentendo che i giudizi di valore formulati dal giudice con autonoma valutazione intervengano a integrare le norme dell'ordinamento, si dovrà passare a un sistema di reclutamento del personale togato da effettuarsi attraverso regolari elezioni. Come bene ha spiegato il compianto presidente Cossiga, nel corso del discorso per la laurea in Giurisprudenza, conferitagli honoris causa alla St. John's University di New York, pronunciato il 7 maggio 1991: " Là dove vige un sistema di common law, di diritto consetudinario, dove è necessaria una sensibilità che segua l'evolversi del diritto così come sentito dalla comunità, allora occorre necessariamente il conferimento della funzione giudiziaria in modo democratico perché non si tratta più di una funzione puramente tecnica, ma di una funzione ermeneutica, di carattere sociale e latamente di carattere culturale e politico"(33). La pretesa, invece, di confondere l'indipendenza del magistrato con una presunta autosufficienza della giurisdizione nel fissare le regole, e il loro contenuto prescrittivo, in forza delle quali giudicare poi i cittadini, è la frontiera della polemica montata contro l'invasività crescente del cosiddetto "potere delle toghe". Il terzo punto di debolezza della critica berlusconiana attiene alle consequenzialità dei comportamenti politici realmente assunti negli anni di governo, rispetto alle proposte di riforma del sistema giudiziario adombrate in fase di costruzione del consenso elettorale. In effetti, negli oltre dieci anni di governo del Centro-destra, l'unica riforma di una qualche consistenza in materia di Giustizia ha riguardato l'Ordinamento giudiziario. Si tratta della cosiddetta "Legge Castelli" dal nome del suo autore, l'allora Ministro della Giustizia, Roberto (33) Castelli . Il progetto di riforma conteneva alcuni spunti interessanti in ordine alla ridefinizione dello status di magistrato. Nella legge vi era un primo timido tentativo di affermare il principio giuridico di separazione delle carriere di pubblico ministero e di magistrato giudicante, con l'introduzione del principio di separazione delle funzioni. Inoltre, il legislatore interveniva a ridefinire le procedure per la progressione delle carriere nonché quelle sulla selezione e formazione dei giudici. Anche le Procure erano oggetto di riorganizzazione funzionale in forza dell'applicazione delle nuove norme. Il fatto, però, di aver approvato la riforma dell' Ordinamento Giudiziario, le cui disposizioni in vigore risalivano a una legge del 1941, contro la volontà dell'associazione di rappresentanza dei magistrati, ha fatto sì che, alla caduta del Governo Berlusconi, la nuova maggioranza di centro-sinistra provvedesse ad abrogarla dopo solo pochi mesi dalla sua entrata in vigore. Ciò a soverchiante prova della condizione di totale subalternità della sinistra alle volontà della corporazione dei magistrati. Tuttavia, il non essere riusciti a conquistare l'attenzione della popolazione sull'importanza e la validità, ai fini delle garanzie proprie di uno Stato di Diritto, della riforma condotta a conclusione dal proprio governo, rappresenta una debolezza strutturale della proposta politica della coalizione di centro-destra. Il problema è che essa deve fare i conti con un "sentire" del proprio blocco sociale di riferimento il quale si indirizza più

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agevolmente su posizioni lontane dal garantismo classico della cultura liberale. Vieppiù, non sono infrequenti i casi in cui tale blocco sociale abbia assunto posizioni di tipo "giustizialista" costringendo la propria rappresentanza parlamentare a votare leggi restrittive in materia di libertà. Il fatto che Berlusconi eserciti su di esso un'indubbia leadership di tipo carismatico non ha, però, prodotto effetti concludenti in ordine all'assimilazione profonda delle scelte compiute a indirizzo garantista, in sede di governo del Paese. Per esser chiari, allorquando la coalizione di centro-sinistra ha provveduto a smantellare il lavoro fatto dal precedente governo, non si è trovato un "popolo" di centro-destra pronto "alle barricate" pur di difendere ciò che era stato faticosamente introdotto nell'ordinamento giuridico, a titolo di modernizzazione delle strutture portanti dell'impianto istituzionale del Paese. Inoltre, vi è da osservare che la riforma dell'ordinamento non è stata sostenuta da una più radicale riforma del sistema giudiziario che avrebbe conferito maggiore legittimazione alle novità che la Legge Castelli si proponeva d'introdurre. In questo hanno avuto buon gioco tutti gli oppositori alla riforma nell'argomentare che, assunta nella sua unicità rispetto al contesto generale, la Legge, totalmente scollegata da un piano complessivo di ridefinizione del sistema giudiziario, appariva alla stregua di una ritorsione a carattere punitivo da ascrivere al personale capitolo della guerra in essere tra Berlusconi e i giudici. Perciò si evocava una ragione morale per legittimare la cassabilità delle norme di recente introduzione, senza che un'accurata analisi ne esaminasse l'effettivo impatto sull'efficienza del servizio "giustizia" per i cittadini. La questione interroga la capacità del ceto politico di centrodestra di trainare il consenso verso scelte innovative. In alternativa si palesa il rischio concreto delle "fughe in avanti" che non riescono ad essere assorbite dall'elettorato di riferimento. Ne consegue che l'offerta politica fondata esclusivamente sull'immagine e sulla credibilità del candidato leader non è bastata. La sottovalutazione dell'importanza non marginale ma strategica della stesura di linee programmatiche, realmente condivise con il sentire profondo della propria gente, avrebbe condotto a comportamenti di governo meno ondivaghi e maggiormente produttivi di risultati efficaci. Il quarto punto di forza della contestazione berlusconiana è centrato per intero sui numeri, oggettivamente impressionanti, della sua personale vicenda giudiziaria. Si tratta, stando a ciò che asserisce lo stesso interessato di 57 procedimenti penali incardinati negli ultimi venti anni, cioè da quando ha incominciato l'attività politica. I reati contestati sono di diversa natura. I più frequenti riguardano il falso in bilancio, l'appropriazione indebita, la corruzione in atti giudiziari, la violazione della legge antitrust, la frode e l'evasione fiscale. Inoltre è stato accusato di prostituzione minorile, concussione, corruzione semplice e aggravata, istigazione alla corruzione, concorso in strage, concorso esterno in associazione mafiosa, abuso d'ufficio, abuso nell'utilizzo di voli di Stato. Ancora, rivelazione di segreto d'ufficio, diffamazione aggravata dall'uso di mezzo televisivo. Non sono mancati procedimenti per traffico di droga, falsa testimonianza, spartizione pubblicitaria illecita. A prima vista appaiono un po' troppe le fattispecie di reato attribuibili a un uomo solo. Se fossero state vere tutte le contestazioni, saremmo in presenza di uno dei criminali più incalliti


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della storia dell'umanità. Per sua fortuna, la funzione giurisdizionale ha operato con imparzialità e ragionevolezza per cui la quasi totalità dei procedimenti avviati a suo carico sono stati archiviati o si sono conclusi con esiti favorevoli per l'imputato. Restano in piedi alcuni processi per alcuni dei quali sono state pronunciate sentenze in primo grado, mentre una sola condanna per frode fiscale è divenuta definitiva a seguito della pronuncia della Corte di Cassazione. Tuttavia, come già narrato in precedenza, è stata sufficiente quest'ultima sentenza per provocare la sua decadenza dalla funzione di parlamentare della Repubblica per gli effetti della cosiddetta "legge Severino". Berlusconi ha ben ragione di dolersi del trattamento ricevuto giacché il continuo stare sotto i riflettori della cronaca giudiziaria ne ha certamente minato la credibilità e l'immagine di uomo di Stato, soprattutto nei rapporti con la Comunità internazionale. Questo è accaduto dal primo episodio di contatto con la Procura della Repubblica di Milano. Si ricorderà che il 22 novembre 1994, Berlusconi apprese, insieme con tutto il Paese, di un invito a comparire presso la richiamata Procura, per rispondere circa un presunto giro di tangenti alla Guardia di Finanza. Il fatto grave, che non poteva non essere letto come un segnale politico molto forte, è che la comunicazione veniva pubblicata dal maggiore quotidiano nazionale del Paese proprio nel giorno in cui Berlusconi era impegnato, a Napoli, a presiedere la conferenza mondiale sulla criminalità transnazionale. Il leader del centro-destra attribuisce a quell'episodio la responsabilità della successiva caduta del suo governo. Molti commentatori dei fatti politici, spiegarono invece quel provvedimento giudiziario come una ritorsione nei confronti del capo del governo che aveva "osato" presentare il famoso decreto "salvaladri" a cui si è in precedenza fatto cenno. Comunque stiano le cose, è certo che da quell' evento del '94 ha preso il via una lotta senza quartiere tra una parte politica e una parte della magistratura. Nel tempo, i toni sono divenuti sempre più ruvidi per giungere alle recenti accuse di golpe giudiziario perpetrato, secondo alcuni esponenti del Centro-destra, da una frangia estremista della magistratura ai danni di un avversario politico. Se tutto quello che finora è stato esposto non fosse sufficiente, basterebbe questo solo elemento per suffragare la tesi dell'invasione di campo del Potere giudiziario. Non vi è dubbio alcuno che la pressione esercitata dai magistrati inquirenti sul leader, pressione pressoché costante per l'intero arco della sua vita politica, abbia prodotto esiti sugli andamenti politici del Paese. Il fatto di essere in costante conflitto d'interessi, a causa della propria posizione di indagato o di rinviato a giudizio, ha determinato una sostanziale perdita di credibilità dell'offerta politica del centro-destra, in particolare sul fronte primario della riforma del sistema giudiziario. Dunque, il danno maggiore, secondo questa lettura degli eventi, lo avrebbe patito il Paese nel suo insieme. Il quarto punto di debolezza della tesi berlusconiana è da ricercare nella modalità d'approccio con cui il leader ha affrontato la sua vicenda giudiziaria. Non vi è dubbio che la decisione di avviare una sorta di "partita a scacchi" con gli inquirenti, rispondendo, mossa su mossa, alle iniziative delle Procure, con provvedimenti legislativi di incerta efficacia, abbia funzionato da acceleratore della crisi. In effetti, Berlusconi, accettando la doppia sfida all'interno del processo e fuori, ha deformato lo spettro del confronto facendo diventare questione pubblica, la massa di

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accuse rivolte al soggetto privato. Inoltre, attraverso l'adeguamento forzoso della normativa penale alle sue esigenze processuali, ha determinato un vulnus nella qualità della sua stessa offerta politica. Il fatto di rincorrere di volta in volta l'aggiustamento di una norma invece che affrontare in toto la questione della riforma generale della Giustizia ha tolto smalto alla linea di governo e ha dato materia di critica ai suoi oppositori che hanno trovato redditizio contestarlo sul fronte delle cosiddette iniziative legislative "ad personam". La circostanza che abbia mancato, nel momento di suo massimo appeal con l'elettorato, e con la opinione pubblica occidentale, nell'arco temporale compreso tra il 2002 e il 2004, di affrontare di petto la questione giudiziaria andando in Parlamento ad assumersi le proprie responsabilità e, nel contempo, proponendo a tutte le forze politiche l'assunzione di un atto di risoluzione di una stagione complessa iniziata con "mani pulite", gli ha sottratto quel "quid" che differenzia gli uomini di Stato dai politici ordinari. Per quanto il paragone possa essere azzardato, financo un dittatore ancora in pectore qual era Mussolini all'indomani del delitto Matteotti del 1924, per risolvere la crisi che avrebbe portato al disfacimento del suo regime e del suo potere, andò in Parlamentato il 3 gennaio 1925 ad assumere la responsabilità di quell'atroce evento davanti alla Nazione. Il duce lo fece con un discorso alto e a viso aperto assumendo su di sé tutte le accuse, più o meno striscianti, che venivano rivolte contro la sua parte. Se Berlusconi avesse trovato la forza che fu anche di Bettino Craxi nell'ora drammatica della disfatta, per dire al Paese: "Non andate a cercare farfalle sotto l'arco di Tito, se pensate che il mio movimento e la coalizione che ho riunito sia un'associazione a delinquere, o che io stesso si quel delinquente abituale delle cui gesta riempite paginate di giornali a voi compiacenti, allora fuori il palo. Impiccate me perché io solo ne sono responsabile". Se Berlusconi avesse pronunciato dal solenne scranno parlamentare queste parole o analoghi concetti, se non si fosse fatto usurare dalle tattiche della sua stessa difesa legale, che lo hanno dipinto nei modi più pittoreschi: una volta consumatore finale di prestazioni sessuali, un altro lord protettore della nipote di Mubarak, un'altra ancora organizzatore di burlesque, o "sciupafemmine" impenitente e barzellettiere da modernariato della cominicità, suscitando alternativamente l'invidia e il sarcasmo dell'uomo della strada, oggi forse ci troveremmo a vivere una storia diversa. Non vi è dubbio che Berlusconi sia stato e sia l'arcitaliano, nel senso che ha incarnato in doppiezza tutti i pregi e i difetti dell'italiano medio. Per questa ragione tanti quisque de populo in lui si sono riconosciuti. Tuttavia, quella perniciosa attitudine italiana a voler stare un po' di qua, un po' di là senza scontentare alcuno, lo ha contagiato per cui è finito, come sempre nella nostra storia, a scontentare tutti. La strategia di piccolo cabotaggio intrapresa contro l'azione giudiziaria ha condotto il Paese allo stallo in cui oggi si trovano le istituzioni pubbliche. Ancora una volta però, agendo con la genialità che gli è universalmente riconosciuta, Berlusconi ha scompaginato il campo lanciando un proposta "rivoluzionaria". Egli ha invocato un atto di pacificazione che riporti il Paese alla normalità della vita democratica nel riequilibrio dei Poteri separati. E' un tema di profondo significato politico e istituzionale che merita adeguato approfondimento. Cristofaro Sola


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Note 1 Art.16: “Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione”. 2 Sul punto cfr. P. Barile. E Cheli, S. Grassi, Istituzioni di diritto pubblico”. Padova 2011. 3 A. Barbera, Dalla Costituzione di Mortati alla Costituzione della Repubblica, Introduzione al Volume “ Una e Indivisibile” 2007. 4 Legge Costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, in rubrica <Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione> in GU n. 248 del 24 ottobre 2001. Ai sensi del nuovo art. 114 della Costituzione, Regioni, Province e Comuni non sono più in un rapporto gerarchico con lo Stato, bensì in un rapporto di parità, di separazione delle competenze e di soggezione ai medesimi limiti. 5 Sul punto A. Touraine, Critica della Modernità, pag.22, Milano 1993. L'A. afferma:” la peculiarità del pensiero occidentale, nel momento della sua più forte identificazione con la modernità, è consistita nel voler passare dal riconoscimento del ruolo essenziale della razionalizzazione all'idea più ampia di una società razionale, in cui la ragione domini non soltanto l'attività scientifica e tecnica, ma anche il governo degli uomini e l'amministrazione delle cose”. 6 La definizione di Ordine Giudiziario afferisce il contenuto dell'art. 4 del R. D. 30 gennaio 1941 n°12, modificato parzialmente dal D. Lgs. del 19 febbraio 1998, n°51. Il richiamato art. 4, che reca in rubrica “ Ordine Giudiziario” recita: “ L'ordine giudiziario e' costituto dagli uditori, dai giudici di ogni grado dei tribunali e corti e dai magistrati del pubblico Ministero. Appartengono all'ordine giudiziario come magistrati onorari i giudici conciliatori, i vice conciliatori, i giudici onorari di tribunale, i vice procuratori, gli esperti del tribunale ordinario e della sezione di corte di appello per i minorenni ed, inoltre, gli assessori della corte di assise e gli esperti della magistratura del lavoro nell'esercizio delle loro funzioni giudiziarie. Il personale delle cancellerie e segreterie giudiziarie di ogni gruppo e grado fa parte dell'ordine giudiziario. Gli ufficiali giudiziari sono ausiliari dell'ordine giudiziario.". 7 Decreto legislativo 31.12.2012 n° 235 , G.U. 04.01.2013, art.1 – in rubrica “Incandidabilita' alle elezioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica”. Il testo: “Non possono essere candidati e non possono comunque ricoprire la carica di deputato e di senatore: a) coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per I delitti, consumati o tentati, previsti dall'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale; b) coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti nel libro II, titolo II, capo I, del codice penale; c) coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione, per delitti non colposi, consumati o tentati, per I quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, determinata ai sensi dell'articolo 278 del codice di procedura penale”. 8 Decreto legislativo 31.12.2012 n° 235 , G.U. 04.01.2013, art.3 – in rubrica” Incandidabilita' sopravvenuta nel corso del mandato elettivo parlamentare” – testo: “1. Qualora una causa di incandidabilita' di cui all'articolo 1 sopravvenga o comunque sia accertata nel corso del mandato elettivo, la Camera di appartenenza delibera ai sensi dell'articolo 66 della Costituzione. A tal fine le sentenze definitive di condanna di cui all'articolo 1, emesse nei confronti di deputati o senatori in carica, sono immediatamente comunicate, a cura del pubblico ministero presso il giudice indicato nell'articolo 665 del codice di procedura penale, alla Camera di rispettiva appartenenza. 2. Se l'accertamento della causa di incandidabilita' interviene nella fase di convalida degli eletti, la Camera interessata, anche nelle more della conclusione di tale fase, procede immediatamente alla deliberazione sulla mancata convalida. 3. Nel caso in cui rimanga vacante un seggio, la Camera interessata, in sede di convalida del subentrante, verifica per quest'ultimo l'assenza delle condizioni soggettive di incandidabilita' di cui all'articolo 1”. 9 Sul punto ampiamente cfr. F. Messineo, Manuale di Diritto Civile e Commerciale, Vol. Primo, pag.274 e ss., Milano 1957. E M. Bianca, Diritto Civile, Vol. Primo, Cap. XVIII, pag.345 e ss., Milano 1984. 10 Nell'immaginario collettivo, grazie alla convergenza della cronaca giornalistica con analisi politologiche di accorsati studiosi, si intende ascrivere all'esplosione, nel febbraio del 1992, della vicenda conosciuta come “tangentopoli” la fine convenzionale della cosiddetta “Prima Repubblica”, cioè di quel periodo storico corrente tra la vittoria referendaria del 1946, che assegna all'Italia la forma istituzionale repubblicana in luogo della monarchia, e la crisi irreversibile della democrazia rappresentativa, impersonata dai partiti politici organizzati in strutture verticali d'apparato. 11 F. Cossiga, Per Carità di Patria, pag. 21, Milano 2003. 12 In realtà, il neologismo è stato coniato da un cronista di “ Repubblica”, Piero Colaprico. 13 Ibidem, pag.22 14 Riguardo alla natura del C.S.M., istituito per garantire l'autonomia e l'indipendenza dei magistrati nello spirito autentico della Separazione dei Poteri, esso è certamente organo di rilievo costituzionale, ma non è organo costituzionale, nel senso che “la sua mancanza produce l'immediato arresto dell'attività dello Stato o una sua trasformazione in senso difforme dalla costituzione” (Barile). Ne è prova che la legge di attuazione dell'organismo risalga soltanto al 24 marzo 1958, (n.195), cioè a un tempo di gran lunga posteriore alla sua formale configurazione nell'ambito dell'ordinamento costituzionale. A ragione della sua specificità di missione, esso resta estraneo alla struttura della Pubblica Amministrazione. 15 Nel caso della Magistratura inquirente, si profila una parziale deroga al principio di esclusiva soggezione alla legge giacché tra capo dell'Ufficio del Pubblico Ministero e i sostituti assegnati vige un rapporto di sovraordinazione, di tipo gerarchico, giustificato in via di prassi dal tenore “unitario” dell'ufficio. Per un approfondimento si rinvia al disposto dell'art.70 R.D. 30 gennaio 1941 n.°12 in materia di “ Ordinamento Giudiziario”. 16 L'art. 101, 1 co. C. sancisce: “La giustizia è amministrata in nome del popolo”. 17 Art.25, 1.co., C.:” Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge” 18 In realtà, questo principio basico della democrazia rappresentativa è stato in parte vulnerato dall'introduzione, nel 2006, della legge elettorale, sarcasticamente definita: Porcellum. In forza delle nuove disposizioni viene abolito il voto di preferenza al singolo candidato. In sostituzione, il meccanismo elettorale prevede il voto alla lista con I candidati prestabiliti. La recentissima pronuncia della Corte Costituzionale ha, però, dichiarato illegittima la legge. Ciò pone l'odierno Parlamento nella obbligatoria condizione di approvare una nuova legge lettorale onde colmare il vuoto legislativo apertosi a seguito della richiamata pronuncia della Corte Costituzionale. 19 L'espressione è tratta da: Paolo Veronesi, Dal vecchio al nuovo art. 68 Cost. e ritorno. Saggio disponibile in rete internet.

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20 Legge Costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1. recante- Modifiche degli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all'art. 96 della Costituzione (G.U. n. 13 del 17 gennaio 1989). Detto articolo, in forza della modifica approvata, è così riformulato: “Il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei Deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale”. 21 Sul quesito posto cfr. R. Aprati, Il procedimento per i reati ministeriali: i conflitti di attibuzione per “usurpazione” e per“menomazione” fra giudici ordinari e assemblee parlamentari,in Diritto Penale Contemporaneo, www.dirittopenalecontemporaneo.it 22 Per comprendere l'importanza di questo tema si rimanda alla nota vicenda processuale del cosiddetto “caso Ruby”, che ha coinvolto il presidente Berlusconi. Segnatamente, si rinvia agli atti del dibattimento e alle argomentazioni prodotte dalla difesa dell'imputato nonché alla mozione approvata dalla Camera dei Deputati che sollevava il conflitto d'attribuzione alla Corte Costiuzionale. La vicenda si focalizza sulla qualificazione giuridica dell'atto compiuto con la telefonata effettuata dal presidente Berlusconi alla Questura di Milano. Il contenuto del colloquio ineriva una richiesta d'informazioni sulla posizione giudiziaria della minorenne nota col soprannome “Ruby”. Il fatto che il P.M. abbia considerato il reato ipotizzato come non ministeriale, gli ha consentito di avviare un processo penale ordinario. Attesa la sindacabilità della decisione del P.M., la Camera dei Deputati, sentendosi spodestata del potere decisionale in ordine alla concessione preventiva dell'autorizzazione a procedere, ha adito la Corte Costituzionale per sviamento delle proprie prerogative. La disputa su come doversi qualificare la famosa telefonata del premier, cioè se compiuta nella qualità di Presidente del Consiglio e non, come invece sostenuto dalla Difesa, nell'esercizio delle sue funzioni di Presidente del Consiglio (la minore asseriva di essere la nipote del presidente egiziano Mubarak, quindi un intervento governativo sarebbe stato volto, nelle argomentazioni della Difesa, a scongiurare il pericolo di una crisi diplomatica), ha condizionato la storia di quel processo e, probabilmente, anche la storia politica del nostro Paese. 23 Legge Costituzionale n. 3. 29 ottobre 1993 - Art. 1. L'articolo 68 della Costituzione e' sostituito dal seguente: "Art. 68. - I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizi delle loro funzioni. Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, ne' puo' essere arrestato o altrimenti privato della liberta' personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell'atto di commettere un delitto per il quale e' previsto l'arresto obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione e' richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza". La presente legge costituzionale, munita del sigillo dello Stato, sara' inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato 24 Le parole sono del procuratore generale della Corte d'Appello di Milano, Francesco Saverio Borrelli, nel giorno dell'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012, presso il tribunale di Milano. Il procuratore Borrelli, nella sua ultima relazione da capo di quell'ufficio, ebbe espressioni durissime contro il Potere esecutivo e legislativo. Infatti, invocando una generica indipendenza dei giudici, minacciata a suo dire dai politici e dal governo, invocò contro quest'ultimo una linea di opposizione avverso le sue decisioni con le note parole “ Resistere, Resistere, Resistere, come sulla linea del Piave”. Parole indubbiamente eversive che, però, non provocarono alcun effetto concreto in ordine alla loro censura. Al contrario, rinfocolarono la polemica politica tra fautori e oppositori di una ipotetica riforma del sistema giudiziario. 25 C. Bocchini, La teoria Schmittiana della Democrazia, pag.108, testo disponibile in rete internet. 26 Il caso Napoli/ Regione Campania è conducente per le argomentazioni esposte. L'attuale Sindaco della città è un ex magistrato noto alle cronache per il clamore mediatico delle inchieste condotte contro i politici,in verità rivelatesi del tutto infruttuose. Nella sua giunta di sinistra è stato presente, come assessore alla legalità, un magistrato della DDA di Napoli, di notevoli competenze tecniche.Il city manager è un colonnello dei Carabinieri in aspettativa. In spirito bipatisan, la giunta regionale della Campania di centro-destra, ha fatto di meglio: ha chiamat a ricoprire l'incarico di assessore al Bilancio un generale della Guardia di Finanza. 27 F. Misiani - C. Bonini, La Toga Rossa, pag. 29, Milano 1998. 28 G. Caselli, La Cultura della Giurisdizione, in MIcromega, pag.15, vol.5/93, Roma 1993. 29 E. Bruti Liberati, Magistrati e Politici: Una difficile convivenza, in Micromega, pag.31, vol.5/93, Roma 1993. 30 Luciano Violante apre la sua riflessione con un gustoso richiamo letterario. Per interpretare la difficile realtà italiana dei primi degli anni Novanta, fa risuscitare il Candide di volteriana per costringerlo a un faticoso giro per un mondo alla rovescia dove, per capire i nuovi accadimenti, il protagonista deve dialogare con gli esponenti del Mpadp (Movimento per l'abolizione del dibattimento penale). L. Violante, Idee per una riforma del Pianeta Giustizia, in Micromega, pag.52, vol.5/93, Roma 1993. 31 H. Kelsen, Teoria Generale dello stato e del Diritto, pag. 278, Milano 1974. 32 F. Cossiga, Il torto e il Diritto, pag.89, Milano 1993. 33 Legge 25 luglio 2005 n. 150 "Delega al Governo per la riforma dell'ordinamento giudiziario di cui al Regio Decreto 30 gennaio 1941, n. 12, per il decentramento del Ministero della Giustizia, per la modifica della disciplina concernente il Consiglio di presidenza, della Corte dei conti e il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, nonché per l'emanazione di un testo unico”


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Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

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