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Aeromensile di prospezione sul futuro

Confini

Idee & oltre

Nuova serie - Numero 17 Ottobre 2013 - Anno XV

DISSOLUZIONE : STA I V TER

O P U P L’IN O C TA R A SP

PRIMO PIANO: MONOGRAFIA: I MARÓ DIMENTICATI


www.confini.org

Confini Aeromensile di prospezione sul futuro Organo dell’Associazione Culturale “Confini” Numero 17 (nuova serie) - Ottobre 2013 - Anno XV

+ Direttore e fondatore: Angelo Romano +

Condirettore: Massimo Sergenti +

Comitato promotore: Antonella Agizza - Mario Arrighi - Anna Caputo Marcello Caputo - Elia Ciardi - Gianluca Cortese - Sergio Danna - Danilo De Luca - Alfonso Di Fraia - Luigi Esposito - Giuseppe Farese - Enrico Flauto - Giancarlo Garzoni - Alfonso Gifuni - Andrea Iataresta - Pasquale Napolitano - Giacomo Pietropaolo - Angelo Romano Carmine Ruotolo - Filippo Sanna - Emanuele Savarese Massimo Sergenti +

Hanno collaborato a questo numero: Pietro Angeleri Arktos Francesco Diacceto Gianni Falcone Giuseppe Farese Roberta Forte Giny L’Infedele Enrico Oliari Angelo Romano Massimo Sergenti Cristofaro Sola +

Segreteria di redazione: confiniorg@gmail.com

+ Registrato presso il Tribunale di Napoli n. 4997 del 29/10/1998

confiniorg@gmail.com


RISO AMARO

Euroba: quando si tratta di vite e non di “roba” l’Europa è assente

Per gentile concessione di Gianni Falcone

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EDITORIALE

LIBERTÁ DI COSCIENZA E DI PENSIERO Re Giorgio questa volta ha toppato nell'invocare una legge che punisca il negazionismo a proposito dell'Olocausto. E' una richiesta che sa di oscurantismo, di fondamentalismo e che rievoca i tempi della Santa Inquisizione e dei libri all'indice. E’ una misura della stessa essenza del “bruciamo l’eretico dopoaverlo torturato, basta che non sanguini”, e nulla ha a che fare con la memoria che è tradizione, radici, ricordo spesso amorevole e lieto, lutto e dolore, a volte orrore, a volte nostalgia, quasi sempre strumento di consapevolezza e conoscenza. In tale significato la memoria è un fatto intimo e personale. Poi c'è la memoria storica che si sedimenta, spesso con distorsioni, nella storia ufficiale o, meglio, nelle storie dei popoli. E non esiste popolo che sia indenne dagli orrori della propria storia, a prescindere da chi siano state le vittime e chi I carnefici. Buona parte della storia umana è fatta di predazione, soprusi, violenze, schiavitù, supplizi, tortura e morte, per non parlare delle guerre, dei genocidi, delle sistematiche spoliazioni, delle deportazioni, delle “rivoluzioni culturali” portate avanti con i “lumi” delle ghigliottine, con i roghi degli eretici, con le guerre sante, con gli internamenti in cliniche psichiatriche o in gulag, con il ricondizionamento cerebrale. Al giorno d'oggi, almeno in Occidente, si può negare il Vero Dio, si può credere in Thor o in Odino, si può pensare che la rupe Tarpea non era poi così male, ma se tocchi l'Olocausto, anzi se solo ti azzardi a pensare che potrebbe non essere stato tutto conforme a come viene rappresentato, deve scattare la fatwa, la pubblica maledizione e per l'eretico si devono aprire le porte della galera e la sua fedina penale deve essere nera. Nel merito non sono negazionista, pur essendo consapevole che la storia la scrivono sempre i vincitori, ma amo sopra ogni cosa la libertà di coscienza e di pensiero, la mia e quella altrui. Pertanto mi fa accapponare la pelle il progetto di introdurre nel nostro ordinamento un ulteriore reato d'opinione, a maggior ragione dopo che, faticosamente e dopo decenni di battaglie, è stata archiviata la carcerazione per i giornalisti. La ferocia dell'uomo è problema che non si risolve introducendo il reato di ferocia, come la violenza sulle donne non si argina con una legge. Ferocia e violenza si arginano e si incanalano solo con i bastioni della civiltà. Nè per legge possono inculcarsi I ” giusti convincimenti”. E poi c'è la questione di principio: la punibilità di un pensiero e della sua libera manifestazione. Possibile che nel sistema della libertà di pensiero, tanto faticosamente conquistata, vi sia un solo tabù, un unico pensiero che è proibito formulare: il dubbio sull'olocausto o sulla sua portata?


EDITORIALE

E perche lasciar fuori, tra i tanti, l'olocausto ucraino con i suoi 7 milioni di morti o quello nucleare di Hiroshima e Nagasaki, o quello armeno? E una volta introdotta l'eccezione chi garantisce i cittadini che, dopo l'apologia del Fascismo e dopo l'offesa all'Olocausto, non vengano giù a cascata altri reati di pensiero, in ossequio al politicamente corretto del momento? Il passo dal reato: “non la pensa come tutti gli altri” è davvero breve. Stimo il popolo israeliano per il coraggio, la coesione, l'intelligenza diffusa, per il sovraccarico di persecuzioni che la storia ha riservato lungamente e costantemente agli ebrei solo perché “diversi” e li stimo per il fatto di rappresentare davvero il baluardo dell'Occidente in contesti che proprio non ne apprezzano l'essenza, tuttavia non apprezzo la loro scarsa propensione all'amore ed al perdono che li porta quasi alla ricerca di vendetta e commiserazione perpetue. Il che autorizza a pensare (posto che sia ancora consentito) che se non vogliono, forse non potendolo, superare gli abominevoli torti subiti dal nazismo (ma anche dal comunismo), probabilmente non hanno superato nessun'altra delle tante ingiurie che sono stati costretti a subire nel corso dei secoli: apartheid, confisca dei beni, esodi, persecuzioni, negazione di diritti, esclusione sociale e marginalizzazione, abusi di ogni sorta, stermini sistematici. E se oggi chiedono a gran voce una severa legge sul negazionismo e il Parlamento è pronto a concedergliela, e se premono affinché Priebke non trovi pace neanche dopo morto e la Chiesa glielo concede, significa che il conto mai sarà saldato? Non voglio, tuttavia, addentrarmi nella millenaria “questione ebraica”, né sembrare propenso al negazionismo o tenero con il nazismo.Tutte questioni da affidare alla storia. Il problema sono gli abominevoli reati d’opinione e quanti ne sostengono la proliferazione senza rendersi conto dell’eresia che propugnano. Ma che siano liberi anche loro. Angelo Romano

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DISSOLUZIONE Ma in che razza di Paese ci tocca vivere? Se non fosse perché sono orgoglioso di essere italiano, chiederei la cittadinanza al Burundi. Almeno là, i rapporti civili sarebbero in ogni caso più semplici, non ci sarebbero prese per i fondelli colossali nel presunto interesse della comunità nazionale e, nel contempo, si risparmierebbe sul vestiario e sul riscaldamento. Non parliamo del condominio e delle utenze. Il fatto è che in venti anni di dirompenti picconate su ogni aspetto della vita civile e sociale degna di questi aggettivi, abbiamo cancellato ogni morale sostituendola con delle regole ridicole, incomplete, lacunose, aggirabili, abbiamo distrutto ogni ideale lasciando sul campo brandelli di speranza e, peggio dell'agire degli operatori religiosi nei periodi più bui della cristianità, abbiamo sostituito il timore di Dio, incarnato da una muta sudditanza ai presunti voleri di un Onnipotente, pena la ruota e il rogo, con il timore del Mercato, implicante l'annullamento della personalità umana. E quella che era l'espressione più nobile dell'essere umano, l'agire per il bene della comunità, il fare politica, si è perso in un marasma di ladrocini, incompetenze, ignoranze, boriosità, inadeguatezze. Venti anni durante i quali il mondo che conoscevamo, soprattutto da parte delle generazioni della mia età (che non è giovane) è stato cancellato da un sedicente modernismo, efficientismo, razionalismo che, a voler essere buoni, si è rivelato di un inconclusionismo persino paradossale e, in ogni caso, estremamente dannoso. Mi si viene pomposamente a dire che i giovani, rispetto a noi, sono fortunati perché hanno la possibilità di viaggiare low cost, di ampliare le loro conoscenze ed esperienze. Trasecolo. Che soddisfazione è alzarsi alle due di mattina per partire alle quattro con un volo diretto verso un aeroporto che dista cento chilometri dal luogo di destinazione, essere ospitati da un ostello in una stanza con tre/quattro letti e con il bagno sul corridoio, mangiare in un fast food compromettendo da subito il tasso di colesterolo e vagare per le città con un sacco sulle spalle? I musei, all'estero molti, ben curati e costosi, sono preclusi. Esempi illuminanti di cucina locale sono preclusi. Così come sono preclusi acquisti di articoli del design locale di pregio e espressioni artistiche teatrali e musicali. Mi si lasci dire. La maggior parte dei giovani, oggi, non conoscerà altra forma di vacanza (?); una condizione che caratterizzerà anche la loro maturità e che solo la vecchiaia eliminerà, per ridotta vigoria fisica, mitigata da fugaci ricordi di splendidi luoghi, di espressioni architettoniche, ma anche di innumerevoli rinunce.


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Senza saperlo, abbiamo ricreato le caste. Almeno David Copperfield, alla fine, divenuto cronista parlamentare, sposerà Agnes e avrà quattro figli. I giovani di oggi, invece, si accompagneranno, non faranno figli, litigheranno per un nonnulla e si lasceranno. Lei, arrabbiata, in cerca di un altro sfigato con il quale sfogare la sua frustrazione e lui, un venticinquenne in piena ansia da prestazione, alla ricerca di una pillola di Levitra gratis, per risparmiare 50 euro, pensando che una più duratura erezione lo faccia diventare uomo. Ambedue senza altre ambizioni che non quella di arrivare a fine mese, alle prese però con lo smartphone dotato di internet, il jeans griffato e la scarpa in gomma, con qualche lettera o segno sulla tomaia. E questo per undici mesi e mezzo: nei restanti quindici giorni, la vacanza low cost. Non me la prendo con i giovani che non hanno visto alcunché di diverso. Me la prendo con quelli della mia età, con i nonni, e con i nostri figli, i padri, per non aver saputo e voluto trasmettere nulla di valido, di ideale, di concreto; per non aver voluto o saputo dare ai propri figli dei valori; per non essersi opposti allo smantellamento della speranza di un domani migliore come conseguenza di un impegno. Abbiamo dimenticato le nostre lotte e le nostre conquiste, e il prezzo pagato per ottenerle; nella certezza, allora, che i nostri figli avessero di meglio. In realtà, hanno qualcosa di notevolmente peggio perché non sapendo cosa e perché lottare, si scontrato con la nostra ignavia dinanzi alla loro mancanza di rispetto, dinanzi alle prepotenze del nostro prossimo, dinanzi alle assurdità di uno Stato, sedicente democratico, guidato da politici imbelli, senza neppure una reazione che non sia il mugugno, ovviamente nel chiuso delle case, in solitudine, oppure pubblicamente al bar, quale alternativa al calcio. Né c'importa che la recente inchiesta OCSE ha appurato che gli italiani, i nostri figli e nipoti, sono pressoché ultimi, tra 24 Paesi più industrializzati, per competenze alfabetiche, necessarie per operare nel XXI secolo. A buon bisogno, non lo sappiamo e, in ogni caso, si sono sbagliati. Ce ne stiamo rintanati a vedere la televisione: programmi spazzatura, compresi i telegiornali, come i bambini con i cartoni animati. Guardiamo senza ragionare, senza riflettere, senza giudicare: non è un'informazione, è un passatempo per ingannare ore tediose, vuote. E non può essere che così dal momento che abnormi assurdità ci vengono propinate senza che in noi si desti la benché minima perplessità. E' troppo quello che scrivo? Sono da annoverare tra i vecchi rincoglioniti? Non credo, almeno per quanto sopra. E, del resto, limitandoci agli ultimi anni, cosa pensare quando estromettiamo un ricco vecchio, rincitrullito dalla patatina prima della Bonev e poi della Pascale che per sua dichiarazione è lesbica, sul quale abbiamo dovuto ascoltare due decenni d'impegnati dibattiti, di ponderate riflessioni, di meditate analisi da parte di soggetti che non amano la patatina, non sanno cos'altro pensare e proporre e, tra l'altro, non fanno neppure ridere? Lo abbiamo sostituito con un docente di chiara fama, nominato senatore a vita per l'occasione, che altro non ha saputo fare che raschiare il barile, senza neppure tentare, in un soprassalto d'orgoglio, di arginare la montante crisi; anzi, ha demolito ogni paletto così che la furia finanziaria si potesse abbattere meglio su famiglie e imprese.

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Eppure, in quei disgraziati sedici mesi, lo abbiamo definito “salvatore”, mentre, nella realtà, non ha saputo difendere neppure la dignità nazionale nel contesto internazionale: non solo ai tavoli di Bruxelles, dove avrebbe dovuto essere di casa per i precedenti incarichi, ma nemmeno nei rapporti diplomatici. La tragicomica vicenda dei nostri due marò è lì a dimostrarlo. Poi, fortunatamente per il pubblico del circo, sono intervenute democratiche elezioni nazionali a seguito delle quali, la sesta potenza economica mondiale, l'Italia, ha fatto sfoggio del suo aspetto più umoristico: cinquantacinque giorni di tormento massmediale tra pompose affermazioni della sinistra, ridicoli comportamenti grillini e altisonanti richieste della destra, forse nella speranza di scantonare la punizione, più o meno giusta, per il suo mentore, intemperante, disinvolto ed erotomane. Una baraonda sfociata nella disponibilità del bravo guaglione di centro(sinistra), nipote di un grande incantatore di serpenti di destra, il quale, da umile, ha pensato bene di recarsi dal Capo dello Stato con la propria vettura. E' stato questo il trionfo dei media; una specie di riscatto dalla notizia, data in precedenza, secondo la quale addirittura il Presidente del Pd, Rosy Bindi, alla possibilità di nominare Letta presidente del Consiglio, a momenti scoppiava a ridere. E così ce ne siamo andati tra decreti del fare non si sa bene cosa, il ritorno alla spending review, visto che la precedente si limitava al riciclo della carta dei ministeri, e la recente legge di stabilità che, accanto alla mirabolante azione di accorpare le tasse, cambiare loro di nome e aumentare le aliquote, ha concesso lo sgravio di 0,92% sull'IRPEF di quegli esercizi che toglieranno le slot machine. Sì! Lo 0,92%, per rinunciare agli introiti delle macchinette. Da scompisciarsi, avrebbe detto Totò. Intanto, pagando ancora di più, ci consoleremo pensando che nel prossimo anno audacia temeraria igiene spirituale coloro che guadagneranno fino a 20.000 euro avranno un risparmio di 150 euro. Però, da un'immane disgrazia, una fortuna: 330 emigranti morti sulle nostre coste hanno fatto finalmente decidere il nostro Governo ad assumere il cipiglio necessario per evidenziare che i confini dell'Italia sono gli estremi confini dell'Europa. Fino ad ora, evidentemente, non era ben chiaro. Ma la determinazione non si è arrestata lì: un moto imperioso dell'animo ci ha consentito di serbare i gioielli di famiglia: l'Alitalia e Telecom. A quale prezzo? La cosiddetta compagnia di bandiera, già fallita nel 2008, dopo aver raggiunto l'invidiabile cifra di 22 milioni di passeggeri l'anno e dopo aver percorso le più lontane tratte nel mondo (oggi cancellate), con il capitale sociale in mani totalmente private, in piena legge di mercato deve essere salvata con i soldi pubblici dall'aggressione (???) francese. E' un fatto che i dipendenti pubblici, compresi i militari, in Francia, hanno l'obbligo di volare Air France. Compagnie del livello di Ryan Air, in Francia, atterrano in aeroporti lontani circa 100 Km dal punto di arrivo, e non a Ciampino, praticamente dentro Roma. I francesi non pagano sedicenti manager milioni di euro per non fare assolutamente nulla, al punto da essere inquisiti subito dopo la fine del mandato. Né, sempre i francesi, si fanno dire dagli americani quali aerei, tra i più “beoni”, comprare. I francesi non hanno ridotto il personale a bordo, adeguando il numero dei posti, in nome di presunti risparmi: espediente demenziale che ha comportato la riclassificazione (o come diavolo si chiama) degli aerei a costi inverosimili. E, sempre i francesi,


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hanno mantenute inalterate le tratte intercontinentali: quelle stesse tratte che oggi, il fantasioso piano di rilancio Alitalia si propone di ripristinare. Né i francesi, qualora fossero stati in crisi, avrebbero assunto oltre tremila dipendenti come ha fatto Alitalia appena dopo cospicue iniezioni di denaro, per non impiegarli adeguatamente, vista la riduzione delle rotte. Rimane il dubbio di Bruxelles se il salvataggio sia da considerarsi aiuto di Stato per intervento delle Poste Italiane. Accidenti all'impicciona British Airways la quale non arriva a comprendere come le Poste possano trovare capitali al di fuori del pubblico denaro. Ha, ovviamente, la fantasia limitata. Per Telecom, comunque, l'abbiamo scampata. Abbiamo difeso una compagnia privata perché le sue reti trasportano dati “sensibili”, strategici per il Paese. Oh! Bella. Qualcuno vuole dire al nostro Governo che, accettando la presenza di Echelon in Germania e in Inghilterra senza sollevare la benché minima rimostranza, non esiste più segretezza sui sistemi di comunicazione telefonica? E' da strapparsi i capelli dalle risate. Beh! Meno male, però, che la sana popolazione italica, in marcia contro gli interratori di rifiuti tossici e pericolosi, sa trovare il riscatto dalla sua apatia: non si era minimamente accorta che migliaia e migliaia di ettari di loro terreni, nel tempo, venivano scavati; che innumerevoli camion li percorrevano per scaricare migliaia di fusti mal sigillati di rifiuti tossici; che l'opera di ricopertura è stata così accorta che l'ignaro contadino ha ingenuamente piantato sopra cavolfiori e broccoli. Speriamo che non vi sia apatia nel verificare le assegnazioni delle opere di bonifica; finora, dopo le solite marce, quelle assegnate insieme a molti milioni di euro, non sono andate più in là di studi e analisi. No… non disperiamo. Non dobbiamo farlo. Almeno un valore c'è rimasto: quello del rifiuto categorico della barbarie nazista e la persistenza della memoria per l'immane reato contro l'umanità tutta. Atteso questo e la volontà di non dimenticare, aborrita la nefanda ideologia, stigmatizzata ogni singola virgola di quella dottrina, lontani un milione di chilometri da ogni intento revisionistico, punito sacrosantamente un esponente di quell'abominio con sessant'anni di prigionia, quando quell'esponente muore dove andrebbe sepolto? Non ne posso più di sganasciarmi dalle risate e di deprimermi. Qualcuno, per favore, può mandarmi a quel paese argomentando, fondatamente, che le mie rimostranze sono solo i lai di un vecchio disfattista? Che non viviamo nel Paese dei balocchi e che il gatto e la volpe, da un lato, e un burattino dall'altro sono solo il frutto della mente di un toscanaccio, tradotto in un libro, molto sgualcito, venduto sulle bancarelle di un mercatino rionale? Gliene sarei grato in eterno. Pietro Angeleri

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SPARTACO PUPO: SUI CONSERVATORI In una stagione in cui la destra italiana appare indebolita e senza chiare prospettive per il futuro,attraverso le pagine di “Confini” proveremo a immaginare una “destra possibile” incamminandoci in un percorso che sia prima di tutto culturale. Lo faremo con interviste ad intellettuali, storici, professori e giornalisti su temi e filoni sui quali costruire le fondamenta ideali della destra del futuro. In questo numero, ad offrire spunti di riflessione sulla dottrina del conservatorismo, è una conversazione con il professor Spartaco Pupo. Esperto di conservatorismo e comunitarismo, Pupo insegna Storia delle dottrine politiche all'Università della Calabria ed è senior fellow presso l'Istituto di Politica nonché membro del comitato scientifico della “Rivista di Politica” diretta da Alessandro Campi. Studioso del pensiero del sociologo americano Nisbet, ha pubblicato di recente “Robert Nisbet e il conservatorismo sociale”(Milano 2012). Professoraudacia Pupo, come nasce il pensiero temeraria igieneconservatore spirituale e chi sono i suoi padri fondatori? Il conservatorismo moderno ha un solo padre fondatore: Edmund Burke, il più grande e coerente avversario della Rivoluzione francese e delle sue pretese universalistiche. È difficile rintracciare nella storia del pensiero politico un corpo di idee così strettamente dipendente dal pensiero e dall'azione di un solo uomo. Direi che Burke sta al conservatorismo come Marx sta al comunismo. Tutti i temi delle diverse varianti del conservatorismo che si sono susseguite sino ad oggi appaiono come estensioni degli enunciati originali di Burke, che valgono sorprendentemente in qualsiasi area geografica e situazione storica in cui c'è da combattere l'esasperato progressismo, il radicalismo e le pratiche conseguenze del razionalismo politico. Grazie a questa forte identificazione con il suo fondatore, il conservatorismo, come movimento intellettuale, prima ancora che politico, non è rimasto confinato nella sola Francia “reazionaria” dei Bonald e dei de Maistre, ma ha trovato sin da subito rappresentanti autorevoli in tutto l'Occidente, come Coleridge e Southey in Inghilterra, Hegel e Savigny in Germania, Donoso Cortes e Balmes in Spagna, Adams, Hamilton e Randolph di Roanoke negli Stati Uniti, e molti altri ancora. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti i conservatori vantano una lunga tradizione politica e culturale. Quali sono le differenze tra i due conservatorismi e quali pensatori ne hanno condizionato maggiormente la diffusione? Gran Bretagna e Stati Uniti vantano una tradizione conservatrice anche fortunata, direi, se si


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pensa soprattutto alla forte influenza che le idee dei conservatori hanno spesso esercitato sugli elettori e sulle leadership politiche occidentali. Nell'area di lingua inglese il conservatorismo ha avuto fortuna soprattutto perché si è imposto come una vera e propria ideologia politica, una delle più importanti della storia politica moderna, insieme al socialismo e al liberalismo. Altrove il conservatorismo è stato interpretato come orientamento culturale di singoli intellettuali o vissuto come inclinazione psicologica, attitudine caratteriale propria di singoli uomini politici, come ad esempio Bismarck, per la Germania, de Gaulle, per la Francia. In Inghilterra il conservatorismo ha avuto sin da subito una connotazione popolare, poiché ha costantemente richiamato l'attenzione contro l'assalto giacobino alla proprietà privata, il cui disprezzo è per Burke l'origine di tutti i mali del mondo, e contro la redistribuzione e suoi effetti devastanti sulla varietà dei corpi sociali. Il pronunciato antiegalitarismo, inoltre, non impediva ai conservatori inglesi di criticare il capitalismo sfrenato, la tecnologia e il “nuovo ordine” economico borghese. Coleridge e Southey, conservatori dichiarati, si mostravano talmente diffidenti nei confronti del commercio “impersonale” e degli effetti alienanti della società industriale sui legami comunitari e le lealtà tradizionali da far dire al poeta Shaw che le critiche conservatrici al capitalismo nell'Ottocento erano addirittura più feroci di quelle dei socialisti. Scruton, l'ultimo dei conservatori britannici, sostiene ancora oggi che essere conservatore è l'unico modo per essere antisocialisti senza essere liberali. Gli intellettuali conservatori più famosi d'Inghilterra furono, tra gli altri, il giurista Henry Maine, il poeta Thomas S. Eliot, l'esploratrice Freya Stark e il filosofo Michael Oakeshott, uno dei padri della filosofia politica moderna. Ma il conservatorismo inglese vanta una tradizione di tutto rispetto anche nella politica pratica, per la quantità e la qualità degli statisti “conservatori” che ha conosciuto, tra cui Disraeli, Churchill, Thatcher. Quello inglese è stato un conservatorismo più secolare e pragmatico rispetto a quello americano, che invece si è caratterizzato come movimento prettamente culturale, accademico. Gli americani hanno risentito dell'estetismo religioso e del passatismo romantico proprio dei controrivoluzionari francesi, ma si sono contraddistinti nella costante e ferma opposizione alle tendenze relativistiche e progressistiche del liberalismo e nella rigorosa costruzione di una credibile alternativa culturale al comunismo, grazie a un'organizzazione movimentistica senza precedenti, una “rete” di conservatori che, a partire dagli anni Cinquanta, ha dato del filo da torcere all'intellighenzia liberal, in tutti i settori, dall'editoria al giornalismo, dalle università agli istituti di ricerca e alle fondazioni private. Il movimento studentesco conservatore negli anni Sessanta e Settanta riuscì in molti atenei statunitensi a tenere testa agli esagitati radicali della New Left. La “rinascita” conservatrice americana è stata opera soprattutto di intellettuali come Hallowell, Kirk, Weaver, Viereck, Voegelin, Nisbet, Himmelfarb, Meyer che, sui capisaldi del pensiero di Burke e di Tocqueville, le cui opere proprio in quel periodo iniziarono a circolare in tutti gli ambienti culturali americani, hanno costruito quella solida struttura conservatrice trentennale

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che ha portato allo storico successo elettorale di Reagan, passato alla storia come il primo presidente degli Stati Uniti a dichiararsi fieramente “conservatore”. La critica alla burocrazia federale e al debito pubblico, i due peggiori mali della centralizzazione politica inaugurata dal New Deal, l'attacco all'individualismo liberale colpevole di aver creato una società di alienati, la conservazione delle comunità naturali e locali, la strenua difesa del costume nazionale, l'indispensabilità della religione e del valore del sacro nella vita degli uomini, il ruolo vitale del rango sociale e della gerarchia, la preservazione dell'autonomia della società e dell'economia dal “potere arbitrario” dello Stato “omnicomprensivo” e l'anticomunismo militante sono sempre stati i punti di forza del conservatorismo americano. In che modo queste differenze hanno influito sulle politiche economiche e sociali dei due campioni del conservatorismo degli anni ottanta, Ronald Reagan e Margaret Thatcher? Hanno influito principalmente nei cambiamenti sostanziali di tipo sociale e politico introdotti nelle rispettive nazioni. Reagan ha risanato l'economia americana e ha vinto la guerra fredda, senza peraltro sparare un sol colpo, perché è riuscito a identificarsi con il “carattere” e la tradizione della nazione che guidava. La Thatcher fece del contrasto al socialismo, vissuto come il “male della Gran Bretagna”, una missione portata a compimento con successo. Ad unire i due conservatorismi e le loro rispettive manifestazioni storiche, rimane, ad ogni modo, la difesa del localismo, del pluralismo, della divisione del potere, del decentramento amministrativo e, soprattutto, la devozione alla tradizione, carattere tipico del conservatorismo che non è dato trovare né nel pensiero liberale né in quello radicale. Entrando nel merito del pensiero conservatore, in che modo oggi si può sostanziare il richiamo alla tradizione in un'epoca segnata dall'evoluzione continua del modo di pensare la politica e la società? Essere conservatore non significa preservare le tradizioni, che possono essere transitorie. Il conservatore idealizza la tradizione, l'ordine tradizionale come risultato delle conquiste e dei sacrifici di una moltitudine di generazioni di uomini, che noi abbiamo il compito di preservare e lasciare il più intatto possibile ai posteri, nel dare continuità a quello che Burke chiamava il “consorzio tra morti, viventi e non nati”. Essere tradizionalisti significa custodire i “valori eterni” quali l'onore, la saggezza, il buon senso, la gentilezza, la fedeltà, il sangue, la gerarchia, la comunità, la nazione, vere e proprie “armi” nella battaglia che i conservatori di tutto il mondo combattono da sempre contro sofisti, utopisti e razionalisti di ogni epoca, soprattutto contro gli alfieri e continuatori del modernismo alla Rousseau, Bentham e Adam Smith e contro il progetto del Leviatano collettivista planetario. Ad animare l'azione politica dei conservatori deve oggi essere la consapevolezza che quella occidentale è una storia della ragione che opera nella tradizione e che proprio dall'equilibrio tra ragione e tradizione deriva la gloria dell'Occidente. Un altro principio cardine del conservatorismo è il comunitarismo. In una stagione in cui la distanza tra Stato e cittadini si allarga sempre di più, gli enti intermedi (famiglie, associazioni di volontariato, parrocchie) possono aiutare a riannodare i fili di una


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società disgregata? Direi che la comunità, intesa in senso tradizionale e realista, ossia come corpo vivente prontamente identificabile e non come concetto astratto del tipo consegnatoci dai comunitaristi postmarxisti nordamericani, è l'antidoto più efficace contro la deriva innescata dalla globalizzazione. I “piccoli patriottismi” dei corpi intermedi, che hanno strenuamente resistito alla persecuzione statalista e totalitarista, rimangono, checché ne pensino i liberali contemporanei, supporti psicologici insostituibili per la persona oltre che baluardi autentici contro l'invasione della burocrazia statale. Da più parti si continua ad accomunare i termini liberalismo e conservatorismo, nella tipica espressione di liberal-conservatore. E' possibile secondo lei tenere insieme i due filoni? L'espressione è di per sé un ossimoro. Il conservatore è il principale avversario del liberale, almeno nell'accezione odierna del termine liberal che include progressismo, socialismo, collettivismo, relativismo, ecc. A meno che non ci si riferisce al liberalismo classico o alla tradizione di pensiero del liberalismo italiano. In quei casi può avere un senso sentirsi conservatori e al contempo liberali. Esemplare, a tale riguardo, resta l'esperienza degli Stati Uniti della seconda metà del Novecento, dove nella casa madre del conservatorismo hanno convissuto, completandosi a vicenda, libertarians del calibro di Hayek e Mises e tradizionalisti ortodossi alla Kirk e Weaver. Quali sono i fondamenti del conservatorismo sociale teorizzato dal sociologo americano Robert Nisbet? Può essere considerato alla stregua di una terza via tra liberismo senza regole e socialismo pianificatore? Il conservatorismo sociale è l'attitudine a combattere, da una parte, gli eccessi dell'individualismo liberale e del capitalismo, e, dall'altra, la pianificazione centralizzata dello statalismo liberalsocialista. Il più grande merito di Nisbet è stato quello di avere svecchiato il conservatorismo, liberandolo dal passatismo ad ogni costo ed elevandolo a dottrina politica capace di misurarsi con la complessità del presente. Il conservatore, secondo Nisbet, deve prendere atto che l'inclusione della classe media e dei suoi valori all'interno dello stato sociale è ormai un fatto inoppugnabile, sedimentatosi nella società occidentale. Passare oggi per «conservatori sociali», dunque, non può destare scandalo, anche perché la storia stessa del conservatorismo è costellata di esempi di convergenze tra conservatori e socialdemocratici antimassimalisti, come quella tra il pluralismo conservatore inglese e il sindacalismo socialista. Il conservatore del terzo millennio deve saper coniugare la socialità intesa sia come ricerca dell'identità e delle comunità tradizionali che come attenzione ai benefici dello stato sociale soprattutto quando servono a proteggere la persona e la sua comunità d'appartenenza. Al laissez-faire del capitalismo liberale, insomma, il conservatore sociale contrappone il laissez-faire della socialità. In Italia Giuseppe Prezzolini, con il suo Manifesto dei Conservatori, è ritenuto il nume tutelare del conservatorismo. Quali sono i capisaldi della sua dottrina? Il suo Manifesto è ancora attuale?

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Prezzolini era un anarchico, un ribelle, un grande organizzatore culturale. È riuscito ad essere l'iniziatore del fascismo e insieme dell'antifascismo senza essere mai stato né fascista né antifascista. Solo in età avanzata, dopo qualche disillusione di troppo e dopo aver masticato per molti anni la politica americana, durante il suo soggiorno negli Stati Uniti, Prezzolini ha abbracciato l'ideale conservatore, che per lui fa rima con “pessimismo”, “scetticismo” nei riguardi degli schemi razionalistici, delle verità precostituite, dei paradisi terrestri disegnati a tavolino. Il conservatorismo di Prezzolini, pur non trovando solide basi teoriche, essendo lui uno scrittore, un divulgatore e non certo un politologo, è comunque prezioso se non altro perché contribuisce a dare una soluzione all'annoso problema del significato dell'essere conservatore: il conservatore, diceva, non è un reazionario, un nostalgico, ma è colui che vuole “continuare mantenendo”, che a problemi nuovi dà risposte nuove, che è rinnovatore delle leggi eterne dimenticate, nascoste, violate e che è persuaso di essere, “se non l'uomo di domani, certamente l'uomo del dopodomani”, quando i suoi avversari avranno fallito. Rimanendo in Italia, quali sono, secondo lei i motivi che hanno impedito la nascita di una forza di stampo conservatore nei 150 anni di storia unitaria? Il motivo più importante è senz'altro l'ostilità preconcetta, derivante sia dal pregiudizio ideologico che dalla scarsa conoscenza del conservatorismo, della sua storia e del suo patrimonio ideale, spendibile universalmente. In Italia, per intenderci, Burke non è mai arrivato. Un autore come Tocqueville, quando è arrivato, è stato accolto non come uno dei più grandi conservatori di tutti i tempi, ma per la sua particolare interpretazione della democrazia americana. Il problema è, quindi, di ordine culturale. Il sincretismo del nazionalismo italiano di inizio Novecento, di volta in volta superomistico, estetico, risorgimentale, romantico e interventista, si è nutrito di ideali distanti dalla tradizione controrivoluzionaria europea. Lo stesso dicasi per il fascismo, rimasto indifferente al conservatorismo, ma forse non del tutto a quella “rivoluzione conservatrice” della Germania di Weimar, almeno non allo stimolo che da essa proveniva di far conquistare alla nazione una dignitosa collocazione nel mondo. Il secondo novecento, come è noto, è stato contrassegnato dall'egemonia marxista-comunista di una parte del mondo culturale sulle altre tradizioni di pensiero, egemonia che ha coinciso con la rigida chiusura al confronto, l'inclinazione al conformismo, la concezione dell'impegno culturale come prolungamento della lotta politica. Laddove non si creano basi culturali manifestamente conservatrici, difficilmente nascono formazioni partitiche di riferimento. In assenza di un partito di tal genere è plausibile, come qualcuno continua a ritenere, che sia stata la Dc ad intercettare ed assorbire il voto conservatore facendo leva sull'anti-comunismo e sul richiamo ai valori della tradizione cattolica? L'Italia è un paese fondamentalmente conservatore. Una delle caratteristiche più importanti della società italiana è proprio la vocazione naturale al conservatorismo. La Dc ha intercettato, non sempre consapevolmente e a tratti anche indegnamente, il consenso di tipo conservatore, non solo per i motivi che lei giustamente ricorda ma anche per l'assenza, alla sua destra, di un partito che quantomeno non disdegnasse l'etichetta “conservatore”.


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Nel Msi e nella variegata area del postfascismo italiano, l'essere conservatore ha sempre rappresentato un fardello di cui sbarazzarsi in fretta con il richiamo al modernismo degli antenati nazionalisti e futuristi. Chi è che oggi può essere annoverato tra i conservatori nel panorama politico, intellettuale ed editoriale italiano? Chiunque accetti di cominciare ad esserlo seriamente. E' giusto parlare di conservatorismo di Papa Ratzinger e di progressismo di Papa Francesco? Fermo restando che il progresso rimane niente di più che una metafora, la dialettica tra le due visioni del mondo opera in qualsiasi istituzione “pubblica”. Forse in questo caso un giudizio obiettivo compete più ai teologi che agli storici del pensiero politico. Certo, le continue uscite estemporanee dell'attuale Pontefice, fuori dai canoni classici e dalle sedi deputate, il suo non curarsi troppo del fatto che queste possono comportare il rischio di generare equivoci circa le più importanti verità di fede, insieme all'introduzione di cambiamenti “radicali” nell'organizzazione della Chiesa, tutto è tranne che una linea conservatrice. Il criterio che ispira l'azione del conservatore, in qualsiasi istituzione egli si trovi ad operare, è quello della prudenza, del richiamo alla saggezza contenuta nella tradizione, quella phronesis di cui parlavano gli antichi e che ha consentito alle istituzioni, specialmente alle istituzioni millenarie come la Chiesa, di mantenersi in vita senza rivoluzioni e salti nel buio. Si continua a discutere, in Italia, della nascita di una destra di stampo moderno ed europeo. Ci sono prospettive affinché il pensiero conservatore possa impiantare anche da noi solide radici? Le prospettive ci sono, mancano le iniziative e gli uomini politici disposti a spendere le loro energie per un soggetto politico conservatore a lunga scadenza, che nei paesi in cui è nato ha già dato ampie garanzie di longevità, affidabilità e successo elettorale. Per dar vita ad un partito conservatore occorre partire dalla “metapolitica”, da un'analisi razionale che vada “oltre” la politica degli apparati e che privilegi l'idea, mai tramontata, per cui il potere non ha efficacia alcuna se non poggia su delle solide basi culturali. Occorre dunque invertire la tendenza della destra italiana a disdegnare la cultura, i luoghi di produzione delle idee e di rappresentazione collettiva. Un partito conservatore è l'unica soluzione attualmente percorribile per la costruzione di una destra moderna, aperta, immaginativa, che avrebbe molto da dire sulla scena pubblica italiana, specie in questo particolare momento storico. Professore, per chiudere proviamo ad indicare tre testi imprescindibili a chi voglia avvicinarsi al pensiero conservatore. Oltre alla “bibbia” del conservatorismo, ossia il volume di Burke, Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, consiglierei L'antico regime e la rivoluzione, di Tocqueville. Un vero e proprio manuale del conservatorismo, infine, è il volume di Nisbet, Conservatorismo: sogno e realtà, da me recentemente tradotto e curato per i tipi dell'editore Rubbettino. Giuseppe Farese

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PIETÁ L’È MORTA

Pietà l'è morta. E' il titolo di un vecchio canto partigiano. Il cimitero d'acqua che si è naturalmente formato intorno agli scogli di Lampedusa, dove corpi straziati galleggiano, persi nel nulla, alla ricerca delle loro anime, oggi ci ferisce. Ci sbatte in faccia il dramma della nostra inerzia di fronte allo stucchevole buonismo dei parvenu, all'umanitarismo che non ha decenza, di cui le istituzioni pubbliche italiane sono divenute, negli ultimi tempi, patetiche portabandiera. La strage di tante vite umane non può, e non deve, lasciare indifferenti, soprattutto se si considera che quei poveri esseri destinati al macello, non avevano, né potevano avere, alcuna colpa per il proprio tragico destino, svenduto il giorno stesso in cui avevano deciso di lasciare i luoghi natii. Ma è già consumato il cordoglio, doveroso al cospetto di un evento mediatico che narra per immagini di un onda di morte, lunga tanto da lambire il bagnasciuga della nostra quotidianità. Ma non così lunga da penetrare, da travolgere come in uno tsunami, quella dolente e distratta nostra quotidianità. Ci pensano, però, i politici a trasformare l'acqua dura, perché portatrice di morte, e limpida, perché il mare gioca a viso aperto con chi lo sfida, in un torrente di detriti e fango che ammorbano prima ancora di soffocare. Vi è qualcosa di altamente inquinante nelle parole di coloro che traggono profitto d'immagine dalla odierna sciagura. Essi invocano ancor più lassismo nella lotta all'immigrazione clandestina, anzi cercano sponda nel dramma per dire che il destino dell'Italia deve assomigliare a quello di una porta spalancata, divelta dai suoi cardini, attraverso la quale chiunque lo voglia potrà infilarsi. Perché noi siamo quelli che accolgono. Noi siamo quelli che vanno dietro alle parole di un sant'uomo fin tanto che si tratta di mettere in gioco la vita, la serenità e il diritto altrui, non di certo se poi si dovesse toccare la “roba nostra”, se dovesse costarci un infinitesimo di quello possediamo. Allora è un'altra musica. Noi siamo quelli che prendiamo per oro colato le lacrime e i “mai più!” scanditi da coloro che sulla gestione dei flussi migratori hanno costruito le proprie fortune politiche e professionali. Del resto è il momento atteso, oggi sono per loro le luci della ribalta. Sono corsi là, a passeggiare sulla banchina di Cala Salina o a sostare sul breve moletto della Sanità, tanto per fare passerella. A chiacchierare con i giornalisti. Scusi Santità le spiace se prendo a prestito una sua esclamazione? Vergogna! A rappresentare la realtà in questo modo, a far credere a tutti i disperati di questa porzione di mondo, che sta al di sotto delle nostre latitudini, che la via è libera e possono tentare la sorte perché da noi il premio è asscurato, c'è da non avere un cuore. C'è da non fregarsene un bel niente di quante altre tragedie siano pronte dietro l'angolo e quante si siano già consumate senza che le nostre anime belle venissero in qualche modo disturbate. Non bisogna essere una


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cima d'intelligenza per comprendere quanto sia decisiva, in questo campo, la deterrenza di una legislazione severissima che scoraggi in tutti i modi queste masse, ignoranti circa la sorte che li attende, a mettere a rischio la propria vita. Nulla avviene a caso e non basta il solo movente della disperazione a spiegare l'impatto di ondate migratorie sempre più consistenti e costanti. Anni orsono è stata la compianta Oriana Fallaci, insieme alla scrittrice Bat Ye'or, a disvelare i progetti dell'islamismo. La strategia di “Eurabia” è di sfruttare, con il sostegno occulto delle quinte colonne comodamente collocate da tempo ai vertici dell'establishment politico-finanziario del vecchio continente, il fenomeno migratorio per la progressiva occupazione dell'Europa. Obiettivo è di trasformarla, un giorno non lontano, in terra musulmana. D'altro canto nel cuore di ogni credente in Allah alberga il sogno che la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo possa essere riscritta con i caratteri della Shari'a, la legge dell'unico Dio, ricco in clemenza e abbondante in misericordia. Ora, noi queste cose le conosciamo e se fingiamo di ignorarle è solo per viltà o per bieco opportunismo. E, presi in una spirale di ipocrisia dilagante, ci acconciamo al buonismo, oggi di moda, molto politically correct, nell'inneggiare alla soppressione di quello straccio di leggi che ci siamo dati in altri tempi per opporre un argine fatto di granelli di sabbia a una marea montante. Se davvero volessimo aiutare quelle centinaia, se non migliaia di poveri cristi che quotidianamente rischiano la pelle per una traversata su vecchi legni marci, dove a fare da polena non c'è alcuna sirena, ma solo i segni della Morte, allora dovremmo riprendere seriamente il programma di respingimenti avviato con immane difficoltà nel 2009. Si torni, con le nostre unità navali, a pattugliare le coste e i porti di partenza, bloccando sul nascere i tentativi di approdo ai nostri lidi. Si ristabilisca il contatto con i governi di Libia e di Tunisia, perché alle forze d'intervento italiane sia consentito di verificare nei loro porti la presenza di imbarcazioni adibite al trasporto profughi. Le si sequestri e si provveda in loco alla loro distruzione. Si proceda con l'emissione di mandati di cattura internazionali per il reato di tratta di esseri umani, perché trasportare degli sventurati nelle condizioni in cui li vediamo arrivare cosa altro è? Un gesto di pietà? Sappiano le anime belle del buonismo nostrano che dietro il traffico di esseri umani ci sono le mafie e il terrorismo organizzato. Si proceda, una buona volta, a rivedere i rapporti di cooperazione con quegli Stati che consentono migrazioni di massa dai loro territori. L'ululante platea buonista potrebbe invocare la questione dei rifugiati politici. E' vero. Tra la moltitudine di migranti vi sono certamente anche dei richiedenti asilo per motivi umanitari. La tradizionale ospitalità italiana e le normative nazionali ed europee a riguardo ci impongono di prevedere l'accoglienza per coloro che chiedono asilo. Il problema, però, è che le nostre autorità consolari dovrebbero essere schiodate dai loro lussuosi uffici e mandate lì dove si formano i campi di raccolta dei fuggitivi. Si dovrebbe procedere a esperire l'istruttoria per la concessione d'asilo in territorio italiano prima che il richiedente s'imbarchi per raggiungere il nostro Paese. Capite la differenza? Capite quante vite umane verrebbero salvate se si procedesse in tal modo? Giacché gli aventi diritto all'accoglienza viaggiarebbero su unità di linea regolari in tutta sicurezza e pagando il giusto prezzo per il biglietto d'imbarco. Magari non pagandolo affatto. Sapete quanto è costato il viaggio a quegli sciagurati che andavano a morire ieri l'altro? Per la traversata sul

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ponte del barcone le fonti giornalistiche indicano la cifra di 1500-2000 €, per coloro che questa somma incredibile non l'hanno messa insieme c'era l'alternativa del viaggio nella stiva. Evidentemente quei 250 disgraziati che giacciono in fondo al mare, prigionieri nella pancia del barcone affondato, avevano staccato il biglietto di 2° classe. Tra i “servizi” di viaggio proposti dalla criminalità organizzata alla clientela vi sono anche altre opportunità. Per quelli ancora più poveri c'è la soluzione “una telefonata ti allunga la vita”. In pratica, i carnefici mettono a disposizione un gommone con un motore la cui autonomia non supera le quaranta miglia di navigazione. Ai morituri viene consegnata una bussola, del tipo di quelle che vengon fuori dalle uova di Pasqua, poi viene detto loro verso quale punto dell'orizzonte dirigersi, e viene dato un telefono cellulare con cui chiedere aiuto quando il motore tira le cuoia. Se i soccorsi, italiani, arrivano in tempo prima che il gommone sia colato a picco vuol dire che ce l'hai fatta, altrimenti che la tua anima riposi in pace e in fondo al mare. Sapete quanto ci fanno quei deliquenti, farabutti che gestiscono il business dei migranti? Secondo un reportage del Corriere della Sera, il giro d'affari si aggira sui tre-quattro milardi di dollari l'anno. E noi a chi stiamo aspettando per andare ad affondargli l'intera flotta di carrette che hanno a disposizione? Abbiamo la nostra forza armata impegnata su molti fronti caldi, in missioni di peacekeeeping. Alcuni di questi nel frattempo sono diventati freddi. Sarebbe opportuno, anche per dare un segnale forte alla Comunità Interanzionale che ci ha lasciato soli a gestire il problema dei flussi migratori, ordinare l'immediato ritiro di qualche contingente per spostare le risorse finanziarie, appostate in bilancio, al capitolo delle azioni di contrasto all'emigrazione clandestina in tutta l'area del Canale di Sicilia, fino al golfo della Sirte, alla Cirenaica e alla costa della Tunisia. E questa maledetta Unione Europea che ci sta portando, per diversi motivi, all'esasperazione batta un colpo, dia un segnale di esistenza in vita. Non si limiti alle solite bacchettate, dal retrogusto razzista, contro le tante incapacità degli italiani. Proprio mentre si consumava l'ultima tragedia in mare, quelli della Commissione di Bruxelles tiravano fuori l'ennesimo documento di condanna dell'Italia per il modo, a loro parere sbagliato, con cui il nostro Paese sta gestendo il problema dei flussi migratori. E questo è il ringraziamento perché noi i disgraziati cerchiamo di salvarli anziché sparargli addosso come fanno maltesi, greci e spagnoli. Ma che schifo quest'Europa qui! E' dire che sono stato e sono un convinto assertore del sogno dell'unificazione degli Stati europei in un'unica grande e potente nazione. Ma come? Ma quando? Ho iniziato questa riflessione citando il titolo di un canto che non mi appartiene. L'ho scelto apposta perché appartiene a loro, a quelli che oggi sono saldamente al potere e sono in grado di fare il bello e il cattivo tempo per i nostri destini. E a loro che mi rivolgo e dico: “ Pietà l'è morta”. Per voi non vi può essere più alcuna considerazione che vi giustifichi. Perché l'ipocrisia e la falsità con cui coprite i vostri sinistri disegni sono divenute insopportabili anche per un uomo tranquillo che non ha grilli per la testa. Figurarsi per un guerrafondaio della peggiore risma, quella stessa della Fallaci per intenderci. Confesso di essere un “guerrafondaio”. Confesso di preferire che le nostre navi stiano a cannoneggiare pirati e trafficanti, oggi tranquillamente rintanati, ad


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ammassare ricchezze rubate, nelle loro tante Tortughe sparse lungo la costa del Mediterraneo meridionale. Confesso di desiderare severità verso coloro che mettono a rischio la propria vita e quella delle loro famiglie per perseguire una fantasia oggi non più realizzabile. Confesso che vorrei vedere il mio governo essere implacabile contro questa mala genia di criminali e di mercanti di morte. Confesso che quei deliquenti da patibolo li vorrei vedere marcire in oscure prigioni di cui si sono perse le chiavi. Allora, mi rivolgo a voi, pacifisti dei miei stivali! Prima di provare orrore per le mie parole, prima di darvi allo sdegno e agli sputi (siamo in democrazia. Potete farlo, è vostro diritto) per queste “esecrabili” asserzioni, con quel po'di buon senso avanzato dopo tante overdose di ipocrisia e di buonismo, rispondete a questa domanda: rischia di portarsi più morti sulla coscienza chi pretende che il proprio Paese difenda i suoi confini con ogni mezzo, annichilendo ogni falsa e illusoria speranza, oppure chi con tanto buon cuore vuole dare l'illusione che da noi sia facile venire, che… poi che sarà mai questa traversata? Una piccola gita in barca ed eccoti in paradiso. Appunto, in paradiso. Non sono cattolico, ciò nonostante spero che davvero ci sia da qualche parte, in un'altra dimensione, un posto migliore dove quei tanti disgraziati a cui è stata troncata la vita in modo così brutale, abbiano a stare un po' meglio di quanto non siano stati quaggiù. E riposino in pace. Arktos

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GUIDA IN STATO DI EBBREZZA La politica, indubbiamente, è l'arte del possibile. Essa, tuttavia, deve coniugarsi con la fantasia perché, altrimenti, diventa sterile. E' il caso delle vicende recenti di Scelta Civica e dell'ex PdL. In questo gioco di sollecitazioni verso il Governo, giuste o meno che siano, Monti ha pensato che, per dare visibilità alla sua gente, qualche critica nei confronti dell'Esecutivo non ci stava poi male; sarebbe servita a far ricordare la sua esistenza e il peso della sua formazione quando persino soggetti del Pd, vedi Fassina, lamentano scarsa collegialità. Si è, tuttavia, dimenticato che il suo partito è fatto di gente di disparata provenienza la quale, abituata alla (pseudo) politica da più tempo del Professore, non ha gradito le critiche mosse alla Legge di stabilità. Era un disturbo per il Presidente del Consiglio e per la compagine al lavoro, nella consapevolezza che più di quello emanato dal Governo non è il caso di fare. E non perché quelle critiche, dal punto di vista del Professore, non fossero giuste. Del resto, la legge di stabilità è contestabile da due punti di vista diametralmente opposti: contiene pochissimo sul piano della giustizia sociale e, al contempo, pochissimo sul piano della ripresa economica. Le valutazioni del Professore, quindi, da buon praticante del neoliberismo “riformista”, non erano quindi tanto ingiustificate. Eppure, una pattuglia di ben undici parlamentari di quel partito ha firmato una lettera di dissenso verso Monti il quale ha pensato bene di dimettersi e passare al gruppo misto, lasciando al timone della Scelta il suo vice nonché vice presidente di Confindustria, Alberto Bombassei. In aggiunta a quelle della pattuglia, ha apposto la sua riverita firma anche Casini che, da buon democristiano, sa perfettamente che per mantenersi sulla cresta dell'onda, visti gli insuccessi elettorali, deve inventarsi un nuovo, vecchio, percorso: quello della formazione di un Ppe italiano nel quale confluire insieme ad altri soggetti di ambedue gli schieramenti. Altrimenti, per gli ex centristi non c'è futuro. Mario Mauro, ex centrista, ex pdl, attuale ministro in quota Scelta Civica, ha pensato bene, infatti, di dichiarare non solo l'appoggio incondizionato al Governo, ma anche di auspicare la nascita di un soggetto che superasse, inglobandoli, Scelta Civica et similia: in sostanza, l'appendice italica del Ppe, appunto. Dichiarazioni, queste, che hanno suscitato le ire di Monti, che, da liberistica “atlantico” ha poco a che spartire con il “centrismo popolare europeo”. E' una fine ingloriosa quella del bocconiano, dalle stelle alle stalle, ma la colpa è certamente anche sua: non ha voluto provare a unire i moderati, quando gli era stato, sia pur strumentalmente, proposto anche dal Ppe e oggi ne paga le conseguenze. Questo dimostra


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quanto poco capisse di politica quel soggetto: praticamente, nulla. Credeva che la sua aura di professore, di economista, di frequentatore di esclusivi clubs internazionali, di appartenente a think tank mondialisti, lo ponessero al riparo dagli incantesimi degli stregoni. In realtà, di Monti alla sedicente politica non gliene mai fregato più di tanto: è servito a togliere le castagne dal fuoco, nella maniera peggiore, e a fungere da locomotiva per due cespugli, uno di centro, l'UDC, e l'altro di destra, il FLI: il primo l'ha salvato mentre il secondo si è perso da solo. Svolto tale ruolo, ha continuato a credere che la sua Agenda potesse contenere i dettami per ricostruire l'Italia, più bella e più nuova che pria, avrebbe detto Petrolini. Non ha neppure capito che il contenitore di Scelta Civica sarebbe servito, come in effetti è stato, quale ulteriore occasione nella distribuzione a ventaglio di uomini sensibili al popolarismo europeo; una distribuzione necessaria in epoca d'incertezze, non tanto per il salvataggio di soggetti quanto per aumentare le possibilità di controllo dello scenario. Messo fuorigioco Monti, che avrebbe potuto disturbare, possono iniziare le grandi manovre, le prove generali, in attesa della prima. Una prima che, tuttavia, potrò ovviamente sbagliare, non avrà successo. La fanteria italica continuerà a dormire, a interrogarsi poi se sia opportuno partire dopo colazione o fare colazione in viaggio, vorrà sapere dov'è il successivo pit-stop e se sarà fornito, qual è l'approdo finale e quali ricompense là l'attendono. E' noto che i maggiorenti del Ppe sono tedeschi. Eppure, nella stessa Germania la vittoria della Merkel ha in ogni caso comportato la necessità di allearsi con i socialisti per poter governare. Figuriamoci in Italia, dove le coalizioni che si sono fronteggiate in questi ultimi venti anni erano e restano composte al loro interno da una miriade di soggetti, più dediti all'opportunità che al sentimento. Per non parlare delle stesse grandi, con virgolette e senza, formazioni partitiche i cui appartenenti espongono sensibilità tra le più disparate. Certo, se al prossimo congresso del Pd dovesse vincere un uomo dalla netta, forte connotazione di sinistra, sarebbe pensabile che soggetti del livello di Letta, Bindi, Franceschini etc., etc. si sentano un tantino i panni stretti. Ma non credo che ciò accadrà: anzi, è probabile che la vittoria di un moderato di sinistra convogli da quella parte più gente di quanta non ne tolga. Il problema, semmai, è per le scarne formazioni di centro, Scelta Civica e UDC. Parte di Scelta Civica ha già dichiarato i suoi intenti: l'altra parte sceglierà al momento tra le diverse possibilità. L'aspetto più paradossale, in ogni caso, resta l'UDC dove il suo deus ex machina, infognato come sempre nei suoi astrusi convincimenti, si troverà davanti una spiacevole sorpresa dal momento che già ora i suoi colonnelli stanno sondando il “moderato” di sinistra, il soggetto rinascimentale, per contrattare eventuali accasamenti. Il clou è rappresentato da Forza Italia. E' lecito pensare che Angelino Alfano sia tentato dal progetto popolarcentrista e con lui diversi soggetti: tanto, ormai, Forza Italia è agli sgoccioli. Resta, comunque, il fatto che le anime forzitaliote sono variegate: i socialisti che faranno? E i liberali? Senza considerare che tra gli ex democristiani non tutti sarebbero favorevoli per la dependance popolare.

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E' ovvio che il Ppe propenda per la costruzione di una casa italiana e che sarebbe persino disposto a dare il benvenuto al Cavaliere nazionale, nella speranza che, insieme ad Alfano, giungano all'approdo ulteriori anime in libertà, legate all'immarcescibile Silvio. Se però guardiamo la composizione dei superfalchi, il seguito di ognuno con Silvio è qualcosa, ma forse non più bastante per tornare in parlamento. Senza Silvio è pari a zero. Come detto, non credo che la dependance popolare possa essere costruita in Italia. Oddio, ci possono provare, anzi, sicuramente ci proveranno. Spaccheranno schieramenti vecchi e nuovi e questo è un bene. Ma in sede di ricomposizione credo che la strada sia ancora lunga e tortuosa. Anche perché ritengo che l'italiano, da sempre panciafichista, non capirebbe le sottigliezze dell'operazione. Penso, invece, che in termini di consenso elettorale futuro possano avere maggiori chance schieramenti con una forte caratterizzazione. Non vetero ma distinguibile l'una dall'altra. In più penso che ulteriori chance possa averle una formazione che si richiami al significato della tradizione, dei valori e degli ideali. In sostanza, che pensi di tornare a educare questo popolo, a concepire per esso un futuro, a renderlo padrone e sovrano delle proprie scelte, certo rispettoso delle regole della casa comune europea, ma anche importante artefice delle stesse e non semplice succubo. Dove sarebbe la differenza tra l'uno e l'altro, ferma restando la cosiddetta democrazia dell'alternanza? Non nelle cure per questo Paese che, al limite possono essere anche uguali, ma nel carattere collettivo dopo che il malato è guarito, nelle caratteristiche della personalità, nei segni distintivi dell'italianità. Forse i miei sono pensieri in libertà. Chi vivrà vedrà. Anche perché la guida in stato di ebbrezza, può procurare notevoli danni ma, alla fine, il driver è punito. Speriamo solo che il Paese resista alle svendite. L'Infedele


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MELIUS RE PERPENSA Nel precedente numero di questa rivista, facevo una previsione: il PdL, o Forza Italia che dir si voglia, era per me l'unico partito che, a differenza degli altri, avrebbe potuto passare all'incasso nelle future elezioni, vicine o lontane che siano. E ciò perché quel partito avrebbe potuto, giustamente, rivendicare il suo senso di responsabilità giunto addirittura a formare un governo con il nemico di sempre, avrebbe potuto, correttamente, inalberare il rispetto dei suoi punti programmatici (IVA, IMU, ecc.), avrebbe potuto, onestamente, additare all'attenzione delle genti un comportamento, sia della magistratura che degli organi parlamentari, alquanto discutibile, avverso il suo capo storico. Ebbene, sono costretto a rivedere la previsione perché mai e poi mai avrei potuto supporre che con il sovrano ancora imperante, con l'aula ancora silente circa il verdetto finale, quel partito si sarebbe diviso addirittura in cinque gruppi che, per quanto si affannino a dichiararsi tutti per l'unità, esprimono altrettanti punti di vista, certamente oscuri, ma apparentemente inconciliabili, dichiaratamente pronti a separarsi se i loro postulati non saranno accettati dagli altri. Il re è morto. Viva il re. Ma quale? Dov'è un altro capo del livello di Berlusconi, nel bene o nel male, dotato di “grana” (tanta), capace di resistere venti anni agli attacchi più o meno motivati della magistratura, scadere dall'attenzione degli italiani, insieme al suo partito, solamente quando aveva ventilato la decisione di abbandonare la politica, e capace, poi, con un guizzo, di riportare se stesso e il PdL a vincere? Diciamolo. Non c'è. Certo, non sarebbe stato opportuno che il governo fosse caduto per le vicende berlusconiane, ma il problema non è risieduto nel fatto che gli italiani non avrebbero capito l'uscita del PdL bensì nel fatto che a non capire sarebbero stati i mercati o, meglio, se ne sarebbero fottuti, e avrebbero giudicato questo Paese totalmente inaffidabile, con le prevedibili conseguenze. Perciò, si potrebbe pensare ad un forte senso di responsabilità da parte dei ministri di destra e questa sarebbe la dichiarata parte nobile della scelta di rimanere. In realtà, c'è da credere che la motivazione effettiva sia un'altra: non si può andare al voto. E non perché manca la riforma elettorale quanto perché tale riforma non è interesse di alcuno degli schieramenti a vararla. Il Pd ha le sue beghe interne che, forse, risolverà nel prossimo mese di dicembre con il congresso. Il PdL, o Forza Italia che dir si voglia, ha anch'essa all'improvviso dimostrato di averne, con la differenza, rispetto al Pd, di essere priva sia di un obiettivo congressuale sia di una dirigenza di livello che, credibilmente, possa sostituire il capo, su ogni piano.

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Non so perché i cinque gruppi di “liberi” pensatori di Forza Italia abbiano scelto nomi fantasiosi come alfaniani, mediatori, super colombe, lealisti e falchi: anche perché non si comprende cosa sottendano tali etichette. Il picciotto siciliano ha tirato fuori gli attributi, ma con Brunetta, Schifani e Lupi, sotto l'egida degli “alfaniani” dove vogliono andare o cosa vogliono fare? Boh! E i mediatori, con Romani, Matteoli e Gasparri, tra chi o per cosa devono mediare? Per non parlare dei lealisti con Fitto, Carfagna, Prestigiacomo, Gelmini e, da non credere, la Mussolini, che non si capisce verso chi o per cosa vogliano dimostrare lealtà. Il massimo lo si raggiunge con gli altri due gruppi dove, si pensi, tra le supercolombe troviamo l'accigliato Cicchitto e tra i falchi un pacifico Bondi. Peraltro, l'unico finora che, in un eventuale futuro congresso, ha ventilato la possibilità di candidarsi a Segretario in contrapposizione ad Alfano è il lealista Fitto. Figuriamoci. Mi torna in mente la sua candidatura a Governatore della Puglia nel 2000 contro l'ulivista Giannicola Sinisi: lui, figlio di una potente famiglia salentina con forti radici democristiane (il padre, presidente di quella regione tra il 1985 e il 1988) vinse con il 53,9%. Nel 2005, invece, da Presidente in carica, perse contro l'esponente dell'estrema sinistra Niki Vendola, con uno scarto di appena 14.000 voti (0,6%). Evidentemente, non piacque a molti o, se si vuole, quasi centomila dei suoi precedenti votanti preferirono, allora, un signor nessuno. Una situazione, quella di cui sopra, talmente caotica e persino paradossale da indurre il Cavaliere, pronto a staccare la spina a Letta, a rimangiarsi la decisione, a esprimere la volontà di non legare la sua vicenda giudiziaria con le sorti del governo e a dichiarare la sua fiducia all'attuale esecutivo, con il Presidente del consiglio che, a quelle parole, se ne usciva con un sarcastico “Grande!!” davanti ad Alfano che gli sedeva a fianco sui banchi del governo, mentre il Cavaliere, al termine dell'intervento, veniva colto da un moto di pianto. L'ho detto un'infinità di volte e, con me l'hanno ripetuto colleghi articolisti: non amo il cavaliere. Per nulla. Ma ora, quasi quasi, comincio a parteggiare per lui. Ma quanta confidenza…… soggetti che, in termini di subordinazione, erano più appecoronati delle olgettine, anche se pagati meglio sebbene meno avvenenti, si scoprono condottieri di se stessi mentre sedicenti fedelissimi (falchi), a mettere insieme i loro voti senza il cavaliere, non arriverebbero a essere eletti in un consiglio comunale. Un vero e proprio pianto. E' un dispiacere aver vissuto la fine della destra e del centro destra nelle loro forme partitiche: la prima ad opera di un vanesio e la seconda per colpa di fantasiosi nani megalomani. Ed a salvare quel mondo, purtroppo, non saranno i confessionali alla Lupi, non serviranno i saggi (sic) alla Mattioli o gli pseudo efficientisti alla Gasparri, né i falchi camuffati da colombe alla Cicchitto, né tantomeno le colombe truccate da falchi alla Bondi. E nemmeno basteranno gli affaristi alla Verdini o i riflessivi alla Schifani. Ed il bello (sic) è che neppure gli strumentali richiami patriottistici di Fratelli d'Italia serviranno a rallentare la débâcle: almeno fino a quando a guidare quel raggruppamento vi saranno soggetti che, tra le inflessioni romanesche e siciliane, hanno significativamente contribuito alla fine di quei mondi e al ristagno del nostro Paese.


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Sì! Lo confesso. Mi sono proprio sbagliato. Forza Italia, appena rinata, è già morta. Ma quel che più importa, alla fine, sono le sorti di questo Paese che non merita una classe dirigente come quella attuale perché, leviamocelo dalla testa, non si risanano le condizioni italiane con un nuovo commissario per la spending review, né con il bizzarro decreto del fare. E' un tirare a campare in attesa che il Pd faccia il suo congresso, il M5S sia consumato ed escano da Forza Italia raggruppamenti per costituire gruppi autonomi. E' certamente la fine della 1.a Repubblica che, entrata in coma nel 1992, ha impiegato vent'anni a tirare le cuoia. La 2.a Repubblica è tutta da costruire, ma su un aspetto spero di non sbagliarmi ancora: gli artefici potranno essere solo soggetti non contaminati, nemmeno dalle superate dizioni di destra e sinistra che, ormai, non hanno più significato alcuno. Questo Paese, che cade a pezzi, ha bisogno di uomini nuovi, di homines novi, che in forza delle loro ponderate capacità, riescano a vincere contro i Germani. Altrimenti, non ci resta che aprire un outlet. Francesco Diacceto

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ACCORDO SEGRETO USA-RUSSIA Israele continua a mostrare preoccupazioni per il programma nucleare iraniano: al di là degli strali e dei continui moniti del premier Benjamin Netanyahu ribaditi in occasione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, resta aperta la questione della centrale atomica di Bushehr, nella parte sud-occidentale dell'Iran, attivata lo scorso 23 settembre dalla Rosatom russa. In realtà la costruzione dell'impianto è partita nel 1975 ad opera di ditte della Germania federale (Ag Siemens, TyssenKrupp ecc.), ma la Rivoluzione del 1979, la guerra con l'Iraq e le accuse della comunità internazionale di utilizzare il materiale nucleare per la fabbricazione della bomba atomica, ne hanno ritardato il completamento con un continuo passaggio di mani e di contratti fra varie aziende, fino alla sovietica Atomstroyexport e poi alla Rosatom. Si tratta della prima centrale nucleare iraniana, come pure del Medio Oriente, ed è equipaggiata con un solo reattore di tipologia VVER1000 da 915 MW; altri tre reattori non sono ancora stati completati. La centrale è stata garantita per due anni e vi sono ingegneri e personale russo per formare gli incaricati iraniani del funzionamento. La centrale non è soggetta alle restrizioni dell'Aiea in quanto è appurato lo scopo civile dell'impianto e l'Iran ha l'obbligo di consegnare alla Russia il materiale radioattivo di scarto. Tuttavia l'attivazione della centrale di Bushehr non è andata giù ad Israele, il quale vi vede un accordo segreto fra Mosca e Washington. Infatti, secondo il noto DebkaFile, giornale che si rifà costantemente a fonti governative israeliane, lo stesso Sergei Kiriyenko, direttore dell'agenzia atomica Rosatom, sarebbe l'anello di congiunzione fra Russia, Usa e Iran sulla questione Bushehr. Durante l'estate lo stesso Kiriyenko, che è uno dei consiglieri più fidati di Putin, ha vissuto fra Mosca, Teheran e, appunto, Bushehr, dove vi avrebbe istituito un team di scienziati nucleari russi in grado di parlare persiano, sui quali appoggiare la revisione dei progetti nucleari iraniani. Senza che ne fosse stata data pubblicità, l'accordo fra gli USA e la Russia prevede l'applicazione in Iran della stessa formula utilizzata per le armi chimiche in Siria e già gli scienziati di Kiriyenko starebbero redigendo una mappa degli armamenti, non ancora terminati, presenti nella Repubblica degli ayatollah. In Siria, accanto ai periti dell'Opac, sarebbero stati inviati anche esperti russi e così su un accordo che ha interessato Washington, Mosca, Teheran e Damasco, sarebbero ora due le squadre russe al lavoro per censire sia l'arsenale chimico siriano, che il potenziale nucleare iraniano.


GEOPOLITICA

L'attivazione della centrale atomica serve quindi anche come copertura per l'intervento dei russi in Iran, mentre Kiriyenko sarebbe stato incaricato da un documento congiunto russostatunitense di discutere con Teheran le eventuali contestazioni sul programma nucleare iraniano e cosĂŹ giungere il 15 e il 16 ottobre a Ginevra all'incontro del “5+1â€? (Francia, Russia, USA, GB, Cina + Germania) con l'Aiea (Agenzia atomica internazionale) e l'Iran con qualcosa di concreto in mano. Il raggiungimento di un accordo farebbe decadere le sanzioni che stanno strangolando l'Iran ormai da parecchi mesi. Enrico Oliari

audacia temeraria igiene spirituale

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I MARÓ DIMENTICATI Vi ricordate dei nostri marò trattenuti in India contro la loro volontà? Vi ricordate di Salvatore Girone e di Massimiliano Latorre? Di cosa sono accusati dalla “giustizia” indiana? Di aver fatto il loro dovere. Qual è la loro colpa? Essere italiani. Proviamo a ricostruire ciò che è accaduto. Il 15 febbraio 2012, i fucilieri del Battaglione San Marco, imbarcati, in missione di protezione, sulla Nave mercantile battente bandiera italiana “Enrica Lexie”, comunicano di aver sventato un tentativo di abbordaggio del mercantile, posto in atto da pirati a circa 30 miglia a Ovest della costa meridionale indiana. I fucilieri, recita il comunicato, sono intervenuti secondo le procedure di “warning shots” ottenendo che l'imbarcazione assalitrice si allontanasse dalla unità italiana. Dopo alcune ore il comandante della nave, un napoletano pignolo e con un senso del dovere maniacale, trapiantato in costiera sorrentina che quando non naviga passa il tempo tra le piante di limoni e gli ulivi del suo panoramicissimo “buen retiro”, riceve l'ordine dalle autorità indiane d'invertire la rotta e di gettare le ancore nel porto di Kochi per rendersi disponibile, è questa la prima menzogna degli indiani che giocano a fare gli indiani, all'identificazione degli assilitori i quali, nel frattempo, sarebbero stati individuati e arrestati. Però! Che premurosi questi indiani. Per enfatizzare l'accoglienza alla nave italiana inviano in acque internazionali due pattugliatori della loro Marina e due elicotteri che si mettono a ronzare sulla testa dei nostri marinai. Ma Umberto Vitelli, questo è il nome del comandante della nave, sente puzza di bruciato. Dopo un bel po' di tempo passato a spugnarsi leossa in tutti i mari del globo, è troppo smaliziato per non rendersi conto che gli “amici” indiani stanno combinando qualcosa di spiacevole. Allora lui che è uomo d'ordine e conosce il codice non scritto di chi va per mare, sa perfettemante cosa sia e come funzioni una gerarchia funzionale. Perciò comunica ai suoi referenti in Italia la situazione e pretende, anche per prendere tempo, che la richiesta di rientro nelle acque territoriali indiane gli venga formalizzata per iscritto dalle competenti autorità locali. Intanto la macchina dell'unità di crisi viene immediatamente attivata. Tutti parlano con tutti. Alla fine si decide di accettare la richiesta indiana, anche perché ci sono gli elicotteri che continuano a ronzare sulla plancia di comando e poi, si sa, l'India è un paese amico per cui non c' è nulla di cui doversi preoccupare. Amico…un piffero! Una volta in rada i nostri connazionali apprendono la verità sulla manfrina dell'identificazione dei pirati. L'autorità di polizia di Kochi accusa gli italiani di aver aperto il fuoco contro un pacifico


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peschereccio indiano, e di aver ucciso due pescatori. Per questo motivo sequestrano i passaporti dell'intero equipaggio e intimano al comandante e ai militari imbarcati di scendere a terra per rispondere delle accuse loro contestate. In un primo momento i nostri si rifiutano. A bordo sale il console italiano, Giampaolo Cutillo. La situazione sulla banchina del porto si presenta incandescente, una folla di poveracci è lì a ululare e a fare gli indemoniati. Certamente sono istigati da qualcuno. Di là a poco si scoprirà che nello Stato del Kerala, di cui la cittadina portuale di Kochi fa parte, è in corso una campagna elettorale molto vivace. Le formazioni della sinistra, ancora marxista, si battono contro il Partito del Congresso di Sonia Gandhi la quale, com'è noto, ha origini italiane. Che occasione per la propaganda! Corrotta lei, assassini i suoi compaesani. La ricostruzione dei fatti compiuta dalle autorità locali fa acqua da tutte le parti, ma l'aria che si respira è quella della trama già scritta e della trappola in cui i nostri poveri connazionali sono cascati come i pesci nelle reti dei pescatori che avrebbero mitragliato. Ufficialmente gli inquirenti sostengono di aver ricostruito l'accaduto. Due militi italiani, in vena di caccia alle anatre, avrebbero materialmente fatto fuoco su una pacifica barchetta di onesti pescatori facendone secchi due. Il magistrato locale ordina l'arresto dei due marò. I diplomatici italiani dopo la prima fase di stordimento finalmente si rendono conto della realtà di un Paese che ha deciso di mostrare la propria forza ingaggiando un braccio di ferro con l'Italia. Come prima volta per un' esibizione muscolare hanno scelto una controparte non troppo ostica, anzi decisamente inoffensiva. L'avessero fatto con qualcun altro, americani, isaeliani, cinesi o anche, più modestamente, francesi, già si sarebbero alzati in volo i bombardieri. Se avessero pestato i calli a un Paese esportatore di petrolio, per rappresaglia, sarebbero stati chiusi i rubinetti delle forniture di cui l'India ha grande bisogno per il suo sviluppo industriale. Se pure si fosse trattato di un'unità battente bandiera svizzera, vi sarebbero state delle ripercussioni pericolose visto che la Svizzera conserva nei suoi forzieri anche denaro indiano. Ma l'Italia. Cosa potrà mai fare la piccola Italia? Così dopo quattro giorni di tira e molla, nonostante l'arrivo di una delegazione di governo italiano, presa, è il caso dirlo, letteralmente a pesci in faccia dalle autorità locali e centrali dell'India, arriva il preannunciato colpo di scena con il botto finale: la polizia di Kochi il 19 febbraio lancia un ultimatum all'equipaggio: i marò ritenuti marteriali esecutori della sparatoria sono Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. Devono consegnarsi entro l'orario stabilito dalla polizia, ma non lo fanno. Scaduto il termine gli agenti salgono a bordo della “Enrica Lexie” e arrestano i due sotto gli occhi di tutti, in diretta planetaria. Nel mesto corteo che accompagna i nostri ragazzi, anche il comandante Vitelli e il personale diplomatico italiano. L'unica cosa che i nostri negoziatori riescono a ottenere, non senza fatica, dagli indiani è che i due marò non vengano ristretti in carcere come comuni delinquenti. I due sono consegnati in un alloggio del locale circolo ufficiali. Da quel momento ha inizio per l'Italia una vicenda che se non fosse drammatica sarebbe farsesca. Mentre le telecamere inquadrano un'orda di aborigeni scalmanati che esultano per la grande vittoria ottenuta, siamo in molti che restiamo incollati alle immagini risputate dal

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satellite, pietrificati innanzi agli schermi. L'etere ci restituisce le sagome di due italiani in tuta mimetica e basco d'ordinanza, spalle dritte, che in tutti modi si adoperano per tenere alto il glorioso stemma del “San Marco”, come se temessero che a contatto con quella massa vermicolante il “leone alato” potesse contaminarsi. Che pena! Che umiliazione! E il governo italiano, la nostra politica, la nostra diplomazia dove sono? L'Italia istituzionale messa davanti alle proprie responsabilità per un atto assolutamente arbitrario e ostile delle autorità indiane si è liquefatta come neve al sole. Semplicemente non è esistita, oltre la buona volontà di qualche personaggio d'esperienza spedito laggiù per tentare di ottenere qualcosa rimettendosi al buon cuore degli indiani. Mai pensiero fu più futile, speranza più illusoria, diritto più negato. Da quel 19 febbraio sono trascorsi quasi venti mesi. Non posso farvi la cronaca quotidiana, come vorrei, di questo tempo infinito scivolato via senza che nulla di definitivo e di serio avvenisse per restituire ai nostri ragazzi la libertà e al nostro Paese l' onore, colato a picco nella rada di Kochi in un soleggiato pomeriggio di febbraio del 2012. Eppure, vorrei risparmiarvi il ricordo di quel goffo tentativo, un po' da magliari, un po' da sprovveduti, tentato dall'allora primo ministro Mario Monti, d'intesa con il titolare del dicastero della Difesa, già ammiraglio Giampaolo di Paola e con quello agli esteri, Giulio Terzi di Sant'Agata, ma non è possibile. Ne risentirebbe la ricostruzione degli eventi. E' il 23 febbraio di quest'anno. In Italia si vota. L'uomo del destino e della Merkel, Mario Monti, è sceso anch'egli in campo. Pensa di ritornare nelle austere stanze del Quirinale, dal suo mentore, con la testa cinta dell'alloro del vincitore. I sondaggi, però, dicono altro. Dicono che la testa sì, la cingerà non con l'alloro ma con immacolate bende e cerotti riparatori. Allora, l'ideona. Dopo aver supplicato il governo indiano che li rispedisse a casa in licenza per consentire loro di esercitare il diritto di voto e di riabbracciare i familiari, i nostri politici – magliari cosa fanno? Innanzitutto, si fanno fortografare sottobraccio coi marò appena giunti in Italia. Li accolgono con enfasi eccessiva, stette di mano e pacche sulle spalle si sprecano. Poi si affrettano ad annunciare che l'Italia intende risolvere la questione in via definitiva. E' una nazione dalla schiena dritta, la nostra. E' tosta. Non si fa bagnare il naso come un pivello qualsiasi alle prime armi. Le dichiarazioni che si susseguono sono forti, roboanti, lasciano presagire che questa volta l'asso nella manica ci sia davvero e sia pronto per essere messo giù. Gli indiani che saranno pure indiani ma non sono fessi, non si scompongono. Hanno nelle mani un affidavit che in via precauzionale avevano fatto firmare al nostro ambasciatore a New Delhi dal quale risulta che, il nostro diplomatico, Daniele Mancini, si rende personalmente garante del rientro in India dei due militari allo spirare del tempo concesso per la licenza. Intanto l'Italia vota, e sappiamo com'è andata. A questo punto Monti, che ha dovuto rinunciare alla corona d'alloro dei Cesari, dovendo gestire comunque il dossier marò, decide, l'11 marzo, di comunicare alle autorità indiane la decisione che il personale militare italiano non farà ritorno in India. L' Italia è in giubilo. Finalmente una decisione di forza. Peccato solo che sia sporcata dalla modalità con cui è stata realizzata, col venir meno cioè a una parola data. Ma si sa siamo italiani, siamo abituati a non rispettare i patti. L'Italia fa la voce grossa, ma per canali riservati il governo fa


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sapere all'omologo indiano di essere pronto a incardinare un arbitrato internazionale per risolvere il contenzioso aperto. Certo, andava chiesto prima l'arbitrato internazionale, anzi subito dopo che le intenzioni indiane si erano rese evidenti. Non importa, meglio tardi che mai. Gli indiani, cogliendo l'opportunità di un altro calcio nel sedere a questa Italietta da avanspettacolo, respingono al mittente la proposta di arbitrato e intimano al nostro ambasciatore - garante di non lasciare il Paese. Praticamente lo arrestano. Meglio di così l'Italia non poteva fare. Morale della favola, dopo il ruggito del coniglio, il governo fa retromarcia e rispedisce gli increduli marò, che già assaporavano il piacere del definitivo ritorno alle proprie case, alla prigionia indiana. La decisione del “ contrordine compagni! “ l'hanno presa il premier, sentito il Capo dello Stato, vero “dominus” di questa partita come delle altre giocate in questi ultimi anni, il sottosegretario De Mistura che è il mezzo straniero - mezzo italiano a cui il governo ha affidato la rappresentanza dei suoi interessi nella vicenda, e i ministri economici, guidati da Corrado Passera. Particolare interessante, quello della partecipazione dei titolari dei dicasteri economici alla decisione, vi faremo ritorno in seguito. Contrari alla retromarcia si dicono Di Paola, che sente la pentola a pressione, che segna l'umore dei nostri uomini e donne in armi, essere prossima all'ebollizione, e Terzi. Quest'ultimo, in un sussulto di dignità, si presenta alla Camera dei Deputati e rassegna le dimissioni da ministro degli Esteri nelle mani del Parlamento. Un gesto anomalo per dare un calcio negli stinchi al premier che lo aveva esautorato nella gestione del dossier indiano. Così la farsa diventa sceneggiata. Sono passati altri mesi, ma della vicenda marò si preferisce non parlare. E' ancora un'inchiesta assurda che gli indiani si guardano bene dal concludere perché a loro fa gioco così. Anzi, di recente hanno rilanciato, alzando la posta. Col pretesto della conclusione della fase istruttoria le autorità giudiziarie hanno chiesto di sentire anche gli altri marò presenti al momento dell'incidente in mare. Per raccogliere le loro deposizioni, che peraltro furono già rese all'epoca dei fatti, li vogliono lì. L'attuale governo, che, tra i tanti impicci ereditati da quello precedente, certamente annovera anche un fastidioso indolenzimento al fondoschiena per il calcio ricevuto mesi orsono, è terrorizzato all'idea di spedire anche gli altri quattro marò a New Delhi. Teme, il nostro esecutivo, che gli indiani facciano gli indiani e con la scusa delle deposizioni si tengano anche gli altri militari. Per questa ragione sono giorni che l'ineffabile Staffan de Mistura sta lì in pianta stabile per convincere le autorità locali ad accettare una diversa forma di testimonianza, magari via telematica con un collegamento in video. Oppure, recandosi gli inquirenti in Italia ad ascoltare dal vivo i nostri ragazzi. Niente da fare, gli indiani fanno gli indiani e quei poveri disgraziati di Latorre e Girone sono ancora lì a pagare per qualcosa che non hanno fatto, avendo agito secondo le regole, il diritto e il buon senso. Questa brutta storia ci pone domande che attendono risposte. 1. E' giusto prendersela con gli indiani per quel che sta accadendo? Si, ma fino a un certo punto. Hanno attirato i nostri in una trappola e hanno fatto di tutto per umiliare il nostro Paese. Per questo sono imperdonabili. In passato una simile grave offesa sarebbe stata lavata col sangue. Oggi non più. Col tempo, si sa, le cose cambiano. Ma, per altro verso, è comprensibile che una

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potenza commerciale emergente qual è l'India, dopo essere stata per secoli sotto il tallone del colonizzatore britannico, dopo che la propria popolazione ha vissuto nella povertà e nel degrado, vittima di ogni sopruso e angheria possibile subita per mano degli occupanti, desideri pur dare un segnale di forza mettendo sotto un Paese espressione di quell'Occidente, sempre poco amato e molto temuto. Si sono comportati da primaria potenza planetaria mostrando i muscoli e prendendo a schiaffi gli italiani mentre, nel contempo, si facevano consegnare dalle autorità congolesi i propri militari che, impegnati in una missione di pace ONU, erano stati arrestati con l'accusa di abusi sessuali e di stupro in danno di donne congolesi. Esito: i turbanti blu affronteranno il processo a casa loro e non saranno giudicati dalla giustizia del Paese africano. E tanti saluti alle povere vittime che, se vorranno guardare in faccia i loro stupratori un tempo travestiti da missionari della pace, dovranno imbarcarsi in un viaggio ultraoceanico e ultracostoso. Per i nostri marò, invece, ce n'è voluto per farli trasferire dal Kerala a New Delhi. Era più comodo averli disponibili a Kochi, a portata di insulti e di sputi. 2. Questo dei marò può essere classificato come episodio isolato nella lunga storia politico diplomatica del nostro Paese? Purtroppo no! Se soltantop si considerano gli ultimi due anni si possonono enumerare un cospicuo numero di sconfitte e umiliazioni subite in campo internazionale. Già il 2011 era partito male. L'anno si è aperto con una sberla data dal presidente brasiliano Lula in piena faccia all'Italia. Come ultimo atto di governo il presidente uscente poneva il veto all'estradizione di quel fior di galantuomo di Cesare Battisti, terrorista e assassino, che avrebbe dovuto scontare un bel po di anni di galera a cui i tribunali italiani lo avevano condannato. Questa la sberla. Poi è stato aggiunto il carico. La motivazione della decisione contraria all'estradizione fa riferimento alla ipotizzata sussistenza, in Italia, di situazioni particolari che possono generare rischi per la persona. Incredibile, questo delinquente assassino ha combinato quel che ha combinato ed è scappato. Dietro la sua fuga ha lasciato una scia di sangue così evidente che la si vede pure da Marte. Ora ci sentiamo dire che quasi quasi i pericolosi, da cui preservare quell'animella innocente di Battisti, saremmo noi. E poi chi ce lo rinfaccia? Quei campioni di libertà e di rispetto dei dirittti umani che sono stati i brasiliani. Roba da matti! In febbraio abbiamo cominciato a vivere il dramma dell'attacco alla Libia. La scusa ufficiale era che si doveva buttar giù quel dittatore sanguinario di Mu'Ammar Al Qadhdhafi. In realtà si trattava di assestare un colpo mortale agli interessi italiani nel paese africano. Artefice di questa bella iniziativa, era la Francia di Sarkozy con il decisivo sostegno anglo-americano. L'incapacità del nostro governo a opporsi a un'azione di forza che di umanitario non aveva proprio nulla e la debolezza del premier di allora che ha sfacciatamente rinnegato i patti di amicizia sottoscritti solo alcuni mesi prima con il governo del colonnello Al Qadhdhafi, per sottostare al diktat del presidente Obama, sono all'origine di molti dei nostri guai attuali. Con singolare tempismo, nell'estate del 2011, proprio in seguito alla perdita di credibilità internazionale dovuta alla rovinosa gestione dell'”affaire” libico, sull'Italia si è abbattuta la speculazione finanziaria con i banchieri tedeschi che facevano a gara a buttar via i titoli di Stato italiani come fossero merce


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avariata. E' così che le autorità centrali dell'Unione Europea hanno imposto a un Italia in evidente stato di shock, intollerabili interventi nella finanza pubblica, ufficialmente per contenere la crisi finanziaria scatenatasi. In realtà, come ho scritto altrove, siffatte misure “assomigliavano di più a sanzioni di guerra ad una nazione sconfitta che a un piano di sostegno. Poco ci mancava che tirassero fuori il treno speciale sul binario morto della linea CompiègneSoissons su cui gli alleati della Triplice avevano costretto la Germania a firmare l'armistizio dopo la prima guerra mondiale o che chiedessero in prestito agli americani la Missouri per l'atto di resa dell'Italia “berlusconiana”. I sorrisetti ironici elargiti nel corso di una conferenza stampa il 23 ottobre 2011 dalla coppia d'assi Sarkozy- Merkel sulla persona di Berlusconi, come il trattamento riservato al medesimo durante il G20 di Cannes del 4 novembre 2011, dove i principali leader occidentali lo hanno intenzionalmente ignorato, sono la plastica rappresentazione di un'Italia sconfitta e costretta a passare sotto il giogo imposto dai nuovi padroni europei. L'anno 2011 si chiude con l'arrivo di un governo cosiddetto “tecnico” che soppianta quello regolarmente eletto dai cittadini. Il premier neo nominato non fa mistero di essere gradito ai maggiori partner europei presso cui si fa garante del rispetto degli impegni presi per il risanamento dei conti di finanza pubblica. Se si fosse trattato di un qualsiasi ente privato non avremmo avuto difficoltà alcuna a chiamare questa vicenda col suo vero nome, cioè commissariamento. Giacché si tratta di Stati ancora formalmente sovrani non è elegante definire l'accaduto in tal modo. Bisogna che appaia che siano stati i cittadini a volere Monti, attraverso il consenso espresso dai propri rappresentanti in Parlamento. Sarà, ma la sostanza non cambia. Tedeschi e francesi, per il tramite della burocrazia di Bruxelles, ci hanno commissariato. Punto. Se nel 2011, con l'epilogo della vicenda libica, è tornata l'Italietta campione del mondo dei voltagabbana in stile “8 settembre”, nel 2012 ci è toccata la sfida più difficile, quella per il titolo iridato di inaffidabilità. Ma con un po' di sforzo e con la determinante azione del governo Monti anche quel bel primato è stato nostro. Il 29 novembre 2012, in sede di votazione alle Nazioni Unite sulla proposta se amettere o meno l'Autorità Palestinese come Stato osservatore non membro, la delegazione italiana, in rappresentanza del governo, ha dato il proprio voto favorevole. Con tale scelta sono stati buttati via decenni di indirizzo politico-diplomatico italiano di segno totalmente opposto. Si è dato un colpo micidiale alle buone relazioni di amicizia che l'Italia ha costruito negli anni con lo Stato d'Israele, il quale, a sua volta, si è dichiarato profondamente deluso dal comportamento degli italiani. E tutto questo è avvenuto senza che il Parlamento ne fosse informato o che avesse potuto preventivamente discutere la cosa. Il sullodato Mario Monti, forte del suo ruolo commissariale, ha pensato bene di attaccare il nostro paese al carro Franco-Spagnolo facendo strame dei patti e degli accordi in essere con lo Stato ebraico. Da qui l'oro olimpico per la categoria “inaffidabili”. Il 2013 ha visto l'esordio del governo delle cosiddette” larghe intese”. E, subito, un paio di scivoloni tanto per ribadire che in fatto di umiliazioni patite non siamo secondi a nessuno. A luglio esplode il caso Shalabayeva e poco ci manca che il neo ministro degli esteri italiano Emma Bonino, si metta a dichiarare guerra al Kazakistan. La vicenda è nota. La nostra polizia, su

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pressioni dei vertici del Ministero degli Interni procede al fermo della signora Shalabayeva e della sua piccola figliola perché, questa è la motivazione ufficiale, trovata in possesso di un passaporto falso. Immediatamente dopo la signora, contro la sua volontà, viene espulsa e rispedita alla sua patria d'origine che è il Kazakistan. Piccolo particolare, la signora non è un'immigrata cladenstina qualsiasi, è in realtà la moglie del miliardario, dissidente politico Kazakistano, Mukhtar Ablyazov, perseguitato nel suo Paese perché ritenuto oppositore dell'attuale presidente Nazarbayev. I fatti risalgono alla fine di maggio ma vengono a galla successivamente a causa di una denuncia presentata da un'ONG, l'International Bureau for Human Rights, ripresa in maniera non disinteressata dal Financial Times. L'accusa è che il governo italiano abbia voluto favorire il governo amico del Kazakistan servendo su un vassoio d'argento la povera signora Shalabayeva e la sua piccola bambina, affinché si potesse condizionare l'operatività politica dell'esule Ablyazov, ritenuto un grande tessitore di relazioni d'affari e di trame politiche. A giustificare il sospetto vi è la circostanza delle forti pressioni esercitate dall'ambasciatore Kazako, Andrian Yelemenessov, sul nostro Ministero degli Interni. Lo spettacolo offerto dal nostro governo alla Comunità Intenazionale, è atroce. Un pavido Ministro degli Interni che si trincera dietro un “non sapevo”, “nessuno mi ha detto niente”, scarica la responsabilità sul capo gabinetto della sua segreteria e, tra lo sconcerto generale, si mette a fare il moralista invocando pulizia e trasparenza nella gestione del dicastero. Il capo di gabinetto, sentendosi scomodo nei panni del capro espiatorio, a sua volta, chiama in causa alti dirigenti del Ministero che avrebbero coordinato il blitz in uno scaricabarile indecente che lambisce anche il Ministero degli Esteri. La ministra Bonino, come ovvio, si dichiara all'oscuro della cosa, salvo a scoprire che proprio all'oscuro non era, e non lo era neppure l'esangue Ministro Alfano. Entrambi, successivamente al completamento delle operazioni di rimpatrio della Shalabayeva e figlia, ordinato dalla magistratura italiana, erano stati informati della vicenda. E questi due cuor di leone, anziché affrontare con coraggio il Parlamento e il Paese dichiarando la propria responsabilità negli eventi e, nel contempo, rivendicando al governo il diritto di condurre operaziopni riservate allo scopo di tutelare l'interesse nazionale, piuttosto che dire “erga omnes”:” non possiamo raccontarvi come siano andate le cose, perché sulla questione abbiamo posto il segreto di Stato. Possiamo solo dirvi che vigiliamo attivamente attraverso le nostre rappresentanze, perché in Kazakistan alla signora Shalabayeva non venga fatto del male o leso alcun suo diritto”, queste cime della politica si presentano piagnucolosi davanti all'opinione pubblica per dire che non sapevano, non c'erano, e se c'erano dormivano. E che poi si sono sbagliati i funzionari sottoposti e i magistrati, insomma gli altri, a espellerla e se lo desiderasse, la signora potrebbe tornare in Italia in qualsiasi momento. Ma come? Prima l'avete presa, impacchettata e spedita in Kazakistan e ora le dite che sì, si è trattato di un equivoco. Sembra di essere “a scherzi a parte”! Ma questo governo ha saputo fare di meglio, grazie al duo femminil-ministeriale, BoninoCancellieri. Benché la notizia non abbia avuto grande spazio sui media, tuttavia merita di essere ricordata come un altro successo dell'Italia nelle relazioni con gli altri Paesi. Questa volta l'oro l'abbiamo beccato nella categoria “conti come il due di coppe quando la briscola è a bastoni”.


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La sberla, invece, nella circostanza ce l'ha rifilata il nostro potente alleato americano. La vicenda riguarda l'arresto a Panama dell'agente della C.I.A. Robert Seldon Lady, in arte “Mister Bob”, capocentro nel 2003 della Agenzia di Intelligence a Milano. Il governo del nostro Paese ne ha chiesto l'immediata estradizione giacché Seldon Lady avrebbe dovuto scontare una pena a nove anni di reclusione irrogata dalla Corte di Appello del Tribunale di Milano che lo ha condannato,nel 2010, per il sequestro dell' Imam di Milano Hassan Mustafa Osama Nasr, noto alla cronache come Abu Omar prelevato con la forza da dieci agenti CIA, in una strada di Milano, il 17 febbraio 2003. Trasportato in un primo momento alla base USA di Aviano, Abu Omar sarebbe stato portato in Egitto, dove avrebbe subito torture e sevizie. Nel 2007 torna libero. Una volta in Italia, Abu Omar si rivolge all'autorità giudiziaria italiana a cui racconta l'accaduto. Per la nostra giustizia è stato commesso un grave reato ai danni dell'imam: sequestro di persona. Il giudice di prime cure e, successivamente, quello d'appello si pronunciano con una sentenza di condanna, a carico degli autori dell'atto criminoso. Insieme agli agenti americani vengono condannati anche i vertici dei Servizi Segreti italiani, accusati di aver offerto assistenza e copertura ai colleghi americani nel corso dell'operazione. La Corte di Cassazione nel settembre dello scorso anno ha confermato in via definitiva la condanna per Seldon Lady e altri 22 agenti C.I.A. Da quì, l'ordine di cattura internazionale emesso a carico di “ Mister Bob” . Come ho detto altrove…” si tratta di un ordine legittimo, ma non eseguibile. Perché molto più della forza del diritto interno di uno Stato sovrano valgono le ragioni di quella Nazione che fa della difesa a oltranza dei suoi appartenenti la causa prima di ogni comportamento e di ogni azione posta in essere al di fuori dei propri confini. Quindi, senza troppe chiacchiere, senza che i media di quel Paese si stracciassero le vesti per la denegata giustizia, per il Diritto offeso, in meno di 24 ore l'amministrazione americana ha fatto valere il suo peso politico -strategico sul piccolo Stato di Panama, invitando le autorità di polizia a consegnare immediatamente alla sua patria, da uomo libero, l'agente fermato. Così, in tutta fretta, Seldon Lady ha preso il volo. Destinazione Stati Uniti. E la giustizia italiana? Italiani chi? Si saranno chiesti con qualche sarcasmo i funzionari del Dipartimento di Stato che da Washington colloquiavano con gli omologhi panamensi. Dalle autorità di governo del nostro Paese soltanto un laconico: “Ne prendiamo atto”. E che altro vuoi fare? Dopo aver beccatto una sberla così.“. Sempre per la categoria ”conti come il due di coppe quando la briscola è a bastoni”, possiamo vantare un altro bel primato. Si tratta dell'assurda vicenda del nostro connazionale Enrico Forti, Chico per gli amici, detenuto dal 15 giugno 2000, in forza di una condanna all'ergastolo per omicidio, emessa da un tribunale americano. Non vi sarebbe nulla di strano in questa storia se non fosse per il fatto che chi ha assistito al processo giura sull'innocenza di Forti e accusa apertamente quella Corte e quella giuria di aver emesso un verdetto di condanna in assenza di prove circostanziate. In più, vi sarebbero stati brogli e manomissioni nell'istruzione del processo di cui l'accusa si sarebbe servita per vincere il giudizio. I sostenitori dell'innocenza di Forti si sono spinti a dichiarare che la sentenza sarebbe stata scritta con largo anticipo sul dibattimento. Insomma lo si voleva colpevole e così è stato.

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In questi anni si sono succeduti gli appelli dei legali per chiedere la revisione del processo. Ma la giustizia americana, le cui lodi fino allo sfinimento sono quotidianamente tessute dall' entertainment televisivo nostrano, ha fatto finora orecchi da mercante. Quando familiari e supporter si sono rivolti al nostro Ministero degli Esteri per un aiuto, si sono sentiti rispondere che l'unica strada è quella d'insistere per la revisione del processo. Non si può fare altro. Capite? Hanno detto che non si può fare altro. E tutto quello che questo Paese, l'Italia, ha fatto per assicurare, negli anni, gli interessi statunitensi? Quando i cowboy dell'aviazione USA per fare gli sbruffoni hanno ammazzato un po' di gente al Cermis, gli azzeccagarbugli stelle e strisce hanno tirato fuori accordi, convenzioni, protocolli e codicilli e hanno detto ai magistrati italiani: processarli è affar nostro, non vostro. Capitolo chiuso. Eppure erano su territorio italiano. Ora, a noi non è dato sapere se Forti sia davvero innocente come dicono gli aderenti al comitato creato per la soluzione del suo caso. Un fatto però è certo. Forti è cittadino italiano e come tale doveva avere al suo fianco lo Stato nel momento in cui la Giustizia di un altro Paese lo chiamava a rispondere di un atto tanto grave. Ma di questa presenza non si è avvertita traccia. E se qualche passo è stato compiuto per via diplomatica, vi è prova che non abbia sortito alcun effetto. Ancora una volta siamo stati trattati da pesi piuma. 3. Perché allora l'Italia, pur essendo una grande paese ricco di storia, di tradizioni, con un'economia ancora tra le più forti al mondo, con un brand, il “made in Italy”, apprezzato e ricercato su tutti i mercati, con una forza militare che da decenni si è distinta per l'eccellente qualità delle sue performance nelle missioni di peacekeeping a cui ha partecipato, perché questo Paese fatto di Italiani brava gente,solidali e ospitali oltre misura, perché questo popolo che non si è sottratto quando i suoi figli migliori sono caduti per difendere l'altrui libertà e il diritto dei più deboli alla sopravvivenza, è così tanto scarsamente considerato in sede di relazioni con gli altri Stati? E' solo colpa di coloro che l'hanno governata e rappresentata in questi anni? Ovvio che no. Non è solo responsabilità della classe di governo se le cose sono andate come le ho descritte. Sebbene sia faticoso riconoscerlo, e per dirla con Gaber a parlar bene della nostra democrazia ci vuole fantasia, non tutto è dipeso dalle carenze della politica. Vi è, a monte, un vulnus nel sistema italiano che col passare del tempo sta minando pericolosamente la credibilità delle istituzioni nei rapporti internazionali. Provo a spiegare. La politica estera dell'Italia al tempo del mondo diviso in blocchi, era sostanzialmente orientata dall'alleato maggiore, gli Stati Uniti, per i cui interessi il nostro Paese svolgeva una funzione ancillare. Ciò è stato vero almeno fino alla metà degli anni settanta dello scorso secolo. Tra la fine di quel decennio e quello successivo, si è assistito a un graduale allentamento della presa americana sugli alleati europei in generale, determinata dalla sopraggiunta necessità, per gli States, di porre mano agli equilibri in altre aree strategiche, come l' America Latina o la regione del Medioriente. Dopo la conclusione, drammatica per gli USA, della guerra del Vietman si sono moltiplicati, nel mondo, i focolai insurrezionali destinati a scardinare i vecchi assetti di potere all'interno degli Stati vassalli, tributari della potenza americana. Ovunque possibile, l'amministrazione USA è stata costretta a rinegoziare rapporti e alleanze strategiche con nuovi


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soggetti politici assai meno manleabili dei precedenti. Anche l'economia e la sicurezza interna degli Stati Uniti, sono messe a rischio dalle due ondate di shock petrolifero, rispettivamente del 1973 e del 1979, seguite ai tentativi panarabi di soppressione per via bellica dello Stato di Israele. La caduta per via rivoluzionaria del regime dinastico persiano dello Scià Reza Palhavi, antico sodale degli Stati Uniti nel 1979 e, nello stesso anno, l'invasione sovietica dell'Afghanistan, rappresentano l'acme della crisi della politica estera americana. Gli anni Ottanta si connotano per un maggiore autonomia di manovra consentita al nostro Paese nella tenuta delle relazioni internazionali. Sono gli anni del dialogo con alcune satrapie arabe e nordafricane, come la Libia del colonnello Al Qadhdhafi che diviene un interlocutore molto ascoltato dai nostri governi. E sono gli anni che culminano con la dura presa di posizione del governo Craxi nei confronti degli USA per l'affare “Sigonella”. Alla fine degli anni Ottanta, però, si assiste alla caduta del Muro di Berlino e con esso alla sostanziale fine della guerra fredda e della politica dei blocchi contrapposti. Il mondo conosce una rivoluzione copernicana che provoca effetti anche all'interno delle singole realtà statuali. E l'Italia non fa eccezione. Gli anni Novanta si aprono con due eventi, sotterraneamente legati l'uno all'altro, decisivi per il futuro della nostra società. Prende corpo il processo d'integrazione europea, suggellato dall'entrata in vigore, il 1 novembre 1993, del Trattato di Maastricht, che spiana la strada all' unione monetaria e, nel contempo, consolida il processo di graduale cessione di sovranità a beneficio della nuova entità comunitaria sovraordinata ai singoli Stati nazionali. In Italia, nello stesso periodo, si assiste alla caduta della cosiddetta Prima Repubblica per mano delle inchieste giudiziarie. L'effetto principale della stagione “delle mani pulite” si riscontra nel fatto che la maggior parte dei partiti politici che avevano governato le istituzioni dal secondo dopoguerra fino ai primi anni Novanta sono rasi al suolo dalle inchieste della magistratura per i reati di corruzione, concussione e finanziamento illecito. Al loro posto sorge una nuova leva politica che si caratterizza per un'aspirazione a istituzionalizzare il sistema dell'alternanza tra due forze polari le quali si propongono di raccogliere in coalizioni omogenee le variegate anime in cui il mondo politico continua a essere diviso. Sebbene le due aree ideologiche abbiano perseguito, e perseguano, due modelli di società sostanzialmente opposti, sul fronte della politica estera invece esse hanno marcato una singolare identità di vedute. In concreto, sia il centro-destra che il centro-sinistra, hanno più o meno apertamente riformulato la strategia d'approccio della diplomazia italiana secondo gli standard propri degli incubatori commerciali di promozione del “Made in Italy”. Conseguenza di questo cambio di mission è stata la ridefinizione della categoria concettuale “interesse nazionale”. Il modello di matrice otto-novecentesca considerava l'interesse perseguibile in relazione all'esigenza di sostenere in via prioritaria i programmi e il patrimonio strategico afferenti alla proprietà pubblica o alla struttura statuale, presente in prima persona. Inoltre, precipuo compito dello Stato si configurava nella difesa dei propri cittadini ovunque si trovassero nel mondo. Per difesa si intende sia la tutela dell'incolumità fisica individuale sia la protezione dei diritti elementari riconosciuti dalle Dichiarazioni Universali e dai trattati internazionali a salvaguardia

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della dignità della singola persona umana. Negli ultimi decenni, invece, l'orientamento strategico ha privilegiato il mero sostegno all'espansione dell'economia produttiva delle imprese italiane, nell'insieme indifferenziato di pubblico - privato, presenti sul mercato globale. Dunque la difesa dell'interesse nazionale si è trasformata nella difesa del made in Italy. Bisogna riconoscere che questa scelta abbia dato frutti preziosi. I report redatti annualmente dagli organismi competenti nel settore del commercio estero narrano di un'Italia che nonostante la crisi perdurante da un quinquennio, nonostante la recessione e il crollo della domanda interna, consegue lusinghiere perfomance nelle esportazioni. Il nostro è ad oggi ancora il secondo Paese manifatturiero d' Europa, dopo la Germania. E la sfida a conquistare spazi di mercato nei paesi emergenti è tutt'altro che conclusa. Nel contempo, però, la classe dirigente della “seconda Repubblica” si è distinta per mancanza di peso specifico nell'equilibrio tra i diversi poteri che concorrono a formare l'interesse dello Stato. Diretta conseguenza di tale deficit è stata l'inattitudine strutturale della politica a condizionare i processi espansivi della produzione nazionale in migrazione verso scenari globali. Il deficit di autorevolezza misurato nei nuovi ceti governanti ha sottratto allo Stato parte del tradizionale ruolo egemonico che, all'atto della composizione degli indirizzi di politica estera, è convenzionalmente riconosciuto come riserva patrimoniale intangibile della “Res Publica”. Ben inteso non che prima, ai tempi della cosiddetta “prima repubblica”, questo non accadesse. Vi era però una maggiore distribuzione dei pesi specifici per cui l'incidenza degli interessi privati era più contenuta rispetto al complesso degli interessi di natura pubblico-statuale. Questi ultimi avevano la priorità nelle scelte d'indirizzo e di tenuta delle relazioni internazionali. Vi era, inoltre, maggior coordinamento tra l'azione delle rappresentanze ufficiali dello Stato e le operatività sul terreno dei negoziatori interpreti e protagonisti di una sorta di diplomazia parallela praticata dai grandi gruppi industriali italiani, pubblici e privati. Oggi la situazione appare completamente rovesciata. Faccio un esempio per chiarire il concetto. Dalla fogna Wikileaks, sono venuti fuori interessanti rapporti riservati che l'ambasciata americana a Roma ha inviato al Dipartimento di Stato a Washington per riferire in ordine alle attività commerciali svolte da imprese private, e a partecipazione pubblica, italiane con l'Iran, contro cui vige uno stato di embargo decretato dall'amministrazione USA e dalla UE. In una specifica circostanza, quella del caso Edison, l'ambasciatore americano Thorne ha convocato i vertici della società italiana per intimare loro di interrompere le attività d'investimento in Iran. La minaccia è giunta a segno al punto che è lo stesso ambasciatore, nel suo report, a commmentare di aver visto il numero uno di Edison “scosso e praticamente disperato”. Nello stesso documento si stigmatizza la posizione del premier Berlusconi, accusato di assoluta inerzia nell'impedire che aziende italiane allacciassero relazioni commerciali con partner iraniani, o peggio, con lo Stato stesso dell'Iran. Per la cronaca, dopo poco l'incontro con l'ambasciatore, Il presidente di Edison, Umberto Quadrino, obbedisce al diktat dell' Amministrazione Obama e congela gli investimenti in Iran. In questo caso, quindi, l'azione d'interdizione che il governo italiano avrebbe dovuto svolgere per far rispettare l'embargo contro l'Iran non si è prodotta,


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essendo stato privilegiato l'intento di favorire l'investimento profittevole della Edison. Al contrario il governo americano, valutando prioritario l'interesse a isolare l'Iran, non ha avuto difficoltà a intimare a un soggetto imprenditoriale privato, per di più straniero, di cambiare strada e di abbandonare i progetti con la repubblica islamica. In questo caso la scelta politica in difesa dell'interesse nazionale statunitense ha prevalso sull'interesse particolare dell'impresa. Questa esemplificazione permette di accedere alla chiave di lettura delle vicende che negli ultimi anni hanno visto il coinvolgimento, in negativo, dello Stato italiano. Se, dunque, la linea di politica estera dei nostri governi, per salvaguardare gli interessi degli investitori privati e pubblici nelle zone di crisi, è quella del non intervento, non bisogna stupirsi del fatto che, a fronte dei ceffoni ricevuti, il governo sia apparso paralizzato. In realtà si tratta di una scelta stragegica a tutti gli effetti che può essere condivisa, o meno. E' bene però che, in relazione alle singole crisi, si sappia di come vadano le cose. Quindi, a proposito della vicenda dei nostri due marò detenuti illegittimamente in India, si dica, squarciando coltri di ipocrisia, che contro quella nazione non si è potuto far nulla perché lì ci sono oltre 400 imprese italiane che fanno affari. Si dica che lì ci sono le nostre imprese di calibro grosso. C'è Ansaldo s.p.a. che si occupa di energia elettrica, aria condizionata e fonti energetiche rinnovabili; c'è la Carraro s.p.a., quella del trattore più bello del mondo; c'è la De Longhi, quella della pubblicità con i pinguini; e poi c'è l'ENI s.p.a., la nave ammiraglia del nostro sistema produttivo; c'è la Ferrero s.pa.; c'è la Fiat s.p.a.; c'è la Italcementi Group; c'è la Lavazza; c'è la Magneti Marelli, c'è la Pirelli Tyre; c'è la SAIPEM e c'è la Piaggio & C. s.p.a. di quei bravi ragazzi dei Colaninno. Ma, soprattutto, l'India è una piazza di mercato per Finmeccanica. Volete che con questo ben di Dio di imprenditoria, il nostro governo avesse la benché minima libertà d'azione? Ecco spiegata la presenza, a cui facevo prima riferimento, dei Ministri dei Dicasteri economici, in primis Corrado Passera, allora titolare dello Sviluppo Economico e delle Infrastrutture, al tavolo che decise di rispedire i marò agli arresti in India. Ora, tutto questo ci può stare. Anche noi gente comune possiamo arrivare a comprendere che superiori ragioni di politica industriale e commerciale possano paralizzare l'azione di governo al punto che si giunga a derogare alla difesa dell'onore nazionale. Non sono disposto a giustificarlo, ma posso comprenderlo e posso pure tenermi gli schiaffi, se necessario. Ma se gli indiani non sono fessi, neanche noi italiani lo siamo e nulla di peggio può accadere se qualche politico mezzacartuccia possa illudersi di trattarci da idioti. Per esser chiari fino in fondo, è necessario che il circuito d'informazione mediatica, in queste specialissime circostanze, non si renda complice del silenzio o, peggio, delle spiegazioni ipocrite propinate dal governo, ma faccia sistema con il resto del Paese e svolga una funzione di vigilanza severa per assicurare a tutti noi, gente comune, che vi sia sempre un interesse strategicamente sensibile per l'intera comunità nazionale da tutelare, quando si compiono scelte che danneggiano i diritti dei singoli cittadini. Sarebbe sconcertante che noi tutti accettassimo di subire simili umiliazioni magari per difendere gli interessi privati di qualche astuto capitano coraggioso che se ne è andato a investire all'estero per convenienza, lasciando per strada un po

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di cittadini-lavoratori, nostri connazionali. Sarebbe terribile se dovessimo assistere senza reagire alla violazione della libertà o dei diritti fondamentali anche di un solo nostro concittadino per mano di un Paese straniero, soltanto per tutelare sedicenti imprese italiane che, giocando sulla delocalizzazione, abbiano smesso da un pezzo di pagare le tasse qui da noi. Insomma, la dignità dello Stato, che passa pure per la difesa di ogni suo cittadino impegnato fuori dei confini nazionali, non può essere in alcun modo barattata con il favore concesso a questo o quell'imprenditore privato intento a fare utili in proprio. La profittabilità, in una democrazia liberale, non ha certo una connotazione negativa né può essere soggetta a giudizi moralistici. Tuttavia, il naturale diritto dell'imprenditore a fare profitto è temperato dall'altrettanto legittimo limite imposto dall'intera comunità statuale in ragione della difesa dei propri superiori interessi. Il rispetto di questo elementare principio potrebbe essere inquadrato come un'estensione del concetto di Responsabilità Sociale dell'Impresa. Per chi non lo sapesse la RSI “compendia l'insieme dei comportamenti responsabili che un'organizzazione produttiva assume per rispondere alle aspettative di tipo economico, sociale ed ambientale orginate dall'interesse dei propri interlocutori a influenzare o a essere influenzati, dalle sue azioni”. Orbene, noi tutti cittadini italiani rappresentiamo gli stakeholders, cioè i portatori di interesse rispetto all'agire delle organizzazioni produttive italiane che operano all'estero. Per questa ragione tutte loro sono tenute al dovere dell'Accountability, cioè della ”responsabilità di dare conto” dei propri comportamenti alla comunità di riferimento, nel caso specifico, l'intero Paese. In questo strano universo rovesciato, che è l'Italia del nostro tempo storico, ciò non è accaduto. Anzi, è stato vero il contrario. Sono state le istituzioni della Repubblica a sottomersi ai desiderata di alcuni privati, sebbene molto ricchi e potenti. Ed è questa la ragione ultima per cui Salvatore Girone e Massimiliano Latorre si trovano ancora in India a vivere un incubo che pare senza fine. A pagare per colpe non proprie. A essere stati ingiustamente reclusi per aver compiuto il loro dovere. A essere accusati con infamia di un delitto di cui non sono responsabili. Per essere semplicemente italiani. Dovrebbero forse vergognarsene? Non è dato di sapere quando due bravi ragazzi verranno fuori da questa brutta storia. Speriamo che accada presto. Ma ancor di più speriamo che questo Governo, queste istituzioni pubbliche, questa classe politica, abbiano un sussulto. Si risveglino e ritrovino la strada maestra della difesa dell'onore dell'Italia. E' vero con l'onore non si mangia, ma senza, neppure si riesce a sopravvivere. Cristofaro Sola


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BIOCIDIO DI MASSA Sicuramente fa impressione svegliarsi una mattina e apprendere dai giornali e dalle emittenti radio televisive che dietro l'angolo della propria casa c'è una discarica di rifiuti tossici, interrati presumibilmente dalla malavita organizzata. Ovviamente, la mente corre subito agli inquinamenti che tali rifiuti possono aver procurato ai vegetali (soprattutto cavoli e broccoli, sembra), che crescevano rigogliosi sulla discarica abusiva, e ai possibili effetti sul corpo umano derivati dalla loro assunzione. Ma non basta: pare che addirittura i rilasci di tali rifiuti siano arrivati a compromettere la sottostante falda acquifera: quell'acqua, cioè, che i cittadini quotidianamente usano per le loro necessità domestiche e per dissetarsi. E, per dirla tutta, mi fa male pensare allo strazio di una madre o di un padre, in ansia per la salute dei propri cari, in attesa che gli accertamenti ufficiali attestino l'entità globale del danno. Ai caivanesi, pertanto, tutta la mia sentita solidarietà e i miei più cari auguri. Rimane, però, il fatto che quella discarica di rifiuti tossici, al di là degli effetti nocivi prodotti, ha qualcosa d'inquietante. Mi domando: come è possibile in un comune di oltre 37.000 abitanti, dotato di polizia urbana, sede di un distaccamento del corpo forestale dello Stato, inserito in un raccordo viario tra l'Autosole e l'asse della SS sannitica, realizzare una discarica di quella fatta? Com'è possibile, infatti, interrare nel tempo, per un'estensione di ben sette ettari e a profondità fino a quattro metri, una quantità enorme di contenitori di veleni? Già. Però, fosse solo quello, sarebbe certamente terribile perché quella scoperta, da sola, già solleva una quantità enorme d'interrogativi, lascia immaginare delle connivenze, dei silenzi. Ma cosa immaginare quando tale scoperta non è che l'ennesima in un territorio martoriato? In uno studio del 2004, commissionato dalla Protezione Civile, si rilevava che i residenti nei comuni di Acerra, Aversa, Bacoli, Caivano, Castel Volturno, Giugliano, Marcianise e Villa Literno, hanno il 9% in più per gli uomini e il 12% in più per le donne di rischio di morire di tumore e l'84% in più di possibilità di far nascere un bambino con malformazioni congenite. E questi non sono che quelli potenzialmente più pericolosi, ma – come afferma lo studio - in molti comuni della provincia di Napoli e Caserta, esiste in media un incremento del 2% della mortalità ed un eccesso del 4% di malformazioni dell'apparato urogenitale e nervoso per la popolazione residente. Nel 2012, un lungo reportage del quotidiano britannico The Independent affermava che (si pensi) nel Triangolo della Morte (Acerra-Nola-Marigliano) si registra un considerevole aumento

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di casi di tumore legati al deposito di rifiuti illegali. E, a tale proposito, citava il report del cardiologo Alfredo Mazza pubblicato sulla rivista The Lancet Oncology: in tutta Italia, in media, 14 maschi ogni 100.000 muoiono di cancro al fegato. In quel comprensorio, invece, l'incidenza è 35,9. La rilevanza di cancro alla vescica è quasi due volte più alta che nel resto d'Italia e i casi di leucemia superano del 30% la media nazionale. Nel 2012, uno studio dell'Istituto oncologico Pascale di Napoli non solo ha certificato l'aumento di tumori nelle zone interessate dalle discariche e dagli interramenti di rifiuti tossici ma, attraverso le affermazioni del prof. Antonio Giordano, ordinario di Anatomia e istologia patologica presso l'Università di Siena, ha parlato addirittura di DNA “bucato” e indebolito dei cittadini campani. Se fossimo cinici, potremmo dire che, tutto sommato, la popolazione locale se l'è cercata perché non è possibile realizzare una così vasta estensione di nefandezze senza l'indifferenza dello Stato e il silenzio di un'enorme quantità di popolo dove i più sicuramente hanno subito, ma certamente molti hanno condiviso i lautissimi guadagni del traffico di rifiuti illegali arrivando a incassare anche 2,5/3 mila euro per ogni carico, come hanno affermato alcuni giornalisti, per mettere a disposizione i loro terreni per l'interramento; terreni sui quali, poi, i proprietari hanno costruito le loro case per farci vivere la moglie e i figli. Non è, peraltro, ammissibile che quando non interrati, i rifiuti tossici vengano bruciati in un numero talmente elevato da dare a quelle località l'appellativo di Terre dei Fuochi, con la conclamata pericolosità dei fumi prodotti, senza che vi sia alcuno a censurarli. Né, tantomeno, è concepibile attivare innumerevoli inchieste per portare alla luce misfatti ambientali e poi vedere la maggior parte dei derivati processi concludersi in un nulla di fatto per intervenuta prescrizione, come il caso di “Cassiopea” e dei suoi 95 imputati: la più eclatante di tutte le indagini campane. E a voler continuare a essere cinici non dovrebbero intenerirci più di tanto le marce di cittadini che, subito dopo il ritrovamento di Caivano, hanno cominciato a snodarsi nelle vie con le richieste a viva voce di risanamento ambientale: perché non c'è dubbio che il risanamento vada fatto, ma prima sarebbe opportuno garantire che non vi possano essere altri interramenti, altri fuochi. Altrimenti, sarebbe un cane che si morde la coda come hanno dimostrato tutti gli interventi di risanamento, attuati negli ultimi venti anni in quelle zone. La Legge Ronchi del 1997 ha istituito ben 57 SIN – Siti di Interesse Nazionale, - aree gravemente inquinate per le quali lo Stato italiano ritiene indispensabile la bonifica. A oggi, tuttavia, l'ingente quantità di finanziamenti pubblici destinati alle bonifiche sono stati utilizzati principalmente per studi e consulenze; un aspetto che ha certamente connotazioni tragiche ma anche umoristiche: nel 2011, ad esempio, sono stati sbloccati 50 milioni di euro per bonificare l'area ex Resit (discarica con annessi fuochi) nel comune di Giugliano. Ebbene, nel giugno scorso, il Commissario regionale alle bonifiche, Mario de Biase, ha dichiarato «Altro che bonifica, per Giugliano ci vuole un sarcofago come Chernobyl. Non basterebbero due finanziarie.». Nel senso che le opere di risanamento, a volte, costituiscono nuovi, consistenti flussi finanziari


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per la malavita organizzata. Si pensi alle famigerate eco-balle, nel volume di oltre due milioni di tonnellate, riconfezionate un'infinità di volte e trasportate a destra e a manca con costi allucinanti. Ma il fatto è che noi non siamo cinici. Ancora ci intristiscono le disperazioni e gli affanni delle persone, la paura che si stampa sui loro volti, la rabbiosa frustrazione che traspare dai loro gesti, dalle loro urla, dalle loro richieste. Perciò, visto che qualcosa va comunque fatto, avanzo timidamente due proposte alternative: la prima è di cedere gratuitamente alla malavita organizzata buona parte della Campania provvedendo all'evacuazione generale e al trasporto, con relativa allocazione, dei residenti verso altre aree del Paese. Lo so, appare un po' troppo provocatoria ma costerebbe meno sia ai residenti e sia alla comunità nazionale piuttosto che lasciar andare avanti le cose nel modo attuale. La seconda è un po' meno provocatoria anche se più dura: se non si porrà rimedio a quello scempio, boicottiamo prudentemente i prodotti di quelle zone. Il Presidente della Regione, Caldoro, ha dichiarato con, quasi eccessiva, cautela istituzionale che non si conoscono gli effetti delle contaminazioni sulla salute dei cittadini e che il danno ambientale deve essere valutato dagli organi competenti. Subito dopo le dichiarazioni di Caldoro, è intervenuta la Coldiretti Campania chiedendo dati certi sui siti inquinati e lanciando l'allarme: sono a rischio migliaia di aziende. Infatti, le aziende agricole e di allevamento in Campania sono oltre 135mila, l'8 per cento del Paese; un settore in forte controtendenza rispetto agli altri: infatti, ha registrato nel 2012 un boom di assunzioni del 10.6 per cento. Nel loro insieme, quelle aziende rappresentano 13 DOP, 8 IGP, 4 DOCG, 15 DOC, 10 IGT e 335 prodotti tradizionali che hanno consentito all'export dei prodotti agroalimentari campani di realizzare, nel solo terzo trimestre 2012, 2,1 miliardi di euro: più di quanto abbiano fatto nell'intero 2011. Certo, anche il boicottaggio è una provocazione, pur pensando che prestigiosi marchi europei vengano concessi per prodotti realizzati su un territorio fortemente inquinato, foriero di rilevanti danni all'ambiente, alla salute dei cittadini locali e forse a quella di tutta la comunità nazionale, vista la diffusione di quei prodotti. In ogni caso, qualcosa di risolutivo va fatta…. Ecco, ci sono. In epoche di svendite dei beni di famiglia, perché non cedere la Campania in comodato d'uso agli spagnoli o ai francesi, o finanche ai russi, agli americani o agli indiani? Forse, loro riuscirebbero a porvi rimedio. Per cominciare, non tengono famiglia. Il fatto preoccupante è che forse neppure loro la vorrebbero. Roberta Forte

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ELIAS TOBARES Elias Tobares è un giovane e promettente artista argentino. Nato nella città di La Rioja nel 1985, ha iniziato a curiosare nel mondo dell'arte fin dalla tenera età per poi dedicarvisi professionalmente avendo scoperto - anche nel frequentare l'Università Nazionale di La Rioja che l'arte è la sua vocazione ed il suo stile di vita. Ha iniziato dedicandosi interamente all’illustrazione ispirata alla letteratura fantasy, alla poesia surrealista, alla musica, alla natura ed alle sensazioni generate dai sogni. Poi ha iniziato a sperimentare le sue idee concretizzandole in installazioni e, rapidamente, i suoi lavori sono stati accettati nel circuito dell'arte nazionale, mostrando le sue installazioni, realizzate con materiali effimeri, nelle quali la tematica assume un significato diverso ed è alimentata dalle relazioni con l’essere e da quelle emozioni interiori che meritavano di essere esorcizzate nella maniera più sincera in un opera d'arte . La sua produzione incontra nuovi concetti man mano che la sua ricerca artistica necessitava di trovare la giusta disciplina per materializzare le idee in modo corretto. I progetti si addentrano in idee basate su questioni esistenziali sull’essere vivente in un tempo ed in uno spazio determinati e così la sua ispirazione trova sostegno nelle teorie estetiche contemporanee e si rafforza con i testi di Pedro A. Cruz Sánchez, Miguel A. Hernández-Navarro, Georges Didi-Huberman, Boris Groys e Jacques Rancière.

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Le sue opere sono state esposte, a livello regionale, in vari spazi culturali e gallerie pubbliche e private ed a livello nazionale il suo lavoro trova accoglienza nei diversi programmi artistici gestiti dalla Fondazione Nazionale delle Arti Argentina come: Pertinenza, l’Argentina dipinge bene, Interfacce e nelle esposizioni da essa organizzate. La prima uscita sulla ribalta internazionale é avvenuta nel 2011-2012 come coordinatore artistico, assieme al direttore della scuola d’arte Top Art di Szczecin (Polonia), Jerzy Wykowski, del progetto internazionale Babele senza frontiere: “The Builders of peace“ 2011, FestivalNómade-Babel, Polonia, México, Spagna, 2012 ed esponendo presso la gallería FOTART, Szczecin (Polonia) e nel Museo della città di Leon in León (Guanajuato, Méssico). Le sue opere hanno continuato ad essere esposte, in forma personale e collettiva, in molte città. Grazie agli apprezzamenti ricevuti, ha poi realizzato nuovi progetti con la scuola artistica polacca e, nel 2012, ha pubblicato il suo primo libro di disegni e poesie intolato: “Egroj Bird 10 pm”, composto da 10 disegni a matita e 10 poesie.

Un ragazzo con la sigaretta Leggero, / Girando sulla giostra dei ricordi / Dalla "E" alla "J” / Risplendente come docile parola / In un cielo blu. / Un uccello / Le mani di tua luce / Come dita di alberi / Piene di pittura / Risvegli, / Addormentamenti / Passeggi sui fili delle idee / Scrivendo un sorriso / Disegnando una vista / Si dondola su ogni cerchio nell’aria / Galleggia / Concavo / Convesso / Come le forme che porta il colore turchese / Una composizione musicale di 1, 2, 3 ore / Un anno, / due anni / Tre anni e torna a cominciare / Come la primavera sullo spazio lunare / Un mondo di parole su fiori d'inverno / Di carta / Sagomati / Un bottone della sua camicia / La cravatta e un nodo in più / Le sue scarpe / Con una tazza di caffè in un castello di fumo / Librato nell’aria / Dentro un piano / Dondolandosi nel paesaggio che abito / Con una manciata di germogli in tasca / Mischiato alle pagine dei libri / Fabbricando una sigaretta / La tua compagnia / La tua pace / Libero / Un ragazzo con la sigaretta / Che passeggia sui pensieri. Egroj Bird 10 pm - Poesia 2 - Elias Tobares - La Rioja, Argentina


ARTE/PORTFOLIO

Viaje imagen escrita è il suo secondo libro, realizzato congiuntamente alla signorina Grazyna Wykowska, che illustra luoghi caratteristici dell’Argentina attraverso immagini commentate.

Genoma è un progetto di disegni realizzati nel contesto di “inSPIRACJE”, festival internazionale nella città di Stettino, dove Tobares ha lavorato sul concetto della creazione dell'uomo ispirata alla Bibbia. All'interno dello stesso progetto offre uno spaccato contemporaneo sulla stessa idea applicata alla società odierna dove l'uomo del nuovo secolo si atteggia a "Dio”, in vari modi, con effetti contrastanti sulle realizzazioni della scienza e nelle loro conseguenze a volete produttive ed a volte dannose per l'umanità. Le opere sono attualmente in mostra nella galleria FOTART, nella città di Stettino.

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Uno degli ultimi lavori segnalati a livello internazionale è stato: “Trasgressione”, un seminario che ha avuto luogo nella TOP-ART, la scuola artistica di Stettino, articolato in due sessioni: dal 20 al 22 settembre e dal 27 al 28 ottobre. Durante la prima sessione si è indagato il concetto di astrazione e degli elementi compositivi di un'immagine e gli studenti hanno prodotto ben 556 opere grafiche e 332 fotografiche. Nella seconda sessione si sono selezionate le opere da esibire in mostra e presentate al pubblico.


ARTE/PORTFOLIO

Attualmente, Tobares lavora ad un progetto per una mostra permanente in Polonia e per approntare il suo terzo libro insieme a Grazyna Wykowska. Per contatti: eliastobar360@hotmail.com - http://eliasbird.blogspot.com/

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RUBRICHE/ARTE

NIGEL COOKE ESPONE A LONDRA Stuart Shave/Modern Art - 6 Fitzroy square, London W1T 5DX, 16 ottobre - 16 novembre 2013. Modern Art è lieta di annunciare la nuova mostra personale di Nigel Cooke . Si tratta della quinta personale del pittore britannico di arte moderna, a tre anni dalla sua ultima esposizione londinese . Saranno presentati quattro grandi nuovi dipinti, tutti realizzati nel corso del 2012 . Le nuove opere di Cooke presentano immagini a più livelli di paesaggi atmosferici con suggerimenti di architettura, vegetazione e forme astratte, abitate da figure spettrali e oggetti strettamente dipinti che comprendono libri, orologi, bulbi oculari e frutta in decomposizione. I dipinti di Cooke utilizzano tecniche e motivi densi di riferimenti alla storia della pittura. In tutta la sua opera, Cooke narra la ricerca intellettuale, lo sforzo creativo e la follia umana. "Le moderne illusioni del progresso e la raffinatezza sono distrutti dalle umiliazioni del processo creativo in generale e, per me,in particolare la complessità del processo pittorico." - Nigel Cooke Nigel Cooke è nato a Manchester nel 1973 e vive e lavora a Kent . Cooke ha conseguito un PhD in Belle Arti al College Goldsmith di Londra (2004) e un MA in Fine Art presso il Royal College of Art , Londra (1997). Il suo lavoro è stato presentato in mostre personali presso Douglas Hyde Gallery di Dublino (2013), Moderna Museet di Stoccolma (2007), Museo di Arte Moderna di Fort Worth (2006), South London Gallery (2006), Tate Britain (2004). Le opere di Nigel Cooke è documentato in molte importanti collezioni pubbliche e private tra cui quelle della Tate di Londra, il Museum of Modern Art ed il Solomon R. Guggenheim Museum di New York. Giny


RUBRICHE/L’INTRONASAPORI

CUCINA FUTURISTA Riso e piselli al forno Ingredienti per 4 persone: 250 grammi di riso Vialone nano, 400 grammi di piselli finissimi lessati, 100 grammi di pancetta affumicata, 1 cipolla media, olio extra vergine di oliva, 1 bicchiere di vino bianco secco, 530 cc. di brodo di dado vegetale, 60 grammi di Parmigiano grattugiato, 200 grammi di fiordilatte, sale e pepe nero. Preparazione: In una casseruola far soffriggere in olio: la cipolla finemente tritata e la pancetta affumicata tagliata a dadini sfumando col vino bianco. Quando la cipolla è ben rosolata aggiungere i piselli con sale e pepe e far cuocere per cinque minuti o, comunque, fino a ebollizione, poi spegnere il fuoco e lasciar riposare. In una teglia da forno, meglio se di creta, far tostare, con un po’ d’olio, il riso sul fuoco per dieci minuti, girando ripetutamente. Aggiungere al riso i piselli con il loro condimento, il brodo (fatto con 2 dadi vegetali), metà del Parmigiano e metà del fiordilatte tagliato a dadini. Infornare per 25 minuti a 195 gradi. Al quindicesimo minuto spuzzare la superficie del riso con il restante Parmigiano e fiordilatte affinchè si formi una crosta dorata. Accompagnare con un Nero d’Avola di Sallier de la Tour.

IL GUSTO DI LEGGERE Antonio Parlato Sua Maestà il Baccalà - Ovvero Il pesce in salato che ci vien d'oltremari Colonnese Editore, Napoli, pp. 128, cm 14,5x21 - ISBN 9788887501780 - Prezzo € 14,00 Articolato volume che spazia dall’origine del nome a quella geografica del più venduto, e acquistato, rappresentante della fauna marina. Accanto alle descrizioni “tecniche” della riproduzione, cattura, lavorazione, richiami al “baccalà letterario”, ossia alla sua presenza nel mondo del libro, passando anche per la musica ( ad esempio, Paolo Conte, col suo: “Pesce veloce del Baltico”). In appendice, gustose (non solo gastronomicamente) ricette legate, oltre che ai luoghi, come di consueto, a personaggi, mestieri e interi popoli che le hanno ideate.

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Confini Idee & oltre

Penetrare nel cuore del millennio e presagirne gli assetti. Spingere il pensiero ad esplorare le zone di confine tra il noto e l’ignoto, là dove si forma il Futuro. Andare oltre le “Colonne d’Ercole” dei sistemi conosciuti, distillare idee e soluzioni nuove. Questo e altro è “Confini”

www.confini.org


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