Artribune #62

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N. 62 L SETTEMBRE — OTTOBRE 2021 L ANNO XI DAL 2011 ARTE eccetera eccetera

Cosa manca a Milano? 5 sfide culturali

ISSN 2280-8817

+ Focus Afghanistan



Fotografia come pretesto Conversazioni intorno alla mostra Aurelio Amendola. Un’antologia

10 settembre

17 settembre

23 settembre

1° ottobre

15 ottobre

Aurelio Amendola e Treccani. Dall’editoria di pregio al catalogo di mostra

Dall’immagine fotografica ai mutamenti dell’arte

Quale sguardo sul patrimonio culturale?

Immagini del passato, idee per il futuro: la Galleria Borghese

Fotografare la Pop art. Da Ugo Mulas a Aurelio Amendola

massimo bray

bruno corà

www.pistoiamusei.it

tomaso montanari

francesca cappelletti

walter guadagnini

22 ottobre

5 novembre

gianluigi colin aurelio amendola emilio isgrò roberto barni Fotografare l’arte. marco bazzini L’arte della fotografia

Due parole sulla scultura e tre sulla fotografia


#62 DIRETTORE Massimiliano Tonelli DIREZIONE Marco Enrico Giacomelli [vice] Santa Nastro [caporedattrice] Arianna Testino [Grandi Mostre] REDAZIONE Irene Fanizza Giulia Giaume Claudia Giraud Desirée Maida Roberta Pisa Giulia Ronchi Valentina Silvestrini Alex Urso PUBBLICITÀ & SPECIAL PROJECT Cristiana Margiacchi / 393 6586637 Rosa Pittau / 339 2882259 adv@artribune.com Arianna Rosica a.rosica@artribune.com EXTRASETTORE downloadPubblicità s.r.l. via Boscovich 17 - Milano via Sardegna 69 - Roma 02 71091866 | 06 42011918 info@downloadadv.it REDAZIONE via Ottavio Gasparri 13/17 - Roma redazione@artribune.com PROGETTO GRAFICO Alessandro Naldi COPERTINA a cura di Tatanka Journal STAMPA CSQ - Centro Stampa Quotidiani via dell’Industria 52 - Erbusco (BS) DIRETTORE RESPONSABILE Marco Enrico Giacomelli EDITORE Artribune s.r.l. Via Ottavio Gasparri 13/17 - Roma Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 184/2011 del 17 giugno 2011 Chiuso in redazione il 10 settembre 2021

FEBO&DAFNE GAGLIARDI E DOMKE GALLERIA FRANCO NOERO GIORGIO PERSANO IN ARCO LUCE GALLERY NORMA MANGIONE PEOLA SIMONDI PHOTO & CONTEMPORARY RAFFAELLA DE CHIRICO RICCARDO COSTANTINI TUCCI RUSSO WEBER & WEBER

SETTEMBRE L OTTOBRE 2021 artribune

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COLUMNS

6 L GIRO D’ITALIA Federica Verona Filippo Romano || 12 L Massimiliano Tonelli Il turismo sostenibile ha infrastrutture già pronte ma nessuno lo sa || 13 L Antonio Grulli Mobilitiamoci per Hamlet Lavastida || 14 L Renato Barilli Lettera aperta a Cecilia Alemani || 15 L Marcello Faletra Mitologie brutaliste || 16 L Claudio Musso (Ri)dare la parola || 17 L Aldo Premoli Fraumünster: se l'iconoclastia esce dalla porta per rientrare dalle finestre || 18 L Fabio Severino Identità e cultura || 19 L Christian Caliandro Ieri & avantieri: l'imprevisto e il pop sotterraneo

NEWS

22 L LA COPERTINA Tatanka Journal La Bissa (oppure Anguis) || 23 L OPERA SEXY Ferruccio Giromini La maturità di Nicole Claveloux || 24 L GESTIONALIA Irene Sanesi Dalle stalle alle stelle: come sta cambiando il turismo culturale || 25 L OSSERVATORIO NON PROFIT Dario Moalli Spazio Bidet || 28 L TALK SHOW Santa Nastro Il mondo cambia. E l'arte che fa? || 30 L APP.ROPOSITO Simona Caraceni 3 app per esplorare le Hawaii, la meccanica e il Sé / NECROLOGY || 31 L NUOVI SPAZI Massimiliano Tonelli Candy Snake Gallery || 32 L ARCHUNTER Marta Atzeni Nicolas Laisné Architectes || 33 L DURALEX Raffaella Pellegrino Riproduzione del patrimonio culturale: le nuove sfide del digitale || 34 L FOCUS Carolyn Christov-Bakargiev Il mio Afghanistan dieci anni fa e oggi || 38 L ART MUSIC Claudia Giraud Gli NFT di Boosta || 39 L SERIAL VIEWER Santa Nastro 5 serie tv da rivedere / L.I.P. – LOST IN PROJECTION Giulia Pezzoli Vivarium || 40 L TOP 10 LOTS Cristina Masturzo || 41 L NUOVI SPAZI Massimiliano Tonelli Basile Contemporary || 42 L DISTRETTI Marco Enrico Giacomelli Il Pigneto quell'altro || 44 L STUDIO VISIT Saverio Verini Giovanni de Cataldo

STORIES

50 L Bertram Niessen Cosa manca a Milano? Cinque sfide culturali 60 L Annika Pettini con Giulio Verago e Dario Moalli Punti di frontiera. Conversazione sul curare mostre 69 L GRANDI

MOSTRE

ENDING

84 L SHORT NOVEL Alex Urso Martina Sarritzu 86 L IN FONDO IN FONDO Marco Senaldi Marcel Duchamp, l’11 settembre e la Storia

artribunetv

QUESTO NUMERO È STATO FATTO DA: Alejandro Alonso Díaz Umberto Angelini Giuseppe Antonelli Marta Atzeni Renato Barilli Sandra Barré | Giorgia Basili Marco Bazzini Elena Bellantoni Andrea Bellini Emanuele Braga Christian Caliandro Simona Caraceni Maurizio Ceccato Carolyn Christov-Bakargiev Giovanni de Cataldo Davide “Boosta” Dileo Linda Di Pietro Marianna d'Ovidio Marcello Faletra Fabrizio Federici Thomas Ferembach Giovanni Gaggia Emilia Giorgi Ferruccio Giromini Katya Grokhovsky Antonio Grulli Damiano Gullì Salvatore Iaconesi Nicolas Laisné Pauline Lisowski Andrea Lissoni Rosa Lleó | Federica Lonati Niccolò Lucarelli Lorenzo Madaro Angela Madesani Cristina Masturzo Marco Edoardo Minoja John Mirabel | Dario Moalli Stefano Monti Claudio Musso Antonio Natali Bertram Niessen Tania Pardo | Alice Pasquini Raffaella Pellegrino Andrea Perini Marco Petroni Giulia Pezzoli Irene Pittatore Andrea Polichetti Ludovico Pratesi Aldo Premoli Reverie | Nicola Ricciardi Caterina Riva Filippo Romano Giorgia Salerno Irene Sanesi Marta Santacatterina Martina Sarritzu Marco Scotini Marco Senaldi Fabio Severino Maria Celeste Sgrò Guillermo Solana Tatanka Journal Grazia Toderi Saverio Verini Federica Verona Valentina Vetturi Claudia Zanfi

OUVERTURE 15.00 / 22.30

martedì 14 settembre 2021 www.torinoartgalleries.it


Bevi responsabilmente.


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Milano

Venezia Artribune #58

FEDERICA VERONA [ architetto e co-fondatrice di Super ] FILIPPO ROMANO [ fotografo ] Cabras (Oristano) Artribune #61

al Duomo a Niguarda, a piedi, ci si mette circa un’ora e un quarto, lo stesso tempo che ci si impiega, sempre dal Duomo, per arrivare in zona sud a Stadera. Milano, rispetto ad altre, è una città piccola che ha uno spazio breve tra il centro e i suoi confini. A Milano, però, in pochi camminano, forse perché Milano non è Roma, non è Venezia e nemmeno Parigi, sembra meno bella, l’aria è piuttosto inquinata e sui marciapiedi ci corrono spesso le biciclette che hanno paura delle macchine. Tuttavia, Milano, solo se la percorri camminando si disvela intimamente senza filtri, con coraggio, mostrando anche in maniera brutale quel che è e quello che non è, l’occasione che ha saputo cogliere e l’occasione che ha invece perduto. Milano sembra fredda, è difficile infatti che qualcuno ti chieda “come stai?”, forse perché nessuno ha tempo di stare ad ascoltare la risposta. Negli ultimi quindici anni, poi, questa metropoli tascabile è profondamente cambiata: è diventata la “città modello” di cui tutti parlano dopo aver ospitato Expo, grazie al quale è stata lanciata nell’olimpo del turismo e degli interessi immobiliari; è la città che ospiterà le Olimpiadi invernali, anche se a Milano non nevica mai; è la città tanto dei grandi eventi quanto di quelli piccoli, la città che dopo il Covid invece di bloccarsi sta continuando a salire, correre, lavorare, la città delle eccellenze. Questa è la narrazione da New York Times che vuole Milano come punto di riferimento nazionale e internazionale soprattutto dopo lo stallo in cui Roma è caduta. In verità, se la si attraversa, tra gli edifici del primo dopoguerra con gli oleandri fioriti sui balconi, le nuove piazze, i nuovi centri abitati attorno ai centri commerciali del futuro dove hanno casa le influencer e i calciatori, progettati dalle archistar, ci sono anche le case popolari e quel che resta di vecchi quartieri, oppure ci sono quartieri che, come Baggio o Dergano, sono molto resistenti e non sono cambiati mai. È lì che resistono le ultime osterie con i vecchi che giocano a carte, mentre fumano anche se non si può, le posterie del borgo, le piccole librerie, gli artigiani, le associazioni, i gruppi informali, che dal basso si attivano e promuovono azioni infinite di amore verso il territorio che abitano, usano, difendono. Con Super, il festival delle periferie, in questi anni ne abbiamo incontrate circa 200 di queste piccole realtà straordinarie che sopravvivono a quella narrazione della Milano vincente che pian piano, a forza di essere diffusa, aumenta il costo della vita di tutti, ma soprattutto di quelli che hanno di meno. È lì che sono nate le più grandi azioni di volontariato e altruismo durante i giorni del lockdown: a Dergano un gruppo di donne attivissime si è inventato la Cesta Sospesa, con il cartello "Chi

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può metta, chi non può prenda"; è a Gratosoglio che un abitante molto attivo in quartiere ha inventato ReUp, un modo per riparare computer donati dalla città che sono stati distribuiti a chi non poteva permettersene uno per lavorare da casa o fare la Dad, mentre le Brigate Sanitarie offrivano tamponi gratuiti a chi ne avesse bisogno. Milano è una città stratificata, dove i livelli si mischiano, entrando l’uno nell’altro senza toccarsi mai. Gli homeless dormono ai piedi dei grandi palazzi della borghesia che sembrano abitati da fantasmi che in città si muovono solo guidati da altri, la spesa la fanno fare ad altri, le riunioni di condominio anche. È in quelle strade e in quelle vie che sfrecciano i rider a qualsiasi ora del giorno o della notte, è in quelle piazze luminose del centro che le baby gang si riuniscono per spaventare i passanti e, a volte, darsele di santa ragione, perché questo Covid, tra i tanti danni che ha fatto, ha portato anche via l’adolescenza a molti ragazzi che ora hanno urgente bisogno di sfogare una rabbia sociale ancora troppo interiorizzata. È vicino a quelle stesse vie che si spaccia perché lì si accalcano i ragazzi e le ragazze con outfit impeccabili e il cocktail in mano, con il sogno di diventare qualcuno di noto, magari da milioni di follower. Ragazzi arrivati da tutta Italia con la valigia in mano che vengono qui per studiare, lavorare, scappare. Milano sa essere accogliente, buona, e sa essere cattiva, spietata, sa essere un grande paese e sa essere chiusa in ambienti esclusivi. Milano non è bella ma è davvero un tipo, proprio perché non ha paura di contraddirsi, perché in qualche modo sa tenere dentro di sé tutto, i poveri, i ricchi, i soli, i perdenti, i fortunati e i vincenti. Serve conquistarla piano piano, camminandola nel tempo, con lentezza e con pazienza a sfidare la sua velocità. Solo così ti entra dentro, diventando bellissima.

Palermo Artribune #59-60

GIRO D’ITALIA è una guida sentimentale che esplora la Penisola, dai più piccoli ai maggiori centri abitati. Seguendo la metafora del ciclismo, procede con lentezza, attraverso lo sguardo dei fotografi associato alle parole di autori di varie discipline. Un viaggio in soggettiva, per tracciare una mappa inedita del nostro Paese – un viaggio curato da Emilia Giorgi.

BIO Filippo Romano nasce nel 1968. Dopo gli studi all’ISIA di Urbino, si specializza all’International Center of Photography di New York; attualmente risiede a Milano. Si occupa di architettura e città e insegna fotografia al Master di Fotografia dello IUAV di Venezia. Ha pubblicato su Abitare, Domus, The Plan, Rivista Studio. Nel 2006 realizza con Emanuele Piccardo un progetto fotografico su Paolo Soleri che diventerà il libro Soleritown. Nel 2007 vince il premio Pesaresi/Contrasto con il progetto fotografico OFF China. Il suo lavoro è stato esposto in musei nazionali e internazionali, tra cui il Canadian Center of Architecture, la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli e la Triennale di Milano, il MAXXI di Roma, solo per citarne alcuni. Nel 2010, nel 2014 e nel 2021 espone alla Biennale di Architettura di Venezia. filipporomano.it


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in alto: Filippo Romano, Vista sul Duomo, 2021 © Filippo Romano in basso: Filippo Romano, Via Vittor Pisani durante il lockdown, aprile 2020 © Filippo Romano

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Filippo Romano, Biblioteca degli Alberi, 2019 © Filippo Romano

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Filippo Romano, Edifici lungo Viale Sarca, 2021 © Filippo Romano

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Filippo Romano, Svincolo autostradale nei pressi di Cascina Merlata, 2021 © Filippo Romano

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MASSIMILIANO TONELLI [ direttore ]

IL TURISMO SOSTENIBILE HA INFRASTRUTTURE GIÀ PRONTE MA NESSUNO LO SA

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i è capitato di recente di imporre a me stesso un tour nell’Italia interna di cui si parla tanto. Tra borghi e percorsi poco battuti. Ed è stato illuminante. Con uno scooter, in particolare, ho percorso tutta la storica strada statale (sì, lo so, oggi non si chiamano più così) numero 71. Il nome di questa traiettoria è “Umbro Casentinese Romagnola” e il suo tragitto parte da Montefiascone, cittadina da scoprire sul Lago di Bolsena. Prosegue per Orvieto, che non abbisogna di presentazioni, bordeggia i paesini nel contado (Monteleone di Orvieto, ad esempio); dopo la medievale Città della Pieve e l’etrusca Chiusi lambisce il Trasimeno entrando nella sorprendente Castiglione del Lago. Poi la strada piega nella Val di Chiana, tocca Camucìa e guarda Cortona, il Castello di Montecchio, entra ed esce da Castiglion Fiorentino e dalla città di Arezzo, dove al mio passaggio si preparava la Giostra del Saracino.

Se questi percorsi ce li abbiamo già fatti, cosa diamine mai ci vorrà a puntarci sopra qualche fiche? Possibile che non si riesca a superare la logica regionale? Queste strade dovrebbero essere loghi, brand, identità visiva.

Arrivata a questo punto, la Strada Statale 71 Umbro Casentinese Romagnola si infila nel Casentino, la valle alta dell’Arno che porta il fiume di Firenze fino alla sua sorgente sul Monte Falterona. Taglia Bibbiena, sfiora Poppi e sale con l’obiettivo di valicare l’Appennino e lo fa al Passo dei Mandrioli, dopo aver attraversato la bellezza mozzafiato delle foreste casentinesi, ormai da venticinque anni parco nazionale. Una volta di là l’atmosfera cambia, il passaggio da versante tirrenico ad adriatico si percepisce dai colori, dall’odore, dall’aria. Si scende dai Mandrioli in maniera ripida incontrando alcuni scaloni rocciosi che sono conformazioni geologiche uniche, studiate in tutto il mondo. Si segue per la valle del Fiume Savio incontrando Bagno di Romagna e poi San Piero

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Ravenna Cesena San Piero in Bagno Poppi

Bagno di Romagna Passo dei Mandrioli

Bibbiena

Arezzo Castiglionfiorentino Camucìa / Cortona Chiusi

Città della Pieve

Castiglione del Lago Monteleone d’Orvieto

Orvieto Montefiascone

in Bagno. Dopo Arezzo, è ora la volta di un’altra città grande e ricca: Cesena. E dopo Cesena il gioco è facilissimo perché siamo in pianura, non resta che seguitare dritti come fusi verso nord, percorrendo l’antico tracciato della Via Romea Germanica per lasciarsi sulla destra Mirabilandia ed entrare, verso sud, in Ravenna. Mi sono dilungato, è vero, ma era necessario snocciolare per lasciare il senso della quantità. Della numerosità. Della mole sconsiderata e smisurata di contenuti che, in Italia, puoi trovare in un percorso anomalo, zero turistico, su una semplice, misconosciuta strada statale del Paese. Hai tutto. Tutto. Mari e laghi, fiumi e montagne, foreste e pascoli meravigliosi con aziende agricole strabilianti. Hai borghi, cittadine, città che son state capitali. Hai etruschi e bizantini. Hai lo Stato della Chiesa e il Granducato di Toscana. Hai Lazio, Umbria, Toscana e Romagna visti tutti di sguincio, come piace a quella parte di viaggiatori curiosa, attenta, colta e vogliosa di imparare. E allora, se questi percorsi ce li abbiamo già fatti, cosa diamine mai ci vorrà a puntarci sopra qualche fiche? Possibile che non si riesca a superare la logica regionale (la povera splendida SS 71 manco si chiama più così perché alcune regioni le hanno lasciato il suo nome, altre l’hanno chiamata Strada Regionale, altre ancora l’hanno declassata a provinciale, dotandola di un

numero a casaccio)? Queste strade dovrebbero essere loghi, brand, identità visiva. Permettono viaggi lenti, permanenze di più giorni, distribuiscono risorse nel territorio, nei borghi, nelle aree interne. A differenza delle ferrovie antiche (che pure meritano grande attenzione) sono già pronte, serve solo arredarle e comunicarle. Potrebbe essere una sfida sana delle comunità. Uno stimolo al viaggio sostenibile su due ruote, perfino a pedali. Per quello che ho visto, la Strada Statale 71 dovrebbe – per il patrimonio culturale, paesaggistico, storico, architettonico, artistico e sociale che tocca – essere iscritta domani stesso alla lista dell’Unesco. La cosa spiazzante è che di strade così in Italia ve ne sono a dozzine. A quanto pare nessuno ci sta facendo un ragionamento: non c’è un ufficio sulle storiche statali al Ministero del Turismo, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero della Cultura e neppure all’Anas, che anzi non le gestisce più, visto che le statali storiche sono state smembrate e consegnate agli enti locali i quali, per definizione, non possono avere una visione dall’alto indispensabile alla loro valorizzazione culturale. La seconda fase del progetto Rientro Strade, che prevede per l’appunto il ritrasferimento delle competenze all’Anas di 6.500 chilometri di strade ex statali, regionali e provinciali, non potrebbe essere l’occasione per iniziare a ragionarci?


ANTONIO GRULLI [ critico d’arte e curatore ]

#62 SETTEMBRE L OTTOBRE 2021

MOBILITIAMOCI PER HAMLET LAVASTIDA

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Hamlet Lavastida durante la residenza alla Künstlerhaus Bethanien di Berlino. Photo Peter Rosemann

È opinione comune degli altri artisti cubani del movimento che il suo imprigionamento sia usato come monito. trascrizione sia dell’interrogatorio del fotografo Javier Caso, avvenuta nel 2020 da parte di agenti statali, sia di una lettera del poeta Heberto Padilla scritta al governo rivoluzionario nel 1971 contro la censura (ha collaborato rileggendo pubblicamente questo testo anche con l’artista Coco Fusco). Sul muro opposto era esposto un archivio di testimonianze del periodo in cui le dottrine socialiste divennero legge negli Anni Sessanta. È opinione comune degli altri artisti cubani del movimento che il suo imprigionamento sia usato anche come una sorta di esempio per disincentivare gli artisti dissidenti all’estero a rientrare nel Paese e per coloro che sono a Cuba ad andarsene. Le autorità cubane continuano a detenere artisti e dissidenti politici senza nemmeno chiarire quali sarebbero i capi di imputazione e spesso senza dare alcun tipo di informazione a parenti e amici. Semplicemente alcune persone vengono fatte sparire, per un periodo più o meno prolungato. Una legge, il Decreto 349, entrata in vigore nel 2018, costringe gli artisti a richiedere un’approvazione governativa prima di poter presentare le loro opere pubblicamente.

Qualche tempo fa Tania Bruguera è stata prelevata a casa dalla polizia di Stato e detenuta per 11 ore in carcere. Ne ha parlato sulla sua pagina Facebook, raccontando come l’interrogatorio vertesse sulla sua amicizia con Hamlet. Di recente anche Katherine Bisquet, fidanzata di Lavastida, è stata trattenuta per alcune ore dalle autorità. Hamlet è uno di noi, della nostra famiglia, fa parte della nostra comunità. Questo non lo rende certo maggiormente meritevole di attenzione rispetto ad altri casi di diritti umani nel mondo. Ma non lo rende nemmeno meno meritevole. Perché Hamlet Lavastida, detenuto da più di due mesi, più di sessanta giorni, lascia tiepide le nostre testate e i nostri canali di informazione? Credo che soprattutto il mondo dell’arte italiano, per la storica vicinanza del nostro Paese a Cuba e alla comunità cubana, dovrebbe fare molto di più. È spaventoso e quasi ironico notare come Hamlet Lavastida, così come i dissidenti politici e gli intellettuali di oggi, sia detenuto nel carcere Villa Marista, lo stesso di Reinaldo Arenas, il poeta cubano su cui il pittore Julian Schnabel ha realizzato quello che è il suo film capolavoro, Prima che sia notte, tratto dall’autobiografia del poeta. Nessuno ha evocato il film negli articoli che ho letto, forse per paura di creare una continuità con quel passato. Villa Marista è probabilmente la più longeva istituzione artistica creata dal regime cubano, sempre pronta ad aprire le sue porte per accogliere le migliori menti del Paese, per un piacevole periodo di residenza della durata non precisata.

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li esseri umani sono tutti uguali; ma alcuni sono più uguali degli altri. Lo stesso vale per le nazioni. È il caso di Cuba, da sempre guardata bonariamente, soprattutto da parte dell’Italia. Il mondo dell’arte è per fortuna sempre pronto a mobilitarsi per ogni causa etica, morale e umanitaria. Ma alcuni fatti non riescono proprio a rientrare nei suoi radar. È il caso di Hamlet Lavastida. Hamlet è un bravo artista cubano; è giovane, è nato nel 1983. Qualche mese fa era a Berlino, dove ha partecipato a una residenza presso la Kunstlerhaus Bethanien. Ma il 21 giugno, al suo rientro sull’isola, viene detenuto per un periodo di quarantena sotto “la custodia dello Stato”, come riportato da Amnesty International. Dopo qualche giorno, la madre riceve una telefonata con la quale viene informata che suo figlio è stato incarcerato in una prigione di massima sicurezza per detenuti politici. Da allora non si sono avute più molte notizie su di lui. Sembra che di recente abbia richiesto l’aiuto di uno psicologo in carcere, una notizia certo non rassicurante. La scusa dell’arresto sarebbe “l’incitamento al crimine e alla disobbedienza civile” per aver proposto, attraverso Telegram sul canale del gruppo 27N, la realizzazione di una performance (mai avvenuta) in cui si sarebbe stampato il logo del movimento San Isidro e quello del gruppo 27N sulle banconote. Il gruppo nasce il 27 novembre 2020, quando artisti, scrittori, registi e intellettuali cubani si trovano per manifestare fuori dal Ministero della Cultura dell’Avana. Una folla di più di 300 persone rimane per 12 ore di fronte all’edificio fino a quando 32 rappresentanti sono fatti entrare per esporre le loro richieste. Chiedono al governo uno stop alle continue violenze sui membri del movimento San Isidro (altro gruppo di intellettuali e musicisti) e su artisti e intellettuali in generale, e di eliminare le varie forme di censura e di repressione della libertà di espressione. Ovviamente nulla di questo viene accolto. Tutto il lavoro di Lavastida è basato sulla riflessione politica e la protesta nei confronti della dittatura comunista (e della sua propaganda) ormai da molti decenni al potere. Dal 2011 al 2015 è stato cacciato da Cuba per le sue attività contro il regime. Nella mostra presso gli spazi del Bethanien ha presentato due installazioni immersive realizzate in carta ritagliata, una delle sue principali cifre stilistiche assieme al collage, i video e le performance. Un’installazione consisteva nella

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LETTERA APERTA A CECILIA ALEMANI

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casi salienti e determinanti, alle Corderie si riprenda la bella tradizione dell’Aperto, largo cioè alle presenze giovani e alle nuove generazioni. So bene che non è nelle sue possibilità, ma ci starebbe tanto a proposito che lei riportasse proprio negli spazi dei Giardini la nostra partecipazione nazionale, come è avvenuto tante volte, salvandola dalla masochistica ghettizzazione che da qualche tempo le infliggiamo andando a riporla nel punto più lontano dell’Arsenale. Beninteso, io sarò un immancabile visitatore, pronto a renderle i meriti dovuti ma anche qualche rampogna, se inevitabile.

Mi raccomando, eviti l’errore disastroso compiuto dal suo predecessore di aver eliminato appunto una qualsiasi differenza tra i Giardini e le Corderie

Luigi Carluccio Arte come arte: persistenza dell’opera Ralph Rugoff May You Live In Interesting Times Cecilia Alemani Il latte dei sogni

Maurizio Calvesi Arte e arti. Attualità e storia

Christine Macel Viva Arte Viva

Massimiliano Gioni Il Palazzo Enciclopedico

BIENNALE ARTE: DIRETTORI E TITOLI 1982-2022

2011 09

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2003

5

Achille Bonito Oliva Punti cardinali dell’arte

199

5

97

Jean Clair Identità e alterità

9

20 0

Giovanni Carandente Dimensione futuro

1993

199

20

8

198

1990

19

2001

Daniel Birnbaum Fare mondi

86

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2013

Giovanni Carandente Il luogo degli artisti

4

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07

Bice Curiger ILLUMInazioni

20

198

Okwui Enwezor All the World’s Futures

1982

Maurizio Calvesi Arte e Scienza

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ara Alemani, dopo essermi rivolto ad Eugenio Viola, curatore del Padiglione Italia alla prossima Biennale, salgo di livello e ora mi rivolgo a lei, con dei consigli che ovviamente resteranno lettera al vento, senza alcun obbligo da parte sua di accoglierli in qualche misura. Avevo già bofonchiato un poco quando il Presidente uscente, Baratta, rompendo gli indugi burocratici e senza attendere la nomina del suo successore, l’aveva senz’altro eletta all’importante incarico. Poteva dare fastidio un fatto di parentela, dato che credo per la prima volta negli annali della Biennale Arte sia successo che un parente stretto di un precedente direttore, addirittura la moglie, fosse elevata allo stesso incarico. Ma bisogna riconoscere che pure lei, al pari del coniuge Gioni, ha tutti i titoli che ci vogliono per un incarico del genere. E proprio Gioni se l’era cavata molto bene, quando era stato il suo turno, del resto è persona piena di deferenza nei miei confronti e dell’insegnamento al DAMS che a suo tempo gli ho impartito. Eppure, nonostante la stima che io stesso a mia volta gli avevo espresso, non avevo lesinato critiche al suo indirizzo, in quanto mi era sembrato che scegliesse un tema generale un po’ troppo arrischiato e sofistico, quello dei collezionismi praticati a vario titolo dagli innamorati dell’arte. Avevo detto che aveva creato una bellissima mongolfiera, che però aveva staccato gli ormeggi dal suolo dell’attualità per librarsi lassù nell’etere. Non vorrei che lei, cara Alemani, seguisse troppo da vicino l’esempio del marito, infatti parimenti un po’ troppo selettivo e aristocratico mi pare uno dei temi da lei annunciato, erigere un monumento a una pittrice surrealista quale Leonora Carrington. Senza dubbio è opportuno insistere in una piena valorizzazione del contributo femminile all’arte, ma il movimento surrealista non mi pare che sia di piena attualità, e non vorrei che occupasse un po’ troppo le stanze del padiglione centrale, in cui consiste pur sempre il piatto forte di ogni Biennale. Ma certo è giusto collocarvi una qualche presenza che si consideri decisiva e piena tuttora di tangenze coi nostri problemi. Mi raccomando, eviti l’errore disastroso compiuto dal suo predecessore di aver eliminato appunto una qualsiasi differenza tra i Giardini e le Corderie, anzi, le consiglio di ristabilire la gerarchia tra i due spazi, nelle sale di Sant’Elena si mettano i

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RENATO BARILLI [ critico d’arte militante ]

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Germano Celant Futuro Presente Passato

Robert Storr Pensa con i sensi, senti con la mente

Harald Szeemann dAPERTutto Harald Szeemann Platea dell’Umanità Francesco Bonami Sogni e conflitti. La dittatura dello spettatore

Maria de Corral / Rosa Martínez L’esperienza dell’arte / Sempre un po’ più lontano


MARCELLO FALETRA [ saggista ]

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Trapani

Alberto Burri, Cretto, Gibellina 1984-89/2015

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972. Christo e Jeanne-Claude montano nella Valley Curtain (Colorado) un gigantesco telone plastificato che si stende sul paesaggio come un muro che divide la valle. Dura solo 28 ore. Un forte vento che supera i cento chilometri all’ora costringe gli artisti a mollare i cavi d’acciaio per evitar danni. Inoltre era stato installato un sofisticato sistema di onde radar per modificare il senso di orientamento degli uccelli i quali, però, si sfracellavano contro il telone. 1984-89. A Gibellina, Alberto Burri – un artista che ho sempre amato - concepisce una grande colata di cemento su un ammasso di rovine, celebrata come Land Art. Cosa disse Burri in proposito? In una rara intervista (1995), curata da Stefano Zorzi, è riportata la seguente testimonianza: “Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l’idea: ecco... Io farei così: compattiamo le macerie, che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento”. Sorprende la naturalezza con la quale Burri dichiara che “le macerie sono un problema per tutti”, mentre il cemento che si appresta a sostituirle no. È chiaro che non si trattava di macerie industriali o di una Černobyl’, ma di un vecchio paese di pietra, immerso in un paesaggio arcaico. Certo, il nome di Burri (a perenne ricordo) resterà nella storia dell’arte anche per questa impresa, mentre in tutto questo cemento non si è reso disponibile un angolo per ricordare le quasi quattrocento vittime del terremoto; i loro nomi giacciono ignoti sotto la colata. E pure di cemento è punteggiata Fiumara d’arte in Sicilia, le cui opere sfregiano la dolcezza del paesaggio collinoso che si bagna nel Tirreno. In ogni caso siamo davanti a soprusi ecologici (non i soli) giustificati dall’incontinenza narcisistica di mecenati e artisti, legittimati da cause civili. Sfugge il fatto che la natura e la memoria possano essere soggetti, anziché inerti scenari dove installare “opere”. In fondo questi luoghi, a modo loro, respirano, parlano, emanano una concentrazione di vita, morte e rinascita. Evocano memorie storiche e tracce mnestiche del genius loci. Tutto ciò li rende superiori a qualsiasi opera che ha la pretesa di sostituirvisi. E la loro naturale bellezza, dolce o tragica che sia, che a volte sorge dal fascino delle rovine, come osservò già Goethe, non ha bisogno di quella supplementare dell’arte.

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MITOLOGIE BRUTALISTE

Gibellina Nuova Gibellina Vecchia

A quale idea di "bellezza" si riferiscono coloro che vantano con orgoglio opere d’arte calate dall’alto situate in scenari naturalistici, e che vedono come materia-medium il brutalismo del cemento?

Sorge una domanda: gli artisti che non resistono al fatale richiamo di materie sintetiche e del cemento fanno “Arte Ambientale”? Se l’ambiente è il luogo di un insieme di relazioni, quali materie si scelgono per concretizzare queste relazioni? D’altra parte, è sempre necessario fare interventi artistici in luoghi sensibili e fragili? In altre parole, la materia in quanto tale è un medium che condiziona un luogo. A quale idea di “bellezza” – parola quanto mai inflazionata oggi – si riferiscono coloro che vantano con orgoglio opere d’arte calate dall’alto situate in scenari naturalistici, e che vedono come materia-medium il brutalismo del cemento? A scanso di equivoci: il timore di dire che il cemento celebra l’immagine del degrado ambientale agisce come un tabù estetico per zittire posizioni critiche. Questo autoritarismo camuffato dalla presunta “libertà” dell’artista è una specie di passaporto che legittima l’uso sconsiderato di materie inquinanti in luoghi dove la massiccia vanità dei segni dell’arte, come in questi casi, annienta quelli fragili del paesaggio.

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L EDITORIALI L

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CLAUDIO MUSSO [ critico d’arte e docente ]

(RI)DARE LA PAROLA

Romeo Castellucci, Il Terzo Reich, 2021. Photo © Lorenza Daverio

el 1975 Fabio Mauri dà alle stampe Linguaggio è guerra. Si tratta di un libro-opera che negli anni successivi, sotto forma di installazione fotografica, viene esposto in diversi musei italiani e stranieri. Un’opera capitale, un condensato della poetica dell’artista: attraverso la timbratura di immagini belliche tratte da riviste inglesi e tedesche si attua un’appropriazione e insieme uno svelamento della retorica politica. Ciò che continua ad assillarmi è proprio il titolo, quell’accostamento quanto mai azzeccato, quanto mai incisivo, tra l’utilizzo del linguaggio e la strategia della battaglia. Lo stesso titolo che mi è balenato alla mente come didascalia dell’installazione-spettacolo Il Terzo Reich di Romeo Castellucci presentata di recente al Santarcangelo Festival. Dopo la coreografia di Gloria Doriguzzo, il fruitore viene letteralmente aggredito (e di certo non aggradato) dalla proiezione lampeggiante di tutti i lemmi presenti nel vocabolario della lingua italiana. Che si tratti di un bombardamento è chiaro fin da subito, la velocità con la quale appaiono e scompaiono le parole accelera fino all’illeggibilità seguita passo passo dal suono creato da Scott Gibson, difficile da

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Che si tratti di un bombardamento è chiaro fin da subito, la velocità con la quale appaiono e scompaiono le parole accelera fino all’illeggibilità seguita passo passo dal suono creato da Scott Gibson. descrivere se non accomunandolo a una sequenza interminabile di violenti scoppi. La parola è dunque imprigionata, vittima della sua stessa forma, anzi della forma che è costretta a prendere per essere vista, trasmessa. Parola che è protagonista anche nel progetto 1X2 del “collettivo temporaneo” formato da Flavio Favelli, Nanni Menetti e Fabiola Naldi, in cui l’improvvisa e spontanea (?) pittura congruente dei due artisti diventa il pretesto per una riflessione linguistica, o meglio grammaticale. All’ostensione delle due tele in questione nelle sale delle Collezioni Comunali d’Arte del Comune di Bologna, infatti, si approssima la lettura animata di un atto notarile nella

vicina Cappella Farnese e l’affissione pubblica di un manifesto realizzato da eee studio. È quest’ultima parte a offrire una semplice quanto straniante rilettura di un elenco di concetti. Capita così che, nella prima colonna che segue l’ordine alfabetico, ‘eternità’ preceda ‘frequentazioni’, mentre nella seconda, ordinata per lunghezza, ‘eternità’ segua ‘infanzia’. Non è solo il gioco degli abbinamenti a creare dinamitardi cortocircuiti, le scintille si sprigionano dalla forzatura dei limiti dell’opera, della sua presentazione e dei ruoli degli autori. Intersezioni inevitabili anche parlando dell’ultima produzione della compagnia Laminarie: Invettiva inopportuna di e con Febo Del Zozzo. Prima di tutto una frase, abbagliante e perentoria: “Il teatro valorizza gli imprevisti”. Il motto desunto da Claudio Meldolesi diventa, in scena e grafia, una struttura rotante, un astro luminescente. I movimenti e le traiettorie dell’unico attore cercano di divincolarsi dalla rete di corde che avvolge lo spazio scenico come una gabbia, fino all’apice: la caduta del cielo, della graticcia precaria che regge la struttura effimera. L’uomo è nuovamente solo, con le sue parole: “A un certo punto viene il giorno dove si sfiora il fondo”.


ALDO PREMOLI [ trend forecaster e saggista ]

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S

853

Viene fondato il monastero femminile

874 ca.

Consacrazione della chiesa abbaziale carolingia

1045 ca.

Acquisisce il diritto di conio, dazio e mercato

XII sec.

Inizia la ristrutturazione in stile gotico

XIV sec.

Il convento perde il diritto di battere moneta

1524

Dopo la riforma di Zwingli, la proprietà passa al Consiglio cittadino

XVIII sec.

Il campanile settentrionale viene rialzato in stile barocco

1911

La facciata occidentale è restaurata in stile neogotico

1947

Augusto Giacometti realizza la vetrata nord del transetto

Ma il fondamento biblico dell’iconoclastia protestante qui dove è finito? Uscito dalla porta, rientrato dalle finestre...

1953

Allestimento dell’organo a 5.793 canne

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tando al Giorgio Agamben di Profanazioni, il “museo” è un luogo separato. Come un volta i fedeli si recavano al tempio, oggi il turista lo raggiunge ma lo trova vuoto del senso di abitabilità che va cercando. È esattamente la sensazione che provi quando dall’esterno ti imbatti nel Fraumünster di Zurigo, un edificio di culto in pietra arenaria situato nel centro storico. Fondata nell’853 da Ludovico il Germanico, il Fraumünster ha goduto del diritto di coniare monete fino al XIII secolo. Non è un particolare irrilevante, ma consustanziale allo spirito di questa città, la più ricca della Svizzera tedesca, campione di una fortezza che sorge al centro del continente Europa senza esserne mai stata politicamente parte. Così, quando stai per varcare la soglia del Fraumünster e ti vengono chiesti 5 franchi svizzeri (4,65 euro), la prima reazione è “ancora?!”, perché magari ti è già successo di dover avere a portata di mano 2 franchi (1,88 euro) da inserire in una porta automatica per accedere a un orinatoio pubblico.

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FRAUMÜNSTER: SE L’ICONOCLASTIA ESCE DALLA PORTA PER RIENTRARE DALLE FINESTRE

1979

Marc Chagall realizza il ciclo di cinque vetrate bibliche del coro

1980

Chagall completa le vetrate della parte sud della navata trasversale

Non importa, ti fai forza ed entri in uno spazio di impianto gotico, severo, fatto di pietra grigia, con l’unica concessione di panche e qualche spalliera di legno color nocciola. Nessuna immagine alle pareti, tuttalpiù numeri: fanno riferimento ai versetti della Bibbia che il fedele seduto accanto a questa o quella colonna è invitato a recitare. Giusto così. La proprietà della chiesa da Roma è passata alla città di Zurigo dopo la Riforma. E Fraumünster è appunto una chiesa riformata, celebre per le gesta di Zwingli, il predicatore che all’inizio del XVI secolo qui espone i suoi 67 Articoli, dichiarando l’abolizione della Messa cattolica e l’introduzione del culto riformato. Zwingli diede ordine di rimuovere e distruggere le immagini ritraenti la Madonna e i Santi, il cui culto da allora fu proibito.

Poi però alzi gli occhi verso l’alto transetto a volta e ti rendi conto che qualcosa non torna, che fortunatamente ai riformatori col passare del tempo le cose debbono essere sfuggite di mano… le vetrate! Quelle del transetto nord sono di Augusto Giacometti, mentre il ciclo in cinque parti nel coro e un rosone all’apice del transetto sud sono di Marc Chagall. Sì certo, chi abbia finanziato Chagall e Giacometti per la produzione di questi stupefacenti fumettoni non lo sa “nessuno”: si tratta di donazioni private coperte dall’anonimato, ma la riservatezza protestante si smarrisce di fronte allo stupore della scoperta di questi vetri. Le cinque realizzazioni di Chagall disposte sopra e intorno al coro raffigurano episodi della vita di Gesù, Giacobbe e i profeti. Ognuna di loro è associata a un unico colore: verde e blu simboleggiano la

Terra, rosso e giallo raffigurano il Paradiso. Dopo aver realizzato quelle per la Sinagoga dell’ospedale Hadassah a Gerusalemme, Chagall riceve la commissione per quelle di Fraumünster, che inaugura in presenza nel 1970 all’età di 83 anni. Ma non basta. Mentre ti bei della sorridente arte del bielorusso puoi pure osservare sulla parete di sinistra la vetrata di oltre nove metri realizzata negli Anni Venti da Giacometti. Una selva di figure dove appaiono Dio, Gesù, i quattro evangelisti e otto profeti intervallati da un gran svolazzare di angeli in multicolor. Ma il fondamento biblico dell’iconoclastia protestante qui dove è finito? Uscito dalla porta, rientrato dalle finestre…

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FABIO SEVERINO [ economista della cultura ]

IDENTITÀ E CULTURA

A

bbiamo bisogno di solidarietà. La vicenda dei no-vax ce lo dimostra ancora una volta. Le persone, la massa, sono disinformate o male informate. Di conseguenza tanti sono diffidenti, suscettibili, condizionabili, mentre le comunità hanno bisogno di unità, di coesione. Di collanti non ce ne sono molti. L’identità è un collante. Ma cos’è l’identità? Essere nati nello stesso luogo? Parlare la stessa lingua (o dialetto)? L’identità è il riconoscersi. E questo non passa solo per gli aspetti esteriori (il luogo e il linguaggio) ma soprattutto per fattori comuni interiori (di cui luogo e linguaggio non sono altro che manifestazioni). L’identità è fatta di ciò in cui crediamo, in cui ci riconosciamo. E tutto ciò non è nient’altro che la Cultura (con la C maiuscola). Cosa e chi c’è stato prima di noi, cosa ci ha lasciato dentro e fuori (beni e monumenti), le abitudini, che quando collettive diventano consuetudini (o, come si diceva una volta, gli “usi e costumi”). La cultura ne è per l’appunto la manifestazione più diffusa, è l’espressione di un’identità collettiva. La pandemia moderna ci continua a mettere a dura prova, da diciotto mesi ormai. Non ci molla. Siamo asserragliati in noi stessi tra ciò che siamo, ciò che vogliamo, i confini del Sé e quelli del Noi o ancor di più del loro o degli altri. Il dibattito sui no-vax e tutte le conseguenti strumentalizzazioni del fenomeno ne sono la dimostrazione del giorno. E allora nell’attuale libertà ritrovata – speriamo non troppo temporanea – siamo alla ricerca di aggregazione, di socialità e di esperienze culturali. L’Italia, nel suo exploit turistico estivo, è colma di gente in giro, nei luoghi – antichi e moderni – alla ricerca di musica, spettacolo, storia, narrazione. Cerca radici, cerca identità. Perché questa ci preme dentro, è un bisogno, ma non è facile trovarla. Più di prima. L’iperconnessione dei social media dà solo maggiore spaesamento, non rassicurazione. Anzi crea anche illusione di comunità. Ma non ce n’è alcuna. Posso trovare tutto quindi non trovo niente. Come quando si va al ristorante: ci piace la carta del menu ben fornita ma poi tra troppe cose non ci sappiamo decidere, ci perdiamo. L’accesso culturale, che prima ancora dell’offerta è da sempre la vera scommessa di chi produce e distribuisce cultura, è stata la gioia in questa ritrovata libertà estiva. C’è tanta identità in giro, di cui si riconoscono le forme e i contenuti, ci è familiare, di prossimità perché offerta

IDENTIKIT DELLE FERIE AGOSTANE

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21mln

italiani in ferie AGOSTO

Durata media 9gg italiani partiti per l’estero

34%

€ 582

Spesa media pro capite

7%

italiani restati nella regione di residenza

in Italia ma in altre regioni

59%

4mln

turisti stranieri nelle città d’arte

L’accesso culturale, che prima ancora dell’offerta è da sempre la vera scommessa di chi produce e distribuisce cultura, è stata la gioia in questa ritrovata libertà estiva.

fonte: ANSA

magari vicino casa o nei luoghi abituali o delle origini, visto che le vacanze sono state “nostrane”. Non è congestionata (per il distanziamento), prenoto con i miei canali freddi abituali (i social), pago a distanza e mi garantisco l’accesso, il più delle volte non si fa fila perché non se ne può fare per evitare assembramenti. Ecco per fortuna che c’è la Cultura, ancora una volta, che ci ricorda chi siamo, da dove veniamo, forse ci dipana il dubbio su cosa vogliamo e soprattutto ci corrobora la solidarietà con un continuo alimentarci di senso di comunità di cui abbiamo sempre tanto bisogno.


CHRISTIAN CALIANDRO [ storico e critico d’arte ]

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L

LLL La scrittura come progetto esistenziale – come riflessione e racconto in presa diretta – come diario quotidiano e vita parallela – la scrittura come “forma di vita”: chi voglio essere, come mi penso, come voglio esistere e stare al mondo. La scrittura non è (più) un momento successivo, secondario – ma, al contrario, è il momento principale, primario, prioritario, che stabilisce il tono di tutto il resto. (“Tutto-il-resto” è la vita che accade, senza essere pianificata.) LLL “La passione di Dan [Graham] per la musica eguagliava quella per l’arte, e spesso il

La scrittura non è (più) un momento successivo, secondario – ma, al contrario, è il momento principale, primario, prioritario, che stabilisce il tono di tutto il resto.

rock’n’roll riusciva a infiltrarsi nella materia che trattava. Una volta mi ha detto che avrebbe voluto fare un tipo di arte che fosse come una canzone dei Kinks. (Un sacco di artisti ascoltano musica mentre lavorano, e molti di loro pensano: ‘Perché la mia arte non può essere intensa come i suoni che sto ascoltando?’ La risposta non ce l’ho.)” (Kim Gordon, op. cit., p. 95). Il concetto di “pop sotterraneo” (subterranean pop) emerge come idea con l’ondata post-punk / new wave / synth pop / gothic, costituita da band innovative e sperimentali, venute fuori dalle zone più impervie della sottocultura appena nata e attrezzate con i suoni più caustici in circolazione all’epoca, che però con l’ingresso negli scintillanti Ottanta si dedicano a inventare una forma estremamente raffinata di musica pop, leggera ma al tempo stesso radicale, e vanno così incontro a uno sfolgorante successo. Per capire come funziona dall’interno il pop sotterraneo, basta considerare l’opera di alcuni gruppi, scandita cronologicamente.

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a gente (spettatori, lettori, ascoltatori, mangiatori, bevitori, consumatori) vuole ottenere – subito – il prodotto, il risultato. Fa cioè qualcosa, qualsiasi cosa, acquista qualcosa, qualsiasi cosa, in cambio di (qualcos’altro). Questo rappresenta un problema enorme praticamente a tutti i livelli (affettivo, emotivo, politico, sociale, culturale, artistico): questo tipo di atteggiamento elimina infatti in ogni campo la possibilità di fare – o anche solo di pensare – in maniera del tutto disinteressata, perciò interessante. Il che vuol dire che esso elimina anche ogni possibilità teorica e pratica dell’imprevisto, di incontrare cioè l’imprevisto e di essere aperti e ricettivi nei confronti dell’imprevisto, e persino di provocare l’imprevisto; così come elimina ogni possibilità di sperimentazione radicale: se infatti, per ogni cosa che fai, ti aspetti immediatamente un contraccambio, un compenso o una compensazione di qualche tipo, come puoi predisporti a sperimentare – un’attività che per definizione non prevede alcuna forma di risarcimento, e che anzi è fondata strutturalmente sullo spreco e sulla dépense, sul fallimento e sulla caduta? “Per me esibirmi ha molto a che fare con l’essere impavida. A metà Anni Ottanta ho scritto un articolo per ‘Artforum’ in cui c’era una frase che il critico rock Greil Marcus cita spesso: ‘La gente paga per vedere altra gente che crede in se stessa’. Significa che più alta è la probabilità di fallire in pubblico, più la cultura dà valore a quello che fai. A differenza di altri artisti, mettiamo gli scrittori o i pittori, quando sei sul palco non puoi nasconderti dagli altri, e nemmeno da te stesso” (Kim Gordon, Girl in a Band. L’autobiografia, minimum fax, Roma 2016, p. 20).

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IERI & AVANTIERI: L’IMPREVISTO E IL POP SOTTERRANEO

Prendiamo, per esempio, i Depeche Mode. A partire dal primo disco del gruppo (Speak & Spell, 1981), ancora molto acerbo, ma con spunti molto interessanti (Nodisco, Photographic, Tora! Tora! Tora!, Big Muff), il lavoro che i membri fanno è quello di ripulire gradualmente il suono da tutte le influenze più ovvie e dirette (il krautrock di Kraftwerk e Neu!, così come la new wave di Human League e Ultravox), per raggiungere quello che è – e sarà nei decenni successivi – lo stile personale e unico, la propria voce. L’obiettivo è quello di costruire una canzone che sembri il più spontanea possibile, ma che in realtà è attentamente costruita in tutti i suoi dettagli, e nella struttura generale. Questa “forma” diventa poi un marchio, immediatamente riconoscibile (i Depeche Mode sono infatti senza dubbio uno di quei gruppi per cui bastano due o tre secondi per capire che si tratta di loro), e che soprattutto tende magicamente a non invecchiare. A essere sempre in qualche modo contemporaneo – cioè classico.

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GIACOMO BONCIOLINI

Πόλεμος POLEMOS A cura di Luca Sposato

Mo.C.A. Montecatini Terme Contemporary Art

11 Settembre 2021 16 Ottobre 2021 Mo.C.A. Montecatini Terme Contemporary Art Viale Verdi, 46 - Montecatini Terme (Pistoia)

© Dan Walsh Courtesy Paula Cooper Gallery

Daniel Sturgis, Utilitarianism, 75x75 cm

Dan Walsh, Utilitarianism 2020, 75x75 cm

Comune di Montecatini Terme

DANIEL STURGIS - DAN WALSH THE SCIENCE OF PAINTING testo di Barry Schwabsky

14 settembre - 30 ottobre 2021 / Opening 14 settembre ore 18.30 LUCA TOMMASI ARTE CONTEMPORANEA l Via Cola Montano, 40 Milano l luca@lucatommasi.it l www.lucatommasi.it



LA COPERTINA TATANKA JOURNAL

N. 62 L SETTEMBRE — OTTOBRE 2021 L ANNO XI DAL 2011 ARTE eccetera eccetera

SETTEMBRE L OTTOBRE 2021

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L NEWS L

ISSN 2280-8817

Cosa manca a Milano? 5 sfide culturali + Focus Afghanistan

LA BISSA (oppure ANGUIS) Si dice che in un primo momento il nome dei Visconti fosse associato al serpente in quanto originari di Anguaria, località il cui suono ricorda proprio quello della parola latina anguis (serpente, anguilla). Diventati Signori di Milano, i Visconti decisero di nobilitare le proprie radici introducendo una leggenda eroica, un mito legato a Bonifacio, Signore di Pavia, a suo figlio e a un gigantesco serpente acquatico. La copertina di Artribune #62 è un tributo alla città di Milano, una rappresentazione illustrata della bissa, che, avvitandosi sulla pagina, la trasforma in uno stemma araldico non convenzionale.

Tatanka è uno studio indipendente di progettazione grafica, fondato da Sara Ceradini, Francesco Fadani e Jacopo Undari, con sede a Bologna. Lo studio si occupa di editoria, comunicazione visiva e didattica in diversi ambiti artistici e culturali, con particolare attenzione alla materia stampata, all’autoproduzione e alle tecniche di stampa. Tutti i progetti nascono all’interno di processi collaborativi e condivisi, in cui conoscenze, discipline e tecniche differenti si incontrano e si contaminano. Dal 2018 collabora con artisti e curatori in progetti di ricerca e sperimentazione e dal 2020 porta sulle copertine di Artribune il proprio sguardo sul mondo e sul contemporaneo. TATANKA è un progetto di SARA CERADINI, FRANCESCO FADANI, JACOPO UNDARI tatankajournal.com tatankajournal@gmail.com tatanka_journal

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Arriva Augustus, il videogioco che fa conoscere l’archeologia in Sicilia GIULIA GIAUME L Nasce il videogioco Augustus, nell’ambito dei finanziamenti del POFESR Sicilia 2014/2020, che prevede la realizzazione di progetti tecnologici in partenariato tra imprese, enti e strutture di ricerca. Alla creazione di questo progetto di edutainment hanno collaborato soggetti molto diversi, tra cui l’Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale del Consiglio Nazionale delle Ricerche per la parte storiografica e archeologica, la compagnia Ett Spa per lo sviluppo dell’app, lo studio di comunicazione Ad Meridiem e quello di CGI RedRaion, e il Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali dell’Università di Palermo. Il gioco deve il suo nome a due elementi: un complesso acronimo che indica la natura in realtà aumentata del gioco – AUgmented Game for Sicilian ToUrism marketing Solutions – ma soprattutto il fatto che il primo imperatore romano, Augusto, sia proprio il protagonista del videogame. Lo scopo di Augustus è quello di portare chi gioca a scoprire le meraviglie della Sicilia, divertendosi con la logica. I giocatori devono infatti affiancare l’imperatore, che in veste di amante delle arti gli chiede di aiutarlo ad arricchire la propria collezione con pezzi di valore storico-artistico dell’isola. Si procede quindi nell’esplorazione di diversi siti archeologici, affrontando prove e superando enigmi basati su avvenimenti storici reali, che permetteranno una totale immersione nella straordinaria storia della regione. augustusgame.it

Intesa Sanpaolo apre le Gallerie d’Italia anche a Torino “È una nuova concezione di museo perché è un luogo che produce e diffonde contenuti, generando al tempo stesso ricaduta occupazionale. Ad oggi nelle tre sedi lavorano circa 100 giovani storici dell’arte, mentre solo a Torino ne lavoreranno 30”. Con queste parole, Michele Coppola, Executive Director Arte Cultura e Beni Storici di Intesa Sanpaolo, introduce la quarta sede delle Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo, dopo quelle di Milano, Napoli e Vicenza. Ancora in fase di cantiere, il cui progetto architettonico è stato affidato a Michele De Lucchi con AMDL Circle, il nuovo polo culturale del gruppo bancario sarà dentro l’edificio storico di Palazzo Turinetti, in piazza San Carlo, e ospiterà su una superficie di 9mila metri quadrati, quasi tutti ipogei, un grande centro della fotografia, dell’arte contemporanea e della videoarte. È previsto anche un immenso spazio di attraversamento che collegherà la piazza con le vie limitrofe e su cui si affacceranno le Gallerie, la filiale, la caffetteria San Carlo, un ristorante, un museum shop con una grande vetrata. “Faremo una nuova piazza di fianco a piazza San Carlo per creare connessione”, conclude l’architetto Alberto Bianchi dello studio De Lucchi. “Dove c’è ora il cortile, ci sarà un grande scalone che scenderà e accompagnerà ai piani ipogei fatti di ampi spazi, con altezze di 4 metri”. Le Gallerie d’Italia – Piazza San Carlo apriranno nell’aprile del 2022 con una grande mostra curata da Walter Guadagnini, direttore di Camera – Centro Italiano per la Fotografia. gallerieditalia.com


OPERA SEXY

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LA MATURITË DI NICOLE CLAVELOUX claveloux.curiosa.free.fr

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FERRUCCIO GIROMINI [ storico dell'immagine ]

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Nicole Claveloux, Confessions d’un monte-en-l’air, 2007

La si ricordava come giovane e deliziosa illustratrice per l’infanzia, figurarsi. E la si ritrova come anziana e pepata visualizzatrice per erotomani, guarda un po’. Ma per la verità qualche premessa c’era già allora, nei fiammeggianti Anni Sessanta e Settanta: femminista intelligente, Nicole Claveloux è sempre andata per conto proprio, incurante di regole indotte e insofferente a qualunque prescrizione miope, fosse anche di campo femminista a sua volta. Lei è un’indi­ vidualista, grazie al cielo di pensiero sempre autonomo. Fin dai Sixties rivoluzionaria illustratrice sulle coloratissime orme dei grandi Milton Glaser e Heinz Edelmann, poi geniale fumettista per Métal Hurlant e Ah! Nana (la prima stordente rivista francese di bande dessinée tutta al femminile), poi di nuovo pirotecnica collaboratrice della storica casa editrice italiana Dalla parte delle bambine, e intanto pure pittrice, Claveloux è stata sempre, per i suoi pubblici, un’artista molto sorprendente. Tanto che la sua più recente stagione creativa, da sessantenne a ottantenne (quindi quella che con una

strizzatina d’occhio si potrebbe definire “la più matura”), si è concentrata su figurazioni di carattere assolutamente e decisamente osé. La sua ultima produzione espressiva è focalizzatissima, dunque, e al contempo la può far includere ormai nel novero dei grandi artisti della cochonnerie francese, tra Fragonard e Félicien Rops (ma pure il malandrino austriaco Franz von Bayros sarebbe fiero di lei). Qualche esempio chiarificatore della sua licenziosa attività illustrativa? In Morceaux choisis de la Belle et la Bête (Eden 2003) sotto il suo pennino la famosa favola rinasce immersa in un’atmosfera tutt’altro che disneyana, ma piuttosto bellamente bestiale: la candidona e il pelosone ci danno dentro senza sosta. In Confessions d’un monte-en-l’air (Folies d’encre 2007) un acrobatico svaligiatore d’appartamenti della Belle Époque si trova sempre, guarda caso, in situazioni molto particolari, che mettono alla prova altre sue attitudini di superdotato e dalle quali esce in modi tutt’altro che disonorevoli; il tutto documentato con

eleganti bianchi e neri (e grigi) che nulla lasciano all’immaginazione. Poi in Contes de la fève et du gland (Folies d’encre 2010) ecco che il fagiolo e la ghianda, allegri protagonisti di svariate narrazioni, vengono visualizzati stavolta con matite colorate e gouache, in modi più morbidi e umoristici, e si può dire anche più furbescamente “ingenui”, non senza qualche concessione al grottesco. Gli altri titoli successivi, particolarmente espliciti – Les aphrodisiaques (Sabine Fournier 2006), L‘ingénue lubrique (Sabine Fournier 2007), Grammaire érotique (La Musardine 2010) –, le cui parti illustrative sono declinate in maniere formali ogni volta differenti (i contenuti invece sono sempre quelli, trionfalmente peccaminosi), non fanno che consolidare la fama di Nicole Claveloux quale decisa ultima interprete, diremmo filologica, della grande tradizione dell’erotismo libertino di matrice parigina. Coiti quasi surrealisti e languidi titillamenti incrociati la fanno sempre da padroni, ma con una divertita classe che qui, come il sangue, non è acqua. Come dire, un gran godimento.

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GESTIONALIA

IRENE SANESI [ dottore commercialista ]

DALLE STALLE ALLE STELLE: COME STA CAMBIANDO IL TURISMO CULTURALE

Non è casuale l’espressione utilizzata nel sviluppate le ciclovie, nonostante un clima titolo, in quanto richiama due modelli direi mediterraneo indulgente e un’integrazione ormai storicizzati del modello di business del arte-paesaggio pressoché totale. Gli hotel, turismo in Italia (e non solo): quello stelle a parte, per essere riconosciupiù bucolico degli agriturismi e ti e riconoscibili dovranno punquello tipizzato degli hotel tare a format ibridi in cui la notte rappresenti la miniclassificati con le stelle. Provocatoriamente ma parte della proposta Hauser & Wirth nel Somerset vorrei affermare che di ospitalità: servizi, comunicazione e un entrambi sono ormai obsoleti. Il Covid non alto tasso culturale traha fatto altro che sveladotto nei vari linguaggi re un terribile ritardo (dalla musica alla letteratura, dalla scultura al da parte del settore turistico ricettivo rispetto teatro) potranno fare la alla necessità di intervenidifferenza dell’esperienza. re in maniera innovativa, All’estero stanno germosuperando i confini, di gliando casi interessancui già aveva preso ti a cui guardare e ispiPARCO coscienza, di luogo/nonrarsi, come quello disegnato da Piet Oudolf e con un pensato dalla galleria luogo. padiglione di Smiljan Radić Hauser & Wirth nel L’istanza di relazione e identità era infatti Somerset. LOCANDA emersa in maniera tra- Durslade Farmhouse ha 6 stanze rinnovate Come dire: l’ospitadallo studio Laplace, che ha lavorato su sversale e poco importalità non è più solo tutto il sito va il posizionamento; in appannaggio di chi lo ha altre parole, anche un fatto di mestiere finora RESIDENZA ARTISTICA hotel di top gamma si (dalle famiglie alle granera posto il problema di catene) perché stanMOSTRE TEMPORANEE dal 2 ottobre c’è la personale perché l’era della stanno cambiando i paradi Thomas J Price dardizzazione ha chiudigmi. La parola so i battenti da un pezzo d’ordine è ibridazione: NEGOZIO e inediti concetti di weluno dei progetti più stiMake Hauser & Wirth vende prodotti fare e wellbeing insieme molanti che ho seguito realizzati da makers a nuove sensibilità su nel primo lockdown ha LEARNING PROGRAMME sicurezza, compliance riguardato proprio la ed esperienza avevano rigenerazione di uno RISTORANTE spazio per ripensarlo fatto capolino. Roth Bar & Grill ha un bancone disegnato Di questa rivoluziocome luogo di ospitalità dai figli di Dieter Roth ne le città d’arte, i musei all’insegna dell'arte con BOOKSHOP e il museo diffuso che è numerose ASAC (Aree l’Italia, insieme alle imStrategiche d'Affari Culprese culturali e dovrebbero preoccuparsi e turali) capaci di generare sostenibilità. occuparsi perché possono esserne protagoPotrebbe nascere una filiera straordinanisti e divenire soggetti trainanti. ria che interconnette gli immobili svuotati Mi spiego meglio. Il modello agrituristidalla pandemia, le imprese culturali e creaco con le sue stalle e le sue fattorie cederà il tive locali, i beni culturali, e fare di questi passo a un modello di turismo all’aria apernuovi luoghi non tanto dei punti di arrivo ta che continuerà ad avere il suo fulcro nel(dove sistemare le valigie e dormire) quanto la natura ma con canoni innovativi sul tema dei punti di partenza per lo svelamento e la scoperta del territorio e delle comunità. ambientale: si pensi a quanto poco siano

Basilicata: a Pietrapertosa arriva l’opera permanente dell’artista Emily Jacir GIULIA GIAUME L Torna in Lucania, a Pietrapertosa, l’opera dedicata al paese della provincia potentina dall’artista palestinese Emily Jacir. Dopo essere stata esposta a Torino alla Fondazione Merz, l’opera è tornata dal 4 agosto in pianta stabile nel territorio dove è stata pensata, nel periodo di residenza artistica di Jacir per Matera 2019. Realizzata con la pietra delle cave di Gorgoglione (nel materano) da un’azienda di Pignola tutta al femminile, Pietrapertosa è una scultura di forma circolare dalle dimensioni di 179 centimetri di diametro e 6 di spessore. Al suo interno sono incise due frasi dal medesimo significato, una in italiano (a cornice) e una in arabo (al suo interno): “Sei venuto tra la nostra gente e la tua vita è sicura”. Il tema che l’artista, Leone d’oro alla 52. Biennale di Venezia, ha sviluppato nella sua opera è proprio la cruciale importanza dell’ospitalità, un valore che unisce per tradizione le popolazioni del mondo agli abitanti di Pietrapertosa (dove c’è per l’appunto il quartiere Arabata).

Apre nella Tuscia micro-museo d’arte contemporanea. L’idea del curatore Antonio Arévalo

DESIRÉE MAIDA L Una torre medievale abbandonata, un piccolo paese al confine tra il Lazio e l’Umbria, un progetto d’arte contemporanea di respiro internazionale. È destinata a diventare un polo culturale Sipicciano, frazione di Graffignano in provincia di Viterbo e in procinto di ospitare il Micro Museo della Tuscia, su idea del critico e curatore Antonio Arévalo, tra i più attivi sostenitori e promotori della creatività latinoamericana in Europa (nel 2014 è stato nominato addetto culturale del Cile in Italia). La torre medievale acquistata da Arévalo – in passato utilizzata dall’Enel per portare luce al paese – si compone di tre piani che verranno adibiti a spazio espositivo, biblioteca e residenza artistica. Il Micro Museo della Tuscia ospiterà “opere site specific realizzate da artisti chiamati a fare qui un periodo di residenza di un mese, lavorando con il paese, con le scuole e con le associazioni locali”, spiega il curatore. Il primo artista a inaugurare questa serie di residenze è Iván Navarro.


OSSERVATORIO NON PROFIT SPAZIO BIDET spaziobidet

Thomas Ferembach e John Mirabel e lo Spazio Bidet

L NEWS L

Spazio Bidet è uno spazio espositivo di arte contemporanea che nasce nel 2018 in un ex WC operaio in un cortile privato di via Padova a Milano, fondato da Thomas Ferembach. Ha ospitato mostre di Andrea Bennardo, John Mirabel e Francesca Mussi e il collettivo Yassemeck. Nel corso del 2020, durante la crisi sanitaria, lo spazio chiude i battenti e sviluppa diversi progetti “fuori sede”, come Bidet à Boire, progetto di incisione su vetro tuttora in corso, proposto da Thomas Ferembach, John Mirabel e Francesca Mussi. Nel 2021 Spazio Bidet trova nuovamente uno spazio fisico in una delle vetrine dell’Enoteca La Botte, in via Giacosa 11 sempre a Milano. Thomas e John finiscono di costruire lo spazio a luglio e co-curano la programmazione che inizia a settembre. Spazio Bidet è quindi installato in una vetrina, con uno spazio arcuato, le cui pareti alte 4 metri offrono una profondità di 1,25 metri per 3 di larghezza, per una capienza di 13.490 litri. Spazio Bidet è un non-profit space che mira a promuovere la creazione contemporanea emergente. Gestito da due artisti con più ruoli che amministrano lo spazio, consente ai creatori di accedere a una forma di visibilità specifica per ogni approccio e lavoro, al fine di offrire formati ibridi per la produzione e la diffusione dell’arte contemporanea. Con un’architettura inusuale, una vetrina affacciata direttamente sullo spazio pubblico e pareti curve, i due curatori di Spazio Bidet invitano non solo artisti, ma anche altri curatori a riflettere sui principi di una mostra. Lo spazio è concepito come modulo invariabile, da cui l’osservatore passante può fruire esposizioni sempre diverse e, grazie alla parete in vetro, work in progress. Spazio Bidet è interessato alle molteplici forme espositive in cui gli elementi dello spazio vengono utilizzati per le loro potenzialità non convenzionali. Inoltre, fra una mostra e l’altra, i curatori invitano altre forme più performative a impossessarsi del luogo con concerti, reading ecc. La vetrina stessa funge da tramite tra due progetti espositivi: su di essa sono già state prodotte opere di artisti ospiti come Ehsan Mehrbakhsh e Fulvia Monguzzi. La prima mostra, An Art Handler Collection, apre il 15 settembre.

SETTEMBRE L OTTOBRE 2021

a cura di DARIO MOALLI [ critico d’arte ]

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BIO Thomas Ferembach, franco-inglese, ha studiato arte a Villa Arçon a Nizza e all’UDK di Berlino. Ha lavorato nella produzione e nell’allestimento per Sprüth Magers a Berlino e per Massimo De Carlo a Milano. Nel 2018 crea Spazio Bidet, partecipa dal 2019 al collettivo di incisioni su vetro Bidet-à-Boire con John Mirabel e Francesca Mussi. Nel 2021 assume la gestione dell’Enoteca La Botte, che trasforma completamente e utilizza come spazio per la sperimentazione artistica oltre che per la vendita del vino. Nel 2021 co-cura la nuova programmazione e il nuovo spazio di Spazio Bidet con John Mirabel. John Mirabel, franco-americano, ha studiato arte (2009-14) alla HEAR di Strasburgo e all’HGB di Lipsia. Nel 2016 e nel 2018 ha creato la residenza espositiva Passage a Bergerac. Nel 2019 ha partecipato alla residenza di ricerca Le Pavillon curata da Ange Leccia e ha esposto le sue ricerche sotto forma di installazioni al Frac Nouvelle Aquitaine di Bordeaux. È responsabile della produzione e della tecnica allestitiva del Crac Alsace curata da Elfi Turpin. Nel 2021 co-cura il nuovo spazio e la programmazione di Spazio Bidet.

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IL MONDO CAMBIA. L'ARTE CHE FA? SANTA NASTRO [ caporedattrice ]

Tempi moderni. Cosa può fare l’arte a fronte di eventi catastrofici come pandemia, estremismi religiosi, disastri climatici? Rispondono gli artisti.

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ANDREA POLICHETTI Credo profondamente che il ruolo degli artisti in generale sia dialogare costantemente con la realtà che li circonda. Durante la pandemia, a Roma gli artisti hanno dimostrato una enorme resilienza dando vita a numerosi spazi indipendenti, tra cui SPAZIOMENSA, di cui sono co-fondatore. La costellazione indipendente romana ha dato nuova centralità alla figura dell’artista insieme alla ricerca e allo studio, avvicinando gli addetti ai lavori come il pubblico più vasto al cuore del messaggio. Nella mia personale ricerca è fondamentale il tema della natura e della storia, messi in relazione all’uomo, che deve confrontarvisi con rispetto e consapevolezza. Nella serie Infestanti (2020), cianotipie di grande formato restituiscono un decalogo delle piante infestanti del centro Italia attivando un discorso sul paesaggio, sulla forza della natura e su come l’uomo abbia erroneamente soverchiato entrambe.

REVERIE Si potrebbe pensare che sia necessario indagare la questione da un punto di vista sia pratico che concettuale. Ma perché la pratica artistica non è pratica? L’arte non potrà ricostruire i mattoni caduti, assistere i malati, proteggere quanti sono in pericolo... Il lato economico della sua sfera d’azione potrà farlo per lei. Ma questa non è arte in senso puro e stretto. Ci vuole un’arte sismica, che scuota e sconvolga, o un’arte medica, che intervenga a tutela della resilienza del mondo? Malgrado creda nell’approccio multidisciplinare, arte

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è arte, non ha a che vedere con finalità che competono ad altri campi. L’arte può sottolineare, urlare, sensibilizzare, informare, far ricordare, far pensare, agire... L’arte può diventare la più efficace delle pandemie, bisogna vivere il presente da recettori. Le mani saranno così pronte a prendersi cura di tutti noi e dimostreranno che l’arte può diventare anche in sé pragmatica.

ALICE PASQUINI L’arte, in particolare la street art, può rappresentare un antidoto nei confronti di un’altra catastrofe, interamente umana: l’emarginazione. Al centro della vita artistica della maggior parte degli street artist c’è il muro. Io la chiamo arte contestuale, quella che nasce per un luogo specifico e in un altro non potrebbe esistere nello stesso modo, che è influenzata dalla luce e i colori dell’ambiente circostante. Le cicatrici della città sono le tele migliori per ridare valore alle cose abbandonate. Un giorno ho ricevuto una mail che mi chiedeva se fossi interessata ad andare a dipingere in un piccolo borgo del Molise. Civitacampomarano sorge sul crinale di una collina ed è afflitta dal deterioramento del territorio e dallo spopolamento. Con la collaborazione dei pochi ragazzi del posto rimasti e dei figli di immigrati, è nato un progetto artistico che ha coinvolto il paese intero. Ho dipinto usanze, momenti e tradizioni antiche sui muri di case bellissime, ora vuote e diroccate. Sono tornata a lavorare ogni anno con diversi amici artisti. Per far rivivere il borgo come un tempo. Così a Civita hanno cominciato a tornare i turisti. Il mio tema d’esame di quinta elementare era sulla caduta del Muro di Berlino. È triste constatare che, da allora, i muri nel mondo sono aumentati. Cos’ha un muro più di una tela? Dipingere sopra un muro vuol dire attraversarlo.


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IRENE PITTATORE

L’arte non si occupa, dal mio punto di vista, di “attualità”, ma può aprire degli squarci sul contemporaneo, può lavorare sullo strappo, sul buco, cercando di andare in profondità e creare un’eco che rimbomba in superficie. In questi tempi complessi, l’artista può diventare una cassa di risonanza. Le cose ci attraversano e noi in quanto artisti engagé – se è lecito ancora utilizzare questo termine – possiamo prendere delle posizioni rispetto al mondo che abbiamo davanti. “Mi rivolto dunque siamo”, scriveva Albert Camus nel 1951 – frase da cui nel 2014 ho prodotto anche un lavoro al neon –, in un’azione si scopre la dualità, il sé plurale. Quella solidarietà cara allo scrittore apolide – in cui mi ritrovo – emerge da un desiderio di rivolta in funzione di una collettività, da una frizione inevitabile che genera pensiero mettendo in crisi il sistema costituito e codificato, il passato e le grandi ideologie. Nel presente progettiamo il nostro futuro, per questo la rivolta deve essere qui e ora.

Nel nostro mondo globalizzato e iperconnesso saremo sempre più esposti a fenomeni complessi: la pandemia, il cambiamento climatico, le migrazioni, la povertà, la salute. Dipendono da infinite variabili interdipendenti e si può averne esperienza solo attraverso enormi quantità e qualità di dati differenti, per cui non abbiamo alcuna sensibilità. I nostri sensi non ci bastano più per percepire, comprendere e sopravvivere nel mondo in cui viviamo. Tanti artisti hanno iniziato a realizzare opere con i dati: visualizzazioni, sonificazioni e altre. Ma hanno un problema: rendono spettatori. Cosa posso fare io davanti alle temperature del pianeta che passano da verdi a rosse? Nulla: solo essere terrorizzato o estasiato. Servono nuovi rituali, nuovi totem attorno a cui riunirsi per decidere insieme i “che fare”. Nuove alleanze con le tecnologie in cui dati e computazione ci uniscano a foreste, oceani, organizzazioni, edifici, in sensibilità condivise tra umani e non umani. Un Nuovo Abitare.

L’attualità stringente può precipitare nelle pratiche artistiche e sollevare esperienze e opere detonanti e radicali, un farsi giorno in piena notte. Può, parimenti, lastricarle di buone intenzioni e produzioni a tema. C’è un corpo, anche sociale, in asfissia: dissotterriamo imperiosamente, laboriosamente, le nostre più riposte, affilate, incandescenti voci. Veniamo a patti con quel che ci ammala, asseta, divora, senza ansia di sedazione, affrontando il rischio di fallimento. Possa l’arte dilagare ancora, permanere fermamente nel conflitto e nella contraddizione, infiltrarsi nei passi di tutti, situarsi e sconfinare, non abdicare al proprio orizzonte di senso, perturbazione, trasformazione per supplire a esigenze di impatto sociale o forzata transizione digitale. Insinuiamoci nella breccia spalancata dall’emergenza pandemica.

VALENTINA VETTURI

GIOVANNI GAGGIA

GRAZIA TODERI

È un argomento che sento vicino. Non è lontano dal senso di un quesito che ho posto ad alcuni della vostra redazione qualche mese fa: “Che cosa può fare l’arte?”. L’arte potrebbe fare tanto, insinuandosi maggiormente nelle trame della società. Ha la capacità, se non di cambiare il mondo, di modificare le singole persone, il loro modo di vivere e percepire il presente. Raccontare l’attualità può essere un fatto scomodo perché ancora non digerita e dunque difficile da tradurre senza correre il rischio di esporre il fianco. Ciò che per me realmente conta è decidere che uomini e donne vogliamo essere. Risolto tale quesito, vanno utilizzati tutti gli strumenti possibili per concretare l’ipotesi. Narrare l’oggi attraverso l’arte, immaginandosi un futuro migliore, diviene un dovere. È questo che mi ha spinto a decidere negli anni di affiancare i parenti delle vittime della Strage di Ustica o di costruire progetti che raccontassero storie legate ad Amnesty International o di trattare la tematica dell’identità di genere. Troppo pochi gli artisti che scelgono questo viaggio.

L’arte può fare ciò che sa fare, da sempre. Innanzitutto, osservare, in profondità, cercando la rivelazione e la comprensione dei fenomeni. Comprendere i fenomeni significa anche potersi salvare. L’osservazione approfondita offre differenze, liberando nuove strade e nuovi pensieri, che possono causare disturbo ai sistemi chiusi. In ogni circostanza l’artista osserva, immagina. E agisce inventando. L’invenzione è disobbedienza che cambia lo stato delle cose, generando speranza. È la disobbedienza che distingue l’arte dal “professionismo artistico”, che, al contrario, obbedisce e illustra temi imposti dai sistemi chiusi. È con la disobbedienza che l’arte sottolinea la sua distanza dalla retorica dei regimi, di qualsiasi tipo. L’arte può offrire resistenza e speranza.

L TALK SHOW L

SALVATORE IACONESI

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ELENA BELLANTONI

La vostra domanda mi fa pensare a Keep calm and draw together, il progetto promosso a New York nel 2020 da Times Square Arts, Poster House, Print e For Freedoms, che ha diffuso nella città poster e immagini digitali dedicati alla pandemia disegnati da illustratori, graphic designer, artisti ed esposti su circa 1.800 chioschi e cartelloni elettronici. Al di là dei contenuti che in questo particolare progetto sono stati veicolati o delle scelte estetiche, mi sembra un esempio emblematico rispetto a ciò che l’arte storicamente sa e può fare. E uso questo talk show per dire che mi sarebbe piaciuto e mi piacerebbe vedere in Italia spazi pubblici, online e offline, invasi da interventi d’arte che sappiano tradurre, mediare, sintetizzare lo spirito del tempo. Che possano confortare, offrire uno spazio di libertà, di conoscenza, una prospettiva alternativa che metta in crisi punti di vista consumati dalla retorica. Durante la crisi legata al Covid-19 in Italia tutte le forme d’arte, da quelle visive alla musica, sono state messe a tacere e considerate inutili. Invece credo fortemente che, nel quotidiano e ancor più nei momenti di crisi, i nostri luoghi pubblici debbano essere invasi dall’arte.

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APP.ROPOSITO

SIMONA CARACENI [ docente di virtual environment ]

POLYNESIAN CULTURAL CENTER I beni demoantropologici da tempo sono al centro di una costante attenzione museologica. Soprattutto il patrimonio intangibile è oggetto di nuove sperimentazioni e attente riflessioni su come restituirlo al meglio, per far correttamente comprendere ai visitatori l’essenza della materia esposta: si tratti di musica, un canto tradizionale, un modo di fare le cose, un modo di vivere il mondo. Il Polynesian Cultural Center, nelle Hawaii, ha polynesia.com messo in campo una buona strategia: propo free ne un centro di interpretazione dove i visi Oculus tatori possono avere esperienza della cultura polinesiana, ma ha voluto diffondere una visita guidata anche su una piattaforma immersiva di realtà virtuale. Comodamente seduti a casa ci si può letteralmente immergere nelle atmosfere, usanze, canti e balli rituali di quel territorio. A guardar bene è forse un po’ carente di spiegazioni e didascalie, ma ha un sicuro impatto emozionale.

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L MACHINIKA MUSEUM Non dimenticherò mai quella volta in cui ho guidato in visita una scolaresca di un importante liceo classico pugliese al Palazzo Poggi a Bologna. Gli studenti, entusiasti, vedevano al museo gli stessi strumenti scientifici d’epoca che il loro liceo gli permetteva di usare durante i veri esperimenti di laboratorio e, a un certo punto, ne vidi alcuni con un oggetto del museo in mano correre dalla professoressa esclamando: “Vede? Come nel littlefieldstudio.com nostro laboratorio!”. Credo che si ricordino € 7,99 ancora le mie urla. Questa app permette di iOS, Android, Windows entrare in un museo immaginario e di toccare e giocare con tutte le diavolerie meccaniche in esposizione, facendo tastare con mano una delle missioni fondamentali del museo, cioè lo studio e l’esposizione del proprio patrimonio. Ovviamente senza destare le ire dei guardasala e senza il timore di rovinare qualcosa. E, soprattutto, utilizzando i rompicapi di Myst, uno dei videogiochi che hanno fatto la storia del gaming.

L A MUSEUM OF SELF & SPACE È un percorso all’interno della nostra realtà interiore, guidati in uno spazio VR. Da tempo esistono sperimentazioni, in ambito museale e non, sulla rappresentazione del sé in realtà virtuale, e di studio di differenti modalità percettive, sempre mediate dall’uso della VR. Le applicazioni spaziano da un estremo all’altro: si passa dalla ricerca di Intel su Facebook, Museum of Me, che permetteva a tutti gli iscritti al social di benefi jackhartgames.com ciare di uno spazio 3D su cui venivano dislo free cati dall’intelligenza artificiale i momenti Windows, MacOS più importanti della nostra vita, gli amici più affezionati, i ricordi più intimi; fino a progetti artistici come Notes on blindness. Molto lontano anche dall’esperienza del Museo della Mente a Roma, il Museum of Self & Space è un intrigante test a cui ispirarsi.

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A Milano Fondazione Prada diventerà palcoscenico della Riccardo Muti Italian Opera Academy GIULIA RONCHI L Fondazione Prada si apre per la prima volta alla musica classica, grazie alla collaborazione con la Riccardo Muti Italian Opera Academy che, giunta alla sua settima edizione, verrà ospitata negli spazi del Deposito dal 4 al 15 dicembre. Si tratta di un’accademia internazionale nata nel 2015 e aperta al pubblico di uditori. dove allievi di direzione d’orchestra, maestri accompagnatori e cantanti d’opera possono perfezionare le proprie conoscenze con il maestro Riccardo Muti (Napoli, 1941). L’evento sarà dedicato al Nabucco di Giuseppe Verdi e si comporrà di fasi di studio (costituito da prove di sala, prove di lettura e prove d’assieme) con l’esecuzione finale dell’opera in forma di concerto. Muti lavorerà sul brano al pianoforte, sul podio e in orchestra a stretto contatto con i giovani talenti di età compresa tra i 18 e i 35 anni, da lui selezionati in precedenza. La manifestazione sarà seguita dall’etichetta discografica Riccardo Muti Music (RMMUSIC), che registrerà le prove e i concerti con l’obiettivo di trasformarli in un prodotto audiovisivo e renderla disponibile a un pubblico ancora più ampio. fondazioneprada.org riccardomutioperacademy.com

NECROLOGY JEAN-PAUL BELMONDO 9 aprile 1933 – 6 settembre 2021 L JEAN-LUC NANCY 26 luglio 1940 – 23 agosto 2021 L ALAN JONES 1930 – 21 agosto 2021 L MARISA ALBANESE 1947 – 21 agosto 2021 L KAARI UPSON 22 aprile 1970 – 18 agosto 2021 L ANTONIO PENNACCHI 26 gennaio 1950 – 3 agosto 2021 L LYDIA BUTICCHI FRANCESCHI 1o maggio 1923 – 29 luglio 2021 L KURT WESTERGAARD 13 luglio 1935 – 14 luglio 2021 L CHRISTIAN BOLTANSKI 6 settembre 1944 – 14 luglio 2021 L SILVANO GHERLONE 26 gennaio 1931 – 11 luglio 2021 L UMBERTO RIVA 16 giugno 1928 – 25 giugno 2021


NUOVI SPAZI

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MIRÓ E PASOLINI – PARMA Attraverso opere per la gran parte della Fundación MAPFRE di Madrid, la mostra su Joan Miró propone un percorso che sfida la pittura tradizionale. Lo affianca un omaggio a Pier Paolo Pasolini, a pochi mesi dal centenario della nascita, che vuole sottolinearne l’apertura al dialogo fra letteratura, cinema, arti figurative alla ricerca di quelle “corrispondenze” al centro dell’interesse intellettuale anche di Luigi Magnani, fondatore del museo. magnanirocca.it I 1600 ANNI DI VENEZIA – VENEZIA Lungo le 12 sale del Palazzo Ducale, temi ed episodi salienti della città sono scanditi dalle opere dei massimi artisti – tra cui Carpaccio, Tiziano, Veronese, Tiepolo, Canaletto, Guardi –, architetti e uomini di lettere attivi in laguna nell’arco di quasi un millennio. palazzoducale.visitmuve.it CLAUDE MONET – MILANO Con 53 dipinti in arrivo dal Musée Marmottan di Parigi, il percorso al Palazzo Reale ripercorre l’intera parabola artistica del Maestro impressionista, attraverso le opere custodite gelosamente nella sua abitazione di Giverny: dipinti che lui stesso non volle mai vendere, raccontando le più grandi emozioni legate al suo genio artistico. palazzorealemilano.it ORAZIO GENTILESCHI – TORINO Un confronto tra la Santa Cecilia che suona la spinetta e un angelo, in prestito dalla Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia, e l’Annunciazione della Galleria Sabauda: ai Musei Reali, due capolavori di Orazio Gentileschi, celebre seguace di Caravaggio. museireali.beniculturali.it

Cimitero Monumentale

CANDY SNAKE GALLERY Nel 2013 ha fondato il project space Dimora Artica, tra il 2016 e il 2017 ha diretto l’Edicola Radetzky, ora apre una galleria “commerciale” dedicata agli artisti emergenti. Abbiamo intervistato Andrea Lacarpia. Com’è nata l’idea di aprire questa nuova galleria? Da quali esigenze, da quali istanze, da quali punti di partenza? Candy Snake Gallery nasce dalla volontà di avvicinare le persone alle ultime tendenze dell’arte internazionale, unendo approccio curatoriale nella selezione degli artisti, chiarezza della comunicazione e selezione di opere significative ma dal costo non eccessivo. Lo statuto non profit di Dimora Artica, project space che ho fondato nel 2013, non mi dava la possibilità di espandere il progetto in una dimensione commerciale, da qui la decisione di avviare questo nuovo progetto con tutto l’entusiasmo del nuovo inizio. Descrivi in poche righe il tuo nuovo progetto. Candy Snake Gallery intende colmare la distanza tra l’arte contemporanea e il pubblico puntando sull’accessibilità delle informazioni sulle opere, pubblicate sul sito web e nel profilo Instagram, e sulla selezione di artisti rilevanti per agevolare il collezionismo in un contesto dell’arte emergente che può apparire sempre più saturo e disorientante. Chi siete? Mentre a Dimora Artica vengo spesso affiancato da curatori e artisti con i quali condivido la direzione artistica e la gestione generale, al momento la Candy Snake Gallery è un progetto interamente gestito da me. Le mie esperienze precedenti si sono focalizzate principalmente sulla promozione dei giovani artisti, sviluppando miei progetti o collaborando con diverse gallerie. Tra il 2016 e il 2017 sono stato direttore artistico dell’Edicola Radetzky.

Milano Via Porro Lambertenghi 6 380 5245917 candysnakegallery.com

Ti avvarrai della collaborazione di curatori esterni? Per il futuro non escludo che, per mostre specifiche, si avvieranno collaborazioni con curatori esterni. Su quale tipologia di pubblico (e di clientela ovviamente) punti? E su quale rapporto con il territorio e la città? Oltre agli insider, mi interessa agevolare la formazione di un nuovo pubblico di persone potenzialmente interessate all’arte contemporanea ma che non si sono mai avvicinate alle gallerie perché intimorite da un contesto spesso poco accessibile. Milano è una città connessa con il mondo e mi sembra la città ideale per Candy Snake Gallery, progetto che punta ad avere un approccio fresco e immediato come molte gallerie del nord Europa. Oltre alle mostre in sede, sicuramente si organizzeranno anche progetti pop-up in diversi luoghi, in modo da avvicinarsi a un pubblico ulteriore.

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ESCHER – GENOVA È la più grande e completa antologica dedicata al genio olandese. Con oltre 200 opere, tra le più rappresentative, la mostra al Palazzo Ducale presenta in 8 sezioni un excursus della sua intera e ampia produzione artistica. mcescher.com

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ina tell Val Via

CLAUDIA GIRAUD

Carlo Farini

5 grandi mostre nell’autunno 2021

Un cenno agli spazi espositivi. Come sono, come li hai impostati e cosa c’era prima? La sede espositiva è nel quartiere Isola, una zona molto vivace e vicina ai nuovi edifici di Porta Nuova. Lo spazio è un basement con un soffitto caratterizzato da volte in mattoni e da un grande pilastro centrale. Ora qualche anticipazione sulla stagione in partenza. Inauguriamo la galleria con quattro artisti nati tra il 1989 e il 1996 unendo pittura, scultura e disegno: Filippo Cegani, Matteo Gatti, Naomi Gilon, Bogdan Koshevoy. Alla Candy Snake proporremo soprattutto mostre collettive con opere di giovani artisti, ma non escludiamo mostre personali e focus su autori più consolidati, mantenendoci comunque nell’ambito dell’arte emergente.

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ARCHUNTER

MARTA ATZENI [ dottoranda in architettura ]

« ARCHITECTES NICOLAS LAISNE nicolaslaisne.com

BIENNALE DI VENEZIA 2022: NOTIZIE DAI PADIGLIONI ITALIA

Sarà Eugenio Viola a curarlo. Nato a Napoli nel 1975, è chief curator al MAMBO – Museo de Arte Moderno de Bogotà, in Colombia; stesso ruolo in precedenza al PICA – Perth Institute of Contemporary Arts in Australia, dopo l’esperienza curatoriale maturata al Madre di Napoli. L’artista, pare, sarà Gian Maria Tosatti. CANADA

Il Canada ha annunciato chi sarà il curatore del Padiglione che accoglierà il lavoro di Stan Douglas, commissionato dalla National Gallery of Canada in Ontario: si tratta di Reid Shier, direttore della Polygon Gallery a North Vancouver.

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OLANDA

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A rappresentare l’Olanda alla 59. Mostra Internazionale d’Arte di Venezia sarà Melanie Bonajo (Herleen, 1978), artista olandese che utilizza video, performance, installazioni, musica e fotografia. Nicolas Laisné Architectes + Sou Fujimoto Architects + Oxo Architectes + DREAM, L’Arbre Blanc, Montpellier. Photo © Cyrille Weiner

Nel viaggio all’insegna del “vivere insieme” proposto a Venezia dal curatore della Biennale Architettura 2021 Hashim Sarkis, una torre-scultura con decine di piattaforme in legno è animata dalle verticalità di uomini in miniatura dell’artista Guy Limone. Allegoria di una disciplina generosa, aperta ed ecologicamente virtuosa, One Open Tower è il manifesto progettuale di Nicolas Laisné (1977). Come spiega il progettista francese ad Artribune: “Mi piace l’idea che l’architettura si apra alla realtà, agli incontri, all’inventiva: amo edifici che generano possibilità e il mio lavoro è realizzarli”. Un desiderio di accompagnare usi e stili di vita contemporanei, che dal 2005 Laisné traduce in opere verticali che spingono ai limiti l’innovazione tecnica e formale. Come a Montpellier, dove il concorso per una “follia urbana del XXI secolo” è occasione per ripensare la tradizione locale del vivere all’aperto. Con Sou Fujimoto Architects, Oxo Architectes e DREAM, Nicolas Laisné Architectes idea una torre i cui 193 giardini pensili, aperti a ventaglio attorno al corpo dell’edificio, estendono la vita dall’interno delle mura domestiche verso il paesaggio della Linguadoca. Dallo sbalzo da record di 7,5 metri e il conseguente ombreggiamento che riduce del 30% il consumo energetico, i salon en plein air fanno dell’Arbre Blanc, completato nel 2019, una torre unica nel suo genere.

Nello stesso anno, NLA in collaborazione con DREAM completa a Nizza un edificio per uffici. In linea con modalità di lavoro sempre più flessibili, il team libera tutti i piani spostando gli spazi di distribuzione all’esterno. Collegati da terrazze giardino, i corridoi e i passaggi all’aperto moltiplicano le possibilità di lavoro, con postazioni e sale riunioni affacciate sul parco antistante. Con i suoi 2.400 mq di spazio all’aperto, pari a un terzo della superficie coperta, Anis compare nella shortlist dell’EU Mies Award 2022 dello scorso marzo. Il suo team di cinquanta professionisti è attivo su numerosi fronti: “Dalle residenze collettive Vélizy a pochi passi dalla foresta di Meudon, a Woodwork, un edificio per uffici in legno a Saint-Denis, nuovo esempio di costruzione a basse emissioni abbinato a comfort e spazi esterni. E poi a Nanterre-La Défense l’Arboretum sarà il più grande campus in legno mai realizzato”. E non mancano i progetti per il futuro: “Sono profondamente radicato nel mio territorio, ma al contempo aperto al contesto internazionale: tra qualche anno immagino un altro punto d’appoggio in Francia, a Marsiglia, e uno negli USA”. Intanto NLA ha inaugurato la nuova sede di Parigi: “È nel cuore della città, l’XI arrondissement, con tante terrazze per lavorare: proprio come l’architettura aperta che offriamo”.

AUSTRIA

Sono Jakob Lena Knebl e Ashley Hans Scheirl le artiste selezionate per rappresentare l’Austria. Il Segretario di Stato austriaco per gli Affari Culturali Ulrike Lunacek ha dichiarato che il progetto proposto dalle due artiste per il Padiglione ai Giardini è “vivace”, e non mancheranno umorismo e satira. AUSTRALIA

Sarà Marco Fusinato a rappresentare il Paese. Nato a Melbourne nel 1964, è un artista multidisciplinare, che spazia dalla musica alle installazioni, dalla fotografia alla performance. Il Padiglione Australiano sarà curato da Alexie Glass-Kantor, direttore esecutivo di Artspace a Sydney e curatore della sezione Encounters ad Art Basel Hong Kong. IRLANDA

Sarà Niamh O’Malley a rappresentare il Paese in Biennale. A curare il Padiglione saranno Clíodhna Shaffrey e Michael Hill, rispettivamente direttrice e curatore di Temple Bar Gallery + Studios, principale complesso di gallerie e studi di artisti d’Irlanda.


DURALEX

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RIPRODUZIONE DEL PATRIMONIO CULTURALE: LE NUOVE SFIDE DEL DIGITALE

Si ricorda che l’art. 108 del Codice contiene delle eccezioni alla regola generale del cosiddetto utilizzo pagante, introdotte a partire del Decreto Art bonus (D.Lgs. n. 83/2014), che lasciano un certo margine di libertà agli operatori. In particolare, il comma 3 dell’art. 108 del Codice prevede che nessun canone è dovuto per le riproduzioni richieste o eseguite da privati per uso personale o per motivi di studio, ovvero da soggetti pubblici o privati per finalità di valorizzazione, purché attuate senza scopo di lucro. Il comma 3-bis, inoltre, stabilisce che sono libere se svolte senza scopo di lucro, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale, le attività di riproduzione e divulgazione nel rispetto delle altre condizioni meglio specificate nella stessa norma. Il caso è emblematico del dibattito in corso sulla riproduzione di beni culturali non più protetti dal diritto d’autore, cioè caduti in pubblico dominio, presenti in luoghi chiusi o ad accesso controllato (per esempio nelle collezioni di musei e altre istituzioni culturali) oppure presenti sulla pubblica via e liberamente visibili (per esempio opere architettoniche). Il tema è anche quello della cosiddetta libertà di panorama, cioè della possibilità di riprodurre opere di architettura, sculture e altre opere collocate stabilmente in luoghi pubblici e liberamente visibili. Il dibattito su questi argomenti, che torna ciclicamente alla ribalta in occasione di

vicende giudiziarie, è oggi di particolare interesse anche a seguito della accelerazione verso la digitalizzazione del patrimonio culturale quale conseguenza della crisi da Covid-19, che ha indotto molte istituzioni a spostare la propria attività sul web. Si consideri, inoltre, che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) prevede investimenti per incentivare la digitalizzazione di quanto custodito in musei, archivi, biblioteche e luoghi della cultura, così da consentire a cittadini e operatori di settore di esplorare nuove forme di fruizione del patrimonio culturale. Altro tassello importante nella regolamentazione e gestione del processo di digitalizzazione del patrimonio culturale è il recepimento della Direttiva 2019/790 sul diritto d’autore e i diritti connessi nel mercato unico digitale e, in particolare, l’art. 14 dedicato proprio alle opere delle arti visive di pubblico dominio. In Italia questa direttiva è in fase di recepimento e lo schema di decreto legislativo di attuazione della direttiva, adottato il 5 agosto dal Consiglio dei Ministri, prevede l’introduzione di un nuovo articolo nella legge sul diritto d’autore, secondo cui, alla scadenza della durata di protezione di un’opera delle arti visive, il materiale derivante da un atto di riproduzione di tale opera non è soggetto al diritto d’autore o a diritti connessi, salvo che costituisca un’opera originale e fatte salve le disposizioni in materia di riproduzione dei beni culturali di cui al D. Lgs. n. 42/2004.

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Il sito Pornhub, piattaforma di condivisione di contenuti per adulti, ha recentemente lanciato il progetto Classic Nudes, una guida interattiva che racconta i musei più famosi del mondo e alcune opere in essi custodite in chiave erotica. All’utente sono mostrate opere d’arte che riproducono scene sexy presenti nelle collezioni dei musei, che da luoghi noiosi da visitare diventano luoghi che ospitano collezioni di opere porno di inestimabile valore. Tra i musei inizialmente inseriti nella guida c’erano gli Uffizi di Firenze, il Prado di Madrid, il Louvre e il Musée d’Orsay di Parigi, la National Gallery di Londra e il Metropolitan di New York. Per la realizzazione del progetto, che ha visto la collaborazione dell’agenzia Officer & Gentleman, non è stato chiesto ai musei interessati il preventivo consenso per la riproduzione delle opere in questione. La reazione dei musei è stata di duplice natura: da una parte gli Uffizi, il Prado e il Louvre si sono opposti alla riproduzione delle opere all’interno della guida, chiedendo la rimozione delle immagini; dall’altra parte, il Musée d’Orsay, la National Gallery e il MET non hanno sollevato obiezioni e le opere fanno tuttora parte della guida online. Per quanto riguarda gli Uffizi, la rimozione delle immagini è stata chiesta sulla base del Codice dei beni culturali (D.Lgs. n. 42/2004, artt. 107 e 108), secondo cui la riproduzione dei beni culturali deve essere autorizzata dai soggetti che hanno in consegna i beni, fatte salve le norme in materia di diritto d’autore.

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RAFFAELLA PELLEGRINO [ avvocato esperto in proprietà intellettuale ]

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IL MIO AFGHANISTAN 10 ANNI FA E OGGI PARLA CAROLYN CHRISTOV-BAKARGIEV C

om’è nata l’idea di lavorare con e in Afghanistan dieci anni fa durante la Documenta? Da cosa germina il tuo rapporto con quel Paese? Nel 2009, allorché cominciai a lavorare al grande progetto della dOCUMENTA (13), mi venne in mente di raccogliere la mostra intorno a quattro assi principali, non formali o di contenuto o di materiali, ma attorno alle quattro posizioni dalle quali di solito gli artisti si trovano a esprimersi. Quali sono queste quattro posizioni? Cosa fa un artista quando si trova nella posizione di spettacolarizzazione del lavoro, on stage, sul palcoscenico? Questa posizione rifletteva la mostra di Kassel. Cosa fa un artista che si sente on retreat, in ritiro, e questa è diventata la mostra a Banff in Canada, un luogo con più orsi che esseri umani. Cosa fa un artista quando è in uno stato di speranza, in a state of hope, e questa è stata la mostra al Cairo e ad Alessandria in Egitto, visto ciò che accadeva allora nel mondo arabo con la Primavera Araba. E infine: cosa fa un artista quando è in stato di assedio? Mi è sembrato un tema perfetto da abbinare a una mostra in Afghanistan, a Kabul principalmente, ma anche a Bamiyan, dove i Buddha erano stati distrutti nel 2001. In un senso strutturale, l’Afghanistan era questo stato di assedio, ma in realtà riuniva in sé le altre tre posizioni: è lontano dai centri dell’arte mondiale, quindi è on retreat; era in uno state of hope, perché vent’anni fa si stava costruendo una nuova società dopo il periodo talebano; ed era anche il palcoscenico del mondo – bastava che cadesse uno spillo a Kabul e finiva sulla CNN. Ci sono altri motivi che ti hanno spinto a scegliere Kabul? Almeno altri due. In primo luogo, io sono una “esperta” di Arte Povera e sono stata molto amica di Alighiero Boetti, e Alighiero

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Si attenua, purtroppo, l’intensità dei riflettori sulla situazione afghana. Mentre procede la "normalizzazione" talebana e la creazione di un nuovo ordine, abbiamo chiesto alcune riflessioni a Carolyn Christov-Bakargiev, la grande curatrice e critica occidentale che più di tutti gli altri ha conoscenza e sensibilità sullo scenario. A partire da dieci anni fa, quando trasformò la Documenta di Kassel in una mostra in due sedi, aggiungendo anche Kabul.

mi aveva parlato tante volte di Kabul, del suo One Hotel, del rapporto con quella parte del mondo che poi ha influito molto sul suo valorizzare ciò che prima era criticato da parte dell’arte concettuale, cioè la decorazione, la ricchezza dei colori, del ricamo... – questi elementi, che erano stati messi da parte dall’arte contemporanea in Europa, avevano cambiato il suo modo di fare arte. Boetti ha abbracciato questa idea della diversità. C’erano quindi l’amore e la dedizione per l’Arte Povera e Alighiero Boetti – passione che fra l’altro condividevo con l’artista Mario García Torres, che da poco aveva fatto un lavoro per la sua mostra al Reina Sofía, nel quale aveva simulato una ricerca del One Hotel attraverso uno scambio di fax, una forma d’arte che richiamava le opere di mail art di Boetti. Quindi ho detto a Mario: “Andiamo a cercare il One Hotel, andiamo a Kabul”, e l’abbiamo trovato, abbiamo affittato l’edificio e attivato un nuovo centro per l’arte nel 2011-12.

Qual è stata la vostra attività a Kabul? Abbiamo allestito mostre nel parco Bagh-e Babur, al Queen’s Palace, nel Museo Nazionale d’Arte, in vecchi cinema bombardati... Abbiamo collaborato con le istituzioni che allora stavano nascendo, tra le quali il CCAA – Centre for Contemporary Art Afghanistan. Resta da spiegare l’ultimo motivo per il quale hai scelto l’Afghanistan. L’ultima, o forse la prima ragione, deriva dal fatto che io penso sempre in maniera archeologica – mia mamma era un’archeologa – e guardando Kassel nel 2009 non ti spieghi perché proprio lì si debba fare una grande mostra d’arte contemporanea. Si capisce solo scavando nella storia della Documenta: siamo a sessanta chilometri da dov’era il confine con la Germania Est, in una città fortemente bombardata dagli inglesi durante la Seconda Guerra Mondiale, visto che era un centro di produzione


Quante volte sei andata, anche con Andrea Viliani, in Afghanistan? Tante, davvero tante! Già nel 2009 ho cominciato a pensare a questa seconda venue, che aveva un corrispettivo a Kassel, in un edificio dietro il Fridericianum dove esponevano 26 artisti afghani. Non si trattava quindi soltanto di portare artisti noti e internazionali in Afghanistan, ma anche di portare artisti afghani o della diaspora afghana a Kassel. Dal punto di vista della politica culturale c’era un equilibrio totale, con grande attenzione a non importare dall’alto un’operazione per l’appunto culturale.

militare importante per i nazisti. Documenta era nata per volontà di Arnold Bode, che sin dal 1948 sosteneva bisognasse fare qualcosa come la Biennale di Venezia. La prima edizione, curata proprio da Bode, si tenne nel 1955. Io volevo trovare un luogo che fosse simile alla Kassel del 1945-48, un luogo occupato dai suoi liberatori – un paradosso! –, che deve ricostruirsi come nazione, conoscendo l’estremismo al quale può portare il nazionalismo o la religione e le conseguenze anche drammatiche che genera: i nazisti in Germania, i talebani in Afghanistan. Solo che adesso i talebani sono tornati... È una vergogna dell’Occidente: andare a liberare un Paese e poi lasciarlo senza aver creato una condizione stabile è quanto di peggio si possa fare. Andare a Kabul per la Documenta era un po’ come entrare nella mostra di Kassel nel 1955. Si sovrapponevano periodi storici e luoghi diversi, entrambi

Cosa fa un artista quando è in stato di assedio? Mi è sembrato un tema perfetto da abbinare a una mostra in Afghanistan.

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Adrián Villar Rojas, Return the World, 2012. Photo © Roman Mensing. Courtesy the artist, kurimanzutto, dOCUMENTA (13)

Torniamo ai tuoi viaggi in Afghanistan. Il primo approccio è stato grazie all’Aga Khan Foundation, istituzione che supporta la ricostruzione soprattutto di architetture nei Paesi islamici. Li ho contattati attraverso la loro sede in Svizzera e mi hanno sostenuta nel mio viaggio di ricerca. Andrea Viliani era il responsabile della sezione afghana della Documenta e ha trascorso molti mesi lì nel 2012: è stato bravissimo! Nei due anni precedenti io ho viaggiato con l’antropologo Michael Taussig, con Mariam Ghani, Francis Alÿs e tanti altri artisti. Non era ancora chiaro se avremmo fatto una mostra in Afghanistan, ma intanto abbiamo visitato tutti i centri culturali, l’università, il teatro, la Afghan Film (ti ricordi le immagini dei talebani che bruciavano le pellicole? Erano i positivi, mentre i negativi erano stati murati in una stanza e quindi si sono salvati!) e poi la Scuola di Miniatura a Herat e, durante uno dei viaggi, siamo andati nella valle di Bamiyan, ho voluto vedere i laghi di Band-e-Amir – dove Alighiero Boetti aveva chiesto che fossero disperse le sue ceneri – e i monti dell’Hindu Kush. Tieni conto poi che Andrea Bruno, l’architetto del Castello di Rivoli, per molti anni aveva studiato i Buddha di Bamiyan, realizzando delle canalizzazioni affinché l’acqua non li rovinasse, gli stessi Buddha che i talebani hanno distrutto nel marzo del 2001. Tornando alla tua domanda: a un certo punto trascorrevo metà del tempo a Kabul e l’altra metà a Kassel, due luoghi remoti dai centri dell’arte contemporanea – ma viaggiavo anche nel resto del mondo per invitare gli artisti alla Documenta.

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caratterizzati da un trauma, dalla guerra e dalla ricostruzione dopo un collasso. Sono particolarmente interessata alle capacità curative dell’arte, vengo da Melanie Klein e dall’idea dell’arte come reparation e come healing, e nella mostra a Kabul molti artisti, sia occidentali che afghani, hanno lavorato su questa convinzione.

Com’era la situazione? Che momento politico era? Quando sono stata a Kabul la prima volta, nel 2010, per cercare il One Hotel di Boetti e in preparazione della Documenta, la situazione era abbastanza ottimista. Certo,

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sono stati realizzati i Buddha. Michael Rakowitz voleva farle lavorare dagli artigiani del nord Italia. Grazie all’aiuto del collezionista Josef Dalle Nogare, le pietre sono state depositate sulle Dolomiti e lavorate per riprodurre in pietra i libri che erano bruciati nel grande incendio della biblioteca di Kassel nel 1942, durante la Seconda Guerra Mondiale. In questo modo, attraverso un’opera d’arte, Rakowitz ha collegato la distruzione della cultura in Europa alla distruzione della cultura in Asia. E poi all’incontrario...

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One Hotel, Kabul, 1972 © Mariam Ghani

c’erano le truppe degli eserciti che avevano liberato l’Afghanistan dai talebani, ma dopo il 2001 il Paese stava rinascendo dal punto di vista delle istituzioni. Era un Paese islamico, ma non era governato dalla legge della shari’a. L’esperimento consisteva nel capire se l’arte e l’internazionalizzazione dell’arte potessero avere un effetto benefico a livello di cura di una società che aveva vissuto guerre civili pazzesche negli Anni Novanta e poi la “pace” sotto la dittatura dei talebani. Nel 2010 ho trovato un Paese pieno di ottimismo e di buona volontà. Il fatto che il mio fosse un viaggio non tedesco ma organizzato dall’Aga Khan Foundation, che si occupa di cultura islamica, era il modo migliore per costruire un rapporto. Non fu facile convincere il Ministero degli Esteri tedesco e soprattutto il Goethe Institut. A Bangkok ci fu una riunione di tutti i direttori dei Goethe dell’Asia, mi chiesero una relazione e spiegai il rapporto con l’Italia e con Boetti, quello fra arte e trauma, arte e guerra, arte e ricostruzione post-bellica. Evidentemente superai la prova, perché mi fu dato un grant dal Ministero degli Esteri tedesco per realizzare questa sezione della Documenta a Kabul. Quali momenti ricordi di più? Quella con l’Afghan Film fu un’esperienza pazzesca! Uno dei nostri progetti fu il restauro delle macchine per fare gli internegativi, facendo lavorare insieme gli anziani che sapevano gestire la pellicola – erano soprattutto persone che avevano studiato a Budapest, nell’orbita russa, durante l’occupazione sovietica – con i giovani che, proprio per il fatto di essere al centro del mondo a causa della guerra, avevano a disposizione le più avanzate tecnologie video e facevano le commission per i grandi network televisivi americani ed europei. Il workshop per

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Dopo il 2001 il Paese stava rinascendo dal punto di vista delle istituzioni. Era un Paese islamico, ma non era governato dalla legge della shari’a.

salvare Afghan Film, anche digitalizzando e uploadando molti materiali, l’abbiamo fatto insieme a Camp e Padma, un collettivo di artisti di Bombay – questo è uno dei momenti che ricordo di più. Sono successe tante cose... Ricordo l’incontro con un gruppo di donne scrittrici organizzato dall’ufficio culturale americano; ho invitato Jérôme Bel, in collaborazione con il Centre Culturel Français, e in quel periodo ci fu un attacco talebano, e io scrivevo di notte delle mail a Jérôme dalla Germania... Ricordo i momenti di difficoltà, ma Andrea Viliani gestiva bene la situazione e abbiamo sempre trovato una soluzione ai problemi che si presentavano. Con gli italiani abbiamo lavorato benissimo, ad esempio con l’Ambasciata e con la Difesa: invece di occuparsi di guerra, si sono occupati di questioni culturali! Raccontaci di più su questo “intervento” italiano. Dalla valle di Bamiyan, quella della minoranza sciita hazāra, hanno prelevato delle pietre, le stesse con le quali nel VI secolo

… c’è anche un viaggio di ritorno? Giuseppe Penone ha donato una scultura, un albero di marmo, con le venature scavate in maniera tale da sembrare canali linfatici che stanno all’esterno anziché all’interno. Questo cilindro è appoggiato su un albero vero nell’ultima terrazza del Bagh-e Babur. La scultura si trova ancora lì, immagino abbastanza sola; siccome è un’opera astratta, non vedo la ragione per la quale debba essere danneggiata da chicchessia. Non credo che i talebani danneggeranno un’opera d’arte astratta che celebra il rapporto tra l’umano e la natura. Non vedo l’ora di tornare, un giorno, a vedere come l’albero sarà cresciuto attorno al marmo. Insomma, furono gli italiani delle Forze Armate a portare l’albero di Penone a Kabul, perché non esistevano trasportatori “normali” da e per l’Afghanistan. La situazione in città allora era tranquilla? Gli attacchi talebani erano sempre possibili. Bisognava stare all’erta e seguire gli ordini impartiti dalle autorità. Io stavo dentro il Serena Hotel, che è nella piazza centrale di Kabul, e uscivo solo in maniera organizzata con l’Aga Khan Foundation, che era a sua volta in contatto con le autorità locali. Era una normalità anormale, con i cartelli nei locali che invitavano a lasciare le armi all’ingresso... Una volta o due sono uscita con il burqa, per girare da sola, più libera perché irriconoscibile. Che idea ti sei fatta della situazione attuale, alla luce di quell’esperienza e delle notizie che provengono in queste settimane? Credo che la situazione sia drammatica. Mi auguro che i talebani di adesso non siano i talebani di allora, però la vedo abbastanza negativamente. Penso alle tantissime giovani artiste che nel 2012 erano ancora studentesse. A parte Zainab Haidary, che allora andò in Germania e che è rimasta là, in Afghanistan è rimasta ad esempio, a quanto so, Shamsia Hassani, che per la Documenta fece un workshop sull’arte dei graffiti. Bisogna occuparsi di tutte queste artiste, come Fatimah Hossaini [che nel frattempo è riuscita a fuggire a Parigi, N.d.R.], una generazione che è nata artisticamente dopo la Documenta, anche grazie ai workshop fatti insieme agli artisti della diaspora afghana, che per l’occasione erano tornati a Kabul.


Quali erano e quali sono gli artisti afghani che hanno dimostrato maggiore sensibilità nel raccontare e analizzare ciò che succedeva e succede nel Paese? Prima della Documenta era già abbastanza nota Lida Abdul, che nel 2012 ha esposto sia a Kassel che a Kabul. Lei è molto sensibile nell’esporre questi drammi. Un’altra grande artista è Mariam Ghani; è una videomaker e all’epoca mi ha aiutato moltissimo e in questi giorni ha lavorato tanto per far uscire gli artisti dal Paese. Ed è la cosa più importante da fare, perché una cultura è tanto più civile quanto più difende i suoi artisti. Nel nostro mondo occidentale, spesso si sottovaluta l’importanza degli artisti, invece in Afghanistan i talebani conoscono benissimo quanto sia rilevante la rappresentazione, l’immagine, e quindi per gli artisti la situazione è pericolosissima. In questi ultimi dieci anni abbiamo fatto crescere decine di artisti, ora non possiamo abbandonarli. Mohsen Taasha era un ragazzino durante la Documenta, ora è un pittore riconosciuto e fortunatamente è riuscito a scappare in Francia pochi giorni prima dell’arrivo dei talebani a Kabul. Ma tanti altri sono rimasti bloccati e si sta tentando di farli uscire dal Paese, non so se usare il passato o il futuro...

Goshka Macuga, Of what is, that it is; of what is not, that it is not, 2012 (particolare). Courtesy the artist, Andrew Kreps Gallery, Kate MacGarry, Galerie Rüdiger Schöttle.

Il nostro compito è salvare gli scrittori, i musicisti, soprattutto gli artisti figurativi, i filmmaker, i fotografi. La reazione è sostanzialmente assente, ed è un peccato. Non so perché. I musei al momento sono molto deboli. Stanno vivendo un periodo di grande difficoltà economica. Questa debolezza porta a essere cauti, per non perdere quel poco che resta. C’è una tale paura che porta a non fare niente, in generale. Per quanto riguarda gli artisti, privatamente ne ho sentiti tantissimi che sono devastati per la situazione e chiedono come fare per essere d’aiuto. La mia opinione è

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Ritieni che la reazione dei grandi artisti, dei grandi direttori di museo, dei grandi critici sia idonea rispetto alla crisi?

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Tornando alla prima fase della dittatura talebana, chi erano gli artisti attivi nel Paese? Un artista che vorrei citare è Yousef Assefi. Lavorava alla National Gallery of Art e durante il primo periodo talebano portava a restaurare i dipinti con le figure di animali o di esseri umani e li copriva con l’acquerello. Così li riposizionava ed erano... paesaggi! In questo modo ha salvato centinaia di quadri dell’Ottocento e del Novecento. Non so se sia riuscito ad abbandonare il Paese, me lo auguro, perché ha ingannato il primo governo talebano. È quello che qui chiameremmo un activist artist. Nel Brain della Documenta avevo esposto un suo piccolo dipinto. Tra i più grandi artisti afghani c’è Khadim Ali, che ho presentato alla Documenta e che ora fa mostre in tutto il mondo. Più che raccontare, lui crea oggetti che contengono quel trauma, cioè essere oggi un Paese per certi versi arretrato a causa di decadi di guerra, con un vago ricordo di anni abbastanza vitali e vivaci – negli Anni Settanta, quando ci andava Alighiero, era sulla happy route; ma anche negli Anni Cinquanta o durante il periodo sovietico. Il Paese è crollato nella povertà ma nel passato era un centro culturalmente alto: la miniatura persiana è nata a Herat – Herat è Afghanistan! Quindi è sconcertante che la nostra contemporaneità, che il nostro mondo così avanzato e digitale, abbia questa macchia addosso che è l’Afghanistan. E non se ne vede la fine.

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che dare troppa visibilità a chi è rimasto in Afghanistan possa costituire un danno. Bisogna farli uscire dal Paese. Il nostro compito è salvare gli scrittori, i musicisti, soprattutto gli artisti figurativi, i filmmaker, i fotografi... Occorre fare pressione sui nostri politici per convincerli a trovare delle vie diplomatiche, magari attraverso quei Paesi che sono in rapporti almeno accettabili con i talebani, affinché si creino dei safe passage, in modo che possano uscire in maniera discreta dal Paese. Questo è il momento della protezione. Poi verrà il momento per tornare. Io sono sempre stata ottimista, penso che i talebani di oggi si rendano conto che non possono essere come quelli del 1996. Ma fino a un certo punto. Non sono totalmente una relativista culturale, non penso che vada tutto bene solo perché è una cultura diversa. E non è una questione religiosa: ci sono decine di Paesi in cui l’Islam dimostra di essere generoso e dolce. Quindi ripeto: ora è il momento di far espatriare gli artisti, coloro che celebrano la fioritura della vita.

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ART MUSIC

CLAUDIA GIRAUD [ caporedattrice musica ]

GLI NFT DI BOOSTA davidedileo.com/musicisart

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Skate © Genuino – genuino.world. Disegnato, pensato e composto da Davide "Boosta" Dileo & Danijel Zezelj

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Comprare, collezionare e scambiare NFT digitali connessi a pezzi fisici. Da questa intuizione di Genuino, start-up di Cagliari che si occupa di blockchain, ha preso corpo il progetto Music is Art di Davide Dileo, meglio noto come Boosta, che così ci racconta la sua idea: “Io parto dall’assunto che tutto abbia un suono. Se tutto ha un suono, io che sono musicista posso far suonare tutto; posso dare un significato musicale e una colonna sonora a tutto”. Da qui l’idea del compositore, tastierista e co-fondatore dei Subsonica – che ha recentemente aperto uno spazio a Torino insieme alla gallerista Raffaella De Chirico per esporre i suoi pezzi unici artistico-musicali – di non fare un altro disco e nemmeno l’ennesimo video, ma un’opera unica digitale. Con un concept incentrato sulle ancestrali proprietà del quadrato magico da riversare, sia uditivamente che visivamente, in un oggetto fisico vintage come la musicassetta. “Ho preso come modello il quadrato magico del 5 che ha 25 celle divise in righe, linee e diagonali. Ogni cella ha al suo interno un numero mai uguale che sommato dà sempre 65”, continua Dileo. “La musica è matematica perché è basata su una velocità che si calcola in numeri, i BPM (le battute per minuto), così ho trasformato il quadrato magico in un quadrato numerico e digitale”. Come nella cabala, dove tutto ha un significato, anche in questo NFT ogni cella è un’unità ritmica e melodica compiuta, da poter far suonare all’infinito, perché è l’interazione dell’utente con l’opera la chiave di tutto. “Non chiamiamolo esercizio o divertissement, ma sicuramente un omaggio a Terry Riley e al suo ‘In C’”. L’artefice dell’aspetto visivo è Danijel Žeželj, artista illustratore, animator e graphic designer croato amato da Federico Fellini, anche disegnatore di Batman per la DC Comics e di Captain America per la Marvel, che ha creato per il progetto degli scenari metropolitani nel suo inconfondibile stile sfumato, dal tratto mai rilassante, ma altamente poetico e in perfetta sincronia con il suono di Boosta, che così conclude: “La libertà che sto raggiungendo con questo progetto è impagabile. Il problema di tutti è rimanere intrappolati in quello che si sa fare, mentre avere così tanti strumenti a disposizione significa mettersi alla prova in un contesto che non è il proprio. Che è quello che dovrebbe fare sempre un artista”.

Pistoia Musei lancia talk su mostra Aurelio Amendola CLAUDIA GIRAUD L Un ciclo di incontri dedicato al mondo della fotografia per riflettere sulla relazione tra immagine e arte, in un dialogo aperto tra passato, presente e futuro del nostro patrimonio culturale: è questo il progetto di Pistoia Musei dal titolo Fotografia come pretesto, che vede coinvolti critici, scrittori, giornalisti e artisti in una serie di talk con protagonista uno dei fotografi italiani più noti al mondo per eclettismo e stile: Aurelio Amendola (Pistoia, 1938). Condotte da Monica Preti, direttrice di Pistoia Musei, le conversazioni si legano, infatti, alla mostra Aurelio Amendola | Un’antologia. Michelangelo, Burri, Warhol e gli altri attualmente in corso negli spazi espositivi di Pistoia Musei: una retrospettiva che racconta oltre 60 anni di carriera del fotografo pistoiese, all’insegna della sperimentazione e soprattutto del rapporto tra fotografia e arte. Ma anche dell’architettura con l’arte antica e contemporanea e degli happening degli Anni Settanta che, in circa trecento immagini, raccoglie la quasi totalità della produzione del fotografo pistoiese. Tra i protagonisti delle discussioni, oltre allo stesso Amendola, gli artisti Roberto Barni e Emilio Isgrò, gli storici dell’arte Marco Bazzini e Tomaso Montanari, Massimo Bray (direttore generale dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani), Francesca Cappelletti (direttrice della Galleria Borghese di Roma), l’artista e giornalista Gianluigi Colin, il critico Bruno Corà, il direttore di Camera Walter Guadagnini. fondazionepistoiamusei.it

Apre a Firenze il 25hours Hotel, nel segno di Dante e della Divina Commedia DESIRÉE MAIDA L Apre a Firenze il 25hours Hotel Piazza San Paolino, primo hotel in Italia della 25hours Hotel Company, società fondata nel 2005 da Stephan Gerhard, Ardi Goldman, Christoph Hoffmann e Kai Hollmann, che oggi gestisce 12 alberghi in Paesi di lingua tedesca e a Parigi, oltre alle strutture che prossimamente saranno inaugurate a Copenaghen, Sydney e Melbourne. Il nuovo hotel ha sede nel complesso dello storico Monte de’ Pegni (la società di prestito della Cassa di Risparmio di Firenze), dove si trova il suo nucleo centrale; si tratta di un ex monastero, annesso alla Chiesa di San Paolino, a pochi passi da Piazza Santa Maria Novella e dal Museo Novecento. Il progetto di recupero architettonico, a cura di GLA – Genius Loci Architettura, comprende demolizioni, restauri e nuove edificazioni, come la dépendance con ulteriori 104 camere con balcone (che si aggiungono così alle 66 del nucleo centrale) e un Garden Loft, un piccolo appartamento con giardino privato e piscina. Oltre agli spazi dedicati alle camere, il nuovo hotel ha anche un ristorante, chiamato San Paolino, che si sviluppa sotto la grande cupola di vetro al centro dello storico palazzo, circondato da un cortile interno, un bar Negroni e un negozio di alimentari che si apre sulla piazza. Caratteristica dell’hotel è il tema attorno cui è stato costruito il design dei suoi interni: curato da Paola Navone e dal suo studio, il progetto è ispirato alla Divina Commedia di Dante, con scene dell’Inferno e del Paradiso che si avvicendano giocosamente tra le camere da letto, mentre il Purgatorio ha ispirato il design dei corridoi. 25hours-hotels.com


SERIAL VIEWER

GIULIA PEZZOLI [ registrar ]

VIVARIUM

Anni Zero: le serie tv da rivedere. Abbiamo già parlato lungamente di Twin Peaks (19901991), che per noi è un po’ la mamma delle serie tv contemporanee (e non a caso è frutto THE SOPRANOS (1999-2007) IDEATORE: David Chase della mente di un grande come STAGIONI: 6 David Lynch), ma sono tanti i EPISODI: 86 prodotti che a fine Anni Novanta e inizio Duemila hanno segnato THE WIRE (2002-2008) la strada e avviato un’epoca d’oIDEATORE: David Simon ro della visione seriale. STAGIONI: 5 Tra queste c’è Oz (1997EPISODI: 60 2003), ideata da Tom Fontana e ambientata in un carcere di BATTLESTAR GALACTICA massima sicurezza negli Stati (2004-2009) Uniti, un microcosmo e, in picIDEATORE: Ronald D. Moore STAGIONI: 4 colo, la storia di una società traEPISODI: 73 viata, che segue con cruda realtà le vicende dei detenuti come in HOMELAND (2011-2020) una sequenza di pièce teatrali, IDEATORI: senza sconti né all’essenza della Howard Gordon & Alex Gansa vita né al sistema. Un pugno nelSTAGIONI: 8 lo stomaco, ma da rivedere. EPISODI: 96 Del 1999 è The Sopranos, ideata da David Chase e trasmessa da HBO, protagonista il compianto James Gandolfini, scomparso a Roma nel 2013. Con un cast eccezionale, il plot incentrato sull’ascesa e la crisi di una famiglia malavitosa italo-americana nel New Jersey è invece un viaggio introspettivo nelle incertezze dell’animo umano e le fragilità di un periodo storico a cavallo tra due secoli, cercate in cuori insospettabili. Per dire che nell’incommensurabilità della battaglia quotidiana con l’esistenza siamo un po’ tutti sulla stessa barca. Abbiamo già su queste colonne raccontato ampiamente The Wire (2002), ambientata a Baltimora, in cui la città, nelle sue stratificazioni sociali, è protagonista in un grande affresco corale. C’è ancora Battlestar Galactica (2004), genere science-fiction, che rilancia il tema della lotta per la sopravvivenza e l’emancipazione delle macchine dal genere umano. Infine, anche se un po’ più recente rispetto ai prodotti sopra citati, torna alla mente in questi mesi di grande sofferenza una serie come Homeland, la storia dell’agente della CIA con disturbo bipolare Carrie Mathison, che attraversa le vicende in Medio Oriente e la presenza USA tra Iraq e Afghanistan, ma anche le problematiche del terrorismo internazionale. Traendo ispirazione dalla realtà, offre scenari e finali alternativi.

Nel corso della ricerca del loro primo appartamento, Tom e Gemma si imbattono in Martin, uno stravagante agente immobiliare che li conduce a Yonder, un quartiere residenziale costituito da una successione infinita di identiche villette a schiera. Durante la visita al civico 9, Martin scompare nel nulla, lasciando i ragazzi nell’abitazione. La coppia, stranita dall’eccentrico comportamento, sale in macchina per lasciare il quartiere ma ben presto si rende conto che da Yonder, una volta entrati, non si può più uscire. Al suo secondo lungometraggio, Lorcan Finnegan (Without Name, 2016) sceglie uno scenario distopico per tratteggiare un’allegoria inquietante della società contemporanea. Prendendo spunto dal grande cinema di fantascienza del secondo dopoguerra, che trattava liberamente temi considerati tabù con intenti educativi, Vivarium mette in scena argomenti attuali e scottanti, come l’adesione inconsciamente indotta a uno stile di vita borghese e la prosperità del sistema consumistico a esso strettamente associato. Il regista irlandese ci immerge in immagini stranianti e surreali, dalla stucchevole tonalità verde pastello e dai cieli posticci in stile magrittiano, per mostrare i suoi due protagonisti intrappolati come cavie da laboratorio in un’imitazione artefatta e brutale del mondo reale e dei suoi meccanismi “naturali”. Yonder (dall’inglese ‘laggiù’, ‘dall’altra parte’) è un vivaio (dal latino ‘vivarium’): un luogo preposto alla crescita di esseri viventi (animali o vegetali) destinati al consumo. Tom e Gemma, giovani nel pieno delle loro capacità riproduttive, devono (come tutti) essere parte del sistema per permetterne la sopravvivenza e così, a poche ore dal loro arrivo, oltre alla perfetta casa a schiera, viene affidato loro anche un neonato, con la promessa che, se se ne occuperanno, saranno “liberati”. Tuttavia il bambino cresce a una velocità impressionante e manifesta atteggiamenti imitatori e inquietanti, rivelando la sua natura artificiale e inficiando così tutti gli sforzi che la coppia fa per assumere un “reale” ruolo genitoriale. Lavorando con un cast di qualità ridotto all’osso e un’ottima sceneggiatura, Finnegan crea un’opera profonda e sofisticata, disseminata di metafore e simbolismi, di riferimenti alla cinematografia contemporanea e alla storia dell’arte, mostrandoci, con stile impeccabile, un ritratto distaccato, lucido e impietoso della nostra società.

OZ (1997-2003) IDEATORE: Tom Fontana STAGIONI: 6 EPISODI: 56

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5 SERIE TV DA RIVEDERE

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SANTA NASTRO [ caporedattrice ]

LIP - LOST IN PROJECTON

IRLANDA – BELGIO – DANIMARCA, 2019 REGIA: Lorcan Finnegan | GENERE: fantascienza, horror, thriller SCENEGGIATURA: Lorcan Finnegan, Garret Shanley CAST: Jesse Eisenberg, Imogen Poots, Jonathan Aris, Senan Jennings DURATA: 97’

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CRISTINA MASTURZO [ docente di economia e mercato dell'arte ]

5 scoperte archeologiche dell’estate 2021

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Wassily Kandinsky, Tensions calmées, 1937. Courtesy Sotheby’s

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Wassily Kandinsky, Tensions calmées, 1937 £ 21,224,700 | Sotheby’s, Londra

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Lucian Freud, David Hockney, 2002 £ 14,905,200 | Sotheby’s, Londra

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Pablo Picasso, L’Étreinte, 1969 £ 14,697,000 | Christie’s, Londra

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Alberto Giacometti, Homme qui chavire, 1950-51 £ 13,703,000 | Christie’s, Londra

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René Magritte, La Vengeance, 1936 € 14,552,500 | Christie’s, Parigi

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Pablo Picasso, Homme et femme au bouquet, 1970 £ 9,390,000 | Sotheby’s, Londra

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Wassily Kandinsky, Noir bigarré, 1935 £ 8,848,795 | Christie’s, Londra

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Cy Twombly, Untitled, 1964 £ 7,781,400 | Sotheby’s, Londra

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Ernst Ludwig Kirchner, Pantomime Reimann: Die Rache der Tänzerin, 1912 £ 7,140,000 | Christie’s, Londra

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Andy Warhol, Front and Back Dollar Bills, 1962-63 £ 6,804,750 | Sotheby’s, Londra

CAMPIONE DI ANALISI: Sotheby’s, Modern & Contemporary Art Evening Sale, Londra, 29 giugno 2021 Sotheby’s, British Art Evening Sale: Modern/Contemporary, Londra, 29 giugno 2021 Christie’s, 20th/21st Century: London Evening Sale, Londra, 30 giugno 2021 Christie’s, 20th/21st Century: Collection Francis Gross, Parigi, 30 giugno 2021 Christie’s, 20th/21st Century: Paris vente du soir, Parigi, 30 giugno 2021 I prezzi indicati includono il buyer’s premium.

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SANTUARIO A MONTENERO SABINO Scoperto a Montenero Sabino, in provincia di Rieti, il primo santuario della dea sabina Vacuna. Da uno scavo condotto da un pool di archeologi di Lione sono riemersi tre muracci a secco, brani di pavimentazione in cocciopesto e tesserine marmoree, terrecotte di copertura franate, fosse sepolcrali, favisse dove si sono conservati gli ex voto. NECROPOLI DI PORTA SARNO A POMPEI Dalla campagna di scavo promossa dal Parco Archeologico di Pompei e dall’Università Europea di Valencia è emersa una struttura sepolcrale risalente agli ultimi decenni di vita della città, costituita da un recinto in muratura sulla cui facciata si trovano tracce di pittura che rappresentano piante verdi su sfondo blu. Al suo interno è stato trovato il corpo inumato di Marcus Venerius Secundio, schiavo pubblico e custode del tempio di Venere. GENOVA MEDIEVALE Durante i lavori di realizzazione del futuro Museo della Città di Genova, che sorgerà alla Loggia dei Bianchi, sono riemerse tracce di tessuto urbano di epoca tardo-medievale: è stato ritrovato un edificio residenziale, affacciato sull’antica viabilità e contraddistinto da una loggia in pietra bugnata. SAN BENEDETTO DEL TRONTO A Villa Marittima, magione patrizia del I secolo a.C., sono state rinvenute vasche maiolicate d’epoca utilizzate per la vinificazione. In precedenza, i ritrovamenti avevano riguardato antiche tecnologie di itticoltura e trasformazione alimentare del pesce. BASILICA MEDIEVALE IN PUGLIA Nell’antica Daunia, territorio che ricopre l’attuale provincia di Foggia, è emersa una basilica datata tra il VI-VIII secolo con annessa una necropoli. La scoperta è giunta durante i lavori per la realizzazione di un impianto fotovoltaico.


NUOVI SPAZI

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Piazza Navona

Via di Tor Millina

Piazza di Pasquino

BASILE CONTEMPORARY Ha inaugurato il 10 giugno e sta proprio dietro piazza Navona. Rosa Basile è la protagonista di questa nuova avventura galleristica che si svolge nella Capitale.

quindicennale sviluppata nel settore dell’arte a vario titolo. Descrivi il vostro nuovo progetto. Il progetto si colloca all’interno dell’arte contemporanea. In alcune mostre, la galleria vorrà mettere in dialogo il “contemporaneo” con lo “storicizzato”. Quale è la compagine che affronta questa avventura? La compagine ha il fulcro nella mia figura: negli anni ho conosciuto e interagito con diverse personalità (artisti, critici, curatori)

Mantova omaggia Dante e la cultura del Trecento in una mostra a Palazzo Ducale GIULIA RONCHI L Mantova celebra Dante Alighieri nell’anniversario dei 700 anni dalla sua morte. Dante e la cultura del Trecento a Mantova, in programma dal 15 ottobre al 9 gennaio 2022 al Palazzo Ducale, indaga la cultura letteraria e figurativa del XIV secolo, la prima mai dedicata dalla città a questo periodo storico. Molti sono i rimandi tra Mantova e il Sommo Poeta, nonostante non si sia ancora riuscita a dimostrare con certezza la permanenza del “ghibellin fuggiasco” in questo luogo durante il suo esilio. In occasione della mostra vengono riprogettate interamente l’allestimento delle Sale dell’Appartamento di Guastalla in Corte Vecchia, grazie all’intervento di GTRF Tortelli Frassoni Architetti Associati di Brescia, che integra le opere della collezione permanente con i prestiti provenienti internazionali. Nel percorso sono diverse le opere dedicate a Dante: il suo ritratto in una lunetta della Galleria degli Specchi, nell’affresco attribuito alla bottega di Antonio Maria Viani; il calco in gesso ricavato nel 1921 dal bassorilievo del monumento funebre a Ravenna. Uno sguardo anche al contesto in cui l’opera dell’Alighieri si è

A livello di staff come sei organizzata? A breve avrò una collaborazione interna. Su quale tipologia di pubblico (e di clientela ovviamente) punti? E su quale rapporto con il territorio e la città? La tipologia di pubblico con cui mi interfaccio è variegata, ma certamente bene si sposa con un pubblico raffinato e sensibile, pronto ad accogliere. Un cenno agli spazi espositivi. Come sono, come li hai impostati e cosa c’era prima? E come ti interfacci col territorio circostante? Il rapporto con la città non può che essere un rapporto idilliaco, essendomi ubicata a Roma alle spalle di piazza Navona. Lo spazio espositivo è regolare, con un retro che fa da deposito. L’impostazione è pulita e sobria, completamente bianca, con il soffitto di mattoni. La linearità e la purezza sono volute, al fine di esaltare le opere che verranno ospitate all’interno. Per tanti anni la mia attuale galleria è stata la sede di un noto cesellatore bronzista di nome Massimo Giuliani.

plasmata: oltre a diversi esemplari della Commedia, anche due straordinari codici miniati provenienti dalla Bibliothèque Mationale de France e dalla Biblioteca Nazionale Marciana. mantovaducale.beniculturali.it

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Come è nata l’idea di aprire questa nuova galleria? Da quali esigenze, da quali istanze, da quali punti di partenza? È un’idea che ha sempre albergato nella mia mente. L’esigenza è stata quella di darle forma. L’aspirazione è quella di svolgere questo lavoro al massimo delle potenzialità che può offrire. Il punto di partenza è l’esperienza

Roma Via di Parione 10 340 0001260 basilecontemporary.com

con le quali oggi decido di lavorare, con collaborazioni esterne in varie forme.

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Apre il CAMUC – Casa Museo Cannas, nuovo spazio espositivo in Sardegna a Ulassai GIORGIA BASILI L È stato inaugurato ad agosto il CAMUC – Casa Museo Cannas, un nuovo spazio espositivo al centro di Ulassai, paese sardo che ha dato i natali alla grande artista Maria Lai. Fa infatti rete insieme alla Stazione dell’Arte. Oltre al nucleo del fabbricato centrale, il CAMUC – Casa Museo Cannas trova sede in un edificio realizzato agli inizi del Novecento e si compone di una serie di piccole strutture disposte intorno a un cortile interno: essenzialmente questo complesso architettonico si rivela essere il più articolato e imponente di Ulassai. È stato acquistato dal Comune intorno alla metà degli Anni Novanta e sottoposto a un attento intervento di recupero. L’edificio, appartenuto a Massimo Cannas, ospitava una serie di attività commerciali e l’ufficio postale. Mentre i piani superiori erano a uso padronale, nel seminterrato si trovava un frantoio, un mulino elettrico per cereali e un impianto a carbone che produsse energia elettrica per dieci anni, dal 1924 al 1934, permettendo a Ulassai di essere il primo paese della zona a poter usufruire dell’illuminazione pubblica e privata. La mostra inaugurale, intitolata Di Terra e di cielo, a cura di Davide Mariani, è stata pensata in occasione del 40ennale dell’opera di Maria Lai Legarsi alla montagna, che ha reso il borgo famoso agli amanti dell’arte, raccogliendo oltre 100 tra opere autografe, bozzetti, fotografie, documentazioni video, e nuove acquisizioni, quest’ultime rese possibili grazie alle donazioni devolute dai nipoti di Maria Lai alla Fondazione Stazione dell’Arte. ulassaiturismo.it

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ANONIMA MACCHINETTE Uno spazio coworking di 300 mq, con cortile e cucina. Dove al momento si incontrano un sellaio, un restauratore, una ceramista e una coppia di videomaker. Un luogo vivo grazie ai tanti eventi e incontri, e dove c’è un proficuo turn over. via muzio 39 anonimamacchienettelab.it

FAX FACTORY In genere è la ristorazione che ospita mostre, ma i fondatori di Fax Factory han fatto l’inverso: dal 2018 l’associazione culturale si dedica anche allo specialty coffee. Uno dei migliori caffè d’Italia, da gustare mentre si guardano ottime opere d’arte. via raimondi 87 faxfactory.it

ARISE FROM EYES Uno studio fotografico e di videoproduzione guidato da Barbara Baldigari, affiancata da quattro collaboratori (c’è anche una “dronista”). I progetti sono sartoriali e si spazia dai servizi per matrimoni alle campagne pubblicitarie. via muzio 46 arisefromeyes.com

7 NODI Un laboratorio di design artigianale che punta sull’ecosostenibilità, evitando solventi, plastica e additivi chimici. Trovate i loro prodotti anche a Milano, Roma, Torino, Grosseto e Bari. Ma andare da loro in sede è tutt’altra esperienza. via muzio 53 7nodi.net

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La linea rossa di questo distretto è via Muzio Attendolo, un Pigneto "laterale" che sfocia a Torpignattara. Tutto però, come al solito, a portata di passeggiata, che sia a piedi o in bicicletta.

CNM L’acronimo sta per Creativity Network Management: parliamo dell’agenzia di comunicazione gestita da Luca Scarpellini e Martina Gentile. Sono partiti dal settore food & beverage, si sono specializzati nel turismo. Qualità notevole. via conte di carmagnola 14 cnmcomunicazione.com

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STUDIO BAYARD È un laboratorio e spazio condiviso dedicato alla fotografia e alla stampa... analogica. Eh sì, gli appassionati esistono ancora. Il perché lo studio si chiami così leggetelo sul loro sito: è una storia tragicomica che merita di essere conosciuta. via muzio 81a studiobayard.it

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LEPORELLO Avete presente i libretti che si aprono a fisarmonica? Ecco, si chiamano leporelli. E il nome deriva proprio dal servo di Don Giovanni nell’opera di Mozart. L’omonima libreria-galleria è come l’etimo di questa parola: curiosa, ricercata, intelligente. via del pigneto 162e leporello-books.com

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ALPHAVILLE Ha da poco compiuto vent’anni questo cineclub dal nome ispirato a un magnifico film di Godard. Tantissime le iniziative, oltre naturalmente alle rassegne cinematografiche. La stagione estiva si è appena conclusa e fra poco si riparte. via del pigneto 283 cineclubalphaville.it

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Foto :Fabio Donato - Progetto grafico: Pasquale Napolitano

18 settembre 2021 - 7 gennaio 2022

Shozo Shimamoto a cura di Italo

Tomassoni

Via del Campanile 13, Foligno (PG) +39 0742481222 - +39 3408678214 centroitalianoartecontemporanea.com


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SAVERIO VERINI [ curatore ]

Giovanni de Cataldo ensando a Giovanni de Cataldo, mi è difficile tenerlo a distanza dal luogo dove è nato e cresciuto: Roma. Il suo studio si trova all’interno dell’ex Pastificio Cerere (che, a partire dagli Anni Settanta, ha visto emergere generazioni di artisti), in una delle zone più rappresentative della città: San Lorenzo. Non è raro vedere Giovanni aggirarsi per le vie del quartiere, con la sua inconfondibile andatura dinoccolata; ed è proprio in strada che de Cataldo trova spesso ispirazione per la realizzazione delle proprie opere. Opere che si presentano come la sublimazione di alcuni elementi urbani: le reti arancioni dei cantieri, le silhouette delle

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panchine pubbliche, le pensiline dei distributori di benzina, le tipiche fontanelle da cui sgorga incessante l’acqua, i cosiddetti “nasoni”. L’artista rintraccia lampi di grazia scultorea nel paesaggio urbano, ma non solo: nel suo immaginario trovano spazio anche guardrail incidentati, che l’artista preleva e riveste di altri materiali, donando loro un’apparenza seducente, senza nulla togliere alle loro forme contorte, violente, impetuose e in qualche modo barocche. In de Cataldo tutti gli indizi portano a Roma – a proposito di barocco. Roma, le sue strade, il suo cinismo, la sua decadenza, l’ironia tutt’altro che consolatoria: tutti elementi che hanno plasmato la pratica dell’artista, imprimendole l’istinto, la visceralità e, insieme, la grazia che la contraddistinguono.

Giovanni de Cataldo, Santi e Peccatori, 2019, stampa su sciarpe di raso, 200x132 cm. Courtesy dell’artista e z2o – Sara Zanin Gallery. Photo Giorgio Benni


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In quasi ogni tua opera c’è una traccia di Roma. Non sei certo il primo a ispirarsi alle suggestioni offerte dalla città, ma cos’è che ti attrae così tanto? Potrei affermare che una città in cui convivano i frutti e le testimonianze di una storia millenaria costituisca un’ispirazione sufficiente, ma non sarebbe del tutto vero. In realtà, a ispirarmi sono soprattutto gli elementi del quotidiano, con tutti i loro difetti: prendere i mezzi pubblici, per esempio, e trovarsi all’improvviso dentro I guerrieri della notte, o in un autobus sgangherato con vent’anni di onorato servizio. Oppure camminare di notte in una strada semibuia, ammirando i vecchi palazzi scrostati e ricoperti di ogni genere di simboli, slogan, tag, dichiarazioni d’amore e oscure minacce, che preferisco alle brutte palazzine tirate a nuovo e impreziosite da opere di street art di dubbio gusto, testimonianza della “riqualificazione” della zona. Tutto sommato trovo più interessante ciò che sfugge al concetto di “decoro”, parola, peraltro, che già di suo richiama una facciata di rispettabilità che maschera problemi enormi, che andrebbero invece affrontati alla radice. Ciò che mi affascina di Roma potrebbe, in effetti, essere riassunto da un verso di De Gregori, che la definisce “cagna in mezzo ai maiali”. Mi impressionò, quando lo ascoltai la prima volta da bambino, e mi piace ancora di più oggi che credo d’averne meglio compreso il senso.

Sono le immagini di una città vitale, in qualche modo antagonista. Nella tua produzione, in effetti, ti sei concentrato anche sui gruppi organizzati delle tifoserie di calcio, gli ultras. Personalmente non amo la retorica attorno al tifo estremo, anche se riconosco la fascinazione che può esercitare da un punto di vista estetico. Beh, sì, i colori, i simboli, i bengala, i fumogeni… Nel mondo ultras l’estetica ha un’importanza speciale. Ed è altrettanto vero che le curve siano un ambiente estremo: valvole di sfogo di tensioni sociali e politiche, o di semplice teppismo, ma anche luoghi in cui trova posto praticamente di tutto. Il che ha il suo fascino, almeno per

me. All’inizio ho lavorato sulle tifoserie italiane, poi, passando a quelle inglesi, fra le dodici squadre professionistiche di Londra, mi sono concentrato su quella la cui fama non viene certo dai meriti sportivi. Parlo del Millwall, squadra di Londra est, la cui tifoseria è famosa per le intemperanze (per usare un eufemismo) e per la sua orgogliosa appartenenza alla working class più colpita nell’epoca thatcheriana, che si contrappone alla Londra cosmopolita e fighetta. Il titolo della mia prossima mostra (alla Gelateria Sogni di Ghiaccio, a Bologna) non è altro che il nome con cui è nota la penisola su cui sorge il distretto di Millwall: L’isola dei cani (Isle of Dogs).

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Giovanni de Cataldo, REGIONALE 26644, 2019, lasercut su lamiera verniciata, tela catarifrangente, 28,4x21x4 cm ognuna. Courtesy dell’artista e z2o – Sara Zanin Gallery. Photo Giorgio Benni

BIO Giovanni de Cataldo è nato nel 1990 a Roma, città dove tuttora vive. Dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti, ha proseguito la propria specializzazione in scultura alla Scuola d’Arte e dei Mestieri “Nicola Zabaglia”. Da novembre 2014 ha stabilito il proprio studio al Pastificio Cerere, sempre a Roma. Tra le mostre personali più recenti: Ultimo Stadio, LA FINE, Roma (2019), Spina, Palazzo Ziino, Palermo (2019); Low Rider, nmcontemporary, Principato di Monaco (2018); San Lorenzo, z2o – Sara Zanin Gallery, Roma (2018); Got mit uns, Una Vetrina, Roma (2017). Tra le recenti collettive: Voyage / Voyage, Spazio In Situ, Roma (2021); Rilevamenti #2, Camusac, Cassino (2020); Sharing our dreaming room, z2o – Sara Zanin Gallery, Roma (2020); Taxidermy, Roma (2018); Festa Franca, Cannara (2018); Colore sempre vivo, Treviglio (2018); A new space is born, nmcontemporary, Principato di Monaco (2017); Premio HDRA’ 2017, Palazzo Fiano, Roma (2017); Straperetana, Pereto (2017); The Next Era, z2o – Sara Zanin Gallery, Roma (2017). Nel 2020 è tra gli artisti selezionati nell’ambito del bando Lazio Contemporaneo, che vedrà la realizzazione di un’installazione permanente a Bomarzo.

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A proposito di progetti futuri, da mesi sei impegnato nella realizzazione di un intervento semi-permanente a Bomarzo, una pensilina di grandi dimensioni, che mi sembra tocchi diversi aspetti della tua poetica: l’interesse per il contesto urbano, un certo sguardo rétro (nostalgico?), l’attrazione per le componenti meccaniche e industriali. È la prima volta che ti esprimi su una scala così grande, vero? L’intervento di Bomarzo è un’installazione permanente su un terreno in disuso del paese. È la prima volta che mi confronto con un’opera pubblica di queste dimensioni, circa quattro metri e mezzo di altezza per dieci di lunghezza. L’opera, Giraffa, sarà una vera e propria pensilina ispirata ai modelli iconici Eni degli Anni Cinquanta – un’architettura industriale di grande fascino. Esattamente come allora, infatti, le stazioni di servizio sono crocevia di un’umanità varia: camionisti e pendolari, villeggianti, clienti abituali e di passaggio. Si tratta ancora, in alcuni contesti, di oasi nel deserto, dotate di una loro precisa identità. In un piccolo centro come Bomarzo, che non possiede quasi nessun luogo d’incontro, mi sembrava interessante provare a crearne uno. Chiaramente non ho la pretesa di riuscirci, anche se la struttura è predisposta a ospitare eventi e spettacoli;

Le stazioni di servizio sono crocevia di un’umanità varia: camionisti e pendolari, villeggianti, clienti abituali e di passaggio. Si tratta ancora, in alcuni contesti, di oasi nel deserto, dotate di una loro precisa identità. e pure se dovesse invecchiare dimenticata e diventare parte della natura, un po’ come i “mostri” del Sacro Bosco, non mi dispiacerebbe affatto. Grazie all’impegno dell’associazione La Dramaturgie e alla collaborazione con l’architetto Tommaso Marenaci, Giraffa sarà inaugurata a ottobre. I riferimenti all’interno delle tue opere rivelano una sensibilità alimentata da “vagabondaggi” urbani, ma anche da film,

videogame, calcio, canzoni… A proposito di canzoni, sono curioso di sapere come riesci a conciliare la pratica di artista visivo con l’attività musicale: un po’ un’eccezione, in un mondo come quello dell’arte che a volte vede con sospetto certe deviazioni e interessi – per non parlare di una certa disapprovazione che talvolta circonda chi dichiara la propria passione per il calcio. Ben prima di affacciarmi al mondo delle arti visive scrivevo e ho fatto parte di diversi collettivi della scena rap underground romana. Nel tempo ho messo in stand-by una cosa e portato avanti l’altra. Adesso sono almeno tre anni che lavoro come autore e consulente e riesco tranquillamente a far convivere entrambe le cose, anzi ti confesso che questo binomio arte/musica mi rende molto più sereno.

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sopra: Giovanni de Cataldo, Gianni, 2018, fresa su marmo, 30x30x8 cm. Courtesy dell’artista e z2o – Sara Zanin Gallery. Photo Masiar Pasquali a sinistra: Giovanni de Cataldo, Gaviscon, 2018, guardrail verniciato, 245x60x35 cm. Courtesy dell’artista e z2o – Sara Zanin Gallery. Photo Marco De Rosa

Siamo partiti da Roma, torniamoci. Da un po’ di tempo si parla molto di come la scena artistica cittadina sia in fermento. Da artista e da romano, che idea ti sei fatto? Devo essere sincero, sono un po’ scettico sulla tenuta di questo fermento… Anche se ci sono realtà interessanti come Spazio In Situ, che è solidamente attiva da anni nel quartiere di Tor Bella Monaca.

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dal 5 settembre al 21 novembre 2021

GalleriaMichelaRizzo - Venezia

CLAUDIO COSTA | HERMANN NITSCH IL VIAGGIO NELL’ANCESTRALE

Galleria Michela Rizzo - Giudecca 800Q (fermata Palanca), Venezia | Mar - Sab: 11:00 - 18:00 contatti: info@galleriamichelarizzo.net | +39 0418391711


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COSA MANCA A MILANO? CINQUE SFIDE CULTURALI BERTRAM NIESSEN [ direttore scientifico di cheFare ]

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osa manca nella cultura a Milano? Provare a rivolgere questa domanda ai pubblici e agli addetti ai lavori fa emergere la densità e la stratificazione di significati, pratiche e linguaggi che cerchiamo di ricondurre a un termine dai confini spesso troppo angusti, quello di cultura. Tra le tante risposte che si potrebbero raccogliere: “un Museo del Contemporaneo”, “un nuovo Grande Progetto di Arte Relazionale”, “un Auditorium come quello del Parco della Musica”, “un Centro per l’Arte e la Scienza”. L’elencazione potrebbe continuare per pagine e pagine, ma sarebbe un esercizio futile. Sono tutte risposte legittime che guardano però alla realizzazione di singoli elementi isolati in un contesto che negli ultimi dieci anni ha attraversato enormi trasformazioni, nel quale la cultura è passata dal ruolo di ancella delle cose “serie” a quello (a volte reale, altre solo annunciato) di motore urbano. In parte persino durante la pandemia, l’agenda culturale cittadina è stata costantemente affollata di inaugurazioni, aperture di nuovi spazi, lanci di nuove istituzioni, annunci e comunicati. Più che guardare alla “next big thing”, allora, per capire come si può trasformare la cultura a Milano è interessante confrontarsi con la complessità, provando a cogliere alcuni grandi movimenti necessari con cui la città nel suo complesso dovrà confrontarsi in futuro.

OTTIMISTI VS ESTRATTIVISTI

Certo, parlare di come è cambiata Milano negli anni recenti non è facile. Perché le trasformazioni dell’ultimo decennio hanno segnato una discontinuità enorme rispetto al passato, costruendo su alcuni temi delle distanze con il resto del Paese e favorendo, su altri, prese di posizione ideologiche

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Milano nell'ultimo decennio ha avuto uno sviluppo insperato che su tanti aspetti l'ha posta vicina o addirittura sopra ai migliori standard europei. Restano dei dubbi però sul fronte culturale, visto che la città fa tanto ma potrebbe fare di più, sfruttando ancora meglio il suo essere florida economicamente e dinamica socialmente. In che direzione si doverebbe andare? In quali settori? In che zone della città ci sarebbe bisogno di attrattori culturali? Come dovrebbero essere concepiti i nuovi sviluppi immobiliari e i nuovi quartieri? Sono queste le domande che abbiamo rivolto a una serie di operatori attivi in città. all’interno della stessa città. La nascita di una nuova forma di governance, il fiume di risorse mobilitato anche grazie a Expo 2015 e la proliferazione di grandi interventi di architettura iconica hanno contribuito a produrre un’immagine a volte un po’ piatta di un tessuto urbano che – come è inevitabile – vive di contraddizioni, di ambiguità e di disallineamenti. Se oltre i confini comunali a volte sembra quasi che tutto luccichi sotto la Madonnina, al suo interno la città è divisa fra “ottimisti” ed “estrattivisti”. I primi mettono l’accento su una rete di mezzi pubblici efficiente, sul potere inclusivo della tradizione filantropica meneghina, sull’attrazione di capitale umano, sulla generazione di ricchezza economica e sulla capacità di competere in alcune grandi sfide internazionali. I secondi guardano invece alle disuguaglianze crescenti,

allo scollamento tra redditi e costo della vita, alla povertà abitativa, alla turistificazione e alla gentrification. È una polarizzazione che sconfina spesso nell’agiografia da un lato e nella critica un po’ autocompiaciuta dall’altro, e che rischia di dare sguardi su Milano tutt’altro che approfonditi. E non è certo possibile dimenticare che la vita della città è stata segnata in modo brutale dall’ultimo anno e mezzo di pandemia. Alle chiusure portate dal lockdown e dalle zone di vari colori ha corrisposto un blocco o una forte contrazione del lavoro per decine di migliaia di professionisti e organizzazioni, sia nell’ambito strettamente culturale che in tutti quei settori dell’economia creativa che qui più che altrove in Italia con la cultura si fondono, a partire da quelli degli eventi e della comunicazione. Chi ha potuto ha lasciato la città per


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I NUOVI QUARTIERI PRIVI (O QUASI) DI SPAZI CULTURALI

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MILANOSESTO

MIND

SCALO GRECO

CASCINA MERLATA

CITY LIFE

ARIA

SANTA GIULIA

periodi più o meno lunghi, verso seconde o terze case. Gli altri hanno dovuto fare i conti con quella che in molti hanno vissuto come una zona grigia lunga diciotto mesi. Eppure, è un discorso che bisogna provare a fare, partendo da cinque grandi sfide culturali urbane.

LA SFIDA DEGLI SPAZI

È evidente che siamo nel mezzo di una riformulazione su scala globale degli usi dello spazio nelle metropoli. Il lavoro a distanza ha svuotato molte delle grandi sedi del terziario, cambiando i modi dell’abitare e travolgendo interi settori dei servizi, dalla ristorazione alle pulizie e alla logistica. Quando troveremo il modo di convivere con il Coronavirus probabilmente i flussi

È una polarizzazione che sconfina spesso nell’agiografia da un lato e nella critica un po’ autocompiaciuta dall’altro.

infografica © Artribune Magazine

SEIMILANO

SCALO LAMBRATE

L STORIES L COSA MANCA A MILANO? L

SCALO FARINI

turistici torneranno a crescere, ma è chiaro che oggi la domanda è quella di un turismo lento e di prossimità che non trova riscontro nelle grandi strutture ricettive né nelle soluzioni di piattaforma. Gli esiti di questa grande trasformazione sono ancora incerti, a ogni livello. Oggi artisti, operatori, istituzioni e organizzazioni culturali si trovano di fronte a un panorama di spazi nel quale troppo spesso i requisiti di sicurezza minimi (volumi, prese d’aria, distanze tra le postazioni) non possono essere soddisfatti. I costi delle sanificazioni certificate possono essere proibitivi e molte delle forme tradizionali di uso continuativo di studi, co-working e laboratori sono messe in crisi da una quotidianità costantemente rimessa in

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discussione da quarantene, malattie, assistenza a familiari malati o chiusure temporanee di scuole e asili. Se nei mesi passati molti luoghi della cultura (come piccoli teatri e sale prove) hanno affrontato questa incertezza trasformandosi in centri di logistica per le tante forme di solidarietà diffusa, oggi questa condizione si traduce nel rischio di collasso di molte forme di produzione culturale. C’è una domanda nuova, diffusa e urgente di spazi resi accessibili per la produzione culturale a breve, medio e lungo termine. È un’opportunità per ridare vita a quelle zone della città – in centro come in periferia – desertificate dalla pandemia, nelle quali i locali vuoti che una volta erano negozi, showroom e uffici possano riconvertirsi in laboratori, spazi espositivi, atelier e co-working, sicuri dal punto di vista sanitario e accessibili da quello economico. C’è molto fermento nel mondo dei Nuovi Centri Culturali, quella galassia di luoghi della cultura ibridi e difficilmente definibili la cui proliferazione ha segnato la vita milanese recente e che oggi chiedono nuove forme di supporto e riconoscimento. Ma c’è anche tensione riguardo al futuro di molti centri sociali che costituiscono un’ossatura culturale importante – come Macao, Cascina Torchiera e Ri-Make – la cui sopravvivenza è incerta e per la quale c’è bisogno di trovare soluzioni innovative di sistema.

È un’opportunità per ridare vita a quelle zone della città – in centro come in periferia – desertificate dalla pandemia. La questione degli spazi non riguarda solo quelli al chiuso. L’impossibilità e la paura del contatto con gli altri corpi hanno moltiplicato la domanda e l’offerta di forme culturali all’aria aperta. Anche – ma non solo – street art, performance, concerti. Pratiche che sono in ripensamento e che adesso hanno bisogno di interventi strutturali su piazze e parchi, di finanziamenti ad hoc e di un lavoro costante di accompagnamento burocratico e semplificazione amministrativa. Le trasformazioni nell’uso sociale degli spazi pubblici e privati portate dalla pandemia implicano anche un ripensamento della formula delle “week”, che tanta fortuna ha avuto negli anni passati, arrivando all’esorbitante numero di venti nel 2019. Se per alcune il radicamento nel tessuto cittadino è tale da non poter pensare di eliminarle

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CHE LA POLITICA SIA ANCORA PIÙ ABILITANTE MARIANNA D’OVIDIO

docente associato di sociologia urbana all’università di milano-bicocca

La traiettoria che Milano ha intrapreso nell’ultimo decennio non è dissimile da quella di tante altre città che hanno seguito una logica di attrazione e sviluppo di settori avanzati (culturali, creativi, ad alta intensità di conoscenza). Milano si è adeguata perfettamente a quei precetti del modello della cosiddetta città creativa, dove cultura e spazio pubblico urbano vengono considerati merce da vendere sul mercato internazionale, passando attraverso processi di immaterializzazione dell’economia, nuovi modelli di consumo e di gentrification urbana. Naturalmente, tutto questo significa anche nuove opportunità di lavoro e di consumo, riqualificazione e rivitalizzazione di quartieri, miglioramento della qualità della vita di molti dei suoi abitanti, ma subordina la città, e in particolare la sua produzione culturale, al mercato: non c’è cultura se non si può vendere, non esiste quartiere se non compare sulla Lonely Planet. Nonostante ciò, credo che Milano abbia anche molte risorse per contrastare questo processo di mercificazione estrema della cultura e lo vedo nella nascita di molti nuovi centri culturali, negli orti di quartiere, nel cinema nelle piazze e così via. Sono tutti esempi in cui la comunità si “riprende” la cultura e lo spazio urbano, sono momenti di produzione e di fruizione di cultura che, indipendentemente dal mercato, costruiscono senso, condivisione, creano coesione e capitale sociale. Il modello che Milano sta seguendo la sta portando velocemente verso una polarizzazione sociale e culturale estremamente grave, che necessita una strategia di contrasto coraggiosa e diretta (politiche sociali e abitative, del lavoro, della coesione ecc.). Su un altro fronte, tuttavia, la politica milanese, soprattutto quella dei primi anni del nuovo millennio, si è posta anche come politica abilitante, di riconoscimento e di sostegno alle pratiche di coesione sociale e di comunità: oggi la politica deve tornare a lavorare su questo fronte, così che le comunità possano essere protagoniste del cambiamento culturale, e i processi di coesione sociale più forti di quelli di mercificazione.

DA EXPO ALLE OLIMPIADI INVERNALI Milano viene nominata come sede per Expo 2015

Giuliano Pisapia viene eletto sindaco.

2010

2008

Nasce BookCity

2011

2011

Inaugura il Museo del Novecento

2012

Il Salone del Mobile festeggia 50 anni e nasce il festival Piano City


INDIPENDENTI MA CONNESSI direttrice del programma culturale base milano

Debutta la linea Lilla della metro, la quarta (anche se si chiama M5)

Beppe Sala viene eletto sindaco

2015

2013

Il CIO assegna a Milano-Cortina le Olimpiadi e Paralimpiadi Invernali

2017

2016 È l'anno di Expo. Inaugura la nuova sede della Fondazione Prada e l'Armani Silos

2019 Approvato l'accordo di programma Scali ferroviari

LA SFIDA DEI CONTENUTI

La cultura a Milano ha bisogno di imparare a pensare in un’ottica più strategica la ricerca e la produzione dei contenuti culturali, guardando più al software delle persone, delle relazioni e delle capacità e meno all’hardware degli edifici. Questo vuol dire trovare formule per vincolare la rigenerazione spaziale a base culturale alla costruzione di percorsi curatoriali, sia dal punto di vista dei gruppi di lavoro che da quello delle risorse complessive messe a disposizione delle iniziative.

Qui ci sono 39 centri universitari e si pubblicano il 70% dei libri italiani.

Qui ci sono 39 centri universitari e si pubblicano il 70% dei libri italiani. Eppure chi ha opportunità di studiare le strutture di spesa delle organizzazioni culturali sa che troppo spesso quelle connesse alle funzioni di ricerca, produzione e curatela hanno un ruolo ancillare e sottostimato. È cruciale aumentare – e finanziare – in modo programmatico la connessione tra editoria, centri di ricerca, grandi istituzioni culturali e organizzazioni indipendenti con iniziative congiunte, sistemi di residenze, project room e borse di studio ad hoc. Ma è anche importante ripensare il rapporto dei finanziamenti e dei budget tra le spese infrastrutturali e quelle per la curatela, la produzione e la circuitazione; in altri termini, spostare l’asse dall’attuale enorme attenzione per gli aspetti spaziali a una centralità delle forme e i modi della cultura che in quei luoghi verrà prodotta e fruita. Viviamo in tempi confusi, nei quali è spesso difficile capire come si organizzano le priorità, a partire da quelle culturali. Eppure, è chiaro che dietro la grande incertezza che pervade il nostro mondo c’è un intero nuovo corso di domande che l’arte e la cultura si stanno facendo. A partire da quelle de-coloniali, ambientali e di genere portate avanti dai movimenti sociali, che

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La domanda oggi è: chi si sta occupando di immaginare le istituzioni culturali del futuro? Quanto sono aperte, quali corpi le attraversano? La crescente divaricazione sociale tra inclusi ed esclusi, acuita dalla pandemia, rischia di riflettersi in uno specchio autoreferenziale delle istituzioni culturali, che rimandano a immaginari stereotipati, asfittici, uguali a se stessi. Per rispondere è necessario dare parola alle comunità artistiche che usano l’immaginazione nella produzione del cambiamento, e c’è bisogno di un’apertura a nuove relazioni con spettatori più emancipati (per riprendere una celebre formula di Jacques Rancière), meno avvezzi alle forme classiche della spettacolarizzazione e della fruizione. In questa direzione a Milano si sono sviluppati una serie di percorsi “alternativi” che oggi leggiamo come la nascita di una nuova infrastruttura di istituzioni culturali di prossimità. Da BASE a Mare culturale urbano, da Terzo Paesaggio a Chiaravalle al Nuovo Armenia, questi centri, ibridi e indipendenti, diffusi su tutto il territorio, hanno dato vita negli ultimi dieci anni a una scena culturale autonoma che ha iniziato a operare fuori dai sistemi artistici tradizionali. Uno sviluppo avvenuto in concomitanza con il sopirsi del ruolo che le istituzioni hanno storicamente avuto nella creazione di uno spazio civico. Il passo successivo e necessario è la costituzione di una rete di luoghi indipendenti ma connessi, che costruiscono nelle falle dell’esistente, in costante relazione con esso, e de-istituzionalizzano i luoghi deputati alla cultura, portando fuori le pratiche, con l’intento di costruire una molteplicità di quelli che Chantal Mouffe chiamerebbe “spazi di nuovo agonismo”, spazi e pratiche che non dirottano le istituzioni, ma istituiscono diversamente. Quello che ci insegna l’esperienza di questi spazi è che non basta una sola istituzione, ma che l’emersione di una moltitudine di diverse istituzioni più piccole, aperte, accessibili, fluide ci consente una combinazione di molti e diversi approcci, un ecosistema di istituzioni, o meglio una nuova ecologia istituzionale che riconnetta la Milano dei quartieri contro il rischio dell’iperlocalismo.

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LINDA DI PIETRO

– tra queste le inevitabili Design e Fashion Week, ma anche iniziative di indubbio successo come Bookcity, Piano City, Art Week e Arch Week –, per altre ha forse senso pensare a come distribuire gli stimoli e le risorse che le nutrono in modo più articolato, su periodi di tempo più lunghi e con flussi di persone diversi.

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non sono certo rimasti fermi in questo anno e mezzo. E molto, moltissimo, dovremmo indagare sui rapporti individuali e collettivi con la tecnologia, con la scienza, con la medicina, con la natura, con i corpi, con le ritualità collettive, con il lutto.

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isola

LA SFIDA DELLE RETI

Dopo tre semestri dall’inizio della pandemia, è chiaro che una risposta di sistema alla necessità di trovare spazi sostenibili per la vita e il lavoro nelle grandi città non può passare solo da esperienze – interessanti quanto episodiche – come quelle del south working e del ripopolamento dei borghi una tantum. Per Milano, questa può essere un’opportunità per ripensare il proprio rapporto con altri territori su diversi livelli, articolando proposte che non si limitino all’attrazione di turisti, city user e pendolari ma che trovino modi di scambio e trasformazione reciproca. Il primo livello sul quale è necessario intervenire è quello della Città Metropolitana, composta da 133 comuni e oltre 3 milioni di abitanti: un territorio vasto, denso e frammentato che fa riferimento a Milano per molti aspetti legati al lavoro, ai servizi e ai consumi ma che potrebbe essere molto più connesso per quello che riguarda l’offerta culturale, la valorizzazione congiunta del patrimonio (anche in ottica di turismo lento e di prossimità) e soprattutto la circuitazione dei pubblici.

paolo sarpi city life

10 san marco

8 magenta san

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primaticcio

ticinese porta genova tortona giambellino navigli

Occorre articolare proposte che non si limitino all’attrazione di turisti, city user e pendolari. CONSERVATORIO GIUSEPPE VERDI

Il secondo livello ha a che fare con le altre città medie e grandi del Nord Italia. Per gli operatori e i pubblici, al netto degli effetti pandemici, c’è già l’abitudine di spostarsi in giornata tra Milano, Torino, Bologna, Bergamo, Brescia e Venezia (alle quali si aggiungerà a breve, con il completamento dell’alta velocità, Genova). Perché non pensare a programmi, iniziative e sperimentazioni congiunte che facciano sistema per i professionisti e gli studiosi, come avviene da ormai molto tempo tra le grandi città in Belgio, Olanda e Francia? C’è molto da imparare per tutti se si inizia a pensare in termini di Macro Regione Culturale. Il terzo livello riguarda le città medie e grandi del Centro e Sud Italia. Da troppo tempo, infatti, abbiamo “naturalizzato” l’idea di un’Italia a due velocità, anche sul

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farini

LE NUOVE ISTITUZIONI CULTURALI

Un polo che prevede un parco pubblico, spazi 1 condivisi e iniziative legate alla musica dal vivo, oltre che – ovviamente – all’insegnamento. Il masterplan da 50 mln di euro è stato elaborato dal Politecnico di Milano sotto la guida di Emilio Faroldi. consmilano.it

MUSEO DEL NOVECENTO

Il Museo del Novecento raddoppia 2 espandendosi all’interno del Secondo Arengario. A vincere il concorso una cordata guidata da Sonia Calzoni. A unire le torri, una passerella sospesa e/o la pedonalizzazione di via Marconi. museodelnovecento.org

LABORATORI DEL TEATRO ALLA SCALA

Il cuore pulsante della Scala, i suoi laboratoriatelier, si trasferiscono dall’ex Ansaldo all’ex Innocenti, spostandosi quindi nell’area di Rubattino, nel quadro di un più ampio progetto di rivitalizzazione di Milano Tre. teatroallascala.org

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CASVA

Il Centro Alti Studi sulle Arti Visive, attualmente ospitato al Castello Sforzesco, avrà la sua nuova sede nell’ex Mercato di via Isernia, nel cuore del QT8, il quartiere progettato da Piero Bottoni per l’ottava Triennale. casva.milanocastello.it

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MUSEO NAZIONALE D’ARTE DIGITALE

L’inaugurazione è fissata al 2026. Gli spazi sono quelli liberty dell’ex Albergo Diurno in Porta Venezia, in stretto dialogo con il MEET che si trova all’ex Spazio Oberdan e che si occupa proprio di cultura digitale.

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MUSEO DI ARTE ETRUSCA

Affidato a Mario Cucinella, il progetto di ristrutturazione su Palazzo Bocconi-RizzoliCarraro è triplice: la ristrutturazione dei piani fuori terra; la riqualificazione del giardino sul retro; la realizzazione del museo etrusco ipogeo. fondazioneluigirovati.org

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loreto lambrate

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forlanini

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corvetto santa giulia

1 FONDAZIONE PRADA – PARCO DI SCULTURE

infografica © Artribune Magazine

porta romana

MUSEO NAZIONALE DELLA RESISTENZA

Nulla di confermato, ma di sicuro c’è che 7 Prada Holding fa parte della compagine che si è aggiudicata l’immenso ex scalo ferroviario di Porta Romana. A due passi dalla Fondazione Prada e dove è prevista un’enorme area verde... fondazioneprada.org

Edificio gemello della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli progettata da Herzog & de Meuron, il nuovo Museo della Resistenza ospiterà oltre 300 fondi archivistici e qualcosa come 700mila fotografie. museonazionaleresistenza.it

PALAZZO CITTERIO

BEIC – BIBLIOTECA EUROPEA DI INFORMAZIONE E CULTURA

Si sblocca l’annosa questione della Grande 8 Brera. Nel settecentesco Palazzo Citterio saranno ospitate le collezioni di arte moderna. Apertura prevista il prossimo anno, anche perché i lavori principali sono terminati nel 2018. pinacotecabrera.org

CAMPUS DELLE ARTI

Le affascinanti ma da tempo insufficienti sale di Brera saranno finalmente affiancate dai 15mila mq del campus che sorgerà all’ex Scalo Farini. L’unica nota stonata sono i tempi: fine lavori prevista per il 2030. accademiadibrera.milano.it

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Progetto travagliato che nasce nel lontano 1996 e che ora trova una destinazione ci si augura definitiva nell’area dell’ex stazione ferroviaria di Porta Vittoria. Il modello è quello di una reference library di alta divulgazione. beic.it

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La città può pensare di essere qualcosa di più di un attrattore di risorse umane ed economiche. L’ultimo livello è quello internazionale. La vulgata vuole Milano “la città europea d’Italia”, e c’è certamente del vero: le connessioni sono moltissime e Milano è nelle mappe globali non solo della moda, dell’architettura e del design ma anche, in misura minore, dell’editoria e dell’arte contemporanea. Eppure, già prima della pandemia c’era da fare molto per aumentare la connessione con gli altri Paesi europei, nei quali l’investimento pubblico in arte e cultura è da decenni spropositatamente superiore a quello italiano. Il Coronavirus non ha reso certo le cose più facili e per cambiarle non si può pensare di affidarsi alle Olimpiadi Invernali. C’è bisogno di pensare a programmi internazionali di scambio e di studio, a formule di accoglienza e di reciprocità che coinvolgano la diplomazia culturale, i centri culturali e le grandi istituzioni di altri Paesi.

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babila

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piano culturale. Eppure - nell’enorme disuguaglianza di risorse e di opportunità – città come L’Aquila, Napoli, Bari e Palermo hanno saputo trovare formule innovative di gestione e valorizzazione dei beni culturali, di sperimentazione sui beni comuni e di costruzione di nuovi centri culturali. Formule che potrebbero portare a collaborazioni importanti, in un senso e nell’altro. Il quarto livello è quello – variegatissimo – dell’Italia non metropolitana. Che vuol dire, certo, terre alte e aree interne, ma anche il vasto mondo che siamo abituati a pensare come “provincia”, caratterizzato da un accesso sufficiente ai servizi di base ma opportunità limitate di scambio culturale e di circuitazione di capitale sociale. Per chi lavora in questi territori portandosi dietro il “marchio” di Milano è chiaro da tempo che la città può pensare di essere qualcosa di più di un attrattore di risorse umane ed economiche, ponendosi invece come punto – d’arrivo, di partenza o di passaggio – di catene culturali lunghe e corte di trasferimento e moltiplicazione di competenze, idee e buone pratiche.

LA SFIDA DELLE PERSONE

In Italia, più che altrove in Europa, le professioni dell’arte e della cultura sono segnate da una precarietà economica e professionale strutturale. In una città nella quale il costo della vita continua ad aumentare e i

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UN PIANO QUINQUENNALE PER LA CULTURA MARCO EDOARDO MINOJA comune di milano - direttore cultura

A oltre un anno e mezzo dall’inizio della pandemia, la Milano della cultura è una città in salute? È una giusta domanda, a fronte dello stato di salute, e quasi di ebrezza, che la città ha conosciuto negli anni immediatamente precedenti. Era il 2018 quando l’analisi sulla qualità della vita condotta dal Sole 24 Ore su alcuni indicatori, tra cui quelli relativi a Cultura e tempo libero, decretò che Milano era la città al primo posto in classifica. Sempre nel 2018 l’osservatorio operato da Mastercard sull’attrattività turistica indicava Milano come prima città italiana e quinta città europea, nonché unica città italiana nella top 20 mondiale. Nel 2019 Milano si aggiudica il Best City Award attribuito dalla rivista Wallpaper per premiare la città che più si è distinta nel panorama del design su base globale; e ancora, ai Global Fine Art Awards trionfano istituzioni milanesi come HangarBicocca e Fondazione Prada rispettivamente nelle categorie delle esposizioni individuali, con la mostra sugli Ambienti di Lucio Fontana, e collettive, con la mostra sull’arte italiana tra le due guerre Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943. The Culturale and Creative Cities Monitor, monitoraggio rilasciato dalla Commissione Europea, nel 2019 ha posizionato Milano tra le prime cinque città europee per vivacità e accessibilità dell’offerta culturale (insieme a Parigi, Londra, Monaco e Berlino) e il report Io sono Cultura della Fondazione Symbola, sempre nel 2019, ha classificato Milano come la prima città italiana per valore aggiunto e occupazione nel campo dell’industria culturale e creativa. Bastano i riconoscimenti esterni a decretare lo stato di salute? E soprattutto, che effetti ha avuto un anno e mezzo di pandemia su tutto questo? È difficile oggi valutare l’impatto strutturale, molto più praticabile è rendere conto degli interventi contingenti operati a sostegno della salute del comparto. Nel 2020, a fronte del blocco della

relazione tra pubblico e attività culturali, l’Amministrazione destina 2 milioni di euro di risorse extrabilancio, quindi in aggiunta ai normali investimenti, per interventi a supporto delle perdite del comparto, raggiungendo oltre 360 soggetti operanti nell’ambito della cultura e dello spettacolo, una rete straordinaria di operatori dal macro al micro che rivelano la vitalità del tessuto culturale cittadino. Nel medesimo periodo, la Direzione Cultura completa un nuovo piano per l’offerta museale della città di Milano, individuando una nuova strategia di organizzazione per distretti territoriali, che mette al centro dell’azione culturale la relazione di partecipazione dei territori e delle comunità quale fattore costitutivo della stessa offerta culturale; una strategia che orienta i nuovi distretti museali cittadini a farsi promotori di relazione e aggregatori su una base di prossimità. Su questa base strategica si innestano gli interventi strutturali e i progetti connessi anche alle risorse straordinarie del PNRR; questo significa, nel prossimo quinquennio, nuovi poli culturali e rafforzamento di quelli esistenti: dal Museo Nazionale della Resistenza ai bastioni di Porta Volta al raddoppio del Museo del Novecento; dalla nuova BEIC prevista allo scalo di Porta Vittoria al nuovissimo progetto del Museo nazionale di Arte digitale che rivitalizzerà gli straordinari spazi dell’ex Albergo Diurno. E ancora, la nuova Cittadella del Teatro alla Scala in progettazione al quartiere Rubattino e conseguentemente il complessivo ripensamento delle funzioni culturali nello Spazio Ex Ansaldo, destinato a rafforzare il suo ruolo di incubatore per le arti performative e per le ICC. Massicci investimenti in interventi strutturali, che rappresentano tuttavia solo la punta evidente di un iceberg di relazioni e reti a cui la città ha lavorato in questi anni, in un dialogo costante con gli operatori e con il territorio cittadino.


PER UN’ECONOMIA GENERATIVA ANDREA PERINI

co-fondatore di terzo paesaggio

LA SFIDA DELLA DEMOCRAZIA CULTURALE

Anche se l’economia della città ha continuato a crescere per anni, per alcuni gruppi sociali questo ha voluto dire un aumento delle disuguaglianze, l’esposizione al rischio di forme di povertà assoluta, redditi insufficienti per affrontare il costo della vita, povertà abitativa e disoccupazione. In questo contesto – aiutato in modo drammatico dalle conseguenze del virus – c’è il rischio concreto dell’esclusione di fasce crescenti della popolazione dai servizi e dai consumi culturali, in un processo di marginalizzazione nel quale la povertà culturale si innesta su altre forme di povertà, moltiplicandole. In altri termini, si rischia di andare incontro a una Milano a due velocità. Una benestante, borghese, saldamente ancorata alle forme di rendita (di capitale economico, ma anche sociale e culturale) che si riversano su Milano dal resto d’Italia e dall’estero. L’altra sempre più disagiata e popolare, nella

Anche se l’economia della città ha continuato a crescere, per alcuni gruppi sociali questo ha voluto dire un aumento delle disuguaglianze.

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Milano è un laboratorio di produzione culturale, dove pubblica amministrazione e privati sperimentano, da sempre, nuovi formati organizzativi. Dal Piccolo come primo teatro stabile pubblico del Paese al CRT come primo centro di ricerca, per limitarsi all’ambito performativo. Oggi mi pare che la direzione da percorrere e intensificare, per far crescere la vitalità culturale della città, stia nell’abilitare le pratiche di rigenerazione urbana a base culturale che si caratterizzano spesso nella riattivazione a fini culturali di beni pubblici dismessi, a opera di soggetti non profit o low profit a governance diffusa, sempre più aperta alla cittadinanza, che sviluppano una pluralità di funzioni ibride, interpretando le vocazioni e i bisogni dei territori, in aree e quartieri di margine della città. Queste pratiche, anche se sono sostenute da politiche pubbliche e da programmi di fondazioni private, per loro natura sono fragili e spesso rischiano l’impaludamento. Credo che la città di Milano possa assumere queste pratiche per farle evolvere in economia di tipo generativo (opposta a quella estrattiva) attraverso un’alleanza con il capitale e aprendo sempre più l’architettura proprietaria delle iniziative alle comunità (il crowdfunding civico è una proposta interessante in tal senso). Siamo qui nell’ambito dell’ibridazione e del crossover culturale, habitat per la proliferazione di filiere culturali di prossimità e comunità educanti (da proposte più complesse a quelle più semplici, come la presentazione di un libro nella piazza di un quartiere, occasione per coinvolgere la biblioteca di zona nel dotarsi del volume, il dirigente scolastico nell’ospitare un progetto artistico nella scuola del territorio, suggerito da un’organizzazione culturale attiva nell’area, mentre i commercianti presentano attività tematiche nei loro spazi più diversi...). Per continuare in questa direzione fertile, appena visibile ora in città, abbiamo tuttavia bisogno di dare impulso alle energie esistenti, con un nuovo Assessorato all’Economia Generativa dotato di portafoglio e pieni poteri, per abilitare il riuso del patrimonio pubblico dismesso, fuori dalla logica della massima valorizzazione, con tempi brevissimi, capace di facilitare il dialogo tra stakeholder, con uno sguardo alle grandi imprese e agli sviluppatori immobiliari, per passare dalla monocultura economica estrattiva, ancora imperante, a un nuovo modo di fare città: più orientato alla vita, alle comunità, ai luoghi.

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redditi di molti sono appesi a un filo, c’è il rischio concreto di un lento e invisibile impoverimento del capitale sociale e culturale del territorio. Già adesso chi non può permettersi gli affitti tuttora altissimi se ne va, a volte temporaneamente e a volte per sempre. Allo stesso tempo, i tantissimi ricercatori e professionisti che tenevano un piede in due città hanno optato per fermarsi “nell’altra”, forse più piccola ma più economica, e cercare di lavorare a distanza. Si tratta di un fenomeno graduale e non molto visibile, sul quale i dati a disposizione possono dirci ancora poco. Quello che è certo è che quasi nessuno crede ancora alla mitologia di una classe creativa globale iper-mobile (ormai sconfessata dal suo stesso inventore, Richard Florida): chi si occupa del rapporto tra arte, città e cultura sa che i patrimoni di connessioni, relazioni, competenze, conoscenze e abilità si costruiscono sui territori nel tempo, e che un drenaggio improvviso di artisti e operatori rischia di avere ripercussioni che dureranno anni. A questo proposito è necessario tenere presente che l’inevitabile stop a inaugurazioni, eventi e conferenze non ha significato solo un arresto della fruizione culturale ma anche la cancellazione di quelle occasioni informali di contatto e cross-fertilizzazione che sono momenti cruciali (e non sostituibili dal digitale) di connessione, ideazione e sviluppo di nuove occasioni professionali dei mondi dell’arte e della cultura. Per invertire questa tendenza c’è bisogno di iniziative che agiscano su livelli diversi, dal supporto per abitazioni e studi a borse di ricerca e programmi evoluti di studio visit. Sarà cruciale favorire la nascita di nuove reti di secondo livello e il consolidamento di quelle già esistenti, così come lavorare su programmi che implementino la connessione tra istituzioni tradizionali, nuove organizzazioni e nuovi centri culturali.

quale settori crescenti della piccola borghesia impoverita si fondono e si scontrano con le classi più povere, spesso legate a percorsi migratori. Contrastare questa tendenza implica interventi di grande respiro, a partire dal welfare e dall’edilizia residenziale pubblica. Ma vuol dire anche imparare a costruire strategie di partecipazione e democrazia culturale in un’ottica di prossimità, attraverso sforzi programmatici costanti per l’ampliamento e l’aumento di efficacia delle reti di servizi culturali di base, a partire dai servizi per l’infanzia, dalle scuole, dai servizi per i giovani e gli anziani, dalle biblioteche ma anche dai tantissimi Nuovi Centri Culturali di iniziativa privata.

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IL CIMITERO DELLE INTENZIONI NICOLA RICCIARDI

UMBERTO ANGELINI

direttore artistico di miart

direttore artistico triennale milano teatro

Milano ha subito un’evidente accelerazione nel corso degli ultimi dieci anni, che l’ha riposizionata sia a livello internazionale che nell’immaginario collettivo. Molte istituzioni culturali hanno beneficiato degli esiti positivi di questa trasformazione – vedi l’incremento della capacità di attrazione o la maggiore disponibilità di risorse sia pubbliche che private. Non bisogna tuttavia perdere di vista anche gli aspetti negativi che questo cambiamento ha portato. Uno su tutti: la malattia dell’impazienza. Negli ultimi anni si sono inaugurati troppi progetti a Milano senza lasciar loro tempo di crescere e di maturare, di sbagliare e di correggersi. Sembra ci sia sempre la necessità, se non l’urgenza, di portare a battesimo qualcosa di nuovo. Lo stesso si può dire dei quartieri e delle aree residenziali. Se posso permettermi una digressione personale, quando due anni fa ho deciso di lasciare Milano – città in cui sono nato e cresciuto – e di trasferirmi con mia moglie e mio figlio a Bergamo, un ruolo non marginale lo ha giocato la delusione per la Biblioteca degli Alberi. Dopo il taglio del bosco di Gioia, per anni tutta Isola, il mio quartiere, ha chiesto a gran voce la realizzazione di uno spazio verde alternativo: alla fine è arrivato in risposta un giardino bellissimo, ma lontano anni luce dalle esigenze più ovvie delle famiglie residenti. A Milano si è persa in parte la semplicità e la capacità di comprendere che la qualità della vita passa prima da uno scivolo e quattro altalene che dalle “zone di relax eco-sostenibili e autorinfrescanti”. Tuttavia, se dietro alla BAM ci sono ovvie ragioni commerciali, quando si parla di cultura bisognerebbe usare più cura e più pazienza. Si dovrebbero investire più risorse nella manutenzione dell’esistente che nella ricerca spasmodica del nuovo. Il rischio è altrimenti passare da un museo all’altro come da un giardino all’altro, lasciando dietro di sé un cimitero di intenzioni che non hanno mai avuto una vera occasione di realizzarsi.

Se è vero che le formule più rigidamente quantitative dell’audience development e dell’audience engagement sembrano aver fatto il proprio tempo – soprattutto alla luce della richiesta d’attenzione costante che viene fatta alle nostre vite sempre più in streaming –, è anche vero che, se affrontate in modo non ideologico, possono fornire strumenti potentissimi di accesso alla cultura, soprattutto fuori dalle rotte della cultura tradizionale. Probabilmente questo implica anche un ripensamento delle forme di offerta culturale che tradizionalmente vengono associate ai mondi della marginalità sociale, spesso segnati da una forte impronta naïve. Un approccio che forse non può più bastare a fronte della necessità di empowerment individuale e collettivo di gruppi sociali sempre più poveri. Si tratta anche di un’occasione per valorizzare in modo diverso il rapporto tra i mondi della cultura e quelli dell’innovazione sociale, che negli ultimi anni hanno

GIOVANI E POLICENTRISMO

Scrivo queste righe poche ore dopo aver visitato il nuovo progetto Alcova in zona Inganni per la Design Week ed essere rimasto colpito dalla maestosa e affascinante decadenza del luogo scelto, praticamente sconosciuto alla città. Quanti altri luoghi simili abitano la nostra città e quante zone milanesi sono estranee agli stessi cittadini? E quali possibili intelligenti reinvenzioni come quella di Alcova potrebbero essere possibili e non limitarsi allo spazio, seppur straordinario, della temporaneità? Credo che oggi Milano debba prima di tutto ripensarsi come città per i giovani sia nello sviluppo immobiliare sia nella produzione culturale anche attraverso l’utilizzo delle ingenti risorse del piano Next Generation EU. Far convivere l’attrattività con l’accoglienza, generare nuovi immaginari, accessibili e inclusivi. Tutto ciò comporta un importante incremento dell’housing sociale, la creazione diffusa di residenze universitarie, la riconversione delle destinazioni d’uso di molti spazi commerciali inutilizzati in affitti residenziali a canoni calmierati per giovani lavoratrici e lavoratori, in modo da ridisegnare interi quartieri e spostare la spesa dalla rendita alla partecipazione sociale e culturale. Il soggetto pubblico dovrebbe a sua volta investire sul rischio culturale favorendo la nascita e la sostenibilità di nuove esperienze creative geograficamente diffuse, decentralizzando la produzione culturale in nuovi spazi in aree periferiche e favorendo la cogestione di questi luoghi anche tra istituzioni cittadine e nuove imprese sociali. Un formato ibrido, inedito, che metta insieme l’autorevolezza e la competenza dell’istituzione e l’entusiasmo, la leggerezza e le sensibilità di giovani realtà indipendenti, generando così una circolarità virtuosa di saperi e pratiche. Significa progettare un modello di città policentrica in perenne cambiamento, ove l’attrattore culturale rappresenti non soltanto il mezzo di una operazione di gentrification ma soprattutto una infrastruttura sociale capace di tenere insieme le differenze, le eccellenze e le fragilità.

È ora di chiedersi non solo quale sarà la prossima grande inaugurazione, ma cosa ci succederà dentro, attorno e attraverso.

popolato la città di iniziative interessanti, costruendo un importante patrimonio di metodi e strumenti, ma che non sempre hanno saputo coniugare le competenze progettuali e di fundraising con visioni culturali lungimiranti. Molti sono già all’opera per affrontare queste sfide, nei mondi dell’arte e della cultura, nelle istituzioni e nella società civile, chiedendosi non solo quale sarà la prossima grande inaugurazione, ma cosa ci succederà dentro, attorno e attraverso. Questo articolo contiene alcune considerazioni preliminari frutto della ricerca di cheFare “laGuida: ilContemporaneo”, i cui risultati saranno resi pubblici nei prossimi mesi. Il progetto è realizzato con Fondazione Cariplo, impegnata nel sostegno e nella promozione di progetti di utilità sociale legati al settore dell’arte e cultura, dell’ambiente, dei servizi alla persona e della ricerca scientifica.


PER UN ATTIVISMO DAL RESPIRO EUROPEO artista, ricercatore, coreografo e attivista

ottica non autoritaria, volta a investimenti radicali nel welfare e nell’ecologia. Ciò significa, come ho già avuto occasione di esprimere, investimenti pubblici. Smettere di privatizzare per fare cassa e aprire i rubinetti degli investimenti pubblici diretti in case popolari, educazione, sanità e tecnologia. Questo è possibile in modo non autoritario solo a partire dal riconoscimento e dalla collaborazione alla pari con i movimenti sociali. Con tutti quei laboratori che si stanno attivando per produrre tessuto sociale e che si prendono cura della città. Milano dovrebbe invertire questa allucinazione per cui il sociale è la compensazione al ribasso dell’investimento finanziario; al contrario, dovrebbe radicare il tema del valore nella cooperazione sociale. Insomma, farla finita con la vulgata neoliberale del “se non ci sono i soldi non possiamo investire in cultura e salute” e cominciare ad affermare che c’è prosperità economica solo se basata su benessere sociale, scuola e salute. Milano dovrebbe spiazzare tutti, invece che pompare greenwashing e pinkwashing usando le differenze queer, gay, l’amore per il verde e le macchine elettriche; dovrebbe promuovere la cooperazione sociale e il riconoscimento dell’attivismo. Sono consapevole che il movimento di Macao abbia accelerato in città il radicamento di quell’agenda europea culturale incentrata su rigenerazione urbana, spazi interdisciplinari, autogestione dal basso, partecipazione attiva dei pubblici. Dopo Macao sono nate decine di spazi interdisciplinari dal recupero di edifici in abbandono, agricoli e post-industriali. Ma chi fra questi sta facendo la differenza? Nella discussione contemporanea europea credo stia emergendo in modo esplicito che la strategia dell’uso temporaneo è obsoleta. In Germania, Belgio, Francia e Olanda è ormai diventata la questione: gli artisti non sono più disposti a valorizzare spazi urbani per poi lasciare il posto ai processi di gentrificazione, vogliono al contrario affermare permanenti istituzioni dei commons. Questo si può attuare solo attraverso la lotta e l’attivismo, ridefinendo il quadro amministrativo sull’utilizzo di spazi pubblici come beni comuni, oppure con azioni di acquisto in azionariato popolare, come sono le co-ownership o le community land trust.

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Il vettore per McKenzie Wark, dark matter per Gregory Scholette, il lavoro gratuito di piattaforma per Tiziana Terranova, la pila per Benjamin Bretton, il necrocapitalismo per Achille Mbembe, il comunismo del capitale per Christian Marazzi: sono solo alcuni dei concetti che per me rendono possibile pensare Milano. Sono anche alcuni dei concetti più discussi nei raffinati dibattiti d’arte contemporanea a cui ho assistito e contribuito nelle varie Biennali, Documenta e principali centri di ricerca e istituzioni d’arte. Perché ho messo assieme tutti questi concetti, simili ma con differenze importanti, come precondizione per poter pensare gli ultimi dieci anni di Milano? Perché credo che questa città sia un caso molto interessante per osservare la transizione post-fordista prima e post-capitalista ora. È questa intersezione fra industria creativa, finanza, mercato immobiliare e razzializzazione del lavoro che la definisce. Milano ha visto morire il vecchio capitalismo fordista, quello delle fabbriche. Solo il vecchio capitalismo rentier, quello dell’investimento immobiliare, è sopravvissuto, ma è accaduto grazie a un’azione di salvataggio da parte del nuovo capitalismo finanziario e informazionale del terziario digitale avanzato in epoca di big data. Questo nuovo tipo di capitalismo ha bisogno di una continua differenziazione: la continua produzione di cose nuove, per poter selezionare contenuti e concentrare risorse, è ciò che caratterizza Milano. Bingo! Moda, design, underground, accademie e università private, classe creativa che diversifica continuamente la produzione di contenuti, valorizza il mercato immobiliare all’interno di una finanziarizzazione sempre più digitalizzata che concentra risorse in pochi monopoli, grazie a un esercito di manovalanza razzializzato e a basso costo, per la maggior parte del tempo in modo gratuito. A questo punto Milano credo sia a un bivio. Può esasperare questo modello diventando il simbolo del greenwashing, dell’invisibilizzazione dei rapporti di sfruttamento precari, spacciatore di sogni che non saprà realizzare: questo scenario credo che abbia un unico destino per tutti coloro che lo percorreranno nell’Occidente, cioè consegnare la città all’estrema destra. Oppure può cominciare a essere apripista di misure davvero alternative, cioè utilizzare l’informazione e i dati in

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PUNTI DI FRONTIERA. CONVERSAZIONE SUL CURARE MOSTRE ANNIKA PETTINI [ critica d’arte e curatrice ]

P

unti di Frontiera è un progetto realizzato con il supporto di Giulio Verago e Viafarini [associazione non profit di Milano nata trent’anni fa e focalizzata sulla “crescita professionale dei giovani artisti”, N.d.R.], iniziato a ottobre 2020. Un viaggio attraverso le storie dei curatori e delle curatrici italiani tra i 25 e i 35 anni (circa), che stanno strutturando il loro percorso e le loro scelte professionali. Decine di conversazioni private sulla curatela contemporanea, con l’obiettivo di scorgere i cambiamenti, le problematiche e i punti di forza di un sistema e un panorama culturale in forte cambiamento. Attraverso meccanismi di connessione inclusiva, di scambi e suggerimenti, Punti di Frontiera è diventato un contenitore di oltre sessanta punti di vista, per capire la responsabilità di un ruolo su un piano etico e professionale. Il progetto si è aperto a tutto il territorio italiano, tracciando i moti e i bisogni che lo attraversano. Parlare è costruire. Nel confronto dei suoni delle parole sono racchiusi i semi della concretezza. Delle forme del divenire. Lavorare nella cultura è un facilitatore, passiamo molto tempo a raccontarci immagini, scelte, visioni, azioni. E i progetti, spesso, sono la struttura con cui si cerca di comunicare un’idea. Un insieme di visioni e valori concreti. Riflettendo sulle dinamiche di Punti di Frontiera ho capito che, per iniziare a portarlo fuori, avrei dovuto mettere in atto un processo, una modalità. Qualcosa che avesse le stesse sembianze dei contenuti: fluidi, modellabili e in divenire. Ho iniziato il percorso di Punti di Frontiera in silenzio, facendomi domande, studiando e leggendo. Poi sono passata all’ascolto delle storie di tutti i

Non è una storia della curatela e nemmeno un manuale in formato ridotto per costruire mostre efficaci. Questo è un confronto a più voci – le tre che dialogano direttamente, la dozzina che offrono il loro punto di vista individuale – che fa emergere un nugolo di problemi e questioni, e fortunatamente pochissime soluzioni preconfezionate. E il pensiero non può che andare al brainstorming ante litteram contenuto in Autoritratto di Carla Lonzi.

curatori che si rendevano disponibili a darmi il loro punto di vista e ora credo sia giusto parlare. Non volevo essere solo la mia voce, cercavo altro. Un processo di senso partecipato. Discutere il pensiero, mettersi a confronto. Conversazioni in itinere è l’inizio di questo processo di formalizzazione. Non troverete le conversazioni private avvenute con i curatori e le curatrici, ma il dopo, ovvero l’inizio del confronto con l’esterno, portandomi dentro tutte quelle storie. Quelle voci. Quello che segue è un estratto da una conversazione con Giulio Verago (G) e Dario Moalli (D).

PARTIRE DA NOI

(A) Ho scelto di partire da noi, da tre diversi approcci di analisi della pratica curatoriale e alla ricerca. Giulio Verago per Viafarini, Dario Moalli per Osservatorio Curatori e io con Punti di Frontiera. Tre mondi, tre modi di relazione e interazione con i

curatori, con modalità che ci siamo dati o che ci sono state date. Esperienze di un singolo che toccano e coinvolgono tanti individui. Inclusive in modi diversi. Vorrei provare a raccontare insieme queste letture trasversali che ognuno di noi porta avanti. (G) Faccio una riflessione iniziale: raccontare tre approcci e perché se ne sente il bisogno. Vorrei partire proprio da questo, dal bisogno. Sono arrivato alla curatela attraverso l’esercizio della mia professione e non perché ho dedicato la mia vita accademica alla curatela. Detto questo, mi è sembrato chiaro fin dall’inizio come la curatela risponda a un bisogno, un bisogno ampio, che ognuno interpreta da un punto di vista personale.

RUOLO E FUNZIONE DEL CURATORE

(G) Perché si senta il bisogno oggi di parlare di curatela è una domanda che ci dobbiamo fare, e del perché se ne senta il


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Curare oggi – in un mondo in cui tutto è “curato” – significa riuscire a liberarsi di una facile etichetta da professione di massa per assumersi la responsabilità di recuperare il senso profondo del verbo: saper ascoltare, saper consigliare, quel prendersi cura. DAMIANO GULLÌ head curator del public program di triennale milano

Curare: io ho un punto di vista da più punti di vista eccentrico, perché non sono formato come curatore, ma sono formato in filosofia. Non ho mai privilegiato l’exhibition making e questo mi rende eccentrico, se eccentrico è la parola giusta. E ho sempre creduto moltissimo in dinamiche di coalizione, che non è sempre stato il paradigma della storia della curatela in questo Paese, soprattutto per i curatori della mia generazione. Io ho quarantuno anni e appartengo in maniera molto chiara a un inquadramento quasi storicizzato. Inevitabilmente. Essendo legato a Viafarini, mi sono ritrovato a interpretare questo ruolo in contesti che avevano il privilegio di essere lontani dalle dinamiche commerciali. Le dinamiche commerciali piegano lo spazio e il tempo, l’economia è una forza, come la forza di gravità che ti piega. Magari ti piega anche verso l’alto, non per forza verso il basso, ma comunque ti distorce. Non che le dinamiche di economia non ci siano nel non profit, ci sono

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bisogno in un momento storico come questo, pure. Ce lo dobbiamo chiedere. Perché quello che può fare la curatela è quello che può fare anche l’arte. Le due cose per me vanno in parallelo. Secondo me è anche un’occasione per riflettere sul ruolo che può avere l’artista, perché non c’è curatore senza artista. E, allo stesso tempo, il fatto che l’artista sia sempre più e sempre meglio curatore è la prova del nove che la curatela può essere interpretata come una carriera, come un ruolo, un ruolo nel grande gioco del potere. Infatti si dice ritagliarsi un ruolo e non ritagliarsi una funzione. Quindi: qual è il ruolo e qual è invece la funzione. La funzione che la curatela esprime è ciò che la curatela può fare, le risposte che può dare, i desideri che può includere. Invece il ruolo – i giochi di ruolo –, come Viafarini che ha un suo peso, è la parte più interna a un organigramma. Le scelte che fai, come ti poni rispetto alle dinamiche di potere, perché la curatela è molto legata anche a quello.

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eccome, però sono interpretabili in una logica meno prestazionale. Nel mio contesto io non devo rispondere nell’immediato a una prestazione. C’è una logica di più ampio respiro. E secondo me è necessario, soprattutto per il tipo di curatela che mi trovo a fare io e che è sintetizzabile in una curatela di una scena emergente, soprattutto ma non unicamente. Quindi una curatela che interviene in un momento delicato, decisivo, aurorale del proprio percorso. Cioè un momento che può portare a X o Y e tra i due c’è un confine labile.

7 LIBRI PER CAPIRE COSA FA (O DOVREBBE FARE) UN CURATORE MARCO ENRICO GIACOMELLI

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Lucrezia De Domizio Durini – Harald Szeemann. Il Pensatore Selvaggio Il Quadrante, Torino 20192

IL PRIMATO DELL’ASCOLTO

(G) Da un punto di vista deontologico, dal ruolo che ho, io lavoro in un contesto che ha a sua volta una storia, quindi io sono una storia dentro una storia. E sono molto caratterizzato dalla storia di Viafarini. Ci ho passato la maggior parte della mia vita professionale. Anche se sto cercando sempre più di astrarmi da questa posizione, che è privilegiata da tanti punti di vista. Al di là di quello che mi ha lasciato come rapporti personali, che sono una cosa fondamentale, soprattutto nel nostro settore: coltivare i rapporti umani tra artisti, con i colleghi. Oltre a questo, ho dietro anche una bella scia di formati diversi e di tentativi diversi di dare ordine al caos. Tentativi che mi sono stati lasciati in custodia, come bigliettini da visita, progetti che sono stati fatti dagli Anni Novanta a oggi. Da Critical Quest con tutti i grandi nomi, i grandi geni che hanno dato le loro riflessioni, dove si vedeva tutto il divertissement di quegli anni e che non c’è più, non c’è più tutta quell’ironia. Quello è stato un capitolo bellissimo di Viafarini, ma come posso io, Giulio Verago, relazionarmi con quella storia lì? Mi è molto difficile. Per problemi di relazioni e storici. Vedo un altro mondo oggi, è una memoria ma non è riattualizzabile. Mi lascia più riflessioni Curatology, che era un interrogarsi generazionale, diverso e complementare, rispetto al tuo, Annika. In quel caso si trattava di fare il punto con gli altri colleghi e cercare di fare una narrazione. Allo stesso modo mi chiedo: cosa mi può lasciare il tuo progetto, inserito in questo filone di riflessione? Forse il tuo è quello che sento di più perché ha questa natura di ascolto. Di ascolto fin dall’inizio, ascolto non mediato, non programmato. Non ci hai chiesto “scrivimi qualcosa”, non ci hai chiesto e non ci chiedi statement, non sei stata rigida ma molto accogliente. È un carattere distintivo che trovo molto contemporaneo. Il contributo di Viafarini sono questi progetti. Credo infatti che il mio ruolo, e di Viafarini, debba cambiare. Dobbiamo porci in una condizione più di ascolto e meno di spiegazione, perché il rate del cambiamento è accelerato e quindi le spiegazioni, il curator explaning, è in grave crisi. E con lui le logiche di formazione, l’accademia e tutto quanto.

PAPÀ SZEEMANN Non si può che cominciare dal papà della curatela moderna, lo svizzero Harald Szeemann. Il quale, come d’altronde la maggior parte dei curatori, non è che abbia scritto poi così tanti saggi. Per colmare questa lacuna c’è la monografia di Lucrezia De Domizio Durini.

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OBRIST L’EREDE Celeberrimo per aver tramutato l’intervista in una pratica critica, quest’altro svizzero applica il concetto anche in questo libro, che raccoglie dialoghi con figure fondamentali quali Pontus Hultén e Lucy Lippard, oltre allo stesso Szeemann. Hans Ulrich Obrist – Breve storia della curatela Postmedia Books, Milano 2011

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VETTE ITALICHE Il compianto Celant ha scritto tantissimo: monografie complesse, saggi intelligenti, affondi tematici e storici filologicamente ineccepibili e intellettualmente stimolanti. L’ultima fatica che ci ha lasciato è questa ricapitolazione ragionata, da studiare con enorme attenzione. Germano Celant The Story of (my) Exhibitions Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2021

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CURATORI POLEMICI Direttore di una delle più memorabili BiennalI di Venezia dell’ultimo millennio, polemista arguto, autore di bestseller provocatori, Bonami è fra i pochi curatori noti anche al di fuori del mondo dell’arte. Non vorrete farvi sfuggire la sua autobiografia? Francesco Bonami – Curator Marsilio, Venezia 2014

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LE INEVITABILI DERIVE Il canadese David Balzer e la denuncia del fenomeno del "curazionismo". La sintesi che ne dà il collega David Hickey è severa ma giusta: "Una pratica da arredatori con manie di grandezza che predicano senza requie il loro vangelo alle masse incolte". David Balzer – Curatori d’assalto Johan and Levi, Monza 2016

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ANTOLOGIE ITALIANE Un coro di voci a traino italico che offre una notevole ampiezza di punti di vista. Dalla "difesa delle biennali" da parte di Gioni all’"arte per tutti" di Alemani, dalle "mostre di ricerca e al contempo popolari" di Cavallucci alla "curatela nell’era PostInternet" di Groys. Gianni Romano ed. – Become a Curator Postmedia Books, Milano 2019

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CURATELA COME GEOPOLITICA L’internazionalità spesso è soltanto l’applicazione coloniale di un paradigma. Integrarsi significa accettare la configurazione di quel preciso dispositivo, altrimenti si può restare fuori o ai margini. Su questa contraddizione riflettono alcuni curatori provenienti da contesti non-occidentali. Marco Scotini (a cura di) – Utopian Display Quodlibet, Macerata 2019


Il legame con il mondo contemporaneo è essenziale per il curatore. Qualunque sia il periodo sul quale lavora, vive nel proprio tempo, e la sua percezione dell’arte ne è profondamente influenzata. La celebre storicizzazione di cui parlano numerosi teorici e teoriche (Benjamin, Danto ecc.), che ricolloca l’opera nel contesto della sua epoca, è valida altresì per la lettura che ne viene fatta. Questo ancoraggio nel presente dà il tono di ogni mostra e su di essa si basano i soggetti di articolazione e interpretazione delle opere. Per me, tutto si traduce innanzitutto qui, nella soggettività di ciascuno e di ciascuna. In quella degli artisti, certo, ma anche in quella dei curatori e delle curatrici, in quella dei critici e delle critiche d’arte ovviamente, e in quella delle istituzioni che continuano, ancora oggi in Francia, a stabilire cos’è arte. Dal mio punto di vista, ci sono tre principali argomenti da considerare: il rapporto dell’essere umano con il mondo vivente e sensibile, in cui si pone la questione dell’ecologia; le problematiche legate ai generi, in cui si inscrive il femminismo; e le questioni decoloniali. Tutto ciò mette in discussione la nozione di gerarchia che per secoli ha corrotto la posizione dominante in cui gli esseri umani si sono arroccati. L’autorità dell’umanità nei confronti della natura, quella rispetto al femminile e quella dei bianchi rispetto ai non-bianchi è messa in discussione dalle scienze umane, e l’arte funge da supporto a queste riflessioni. Considero l’opera d’arte come un supporto, un collegamento. Avvicina l’artista allo spettatore, ma anche gli spettatori tra loro, e in questo senso prediligo gli incontri diretti, fisici e non virtuali. A mio avviso, la smaterializzazione fa perdere il rapporto diretto con l’opera, ed è per questo che lavoro molto con opere che emanano odori. Obbligano alla presenza, all’ancoraggio nel presente del respiro dell’opera e a una soggettività particolare, poiché i profumi hanno un rapporto interpretativo molto intimo. Alla fine, tutto si sovrappone.

Il curatore è una persona con conoscenza, passione, eterno desiderio di imparare, una competenza fondamentalmente tecnica che si può acquisire in un tempo relativamente lungo sul campo e che ha una esplicita vocazione alla condivisione con il mondo, che non necessariamente coincide con il mondo dell’arte. Le urgenze da affrontare, in Europa, sono innanzitutto la restrizione degli spazi e delle opportunità professionali in un’industria dove è una professione in chiaro ridimensionamento. D’altra parte, per chi proviene ed è basato in contesti non occidentali le possibilità sono straordinarie. Quanto alle dinamiche che si innescano tra il curatore e l’artista e il curatore e il pubblico, dopo gli ultimi diciotto mesi la figura professionale del curatore, già precedentemente in discussione e riconfigurazione a favore di competenze decisamente orientate sulla produzione o l’intenso lavoro nelle comunità, si deve necessariamente riorientare. E per chi lavora come curatore – nel senso più vasto, oltre a quello tradizionale di exhibition maker che ha assunto negli ultimi anni – il dialogo con il pubblico è fondamentale. In Europa una nuova generazione di direttori di istituzioni e di manager culturali sta poco a poco assumendo la guida di istituzioni artistiche ed è chiaro che l’orientamento verso il pubblico, la società, le sue trasformazioni sono una priorità. In un certo senso, il dialogo con il pubblico è una sorta di ultima risorsa per la rilevanza delle arti contemporanee nelle società. Credo che il dialogo con l’artista rimanga sostanzialmente invariato, ovviamente senza prescindere dal necessario aggiornamento tecnologico e linguistico, che, almeno in Paesi come UK, Francia e Russia, si è letteralmente rivoluzionato. ANDREA LISSONI direttore della haus der kunst di monaco

SANDRA BARRÉ storica dell’arte, critica d’arte e curatrice

Invece l’ascolto deve prevalere, anche se nell’ascolto può esserci molta retorica. Perché nessuno ascolta più. Come sbarazzarsi della retorica? Come cercare di avere con l’altro un rapporto veramente empatico? Io cerco di farlo facendo a volte un passo indietro, l’ho fatto cercando di non far uscire l’autorialità della mia visione curatoriale a favore di una visione curatoriale più disposta all’ascolto, quasi come un sismografo che cerca di captare per lasciare spazio agli altri di fare. Però parlo così perché io curo una residenza, quindi curo un processo in fieri. Sta accadendo mentre lo curo, quindi ovvio che non c’è un’idea da spiegare attraverso una mostra alla XX secolo. È un’idea di curatela che risponde alla funzione. Penso in chiave di evoluzione rispetto al posizionamento che vorrei per me, e continuando a far crescere Viafarini, per traghettarci verso il cambiamento tracciato dai risultati che possono uscire da un punto di vista come il tuo, attraverso Punti di Frontiera, e che potenzialmente sarà utili a ridefinire un po’ i ruoli o almeno le modalità.

LA PUNTA DELL’ICEBERG E COSA RIMANE SOMMERSO

La regola principale consiste nel rispettare il pensiero dell’artista e la qualità della sua opera, che va presentata nella maniera più rigorosa e precisa possibile, per permettere al pubblico di fruirla in modo corretto, senza inutili sovrastrutture. LUDOVICO PRATESI docente, critico d'arte e curatore direttore artistico di spazio taverna

(D) Non ho la capacità di astrarre di Giulio, vivo molto più nella frenesia del quotidiano, non so se ho un’idea così generale della curatela. Parlare della curatela dell’arte è un po’ come parlare dell’amore, tutto e niente. Se ne scrive, se ne parla, se ne fanno anche tante canzoni, ma alla fine non si riesce mai a definirla. Io con la rubrica Osservatorio Curatori ho accolto, ho parlato con giovani curatori e curatrici che, secondo me, hanno pochissima libertà di fare quello che vorrebbero fare. Ogni tanto gli viene bene qualcosa, ogni tanto no, perché sono giovani ma prima di tutto dovrebbero trovare uno spazio, dovrebbero potersi mettere alla prova. C’è una continua negoziazione con i rapporti che hanno. Lo spazio, gli artisti, loro stessi. Perché comunque è inutile negare che c’è ambizione, di essere curatori, di essere potente, quella figura come Obrist affascina, si vorrebbe essere lui. (G) Certo, ed è importante averla perché

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RIVOLUZIONARI CORNETTO-E-CAPPUCCINO Il ruolo del curatore oggi appare più interessante che mai: si tratta di provare a comprendere, accompagnare e forse anche promuovere gli importanti cambiamenti socio-culturali e politici che stanno trasformando il mondo. E qui i grandi temi vengono ormai in mente a tutti, perfino ai più pigri: fine del patriarcato, femminismo, discriminazione razziale, decolonizzazione, ecocidio, technofascismo. Come sempre nel mondo dell’arte, se la causa è buona, la sua banalizzazione cammina con essa. Con l’aria da nulla e con la leggerezza tipica di chi non ha mai dovuto temere nulla nella vita, i curatori toccano quotidianamente questioni delicate e tragiche, dolorose per tutti tranne che per loro. A me sembra che il principale motore che muove oggi il mondo dell’arte sia il tentativo maldestro di acquisire capitale morale adottando la posa più comoda, cioè quella del rivoluzionario formato cornetto e cappuccino, magari in abito nero. Atteggiamento questo che disgusta proprio coloro che vengono quotidianamente esclusi dal mondo disuguale e narcisistico nel quale viviamo. Un poco di senso del pudore e di umiltà, che consiglio a tutti (me compreso), potrebbero far bene a questo nostro piccolo ecosistema. A fare chiarezza, almeno relativa, rimangono quindi le mostre, il cui significato finale – come si sa – non dipende solo dalle buone intenzioni.

Se guardiamo alla storia delle mostre, che è un campo di studi ancora relativamente recente, vediamo che la mostra ha permesso di rinnovare profondamente la lettura della storia dell'arte. VALÉRIE DA COSTA docente di storia dell'arte contemporanea all'università di strasburgo

ANDREA BELLINI direttore del cac – centre d’art contemporain di ginevra

è una meta, una fata morgana ma una meta. (D) Mentre parlavi mi è venuto in mente che io forse non ho mai visto nella mia vita una mostra non curata da qualcuno. E questo è molto strano. Ho avuto la possibilità di lavorare in contesti istituzionali e lì ti cade un po’ il fascino della curatela, rispetto a come ti viene raccontata. Perché alla fine o hai già fatto un percorso con un artista, lo conosci da tanto tempo, vi siete incrociati tante volte, c’è un rapporto, uno scambio, altrimenti è un confronto, non dico sulle uova, perché si cerca sempre di capire che persona si ha davanti, sia a livello artistico che a livello umano (e ne ho avuto la conferma con la rubrica), che resta superficiale. Però i giovani curatori stanno cambiando, fanno più lavoro che non si vede di quello che si vede. Lavorano in profondità. Il punto però è che o trasformi quel lavoro che non si vede in qualcosa, lo rendi pubblico, altrimenti non si vede quello che stai facendo. E solitamente quella che rimane nascosta è la parte più importante. Perché curare una mostra? Bonami diceva che fare una personale è essere un cameriere mentre fare una collettiva è fare il curatore. Però secondo me non è vero. Fare una personale vuol dire avere un rapporto molto intimo con l’artista. Poi magari Obrist va da

un artista, gli dice facciamo una mostra, e l’altro dice di sì. Però se vuoi costruire qualcosa, funziona diversamente.

L’IMPRONTA DEL CURATORE Gli artisti possono spronarci a comprendere il vivente non-umano. Le opere possono stimolare esperienze sensibili, proporci di condividere momenti di contatto con le piante e attivare il nostro desiderio di impegnarci nella cura degli elementi naturali e degli spazi pubblici. PAULINE LISOWSKI critica d'arte e curatrice

(G) Torniamo alla funzione del rapporto: non sempre lo vedi. (D) No, non sempre lo vedi. E forse è anche per questo che è difficile trovare un curatore che abbia sviluppato una sua impronta. Penso ad Andrea Lissoni: se mi vado a rivedere le sue mostre, lo vedo che ha un’impronta, ma se lo faccio con gli altri non lo vedo e mi dico: quindi? Cos’è che c’è? Forse un altro tipo di ricerca? Trovare l’artista giusto per te al momento giusto? (A) Però per impronta, domanda che mi sono posta e che ho posto a tanti, cosa intendi tu? Quanto si è consapevoli dell’impronta? È più estetica, è un’impronta relazionale, oppure di crescita? Tutto questo fa parte di un pensiero molto poco concreto, molto intimo e di riflessione. Per questo è anche così complesso riuscire a parlarne bene, in modo lucido. Mentre Giulio parlava io stessa mi dicevo che ho una visione più interna – ristretta – rispetto a lui. Non riesco ad avere una panoramica così aperta e completa rispetto a queste dinamiche perché, inevitabilmente, non conosco altro. Ho visto, e


L’ISTITUZIONALIZZAZIONE DEL CURATORE un sistema artistico sempre più compromesso dall’economia e dagli obiettivi delle industrie creative (le top ten, i pubblici, le artistar, i musei-brand). Il valore della sperimentazione è diminuito e, tanto la pratica curatoriale ha guadagnato in visibilità, tanto ha perso in termini di libertà di pensiero ed espressione. Oggi, la moltiplicazione esponenziale di mostre e biennali che sfruttano temi come l’ecologia, il genere e la questione razziale quale vetrina dell’emancipazione liberale va letta nei termini di un processo di pacificazione (anti-conflittuale) e artwashing che tende solo a riaffermare l’arte come sistema autocratico del capitale, funzionale alla riproduzione delle gerarchie sociali e al mantenimento dell’ordine. Altro che coerente sviluppo del dispositivo curatoriale! In un sistema totalmente omologato si tratta piuttosto di “artecrazia”, come recita il titolo di un mio libro appena ristampato.

direttore artistico di fm centro per l’arte contemporanea responsabile del programma espositivo del pav

quindi conosco, solo questo e tutto quello che sto vedendo è in difficoltà. E quando c’è una difficoltà vuol dire che sotto sta succedendo qualcosa, questo non visto – che ha bisogno di essere raccontato. Mi pongo domande.

QUANTO È COMPLICATA LA LIBERTÀ

(A) Qui volevo chiederti: attraverso questi Osservatori, al di là del contenuto che ti hanno dato, scrivendo a ciascuno di loro, come reagivano? Quanto ci mettevano?… Quei piccoli dettagli che raccontano la possibilità di una voce, anche se piccola, perché poi era solo un trafiletto. (D) La cosa più strana è che, nella maggior parte dei casi, mi chiedevano che cosa dovevano scrivere. Io rispondevo: scrivi quello che vuoi. La libertà assoluta li metteva più in difficoltà che non se gli avessi dato qualcosa su cui scrivere. Perché quello che faccio io è cercare dei curatori che possano essere interessanti, gli mando una mail quando è il momento e lascio totale libertà. Ci sono stati casi in cui questa libertà si è riflessa nella modalità di scrittura come il modo di approcciarsi alle mostre. Altri invece hanno scritto il loro statement. Tendenzialmente erano contenti di questa

Oggi bisogna riflettere bene se sia il format adeguato per ogni tipo di progetto, pensando all’artista ma anche al pubblico al quale si rivolge, e considerando che spesso uno dei due attori soffre durante tale processo. ROSA LLEÓ curatrice indipendente direttrice the green parrot

possibilità, ma mi sono reso conto che non tutti sono stati in grado di restituire quello che hanno in mente. Perché non è facile, perché sono giovani e perché non hanno la visione di quello che vogliono fare. Però ci sono delle idee, non sempre sincere, ma cercano di cogliere lo spirito del tempo. (G) Questo è fondamentale. Il rapporto con lo spirito del tempo. È il curatore che insegue la realtà? Che la plasma? La curatela è una forma di creazione, o no? (A) Non lo so. La cosa di cui mi sono resa conto ascoltando le storie di Punti di Frontiera è che lo strato che manca, forse, è proprio la capacità di tradurre i propri bisogni. C’è questa grossa voglia, nella collettività ma anche nei singoli. C’è uno strato più umano, una dimensione più ristretta. Nessuno ha manifestato il bisogno, l’ambizione, di diventare Obrist. L’obiettivo è di esistere nella propria comunità. Come prima cosa. E poi crescere. Ma questo nuovo bisogno ha generato delle mancanze pratiche, come appunto l’incapacità di traduzione e azione, l’assenza di appoggio. La forma di cura è una forma apertissima, c’è sempre meno la voglia di vincolare e veicolare. Ma ci si rende conto che si ha bisogno dell’altro. Ma che tipo di altro? A che fine? Per fare cosa?

L STORIES L LA CURATELA OGGI L

MARCO SCOTINI arti visive department head di naba

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Sembra che non si possa più fare a meno della curatela. E, forse, è vero. Non gli avrei dedicato uno dei primi corsi in circolazione, a NABA, se non ci avessi realmente creduto. Il rapporto tra la cosiddetta moltitudine e il dispositivo curatoriale è direttamente proporzionale. La figura del curatore emerge con la scoperta della friabilità generale dei suoli e delle rappresentazioni, con la moltiplicazione dei punti di vista, con la fine della sovranità dell’Uno: tanto della Storia dell’Arte modernista che dell’idea di Popolo. “Da qui la mia devise”, mi diceva Harald Szeemann in riferimento ai fondatori radicali del Monte Verità, “che solamente le cose più soggettive possono un giorno diventare oggettive”. Ma nella mia personale genealogia del curatore preferisco vedere Gustave Courbet che rompe con i Salons e apre il Pavillon du Réalisme – non tanto la comunità anarchico-salutista di Ascona quanto la Comune di Parigi… Per questo una scienza curatoriale sarebbe una contraddizione in termini: esistono solo politiche curatoriali. Anzi, geopolitiche curatoriali, come ho intitolato un mio libro recente. ll curatore è una figura dell’Institutional Critique: ci dovrebbe sempre essere un gap costitutivo tra la sua proposta e le attese programmate e codificate. Avrebbe dovuto corrispondergli una de-istituzionalizzazione dei musei, delle collezioni e delle assegnazioni disciplinari (la generazione degli Anni Novanta preferiva la dizione “indipendent curator”), mentre si è realizzato il contrario: il curatore è stato istituzionalizzato. Negli ultimi dieci anni, le sperimentazioni curatoriali sono state, di fatto, canalizzate in e assorbite da

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25 MOSTRE CHE HANNO FATTO LA STORIA DALLA PRIMA DOCUMENTA ALL’INIZIO DEL XXI SECOLO

documenta 1 KASSEL Arnold Bode

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Magiciens de la Terre PARIGI Jean-Hubert Martin

When Attitudes Become Form BERNA Harald Szeemann Eccentric Abstraction "Primitivism" L NEW YORK in 20th Century Art Land Art Lucy Lippard NEW YORK BERLINO William Rubin Gerry Schum Arte povera – Im Spazio GENOVA Germano Celant

documenta 5 KASSEL Harald Szeemann

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The New Realists NEW YORK Pierre Restany

The Xeroxbook NEW YORK Seth Siegelaub

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Futurismo e futurismi VENEZIA Pontus Hultén

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1993 1994

Les Immatériaux PARIGI Jean-Francois Lyotard

L'altra metà dell'avanguardia 1910-1940 MILANO Lea Vergine Primary Structures NEW YORK Kynaston McShine

Freeze LONDRA Damien Hirst

Cocido y crudo MADRID Dan Cameron

Post Human PULLY-LOSANNA Jeffrey Deitch

USCIRE DAI CONFINI DELL’ARTE

(A) L’idea stessa di mostra sta perdendo tantissimo di potenza. Questa concretizzazione dura e pura, questo estremismo nel tempo che ti tira fuori una mostra, è un bisogno che non è uscito. Non si è assolutamente manifestato. Ma è proprio la cura della ricerca, della persona, progetti con un tempo ampissimo in cui andare a creare estensioni diverse. C’è una distensione della pratica che non è più così “machistica”. (G) Non più legata a un obiettivo, una manifestazione, una scadenza. (A) Però in tutto questo c’è sicuramente una complessità del narrare il che cosa. Non c’è ancora una visione. (G) Ma chi può avere chiaro cosa è la curatela? È impossibile. (A) Sì però il modello è cambiato, non ci sono più i riferimenti di una volta. (D) Secondo me non abbiamo ancora imparato a curare una mostra oggi per quelli che sono i cambiamenti che sono avvenuti. Perché comunque io penso che abbiamo a che fare con artisti che fanno una loro ricerca e tu non riuscirai mai ad andare in profondità quanto sono andati loro. E spesso i

Aperto '93 VENEZIA Achille Bonito Oliva

È di vitale importanza ripensare il contesto politico, sociale e geografico nel quale ciascuno di noi vive, nel quale lavoriamo come curatori; prospettare la pratica curatoriale – ricerca, produzione ed esposizione – a partire dalla prossimità. TANIA PARDO vicedirettrice del ca2m centro d’arte dos de mayo, madrid

curatori – forse è un mio errore – si concentrano troppo sull’arte. Leggono libri di arte, guardano tantissime mostre, di arte e artisti, che non sempre sono necessari. Bisogna guardare oltre, perché gli artisti stessi lo fanno, i più interessanti sono coloro che si definiscono ricercatori. Stanno guardando altro e poi questo altro prende la forma finale di opera d’arte. Ma quello a cui stanno pensando è altro rispetto all’arte, e poi lo trasformano. E secondo me la pratica della curatela deve un po’ adattarsi a questo. Deve assimilare questo processo, questo modo di fare. E in qualche caso lo sta facendo.

CURARE IL TEMPO, CURARE LO SPAZIO

(G) Trovo inoltre che ci sia un aspetto della curatela che si scontra con lo spazio e con il tempo. Per esempio: se uno cura nella lunghezza (io curo per quattro mesi un progetto), solitamente la mostra ha un momento germinativo che poi devi quagliare, concretizzare. Finisce per definire lo spazio e il tempo. Proviamo una diversa idea della durata e una diversa idea dello spazio, come quando ti prendi cura di un


PER UN FUTURO MIGLIORE

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luogo, di un contesto in cui cresci. Se vado a curare a New York un progetto con la comunità, che magari conosco anche, non faccio però parte di quella comunità. Lo spazio e il tempo vanno ripresi in mano perché diamo per scontato che sia più potente il curatore di entrambi. Qualunque spazio si assuma, qualunque tempo si assuma, il risultato dipende dal suo genio. Che è una visione da sfigati dell’essere umano, perché credo sia molto più interessante l’intelligenza collettiva, in un mondo di complessità come quello che stiamo vivendo, dove se vuoi andare a fondo di una cosa non basta un dottorato, è veramente un po’ ridicolo. Quindi credo nella curatela che crea reti di alleanza con ciò che non è arte. E mi piace lavorare con artisti che si considerano ricercatori e che hanno titolo di andare a trovare l’altro (scienziato, antropologo…), mi piace molto e lo trovo molto attuale. Certo, lo diceva anche Pistoletto, la vecchia guardia, solo che Pistoletto lo diceva mentre adesso sta diventando attuale e non solo più un’intuizione. Spazio tempo – funzione e ruolo – sono le due direttrici che condivido ora.

KATYA GROKHOVSKY artist, curatrice – fondatrice e direttrice della imigrant artist biennial

LA TRADIZIONE COME CHIAVE PER IL FUTURO Continueranno i musei a essere luoghi rilevanti nel futuro o sono già un dispositivo storico? Sarebbe radicale, ma probabilmente corretto, considerare la figura del curatore e il concetto di tradizione come realtà più vicine di quanto si potrebbe pensare, costituite reciprocamente dallo spazio e dalle dinamiche del museo. È per questo che smantellare l’idea di tradizione, rompendo con il suo racconto conservatore, dovrebbe essere una delle urgenze centrali del progetto curatoriale. La tradizione pensata come vicinanza o familiarità tra materiali e persone, tra società ed ecosistemi, tra climi e tecnologie, permette di immaginare ciò che è tradizionale come un sofisticato protocollo che non perpetua idee del passato, bensì stabilisce necessità e urgenze del presente. Come parte di questa narrazione, il sorgere e lo svilupparsi della figura del curatore deriva da un’idea di struttura sociale e civica che oggi sta cambiando radicalmente: si potrebbe dire che le preoccupazioni per i modi di rappresentazione sono state sostituite da un interesse per l’azione, in particolare riferita alla natura e all’emergenza climatica. In questo senso, le attuali forme di produzione e distribuzione, caratterizzate dalla precarietà e dalla violenza strutturale, spingono sempre più artisti a riprendere l’idea di artigianato e di tradizione come uno spazio di possibilità. Questa posizione è attraversata dalla questione di scala, intesa come condizione fondamentale per la ricostruzione degli usi e dei significati dell’arte nei rispettivi ambiti socio-naturali. Mettendo in dialogo fra loro diverse prospettive (sia in termini di disciplina che di contesto), è urgente per il curatore accompagnare l’artista nella messa in discussione di modelli e riferimenti razionalisti e riduzionisti, così come della mercantilizzazione di metodologie d’incontro e di conoscenza differenziali.

L STORIES L LA CURATELA OGGI L

L'empreinte PARIGI Georges Didi-Huberman L Sensation LONDRA Norman Rosenthal & Charles Saatchi L Cities on the Move VIENNA Hans Ulrich Obrist & Hou Hanru L documenta X KASSEL Catherine David

SETTEMBRE L OTTOBRE 2021

Traffic BORDEAUX Nicolas Bourriaud L L'informe, mode d'emploi PARIGI Rosalind Krauss & Yve-Alain Bois

The Short Century MONACO DI BAVIERA Okwui Enwezor

Come artista-curatrice, immigrata e donna, sono perennemente sospesa in uno spazio fluttuante di indagine, curiosità, cancellazione ed espansione. Operando all’interno delle pallide fiamme del nostro mondo attualmente in fiamme, non sono interessata a sostenere uno status quo pre-condizionato. Il mio approccio, invece, propende per la ricerca di pratiche sperimentali “non commerciali” aperte, spesso ignorate dal mercato dell’arte e dalle tendenze governative. La TIAB – The Immigrant Artist Biennial (TIAB) è stata lanciata nel 2020, fornendo una piattaforma di supporto per il lavoro politicamente orientato, concettualmente stimolante, rivolto al processo interdisciplinare, realizzato da artisti immigrati storicamente emarginati e che vivono negli Stati Uniti. In quanto creativa io stessa, considero il mio lavoro curatoriale come un’altra branca della mia pratica artistica, con cui posso formare una visione distinta, puntando fondamentalmente sulla collaborazione, l’umanità innata e il coraggio indispensabile. La mia indagine è cercare l’invisibile, il meno noto, ritenuto “infruttuoso” o “indesiderabile” dal mainstream, operando principalmente all’intersezione tra fai-da-te, non profit, ambiti artist run, pubblici e virtuali. Lavorando incessantemente per decodificare i pregiudizi patriarcali, coloniali e capitalisti e i tropi consolidati dell’esclusione, immagino modi per sfondare le barriere egocentriche, dominate dagli uomini, competitive e individualiste. Cresciuta come outsider in una famiglia non artistica proveniente dall’Ucraina, mi batto costantemente contro lo spazio chiuso ed elitario; il mio obiettivo è contribuire a “cancellare” le gerarchie e le ingiuste oppressioni, a elevare l’“oscuro” e ad amplificare voci ed espressioni diverse. Che cosa va fatto? Come posso contribuire alla necessaria evoluzione della cultura attraverso il potere dell’atto creativo e il desiderio di plasmare un futuro migliore? Io insisto. “Puoi scrivermi nella storia con le tue battute amare e contorte. Puoi anche calpestarmi nel fango, ma comunque, come polvere, mi alzerò” (Maya Angelou).

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ALEJANDRO ALONSO DÍAZ direttore di fluent – curatore associato fondazione sandretto re rebaudengo a madrid

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The Art Basel & UBS Global Art Market Report 2021 Download now on artbasel.com/TheArtMarket


DANTE/RAVENNA • LISETTA CARMI/TERMOLI

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IN APERTURA / DANTE / RAVENNA

Dante in versione pop LA MOSTRA IN 14 PUNTI

Marta Santacatterina

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el mezzo del cammin di nostra vita”, “Fatti non foste a viver come bruti”, “Galeotto fu il libro”: tutte espressioni entrate nella memoria e nel lessico quotidiano degli italiani. Ma non solo le parole: anche la figura di Dante e le immagini evocate dalla Divina Commedia hanno attraversato i secoli con una potenza e una pervasività uniche, tanto da infrangere le barriere tra cultura “alta” e pop, tra letteratura e pubblicità, tra filologia e humour. Il Sommo Poeta è tra noi, con una forza comunicativa ancora straordinaria. Da qui prende le mosse Dante. Gli occhi e la mente. Un’epopea pop al Museo d’Arte della città di Ravenna: una mostra trasversale, capace di sondare fonti inconsuete e di raccontare aneddoti spiritosi, senza dimenticare la contemporaneità che ancora oggi interpreta personaggi e temi del poema. I curatori, che abbiamo raggiunto per farci raccontare i dietro le quinte del progetto, hanno lavorato su due filoni che si annodano, pur restando indipendenti: a Giuseppe Antonelli spetta quello filologico, a Giorgia Salerno una rilettura con gli occhi del contemporaneo.

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LE ANIME Nel chiostro cinquecentesco del MAR la grandiosa architettura in rete metallica Sacral di Edoardo Tresoldi (2016) evoca l’infernale Castello degli Spiriti Magni, abitato da uomini di grande onore e fama che però non possono godere della luce divina. DANTE A MEMORIA L’eccezionale fortuna mnemonica dei versi danteschi prende il via da Petrarca, ma in mostra si racconta anche il caso di un intagliatore che finì in manicomio per aver tentato di imparare tutta la Commedia a memoria. DANTE PER IMMAGINI Dall’edizione illustrata di Gustave Doré – che fissa un vero canone iconografico del poema – alle cartoline, tutto concorre alla duratura fortuna visiva del poema.

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L’ITINERARIO FILOLOGICO: parla GIUSEPPE ANTONELLI I materiali esposti appartengono ad ambiti molto diversi tra loro: come si è svolta la ricerca? Per prima cosa abbiamo immaginato un percorso che riuscisse a raccontare i tanti aspetti della ricezione popolare di Dante: dalla fortuna trecentesca ai videogiochi, dal Dante santo laico al testimonial, dall’iconografia delle edizioni illustrate ai fumetti, dal culto della memoria alla parodia. L’obiettivo? Ricostruire l’origine e l’evoluzione delle tante facce di quel Sommo Poeta che nel tempo è diventato un’icona pop. Un tema leggero, trattato con un approccio filologico. Costellano il percorso una serie di aneddoti divertenti. Quanto conta visitare la mostra sorridendo? L’impostazione del percorso è narrativa: all’interno di una ricostruzione cronologica emergono tutte le storie che sprigionano dagli oggetti. Basti pensare al bastone intagliato con cui, negli Anni Trenta, il dantista contadino Nino Ferrari girava per le piazze declamando

passi della Commedia. Da sempre, peraltro, la ricezione popolare di Dante è legata a una ricca aneddotica che prende le mosse già da Boccaccio: come l’episodio delle donne di Verona che indicano la sua barba nera (già, Dante aveva la barba!) perché se l’era bruciata all’Inferno. Sono emersi aspetti inediti dalla ricerca sulle fonti? È difficile parlare di scoperte, altrimenti si corre il rischio di ripetere il finale di quel filmato della Settimana Incom del 1955 (in mostra ovviamente c’è) in cui la scoperta di autografi danteschi si rivela un pesce d’aprile. Scherzi a parte, abbiamo valorizzato testimonianze che non erano mai state mostrate e contestualizzate. Ad esempio i ritrattini di Dante che i lettori disegnavano sui margini della loro Divina Commedia, o i progetti originali dei tunnel dell’orrore a tema dantesco realizzati nei parchi giochi americani nel secolo scorso da ditte italiane. O ancora fumetti molto rari e la collezione più completa di oggetti e pubblicità ispirati a Dante.

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IL VIAGGIO Pietra e fango, materie prime delle opere di Richard Long, sono elementi del paesaggio che raccontano il viaggio e testimoniano un peregrinare che ritroviamo nel cammino dantesco. DANTE AL CINEMA Sono quattro gli schermi dedicati al cinema muto, alla videoarte, all’animazione e al cinema sonoro su cui scorrono le immagini, ad esempio quelle di Inferno del 1911, il primo lungometraggio della cinematografia italiana. DANTE IN GIOCO L’iconografia infernale è la preferita per scacchiere, carte da poker, giostre degli orrori per i luna park, e poi per i videogiochi: risalgono già al 1986 i primi game per Commodore 64 ispirati ai gironi danteschi. LE FIGURE FEMMINILI Le opere di Letizia Battaglia, Tomaso Binga, Irma Blank, Maria Adele Del Vecchio, Rä di Martino, Giosetta Fioroni, Elisa Montessori e Kiki Smith interpretano Beatrice, Semiramide, Cleopatra, Piccarda, Matelda, Circe e Lucia. DANTE E LA PUBBLICITÀ Nicola Zingarelli, autore del celebre Vocabolario, si infuriò alla vista di una pubblicità d’acqua purgativa con testimonial Beatrice. Ma a partire da fine Ottocento il poeta e i suoi personaggi entrarono prepotentemente nelle campagne di marketing e nel design dei packaging. DANTE IN PARODIA Dall’Inferno di Topolino alle strisce di Jacovitti sino al film Totò all’inferno: come ogni icona pop che si rispetti, anche l’universo dantesco è stato oggetto di numerose traduzioni parodiche. DANTE PERSONAGGIO Sulla vita di Dante si hanno poche notizie, ma la leggenda è ricchissima e ha alimentato un culto che comprende aneddoti ed episodi. Non mancano la monumentalistica e l’iconografia, che arriva persino a rappresentare il poeta come un “santo laico”.


IN APERTURA / DANTE / RAVENNA

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IL SOGNO Nelle illustrazioni per l’Inferno di Robert Rauschenberg i personaggi emergono dalla luce o dall’ombra, come visioni e allucinazioni. Realizzate tra il 1958 e il 1960, mettono in scena la società americana contemporanea destinata al declino: Dante è l’uomo comune o assomiglia a JFK, Virgilio è astronauta o atleta. DANTE E LA SCUOLA La Commedia è un pilastro della didattica, ma come si studia Dante a scuola? Il focus della sezione è sugli strumenti a supporto di insegnanti e allievi e sull’iconografia destinata ai ragazzi. DANTE E BEATRICE La proverbiale amata è finita addirittura sulle scatole dei biscotti, e il rapporto tra i due ha ispirato anche scenette esilaranti, come l’intervista impossibile di Umberto Eco a Beatrice. LA LUCE Così come Dante lascia alle stelle il compito di chiudere ogni cantica nonché tutta la Commedia, la stella di Gilberto Zorio conclude il percorso della mostra.

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UNA RILETTURA CONTEMPORANEA: parla GIORGIA SALERNO Grazie alla sua rilettura le opere contemporanee si “vestono” di un nuovo significato, che le lega alla Commedia e alla vita del poeta. Gli artisti viventi sono stati coinvolti nel concept? Sì, i tanti artisti viventi sono stati coinvolti personalmente e attraverso le gallerie che li rappresentano: tutti hanno accolto con entusiasmo la partecipazione al progetto. Con lo studio di Edoardo Tresoldi, ad esempio, sono in contatto dal 2019 ed è stato il primo artista a cui ho pensato per reinterpretare il Castello degli Spiriti Magni, e per la prima volta Ravenna ospiterà una delle sue grandiose installazioni. Penso inoltre a Letizia Battaglia, che ha da subito confermato il suo interesse per la mostra, e Adelaide Cioni, che ha realizzato un’installazione site specific. La collaborazione delle gallerie (Monica De Cardenas, Lorcan O’Neill, Tiziana Di Caro e P420) è stata inoltre fondamentale per coinvolgere tutti gli esponenti di una piena contemporaneità, le cui opere sono culturalmente perfette per rileggere Dante. Le sezioni contemporanee valorizzano anche il patrimonio del MAR: con quali opere in particolare?

Ho ritenuto fondamentale valorizzare in particolare tre opere non esposte nella collezione permanente: Stella-acidi di Gilberto Zorio, realizzata nel 1982 per una personale che si tenne all’allora Loggetta Lombardesca; Ricordo del piccolo Eden di Giosetta Fioroni, un dipinto del 1988 che, nella mia rilettura, interpreterà Matelda; e infine Isola di Elisa Montessori, una composizione di cinque gouache del 1998, con cui l’artista, come una Circe, ci attrae nella sua isola ideale. Le sale dedicate al contemporaneo si intrecciano con quelle “filologiche”: in base a quale pensiero? Il pubblico è condotto attraverso le sezioni che ripercorrono la popolarità di Dante grazie a temi guida individuati nella Commedia e rappresentati da uno o più artisti. Così, per le anime all’Inferno, ci sarà Sacral di Tresoldi, che tra l’altro permetterà di vivere un’esperienza unica entrando nell’installazione. Per il tema del viaggio non potevo che scegliere Richard Long, tra i principali esponenti della Land Art. Mentre la sezione sulle figure femminili manifesta tutta la forza delle donne con artiste al centro di battaglie culturali e che hanno saputo affermare con coraggio il proprio pensiero. Ogni loro lavoro rimanda a una donna citata da Dante, simboleggiando anche uno sguardo sull’arte contemporanea al femminile che spesso ricopre un ruolo marginale. E poi Francesca da Rimini è rappresentata dalla poetessa Antonia Pozzi, il sogno è invece evocato da Robert Rauschenberg e da Adelaide Cioni. Chiude il percorso il tema della luce, un riferimento alla purificazione e alla salvezza ricercata da Dante, con Stella-acidi di Zorio, dopo la quale si esce “a riveder le stelle”. dal 25 settembre al 9 gennaio 2022

DANTE. GLI OCCHI E LA MENTE. UN’EPOPEA POP

a cura di Giuseppe Antonelli e Giorgia Salerno Catalogo Silvana Editoriale MAR Via di Roma 13 – Ravenna mar.ra.it

a sinistra: Teodoro Wolf Ferrari, Affiche Olivetti M1, 1912, manifesto su carta, cm 32,6 x 21,8 x 1 (part.)


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OPINIONI

Un Paese grottesco

Riflessioni sull’arte partecipata

Fabrizio Federici storico dell'arte

Marco Bazzini storico dell'arte e curatore

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lanciati atleti, completamente nudi, si arrampicano l’uno sull’altro a formare una piramide umana, facendo roteare intorno ai loro corpi grandi cerchi, del tutto simili a hula hoop. La base della piramide è costituita nientemeno che da quattro leoni. No, non si tratta di una scena vista ai recenti giochi olimpici di Tokyo, magari di una di quelle discipline che in Italia quasi nessuno conosce; bensì del dettaglio più noto delle meravigliose grottesche che decorano la Sala degli Acrobati nel Castello di Torrechiara, a pochi chilometri da Parma. Quelle di Torrechiara sono alcune delle più riuscite e impressionanti espressioni di un genere pittorico che, tra la fine del Quattrocento e la prima metà del Seicento, conobbe una straordinaria fortuna in tutta Europa, ma soprattutto in Italia: “Cose senza alcuna regola”, come ebbe a definire Giorgio Vasari le grottesche, in cui i pittori “apicca[vano] a un sottilissimo filo un peso che non si può reggere, a un cavallo le gambe di foglie, a un uomo le gambe di gru […] e chi più stranamente se gli immaginava, quello era tenuto più valente”. Insomma, riprendendo un vecchio slogan, “la fantasia al potere”. In effetti, capita di trovare davvero di tutto: creature incredibili, acconciature bizzarre, animali impegnati nelle azioni più strane. Nel Corridoio di Levante degli Uffizi, tra le grottesche affrescate da Alessandro Allori nel 1581, si nota addirittura un biplano: ma il velivolo è una giocosa integrazione dovuta all’ignoto restauratore che nel 1944 riparò i danni provocati all’intonaco dalle esplosioni che abbatterono i ponti sull’Arno.

LA DOMUS AUREA IERI E OGGI

Come è noto, queste decorazioni affondano (è il caso di dirlo) la loro origine e il loro nome nelle fantasiose pitture che adornano le “grotte” della Domus Aurea di Nerone, riscoperte alla fine del XV secolo. La magione dell’imperatore ha riaperto le porte al

pubblico nel giugno 2021, con una piccola esposizione dedicata al rapporto tra Raffaello (e la sua bottega) e le grottesche: l’Urbinate fu fondamentale per il loro "lancio", attraverso le imprese decorative della Stufetta e della Loggetta del cardinal Bibbiena, delle Logge di Leone X, di Villa Madama. Soprattutto, la Domus ha accolto i visitatori con un rinnovato impianto di illuminazione e un nuovo ingresso, caratterizzato dalla passerella di Stefano Boeri. Se pensiamo a cosa potrà essere questo monumento al termine dei complessi lavori di messa in sicurezza e di restauro, c’è da restare a bocca aperta, proprio come di fronte alle stravaganti scenette che animano le grottesche.

L’aggettivo ‘grottesco’ si addice all’Italia, dove convivono il meglio e il peggio IL GROTTESCO ITALIANO

Se l’origine di queste figurine è ben nota, lo è altrettanto il fatto che da loro è derivato l’aggettivo “grottesco”: ciò che è spropositato, paradossale, tragicomico. Un aggettivo che si attaglia bene alla Penisola: non solo perché le grottesche sono un po’ ovunque in Italia, e con risultati spesso ragguardevoli – a riprova del fatto che il genius loci è molto fantasioso –, ma anche perché il nostro Paese è, come pochi altri, un coacervo di cose che all’apparenza non potrebbero mai stare insieme, in cui convivono il meglio e il peggio, grandi slanci e sordidi egoismi, le aperture all’esterno e ataviche paure.

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orse qualcosa in più di una possibile rassomiglianza è rintracciabile nell’azione partecipata proposta da Ei Arakawa e terminata in questi giorni alla Turbine Hall della Tate di Londra. Il museo, così come richiesto dall’artista giapponese, ha invitato il pubblico a giocare, disegnare e divertirsi lasciando una traccia del proprio passaggio sul pavimento della sala, precedentemente ricoperta con teli come un grande foglio di carta. In questo modo il visitatore ha avuto la possibilità di realizzare un’opera in continua evoluzione, nel solco di un interrogativo: “Can you do something that has never been done before?”. Ed è proprio questo punto di domanda a suggerire una risposta affermativa: sì, è già successo. Eventi molto affini sono già accaduti e hanno visto la partecipazione di centinaia di persone soprattutto in Italia. In questo elenco non sono, però, da registrare tutte quelle esperienze che, dalle avanguardie storiche in poi, hanno dato la possibilità ad altri attori di partecipare alla realizzazione di un’opera, come la più recente produzione artistica ha molte volte attuato.

L’ARTE COLLETTIVA DI IVAN

Questa di Ei Arakawa e della Tate è qualcosa di diverso, a partire dalla dimensione, perché si tratta di una vera e propria chiamata a un evento collettivo che, aperto a tutte e tutti, si svolge in uno spazio pubblico come è quello di un museo (l’ingresso era libero con prenotazione per normativa anti-Covid). Però, poco più di un mese fa, l’11 luglio, un invito a dipingere un’opera con la partecipazione di tutte e tutti i passanti su una grande tela, grande quanto la piazza in cui si svolgeva, è arrivato durante la seconda edizione del Festivart di Lavagna, festival di poesia di strada nonché di arte partecipata che si svolge a inizio estate nella cittadina ligure. Ma anche questo evento, a cui hanno preso parte moltissime persone, non è che l’ultimo “appuntamento” degli oltre

cinquanta che Ivan, artista e poeta di strada (a marzo ha dipinto l’unghia del “dito” di Cattelan davanti alla Borsa di Milano), ha realizzato in altrettante piazze d’Italia e del mondo. La grande pagina bianca è il titolo di quell’impresa comune che Ivan realizza dal 2007 e che nel tempo ha coinvolto le piazze di città grandi e piccole da una parte all’altra del mondo.

Gli interventi di Ivan ricompongono la collettività nella vita reale LA POESIA DI STRADA

Al pubblico che arriva in piazza è richiesto di scrivere, con colori e pennello e nella maniera più libera, una parola o una frase (ma vanno bene anche disegni) sulla tela disposta a terra per comporre un grande testo collettivo che abbia anche un sorprendente impatto visivo. Perché, come dice Ivan, che del movimento della Poesia di strada (pratica diversa dal Muralismo e dalla Street Art) è uno dei massimi autori nonché l’ideatore, “una pagina bianca è una poesia nascosta” in quanto dispositivo libero e liberato nel cuore delle città. Una poesia nascosta perché scritta da grandi e piccoli, donne e uomini come momento di condivisione del proprio essere e come ricomposizione di una collettività che si incontra nella vita reale. Pagina bianca è un momento di scrittura ma anche di lettura e nasce come fonte di energia, storia, memoria, identità, arte, poesia di strada. Ivan l’ha già proposta, seppur raramente, in contesti organizzati, ma ora che è entrata in un museo, sebbene con diverso nome ma con una pratica non troppo dissimile e un esito visivo decisamente sovrapponibile, cosa succede? Speriamo che a deciderlo non siano ancora una volta soltanto gli avvocati.


OPINIONI

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La cultura del feticcio

Pensare l’Italia come una grande mostra

Antonio Natali storico dell’arte

Stefano Monti economista della cultura

O

rmai è tutto un altalenare di speranze e delusioni. Quando si pensava d’essere finalmente sulla via d’uscita dalla stretta d’un morbo maligno (grazie ai vaccini e al comportamento civile di molti) l’insorgenza di varianti ha mostrato tutta la precarietà delle convinzioni acquisite, pur scientificamente fondate. Sicché la vita, come in uno slalom, séguita a zigzagare, di continuo aggiustando la rotta, ma con la bussola sempre orientata sulla salute dell’economia, che ai giorni nostri par che sia la vera – per non dir l’unica – preoccupazione. Nessuno ovviamente si sogna di negare l’importanza dell’economia, a patto però ch’essa venga collocata nel novero dei non pochi valori di cui è vitale tornare ad avvertire l’urgenza. E fra questi c’è senza dubbio la cultura; che – fuor d’ogni retorica e a dispetto degli sfottò volgari d’alcuni economisti, più ignoranti che miopi – è davvero un sostentamento indispensabile per l’uomo. Ma la cultura, dico. Non quanto per cultura venga gabellato purtroppo anche a livello governativo; di cui peraltro ci si potrebbe disinteressare se da lì non venissero finanziamenti per le imprese culturali. In quelle sfere ci si rallegra e ci s’autoincensa per le riaperture dei musei (d’arte, in primis). Poi però, a leggere le ragioni di quel compiacimento, ciascuno subito s’avvede che sono giustappunto di natura economica.

OPERE D’ARTE COME FETICCI

Essendo oggi concepiti come macchine per fare soldi, i musei sono valutati per quello che fruttano, non per quello che insegnano; sono perciò utili e degni di premure finanziarie quando sono redditizi: non importa come e perché lo siano; non importa se, invece di promuovere la poesia, alimentano i feticci; non importa se la promozione dei feticci comporta il sacrificio del loro patrimonio rimanente (che magari è fra i più ricchi al mondo, ancorché

meno noto); non importa se per promuoverli smettono d’essere istituti capaci di formare coscienze storiche mature e d’educare la sensibilità e il gusto. Importa che rendano; e perché rendano bisogna che spremano i loro feticci; i quali, in sé, sarebbero capi d’opera sublimi, ma, affidati ai meccanismi di un’industria culturale ognora più rozza e ingorda, vengono svuotati della loro poesia e offerti agli autoscatti dei visitatori; che sono tuttavia incolpevoli, perché nessuno (a principiare dalla scuola) più si preoccupa di dotarli di quegli strumenti di conoscenza che consentano un approccio consapevole alle opere.

I musei sono valutati per quello che fruttano, non per quello che insegnano

IMMAGINE VS SOSTANZA

E allora giù per la scesa delle mostre d’artefici grandi, viste e riviste, senza più nemmeno un lumicino di novità. E poi ancóra giù, con l’esposizioni in cui nomi eclatanti del passato (specie del Rinascimento) vengono abbinati ad artisti moderni, nella convinzione che quel confronto di belle stagioni lontane e l’eccellenza dei maestri chiamati a rappresentarle seducano il popolo delle mostre e lo accalchino al botteghino. L’immagine – come ovunque, d’altronde, in questa nostra età scombinata – prevale sulla sostanza, giacché l’immagine, in virtù d’una comunicazione che la tecnologia attuale ha reso istantanea, si diffonde senza il filtro d’una personale preparazione e senza alcun tramite, mentre la sostanza ha tempi lunghi, richiede riflessione e possibilmente confronto e dialogo: requisiti oggi relegati nelle terre bruciate delle perdite di tempo.

N

on si tratta semplicemente di reiterare, ancora una volta, il grande valore estetico, artistico, ambientale e culturale del nostro Paese. Si tratta piuttosto di organizzare l’Italia come una grande mostra: un progetto gestionale e curatoriale di rilevanza nazionale, che disegni nuovi tragitti nella nostra penisola, arricchendo di senso territori cosiddetti minori, e che racconti il nostro Paese come mai fatto prima d’ora. La riflessione, in fondo, muove da premesse semplici: ogni mostra presenta dei propri itinerari culturali, e spesso tali itinerari sono organizzati per aree (tematiche, cronologiche ecc.). Ovviamente, nella quasi totalità dei casi, itinerari e aree sono inseriti all’interno del medesimo edificio: un visitatore acquista il biglietto, accede e visita la mostra, fermandosi, talvolta in caffetteria, più raramente al ristorante, e acquistando, uscendo, un gadget ricordo. Durante la visita, spesso, al visitatore viene offerta un’esperienza culturale narrativa e diacronica: si sceglie un tema e si raccolgono, all’interno del medesimo percorso curatoriale, opere d’arte che siano in grado di rappresentare quel tema sotto differenti punti di vista o, come spesso accade, la sua evoluzione nel tempo. Per cercare di raggiungere il numero più elevato di visitatori, sovente le mostre puntano anche sui brand: artisti il cui nome è in grado, da solo, di attirare flussi di visitatori aggiuntivi rispetto a quelli che si otterrebbero in loro assenza. Questo tipo di prodotto culturale ha una propria logica interna e non a caso è il format più diffuso. Ma non è detto che debba essere l’unico.

ARTISTI E TERRITORIO

L’immagine che forniamo attraverso questo tipo di format è un concentrato di superstar, attorniate da autori di più o meno minore rilevanza. Tutti però sappiamo che questa rappresentazione riflette soltanto una verità parziale: le correnti artistiche si

estendevano territorialmente, seguendo gli itinerari degli artisti a cui venivano commissionati lavori in diversi territori nazionali. Artisti che intervenivano su territori specifici, adattando il proprio stile al nuovo gusto, e questo oggi consente di trovare opere, in molti musei periferici, a cui il grande circuito delle mostre presta poca attenzione.

NUOVI MODI DI FARE MOSTRE

Pensare a una mostra che coinvolga, in modo concreto, tutto il territorio nazionale rifletterebbe quella ricchezza del nostro territorio, che è sempre motivo di vanto, ma che pochi conoscono realmente. Integrare, in un unico percorso espositivo, città e regioni differenti, con un catalogo unico, con un biglietto valido in tutte le sedi espositive, con un importante progetto di comunicazione, permetterebbe di raccontare il nostro Paese in modo diverso, aiutando anche le piccole realtà territoriali a comprendere quale ruolo le opere esposte nel proprio museo hanno giocato all’interno di una più ampia prospettiva.

Bisogna restituire ai territori il senso di appartenenza Creare una mostra, prevedendo l’esposizione delle opere nella propria sede originaria, investendo le risorse derivanti dai minori costi di trasporto e assicurazione in valorizzazione. Trovare sponsor locali, che partecipino in associazione agli sponsor istituzionali. Definire connessioni tra i musei, sia di tipo relazionale sia di tipo funzionale (biglietteria, bookshop ecc.). Perché l’arte non è completamente sovrapponibile agli altri settori. Il brand funziona, ma non c’è solo quello. Serve ridare senso di appartenenza ai propri territori.


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FOTOGRAFIA / LISETTA CARMI / TERMOLI

La fotografia quotidiana di Lisetta Carmi Angela Madesani

L

a mostra Voci allegre nel buio, allestita al MACTE, il Museo di Arte Contemporanea di Termoli, è una sorta di metaforico ponte sul Mediterraneo, costituito dalle fotografie dedicate alla Sardegna da Lisetta Carmi tra il 1962 e il 1976. Un ponte che dalla Sardegna conduce al Molise, del quale non sono, tuttavia, presenti immagini. A essere esposta è una settantina di scatti, sino a poco tempo fa inediti, di una delle figure più interessanti della fotografia italiana del XX secolo.

LISETTA CARMI E LA SARDEGNA Carmi aveva letto, alla fine degli Anni Cinquanta, su Il Mondo, la celebre rivista di Mario Pannunzio, alcuni pezzi della maestra scrittrice Maria Giacobbe sulle terribili condizioni di vita dei poveri in Sardegna, poi raccolti in un volume pubblicato da Laterza. Lisetta entra in contatto con l’intelligente autrice dei pezzi, che la presenta a una famiglia sarda, i Piras, con la quale prende a scriversi. Quindi Lisetta, curiosa e desiderosa di contatti umani, decide di partire per l’isola, dove nel corso degli anni torna più volte. Il risultato sono le immagini in mostra a Termoli. I soggetti sono i paesaggi, la gente, i bambini e le donne con le loro ritualità, ma anche uomini, tutti ritratti con grande intensità. La Sardegna è un territorio misterioso, totalmente da scoprire. Carmi, con il fiuto sociale che la contraddistingue, fotografa la Costa Smeralda prima dello scempio a favore dei super-ricchi. Ma anche Orgosolo e la sua festa della Candelaria, in cui protagonisti sono i bambini che bussano di casa in casa per fare incetta di cibi profumati che le donne hanno preparato per loro. Carmi riesce a documentare la ritualità antica, alla ricerca della quale era anche Maria Lai, che si era ristabilita nella sua terra di origine proprio in quel periodo. La mostra molisana è una rilettura di quella proposta a Nuoro qualche tempo fa. L’attuale rassegna è stata configurata appositamente per gli spazi del MACTE e include anche alcuni scatti del lavoro sui corsi d’acqua sardi, che Carmi aveva realizzato su incarico della azienda siderurgica Dalmine, in provincia di Bergamo, e che avrebbe dovuto, all’epoca, diventare un libro.

INTERVISTA A CATERINA RIVA DIRETTRICE DEL MACTE Perché la scelta di ospitare la mostra incentrata su Lisetta Carmi? La volontà è quella di dare spazio a una persona che ha saputo indagare il nostro Paese con una serie di fotografie scattate tra gli Anni Sessanta e Settanta, in particolare in Sardegna. La sua è un’analisi molto lucida del cambiamento in atto nel nostro Paese in quel particolare momento storico, alla fine degli Anni Cinquanta. Attraverso quelle immagini si riesce a scoprire il paesaggio sociale e antropologico. Mi è parso di trovare in quelle fotografie una situazione molto simile a quella del Molise nello stesso periodo. Lisetta Carmi era entrata in relazione con il mondo dell’arte sarda, che in quegli anni contava su personaggi del calibro di Maria Lai e Costantino Nivola? Non credo. Tempo prima, Carmi aveva letto su Il Mondo la lettera di una maestra che insegnava in una scuola elementare, Maria Giacobbe. La maestra raccontava delle condizioni di vita della gente. Parecchi bambini non avevano neppure le scarpe per andare a scuola e ci arrivavano dopo aver camminato per molti chilometri. Eravamo alla fine degli Anni Cinquanta. Lisetta si era messa in contatto con lei e aveva pagato gli studi a un bambino particolarmente meritevole di Orgosolo. Al centro del lavoro sardo c’è un’analisi del paesaggio. Alla fotografa era stato dato pure l’incarico, da parte dell’azienda Dalmine, di fare un’indagine sui corsi d’acqua in Sardegna e anche in Sicilia. In molte immagini viene analizzata la modifica del paesaggio attraverso l’intervento umano. Sul lavoro siciliano è stato fatto all’epoca un libro, mentre il lavoro sardo sino a oggi era poco o nulla conosciuto. In parallelo alla personale di Carmi, è esposta una selezione relativa allo stesso ambito, quello del paesaggio,

costituita dalle opere acquisite dalla cittadina molisana attraverso il Premio Termoli, a partire dal 1955. Siete una realtà relativamente recente, nata nel 2019. Qual è il vostro tipo di pubblico? Quali i progetti per il futuro? La mia sfida è, da un lato, lavorare in maniera molto ambiziosa, portando al MACTE progetti di respiro nazionale e internazionale, ma la sfida più grande, più complessa, è proprio quella di creare un’abitudine al museo in un luogo come Termoli, che non ce l’ha. Vorrei che il turismo legato al mare potesse diventare anche un turismo culturale. [ha collaborato Maria Celeste Sgrò]


FOTOGRAFIA / LISETTA CARMI / TERMOLI

1924 Nasce a Genova 1934 Inizia a studiare pianoforte 1938

Viene espulsa dalla scuola italiana perché ebrea

fine anni ‘50 Legge su Il Mondo i reportage della maestra Maria Giacobbe

1960

Smette di suonare il pianoforte e inizia a fare fotografia

1962/76

Viaggia in Sardegna e realizza diversi lavori in mostra

1964

Aderisce al progetto Genova porto: monopoli e potere operaio e firma un servizio fotografico sui camalli

1965/71

Realizza I Travestiti

1966

Fotografa Ezra Pound

1977/78

Smette di fare fotografia

1979

Fonda a Cisternino l’ashram Bhole Baba

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IDENTIKIT DI LISETTA CARMI È difficile trovare un sostantivo che racchiuda la complessità della figura di Lisetta Carmi, della quale qui parliamo a proposito di una piccola area della sua ricerca fotografica. Nata nel 1924 in una famiglia della buona borghesia ebraica genovese, sorella del pittore Eugenio Carmi, Lisetta, dopo un’infanzia dorata, vive gli anni dell’adolescenza fra una fuga e l’altra, a causa delle leggi razziali promulgate nel 1938 dal governo fascista. Quegli anni segnano la sua vita, il suo percorso esistenziale, teso alla ricerca della libertà individuale, con uno sguardo sempre rivolto agli altri e al significato dell’esistenza. Si dedica allo studio del pianoforte, diventando un’ottima concertista. Quando nel 1960 il suo maestro, per la sua sicurezza, le sconsiglia vivamente di partecipare al corteo antifascista contro il convegno del Movimento Sociale Italiano, che deve tenersi a Genova, Lisetta decide che le sue mani non possono essere più importanti del resto dell’umanità. Abbandona il pianoforte e inizia a dedicarsi alla fotografia. Il suo è uno sguardo curioso, intelligente, teso a scavare in una società ancora molto chiusa. Fotografa il teatro, i camalli del porto, con cui intesse soprattutto rapporti umani. Realizza un lavoro, oggi più che mai attuale, sui “travestiti” tra il 1965 e il 1971, che diventa un libro straordinario. “Per me la fotografia, che vedo e pratico esclusivamente come reportage, non è tanto un mezzo di espressione, quanto piuttosto un mezzo di comprensione e comunicazione. Penso che essa possa aiutarci

a capire gli altri e i loro problemi e quindi anche a studiare il da farsi per il benessere universale, ad abbattere le barriere che ancora separano gli uomini, a vincere le diffidenze, a cancellare i pregiudizi, a eliminare le convenzioni ingiuste ormai codificate”, afferma.

L’EMPATIA DI UNA FOTOGRAFA

Come dimostrano anche gli scatti sardi, Lisetta non si è mai posta di fronte alla gente con uno sguardo indagatore, anzi. È sempre entrata in sintonia con le persone, ha varcato la soglia delle loro case, ha cercato di capirne le ragioni. Forse l’unico lavoro nel quale Lisetta non è entrata in relazione con il suo soggetto è quello dedicato a Ezra Pound, il poeta americano antisemita, che ha vissuto gli ultimi anni della sua vita in Italia. Nel 1966 Carmi suona alla porta della casa del poeta, a Sant’Ambrogio di Zoagli, lui non si presenta ma, a un certo punto, considerata l’insistenza, apre e Lisetta lo cattura con il suo obiettivo. Un’azione durata pochi istanti, attraverso la quale coglie la debolezza di un povero vecchio ammalato, depresso. Anche qui riesce ad andare oltre i sentimenti negativi, per compiere una sorta di catarsi e giungere al nocciolo della realtà. Alla fine degli Anni Settanta abbandona anche la fotografia e si dedica alla spiritualità, alla ricerca della verità. Va in India, dove compie fondamentali esperienze spirituali ed entra in contatto con il maestro Babaji. Una volta tornata, fonda un ashram a Cisternino, nelle Murge, dove si sta godendo la meritata e lunga vecchiaia.

fino al 16 gennaio 2022

LISETTA CARMI. VOCI ALLEGRE NEL BUIO a cura di Luigi Fassi e Giovanni Battista Martini Catalogo Marsilio MACTE Via Giappone – Termoli fondazionemacte.com

nella pagina a fianco: Lisetta Carmi, Irgoli in Baronia, 1964 a sinistra: Lisetta Carmi, Orgosolo (cantori tradizionali nel bar), 1964


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OLTRECONFINE / RENÉ MAGRITTE / MADRID

Nuovi sguardi su René Magritte Federica Lonati

P

er René Magritte (Lessines, 1898 – Bruxelles, 1967) i quadri erano pensieri visibili e la pittura un mezzo per penetrare il mistero della realtà. Se il pittore belga fu un artista enigmatico per la società del suo tempo, oggi più che mai la sua estetica ambigua, misteriosa e spesso ironica affascina un pubblico vasto ed eterogeneo. A oltre trent’anni dall’ultima retrospettiva a Madrid, il Museo Nazionale ThyssenBornemisza celebra il pittore surrealista con una grande mostra autunnale. La macchina Magritte è il progetto curato da Guillermo Solana, direttore del museo madrileno, che raccoglie un centinaio di opere provenienti da istituzioni pubbliche, gallerie e collezioni private di tutto il mondo, in collaborazione con la Fondazione Magritte di Bruxelles. Prevista per il 2020 e posticipata di un anno a causa della pandemia, dopo Madrid la mostra raggiungerà il Caixaforum di Barcellona (dal 25 febbraio al 5 giugno 2022).

CHI ERA RENÉ MAGRITTE

René Magritte nasce nella provincia vallona, figlio della piccola borghesia belga, padre commerciante e madre modista, che purtroppo si suicida, annegandosi, nel 1912. Dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti di Bruxelles, si forma sulla scia di Futurismo e Cubismo, Astrattismo e avanguardie dell’epoca. La sua ansia sperimentale lo porta a indagare il rapporto fra oggetto e forma, fra immagine dipinta e immagine reale, scoprendo presto l’abisso incolmabile fra linguaggio e realtà. Da giovane lavora in una fabbrica di carte da parati e si specializza poi in grafica per manifesti e pannelli pubblicitari. Da qui l’idea di una pittura costruita su moduli ripetitivi. La decorazione di una porta in una birreria di Bruxelles e il Canto d’amore di Giorgio de Chirico (datato 1914) sono gli elementi rivelatori che orientano le sue scelte estetiche. Fondamentali anche gli anni parigini (1927-30), nell’ambiente dei surrealisti francesi. Al rientro a Bruxelles, Magritte si discosta in parte dal movimento capitanato da Breton perché non riconosce nell’arte la presenza dell’inconscio, ma di un pensiero vigile e lucido, che si rivelerà in seguito una vera e propria metodologia. In Belgio il pittore conduce una vita apparentemente modesta insieme alla moglie Georgette Berger e riprende il lavoro di pubblicitario; concepisce l’arte come attività amatoriale insieme a un gruppo di amici intellettuali e artisti (i cosiddetti surrealisti belgi), con i quali condivide una filosofia di vita ironica e scanzonata.

fino al 30 gennaio 2022

LA MACCHINA MAGRITTE a cura di Guillermo Solana MUSEO THYSSEN-BORNEMISZA Paseo del Prado 8 – Madrid museothyssen.org

in alto: René Magritte, La firma in bianco, 1965. National Gallery of Art, Washington, Collection of Mr. and Mrs. Paul Mellon © René Magritte, VEGAP, Madrid, 2021 a destra: René Magritte, Il grande secolo, 1954. Kunstmuseum Gelsenkirchen © René Magritte, VEGAP, Madrid, 2021

La prima personale in Belgio risale al 1932, ma il vero successo commerciale arriva tra la fine degli Anni Quaranta e i primi Anni Cinquanta, con una serie di incarichi pubblici (tra i quali la decorazione del soffitto del Théâtre Royal des Galeries di Bruxelles, un cielo a nuvolette bianche), la prima retrospettiva al Palais des Beaux-Arts nel 1954 e, nello stesso anno, la presenza nel padiglione del Belgio alla Biennale di Venezia. In piena era Pop, la fama di Magritte giunge anche negli Stati Uniti grazie a un contratto in esclusiva con la galleria di Alexander Iolas, a New York, e ad alcune grandi mostre: al Museum for Contemporary Art di Dallas e di Houston nel 1960 e al MoMA nel 1965, due anni prima della morte improvvisa avvenuta nell’agosto del 1967.


OLTRECONFINE / RENÉ MAGRITTE / MADRID

LA PITTURA-NON-PITTURA DI MAGRITTE

La mostra di Madrid racconta per grandi temi la pittura-non-pittura di Magritte, con le sue innumerevoli sfumature filosofiche, semantiche e letterarie e l’analisi continua delle risorse della meta-pittura. Il percorso tematico non si limita a esplorare i classici soggetti degli esordi parigini – gli uomini con le bombette, i cavalieri, i sonagli, le nuvole, la pipa o il corpo nudo femminile – ma presenta opere realizzate durante tutta la carriera dell’artista, assai prolifico e apparentemente ripetitivo nelle combinazioni di elementi pregressi. Nello Spazio del mago i tre autoritratti, compresa la narice a pipa, sono pretesti per parlare del processo creativo e del mito classico. In Immagini e parole c’è il Surrealismo puro dei tableaux-mots. Nelle Figure e fondo i mimetismi e le sovrapposizioni di piani, con l’uso frequente di silhouette. Nel Quadro e la finestra l’ambiguità classica del quadro nel quadro, i trompe l’oeil fra il mondo dentro e quello fuori. La sezione Volti e maschere analizza le tante figure di spalle, i volti coperti e la pareidolia, ossia la lettura di segni facciali in oggetti inanimati. Mimetismo e megalomania sono infine due aspetti complementari nell’arte di Magritte: da un lato mascherare nascondendo gli oggetti nello spazio, dall’altro esaltare l’oggetto al di fuori del suo contesto.

CAPOLAVORI DALL’ESTERO E DALLA SPAGNA

Tra tanti capolavori provenienti dall’estero – come Il tentativo dell’impossibile (Toyota Municipal Museum of Art, 1928), La firma in bianco (National Gallery di Washington, 1965), Lo stupro (Centre Pompidou, Parigi, 1945), Scoperta (1927) e Il Ritorno (1940), entrambi del Musée des Beaux Arts di Bruxelles –, al Thyssen sono esposte cinque delle sei opere presenti in Spagna e alcuni pezzi rari provenienti da collezioni private spagnole. La chiave dei campi (1936) appartiene alla collezione del museo, mentre Il segreto del corteggiamento (1927) e Sonagli rosa, cieli a brandelli (1930) provengono dal Museo Reina Sofía; La bella società, quadro dell’ultima stagione del pittore belga (1965-66), è di proprietà della Fundación Telefónica. Da segnalare, inoltre, la presenza in mostra de Il duo, olio della Fondazione Francesco Federico Cerruti (in prestito al Castello di Rivoli) e di due quadri degli Anni Quaranta e Cinquanta di proprietà di un collezionista privato bolognese. Nella Sala del Balcón, al primo piano del museo, è inoltre esposta una selezione di fotografie e filmini amatoriali ritrovati negli Anni Settanta, dopo la morte del pittore, e raccolti da Xavier Canonne, direttore del Museo di fotografia di Charleroi. Si tratta di ritratti intimi e familiari, istantanee o brevi cortometraggi che testimoniano lo spirito dada, scanzonato e anti-borghese che animava gli amici del gruppo surrealista belga.

1898

Nasce a Lessines

1912

La madre si suicida

1916

Inizia gli studi all’Accademia di Belle Arti di Bruxelles

1918/19

Avvia la sua attività artistica

1922

Sposa Georgette Berger

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1927/30

Soggiorna a Parigi ed entra in contatto con Breton e i surrealisti francesi

1930

Ritorno a Bruxelles

1940/43

Fugge a Carcassonne

1954

Retrospettiva al Palais des Beaux-Arts di Bruxelles

1960

1925

Prime retrospettive a Dallas e Houston

1927

Mostra al MoMA di New York

Diventa amico di Mesens e dei surrealisti belgi Prima personale alla Galerie Le Centaure a Bruxelles

LA VISIONE CRITICA

Il titolo della mostra, La macchina Magritte, allude alla Macchina universale per fare quadri che il pittore belga, insieme agli amici surrealisti, aveva ideato nel 1950 nel catalogo immaginario della società cooperativa La Manifattura della poesia. Non si tratta però solo del processo fisico della pittura e del fatto che Magritte dipinge un migliaio di quadri, che spesso sono apparentemente delle varianti dello stesso soggetto. “Di solito le esposizioni su Magritte”, spiega Guillermo Solana, direttore del Museo Thyssen e curatore della mostra, “sono centrate sul periodo surrealista, tra il 1926 e il 1935, l’epoca più creativa, della prima maturità, durante la

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1965 1967

Muore improvvisamente a Bruxelles

quale inventa la maggior parte dei temi iconici e più popolari della sua pittura. Noi invece vogliamo dimostrare che Magritte non si limita a ripetersi: negli anni successivi non inventa, ma varia, replica, combina i soggetti già proposti in precedenza, secondo una logica metodica, articolata e rigorosa. Vogliamo svelare, cioè, il segreto di tale logica, il suo personale metodo di combinazione che lo porta a sperimentare, più o meno con successo, un tema attraverso le sue stesse varianti. Il catalogo di Madrid è costruito per evidenziare la matrice strutturalista della pittura di Magritte, con motivi che talora si invertono, talaltra sono simmetrici, ma variano sempre secondo un procedimento logico, malgrado l’apparente stravaganza”.


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GRANDI CLASSICI / ARTURO MARTINI / FIRENZE

Arturo Martini e il mistero dell’arte Niccolò Lucarelli

U

n’opera d’arte è tale quando restituisce un respiro, un pieno dato dal vuoto che suggerisce”. Da questo assunto, che rimase una delle più salde convinzioni artistiche di Arturo Martini (Treviso, 1889 – Milano, 1947), si ricostruisce l’essenza di una scultura poetica che indaga il mistero dell’individuo incidendolo nel marmo, nel bronzo, nella terracotta: modellati dalle sue mani, questi materiali si fanno leggeri, scrigno di anime di altrettanti individui. Martini racconta la storia quotidiana di donne e uomini di buona volontà, che ha nel mondo contadino il suo centro ideale; ma il suo non è uno sguardo ingenuo o idealista, perché nel tratto si percepisce la fatica della vita nei campi con una spiritualità che la civiltà industriale dell’Europa moderna stava poco a poco spazzando via. L’Aratura, opera giovanile dagli echi pascoliani, è forse il fulcro di questo discorso artistico. E ancora Ofelia, La Pisana, L’Attesa sono tre opere emblematiche nelle quali è racchiusa l’incertezza che angosciava la società europea fra le due guerre.

MARTINI A FIRENZE fino al 14 novembre 2021

ARTURO MARTINI E FIRENZE

a cura di Lucia Mannini con Eva Francioli e Stefania Rispoli MUSEO NOVECENTO Piazza Santa Maria Novella 10 – Firenze museonovecento.it

Arturo Martini, Ulisse, 1935. Collezione privata. Courtesy Giacomo Lorello. Photo Carlo Crozzolin

ANTICO E MODERNO

Artista indisciplinato e dal percorso tortuoso, fu allievo di Antonio Carlini a Treviso, e fra il 1906 e il 1907 anche dell’Accademia di Belle Arti di Venezia. Ma l’Italia gli andava stretta e nel 1909 si trasferì a Monaco di Baviera, per frequentare la Scuola di Adolf von Hildebrand. Tre anni più tardi trascorse alcuni mesi a Parigi, per studiare da vicino le avanguardie, una su tutte il Cubismo, e dove espone al Salon d’Automne. Sospesa fra l’Italia e l’Europa, la sua scultura sublima l’incontro dell’antico con il moderno, dall’arte etrusca e greca a quella dei maestri del Duecento e del Trecento, che affianca alle nuove concezioni plastiche dell’avanguardia. La tensione spirituale si accompagna quindi alla tensione della materia, in opere che passano dalla sfera religiosa al mondo contadino, dalla mitologia greca alla letteratura shakespeariana. Millenni di storia umana immortalati in opere che si trasformano in logos nel suo doppio significato di pensiero e parola. Opere che sono un racconto e insieme un viaggio nell’animo umano.

Pur avendovi risieduto solo per alcuni mesi nel 1931, Martini ha con Firenze un legame particolarmente stretto, che si concretizzò sia con le mostre personali e le partecipazioni alle collettive che si tennero in città, sia nell’interesse che molti collezionisti locali manifestarono verso la sua opera. Negli Anni Trenta, e per tutto il decennio successivo, Firenze fu una città culturalmente dinamica, che dopo gli eccessi del Futurismo guardava a una molteplicità di linguaggi: Casorati, Severini, de Chirico, Savinio convivevano con il razionalismo architettonico di Giovanni Michelucci o con le prime riflessioni astrattiste di Vinicio Berti. In questo clima dinamico s’inserì appunto Martini, e un’interessante sezione documentaria della mostra, costituita da lettere originali, giornali d’epoca e documenti vari, racconta il suo rapporto con gli artisti e i collezionisti della città. Fra i legami più stretti, quello con Felice Carena, all’epoca direttore dell’Accademia di Belle Arti, cui donò la versione in bronzo dell’Ulisse, esposta al Museo Novecento. Ma a Martini non mancò il sostegno di numerosi collezionisti, fra cui l’importante famiglia Contini Bonacossi, o Mario Castelnuovo Tedesco, raffinato musicista il quale volle per sé l’Ofelia, che rientra in Italia dagli Stati Uniti in occasione di questa mostra.

1906/07 1931-32

Espone nella Galleria Bellini e dona l’Ulisse a Felice Carena

1909

Frequenta la Scuola di Adolf von Hildebrand

1912

Studia il Cubismo ed espone al Salon d’Automne

Frequenta l’Accademia di Belle Arti


S R A YE FILTRI INST AG

RAM D'ART

GIULIO ALVIGINI MARA OSCAR CASSIANI

ISTA

SOFIA BRAGA

FEDERICA DI PIETRANTONIO

CLUSTERDUCK

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KAMILIA KARD

CHIARA PASSA

MARTINA MENEGON

VALERIO VENERUSO

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#25

RUBRICHE

ARTE E PAESAGGIO

IL MUSEO NASCOSTO

Il concetto di transizione ambientale passa soprattutto dalla riqualificazione delle città e in particolare delle aree verdi. Rigenerazione urbana è dunque la parola d’ordine per accorciare le distanze verso gli obiettivi di sostenibilità che dovranno essere raggiunti nei prossimi anni. Il verde urbano, insieme alla mobilità sostenibile, assume così un ruolo fondamentale in questo momento storico. Lo dimostrano i grandi progetti previsti in città come Londra, con la realizzazione di un nuovo parco lineare su una ferrovia in disuso, tipo la High Line di New York. Anche Parigi propone la pedonalizzazione e il rinverdimento dei lunghi Champs-Élysées fino all’Arco di Trionfo. Certamente una rivoluzione per città così dense. AREE VERDI A MILANO Anche in Italia sono diversi i centri che stanno attivando progetti di passaggio dal “grigio al verde”, trasformando piazze asfaltate, piene di auto, parcheggi e rumore, in aree verdi, giardini urbani in grado di dare non solo nuovo ossigeno, ma anche spazi sociali alle nostre città. Prima tra tutte Milano, con molteplici progetti in cantiere. Oltre alle imponenti riqualificazioni degli ex-scali ferroviari, diverse piazze diventeranno “green”. A partire dallo scioglimento dello snodo caotico di Piazzale Loreto, che passerà da slargo per le automobili ad anima del quartiere. Si chiama infatti LOC – Loreto Open Community il progetto vincitore del concorso bandito nell’ambito di Reinventing cities Milano. Fino al neonato Giardino Zen di Piazza Piola, piantumato con alberi di ciliegio e popolato dalle sculture dell’artista giapponese Kengiro Azuma, frutto di un riuscito dialogo tra istituzioni e cittadini. DA MANTOVA A REGGIO EMILIA A Mantova sarà interamente riqualificata l’area davanti a Palazzo Te. Una grande arena verde in grado di ricucire il tessuto urbano unendo il palazzo al centro città, attraverso un’ampia passeggiata alberata. Il progetto è affidato alle sapienti linee dello studio di paesaggio AG&P di Emanuele Bortolotti. Saranno create “stanze verdi” per attività all’aperto, zone d’ombra, sentieri, aiuole e un orto botanico urbano. A Reggio Emilia è prevista la realizzazione della più ampia “piastra verde urbana” d’Europa. Un’arena di oltre 20 ettari ideata dallo studio Iotti + Pavarani, sulla ex-area Campo Volo. Protagonisti della nuova grande piazza saranno eventi all’aperto, concerti, teatro. Pertanto l’intera pianificazione prevede spostamenti di terra per dare spazio a una sorta di anfiteatro verde, a cui si accederà grazie a camminamenti alternati ad ampie zone a prato. Ognuno di questi progetti non si pone in contrasto con l’ambiente esistente, bensì in continuità con i nuovi percorsi di riqualificazione urbana e rinverdimento delle città. Claudia Zanfi

NUOVI GIARDINI URBANI IN ITALIA

Giardino Zen, Piazza Piola, Milano. Photo Claudia Zanfi

Circondato da palazzi Anni Settanta, il complesso della Chiesa di Fulgenzio a Lecce è uno spazio di resistenza culturale francescano nell’area moderna della città. “Ogni nostro bene è destinato alla collettività. Condivisione, quindi, che è un concetto molto francescano, è un principio alla base di tutto il nostro impegno”, racconta frate Paolo Quaranta, direttore della Pinacoteca “Roberto Caracciolo” di Lecce. Accanto alla Chiesa di Sant’Antonio a Fulgenzio, c’è un museo-biblioteca, luogo di stratificazioni di collezioni e libri, cinquecentine e altre rarità per bibliomani. Di fronte, l’arco cinquecentesco di via Santi Giacomo e Filippo evoca un passato glorioso, quando l’edificio storico, oggi sede della Pinacoteca e della Biblioteca, era parte integrante della villa di Fulgenzio della Monica, nobile leccese che amava le arti. La chiesa risale all’inizio del XX secolo, mentre la Pinacoteca – che accoglie soprattutto tele provenienti dai conventi della provincia – è stata avviata negli Anni Sessanta e inaugurata nel 1964, con le primissime sale espositive, su iniziativa di frate Egidio De Tommaso. GLI ARTISTI DELLA PINACOTECA CARACCIOLO Come suggerisce Elvino Politi, storico dell’arte e responsabile dei servizi di fruizione della Pinacoteca, le opere del nucleo più cospicuo della raccolta appartengono all’ambito barocco e della controriforma cattolica. Sono soprattutto di area napoletana – e quindi caravaggesca – la maggior parte delle tele esposte in questa sezione. Tra i nomi che compongono la prima parte del percorso espositivo affiorano quelli di Gianserio Strafella, Oronzo Tiso e Serafino Elmo, e poi le scuole napoletane di Jusepe de Ribera – Lo Spagnoletto –, Luca Giordano e Francesco Fracanzano. Un nucleo monografico della Pinacoteca è invece dedicato a padre Raffaello Pantaloni, toscano di origine e poi leccese d’adozione, con impegni francescani anche in Marocco. Il frate pittore è autore anche dell’intero ciclo di pitture parietali della Chiesa di Sant’Antonio a Fulgenzio, mentre sono stati musealizzati i cartoni preparatori e altre sue opere realizzate con tecniche miste. LE OPERE DI EZECHIELE LEANDRO Il focus espositivo degno di maggiore interesse è quello dedicato all’artista outsider Ezechiele Leandro, che proprio per i francescani, nella vicina cittadina di Lequile, ha realizzato un ciclo di dipinti dedicati ai fioretti di san Francesco, oggi nella Pinacoteca Caracciolo insieme a sculture dell’artista e a documenti di grande importanza, inediti, che rivelano la genesi del suo Santuario della Pazienza, grande giardino irregolare nel paese di San Cesario di Lecce. La collezione museale dedicata a Roberto Caracciolo, predicatore francescano di origini leccesi vissuto nel XV secolo, è varia e complessa, attestandosi come uno dei luoghi più stimolanti in Europa per le ricerche iconografiche di ambito francescano. Lorenzo Madaro

LECCE PINACOTECA D’ARTE FRANCESCANA “ROBERTO CARACCIOLO”

Via Imperatore Adriano 79 pinacotecacaracciolo.it

Sala Ezechiele Leandro, Pinacoteca Caracciolo, Lecce. Photo Elvino Politi. Courtesy Pinacoteca Caracciolo


RUBRICHE

IL LIBRO

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ASTE E MERCATO

È una lettura complessa e rivelatrice quella di Come pensano le foreste. Per un’antropologia oltre l’umano di Eduardo Kohn, pubblicato da Nottetempo con la prefazione di Emanuele Coccia. Proprio il filosofo italiano inquadra il campo nel quale si sviluppa il pensiero antropologico dell’autore: “Piuttosto che porsi alle frontiere che separano i popoli e le culture per mostrare la loro porosità, l’antropologia si è posta alla frontiera – molto più ampia, frastagliata, discontinua – che separa ciò che è umano da ciò che non lo è, poco importa se si tratti di oggetti inanimati o di forme di vita lontane da quella dell’Homo sapiens”. I RUNA DELL’AMAZZONIA Ne discende uno spostamento di sguardo, di attitudini che possiamo racchiudere in una bella immagine che ci restituisce l’autore, affermando che il modo in cui gli altri esseri che popolano il pianeta ci guardano è importante perché l’incontro con essi ci spinge a riconoscere il fatto che pensiero e conoscenza non sono questioni esclusivamente umane. È il modo di vivere dell’etnia Runa dell’Amazzonia ecuadoriana, e in particolare il villaggio di Avila, a rivelare come convive quest’intreccio di forme di vita che è la foresta. Gli abitanti non sono selvaggi come la cultura occidentale li definisce, ma colonizzati che da secoli interagiscono con i loro colonizzatori. I Runa sono connessi con il mondo occidentalizzato attraverso acquisti al supermercato, piccoli scambi e interazioni con le ONG; ciò che li trasforma in “altro che umani” è l’atto del procacciarsi parte del loro cibo. Ecco che la foresta ai margini del villaggio diviene spazio e logos: preda e predatore si mischiano nella stessa figura.

EDUARDO KOHN COME PENSANO LE FORESTE.

Per un’antropologia oltre l’umano

Nottetempo, Milano 2021 Pagg. 448, € 20 ISBN 9788874528943 edizioninottetempo.it

Women in Art è la prima asta dedicata a sole artiste da Christie’s a Parigi. Il 16 giugno 2021 la vendita ha totalizzato oltre 3 milioni di euro, aprendo un’ampia panoramica dal Rinascimento al XXI secolo attraverso un centinaio di lotti variegati per stime e per media impiegati. Tante le forme, infatti, che ha assunto nei secoli la creazione delle artiste e che l’asta ha contribuito, nella propria sfera di competenza, a raccontare e a trarre fuori dall’ombra di un canone ancora oggi escludente. ARTISTE IN MOSTRA A incoraggiare l’operatore di mercato, a poco meno di un mese di distanza dall’asta di Sotheby’s (Women) Artists, hanno di certo contribuito gli eventi e le mostre istituzionali che i musei del mondo stanno inserendo nelle loro agende. Peintres femmes, 1780-1830 al Musée du Luxembourg, così come Elles font l’abstraction (Women in abstraction) al Centre Pompidou di Parigi, o i Mooc (Massive Open Online Courses) lanciati da quest’ultimo con il Musée d’Orsay e l’associazione AWARE. Archives of Women Artists, Research and Exhibitions, per nominare solo gli esempi più recenti. Ecco allora in catalogo i dipinti di Elisabeth Vigee Le Brun e le lettere di George Sand a Gustave Flaubert, la “Pontificia Pittrice” Lavinia Fontana insieme a Maria Lai, Leonor Fini e Dorothea Tanning, fino a Maria Helena Vieira da Silva e Sheila Hicks, passando per la prima edizione Gallimard del 1949 di Le deuxième sexe di Simone de Beauvoir.

SUPERARE I BINARISMI I Runa sono uno dei tanti affascinanti esempi declinati da Kohn, esempi di uno sguardo che non si focalizza solo “sugli umani o unicamente sugli animali, ma anche sul modo in cui umani e animali entrano in relazione”. Si tratta della rottura di quella circolarità antropocentrica che confina il nostro modo di pensare e agire entro rigidi binarismi. Andare oltre l’umano significa vivere un lungo e intenso coinvolgimento con un luogo e con le persone che vi abitano. Una ricchezza di esperienze che può avvicinarci a pensare con; ad esempio con parrocchetti dagli occhi bianchi che i Runa tengono lontani dai campi di mais costruendo spaventapasseri che danno forma visiva a quelli che potrebbero apparire come dei rapaci dal punto di vista di questi uccelli voraci di chicchi. Questo strano oggetto dipinto diventa icona, rappresentazione di una fitta rete di relazioni che supera il linguaggio tradizionale per farsi altro. Intrecci, collegamenti tra forme di vita della e nella foresta. Un ecosistema che pensa e parla superando la lingua verbale per addentrarsi verso non meno loquaci modalità di convivenza e scambio.

IL VOLUME DI CLAUDE CAHUN Fuori dall’elenco degli highlight – ma non per questo meno prezioso – compare Aveux non avenus di Claude Cahun (nome d’arte di Lucy Schwob), artista, fotografa, scrittrice francese. Pubblicato a Parigi nel 1930 in edizione limitata di 500 copie, il volume offerto da Christie’s è uno tra 55 esemplari fuori commercio, donato all’amico e mentore André Gide ed è stato aggiudicato per poco più di 4mila euro. Autobiografia in parole e immagini, illustrata dai fotomontaggi di Marcel Moore (pseudonimo di Suzanne Malherbe), la compagna di Claude Cahun per tutta la vita, Aveux non avenus distilla e sintetizza i motivi fondanti della sua pratica artistica e, insieme, della sua visione dell’esistenza. A gennaio 2020 si è potuta vedere per la prima volta in Italia una selezione delle opere fotografiche di Cahun, in occasione della mostra 3 Body Configurations (a cura di Fabiola Naldi e Maura Pozzati, Fondazione del Monte, Bologna). E scoprire – o ri-scoprire – l’unicità di una ricerca visiva tesa a rintracciare una personale identità plurale, oltre i confini di genere, un’individualità androgina e metamorfica che demolisce ogni convenzione e le farà affermare, tra le pagine di Aveux non avenus: “Maschile? Femminile? […] Neutro è il solo genere che mi si addice sempre”.

Marco Petroni

Cristina Masturzo

CLAUDE CAHUN CHRISTIE’S

Claude Cahun, Aveux non avenus, Éditions du Carrefour, Parigi 1930. Courtesy Christie’s Images Ltd 2021


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Massimiliano Fuksas - Untitled, 2020 - Acrilico su carta lucida

LA GRANDE FIERA DI ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA

18-21 NOVEMBRE 2021 ROMA LA NUVOLA EUR INFO Tel. 06 85353031 | info@artenuvola.eu | www.romaarteinnuvola.eu

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ORGANIZZAZIONE GENERALE E PRODUZIONE



ALEX URSO [ artista e curatore ]

affascinata dal kitsch e dal grottesco, e i suoi fumetti lo dimostrano a meraviglia. Martina Sarritzu (Cesena, 1992) è una delle nuove matite della nona arte italiana. Provate a non innamorarvi dei suoi disegni, e delle sue parole, se ci riuscite...

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Martina Sarritzu

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Cosa vuol dire per te essere fumettista? I fumetti che faccio sono la traduzione di uno sguardo insistente su quello che mi circonda. Osservo e origlio per pormi degli interrogativi, per pensare. Sento il bisogno di raccontare un certo tipo di quotidianità.

Nei tuoi lavori convivono temi sociali, fantastico e una forte dose di grottesco, offrendo al lettore un’occasione per meditare con il sorriso sui temi del presente. Cosa ti interessa raccontare? Da sempre tendo a notare i dettagli sconvenienti del reale. Mi interessa raccontare l’imperfezione del corpo (la ricrescita dei baffetti, la pezza di sudore, i calli) e i difetti della nostra umanità: le scelte sbagliate, le dinamiche di potere, la sofferenza e l’esaltazione che ci regalano le piccole imprese quotidiane. La realtà di per sé è grottesca.

L SHORT NOVEL L

Ci aiuti a conoscerti meglio? Ho studiato al liceo scientifico e ho preso una laurea triennale in Psicologia, ma mi sentivo frustrata. Così ho deciso di “resettarmi” e riprendere il disegno. Mi sono iscritta all’Accademia di Fumetto e Illustrazione a Bologna non tanto perché lettrice di fumetti o albi illustrati, ma in quanto varie persone a cui avevo chiesto consiglio ritenevano che lì si imparasse a disegnare bene. All’inizio mi sentivo fuori luogo, ma è in questi studi che poi mi sono riconosciuta.

Eppure, come per Nuvolario – il bambino protagonista di Vacanze in scatola (Canicola, 2020) –, l’immaginazione diventa un escamotage per sopravvivere all’inferno del reale. Da bambina avevo un’idea mitizzata della mia esistenza, forse come chiunque durante l’infanzia: volevo essere la più speciale e vivere avventure incantevoli. Però ho capito presto che, quando si è attratti dall’abbondanza, conviene innamorarsi del brutto: non ho voluto rassegnarmi alla delusione e ho iniziato a trovare affascinante e divertente tutto ciò che era sgraziato e ridicolo. Raccontandolo poi potevo renderlo fastoso e leggendario. Da ragazza le mie compagne di scuola mi chiamavano “l’iperbolica”, per come enfatizzavo la narrazione delle cose banali che mi succedevano. La tavola qui di fianco, invece, da cosa nasce? Quando vado al mare in Riviera la battigia è costellata di granchi morti: i bambini e le bambine li pescano, li lasciano cuocere nel secchiello e poi li buttano a fine giornata. Lo facevo anch’io, mentre in Sardegna (mio padre viene dalla provincia di Cagliari) ammazzavo le stelle marine in una maniera brutale, per poi farci dei lavoretti. Non ho mai avuto il minimo rimorso ai tempi. Raccontavo di questa pratica a degli amici qualche giorno prima che tu mi contattassi, e ho deciso di metterla in scena qui. marrrtinatzu

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ubblicando nel gennaio 2002, a pochi mesi dall’attentato, un articolo su Duchamp and the 11th September, il grande biologo e filosofo Stephen Jay Gould ammette che le due cose, almeno in apparenza, “non c’entrano niente l’una con l’altra”. Eppure, ricorda Gould, anche Duchamp si è occupato di grattacieli. E non per caso. Quando Duchamp per la prima volta mette piede a New York, infatti, rimane colpito dalla città, e in un’intervista del 1915 la definisce “un’opera d’arte”. Tra i suoi edifici, l’artista dichiara di prediligere il Plaza Hotel, che è “un bellissimo esempio di architettura modernista [...] con le sue innumerevoli finestre che bevono la luce”; ma dice di preferirgli il Woolworth Building, sia perché ha intenzione di stabilire il suo studio nella “torre più alta”, sia perché gli appare “gotico”. Sì: il Woolworth Building, disegnato da Cass Gilbert e realizzato tra il 1910 e il 1913, non esprime solo uno stile neogotico nella sua estetica, ma anche nella sua funzione, tant’è vero che nel giorno della sua inaugurazione fu definito dal reverendo S. Parkes Cadman “la cattedrale del commercio”. Questo grattacielo (all’epoca il più alto del mondo) non poteva sfuggire all’attenzione di un francese come Duchamp, dato che trascina con sé una sorta di contraddizione: lo stile gotico, esempio di stile autenticamente europeo, dominato da religiosità e misticismo, viene paradossalmente reimpiegato nel cuore della modernità per significare la “sacralità” dei valori laici come il commercio. Il Woolworth, quindi, appare a Duchamp come il rovesciamento di un’idea, proprio come i suoi readymade. Anzi: il Woolwort Building è già in-sé un readymade: si tratta solo di “dirlo”, di trovare la giusta “iscrizione” che lo trasformi in ciò che già-è. E, in effetti, questo è esattamente quello che Duchamp fa: trasformare il Woolworth Building in un ready made. Ma, per “realizzare” quest’opera assolutamente straordinaria, Duchamp non può “scegliere” un oggetto bell’e pronto, dato che l’edificio si trova semplicemente là dov’è. Egli, quindi, si limita a scrivere un semplice promemoria su un pezzetto di carta: “Trouver inscription pour Woolworth Bldg comme readymade”, “Trovare iscrizione per il Woolworth Building come readymade”. Caso estremo di “nominalismo” artistico, questa Nota “trasfigura” completamente l’oggetto che assume un nuovo valore – e diventa “arte”. C’è però un piccolo problema. La Nota

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View of Woolworth Building and surrounding buildings, New York City. New York, 1913 ca. © Library of Congress, Washington

che descrive questo progetto risale al 1916. Ma chi lo dice è Duchamp stesso e lo dichiara in À l’infinitif, la raccolta di postille pubblicate dalla Galleria Cordier & Ekstrom di New York cinquant’anni dopo. L’appunto con l’idea di trasformare il Woolworth Building in un readymade non fu mai presentato in alcuna mostra, né esposizione, né riprodotto a stampa, e prende vita solo nel momento della pubblicazione, il 1966. Ma il 1966 è proprio l’anno in cui, a poca distanza dal Woolworth Building, fu posata la prima pietra della Torre Nord del World Trade Center – che, con la sua gemella, sarebbe divenuto il nuovo “edificio più alto del mondo”. Nel tempo di una vita, nell’arco esistenziale di una vicenda biografica, Duchamp ha sempre giocato come un “marionettista del passato” (così lo definiva l’amico Arensberg) – riproponendo le stesse cose a distanza di anni, decenni o mezzi secoli. E questo è il motivo per cui la maggior parte dei readymade sono repliche realizzate tanti anni dopo la “nascita” originale dell’oggetto. Ma, lungi dall’essere un vezzo stilistico, questo atteggiamento esprime

una visione complessiva della Storia: che non è un susseguirsi di fatti, ma una serie di attribuzioni simboliche, di cui spesso non siamo consapevoli. Poteva immaginare Marcel che, altri trent’anni dopo, la Torre Nord sarebbe collassata sotto il più spettacolare attacco terroristico di sempre? Certo che no. Ma il “suo” readymade già ci dice che gli edifici non sono soltanto oggetti per abitare, ma anche simboli: ed è per questo che attirano l’attenzione non solo degli artisti, ma anche di chi li vuole, simbolicamente, distruggere.

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MARCEL DUCHAMP, L'11 SETTEMBRE E LA STORIA testo di

MARCO SENALDI [ filosofo ] L


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Oehlen

grandi quadri miei con piccoli quadri di altri

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Albert Oehlen Space is the Place (dettaglio) 2020 Olio su tela Foto: Simon Vogel © 2021, ProLitteris, Zurich

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