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L Annika Pettini con Giulio Verago e Dario Moalli

PUNTI DI FRONTIERA. CONVERSAZIONE SUL CURARE MOSTRE

ANNIKA PETTINI [critica d’arte e curatrice]

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Punti di Frontiera è un progetto realizzato con il supporto di Giulio Verago e Viafarini [associazione non profit di Milano nata trent’anni fa e focalizzata sulla “crescita professionale dei giovani artisti”, N.d.R.], iniziato a ottobre 2020. Un viaggio attraverso le storie dei curatori e delle curatrici italiani tra i 25 e i 35 anni (circa), che stanno strutturando il loro percorso e le loro scelte professionali. Decine di conversazioni private sulla curatela contemporanea, con l’obiettivo di scorgere i cambiamenti, le problematiche e i punti di forza di un sistema e un panorama culturale in forte cambiamento.

Attraverso meccanismi di connessione inclusiva, di scambi e suggerimenti, Punti di Frontiera è diventato un contenitore di oltre sessanta punti di vista, per capire la responsabilità di un ruolo su un piano etico e professionale. Il progetto si è aperto a tutto il territorio italiano, tracciando i moti e i bisogni che lo attraversano.

Parlare è costruire. Nel confronto dei suoni delle parole sono racchiusi i semi della concretezza. Delle forme del divenire.

Lavorare nella cultura è un facilitatore, passiamo molto tempo a raccontarci immagini, scelte, visioni, azioni. E i progetti, spesso, sono la struttura con cui si cerca di comunicare un’idea. Un insieme di visioni e valori concreti.

Riflettendo sulle dinamiche di Punti di Frontiera ho capito che, per iniziare a portarlo fuori, avrei dovuto mettere in atto un processo, una modalità. Qualcosa che avesse le stesse sembianze dei contenuti: fluidi, modellabili e in divenire. Ho iniziato il percorso di Punti di Frontiera in silenzio, facendomi domande, studiando e leggendo. Poi sono passata all’ascolto delle storie di tutti i Non è una storia della curatela e nemmeno un manuale in formato ridotto per costruire mostre efficaci. Questo è un confronto a più voci – le tre che dialogano direttamente, la dozzina che offrono il loro punto di vista individuale – che fa emergere un nugolo di problemi e questioni, e fortunatamente pochissime soluzioni preconfezionate. E il pensiero non può che andare al brainstorming ante litteram contenuto in Autoritratto di Carla Lonzi.

curatori che si rendevano disponibili a darmi il loro punto di vista e ora credo sia giusto parlare. Non volevo essere solo la mia voce, cercavo altro. Un processo di senso partecipato. Discutere il pensiero, mettersi a confronto.

Conversazioni in itinere è l’inizio di questo processo di formalizzazione. Non troverete le conversazioni private avvenute con i curatori e le curatrici, ma il dopo, ovvero l’inizio del confronto con l’esterno, portandomi dentro tutte quelle storie. Quelle voci.

Quello che segue è un estratto da una conversazione con Giulio Verago (G) e Dario Moalli (D).

PARTIRE DA NOI

(A) Ho scelto di partire da noi, da tre diversi approcci di analisi della pratica curatoriale e alla ricerca. Giulio Verago per Viafarini, Dario Moalli per Osservatorio Curatori e io con Punti di Frontiera. Tre mondi, tre modi di relazione e interazione con i curatori, con modalità che ci siamo dati o che ci sono state date. Esperienze di un singolo che toccano e coinvolgono tanti individui. Inclusive in modi diversi. Vorrei provare a raccontare insieme queste letture trasversali che ognuno di noi porta avanti. (G) Faccio una riflessione iniziale: raccontare tre approcci e perché se ne sente il bisogno. Vorrei partire proprio da questo, dal bisogno. Sono arrivato alla curatela attraverso l’esercizio della mia professione e non perché ho dedicato la mia vita accademica alla curatela. Detto questo, mi è sembrato chiaro fin dall’inizio come la curatela risponda a un bisogno, un bisogno ampio, che ognuno interpreta da un punto di vista personale.

RUOLO E FUNZIONE DEL CURATORE

(G) Perché si senta il bisogno oggi di parlare di curatela è una domanda che ci dobbiamo fare, e del perché se ne senta il

bisogno in un momento storico come questo, pure. Ce lo dobbiamo chiedere. Perché quello che può fare la curatela è quello che può fare anche l’arte. Le due cose per me vanno in parallelo. Secondo me è anche un’occasione per riflettere sul ruolo che può avere l’artista, perché non c’è curatore senza artista. E, allo stesso tempo, il fatto che l’artista sia sempre più e sempre meglio curatore è la prova del nove che la curatela può essere interpretata come una carriera, come un ruolo, un ruolo nel grande gioco del potere. Infatti si dice ritagliarsi un ruolo e non ritagliarsi una funzione. Quindi: qual è il ruolo e qual è invece la funzione.

La funzione che la curatela esprime è ciò che la curatela può fare, le risposte che può dare, i desideri che può includere. Invece il ruolo – i giochi di ruolo –, come Viafarini che ha un suo peso, è la parte più interna a un organigramma. Le scelte che fai, come ti poni rispetto alle dinamiche di potere, perché la curatela è molto legata anche a quello. Curare oggi – in un mondo in cui tutto è “curato” – significa riuscire a liberarsi di una facile etichetta da professione di massa per assumersi la responsabilità di recuperare il senso profondo del verbo: saper ascoltare, saper consigliare, quel prendersi cura.

DAMIANO GULLÌ head curator del public program di triennale milano

Curare: io ho un punto di vista da più punti di vista eccentrico, perché non sono formato come curatore, ma sono formato in filosofia. Non ho mai privilegiato l’exhibition making e questo mi rende eccentrico, se eccentrico è la parola giusta. E ho sempre creduto moltissimo in dinamiche di coalizione, che non è sempre stato il paradigma della storia della curatela in questo Paese, soprattutto per i curatori della mia generazione. Io ho quarantuno anni e appartengo in maniera molto chiara a un inquadramento quasi storicizzato. Inevitabilmente.

Essendo legato a Viafarini, mi sono ritrovato a interpretare questo ruolo in contesti che avevano il privilegio di essere lontani dalle dinamiche commerciali. Le dinamiche commerciali piegano lo spazio e il tempo, l’economia è una forza, come la forza di gravità che ti piega. Magari ti piega anche verso l’alto, non per forza verso il basso, ma comunque ti distorce. Non che le dinamiche di economia non ci siano nel non profit, ci sono

eccome, però sono interpretabili in una logica meno prestazionale. Nel mio contesto io non devo rispondere nell’immediato a una prestazione. C’è una logica di più ampio respiro. E secondo me è necessario, soprattutto per il tipo di curatela che mi trovo a fare io e che è sintetizzabile in una curatela di una scena emergente, soprattutto ma non unicamente. Quindi una curatela che interviene in un momento delicato, decisivo, aurorale del proprio percorso. Cioè un momento che può portare a X o Y e tra i due c’è un confine labile.

IL PRIMATO DELL’ASCOLTO

(G) Da un punto di vista deontologico, dal ruolo che ho, io lavoro in un contesto che ha a sua volta una storia, quindi io sono una storia dentro una storia. E sono molto caratterizzato dalla storia di Viafarini. Ci ho passato la maggior parte della mia vita professionale. Anche se sto cercando sempre più di astrarmi da questa posizione, che è privilegiata da tanti punti di vista.

Al di là di quello che mi ha lasciato come rapporti personali, che sono una cosa fondamentale, soprattutto nel nostro settore: coltivare i rapporti umani tra artisti, con i colleghi.

Oltre a questo, ho dietro anche una bella scia di formati diversi e di tentativi diversi di dare ordine al caos. Tentativi che mi sono stati lasciati in custodia, come bigliettini da visita, progetti che sono stati fatti dagli Anni Novanta a oggi. Da Critical Quest con tutti i grandi nomi, i grandi geni che hanno dato le loro riflessioni, dove si vedeva tutto il divertissement di quegli anni e che non c’è più, non c’è più tutta quell’ironia. Quello è stato un capitolo bellissimo di Viafarini, ma come posso io, Giulio Verago, relazionarmi con quella storia lì? Mi è molto difficile. Per problemi di relazioni e storici. Vedo un altro mondo oggi, è una memoria ma non è riattualizzabile. Mi lascia più riflessioni Curatology, che era un interrogarsi generazionale, diverso e complementare, rispetto al tuo, Annika. In quel caso si trattava di fare il punto con gli altri colleghi e cercare di fare una narrazione.

Allo stesso modo mi chiedo: cosa mi può lasciare il tuo progetto, inserito in questo filone di riflessione? Forse il tuo è quello che sento di più perché ha questa natura di ascolto. Di ascolto fin dall’inizio, ascolto non mediato, non programmato. Non ci hai chiesto “scrivimi qualcosa”, non ci hai chiesto e non ci chiedi statement, non sei stata rigida ma molto accogliente. È un carattere distintivo che trovo molto contemporaneo.

Il contributo di Viafarini sono questi progetti. Credo infatti che il mio ruolo, e di Viafarini, debba cambiare. Dobbiamo porci in una condizione più di ascolto e meno di spiegazione, perché il rate del cambiamento è accelerato e quindi le spiegazioni, il curator explaning, è in grave crisi. E con lui le logiche di formazione, l’accademia e tutto quanto.

7 LIBRI PER CAPIRE COSA FA (O DOVREBBE FARE) UN CURATORE

MARCO ENRICO GIACOMELLI

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PAPÀ SZEEMANN

Non si può che cominciare dal papà della curatela moderna, lo svizzero Harald Szeemann. Il quale, come d’altronde la maggior parte dei curatori, non è che abbia scritto poi così tanti saggi. Per colmare questa lacuna c’è la monografia di Lucrezia De Domizio Durini.

Lucrezia De Domizio Durini – Harald Szeemann. Il Pensatore Selvaggio Il Quadrante, Torino 20192

OBRIST L’EREDE

Celeberrimo per aver tramutato l’intervista in una pratica critica, quest’altro svizzero applica il concetto anche in questo libro, che raccoglie dialoghi con figure fondamentali quali Pontus Hultén e Lucy Lippard, oltre allo stesso Szeemann.

Hans Ulrich Obrist – Breve storia della curatela Postmedia Books, Milano 2011

VETTE ITALICHE

Il compianto Celant ha scritto tantissimo: monografie complesse, saggi intelligenti, affondi tematici e storici filologicamente ineccepibili e intellettualmente stimolanti. L’ultima fatica che ci ha lasciato è questa ricapitolazione ragionata, da studiare con enorme attenzione.

Germano Celant The Story of (my) Exhibitions Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2021

CURATORI POLEMICI

Direttore di una delle più memorabili BiennalI di Venezia dell’ultimo millennio, polemista arguto, autore di bestseller provocatori, Bonami è fra i pochi curatori noti anche al di fuori del mondo dell’arte. Non vorrete farvi sfuggire la sua autobiografia?

Francesco Bonami – Curator Marsilio, Venezia 2014

LE INEVITABILI DERIVE

Il canadese David Balzer e la denuncia del fenomeno del "curazionismo". La sintesi che ne dà il collega David Hickey è severa ma giusta: "Una pratica da arredatori con manie di grandezza che predicano senza requie il loro vangelo alle masse incolte".

David Balzer – Curatori d’assalto Johan and Levi, Monza 2016

ANTOLOGIE ITALIANE

Un coro di voci a traino italico che offre una notevole ampiezza di punti di vista. Dalla "difesa delle biennali" da parte di Gioni all’"arte per tutti" di Alemani, dalle "mostre di ricerca e al contempo popolari" di Cavallucci alla "curatela nell’era PostInternet" di Groys.

Gianni Romano ed. – Become a Curator Postmedia Books, Milano 2019

CURATELA COME GEOPOLITICA

L’internazionalità spesso è soltanto l’applicazione coloniale di un paradigma. Integrarsi significa accettare la configurazione di quel preciso dispositivo, altrimenti si può restare fuori o ai margini. Su questa contraddizione riflettono alcuni curatori provenienti da contesti non-occidentali.

Il legame con il mondo contemporaneo è essenziale per il curatore. Qualunque sia il periodo sul quale lavora, vive nel proprio tempo, e la sua percezione dell’arte ne è profondamente influenzata. La celebre storicizzazione di cui parlano numerosi teorici e teoriche (Benjamin, Danto ecc.), che ricolloca l’opera nel contesto della sua epoca, è valida altresì per la lettura che ne viene fatta. Questo ancoraggio nel presente dà il tono di ogni mostra e su di essa si basano i soggetti di articolazione e interpretazione delle opere. Per me, tutto si traduce innanzitutto qui, nella soggettività di ciascuno e di ciascuna. In quella degli artisti, certo, ma anche in quella dei curatori e delle curatrici, in quella dei critici e delle critiche d’arte ovviamente, e in quella delle istituzioni che continuano, ancora oggi in Francia, a stabilire cos’è arte. Dal mio punto di vista, ci sono tre principali argomenti da considerare: il rapporto dell’essere umano con il mondo vivente e sensibile, in cui si pone la questione dell’ecologia; le problematiche legate ai generi, in cui si inscrive il femminismo; e le questioni decoloniali. Tutto ciò mette in discussione la nozione di gerarchia che per secoli ha corrotto la posizione dominante in cui gli esseri umani si sono arroccati. L’autorità dell’umanità nei confronti della natura, quella rispetto al femminile e quella dei bianchi rispetto ai non-bianchi è messa in discussione dalle scienze umane, e l’arte funge da supporto a queste riflessioni. Considero l’opera d’arte come un supporto, un collegamento. Avvicina l’artista allo spettatore, ma anche gli spettatori tra loro, e in questo senso prediligo gli incontri diretti, fisici e non virtuali. A mio avviso, la smaterializzazione fa perdere il rapporto diretto con l’opera, ed è per questo che lavoro molto con opere che emanano odori. Obbligano alla presenza, all’ancoraggio nel presente del respiro dell’opera e a una soggettività particolare, poiché i profumi hanno un rapporto interpretativo molto intimo. Alla fine, tutto si sovrappone.

SANDRA BARRÉ

storica dell’arte, critica d’arte e curatrice Il curatore è una persona con conoscenza, passione, eterno desiderio di imparare, una competenza fondamentalmente tecnica che si può acquisire in un tempo relativamente lungo sul campo e che ha una esplicita vocazione alla condivisione con il mondo, che non necessariamente coincide con il mondo dell’arte. Le urgenze da affrontare, in Europa, sono innanzitutto la restrizione degli spazi e delle opportunità professionali in un’industria dove è una professione in chiaro ridimensionamento. D’altra parte, per chi proviene ed è basato in contesti non occidentali le possibilità sono straordinarie. Quanto alle dinamiche che si innescano tra il curatore e l’artista e il curatore e il pubblico, dopo gli ultimi diciotto mesi la figura professionale del curatore, già precedentemente in discussione e riconfigurazione a favore di competenze decisamente orientate sulla produzione o l’intenso lavoro nelle comunità, si deve necessariamente riorientare. E per chi lavora come curatore – nel senso più vasto, oltre a quello tradizionale di exhibition maker che ha assunto negli ultimi anni – il dialogo con il pubblico è fondamentale. In Europa una nuova generazione di direttori di istituzioni e di manager culturali sta poco a poco assumendo la guida di istituzioni artistiche ed è chiaro che l’orientamento verso il pubblico, la società, le sue trasformazioni sono una priorità. In un certo senso, il dialogo con il pubblico è una sorta di ultima risorsa per la rilevanza delle arti contemporanee nelle società. Credo che il dialogo con l’artista rimanga sostanzialmente invariato, ovviamente senza prescindere dal necessario aggiornamento tecnologico e linguistico, che, almeno in Paesi come UK, Francia e Russia, si è letteralmente rivoluzionato.

ANDREA LISSONI

direttore della haus der kunst di monaco

Invece l’ascolto deve prevalere, anche se nell’ascolto può esserci molta retorica. Perché nessuno ascolta più. Come sbarazzarsi della retorica? Come cercare di avere con l’altro un rapporto veramente empatico? Io cerco di farlo facendo a volte un passo indietro, l’ho fatto cercando di non far uscire l’autorialità della mia visione curatoriale a favore di una visione curatoriale più disposta all’ascolto, quasi come un sismografo che cerca di captare per lasciare spazio agli altri di fare. Però parlo così perché io curo una residenza, quindi curo un processo in fieri. Sta accadendo mentre lo curo, quindi ovvio che non c’è un’idea da spiegare attraverso una mostra alla XX secolo. È un’idea di curatela che risponde alla funzione.

Penso in chiave di evoluzione rispetto al posizionamento che vorrei per me, e continuando a far crescere Viafarini, per traghettarci verso il cambiamento tracciato dai risultati che possono uscire da un punto di vista come il tuo, attraverso Punti di Frontiera, e che potenzialmente sarà utili a ridefinire un po’ i ruoli o almeno le modalità. La regola principale consiste nel rispettare il pensiero dell’artista e la qualità della sua opera, che va presentata nella maniera più rigorosa e precisa possibile, per permettere al pubblico di fruirla in modo corretto, senza inutili sovrastrutture.

LUDOVICO PRATESI docente, critico d'arte e curatore direttore artistico di spazio taverna

LA PUNTA DELL’ICEBERG E COSA RIMANE SOMMERSO

(D) Non ho la capacità di astrarre di Giulio, vivo molto più nella frenesia del quotidiano, non so se ho un’idea così generale della curatela. Parlare della curatela dell’arte è un po’ come parlare dell’amore, tutto e niente. Se ne scrive, se ne parla, se ne fanno anche tante canzoni, ma alla fine non si riesce mai a definirla.

Io con la rubrica Osservatorio Curatori ho accolto, ho parlato con giovani curatori e curatrici che, secondo me, hanno pochissima libertà di fare quello che vorrebbero fare. Ogni tanto gli viene bene qualcosa, ogni tanto no, perché sono giovani ma prima di tutto dovrebbero trovare uno spazio, dovrebbero potersi mettere alla prova. C’è una continua negoziazione con i rapporti che hanno. Lo spazio, gli artisti, loro stessi. Perché comunque è inutile negare che c’è ambizione, di essere curatori, di essere potente, quella figura come Obrist affascina, si vorrebbe essere lui. (G) Certo, ed è importante averla perché

RIVOLUZIONARI CORNETTO-E-CAPPUCCINO

Il ruolo del curatore oggi appare più interessante che mai: si tratta di provare a comprendere, accompagnare e forse anche promuovere gli importanti cambiamenti socio-culturali e politici che stanno trasformando il mondo. E qui i grandi temi vengono ormai in mente a tutti, perfino ai più pigri: fine del patriarcato, femminismo, discriminazione razziale, decolonizzazione, ecocidio, technofascismo. Come sempre nel mondo dell’arte, se la causa è buona, la sua banalizzazione cammina con essa. Con l’aria da nulla e con la leggerezza tipica di chi non ha mai dovuto temere nulla nella vita, i curatori

toccano quotidianamente questioni delicate e tragiche,

dolorose per tutti tranne che per loro. A me sembra che il principale motore che muove oggi il mondo dell’arte sia il tentativo maldestro di acquisire capitale morale adottando la posa più comoda, cioè quella del rivoluzionario formato cornetto e cappuccino, magari in abito nero. Atteggiamento questo che disgusta proprio coloro che vengono quotidianamente esclusi dal mondo disuguale e narcisistico nel quale viviamo. Un poco di senso del pudore e di umiltà, che consiglio a tutti (me compreso), potrebbero far bene a questo nostro piccolo ecosistema. A fare chiarezza, almeno relativa, rimangono quindi le mostre, il cui significato finale – come si sa – non dipende solo dalle buone intenzioni.

ANDREA BELLINI

direttore del cac – centre d’art contemporain di ginevra Se guardiamo alla storia delle mostre, che è un campo di studi ancora relativamente recente, vediamo che la mostra ha permesso di rinnovare profondamente la lettura della storia dell'arte.

VALÉRIE DA COSTA

docente di storia dell'arte contemporanea all'università di strasburgo

è una meta, una fata morgana ma una meta. (D) Mentre parlavi mi è venuto in mente che io forse non ho mai visto nella mia vita una mostra non curata da qualcuno. E questo è molto strano. Ho avuto la possibilità di lavorare in contesti istituzionali e lì ti cade un po’ il fascino della curatela, rispetto a come ti viene raccontata. Perché alla fine o hai già fatto un percorso con un artista, lo conosci da tanto tempo, vi siete incrociati tante volte, c’è un rapporto, uno scambio, altrimenti è un confronto, non dico sulle uova, perché si cerca sempre di capire che persona si ha davanti, sia a livello artistico che a livello umano (e ne ho avuto la conferma con la rubrica), che resta superficiale.

Però i giovani curatori stanno cambiando, fanno più lavoro che non si vede di quello che si vede. Lavorano in profondità. Il punto però è che o trasformi quel lavoro che non si vede in qualcosa, lo rendi pubblico, altrimenti non si vede quello che stai facendo. E solitamente quella che rimane nascosta è la parte più importante.

Perché curare una mostra? Bonami diceva che fare una personale è essere un cameriere mentre fare una collettiva è fare il curatore. Però secondo me non è vero. Fare una personale vuol dire avere un rapporto molto intimo con l’artista. Poi magari Obrist va da Gli artisti possono spronarci a comprendere il vivente non-umano. Le opere possono stimolare esperienze sensibili, proporci di condividere momenti di contatto con le piante e attivare il nostro desiderio di impegnarci nella cura degli elementi naturali e degli spazi pubblici.

PAULINE LISOWSKI

critica d'arte e curatrice un artista, gli dice facciamo una mostra, e l’altro dice di sì. Però se vuoi costruire qualcosa, funziona diversamente.

L’IMPRONTA DEL CURATORE

(G) Torniamo alla funzione del rapporto: non sempre lo vedi. (D) No, non sempre lo vedi. E forse è anche per questo che è difficile trovare un curatore che abbia sviluppato una sua impronta. Penso ad Andrea Lissoni: se mi vado a rivedere le sue mostre, lo vedo che ha un’impronta, ma se lo faccio con gli altri non lo vedo e mi dico: quindi? Cos’è che c’è? Forse un altro tipo di ricerca? Trovare l’artista giusto per te al momento giusto? (A) Però per impronta, domanda che mi sono posta e che ho posto a tanti, cosa intendi tu? Quanto si è consapevoli dell’impronta? È più estetica, è un’impronta relazionale, oppure di crescita? Tutto questo fa parte di un pensiero molto poco concreto, molto intimo e di riflessione. Per questo è anche così complesso riuscire a parlarne bene, in modo lucido. Mentre Giulio parlava io stessa mi dicevo che ho una visione più interna – ristretta – rispetto a lui. Non riesco ad avere una panoramica così aperta e completa rispetto a queste dinamiche perché, inevitabilmente, non conosco altro. Ho visto, e

Sembra che non si possa più fare a meno della curatela. E, forse, è vero. Non gli avrei dedicato uno dei primi corsi in circolazione, a NABA, se non ci avessi realmente creduto. Il rapporto tra la cosiddetta moltitudine e il dispositivo curatoriale è direttamente proporzionale. La figura del curatore emerge con la scoperta della friabilità generale dei suoli e delle rappresentazioni, con la moltiplicazione dei punti di vista, con la fine della sovranità dell’Uno: tanto della Storia dell’Arte modernista che dell’idea di Popolo. “Da qui la mia devise”, mi diceva Harald Szeemann in riferimento ai fondatori radicali del Monte Verità, “che solamente le cose più soggettive possono un giorno diventare oggettive”. Ma nella mia personale genealogia del curatore preferisco vedere Gustave Courbet che rompe con i Salons e apre il Pavillon du Réalisme – non tanto la comunità anarchico-salutista di Ascona quanto la Comune di Parigi… Per questo una scienza curatoriale sarebbe una contraddizione in termini: esistono solo politiche curatoriali. Anzi, geopolitiche curatoriali, come ho intitolato un mio libro recente. ll curatore è una figura dell’Institutional Critique: ci dovrebbe sempre essere un gap costitutivo tra la sua proposta e le attese programmate e codificate. Avrebbe dovuto corrispondergli una de-istituzionalizzazione dei musei, delle collezioni e delle assegnazioni disciplinari (la generazione degli Anni Novanta preferiva la dizione “indipendent curator”), mentre si è realizzato il contrario: il curatore è stato istituzionalizzato. Negli ultimi dieci anni, le sperimentazioni curatoriali sono state, di fatto, canalizzate in e assorbite da un sistema artistico sempre più compromesso dall’economia e dagli obiettivi delle industrie creative (le top ten, i pubblici, le artistar, i musei-brand). Il valore della sperimentazione è diminuito e, tanto la pratica curatoriale ha guadagnato in visibilità, tanto ha perso in termini di libertà di pensiero ed espressione. Oggi, la moltiplicazione esponenziale di mostre e biennali che sfruttano temi come l’ecologia, il genere e la questione razziale quale vetrina dell’emancipazione liberale va letta nei termini di un processo di pacificazione (anti-conflittuale) e artwashing che tende solo a riaffermare l’arte come sistema autocratico del capitale, funzionale alla riproduzione delle gerarchie sociali e al mantenimento dell’ordine. Altro che coerente sviluppo del dispositivo curatoriale! In un sistema totalmente omologato si tratta piuttosto di “artecrazia”, come recita il titolo di un mio libro appena ristampato.

MARCO SCOTINI

arti visive department head di naba direttore artistico di fm centro per l’arte contemporanea responsabile del programma espositivo del pav

quindi conosco, solo questo e tutto quello che sto vedendo è in difficoltà. E quando c’è una difficoltà vuol dire che sotto sta succedendo qualcosa, questo non visto – che ha bisogno di essere raccontato. Mi pongo domande.

QUANTO È COMPLICATA LA LIBERTÀ

(A) Qui volevo chiederti: attraverso questi Osservatori, al di là del contenuto che ti hanno dato, scrivendo a ciascuno di loro, come reagivano? Quanto ci mettevano?… Quei piccoli dettagli che raccontano la possibilità di una voce, anche se piccola, perché poi era solo un trafiletto. (D) La cosa più strana è che, nella maggior parte dei casi, mi chiedevano che cosa dovevano scrivere. Io rispondevo: scrivi quello che vuoi. La libertà assoluta li metteva più in difficoltà che non se gli avessi dato qualcosa su cui scrivere. Perché quello che faccio io è cercare dei curatori che possano essere interessanti, gli mando una mail quando è il momento e lascio totale libertà. Ci sono stati casi in cui questa libertà si è riflessa nella modalità di scrittura come il modo di approcciarsi alle mostre. Altri invece hanno scritto il loro statement. Tendenzialmente erano contenti di questa Oggi bisogna riflettere bene se sia il format adeguato per ogni tipo di progetto, pensando all’artista ma anche al pubblico al quale si rivolge, e considerando che spesso uno dei due attori soffre durante tale processo.

ROSA LLEÓ

curatrice indipendente direttrice the green parrot possibilità, ma mi sono reso conto che non tutti sono stati in grado di restituire quello che hanno in mente. Perché non è facile, perché sono giovani e perché non hanno la visione di quello che vogliono fare. Però ci sono delle idee, non sempre sincere, ma cercano di cogliere lo spirito del tempo. (G) Questo è fondamentale. Il rapporto con lo spirito del tempo. È il curatore che insegue la realtà? Che la plasma? La curatela è una forma di creazione, o no? (A) Non lo so. La cosa di cui mi sono resa conto ascoltando le storie di Punti di Frontiera è che lo strato che manca, forse, è proprio la capacità di tradurre i propri bisogni. C’è questa grossa voglia, nella collettività ma anche nei singoli. C’è uno strato più umano, una dimensione più ristretta. Nessuno ha manifestato il bisogno, l’ambizione, di diventare Obrist. L’obiettivo è di esistere nella propria comunità. Come prima cosa. E poi crescere. Ma questo nuovo bisogno ha generato delle mancanze pratiche, come appunto l’incapacità di traduzione e azione, l’assenza di appoggio. La forma di cura è una forma apertissima, c’è sempre meno la voglia di vincolare e veicolare. Ma ci si rende conto che si ha bisogno dell’altro. Ma che tipo di altro? A che fine?

Per fare cosa?

25 MOSTRE CHE HANNO FATTO LA STORIA DALLA PRIMA DOCUMENTA ALL’INIZIO DEL XXI SECOLO

Eccentric Abstraction

NEW YORK

Lucy Lippard When Attitudes Become Form

BERNA

Harald Szeemann

L

Land Art

BERLINO

Gerry Schum

"Primitivism" in 20th Century Art NEW YORK William Rubin

Les Immatériaux

PARIGI

Jean-Francois Lyotard Magiciens de la Terre

PARIGI

Jean-Hubert Martin

Aperto '93 VENEZIA Achille Bonito Oliva

documenta 1

KASSEL

Arnold Bode Arte povera – Im Spazio

GENOVA

Germano Celant

documenta 5 KASSEL Harald Szeemann

L'altra metà dell'avanguardia 1910-1940

MILANO

Lea Vergine Futurismo e futurismi

VENEZIA

Pontus Hultén

1955 1962 1966

The New Realists

NEW YORK

Pierre Restany 1967 1968

The Xeroxbook NEW YORK Seth Siegelaub

Primary Structures

NEW YORK

Kynaston McShine 1969 1972 1980 1984 1985 1986 1988 1989 1992 1993 1994

Freeze

LONDRA

Damien Hirst Cocido y crudo

MADRID

Dan Cameron

Post Human PULLY-LOSANNA Jeffrey Deitch

USCIRE DAI CONFINI DELL’ARTE

(A) L’idea stessa di mostra sta perdendo tantissimo di potenza. Questa concretizzazione dura e pura, questo estremismo nel tempo che ti tira fuori una mostra, è un bisogno che non è uscito. Non si è assolutamente manifestato. Ma è proprio la cura della ricerca, della persona, progetti con un tempo ampissimo in cui andare a creare estensioni diverse. C’è una distensione della pratica che non è più così “machistica”. (G) Non più legata a un obiettivo, una manifestazione, una scadenza. (A) Però in tutto questo c’è sicuramente una complessità del narrare il che cosa. Non c’è ancora una visione. (G) Ma chi può avere chiaro cosa è la curatela? È impossibile. (A) Sì però il modello è cambiato, non ci sono più i riferimenti di una volta. (D) Secondo me non abbiamo ancora imparato a curare una mostra oggi per quelli che sono i cambiamenti che sono avvenuti. Perché comunque io penso che abbiamo a che fare con artisti che fanno una loro ricerca e tu non riuscirai mai ad andare in profondità quanto sono andati loro. E spesso i È di vitale importanza ripensare il contesto politico, sociale e geografico nel quale ciascuno di noi vive, nel quale lavoriamo come curatori; prospettare la pratica curatoriale – ricerca, produzione ed esposizione – a partire dalla prossimità.

TANIA PARDO

vicedirettrice del ca2m centro d’arte dos de mayo, madrid curatori – forse è un mio errore – si concentrano troppo sull’arte. Leggono libri di arte, guardano tantissime mostre, di arte e artisti, che non sempre sono necessari. Bisogna guardare oltre, perché gli artisti stessi lo fanno, i più interessanti sono coloro che si definiscono ricercatori. Stanno guardando altro e poi questo altro prende la forma finale di opera d’arte. Ma quello a cui stanno pensando è altro rispetto all’arte, e poi lo trasformano. E secondo me la pratica della curatela deve un po’ adattarsi a questo. Deve assimilare questo processo, questo modo di fare. E in qualche caso lo sta facendo.

CURARE IL TEMPO, CURARE LO SPAZIO

(G) Trovo inoltre che ci sia un aspetto della curatela che si scontra con lo spazio e con il tempo. Per esempio: se uno cura nella lunghezza (io curo per quattro mesi un progetto), solitamente la mostra ha un momento germinativo che poi devi quagliare, concretizzare. Finisce per definire lo spazio e il tempo. Proviamo una diversa idea della durata e una diversa idea dello spazio, come quando ti prendi cura di un

Traffic BORDEAUX Nicolas Bourriaud L L'informe, mode d'emploi PARIGI Rosalind Krauss & Yve-Alain Bois

L'empreinte PARIGI Georges Didi-Huberman

The Short Century MONACO DI BAVIERA Okwui Enwezor

1996 1997 2001

L Sensation LONDRA Norman Rosenthal & Charles Saatchi L Cities on the Move VIENNA Hans Ulrich Obrist & Hou Hanru L documenta X KASSEL Catherine David

luogo, di un contesto in cui cresci. Se vado a curare a New York un progetto con la comunità, che magari conosco anche, non faccio però parte di quella comunità. Lo spazio e il tempo vanno ripresi in mano perché diamo per scontato che sia più potente il curatore di entrambi. Qualunque spazio si assuma, qualunque tempo si assuma, il risultato dipende dal suo genio. Che è una visione da sfigati dell’essere umano, perché credo sia molto più interessante l’intelligenza collettiva, in un mondo di complessità come quello che stiamo vivendo, dove se vuoi andare a fondo di una cosa non basta un dottorato, è veramente un po’ ridicolo. Quindi credo nella curatela che crea reti di alleanza con ciò che non è arte. E mi piace lavorare con artisti che si considerano ricercatori e che hanno titolo di andare a trovare l’altro (scienziato, antropologo…), mi piace molto e lo trovo molto attuale. Certo, lo diceva anche Pistoletto, la vecchia guardia, solo che Pistoletto lo diceva mentre adesso sta diventando attuale e non solo più un’intuizione.

Spazio tempo – funzione e ruolo – sono le due direttrici che condivido ora.

LA TRADIZIONE COME CHIAVE PER IL FUTURO

Come artista-curatrice, immigrata e donna, sono perennemente sospesa in uno spazio fluttuante di indagine, curiosità, cancellazione ed espansione. Operando all’interno delle pallide fiamme del nostro mondo attualmente in fiamme, non sono interessata a sostenere uno status quo pre-condizionato. Il mio approccio, invece, propende per la ricerca di pratiche sperimentali “non commerciali” aperte, spesso ignorate dal mercato dell’arte e dalle tendenze governative. La TIAB – The Immigrant Artist Biennial (TIAB) è stata lanciata nel 2020, fornendo una piattaforma di supporto per il lavoro politicamente orientato, concettualmente stimolante, rivolto al processo interdisciplinare, realizzato da artisti immigrati storicamente emarginati e che vivono negli Stati Uniti. In quanto creativa io stessa, considero il mio lavoro curatoriale come un’altra branca della mia pratica artistica, con cui posso formare una visione distinta, puntando fondamentalmente sulla collaborazione, l’umanità innata e il coraggio indispensabile. La mia indagine è cercare l’invisibile, il meno noto, ritenuto “infruttuoso” o “indesiderabile” dal mainstream, operando principalmente all’intersezione tra fai-da-te, non profit, ambiti artist run, pubblici e virtuali. Lavorando incessantemente per decodificare i pregiudizi patriarcali, coloniali e capitalisti e i tropi consolidati dell’esclusione, immagino modi per sfondare le barriere egocentriche, dominate dagli uomini, competitive e individualiste. Cresciuta come outsider in una famiglia non artistica proveniente dall’Ucraina, mi batto costantemente contro lo spazio chiuso ed elitario; il mio obiettivo è contribuire a “cancellare” le gerarchie e le ingiuste oppressioni, a elevare l’“oscuro” e ad amplificare voci ed espressioni diverse. Che cosa va fatto? Come posso contribuire alla necessaria evoluzione della cultura attraverso il potere dell’atto creativo e il desiderio di plasmare un futuro migliore? Io insisto. “Puoi scrivermi nella storia con le tue battute amare e contorte. Puoi anche calpestarmi nel fango, ma comunque, come polvere, mi alzerò” (Maya Angelou).

KATYA GROKHOVSKY

artist, curatrice – fondatrice e direttrice della imigrant artist biennial

Continueranno i musei a essere luoghi rilevanti nel futuro o sono già un dispositivo storico? Sarebbe radicale, ma probabilmente corretto, considerare la figura del curatore e il concetto di tradizione come realtà più vicine di quanto si potrebbe pensare, costituite reciprocamente dallo spazio e dalle dinamiche del museo. È per questo che smantellare l’idea di tradizione, rompendo con il suo racconto conservatore, dovrebbe essere una delle urgenze centrali del progetto curatoriale. La tradizione pensata come vicinanza o familiarità tra materiali e persone, tra società ed ecosistemi, tra climi e tecnologie, permette di immaginare ciò che è tradizionale come un sofisticato protocollo che non perpetua idee del passato, bensì stabilisce necessità e urgenze del presente. Come parte di questa narrazione, il sorgere e lo svi-

lupparsi della figura del curatore deriva da un’idea di struttura sociale e civica

che oggi sta cambiando radicalmente: si potrebbe dire che le preoccupazioni per i modi di rappresentazione sono state sostituite da un interesse per l’azione, in particolare riferita alla natura e all’emergenza climatica. In questo senso, le attuali forme di produzione e distribuzione, caratterizzate dalla precarietà e dalla violenza strutturale, spingono sempre più artisti a riprendere l’idea di artigianato e di tradizione come uno spazio di possibilità. Questa posizione è attraversata dalla questione di scala, intesa come condizione fondamentale per la ricostruzione degli usi e dei significati dell’arte nei rispettivi ambiti socio-naturali. Mettendo in dialogo fra loro diverse prospettive (sia in termini di disciplina che di contesto), è urgente per il curatore accompagnare l’artista nella messa in discussione di modelli e riferimenti razionalisti e riduzionisti, così come della mercantilizzazione di metodologie d’incontro e di conoscenza differenziali.

ALEJANDRO ALONSO DÍAZ

direttore di fluent – curatore associato fondazione sandretto re rebaudengo a madrid

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