Promemoria, numero 2

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Difficile operazione ricordare, rileggere e raccontare il proprio passato, il mondo di ieri nel quale abbiamo vissuto. Operazione in cui si corre non solo e non tanto il rischio della nostalgia, quanto quello di rendere idilliaco ciò che in realtà non lo era affatto: rischio ancor più facile se il nostro passato si situa in un mondo un po’ perduto, come quello della cultura contadina, e se i ricordi risalgono a un’età precedente quella della maturità. Eppure resto convinto della verità di un detto della mia terra: el pan ed sèira l’è bon admàn,“il pane di ieri è buono domani”... . Come sempre nella saggezza contadina e popolare, il proverbio affonda le radici in un dato concreto, oggettivo - le grosse pagnotte che venivano conservate per più tempo non si prestavano a essere mangiate fresche, ma davano il meglio del loro gusto un paio di giorni dopo essere uscite dal forno - per poi fornire un insegnamento più vasto: il nutrimento solido che ci viene dal passato è buono anche per il futuro e i principi sostanziali che hanno alimentato l’esistenza di chi ci ha preceduto sono in grado di sostenere anche noi e di darci vita, gioia, serena condivisione nel nostro stare al mondo accanto a quanti amiamo. Enzo Bianchi, Il pane di ieri, 2008


Ormai attesa come un appuntamento fisso dai cittadini dell’Unione dei Comuni “Pian del Bruscolo” (e non solo), “Promemoria”, la rivista della Memoteca, arriva con questo numero alla sua terza uscita. Le tradizioni di un tempo, le ricette, le vicende quotidiane dei nostri paesi, le storie private, si alternano nelle prossime pagine agli eventi che hanno segnato la Storia tra la fine dell’Ottocento e gli anni della seconda guerra mondiale, in uno spaccato della vita nell’area compresa nei confini dei cinque Comuni dell’Unione Pian del Bruscolo (Colbordolo, Monteciccardo, Montelabbate, Sant’Angelo in Lizzola e Tavullia). Il numero zero e il numero uno della rivista sono stati accolti con grande favore, come dimostrano le numerosissime richieste pervenute sia agli uffici dell’Unione sia alle filiali di Banca dell’Adriatico. Ciò evidenzia quanto la Memoteca Pian del Bruscolo e in particolare “Promemoria” siano apprezzati tra i cittadini dei Comuni dell’Unione, che di questi progetti sono i veri e propri protagonisti. Di nuovo ci piace ribadire che la caratteristica fondamentale di questa pubblicazione, così come dell’intero progetto Memoteca, è la volontà di rendere protagonista la gente comune, le persone che hanno costruito il territorio che ci troviamo ad amministrare e nel quale viviamo. Un territorio, lo ricordiamo, ricco di storia, di arte, di bellezze naturali, meritevole di un ampio piano di valorizzazione, nel quale la Memoteca si inserisce e del quale rappresenta il fiore all’occhiello. Nei suoi cinque anni di attività la Memoteca ha infatti saputo guadagnarsi significativi apprezzamenti anche a livello nazionale, collocandosi a pieno titolo tra le realtà che si occupano di conservazione e valorizzazione delle memorie locali. Questi importanti risultati sono stati raggiunti grazie all’impegno dell’ideatrice e curatrice della Memoteca e di “Promemoria”, Cristina Ortolani, e dei suoi collaboratori; grazie alla partecipazione dei cittadini e dei dipendenti dell’Unione dei Comuni e degli enti coinvolti, e, ultimo ma certamente non meno importante, grazie all’appoggio costante ed entusiasta di Banca dell’Adriatico, che sin dal 2008 sostiene il progetto. A tutti loro va, ancora una volta, il nostro sincero ringraziamento. Federico Goffi

Assessore alla Cultura e alla Promozione del Territorio Unione dei Comuni “Pian del Bruscolo”

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Claudio Formica

Presidente Unione dei Comuni “Pian del Bruscolo”

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Sono lieto di presentare al pubblico il numero due di “Promemoria”, la rivista della Memoteca Pian del Bruscolo sostenuta da Banca dell’Adriatico, che dell’Unione dei Comuni “Pian del Bruscolo” è tesoriere sin dalla sua costituzione. In quest’occasione sottolineo una volta di più l’importanza, per una banca del territorio come la nostra, di appoggiare le attività sociali e culturali che valorizzano il territorio. Anche attraverso iniziative come quelle realizzate dalla Memoteca Pian del Bruscolo prende vita la dicitura che accompagna il nostro marchio: “Vicini a voi”. Con oltre duecento filiali presenti nelle regioni di riferimento (Marche, Abruzzo e Molise), Banca dell’Adriatico è davvero una banca di prossimità, attenta alle esigenze delle famiglie, alle quali propone una serie di servizi e prodotti appositamente studiati, e nello stesso tempo pronta a offrire alle imprese soluzioni mirate ed efficaci, per affrontare un mercato sempre più complesso e in continua evoluzione. Anche il numero due di “Promemoria” è ricco di testimonianze e documenti riguardanti i Comuni di Colbordolo, Monteciccardo, Montelabbate, Sant’Angelo in Lizzola e Tavullia, luoghi dove Banca dell’Adriatico è ben radicata, dei quali ho potuto personalmente apprezzare la qualità della vita, scandita dalla bellezza degli scorci e dal tempo che qui sembra scorrere più lento. Nelle prossime pagine troverete, come di consueto, la storia di una delle nostre filiali: dopo Tavullia capoluogo e Montelabbate è ora la volta di Rio Salso. Proprio attraverso la nostra filiale di Rio Salso sono giunte alla curatrice della rivista molte segnalazioni di aneddoti e ricordi pubblicati: è questa un’ulteriore conferma della funzione sociale della banca, e della qualità del dialogo che Banca dell’Adriatico ha saputo instaurare con i propri clienti. A conclusione di questo saluto esprimo dunque grande soddisfazione per il successo riscosso dal numero zero e dal numero uno di “Promemoria”, e rinnovo a Cristina Ortolani e agli amministratori dell’Unione dei Comuni Pian del Bruscolo i complimenti miei e di Banca dell’Adriatico per il lavoro svolto. Dario Pilla

Direttore Generale Banca dell’Adriatico

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La testimonianza introduce una dimensione di linguaggio assente nella metafora dell’impronta, e cioè la parola del testimone che riferisce ciò che ha visto e chiede di essere creduto: l’impronta lasciata dal fatto è, in questo modo, il vedere vicariato dal dire e credere. Paul Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare - L’enigma del passato, 2004

Può apparire inutilmente enfatica, ostinata fino all’ingenuità la scelta di identificare le “fonti orali” di “Promemoria” come Testimoni. Parliamo di memoria, e sembra lecito ricorrere alla categoria solo per eventi tragici: la Shoah, gli eccidi, il terrorismo - il Giorno della memoria, il Giorno del ricordo, i testimoni. Per la vita quotidiana si preferisce la più strutturata e consapevole narrazione autobiografica, mentre i ricercatori esperti in discipline etno-antropologiche articolano le domande in questionari per raggiungere l’oggettività, e poter disporre di carte e dati campionabili. Biblioteca vivente: l’esperienza versus la carta stampata suona meglio, ma perché costringerci a legittimare le voci attraverso un filtro, sia pure quello indiscutibile del nero su bianco? Una trasposizione, qualunque essa sia, certo non le rende più affidabili, più vicine al vero. Questione di difficile risoluzione, avvincente e fondamentale. Ma non è questa la sede per porre il tema di un’epistemologia delle fonti. Confortati da parole assai più autorevoli delle nostre continuiamo a offrire ricordi, testimonianze, tracce (impronte) di diversa origine e, forse, diverso ascolto, nella convinzione che davvero, anche per noi, il pane di ieri può essere buono domani. “Promemoria” compie un anno, e la pagina dei ringraziamenti non basta a contenere tutti coloro i quali hanno ricordato, segnalato, raccontato, scrutato fotografie per aggiungere un nome, precisare un dettaglio, correggere un errore. Il raggio si amplia, il gioco è contagioso, le distanze - compresi gli abissi impalpabili degli usi, delle tradizioni famigliari, dell’educazione ricevuta - si dissolvono: dalla campagna alla città, dai borghi e castelli alla costa, mia nonna era la cugina della sua prozia; vedi il fattore nella foto, quello coi baffi? Sua sorella ha sposato il conte ***; Giuan, Pinén, la Batoca: personaggi che qui, con molto meno di sei gradi di separazione, possiamo quasi toccare con mano. Grazie di nuovo a tutti loro; a chi, a seconda dei propri talenti, ha reso possibile questo numero della rivista e, ancora una volta, Buona lettura. Cristina Ortolani

concept+image Memoteca Pian del Bruscolo

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Sommario > Il Testimone. Terenzio Gambini, Osteria Nuova di Montelabbate conversazione di Cristina Ortolani pagina 8

> DiSegnare il Territorio. 3 I ‘ferri del mestiere’ - con le mappe di Monteciccardo di Antonello de Berardinis - direttore dell’Archivio di Stato di Pesaro pagina 14 > Esercitazioni Agrarie. 3 Il baco da seta, la coltivazione dei gelsi e le filande di Franca Gambini - Accademico ordinario Accademia Agraria di Pesaro

pagina 18 > Luoghi della memoria Crocevia della luce. La casa del Rio di Cristina Ortolani pagina 23

> Storie di Palazzo. 3 Colbordolo, “luogo di calma serena...” di Simonetta Bastianelli pagina 31 > Voci Prima Paganelli. Una Bolognese a Parigi di Cristina Ortolani

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> Album di Famiglia Prima Comunione a cura di Cristina Ortolani pagina 43 > Storie di guerra Il genio dei ricordi. La Grande Guerra di Nonno Peppe di Francesco Nicolini, con il diario di guerra di Elmo Cermaria

pagina 49 > Avvenne ieri Concerto al Conventino a cura di Cristina Ortolani pagina 54 > Centolire Da Monteciccardo a Marcinelle conversazione di Cristina Ortolani pagina 57 Da Montecchio al Cile. Antonio e Violante Serafini ricordi di Ernesto Guiraldes Camerati > Vicini a voi Rio Salso di Tavullia

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> Oltreconfine. La vita quotidiana Udite, udite o rustici. Mercati, mercanti & ricordi conversazione di Cristina Ortolani pagina 66 > Oltreconfine. I luoghi, le persone Margherita e il Cotone di Laura Campagna pagina 71

Esercizi di memoria pagina 76 > La memoria degli altri Wahiba Djemil e Immacolata De Caro conversazioni di Antonella Polei pagina 78 > Parole nel tempo - Il sapore dei ricordi Nello Barberini. In cucina: le parole, le ricette di Miss Nettle pagina 81 > La memoria delle cose L’uomo dei sette capanni. Corrado Tomassoli intervista di Sandro Tontardini pagina 85 > Capitanomiocapitano Così giocavano di Gianluca Rossini pagina 88 > Pian del Bruscolo da sfogliare Montelabbate, pesche, diavoli e un’Abbadia pagina 89 > Mi ricordo pagina 92 > Hanno collaborato a questo numero pagina 94 > La Memoteca Pian del Bruscolo pagina 95 > Come collaborare

Centocinquanta! Pian del Bruscolo e l’Italia unita In attesa del numero tre di “Promemoria” (Autunno 2011) che sarà interamente dedicato a Pian del Bruscolo all’epoca dell’Unità d’Italia, come è già avvenuto nel numero uno trovate anche nelle prossime pagine alcuni spunti di riflessione su questo fondamentale anniversario, contrassegnati dal simbolo delle celebrazioni nazionali.

Avvertenza per la lettura

Per non appesantire il testo e facilitare la lettura, si è scelto di ridurre al minimo le note, inserite alla fine di ciascun articolo e riservate perlopiù all’indicazione di Fonti e tracce. Abbreviazioni utilizzate frequentemente: b. (busta); fasc. (fascicolo); id. (idem); ms (manoscritto); s.d. (senza data di pubblicazione); s.l. (senza luogo di pubblicazione); id (idem); ib (ibidem); cfr. (confronta). Eventuali altre abbreviazioni o sigle particolari usate nelle note sono date di volta in volta. Il corsivo identifica le citazioni da documenti, fonti a stampa e testimonianze orali; tra (...) gli omissis e tra [ ] le note dei redattori. In corsivo sono indicati anche titoli di libri, articoli, siti internet, spettacoli e manifestazioni, e il titolo originale delle fotografie; titoli di riviste e periodici sono invece riportati tra “ ”. Alle pagine 1, 5, 43, 79, 91 parole di: Enzo Bianchi, Il pane di ieri,Torino 2008 (pagina 1); Paul Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare, trad. di Nicoletta Salomon, Bologna 2004 (pagina 5); Dolores Prato, Giù la piazza non c’è nessuno, Milano 2001 (pagine 43 e 79); Ando Gilardi, Meglio ladro che fotografo, Milano 2007 (pagina 91). Alle pagine 65 e 75, fotografie di Fausto Schiavoni (la fiera di Pugliano - Montecopiolo; pagina 65) e di Mario Schiavoni (immagini per un campionario di calzature, Pesaro, anni Cinquanta del ‘900; pagina 75) (raccolta Fausto Schiavoni, Pesaro). A pagina 91: La Batoca (fotografia, primi del ‘900; Archivio storico diocesano, Pesaro; Fondo Giovanni Gabucci). promemoria_numerodue

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Il Testimone.

Terenzio Gambini, Osteria Nuova di Montelabbate

il testimone

Dal bar che la sua famiglia Terenzio Gambini racconta gli ultimi cinquant’anni di Osteria Nuova, frazione di Montelabbate

gestisce da tre generazioni,

in continuo sviluppo conversazione di

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Cristina Ortolani

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Dicevano che a Montecchio c’era il cambio dei cavalli [la “stazione di posta”] poi, poco più giù, verso Pesaro, un’ “osteria nova”, e così il nome è rimasto. Almeno così raccontavano i vecchi. Il toponimo non compare sulla mappa del Catasto gregoriano della prima metà del XIX secolo ma secondo alcune ricerche una “Osteria nova” è citata intorno al 1750 nei documenti della comunità di Montelabbate, conservati presso l’Archivio di Stato di Pesaro1. Cresciuta analogamente a quanto accaduto a Montecchio di Sant’Angelo in Lizzola intorno a quello che oggi definiremmo “punto di aggregazione”, Osteria Nuova è una delle zone di maggiore espansione del territorio comunale di Montelabbate. Proprio dall’osteria, anzi dal bar, cuore della vita di paese, prende le mosse il racconto del terzo Testimone di “Promemoria”, Terenzio Gambini, la cui famiglia è da tre generazioni titolare dell’esercizio situato oggi al civico 100 della Strada Provinciale. In realtà abbiamo fatto delle ricerche sugli Stati delle anime delle parrocchie, e abbiamo scoperto che alla fine dell’ ‘800 i Gambini miei avi abitavano a Pesaro, nel Borgo, vicino a via Passeri. Terenzio detto ‘Pippo’, nato nel 1938, è tuttora molto legato a quella che considera la sua patria adottiva: adesso che sono in pensione ho una ca-

Sullo sfondo: Osteria Nuova di Montelabbate, cartolina, anni Sessanta del ‘900 (raccolta Fabrizia Tagliabracci, Montelabbate). In alto: Terenzio Gambini con la sua capretta in un’immagine del 1948 e, a colori, con la moglie Anna a Buffaure, in Val di Fassa, nel 1988 (raccolta Terenzio Gambini, Osteria Nuova di Montelabbate).

Montelabbate Superficie 20 kmq Altitudine 26-375 m. s.l.m. Abitanti 6.754 (al 31 Dicembre 2010) 2.571 residenti nel Capoluogo 3.119 residenti a Osteria Nuova 1.064 residenti ad Apsella 790 stranieri residenti Frazioni Apsella, Osteria Nuova Confini Pesaro, Monteciccardo, Sant’Angelo in Lizzola, Tavullia, Colbordolo, Urbino

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Se un tempo l’osteria forniva servizio senza soluzione di continuità; era, in campagna, uno dei luoghi di aggregazione sociale e, in città, una sorta di mensa per chi lavorava, oggi all’osteria (o trattoria o mescita con cucina, che dir si voglia) si va per incontrare gli amici, per “andar fuori” la sera, per il pranzo domenicale con la famiglia, per un mezzogiorno poco impegnativo: un piatto caldo ben eseguito e un calice di vino di qualità in alternativa al panino o alla tavola fredda. Vi si coltiva dunque la convivialità più che la socialità, con in più un ruolo nuovo: quello di luogo dell’educazione del gusto*.

setta nel Borgo, in una via nei pressi del San Benedetto. Insieme con mia moglie torno spesso a Pesaro, e mi piace girovagare alla scoperta degli angoli più caratteristici della città. La mattina è facile, infatti, incontrare Terenzio intorno alla fontana di piazza del Popolo (non si dice mai abbastanza quanto è bella, la fontana con i suoi tritoni), oppure sul sagrato della Cattedrale: mia madre mi ha trasmesso la sua devozione per San Terenzio, e spesso mi fermo qualche istante nella cappellina a lui dedicata, nel Duomo. Sposato dal 1966 con Anna Antonelli, figlia di Ivo, dal dopoguerra fino agli anni Sessanta custode del palazzo comunale di Pesaro (ci siamo sposati nella cappellina dell’Episcopio, a Pesaro), subito dopo il matrimonio Terenzio Gambini si è stabilito a Osteria Nuova, dove fino a poco tempo fa ha seguito l’attività di famiglia. Fu mio nonno, del quale porto il nome, nato nel 1864, a prendere in gestione l’osteria, che all’epoca era annessa al macello [entrambi erano di proprietà comunale, af-

fittati con un’asta pubblica]; il mio bisnonno invece faceva i mattoni, un’attività che era parecchio diffusa, sulle rive del Foglia c’erano anche diverse piccole fornaci a conduzione famigliare. Tutta la nostra conversazione sarà scandita dai rimandi a Pesaro, alla città, dove Terenzio ha iniziato giovanissimo a lavorare: ero garzone di bottega da Primari, una macelleria molto rinomata, servivamo le migliori famiglie. Il negozio era all’angolo tra via Branca e via Zongo. Mi davano venti lire di mancia, per le consegne, e io correvo subito in pasticceria a comprarmi un bombolone. Chi l’aveva mai visto, a Osteria Nuova, un bombolone? Tutt’al più facevamo merenda con pane e olio. Poi sono stato impiegato come commesso all’Alleanza cooperativa, dove adesso c’è la saletta espositiva San Domenico, all’inizio di via Branca: che stupore, quando compresi che mi avrebbero messo in regola, lo stipendio mi sembrava da favola, sessantasettemila lire, le ferie… insomma, tutti i diritti.

Mio nonno fava i mattoni, mio babbo fava i mattoni, fazo i mattoni anche me, ma la casa mia n'dov’è? La poesia di Calzinazz Federico Fellini, Amarcord, 1973

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Montelabbate, abitanti 1951 - 2010 1951 2.935 1961 2.802 1971 2.776 1981 3.083 1991 3.882 2001 5.345 2010 6.754 Dati Istat

Appassionato di fotografia (oltre che di montagna), Terenzio Gambini sin dal 2007 ha preso parte alle iniziative della Memoteca: alcune delle immagini che illustrano questa intervista sono già apparse nel percorso espositivo allestito nell’Estate di quell’anno nei paesi di Pian del Bruscolo. Clienti dell’osteria dove si vende solo per contanti, forse per scongiurare il pericolo di incombenti amnesie alcoliche (bevevano parecchio, cantavano, quando si faceva festa era festa sul serio), matrimoni, scolaresche e ragazzi alla Prima Comunione, gruppi di famiglia: volti nei quali si legge senza mediazioni la trasformazione di un territorio, di un’intera società, incerta, appunto, tra la “città” e la “campagna”, il “paese”. Prima della guerra la frazione di Osteria Nuova era concentrata sull’attuale via Unità d’Italia; questa casa è stata ricostruita da mio nonno e mio padre su una nostra proprietà, subito dopo la guerra. Proprio qui davanti passava la Linea Gotica, e dopo il Fronte le case ancora in piedi erano poche. Tutti i ricordi cominciano con la guerra, da queste parti: anche senza i combattimenti dell’Agosto 1944 basterebbe lo scoppio di Montecchio a segnare inesorabilmente la topografia e la memoria della Valle del Foglia, e il racconto ogni volta riparte dalla ricostruzione, fatica ed entusiasmo fanno tutt’uno, in uno slancio dal quale c’è da prendere esempio. I tedeschi si erano fatti paesani, venivano all’osteria, era difficile pensarli come nemici… eppure, il campo qui davanti era tutto minato, e anche dopo la fine della guerra in tanti hanno perso una gamba, un braccio, o sono rimasti feriti per azzardare un raccolto: sopra quelle mine cresceva il grano, e la fame l’aveva di vinta sulla paura. L’emozione vela la voce, nell’andare con Osteria Nuova di Montelabbate. A sinistra: anni Sessanta del ‘900, Maria Gambini, una delle sorelle di Terenzio, fotografata all’inizio di via Unità d’Italia. Sopra, dall’alto: anni Cinquanta - Sessanta del ‘900, una fotografia dall’album della Famiglia Galeazzi di Osteria Nuova; Aurelio Gambini e la moglie Anna Marinelli, genitori di Terenzio, e sua sorella Graziella Gambini. Nella pagina precedente: due immagini dell’osteria Gambini negli anni Cinquanta - Sessanta del ‘900 (raccolta Terenzio Gambini, Osteria Nuova di Montelabbate).

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la mente agli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, dei quali Terenzio risente soprattutto la promiscuità delle abitazioni di fortuna: eravamo sfollati a Montelabbate, nell’ex mattatoio, e stavamo in tanti in una stanza, solo nella nostra famiglia c’erano, oltre ai miei genitori Aurelio e Anna Marinelli, cinque figlie e io. Non era un bel periodo. A Osteria Nuova siamo tornati nel 1948, e quando i miei hanno tirato su questa casa, le costruzioni sulla Strada Provinciale si contavano sulle dita di una mano, qui a fianco c’erano i pagliai. La strada gommata - asfaltata, detta così per distinguerla dalla strada vecchia, imbrecciata - era una novità, i veicoli con le gomme erano pochi, quando ero bambino ancora la maggior parte delle persone si spostava con i carri trainati dai cavalli.

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Anche a Osteria Nuova, come in tutte le località nate e cresciute ai piedi degli antichi castelli di Pian del Bruscolo, l’accelerazione arriva con la nascita delle prime industrie: dopo il Fronte c’erano delle casupole, per tutti gli anni Settanta l’aspetto del paese è rimasto più o meno lo stesso, il cambiamento è venuto dagli anni Ottanta. Le impressioni di Terenzio sono confermate da Fabrizia Tagliabracci, vicesindaco di Montelabbate che ha assistito all’intervista: da piccola ho frequentato spesso Osteria Nuova, e l’ho vista cambiare pian piano; direi che lo sviluppo più forte si è avuto negli anni Ottanta-Novanta, quando sono state poste le basi per l’attuale assetto di questa zona. Zona la cui fisionomia è davvero profondamente mutata negli ultimi dieci anni: rotatorie e moderne palazzine dai colori pastello racchiudono oggi il villaggio dove fino a non più di un secolo fa i viaggiatori sostavano prima di riprendere la strada, e l’originario nucleo di abitazioni sorveglia il passare degli anni dalla collinetta alle spalle della casa dei Gambini. Ricordo ancora quando è stata costruita la chiesa, gli abitanti sentivano la necessità di non dover arrivare

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Osteria Nuova di Montelabbate, 1954. Il matrimonio di Luigina Gambini. Nella pagina precedente: in alto, anni Sessanta del ‘900, foto di gruppo per gli alunni della scuola di Osteria Nuova (raccolta Terenzio Gambini, Osteria Nuova di Montelabbate). In basso, a colori, immagini attuali di Osteria Nuova (fotografie Cristina Ortolani, Maggio 2011) e, a destra,Terenzio Gambini e il vicesindaco di Montelabbate Fabrizia Tagliabracci durante l’intervista.

Fonti e tracce

R. Rossi, Montelabbate, memorie di una comunità, Urbania 2002, p. 99. 2 http://www.arcidiocesipesaro.it; 2 Maggio 2011, 15.30. * Il dizionario di Slow Food, “Osteria” (http://associazione.slowfood.it/ associazione_ita/ita/dizionario/30. lasso; 3 Maggio 2011, 17.30). Le conversazioni con Terenzio Gambini hanno avuto luogo a Osteria Nuova di Montelabbate il 27 Aprile e il 17 Maggio 2011. 1

fino a Montecchio per seguire le funzioni, e così negli anni Sessanta fu costruita la chiesa vecchia, con i fondi raccolti dagli stessi parrocchiani. La parrocchia di San Giovanni Bosco di Osteria Nuova fu istituita nel 1968 dal vescovo di Pesaro monsignor Carlo Borromeo, su territori stralciati dalle parrocchie di Montecchio, Montelabbate e Pozzo Basso; la “chiesa nuova”, ossia l’attuale sede della parrocchia di San Giovanni Bosco, fu aperta al culto nel 1987 e consacrata nel 19952. Anche l’ufficio postale e la banca furono istituiti negli anni Novanta, conclude Terenzio. Come già Nazzareno Guidi, nostro testimone per Montecchio, anche Terenzio Gambini sottolinea i vantaggi di abitare in un luogo nato con una connotazione legata al viaggio, al cammino, forse più predisposto al cambiamento rispetto ai borghi e castelli segnati dalla cinta muraria: si sta bene qui, ero contento anche quando da piccolo andavo a trovare mia zia a Montelabbate, però Osteria Nuova è più aperta, e anche con le persone che sono arrivate qui per lavorare c’è un bel rapporto. Sono tutti brava gente, persone serie. Oggi il Bar Pippo e l’annessa edicola sono gestiti da due dei figli di Terenzio: con loro siamo alla quarta generazione, Massimiliano ha l’edicola, Gianluca il bar; mia figlia Giorgia, dopo il diploma al Conservatorio ha trovato lavoro in tutt’altro settore. Abbiamo otto nipoti, mia moglie Anna e io. È un uomo mite, Terenzio; nonostante certe asperità dei tempi passati, che dolgono ancora nella memoria del bimbo ritratto insieme con la sua capretta, le parole scorrono lievi nel salottino attiguo al bar. Affabilmente ospitale come solo sa esserlo chi ha trascorso la vita dietro un bancone, a più riprese ci offre un caffè, un succo di frutta. Molti si fermano a salutarlo, affacciandosi dalla porta d’ingresso, e occhieggiano curiosamente le fotografie che hanno riempito il tavolo. E, tra Pesaro e Osteria Nuova, la fragranza dello zucchero di quei bomboloni di sessant’anni fa torna a riempire l’aria.

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DiSegnare il territorio 3. I ‘ferri del mestiere’

Catasti, catastazione e rappresentazione del territorio dai gromatici dell’antica Roma ai geometri di età moderna

disegnare il territorio in collaborazione con Archivio di Stato di Pesaro

Prosegue il nostro viaggio nella storia e nei territori di Pian del Bruscolo con le mappe e le immagini di Monteciccardo di Antonello de Berardinis Direttore dell’ Archivio di Stato di Pesaro

Rappresentare sulla carta una porzione di territorio, per similitudine, avvalendosi di una determinata scala, è stato un problema che l’umanità ha dovuto affrontare presto. E non tanto per speculazioni filosofiche, quanto per risolvere questioni pratiche. Le più antiche civiltà di cui abbiamo notizia (la Sumerica, la Assiro-babilonese, l’Egizia) si erano sviluppate lungo corsi d’acqua che, se da un lato assicuravano la possibilità di vita e anche di profittevole attività agricola, dall’altro periodicamente esondavano dal proprio alveo. Erodoto giustamente definisce l’Egitto ‘figlio del Nilo’, proprio perché le periodiche esondazioni del fiume garantivano la necessaria fertilità al territorio circostante. Quindi le esondazioni, almeno per queste antiche civiltà, non erano percepite come fonte di calamità. Solo che, come per tutte le meUnità di misura daglie, anche allora esistevano delle Unità romana Latino Piede SI decimale criticità, rappresentate nello specifidito digitus 1/16 1,8525 cm co dalla perdita dei confini di quelle palmo palmus 1/4 7,41 cm che con terminologia moderna defipiede pes 1 29,64 cm cubito (gomito) cubitus 1½ 44,46 cm niremmo ‘proprietà fondiarie’. A far passo semplice gradus 2½ 0,741 m fronte alla bisogna sopperivano gli passo doppio passus 5 1,482 m agrimensori dell’epoca, che, ingepertica pertica 10 2,964 m gnandosi con quanto avevano, a diatto (arpento) actus 120 35,568 m stadio stadium 625 185,25 m sposizione, ricostruivano i ‘confini’. miglio miliarius 5000 1,48 km E non è un caso che le prime misulega leuga 7500 2,223 km re di lunghezza si siano espresse su Il piede romano è definito come 16/28 del cubito di Nippur. base antropomorfa, per confronto Il valore teorico del cubito di Nippur è esattamente: 518 616 micrometri; di conseguenza il piede dei romani è di 296 352 µm ≤ 29,64 cm. con le dimensioni di parti del corpo umano: il braccio, il piede, il passo. 14

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Sulla civiltà greco-romana si posseggono molte più informazioni, grazie all’abbondanza degli scritti conservati. Così si riesce a documentare meglio l’attività degli agrimensori. A parte il progresso dovuto alla speculazione teorica propria del mondo greco, ben sistematizzata in età ellenistica, è dall’età romana che sono giunte notizie precise sull’uso pratico delle tecniche applicate alla misurazione e descrizione del territorio. A Roma, infatti, si giunse a realizzare una sorta di catasto, utilizzato a fini fiscali e civili. In particolare è all’attività dei gromatici e alla manualistica connessa che si devono le conoscenze sulle competenze tecniche sviluppate nel periodo. I gromatici costituivano un corpo specializzato di tecnici che trovavano impiego negli ambiti più svariati legati alla misurazione del territorio, in particolare in occasione della fondazione di città e della centuriazione delle nuove terre. Il loro nome era mutuato da groma. La groma era una specie di lancia che si piantava nel terreno: all’altro capo dell’asta c’era un braccio che reggeva due assicelle disposte a croce e, tra loro, perpendicolari. Alle quattro estremità delle assicelle c’erano dei fili a piombo per verificare che l’asta fosse perpendicolare al terreno. Il primo agrimensore o gromatico piantava la prima groma, un secondo agrimensore si spostava di 240 piedi (71 m) e piantava la seconda; poi sempre alla stessa distanza, ne venivano piantate altre, fino a realizzare una linea lunga 10 volte 240 piedi. Una volta ottenuta questa linea principale che andava da Est ad Ovest (Decumano Massimo), le assicelle a croce permettevano di tracciare l’allineamento perpendicolare principale (Cardine Massimo) e tutti gli altri allineamenti perpendicolari che andavano da Nord a Sud. Si tracciavano infine gli altri decumani paralleli al primo. Ripetendo più volte questa operazione i romani suddividevano i terreni di pianura in tanti quadrati con i lati di 710 m e una superficie di circa 50 ettari. Gli agrimensori babilonesi, greci, etruschi, romani, disponevano anche di squadre, di rudimentali livelli ad acqua e a pendolo e tracciavano gli angoli retti utilizzando pure le corde. Compiendo un balzo di un buon millennio, mi piace comparare l’immagine dei gromatici al lavoro con altre che potrebbero ben rappresentare l’attività di catastazione di un agrimensore settecentesco e ottocentesco. Il trascorrere del tempo si evidenzia a sufficienza dalla constatazione della complessità del nuovo strumento di lavoro, che integra le conoscenze maturate dall’uso di varie strumentazioni nel corso dei secoli (bussole, compassi, regoli, calcolatori, righe parallele….).

In alto: i gromatici al lavoro; qui sopra, l’uso della tavoletta pretoriana in un’incisione tratta da Giovanni Giacomo Marinoni (1676-1755), De re ichnographica cuius hodierna praxis exponuntur, 1751. Sotto: Filippo Palizzi (1818-1899), Ritratto di gentiluomo con Tavoletta Pretoriana, 1845 circa.

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Si tratta della famosa ‘tavoletta pretoriana’ che, nata alla fine del Cinquecento e così chiamata dal suo inventore, il tedesco Johannes Richter, detto Praetorius (1537-1616), accompagnò tutta la catastazione di età moderna. La tavoletta pretoriana è una tavola rettangolare, detta anche specchio, incastrata su di una piattaforma, il tutto poggiato su un treppiedi.

La carta veniva posizionata sullo ‘specchio’ dove si aveva a disposizione varia strumentazione: declinatore magnetico, livella a bolla d’aria, diottra, micrometro, scale e vernieri. È stato giustamente osservato che con l’introduzione della tavoletta pretoriana la scienza topografica sembra essere arrivata a una fase di assestamento.

Monteciccardo, il castello

Monteciccardo,Villa Ugolini

Fonti e tracce

In questa pagina e alla seguente: Catasto Gregoriano, prima metà del XIX secolo. Mappe di Monteciccardo e delle sue attuali frazioni (Archivio di Stato di Pesaro); fotografie Cristina Ortolani (2007 - 2010). L’immagine dei gromatici a pagina 15 è tratta da http://www. traditsia.com (11 Maggio 2011, 11.20).

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i mulini dell’Arzilla

Monte Santa Maria, il castello

Montegaudio - il castello, la pieve

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Esercitazioni Agrarie. 3

Il baco da seta, la coltivazione dei gelsi e le filande Assai diffusa nelle nostre campagne,

esercitazioni agrarie

la bachicoltura rappresentava

in collaborazione con Accademia Agraria di Pesaro

una voce importante nell’economia rurale.

di

Dall’ Archivio dell’ Accademia Agraria Pesaro notizie e documenti sulla coltivazione del gelso e l’allevamento dei bachi da seta di

Franca Gambini Accademico Ordinario

Tra le problematiche che più interessarono l’Accademia Agraria nei primi anni di attività, in particolare dal 1828 al 1847, quella dell’allevamento del baco da seta occupò una posizione di primo piano; il pesarese infatti era una zona di intensa produzione di tale fibra, favorita in ciò dal clima adatto e dalla presenza di un buon numero di gelsi, indispensabili all’allevamento. Vale la pena sottolineare il fatto che il XIX secolo venne considerato il “secolo d’oro per la bachicoltura”, europea in genere ed italiana in particolare.

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Fra i molti che in Europa si occuparono del “Filugello” merita di essere ricordato anche Corsuccio da Sascorbaro al quale spetta il merito di aver fornito alcune indicazioni sull’allevamento suggerite da diretta esperienza: il suo Il vermicello dalla seta (1581) viene considerato il primo trattato completo sul governo dei bachi. Nel fervore delle iniziative e delle indagini intraprese nel corso dell’Ottocento si inserisce il notevole contributo offerto dall’Accademia Agraria di Pesaro tramite gli studi e le comunicazioni dei propri soci, documentati da numerose memorie a stampa che compaiono nelle “Esercitazioni Agrarie” fin dal primo anno della loro edizione (1829). Le proposte innovatrici in esse contenute favorirono l’affermarsi di nuovi indirizzi produttivi, subito adottati da proprietari evoluti che, in analogia a quanto si era già verificato in regioni di più antica e radicata vocazione bachisericola, estesero nelle loro proprietà gli investimenti a gelseto e indirizzarono i loro mezzadri verso una coltura fino ad allora non praticata. promemoria_numerodue


Nella pagina precedente: Pesaro, 1839. Il frontespizio dell’opuscolo pubblicato dall’Accademia Agraria di Pesaro in ricordo di Ignazio Lomeni, a firma Giuseppe Mamiani, e La Bachicoltura, tavola allegorica (sec. XIX); sopra: Campioni di organzino filippino, 1837. A pagina 20: Accademia Agraria di Pesaro, 1839. Bando per la presentazione di saggi e memorie sulla bachicoltura (Archivio storico Accademia Agraria di Pesaro, fotografie Franca Gambini).

L’attività svolta degli accademici tenne in considerazione sia l’ambito delle pratiche di allevamento, sia quello della produzione gelsicola, sia infine quello della trasformazione industriale dei bozzoli, con ricadute di estrema validità per il mondo agricolo del territorio. Particolarmente significativa e di assoluto valore pratico è stata l’introduzione in Italia del gelso delle Filippine (Morus multicaulis), avvenuta per merito del socio corrispondente Mathieu Bonafous e di cui l’accademico Ignazio Lomeni fu il primo a porre in evidenza, attraverso una nutrita serie di prove e di controlli sperimentali che ne chiarirono caratteristiche ed attitudini, l’interesse e la convenienza del suo impiego, rendendosi promotore della sua diffusione anche oltre i confini delle Marche. E l’opera del Lomeni risultò determinante al punto tale che il Morus multicaulis ebbe in seguito un ruolo di primo piano nella costituzione di nuovi gelseti, affiancandosi o sostituendo il Morus alba (gelso comune) fino ad allora esclusivamente utilizzato. Nel Breve ragguaglio su un opuscolo intitolato: ‘Nuove esperienze intorno gli effetti del gelso delle isole Filippine. Rapporto fatto da una commissione nominata dall’Accademia a tale oggetto’1 si legge : …Essere la foglia del nuovo gelso bensì specificatamente più leggiera di quella del gelso bianco, ma sotto lo stesso peso non più ricca di umore acqueo….. comprovato che a peso uguale di foglia, la produzione in bozzoli sia superiore a quella che si ha dal gelso bianco, e che tali bozzoli se anco non avessero al dipanamento a superare la produttività quantitativa di quelli ottenuti col gelso bianco, sarebbero loro tuttavia superiori pel titolo costantemente ed eminentemente più pregevole di loro seta… L’Accademia contribuì ad estendere la coltura del gelso in vario modo: in particolare nel 1838 deliberò l’assegnazione di … un premio di scudi 30 a chiunque farà conoscere all’Accademia per tre anni consecutivi una maggiore quantità di seta ricavata da bozzoli indigeni che siano stati alimentati sempre con foglie del gelso delle Filippine, e ciò in confronto con una eguale quantità di bozzoli alimentati col le foglie del gelso comune …. Onde poter dedurre con sano giudizio quale dei due gelsi meriti per noi la preferenza. Gli studi ed i confronti interessarono anche la qualità della seta prodotta e come sempre furono regolarmente pubblicati nelle “Esercitazioni Agrarie”: tra questi ricordiamo la memoria di Giuseppe Mamiani Ulteriori ragguagli sugli effetti del gelso delle isole Filippine2, la lettera indirizzata al segretario perpe-

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tuo dell’Accademia Agraria Francesco Baldassini il 16 dicembre 1835 dal socio ordinario Antonio Buffoni, di Fossombrone, Intorno la seta de’ bachi educati col gelso delle Filippine3 e il già citato Rapporto nei quali si legge anche in merito allo scambio di campioni tessili, ottenuti utilizzando le differenti sete al fine di valutarne la qualità. La filanda di Fossombrone (fondata agli inizi del secolo dalla Casa ducale di Leuchtenberg) era rinomata in Italia ed all’estero; il socio Buffoni nella memoria Sulla necessità di animare la coltivazione del gelso come una delle prime risorse dello stato, e cenni per conseguirne l’intento4, tra l’altro scrive: Ho dovuto leggere in una rivista enciclopedica di Parigi d’antica data la mia città oscurissima per tutto il resto, onorata d’una memoria che ricercò tutto il mio amor patrio - ’Fossombrone città del ducato di Urbino rinomatissima per la trattura delle sete sublimi, che primeggia sopra tutte le altre dello stato’ - La perfezione di simile industria la dobbiamo al clima, alle acque, alla maestria delle filatrici…. Sulla Filanda ritorna anche Giuseppe Mamiani nella memoria La Filanda a vapore in Fossombrone5 per illustrarne l’ampliamento e il rinnovamento grazie all’introduzione dell’uso del vapore per azionare i differenti macchinari. Le migliorie apportate permisero da subito di realizzare rendimenti superiori di oltre il 10% rispetto a quelli degli anni precedenti, con produzione di sete le quali, oltre a minori costi di trasformazione, presentavano caratteristiche di eccellenza che le resero competitive sul mercato internazionale. La filanda divenne modello per quelle che successivamente sorsero nelle Marche: alla fine dell’800 le filande operanti nella regione erano 174, di cui 113 in provincia di Pesaro (con 1.241 addetti) e ben 84 nel solo comune di Fossombrone. L’opera di divulgazione e di promozione svolta dall’Accademia Agraria di Pesaro a favore della produzione serica registrò rapidamente interessanti effetti positivi, opportunamente rilevati anche dall’accademico Luigi Guidi6 il quale, in una relazione inviata nel 1861 all’Intendente generale della provincia di Pesaro, comunicava che l’industria della seta ….In pochi anni era diventata una principalissima sorgente delle nostre ricchezze. Grazie all’opera degli accademici (Lomeni, Mamiani, Maupoil, Buffoni…) l’allevamento del filugello si era largamente diffuso nelle fasce pianeggianti, collinari e pedemontane di tutte le province marchigiane: le razze di 20

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Bombyx mori impiegate erano per lo più indigene, riprodotte da seme rigorosamente controllato con il metodo della doppia selezione microscopica a sistema cellulare; tecniche di allevamento che avevano completamente recepito le norme enunciate dal Dandolo, di cui era stata data ampia

diffusione attraverso le note a stampa riportate nelle “Esercitazioni Agrarie”. Così nel secolo d’oro della bachicoltura italiana la regione Marche raggiunse livelli di produzione pari ad 1/5 dell’intera produzione nazionale, seconda solo a quella del Lombardo-Veneto.

Il gelso delle Filippine Questo gelso fu importato in Francia il primo agosto del 1821 dal signor Perrottet Ingegnere del Reg. Naviglio francese e viaggiatore naturalista, che l’acquistò a Manila capitale delle Isole Filippine da un amatore, che da pochissimo tempo lo aveva recato ivi dalla China, e assicurò essere già da remoti tempi presso che esclusivamente coltivato in quel vastissimo impero; circostanza che attribuire si deve ai suoi particolari pregi, l’agricoltura essendovi fiorente perché onorata e protetta.Tutto che gli si dia il nome di Filipense, egli è oriundo Chinense7.

Notizie statistiche intorno l’agraria del pesarese (1831) Il moro gelso ci rende ogni anno con la sua foglia scudi 11.520…La quantità di detta foglia è di sacchi 14.400, ossiano libbre 2.160.000 che alimentano tanti bacchi da rendere libbre 120.000 di bozzoli. E questi per mezzo della mano d’opera trasformandosi in libbre 10.000 di seta, che a scudi 2,80 valgono scudi 28.000, in libbre 2500 di cascami che a bajocchi 12 valgono scudi 300 e in libbre 800 di spelatura, che a bajocchi 10, scudi 80, acquistano il valore di scudi 28.380 (*). Di questa ricchezza ci beneficia il moro che cresce ottimamente nel nostro suolo, e che di più, quando sia ben collocato, non impedisce altre colture nei terreni ove egli dimora. Le cose dette e ripetute da saggi uomini sul vantaggio di questo arbore, ed il premio di bajocchi sette e mezzo promesso per ogni piantagione hanno concorso e concorrono a moltiplicarlo…8. (*) E’ desiderabile che abbia luogo fra noi un migliore governo de’ bacchi. Il propagare per le campagne con una breve stampa le più utili istruzioni tratte dal Dandolo sarebbe cosa assai vantaggiosa.

Riferimenti bibliografici

Rapporto di una commissione nominata dall’Accademia, Breve ragguaglio su un opuscolo intitolato: Nuove esperienze intorno gli effetti del gelso delle isole Filippine, in “Esercitazioni dell’Accademia Agraria di Pesaro”, Pesaro 1934 a. IV s. II. 2 Giuseppe Mamiani, Ulteriori ragguagli sugli effetti del gelso delle isole Filippine, in “Esercitazioni dell’Accademia Agraria di Pesaro”, Pesaro 1835, a.V, s. I. 3 Antonio Buffoni, Intorno la seta de’ bachi educati col gelso delle Filippine, in “Esercitazioni dell’Accademia Agraria di Pesaro”, Pesaro 1836, a.V, s. II. 4 Antonio Buffoni, Discorso sulla necessità di animare la coltivazione del gelso come una delle prime risorse dello stato, e cenni per conseguirne l’intento, in “Esercitazioni dell’Accademia 1

Agraria di Pesaro”, Pesaro 1830 a. II, s. I. 5 Giuseppe Mamiani, La Filanda a vapore in Fossombrone, in “Esercitazioni dell’Accademia Agraria di Pesaro”, Pesaro 1840, a.VIII, s. I. 6 Luigi Guidi, Relazione intorno all’industria serica nel mandamento di Pesaro, in “Esercitazioni dell’Accademia Agraria di Pesaro”, Pesaro 1861, a. XIII, s. I. 7 Carlo Maupoil, Intorno alla coltivazione e prodotti serici del Gelso delle Filippine morus multicaulis Perrottet, vel cucullata Bonafous. Saggio storico, in “Esercitazioni dell’Accademia Agraria di Pesaro”, Pesaro 1838 a.VI s. II. 8 L. Bertuccioli, Notizie statistiche intorno l’agraria del Pesarese, in “Esercitazioni dell’Accademia Agraria di Pesaro”, Pesaro 1831, a. III, s. I.

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La filanda di Sant’Angelo in Lizzola Usciti di chiesa e proseguendo sino in fondo alla via, venti anni fa saremmo stati fermati dal canto delle filandaje che lavoravano con passione i bozzoli acquistati sul locale mercato serico allora molto fiorente. La filanda era gestita da tre proprietari di ideali diversi che il popolo aveva ribattezzati col nome di Inferno, Purgatorio e Paradiso. Ora al posto della filanda è stato aperto nel 1942 l’Asilo infantile con annessa scuola di lavoro e doposcuola sotto la direzione delle benemerite Maestre Pie dell’Addolorata; ed il locale accoglie provvisoriamente anche le scuole elementari, in attesa che venga definitivamente sistemato il nuovo edificio Scolastico dedicato a Branca, posto fra la Piazza Perticari ed il viale Dante Alighieri. Giovanni Gabucci, 19481 Nel Maggio 1903 il Comune di Sant’Angelo in Lizzola (2.003 abitanti nel 1900) decide di istituire un proprio mercato serico: già dal 1883 i registri della Camera di Commercio di Pesaro segnalano qui due stabilimenti bacologici, quello di Luigi Marcolini e quello di Giovan Battista Sallua. Presso lo stabilimento Marcolini sono impiegati 10 operai, e la produzione annua corrisponde a un valore di 2.880 lire; lo stabilimento Sallua, che risulta fondato nel 1874, conta 15 operai, con una produzione annua pari a un valore di lire 4.032. Nel 1907 la Statistica dei prodotti agricoli e bestiame - Camera di Commercio ed arti in Pesaro (Marzo 1908) registra per il Comune di Sant’Angelo la produzione di 90,18 quintali di bozzoli (pari a 414 lire); nel 1930, secondo i dati del censimento agricolo, la produzione complessiva dei bachi da seta è di 5.165 kg (peso complessivo dei bozzoli freschi). Il 7 maggio 1926 i Registri delle delibere consigliari riportano una Domanda per la costruzione di un padiglione per mercato serico: Considerato che il mercato serico il quale si svolge da tempo assai remoto in questo paese e ha assunto uno sviluppo notevolissimo, tanto che dal diritto di pesa dei bozzoli il Comune ritrae annualmente un gettito di lire 3.000 minaccia di declinare perché il Comune non ha un luogo coperto ove possa essere tenuto, di guisa che nei giorni di poca buona stagione i venditori, piuttosto di correre il rischio di perdere il loro prodotto, si recano a Pesaro; riconosciuto essere indispensabile - in primo luogo per non perdere i notevoli, e assai sensibili vantaggi che ritraggono il Comune e il Paese e in secondo luogo per assecondare le due fiorenti industrie della filatura della seta e produzione del seme bachi esistenti in questo Capoluogo - costruire un apposito paFonti e tracce

Giovanni Gabucci, A casa nostra, lettura al cinema “Branca”, 13 marzo 1948, manoscritto, Archivio parrocchia San Michele Arcangelo, Sant’Angelo in Lizzola. 2 Leonella Giovannini e Anna Donati, residenti entrambe a 1

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diglione per il mercato serico, affinché questo non si debba svolgere più all’aperto lungo la via principale del paese e sia evitato l’esodo dei venditori e lo sconcio di vedere, nei giorni di pioggia improvvisa, mercanti e merci riparare in Chiesa; visto il progetto di massima... dal quale si desume che la spesa che importerà al Comune... sarà di lire 40.000 [il Consiglio Comunale] ...delibera in via di massima di costruire nel Capoluogo un padiglione per il mercato serico. Più di un anno dopo, il 17 settembre 1927, il Consiglio delibera di chiedere al prefetto l’autorizzazione a cominciare i lavori in economia data l’urgenza di iniziare i lavori per combattere la disoccupazione, mentre da una delibera del 1 dicembre 1927 si ricava che i costi per la costruzione del padiglione sono saliti a 47.000 lire. L’ultimo riferimento al mercato serico nei registri delle delibere consigliari, infine, è del 1 ottobre 1931, quando sono liquidate a C.G. 10 lire per stoffa bandiera mercato serico2. Tra il 1903 e il 1906, e in misura minore anche negli anni successivi, numerose operaie della filanda di Sant’Angelo in Lizzola emigrarono per il sud della Francia, dove trovarono impiego presso la manifattura di seta Franquebalme, a Villedieu, vicino ad Avignone (c.o.). Sant’Angelo in Lizzola. In alto: Filanda Giunta, 1927. A destra, secondo le indicazioni di Giovanni Gabucci: Campagna Bacologica 1938. Massaia rurale Giunta Maria e Franco, Massaia rurale Terza Del Vedovo e Virgiana (Archivio storico diocesano, Pesaro; Fondo Giovanni Gabucci). Sant’Angelo in Lizzola, ricordano che il mercato dei bozzoli si svolgeva nel piazzale a fianco della Collegiata di San Michele Arcangelo: le contadine arrivavano con la cesta sulla testa, i bozzoli coperti con dei panni bianchi; passavano i compratori e sceglievano (testimonianze raccolte nell’Estate 2009). promemoria_numerodue


Crocevia della luce. La casa del Rio luoghi della memoria

I colori dell’ Angela, le parole di Fabio, le voci dei ‘matti’ di Frusaglia abitano ancora la grande casa di Rio Salso, fra Tavullia e Mondaino, dove tanti hanno imparato la vita di

Rio Salso di Mondaino. L’ingresso della casa di via Pieggia 58 (oggi n. 73), dove visse lo scrittore Fabio Tombari con la sua famiglia. Nelle pagine seguenti, alcune immagini dell’interno della casa e del complesso di edifici adibito ad azienda agricola (fotografie Cristina Ortolani, Aprile 2011). A pagina 26, a sinistra: Marzo 1969. Emma Pagnoni Ondedei, Fabio Tombari e Angela Busetto nella cucina della casa di Rio Salso (raccolta Famiglia Dorino Generali, Rio Salso di Tavullia); a destra: Fabio Tombari sulla porta della casa del Rio (raccolta privata, Pesaro).

Cristina Ortolani

Una seggiola di legno si offre alla luce. La grossa catena che pende dal camino è pronta a ricevere il paiolo per la pasta. Lo smalto blu a cuori rossi dell’armadietto dietro la porta è vivido, come la pittura che modesta fa capolino dall’intonaco scrostato, due stanze più in là. Nessuno vi risiede più da molti anni ma certo non appare disabitata la casa del Rio. La natura entra dalle finestre, vince i pur solidi mattoni affacciandosi dagli interstizi; foglie e fronde si fanno largo attraverso qualche vetro rotto ma sono gentili, quasi a modo loro ricordassero l’Angela, Fabio, la Maria, che piante, animali e pietre ascoltavano come le persone. Questa è la sala dove scrivevano, questa la cucina. Qui di sopra dormivano Fabio e l’Angela, questo era il regno dell’Emma e Gino: su quella parete c’era la libreria. Un camino in ogni stanza, oppure una stufa di coccio. Fabio naturalmente è Fabio Tombari, l’Angela - Busetto - è sua moglie, Maria loro figlia, Emma e Gino Ondedei i fedeli compagni di una vita, custodi della casa di Rio Salso dove la famiglia Tombari visse dagli anni Cinquanta del ‘9001. Dorino Generali, insieme con il fratello Giorgio attuale proprietario della casa di via Pieggia e dei terreni circostanti, suddivisi per decreto della storia e per capriccio della natura tra i Comuni di Tavullia e Mondaino, ci accompagna a ritrovare uno dei luoghi più cari alla memoria di queste zone. Non c’è, a Rio Salso, quarantenne o giù di lì che non racconti d’aver fatto merenda con l’Angela (i compiti, anche), mentre della casa del Rio i più grandi ricordano soprattutto l’atmo-

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sfera brillante e ricca di stimoli (scrittori, artisti del cinema, pittori, il fior fiore della cultura, e venivano tutti a trovare Fabio e l’Angela. I nomi? Chi c’era dice Fellini, Tonino Guerra, Sergio Zavoli, Luigi Santucci: impossibile citarli tutti, compresi gli amici più giovani, come Francesco Scarabicchi o Alfredo Chiàppori2). Intellettuali e persone semplici, dicono qui. E tutti portano nel cuore l’immagine sorridente di Fabio - così voleva esser chiamato - che, sole, pioggia o vento ogni giorno arrivava in cima alla collina per incontrare i ‘suoi’ alberi, salutare gli uccelli. Papà mi faceva regali bellissimi: ogni giorno tornando dalle sue camminate portava alla mamma un fiore di campo e a me un seme o una bacca colorata3. Dalle carte in nostro possesso risulta che la casa nella sua struttura attuale è stata costruita nella seconda metà dell’Ottocento, e, successivamente, acquistata dal padre di Angela, Mario Busetto. La tradizione vuole che un tempo fosse adibita a stazione di Posta, anche se di questa notizia sinora non abbiamo trovato riscontro nei documenti, precisa Giorgio Generali. Di origine veneta (gallina padovana, si definiva Angela con ironia di gentildonna campagnola4), i Busetto arrivarono da queste parti all’inizio del ‘900: ancora oggi il nome della famiglia è legato all’imprenditoria agricola, settore nel quale ha lasciato un segno forte Ida Busetto (cugina di Angela, sottolinea ancora Dorino), che dal 1953 condusse l’azienda di Montecalvo in Foglia fondata dal padre nel 19105. Per più di quarant’anni siamo stati come una grande famiglia, interviene Liliana, moglie di Dorino, figlia di Emma Pagnoni e Gino Ondedei: sono nata a Pontevecchio, poco più su, ma sono cresciuta qui, insieme con Maria; mio padre lavorava per Mario Busetto, e quando l’Angela e Fabio vennero a stabilirsi nella casa qui al Rio assunse le mansioni di custode. Mia madre aiutava l’Angela in cucina e nelle faccende domestiche. Hanno vissuto insieme più d’una vita, sempre dandosi del ‘Lei’. Nella proprietà di Rio Salso abitavano anche i contadini di Mario Busetto, Maria e Gigi Giamprini con i loro figli. 24

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La famiglia Generali è invece originaria di Montecalvo in Foglia (Monte del Tesoro la località, ed evoca leggende vicine a quelle richiamate da Montelevecchie, oggi Belvedere Fogliense di Tavullia, sopra Rio Salso): il nonno materno di Dorino e Giorgio era Marco Ceccarelli, el tintor, (1876-1958), qui noto ancor oggi per le sue stampe a ruggine. Dopo una vita trascorsa tra i motori, dalle trebbiatrici alle auto ‘truccate’ per le Mille Miglia, Dorino è insieme con Giorgio da molti anni titolare di un bell’autosalone nato dall’autofficina fondata dal padre Livio, situato proprio di fronte alla casa dei Busetto. Papà era lo scrittore, l’artista e mamma teneva i cordoni della borsa, ma mancando totalmente di razionalità, sembrava sempre che fossimo poveri malgrado la campagna e lo stipendio di papà. Sono cresciuta a pane e filosofia6. L’Angela che corregge le bozze con teutonico zelo; l’Angela che amorevolmente organizza la giornata di Fabio e ne tiene la corrispondenza7; l’Angela, che accompagna Fabio a riconoscere l’orizzonte della filosofia: non è qui il caso di tornare sull’apporto del raffinato ingegno di Angela Busetto all’opera del marito. Donna di gran carattere ed eleganza antica, Angela si era ritagliata al Rio la parte che più sentiva corrisponderle: per Fabio, una vera e propria compagna, che alla letteratura affiancava (probabilmente anteponeva) la sapienza di chi conosce i fiori (le rose dell’Angela!), sa rammendare, intrecciare fili (lavorava sempre a maglia: maglioni, sì, ma anche vestiti, cravatte per Fabio) e, come vera castellana, conosce l’arte di guarire - non solo con le erbe, delle cui virtù era esperta. Cucinava, anche, prosegue Liliana: da brava veneta il riso con le patate, poi le mele cotte, le marmellate. Certo, anche la pasta, le tagliatelle per esempio, ma quelle di solito le faceva mia madre. Il Venerdì qui al Rio da sempre c’è il mercato: lei comprava qualcosa in cia-

scuna bancarella: Tutti devono vivere, diceva. Le sue specialità erano la cotognata, la limonata (una volta abbiamo anche allestito un chiosco per venderla lungo la strada, insieme con i figli della Maria!), ma soprattutto lo sciroppo di rose, che diluiva con acqua fredda per offrirlo agli ospiti, specie d’estate radunati all’ombra dell’ippocastano. Davvero le si illuminano gli occhi quando torna agli anni trascorsi con la Famiglia Tombari: Lucia Generali, figlia di Liliana e Dorino, è forse più di tutti qui al Rio fedele al ricordo di nonno Fabio e nonna Angela. A lei, cauta adolescente, il tempo ha riservato l’emozione di toccare con mano le parole dell’ultimo Tombari prima che fossero fissate nella pagina stampata, quasi a sbirciare nell’officina creativa del grande scrittore. Ormai anziani, nonno Fabio dettava all’Angela, poi io, che all’epoca me la cavavo piuttosto bene con la macchina da scrivere, ricopiavo la prima bozza da inviare all’editore, sempre sotto la supervisione dell’Angela. Di solito lavoravano la mattina, guai a chi fiatava, quando scrivevano. Lucia, il cui nome è segnato sullo stipite della porta che misurava i progressi nella statura dei bimbi di casa insieme con quelli di Giovanni, Anna ed Elena, figli di Maria ed Ettore Puglisi, rivede di Fabio l’umorismo, l’impazienza nella curiosità, anche una certa ruvidità. Era una persona piuttosto appartata, come se dopo un po’ sentisse il bisogno di ritirarsi. Era l’Angela a intrattenere le persone (Angelotta, la chiamava lui), e Maria, la loro figlia purtroppo mancata qualche anno fa, ha ereditato questa sua infinita capacità di accoglienza. Arrivando da lontano trovavo la casa di Rio Salso, specie di domenica, sempre con qualche ‘satellite’ in visita. Qualcuno simpatico, ma qualcuno decisamente no e dicevo a papà: Ma come fai a sopportare tutti? E lui mi rispondeva disarmante e

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Pensar forte, scriver corto. È questo il motto di Fabio Tombari, fin dalle trentatre cronache della sua prima Frusaglia, che circa il 1930 lo fecero di colpo celebre. D’Annunzio s’era compiaciuto di sete e damaschi; Tombari scelse la rascia e la canapa. […] Ora che ha raggiunto un’età patriarcale, vive più che appartato ricusando ogni forma di propaganda che non sia la parola di amici sinceri. Intorno a lui il silenzio, e ciò comporta il pericolo di venire dimenticato. […] Ma non se ne turba, e perfino dall’ultima lotta con un turbine di bora che l’ha assalito e travolto vulnerando l’ormai fragile involucro fisico, cerca di trarre obiettivamente le giuste conclusioni, consegnandosi pazientemente alla volontà universale. Angela Busetto Tombari, 198910.

Nato a Fano il 21 Dicembre 1899, Fabio Tombari fu maestro elementare dal 1918 fino al 1934, anno in cui sposa Angela Busetto. Dal matrimonio nasceranno due figli, Maria e Giovanni, spentosi a soli cinque mesi. Cronache di Frusaglia, apparso nel 1927 e ristampato nel 1929 gli valse il prestigioso Premio dei Dieci; nel 1930 L’Incontro, edito da Mondadori che diverrà il suo editore si aggiudica il Premio dei Trenta. Nel 1935, anno in cui pubblica la prima edizione di una delle

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sue opere più note, Il libro degli animali, passa all’insegnamento nelle scuole medie; dal 1944 si dedicherà esclusivamente alla scrittura. Tra le opere composte nella casa di Rio Salso, dove la famiglia Tombari si trasferì a partire dai primi anni Cinquanta, ricordiamo almeno Il Libro di Tonino (1955, vincitore del Premio Collodi nel 1956), i racconti di Pensione Niagara (1969) e di Tutti in famiglia (1981). Tombari muore a Rio Salso nel 1989, ed è sepolto a Fano11.

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disarmato: Ma, Maria, in ognuno c’è il Cristo. Spesso concludevamo ridendo che era ben nascosto sotto una cotenna di lardo notevole. […] Sì, figli dell’anima. Tanti negli anni son passati per casa: il piccolo muratore, lo studente, l’universitario, il soldatino, il tormentato, lo sbandato. Tutti chiedevano un padre, un consiglio, una guida, un po’ di affetto e di luce8. Dopo pranzo si cantava l’opera, riprende Lucia riecheggiando una presenza forte tra le pagine tombariane; con la nonna Angela ho trascorso anche tante serate divertentissime davanti alla tv, un apparecchio piccolo che avevano nella sala del camino, a guardare Sandra e Raimondo, oppure le commedie di Macario. L’Angela, vestita dei prediletti bianco, blu, azzurro, i suoi mobili smaltati di rosso. L’Angela col cerchietto a trattenere i capelli candidi. L’Angela, che - sorride ancora Liliana - non credeva ai microbi. L’Angela, la cui eredità più preziosa è in quelle bucce di mandarino il cui profumo saliva per la casa dalla stufa di coccio, nel presepe allestito dentro il camino, nella coppa lavadita che - forse unica in tutta Rio Salso - passava tra i commensali a fine pasto. L’Angela, che non chiudeva le ultime lettere (alcune delle quali deliziosamente istoriate) senza un pensiero per gli abitanti del Rio. Un lascito di attenzione e di rispetto, quello dell’Angela, che risponde all’essenza della casa, e nel quale la pagina di Fabio si traduce tuttora in quotidiana verità. Sorseggiavo la limonata, avevo diciotto anni ed ero perso nel mare di parole dell’ultimo contemplatore di lucciole che immaginavo entrassero ed uscissero dai suoi libri, lucciole eterne con i loro lasciapassare perenni (Francesco Scarabicchi)9. Lui non andava mai a dormire senza aver guardato le stelle. La mattina, la prima cosa che faceva era camminare scalzo sull’erba, per prender vigore dalla rugiada (Lucia Generali). La meridiana, incurante dell’ora legale, segna le quattro del pomeriggio. L’aria è fresca di Aprile. Anche le ragnatele restituiscono la luce, tra le pietre e i legni degli infissi.

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Mi diceva: “Io voglio che la mia pagina lasci sapore di buono in bocca:

pensar forte e scriver corto è ciò cui miro.

Certo il male fa più effetto (rallentava il passo), fa guadagnare più soldi, crea pathos,

ma non voglio essere io a distribuirlo.”*

Fonti e tracce 1 Nota biografica, in Fabio Tombari, Tutta Frusaglia (a cura di Francesco Scarabicchi), Ancona 1999, pp. 15-16. 2 I nomi, ma l’elenco è senz’altro incompleto, sono quelli ricordati dai nostri testimoni ed emersi nel corso del convegno Omaggio a Fabio Tombari (Fano-Rio Salso, 18-21 Gennaio 1989), organizzato da diversi Enti tra i quali le Amministrazioni comunali di Tavullia e Fano (Atti: Rimini 1999). 3 Maria Tombari, Viaggiando con Fabio Tombari, in “Lo Specchio della città”, Febbraio 2001 (estratto da www.lospecchiodellacitta.it; 20 Aprile 2011, 12). 4 Angelo Chiaretti, Un mondainese tra i grandi del XX secolo, in “La piazza della Provincia”, da www.lapiazzarn.it, data di pubblicazione 15 Luglio 2007 (22 Aprile 2011, 16.15). 5 Scomparsa Ida Busetto, rinnovò il mondo agricolo, da “Il Resto del Carlino”, 24 Marzo 2010, p. 19. 6 Maria Tombari, Camminando con Fabio Tombari, in “Lo Specchio della Città”, Gennaio 2001 (estratto da www.lospecchiodellacitta.it; 22 Aprile 2011, 16.25). 7 Cfr. la testimonianza di Sandro Piscaglia in T come Tombari,

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Fabio, edito dall’Amministrazione comunale di Tavullia nel 2001, pp. 36-45. Il quaderno riporta le parole degli ospiti presenti alla festa in ricordo del centenario della nascita e decennale della morte di Fabio Tombari, Gli onori fatti in casa, organizzata dal Comune di Tavullia nei giorni 28-30 Gennaio 2000 presso la casa di Rio Salso, riaperta anche in quell’occasione grazie alla generosità dei fratelli Generali. 8 Maria Tombari, Ricordando Tombari, in “Lo Specchio della Città”, Maggio 2001 (estratto da www.lospecchiodellacitta.it; 20 Aprile 2011, 16.45). 9 Francesco Scarabicchi, La casa di Rio Salso, in Omaggio a Fabio Tombari, cit., p. 237. 10 In I segnali della natura. Una giornata di studi su Fabio Tombari, Comune di Fano, Biblioteca Federiciana, Quaderno n. 1, pp. 59-60, s.d. ma 1989. 11 Cfr. nota 1. Le conversazioni con la Famiglia Generali hanno avuto luogo nel mese di Aprile 2011. * Maria Tombari, Ricordando Tombari, cit. promemoria_numerodue


Rio Salso tra due mulini Rio Salso è ancora oggi ‘incorniciata’ tra due mulini, e non poteva essere altrimenti per una località che da un ruscello prende il nome (il sale estratto dalle acque del Rio fu nel Medioevo all’origine di un fiorente commercio1); entrambi alimentati dalle acque del fiume Foglia, che lambisce Rio Salso scendendo verso Pesaro, da tempo inattivi, i due mulini sono tuttora ben presenti nel ricordo degli abitanti della zona2. Il mulino di Case Bernardi e la Famiglia Franca Posto sulla riva sinistra del Foglia, il Mulino Nuovo di Case Bernardi era attivo fino a pochi anni fa, gestito dal mugnaio Remo Franca. Il padre di Remo, Giuseppe Franca di Case Bernardi, acquistò il mulino negli anni Venti del ‘900 da Ernesto Pasquini, padre della moglie Colomba; la Famiglia Pasquini, originaria di Colbordolo, possedeva anche i mulini di Coldelce (ereditato da Colomba) e di Santa Maria delle Fabbrecce, a Pesaro. Presente sulle mappe dell’Istituto Geografico Militare dal 1891, già nel 1922 il Mulino di Case Bernardi subisce le prime modifiche: in quell’anno infatti viene smantellato il frantoio per le olive, e installata una moderna turbina al posto delle vecchie ritrecini. Come raccontano Mariangela e Beatrice Franca, figlie di Remo e Zemira Paolucci, il mulino è rimasto in funzione fino agli anni Novanta del ‘900: ricordo ancora che quando ero bambina, negli anni Sessanta, arrivavano in molti dai dintorni per tagliare i tronchi degli alberi, dice Mariangela; dagli anni Trenta, infatti, l’opificio fu dotato anche di una segheria per la lavorazione del legname. Sempre nei primi anni Trenta il mulino fu potenziato con un buratto (un setaccio meccanico) della ditta Georgiani di Fermignano, e nel 1949 fu trasformato in un impianto a cilindri. Il buratto era un vero capolavoro, prosegue ancora Mariangela: aveva otto piani, attraverso i

quali la farina veniva setacciata, dividendosi a seconda che fosse macinata più sottile o più grossa. Anche Mariangela e Beatrice collaboravano all’attività famigliare: da piccole, in estate, interviene Beatrice, ‘arruolavano’ noi due e un po’ tutti i ragazzini di casa per riparare i sacchi, le cosiddette ‘balle’ di juta, che rammendavamo servendoci di pezzi di cotone, da incollare sulle parti rovinate. Questi sacchi servivano per il grano, per la farina c’erano dei sacchi di carta pesante. Fino alla scomparsa di Remo (2010), il Mulino Franca ha accolto visitatori e scolaresche curiose di conoscere i segreti del mugnaio: ne è un esempio l’album di Caccia alle tracce, realizzato dalla Memoteca insieme con i ragazzi di alcune classi elementari nel 2008, dove le fotografie scattate negli ambienti del mulino hanno offerto lo spunto per l’invenzione di storie legate ai mestieri di terra e di acqua. Al Mulino Franca, infine, “Promemoria” deve anche il gatto che fa capolino dalla quarta di copertina del numero zero della rivista. Sotto: il Mulino Franca nel 2007 (fotografie Cristina Ortolani); la Famiglia Franca in un’immagine della metà degli anni Trenta; Belvedere Fogliense, 2003. Remo Franca e Zemira Paolucci con le figlie Mariangela (a sinistra) e Beatrice, in una fotografia scattata in occasione del loro cinquantesimo anniversario di matrimonio (raccolta Mariangela e Beatrice Franca).

Fonti e tracce

Cfr. http://www.rimini-it.it/mondaino/storia.htm (27 Aprile 2011, 14.50). 2 Le notizie storiche sul Mulino di Case Bernardi e su quello di Pontevecchio (pagina 30) sono tratte da Gianni Lucerna, Ruote sull’acqua, I Mulini idraulici nella provincia di Pesaro e Urbino, Bologna 2007, pp.152-162. Segnaliamo poi che in strada Rocca, tra Rio Salso e Belvedere Fogliense (ex Montelevecchie), risulta attivo sino ai primi anni del ‘900 il cosiddetto Molinaccio (id., p.161). Le conversazioni con Mariangela e Beatrice Franca e Anna Maria Agabiti (pagina 30) hanno avuto luogo nell’Aprile 2011. 1

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Il mulino di Pontevecchio e la Famiglia Agabiti Costruito nel XVI secolo per conto del duca di Urbino Guidubaldo II della Rovere, il mulino di Pontevecchio si trova entro i confini del territorio comunale di Colbordolo. Acquistato nel 1648 dai conti Paciotti di Montefabbri, dei quali rimase proprietà fino al 1744, passò successivamente alla congregazione della Fraternità di Santa Maria della Misericordia di Urbino; negli anni della prima guerra mondiale venne ceduto alla ditta Ridolfini e Carboni di Pesaro, che vi installò un impianto per la produzione di energia elettrica, attivo sino agli anni Venti del ‘900. Nel 1953 il mulino fu acquistato dalla famiglia Marchionni di Buca Ferrara (Colbordolo), i cui eredi lo vendettero nel 2002 alla Provincia di Pesaro e Urbino. Tra la seconda metà degli anni Venti e il periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, il mulino di Pontevecchio fu gestito da Nando Agabiti: la storia della sua famiglia, nelle parole dalla figlia Anna Maria, è una di quelle arrivate a “Promemoria” attraverso la filiale di Rio Salso di Banca dell’Adriatico. Mi chiamo Anna Maria Agabiti, e vorrei raccontare la storia della mia famiglia…: comincia così il racconto di Anna Maria, scritto sulle pagine di un’agenda, ricopiato in bella grafia da Corrado Tomassoli e posto all’interno del Mulino di Pontevecchio a ricordare un mugnaio molto amato. Il nonno Ivo Agabiti, cantoniere di Colbordolo, prese il mulino in affitto per dare un futuro migliore alla sua fa-

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miglia, affidandone la conduzione a Nando, il maggiore dei suoi nove figli (Ivo ed Emilia Venerucci ebbero diciotto figli, ma solo nove superarono la primissima infanzia). Nel mulino Nando gestì una segheria, una macchina per battere il grano, e l’impianto a due macine per il grano e altri cereali: al Pontevecchio c’era un gran viavai di contadini con i loro birocci e le ‘tregge’ tirati dai buoi. Nei primi anni Quaranta mio padre propose ai proprietari di rimodernare il mulino con un impianto a cilindri, ma arrivò la guerra e tutto sembrò fermarsi. Nando, però, non si perse d’animo, e pure nelle difficoltà del periodo si rimboccò le maniche, cercando di realizzare il sogno di un ‘mulino della farina bianca’, come lo chiamavano. Nel periodo dello sfollamento e subito dopo la guerra non mancava mai di aiutare chi chiedeva un po’ di farina per il pane, e per questo tutti ancora lo ricordano. Dopo la guerra al mulino fu installato un frantoio, che sostituì la macina destinata ai prodotti per l’alimentazione delle bestie. Poi sopraggiunse la malattia: un tumore al cervello, per il quale fu convinto a operarsi a Bologna dal dottor Guido Marcucci [medico condotto a Montecchio e poi a Montelabbate, marito di Adria Andreatini, figlia del farmacista di Sant’Angelo in Lizzola Giuseppe]. Nel 1949 purtroppo mio padre morì, tra lo sgomento di noi della famiglia e di tutti coloro i quali aveva aiutato. Mia madre Nanda cercò per qualche tempo di mandare avanti l’attività, ma dovette presto abbandonare il mulino, tornando dagli anziani genitori a Rio Salso con me e mia sorella. Tuttora Anna Maria abita nella casa vicino al fiume che appartenne a suo nonno, il tintore Marco Ceccarelli, insieme con il marito Gualtiero Terenzi, figlio di Getulio, il sarto di Case Bernardi e in gioventù sarto anch’egli. Ma questa è un’altra storia, e per sapere come va a finire vi diamo appuntamento ai prossimi numeri di “Promemoria”.

Sotto, da sinistra: anni Quaranta del ‘900. Nando Agabiti al Pontevecchio; anni Venti del ‘900, Ivo Agabiti ed Emilia Venerucci con i loro figli; anni Trenta del ‘900, Nando Agabiti con la moglie Nanda Ceccarelli. Sopra, nelle immagini a colori, il Mulino di Pontevecchio tra l’Inverno del 2009 e la Primavera 2011 (fotografie Cristina Ortolani).

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Storie di Palazzo. 3 Colbordolo,

“luogo di calma serena in cui si provvede al benessere ed al miglioramento locale”

storie di palazzo

Anticamente situato nel castello, verso la fine dell’ Ottocento il Palazzo Comunale di Colbordolo si trasferisce definitivamente nel Borgo, dove si trova ancora oggi di

Eccoci al nostro terzo appuntamento con una civica residenza. Quando ho cominciato a pensare alla stesura di un articolo sul palazzo di Colbordolo, conoscevo bene la penuria di fonti documentarie, essendomi anni fa dedicata al riordino del suo archivio comunale. Nel caso specifico, poi, non fosse bastata la forza distruttrice della guerra, si narrano cose che voi umani... Insomma pare, sembra, si sussurra che certe vecchie carte siano servite sia a fare fuoco per scaldarsi - e che fiamme alte possono fare le carte antiche! -, sia ad avvolgere generi alimentari e non, come pezzi di sapone. Queste le voci che il vento diffonde tra gli stretti vicoli del castello... Noi rimaniamo sulla storia, e ai documenti, appunto, che ci tramandano fatti realmente accaduti. Il primo accenno all’edificio del Comune negli atti deliberativi riguarda l’istanza dell’insegnante Paolo Pacassoni per ottenere la casa di abitazione alla vecchia residenza comunale, che gli viene accordata dal Consiglio nella seduta del 29 ottobre 1886, meno la camera destinata per la scuola maschile... Nella stessa seduta consiliare, a seguito della proposta del proprietario Domenico Romani, si discute l’acquisto di

Simonetta Bastianelli

casa sopra la residenza comunale, acquisto che si definirà tre anni dopo con atto del 19 dicembre in cui la casa viene detta annessa e sopraposta alla residenza comunale: il Consiglio, anche per liberare la residenza comunale dai tanti incomodi e inconvenienti che vengono recati dagli inquilini di rozza condizione a danno e dell’archivio e dell’ufficio del Segretario... delibera di acquistare la casa per la somma di £ 1.900. Già qui, però, le carte ci confondono. Perché si parla di ‘vecchia’ residenza, e quale sarebbe ‘la nuova’? Parte della risposta ci viene fornita dalla delibera del 24 giugno 1889 in cui il Consiglio concede alla signora Maria Guidi la casa composta di tre ca-

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Colbordolo (Pesaro e Urbino), Piazza Umberto I, cartolina, anni Dieci-Venti del ‘900 (Archivio storico comunale, Colbordolo). Nella pagina seguente: progetto dell’ingegner Giuseppe Costanzi di Pesaro per la Casa del Fascio inaugurata il 4 Novembre 1928. Nella fotografia: Colbordolo, 1931. Il piccolo Gastone Arceci davanti al palazzo comunale (raccolta Gabriella Arceci Testasecca, Pesaro; l’immagine ci è stata segnalata da Corrado Tomassoli, Pontevecchio di Colbordolo). Nella pagina precedente: Saluti da Colbordolo, cartolina datata 31 Maggio 1920 (ed. Mauro Arceci, Urbino; Archivio storico diocesano, Pesaro; Fondo Gabucci).

mere al secondo piano, del sottoscala dove c’è la latrina e del piccolo andito d’ingresso alla macchina oraria. Ora non abbiamo dubbi di dove fosse collocata la vecchia residenza! Per capire qualcosa sulla nuova, si son dovuti incrociare, con l’aiuto di Antonello de Berardinis, direttore dell’Archivio di Stato di Pesaro, i dati dei Registri delle partite del Catasto dei fabbricati con quelli dell’Inventario dei beni immobili comunali del 1902, per capire, una volta conosciuto il numero di mappa, che il Comune nel 1878 acquista la casa di via della Fonte dagli eredi Nini, casa di due piani e vani 8; nella partita 1893 è descritta a tre piani; nel 1912 i tre piani sono costituiti da vani 14. Il mappale della casa acquistata occupa la stessa posizione dell’attuale edificio comunale. L’inventario citato descrive la struttura dello stabile costruito con materiale laterizio, dalle condizioni statiche di muri, serramenti, impalcature e tetto poco buone. Il piano terra era composto di 2 stalle, tre legnaie, due sottoscala e una grotta; il primo piano, cui si accedeva mediante ballatoio in laterizio con gradini in pietra, constava di sei vani e cioè un vestibolo, l’ufficio postale, la scuola femminile, la sala del Consiglio, l’ufficio del segretario e l’archivio da cui si entrava in una piccola stanza; all’ultimo piano, cui si arrivava da una scala in laterizio, si trovavano un salone, tre camere da letto, due cucine, la scuola maschile e un soprascala per accedere al tetto. La sala del Consiglio, in un atto del 1913 denominata “sala maggiore”, ospitò un banchetto per 50 coperti, in occasione della 32

Festa degli Alberi del I maggio 1904, celebrata dalle cronache locali. Dopo un salto di qualche anno, dovuto alla perdita dei registri degli atti consiliari, ritroviamo il nostro palazzo all’ordine del giorno nella seduta ardente del 14 maggio 1909. Vi si legge che erano stati eseguiti dei lavori di ampliamento, montate nuove vetrate ma ancora mancava l’indispensabile ringhiera che avrebbe potuto cagionare la caduta di qualche alunno delle scuole ubicate nel Palazzo. Fin qui la seduta è tranquilla, ma quando si passa a dar lettura della proposta di ridurre il secondo piano dell’edificio comunale ad uso abitazione, prende la parola il consigliere on. Antonio Moscioni Negri per chiedere ai colleghi se ritenessero decoroso trasformare il palazzo comunale, che con tanto interesse si era procurato egli stesso di ripristinare dalle sue rovine, in una casa d’affitto o se non dovessero piuttosto pensare al disdoro che ne verrebbe alla dignità del municipio e dei suoi componenti. La persona che entrasse nel palazzo, continua il consigliere, non proverebbe l’impressione di quella calma serena che deve regnare in un luogo ove si provvede al benessere e al miglioramento locale, ma udirebbe molto probabilmente lo schiamazzo dei fanciulli, il vociare delle donne e tutto l’inevitabile brusio, che deriva dall’andirivieni degli inquilini. La trasformazione del secondo piano del Comune avrebbe distrutto, oltre ad un piccolo teatro sorto per la non mai bastantemente lodata e nobile iniziativa di alcuni giovani volenterosi del paese, un luogo di onesto ritrovo e un salone indispensabile promemoria_numerodue


per conferenze, premiazioni ed altre feste scolastiche. Il palazzo, insomma, non si doveva in alcun modo sacrificare. Negli anni tra il 1907 e il 1911 viene manifestata più volte l’esigenza di restaurare l’ingresso del Municipio, la sala del Consiglio, di riattare i locali per le scuole, e di trovare le abitazioni per gli impiegati comunali. C’è la volontà degli amministratori di sistemare, ampliandolo, l’edificio più rappresentativo del borgo con un lavoro di progettazione che necessitava di ponderato e attento studio, se si voleva che tutto il palazzo comunale riuscisse decoroso e rispondesse ad un medesimo ordine architettonico, come spiega l’assessore Ernesto Balestrieri. Nel 1913 il progetto generale dei grandi restauri di tutto l’edificio ad uso di Municipio era già stato redatto dal geometra Cesare Balestrieri, il quale aveva preventivato una spesa pari a circa £ 2.500. In epoca podestarile via delle Rimembranze - poi via XX Settembre, oggi via Roma - vive il suo maggiore sviluppo edilizio: la locale Opera Dopolavoro presenta domanda per ottenere un terreno su cui costruire la propria sede, della quale è molto sentita la necessità per non lasciare gli operai, dopo l’onesto lavoro, in balia di lusinghe e tentazioni ed erigervi un asilo infantile per togliere dalle strade tanti bambini. Nel ‘27 il Podestà Luigi Rossi concede gratuitamente il terreno adibito ad uso orto per il medico condotto e il segretario comunale. Un fabbricato denominato ‘Casa del Fascio’

sarebbe sorto, quindi, per nobile iniziativa di un gruppo di cittadini e avrebbe ospitato, oltre al Circolo cittadino, alla Società Operaia, al Fascio e al Dopolavoro, anche l’asilo infantile. Il 4 novembre 1928 l’asilo viene inaugurato con una cerimonia memorabile. Sul finire del 1927 l’area circostante il nostro palazzo venne coinvolta nei lavori di sistemazione della via XX Settembre, troppo stretta, specie in corrispondenza della casa Semproni in Liera che si protende sulla pubblica via formandovi una antiestetica strozzatura. La proprietaria si dice disposta a demolire il suo fabbricato per ricostruirne, in simmetria con le altre case, un altro alquanto più vasto da adibirsi in parte ad albergo; la nuova costruzione, oltrechè abbellire il paese, risolverebbe l’assillante problema dell’albergo, di cui il paese difetta in modo assoluto. Sarebbe, però, venuta proprio a ridosso del palazzo comunale e non avrebbe lasciato spazio sufficiente per il passaggio dei carri. Grazie a permute e acquisti il Podestà portò a termine la sistemazione della via, sulla quale sarebbe sorto il nuovo albergo e fece aprire una via di accesso alla facciata posteriore del palazzo comunale. A giudicare da quanto emerge dalla lettura degli atti podestarili, negli anni Trenta e Quaranta il baricentro del paese sembra proprio essersi spostato su via XX Settembre, che dal 4 gennaio 1931 verrà denominata via XI Febbraio.

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Il nostro palazzo si riprende la scena, purtroppo, con il 1944. Le truppe tedesche, prima di effettuare la ritirata, fecero saltare completamente il fabbricato comunale con lo scoppio di mine. Al momento dello sfollamento della sede per ordine del comando germanico, data la mancanza assoluta di mezzi di trasporto, erano stati portati via solo un tavolo, alcune sedie, il registro di popolazione, tutti i registri di stato civile, pratiche di contabilità e contratti, mentre l’arredamento degli uffici e delle scuole fu trasportato nei sotterranei del palazzo. Al ritorno in paese, di questo mobilio poco o niente si riuscì a recuperare. I dipendenti comunali con le rispettive famiglie furono costretti, dunque, a sfollare d’autorità e si trasferirono per ben due mesi nella frazione di Petriano, prendendo residenza in località disagiate e lontane quali Coldelce, Serra, Fosso del Raz, Scotaneto, Isola del Piano, Casa Rotonda di Montefelcino e sopportando spese ingenti per il trasporto di masserizie. Nonostante gli uffici ebbero a sfollare in località dello stesso

Comune, gli impiegati per accedervi dovevano percorrere quotidianamente oltre 5 Km di strade impraticabili, tortuose e faticose con un consumo di calzature non indifferente e con pericoli non lievi per la propria vita a causa di rastrellamenti, fucilate da parte di truppe tedesche e camicie nere. Per tutti questi motivi e per le misere condizioni finanziarie in cui venivano a trovarsi a causa del trattamento economico, specie dopo il ritorno alle proprie case devastate dalla barbara soldataglia tedesca, ai dipendenti venne riconosciuta una speciale indennità. In seguito alla distruzione completa dell’edificio comunale, allo sconvolgimento delle pratiche recuperate e di quelle riportate dalla sede di sfollamento (Petriano), che anch’essa subì danni non lievi in seguito a colpi di cannone, il personale attuale è insufficiente per il sollecito riordinamento degli uffici, si legge nella deliberazione di Giunta del 29 settembre 1944. L’amministrazione deve affrontare il ripristino della viabilità, dell’acquedotto, del pubblico mattatoio, a riparare le fognature, a rimuovere le macerie, sgomberare le strade... Per il lavoro di recupero delle pratiche sentì la necessità di assumere in via provvisoria avventizi che sotto la guida del personale già esistente coadiuvassero per il riordinamento degli uffici specie per quello di Anagrafe e Stato civile, Sussidi di sfollamento e militari, nonchè alla ricostruzione completa dell’Ufficio Annonario.

Colbordolo, Stemma comunale, 27 Settembre 1930. Questa la descrizione dello stemma secondo il Decreto del Capo del Governo - Primo Ministro - Segretario di Stato Benito Mussolini, trascritto nei registri della Consulta Araldica in data 11 ottobre 1932: D’azzurro, al monte a due cime alberato di verde e sorgente dalla campagna caricato a destra di una chiesa, a sinistra di una casetta al naturale, col capo attraversato in banda da una fascia caricata da una greca d’oro e d’argento. Ornamenti esteriori da Comune (Archivio storico comunale, Colbordolo).

In alto: Saluti da Colbordolo (Pesaro), cartolina, anni Trenta del ‘900 (foto Mauro Arceci, Urbino; Archivio storico diocesano, Pesaro; Fondo Gabucci).

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Il Comune, privo della sua sede, per far funzionare gli uffici occupò provvisoriamente i locali dell’abitazione del medico condotto; alla partenza delle truppe alleate, stabilite nei locali di proprietà comunale, gli uffici affittati per un decennio alla Litacrom (impresa milanese attiva nel settore delle terre decoloranti), furono subito trasferiti nei quattro locali a pianterreno in uso alla detta società, ma per poco perché la stessa intendeva riprendere l’attività e volle la restituzione immediata di due vani e dei mobili che arredavano l’ufficio di segreteria. Con i due locali in meno, gli uffici comunali si trovarono costretti ad occupare altri locali dell’asilo, rimanendo privi di spazi per il gabinetto del sindaco, le convocazioni della Giunta e delle Commissioni. Non poteva reggere a lungo una tale situazione: o si ricostruiva l’edificio distrutto o si trasferiva la residenza dal capoluogo a Cappone, lungo la provinciale Pesaro-Urbino ove vi sarebbero locali sufficienti. Del palazzo era rimasto in piedi un pezzo di muro perimetrale, che il 14 febbraio del ’48, per il gran vento e la pioggia si abbatte sulla casa vicina di proprietà del farmacista, provocandone il crollo senza conseguenze alle persone. A dicembre la progettazione del nuovo palazzo, affidata ai geometri Ricci e Romagnoli di Pesaro, era stata eseguita sotto la guida del Genio Civile. La lunga storia della ricostruzione si potrà dire ultimata solo negli anni ’80. Concluderei con una ‘immagine raccontata’ da un colbordolese doc, Giovanni Palma. Era sfollato con i suoi familiari a Serra quando tutti videro, quella notte di settembre del ‘44, le fiamme alzarsi dal castello di Colbordolo. Capirono perfettamente, nonostante la distanza, che stavano bruciando anche le due case di loro proprietà. Per un attimo, mentre lui raccontava, mi è sembrato di vederlo tutto il paese colpito nei punti strategici. Con che animo, ho pensato, si poteva ritornare alla normalità? Eppure lo hanno fatto, tutti.

A sinistra: Colbordolo, Piazza del Popolo e Colbordolo (Pesaro), Panorama, cartoline datate rispettivamente 24 Ottobre e 14 Novembre 1970 (raccolta Piergiorgio Ferri, Colbordolo). Sotto: due immagini attuali di Colbordolo (foto Cristina Ortolani, Aprile 2011).

Fonti e tracce

Colbordolo, Archivio storico comunale, Deliberazioni e Carteggio. Archivio di Stato di Pesaro, Prefettura, Affari comunali bb. 63-70; Registro delle partite dei fabbricati di Colbordolo.

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Prima Paganelli. Una Bolognese a Parigi voci d’archivio

Un mazzetto di cartoline da Parigi Prima Paganelli, sarta di gran classe e grande cuore, per quarant’anni sovrana dell’ eleganza pesarese

ci ricorda la figura di

di

Pesaro, 10 Ottobre 1935. Prima Paganelli con una copia di “Harpers’ Bazaar” (Raccolta Famiglia Urso, Bologna). Nella pagina seguente: Parigi, 19311951, cartoline inviate da Prima Paganelli a Emilia Barbanti Badioli (collezione privata, Pesaro). Alle pagine 38 e 39, alcune foto dell’album della Famiglia Urso, scattate a Pesaro. Pagina 38, in alto: anni Quaranta del ‘900. Prima Paganelli con il nipote Luciano Urso; in basso, da sinistra: La mia casa, 12 Giugno 1954; Pesaro, 1934. Prima Paganelli (seduta, con il costume nero); nella fotografia si riconosce, con il costume a righe, Agridonia (Lola) Pescara; infine, anni Trenta del ‘900, Prima Paganelli davanti all’ingresso dei bagni pubblici di via Rossini. Pagina 39: anni Trenta del ‘900, Prima Paganelli in posa con la sua Lancia Artena ai piedi del colle San Bartolo.

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Cristina Ortolani

Oltre a ciò ho creduto anche utile continuare ad allettare la parte più aristocratica delle Signore Clienti, che purtroppo si fa sempre più esigua, con la costosa attrattiva di Modelli Parigini, che stagionalmente mi reco a studiare visitando i più noti magazzini di Mode della Metropoli francese. Ma anche questo mezzo di attirare la clientela rappresenta un peso economico non indifferente (Prima Paganelli, Relazione dell’Amministratore Unico della Sartoria Bolognese, 1934)1. Signore Clienti Aristocratiche. Mode, Metropoli francese. Costosa attrattiva. Non esagera Prima Paganelli, la Bolognese, nel rimarcare le esigenze delle habitué della sua sartoria. Da una decina d’anni, ormai, le pesaresi di un certo rango non vestono se non dalla ‘Primetta’, così chiamano affettuosamente questa energica signora del cui gusto non saprebbero più fare a meno. Personalità magnetica, lungimirante intelligenza, mani abilissime nell’intuire il potenziale stilistico di linee e tessuti, all’epoca nella quale stende la relazione sull’attività della “Sartoria Bolognese per Signora” citata in apertura Prima Paganelli si è da tempo conquistata un posto di tutto rilievo nel panorama cittadino, sconfinando dalla moda al costume (alla leggenda?). Ancora nei nostri tempi distratti dire Bolognese significa a Pesaro parlare di eleganza sopraffina, confezionata con la stessa materia dei sogni. Effettivamente la ‘Primetta’ addomestica l’allure parigina di Chanel, troppo magra, eccessivamente rarefatta per le italiche silhouettes delle signore che popolano Capobianchi, che al “Duse” appena inaugupromemoria_numerodue


rato applaudono sussurrando Pirandello e la sua giovane musa Marta Abba2, che al mare, come nelle “Bellezze al bagno” di Mack Sennett, esibiscono braccia e gambe ben tornite sotto verecondi calzoncini. In quegli anni Trenta della moda autarchica, del lanital al posto della lana e del cotonenon-cotone tessuto con le fibre di ginestra3, farsi almeno l’abito da sposa o il tailleur da cerimonia dalla Bolognese è questione di prestigio, anche per figlie e madri notabili dei paesi dell’antico contado. Mia madre Adria [figlia di Giuseppe Andreatini, farmacista di Sant’Angelo in Lizzola] ricordava che il modello del suo abito da sposa, della Bolognese, veniva da Parigi (Agla Marcucci, 2011). Nessuna delle pur brave sarte cittadine può competere con la Paganelli, anche perché nessuna dispone di un atelier come il suo, dove drappeggi di seta alla Vionnet, piume e divagazioni in forma di acconciature diventano improvvisamente accessibili tra i rinfreschi della pasticceria Gino; dove, soprattutto, le mannequin

(più che altro lavoranti dal portamento altero) hanno l’aura di chi a Roma ha sfilato all’Excelsior, con tanto di partenze e rientri tra mille bauli. Per di più la fama della Paganelli - Ah, la Bolognese...! - è corroborata dalla stima di personalità d’alto rango. A Venezia serviva nel Ventennio, tra le altre, la famiglia del prefetto; e poi la contessa Prampolini e Sofia Badoglio, moglie del generale. Aveva imparato il mestiere nella Sartoria Policardi di Bologna, una delle principali della città. A Pesaro la sua attività ebbe la prima sede in via Manzoni. Successivamente si trasferì in via Rossini, nel palazzo della Fabbrica Scrocco, e quindi in viale Corridoni, all’angolo con viale Zanella. Qui è rimasta fino alla fine, al piano terra c’era il laboratorio, al primo piano la sartoria vera e propria con i salottini per le

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Il professor Luciano Urso e la sua Famiglia È incredibile quanto una persona possa influire sulla vita di chi le sta vicino: noi dobbiamo molto alla ziona, se non ci fosse stata lei le nostre vite sarebbero state di sicuro molto diverse. Era una calamita, un catalizzatore di affetti. Così Roberto Urso, chirurgo ortopedico, ricordava un paio d’anni fa la prozia Prima Paganelli, meglio nota a Pesaro come la Bolognese. Pubblicato per intero nel volume, Pesaro, la moda e la memoria (2008 e 2009), il racconto di Roberto Urso si intreccia con la preziosa testimonianza di suo padre, il professor Luciano, a lungo primario di anestesia e rianimazione all’Ospedale Rizzoli di Bologna (tra le importanti tappe della sua carriera segnaliamo anche le fondamenta progettuali della Clinica mobile, l’ospedale viaggiante dei piloti motociclisti creato con altri colleghi nel 1972). La loro memoria, unita a una davvero rara disponibilità, consentirono di ricostruire almeno nei tratti essenziali la storia della Sartoria Bolognese sin dalla sua nascita. Al professor Luciano Urso, nipote prediletto della ‘Primetta’ scomparso all’inizio di quest’anno, dedichiamo queste pagine. Nata a San Lazzaro di Savena (Bologna), prima di quattro figli (oltre a lei, Pia, Ettore, Antonio), Prima Paganelli arriva a Pesaro nel 1923, registrata nei pochi documenti che ci restano come vedova di Ermenegildo Mattei. Chissà, magari passava a Pesaro per caso, le è piaciuta e ha deciso di fermarsi. Non mi meraviglierebbe, sarebbe stata una cosa degna di lei, sorrideva il professor Urso, figlio di Pia. Poco incline a farsi condizionare dagli eventi, che piuttosto volgeva a proprio vantaggio grazie a una volontà irresistibile, Prima Paganelli era donna di grande intelligenza, ma soprattutto di gran cuore. Io sono quello che sono perché c’è stata la zia: lei mi ha dato la possibilità di studiare medicina, una strada che volevo seguire sin dall’età di dodici anni, mentre i

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miei genitori avrebbero preferito che dopo la scuola industriale continuassi l’attività di mio padre, che aveva una piccola officina… La zia Prima si interessava sempre delle vicende di noi nipoti, si era presa il ruolo di paciere famigliare, spesso interveniva per mediare tra noi fratelli: quando c’era qualche attrito andavamo a Pesaro, lei aggiustava tutto e al ritorno quello che sembrava un dramma diventava una cosa semplice, era tutto risolto. Il primo viaggio della mia vita, all’età di cinque anni, è stato proprio per raggiungere la zia Prima a Pesaro: mi hanno ‘caricato’ sul treno e mia madre mi ha affidato a una passeggera, chiedendole di farmi scendere una volta a destinazione. Quando mi sono laureato mi ha regalato un vaso d’argento con la dedica, era molto orgogliosa della mia laurea. Le piaceva far sposare i nipoti, tra l’altro ha contribuito a organizzare il mio matrimonio, infatti mi sono sposato nella chiesa di Cristo Re. Io ero il primo nipote, e la zia Prima aveva un affetto speciale per me. E speciale era anche il rapporto che Prima Paganelli aveva con i pronipoti, che d’estate, conclude Roberto, affollavano il giardino della villa di viale Corridoni: Noi abbiamo sempre trascorso le nostre estati a Pesaro, e tuttora io e la mia famiglia, appena abbiamo qualche giorno libero preferiamo trascorrerlo in questa città così piena di ricordi per noi. Eravamo sette nipoti, e tutti i pomeriggi ci ritrovavamo a merenda nel giardino della sartoria, in viale Corridoni. Senza contare poi il ‘rito’ della pesatura: la ziona ci metteva sulla bilancia appena arrivavamo e quando ripartivamo, per vedere la differenza… Era una persona estremamente generosa, aveva sempre qualcosa per tutti, ha aiutato molte persone, sempre con grande riservatezza.

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prove e gli specchi, i tessuti e gli accessori e al secondo l’abitazione. Mi ricordo ancora il numero di telefono, era il 268: la casa di viale Corridoni aveva appartamenti molto spaziosi, circa duecentotrenta metri quadrati per ogni piano (Luciano Urso, 2008). Attenta all’immagine la Bolognese ci guarda dal predellino della sua Lancia Artena, si presenta al fotografo assorta tra le pagine di “Harpers’ Bazaar” o, ancora, sorride sotto una toque, il viso illuminato dall’immancabile fichu bianco fermato da una spilla (chi meglio di lei conosce i segreti per ben figurare?). Consapevole del proprio ruolo non manca di sottolineare i frequenti viaggi nella Metropoli francese - la costosa attrattiva di Modelli Parigini - inviando cartoline sapientemente distribuite tra le sue clienti più in vista, siglate con ampia grafia proprio con il nom de plume (“rafforzare il brand”?): dall’inesauribile raccolta di Maria Teresa Badioli, che nel 2009 le donò a chi scrive, sbucano per esempio le immagini presentate in queste pagine. L’Arco di Trionfo, l’Île de la cité, il Sacro Cuore, vent’anni di viaggi, in mezzo c’è una guerra, vent’anni di orgogliosa fedeltà al proprio mestiere. E chissà, forse anche un pizzico di vanità femminile, non sono poi molte in quegli anni le donne “amministratore unico”. Al di là dell’atmosfera da telefoni bianchi e del profumo di riti d’antan particolarmente cari ai pesaresi (lo sciamare delle sartine fuori dalla villa al mare, le più belle popolavano i sogni dei ragazzi in attesa davanti ai cancelli - eh, già, la Bolognese...), queste cartoline suggeriscono di soffermarsi sui pur esigui documenti che attestano oggi l’attività della Società “Sartoria Bolognese per Signora”, per cogliere gli aspetti più concreti dell’impresa di Prima Paganelli, iniziata con pochi mezzi nella prima metà degli anni Venti, proseguita con crescente successo fino

al 1969, un anno prima della sua scomparsa, avvenuta nel 1970. La Società anonima Sartoria Bolognese per Signora risulta fondata nel 1933 da cinque soci (Prima Paganelli, Lelio Agostini, Elvira Luca in Toni, Emidio Ciafré, Mauro Corinaldi, nessuno di loro è originario di Pesaro), capitale sociale 60.000 lire suddivise in 120 azioni, 22 delle quali appartenenti all’amministratrice unica Prima Paganelli. La signora Paganelli conferisce alla costituzione del capitale sociale una serie di oggetti mobili il cui elenco, al di là del freddo linguaggio dei verbali d’assemblea, ci consente di immaginare l’interno della sartoria che ha sede in via Rossini 18, nello stesso Palazzo Scrocco dove si lavoravano le fettucce di paglia: n. 6 macchine da cucire a pedale marca Singer; n. 10 tavoli grandi da laboratorio in legno abete non verniciati; n. 3 scaffali grandi da stoffa in legno abete verniciati in nocciola scuro; n. 1 bancone in legno abete verniciato in nocciola scuro; n. 1 macchina da scrivere Rojal [sic]; n. 1 scaffale da studio in legno rovere; n. 1 scrivania in legno rovere; n. 1 porta-pressa in legno rovere con pressa copia lettere, seggiole e banchetti varii4. Appena entrata, ero poco più che una bambina, sono stata assegnata al tavolo del “leggero”, abiti e abiti da sera, soprattutto, sotto la direzione della signora Bianca, la paga era di 2 lire e 50 centesimi al mese (Geppina Moroni, 2009)5. Non disponiamo di documenti al riguardo, ma le testimonianze concordano nell’affermare che nei periodi di maggior impegno la Sartoria Bolognese arrivò a impiegare fino a un centinaio di lavoranti, tra apprendiste e maestre, il cui lavoro era coordinato dalle première6. Da subito Prima Paganelli pone l’accento sugli aspetti critici del mercato nel quale opera: gli effetti dell’autarchia si sommano a quelli del crollo di Wall Street del 1929;

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Pesaro, anni Trenta-Quaranta del ‘900. Agridonia (Lola) Pescara ed Emilia Schiavoni in alcune fotografie scattate da Mario Schiavoni; sotto: Pesaro, 1934, il passaporto per Parigi di Lola Pescara (Archivio Fausto Schiavoni, Pesaro).

Dall’archivio di Fausto Schiavoni Pescara Agridonia di Pietro e Rosina Mantovan, nata a Donada il 9 Marzo 1907. Statura metri 1,75. Passaporto per la Francia rilasciato dalla Questura di Pesaro il 16 Gennaio 1934 per comprovati motivi di commercio, valido fino al 15 Luglio 1934. Oltre a essere per diversi anni impiegata nel settore amministrativo della Sartoria Bolognese, tra la metà degli anni Trenta e i primi anni Quaranta del ‘900, Agridonia Pescara, più conosciuta come Lola, almeno nel 1934 (ma quasi sicuramente in più occasioni) accompagnò la signora Prima Paganelli nei suoi viaggi a Parigi. Se in patria Lola Pescara si prestava volentieri a far da modella, ben figurando nelle sfilate o nelle fotografie grazie alla sua statura e al suo bel portamento, nelle trasferte parigine dispiegava anche la sua abilità di disegnatrice: mia madre, ricorda Fausto Schiavoni, aveva una buona mano per il disegno, e quando assisteva alle sfilate insieme con la signora Paganelli prendeva appunti, per riproporre modelli e tagli alle clienti della sartoria. Un talento, quello del disegno, che mia sorella Alba ha ereditato. Come abbiamo avuto modo di scrivere in altre occasioni, Fausto ha invece ereditato la vocazione paterna alla fotografia: singolare figura il cui ingegno vivace spaziava dalla chimica alla filosofia alla musica, Mario Schiavoni (1903-1955) catturò, con il suo occhio di fotografo attento e curioso, angoli e volti della Pesaro degli anni Trenta - Cinquanta del ‘900, che costituiscono oggi un patrimonio di immagini davvero prezioso. Assiduo frequentatore della Bottega d’arte Della Chiara, Schiavoni fu amico di pittori e ceramisti come Achille Vildi, Alessandro Gallucci, Guido Andreani, Elso Sora e altri: artisti dei quali ha fotografa-

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to alcuni lavori, lasciandoci così anche una preziosa documentazione sull’ambiente culturale pesarese del ‘900. Impiegato come contabile prima presso i Mulini Albani, successivamente nella fabbrica di ceramiche Molaroni, Mario Schiavoni fu in seguito assunto all’INPS. …Tra le passioni di mio padre c’era anche la musica, e fino a che non perse una mano si dilettava a suonare il violino. La sua vera vocazione però fu la fotografia, racconta ancora Fausto: insieme con l’amico Carlo Betti [di professione insegnante di Ragioneria all’Istituto “D. Bramante” di Pesaro ma ricordato soprattutto per la sua attività di fotografo] si può dire che ha istruito all’arte fotografica un notevole gruppo di pesaresi, alcuni dei quali diventarono anche professionisti. Tra questi appassionati c’era il conte Castelbarco Albani che consultava mio padre per saperne di più sugli ultimi tipi di fotocamere e cineprese. Una volta lo invitò a seguirlo a Milano per l’acquisto di una di queste e gli disse che avrebbe colto l’occasione per comperare un aereo. Mio padre osservò che gli sembrava un po’ troppo cresciuto per giocare ancora coi modellini, ma il conte ribatté che ne avrebbe acquistato uno vero! Penso che si trattasse del Piper di colore rosso che ebbe la sigla I-PINI e che era di base all’aeroporto di Fano. Dal suo archivio, amorevolmente custodito da Fausto, provengono le immagini di questa pagina: fotografie che ritraggono la moglie Lola o Emilia Schiavoni, sorella di Mario, anch’essa impiegata presso la sartoria, con indosso un modello creato dalla Bolognese.

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ciononostante il bilancio per il 1933, prosegue la relazione già citata, dimostra come la nostra azienda, forte della sua eloquente esperienza di un passato movimentatissimo, si vada orientando verso una sistemazione della propria organizzazione più razionale e più rispondente alla presente situazione del mercato in genere, e alle condizioni di vita dell’ambiente in cui è costretta a svolgere gran parte della sua attività. Oltre alle difficoltà generali occorre infatti fronteggiare la concorrenza sleale del continuo moltiplicarsi delle piccole aziende artigiane, costituite il più delle volte da elementi usciti dai nostri laboratori, che approfittano delle relazioni e dei contatti avuti con la nostra clientela per portarsela via e sottrarci il lavoro, fenomeno che rappresenta una delle più gravi preoccupazioni e il più serio pericolo per l’avvenire della nostra azienda. [...] Questa inevitabile concorrenza ha alleati formidabili come la mancanza di ogni gravame d’imposta, tasse e fitti di locali; la insignificante entità delle spese generali, di amministrazione, di propaganda ecc.7. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire. Ma non si perde d’animo, la signora Paganelli e, per rendere meno gravi le conseguenze di questa inevitabile concorrenza, dirige sempre più intensamente ogni sforzo dell’azienda verso il mantenimento delle proprie relazioni con la clientela, andandole incontro con riduzione dei prezzi, con facilitazioni di pagamento ecc. È indubitabile che questo sistema se ha lo svantaggio di ridurre a limiti straordinariamente ristretti i margini di guadagno, ha peraltro il pregio di rappresentare l’unico mezzo pratico per evitare l’esodo della clientela. La strategia evidentemente dà i suoi frutti, e Prima Paganelli conclude assicurando i suoi quattro soci che il risultato economico di questo primo esercizio, pur non essendo dei più brillanti, rappresenta già un esito più che soddisfacente che spero valga a meritarmi la vostra approvazione: il bilancio 1933 si chiude infatti con un utile di 5.450 lire, che verranno così ripartite: £. 545 all’Amministratore Unico, £. 545 alla Riserva, £. 4.360 agli Azionisti. In verità ancora una volta le testimonianze

aggiungono dettagli sostanziali, sottolineando nella storia della Sartoria Bolognese il ruolo decisivo svolto da Lelio Agostini, compagno di Prima, con lei sempre impegnato a sorvegliare il buon andamento dell’amministrazione della ditta. Mantenere le relazioni con la clientela, per evitarne l’esodo. Fidelizzare il cliente, diremmo oggi. Nella relazione 1936 la Paganelli ribadisce che la spietata concorrenza di altri Laboratori i quali, non pagando imposte e non avendo le [nostre] esigenze tecniche di organizzazione e propaganda... praticano condizioni forse apparentemente più allettanti, ci costringe a ricercare su altre piazze lontane, con gravi sacrifici di disagio fisico e di rilevanti spese di viaggio, il lavoro che qui ci viene a mancare. Anche se lo spingerci a lavorare fino a Roma, dove pure siamo costretti a fronteggiare la concorrenza locale, riduce i nostri margini di guadagno quasi a zero, è pur vero però che soltanto così ci riesce di ammortizzare, in una larga cifra di affari, il grave carico di spese generali e industriali che per la nostra Azienda sono ormai un onere irriducibile8. Nel 1942 la Sartoria si trasformerà passando da Società anonima, una forma all’epoca corrispondente all’incirca a quella della nostra Società per Azioni a Società a nome collettivo (Snc). La nuova Bolognese, con sede in viale F. Corridoni 449, ha lo stesso oggetto della precedente società, ossia l’esercizio di un moderno impianto per laboratorio in confezioni da signora, l’acquisto di tessuti in genere, pelletterie ecc., ma è divisa stavolta in parti uguali tra Paganelli Prima e Agostini Le-

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lio, che detengono ciascuno sessanta azioni sulle centoventi costituenti il capitale sociale di lire 60.000. Nella gestione della società la Sig.ra Paganelli Prima, che mantiene naturalmente la carica di amministratrice unica, dovrà dare la sua opera nel campo tecnico, ed il Sig. Agostini Lelio la propria nel campo amministrativo, senza compensi speciali per nessuno dei due. Nell’atto è riportato il bilancio al 31 dicembre 1941, che si chiude alla pari, con un totale attivo di 324.474,25 lire. Dato l’anno eccezionale, si legge nella relazione dei sindaci revisori, abbiamo ragione di ritenere che da parte dell’Amministratri-

ce Unica sia stato fatto tutto il possibile per evitare una perdita di bilancio che riteneva inevitabile. Dobbiamo pertanto rilevare che l’opera della Amministratrice Unica è stata ispirata ai migliori criteri di sana economia. Davvero l’anno fu eccezionale. Nel Giugno 1940 l’Italia era entrata in guerra a fianco della Germania, e dal Settembre 1941 non solo abiti e calzature ma anche zucchero e pane erano generi razionati10. L’ attività della sartoria fu sospesa intorno al 1942 ma poté riprendere nel periodo immediatamente successivo alla guerra grazie ad alcune casse di tessuti, fili e altri materiali previdentemente messi al sicuro dalla zia al momento dello sfollamento (Luciano Urso). Originaria di San Lazzaro di Savena (non amava far sapere la sua età), Prima Paganelli, la Bolognese, scelse di riposare per sempre nel cimitero di Pesaro, fedele alla città che le aveva dato il successo.

Pesaro, 1958 - ‘59. Prima Paganelli (raccolta Famiglia Urso, Bologna). Nella pagina precedente: Sant’Angelo in Lizzola, 1931. Il matrimonio di Adria Andreatini e Guido Marcucci nella chiesa della Scuola (raccolta Agla Marcucci, Pesaro).

Fonti e tracce

Archivio di Stato di Pesaro, Tribunale civile, società commerciali; b 37, fasc. 453, Sartoria Bolognese. Relazione dell’Amministratore Unico nel Bilancio del I esercizio - 1934, allegata al Verbale di assemblea ordinaria dell’11 marzo 1934. Salvo diversa indicazione, tutti i documenti citati in questo articolo provengono dal fascicolo sopraindicato. 2 Il cinema-teatro “Duse” di Pesaro fu inaugurato il 12 ottobre 1926 con una recita dei Sei personaggi in cerca d’autore, messo in scena da una compagnia di attori di primo piano, tra i quali Camillo Pilotto e Marta Abba, alla presenza dell’autore Luigi Pirandello (“L’Ora”, 17 Ottobre 1926). 3 Nel 1935 la Società delle Nazioni impose all’Italia,“paese aggressore” dell’Etiopia, pesanti sanzioni economiche. Il regime fascista rispose con una politica protezionistica, tra le cui linee vi fu l’istituzione nel 1935 dell’Ente Nazionale della Moda che aveva il compito di italianizzare il guardaroba femminile, ripensando linee e materiali in chiave nostrana, per sfuggire ai diktat di Parigi (Franco Belli, “Moda autarchica”, in Guido Vergani, Dizionario della Moda, Milano 2009, p. 806). 4 L’Atto di costituzione della Sartoria Bolognese per Signora fu rogato dal notaio Giuseppe Fabbri di Pesaro, in data 30 dicembre 1933 e fu registrato in Tribunale il 18 gennaio 1934. 5 La testimonianza di Geppina Moroni Massa è stata raccolta a Pesaro, nell’Estate 2009. 1

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Première - Ruolo sartoriale per i capi su misura, per l’alta moda. La première è una sorta di traduttrice, perché in effetti traduce lo schizzo del disegnatore nel modello in tela e lo prova sulla mannequin d’atelier per stabilire quale tessuto e modello scegliere per valorizzare meglio la linea (“Première”, da Vergani, cit., p. 967). 7 Cfr. nota n. 1. 8 Prima Paganelli, Relazione dell’Amministratore Unico della Sartoria Bolognese, 1936. 9 La Snc risulta omologata al Tribunale di Pesaro con decreto del 24 gennaio 1942; l’atto, rogato ancora da Giuseppe Fabbri fa seguito all’assemblea generale straordinaria dell’8 gennaio dello stesso anno. In viale Corridoni l’attività doveva aver sede almeno dal 1939, come dimostra un Verbale dell’Assemblea dei Soci del 30 marzo di quell’anno. 10 Cfr. La vita quotidiana negli anni di guerra: economia e società (1940-1944), da http://www.novecentoitaliano.it/Portale/contesto_Sintesi.aspx?id=1514 (13 Maggio 2011, 12.15). Per una più completa ricostruzione dell’attività di Prima Paganelli e di altre sartorie pesaresi ci permettiamo di rimandare a Cristina Ortolani, Pesaro, la moda e la memoria, Pesaro 2008 -’09. Le testimonianze del professor Luciano Urso e della sua Famiglia sono state raccolte a Bologna e Pesaro tra l’Aprile e il Maggio 2008; la testimonianza di Fausto Schiavoni è stata raccolta a Pesaro, tra il Novembre 2009 e l’Aprile 2011; la testimonianza di Agla Marcucci è stata raccolta a Pesaro nel Maggio 2011. 6

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Album di famiglia. Prima Comunione album di famiglia

Non era la funzione che faceva Giugno, per quella poteva essere anche Gennaio; quel che faceva Giugno era l’ odore dei gigli. Facilissimo trovarli nelle chiese. In Duomo si radunavano tutti intorno alla statua di sant’Antonio. Se il giglio era purezza, l’ odore era paradiso. Le processioni in estate erano rallegrate dai fiori. Quella per il Corpus Domini era preceduta da un mucchietto di ragazzini vestiti da angeli con le ali di cartone sulle spalle, un cestello ognuno di gelsomini

e petali di altri fiori mescolati a foglie di lauro, a pizzichi li spargevano in terra; per poco un tratto di strada era tutto fiorito, ma ci passavano sopra le scarpe di tante

confraternite che, quando toccava al baldacchino di seta d’oro con

Gesù sotto il suo cielo ondeggiante, i fiori avevano perduto la loro entità ... solo le foglie di lauro, pur calpeste, spezzate e insudiciate attestavano d’essere state foglie verdi. Dolores Prato, Giù la piazza non c’è nessuno, 2001

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Belvedere Fogliense di Tavullia, 1923. I bambini della Prima Comunione della parrocchia di San Donato (raccolta Famiglia Rina Corsini e Antonio Terenzi, Pesaro). Sotto: Tavullia, 1908. I bambini della Prima Comunione fotografati ai piedi dell’impietrata, all’ingresso del castello (archivio storico comunale, Tavullia).

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Monteciccardo

Monteciccardo, parrocchia di San Sebastiano, due foto di gruppo per i bambini della Prima Comunione. Qui sopra, fine anni Quaranta - primi anni Cinquanta del ‘900 (Archivio parrocchia di San Sebastiano, Monteciccardo); in alto, 11 Settembre 1938 (Archivio storico diocesano, Pesaro; Fondo Giovanni Gabucci).

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Sant’Angelo in Lizzola. Qui sopra: parrocchia di San Michele Arcangelo, Prima Comunione, 1 ottobre 1933. Nella fotografia si riconosce, seduto al centro con le mani appoggiate alle ginocchia, il canonico Agostino Nardelli, all’epoca priore della Collegiata di San Michele. A sinistra:15 Giugno 1927. Processione del Corpus Domini (fotografia G.B. Cacciaguerra, Archivio storico diocesano, Pesaro; Fondo Giovanni Gabucci).

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Montelabbate

Era il 22 Aprile 1947. Mi trovavo a letto con febbre e tosse, fra tanti pensieri che mi giravano per il capo mi è venuto in mente di comporre questa poesia a Maria. Ho chiamato mia nipote Bianca che mi portasse carta e matita e così un po’ alla meglio ho incominciato a scrivere.

Maggio Mese di Maggio, mese dei fiori / che allietano e fan gioire i cuori / che si accendono / di un’ardente fiamma / per Te o Immacolata Mamma. Con grande Fede si corre al Tuo santuario/ con in mano il Rosario / e guardandoti nel viso / si scorge il Paradiso. E il cuore si commuove / o dolce, o grande amore / pensando che un giorno / a te saremo intorno / dove non ci saran più guerre / ma pace e delizie eterne. Questa poesia è stata pubblicata su “Traguardo artistico”, Sanremo, 1 Febbraio 1964; sulla “Rosa d’oro”, Bologna 1975 e diplomata con medaglia a Pietrelcina, Padre Pio 1977. Dal quaderno di poesie di Albina Di Luca (1915-2003), Montelabbate (raccolta Anna Capponi Donati, Montelabbate).

Monteccchio - Sant’Angelo in Lizzola, anni Cinquanta del ‘900. Prima Comunione dei bambini di Osteria Nuova di Montelabbate, il cui territorio apparteneva ancora alla parrocchia di Santa Maria Assunta di Montecchio (raccolta Terenzio Gambini, Osteria Nuova - Montelabbate). Sopra: Montelabbate, Anni Quaranta-Cinquanta del ‘900. Due immagini dalla raccolta Iva Tarini, Montelabbate.

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Colbordolo

In alto, a colori: Colbordolo, 2008. La festa della Madonna del Giro (fotografie Sandro Tontardini); in basso: Colbordolo, anni Cinquanta del ‘900. La processione del Corpus Domini (raccolta privata, Pesaro). A pagina 43, sullo sfondo: un santino raffigurante la Madonna, 1907 (collezione privata, Pesaro); una pagina da un libro di preghiere (antifone e orazioni) della parrocchia di San Michele Arcangelo, trascritto da don Giovanni Gabucci (Archivio parrocchia San Michele Arcangelo, Sant’Angelo in Lizzola); Misura della mano di Santa Rosa Vergine, sec. XIX (Archivio storico diocesano, Pesaro; Fondo Giovanni Gabucci).

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Il genio dei ricordi. La Grande Guerra di nonno Peppe storie di guerra

Un’ insolita veste per le nostre “storie di guerra”, che accolgono il Diario di Elmo Cermaria (nonno Peppe) insieme con i ricordi di suo nipote Checco, in un dialogo attraverso il tempo di

Francesco Nicolini

Qualche volta il nonno Peppe mi teneva sulle ginocchia, e alzandole e abbassandole ritmicamente cantava la canzone del Piave. Quando ritornavo a Pesaro, per prima cosa andavo a trovare i nonni. Spesso dicevo al nonno Peppe: arcodet’ve da scriva la storia dla guera… un giorno mi consegnò dei fogli di un vecchio calendario dove aveva trascritto i suoi ricordi. Dopo aver tentato di leggerli, misi quei fogli nella mia libreria, dove rimasero fino a un paio d’anni fa, quando andai con mia moglie Mara a Trieste per un fine settimana. A un certo punto vidi un cartello con l’indicazione “Sacrario di Redipuglia” . Mi sono ritrovato ai piedi della scalinata, ne ho raggiunto di corsa la cima, sono riapparsi nella mia mente i fogli del nonno. Una volta tornato a casa ho cercato di tradurre le sue frasi e i suoi modi dialettali di esprimersi (f.n.).

Sopra: la lampada a olio della casa del Brasco, che illuminava i racconti di nonno Peppe; a destra: anni Venti del ‘900. Elmo Cermaria (nonno Peppe) con la moglie Elvira Cinotti (foto A. Rossi, Pesaro). Tutte le immagini di queste pagine provengono dalla raccolta di Francesco Nicolini, Modena.

Il racconto di nonno Peppe (al secolo Elmo Cermaria, Sant’Angelo in Lizzola, 1896-1987) è scandito su queste pagine dai ricordi di suo nipote Francesco, che ripercorre la propria infanzia tra il Brasco (il colle dove secondo alcuni sorgeva l’antico castello di Monte Sant’Angelo e dove Elmo abitava con la moglie Elvira) e l’Apsella, al confine tra Sant’Angelo in Lizzola e Montelabbate. Una narrazione a due voci particolarmente suggestiva per le sue stratificazioni temporali (l’ormai anziano nonno Peppe dà voce al ventenne al fronte, l’adulto Francesco rivive le avventure del piccolo Checco in un nostrano ‘mar dei Sargassi’); un dialogo che attraversa quasi cento anni e molti chilometri, senza perdere la freschezza di una chiacchierata in famiglia. Grazie a Francesco Nicolini, che ci ha consentito di riprodurre alcuni brani di un suo più ampio lavoro autobiografico; grazie a Claudio Oldrini che ci ha segnalato il Diario nella versione a stampa, edita da Il Fiorino di Modena; grazie, infine, a nonno Peppe - Richein (c.o.).

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Il 22 Novembre 1915 fui chiamato alle armi e arruolato nel 36° Reggimento di Fanteria di Modena. Giunto al deposito, dei miei vestiti borghesi ne ho fatto un mucchio per terra: mi fu consegnato un paio di pantaloni di tela che mi arrivavano al collo. Ebbi la fortuna di cambiarli poco dopo con un commilitone al quale invece ne avevano dato un paio che era molto stretto. Fummo mandati subito al distaccamento di Sassuolo dove fui assegnato alla Decima Compagnia. (…) Un giorno passa un sergente, visita la nostra compagnia e chiede se tra noi ci fosse qualche ‘musicante’: questo perché il colonnello voleva formare la banda del 36° Reggimento di Fanteria. Io, che ho sempre avuto la passione per la musica (da ragazzo andavo a suonare con il mio clarino nelle feste di paese e a casa dei contadini nelle ‘veglie’ durante le lunghe serate invernali), mi sono presentato al sergente dicendo che ero intenzionato a partecipare alla formazione della banda. Il giorno dopo mi mandarono in licenza per 24 ore in modo che potessi andare a casa a prendere il clarino (io abitavo nella valle del Brasco, nel Comune di Sant’Angelo in Lizzola). […] Tornato il giorno dopo a Sassuolo abbiamo iniziato subito le prove. La banda era formata da 38 elementi: si faceva la pacchia, ero dispensato dal fare la guardia e l’istruzione. Il Giovedì e la Domenica facevamo servizio nella piazza a Sassuolo. Le prove andavamo a farle nella ‘casa del soldato’ dove spesso c’era il cappellano, don Giuseppe Filippini, che abitava a qualche centinaio di metri fuori Sassuolo dalla parte di Modena. Un giorno, parlando del più e del meno con il Cappellano, mi chiede: - di dove sei, Cermaria? Di Pesaro, rispondo io. - Proprio di Pesaro? - replica il Cappellano. - No, per la precisione vengo da Sant’Angelo in Lizzola. - Che mestiere fai? - Il contadino. - E chi è il tuo padrone? - Don Vitale Zazzeri. E così finisce il colloquio. Dopo una settimana il Cappellano mi chiama per dirmi che don Vitale mi mandava i suoi saluti. Evidentemente i due parroci si tenevano in contatto e si scambiavano informazioni su di me. Da quel giorno don Giuseppe Filippini mi invitò tutte le Domeniche a pranzo a casa sua. Io stavo sempre in compagnia con un certo Giardini Remo, eravamo diventati buoni amici. […] Giardini suonava insieme a me nella banda: era uno dei migliori. Giardini era uno delle mie parti, e da ‘borghese’ aveva fatto anche il maestro di musica a Candelara (come suo padre). Sopra: la prima pagina del Diario di nonno Peppe, scritto su un calendario; qui a sinistra: 1922, gli abitanti dell’Apsella, località il cui territorio è suddiviso tra i Comuni di Sant’Angelo in Lizzola e Montelabbate. Nella pagina seguente: Apsella di Montelabbate, 1957. Francesco Nicolini, la madre Irene Cermaria, il padre Edo e i fratelli Stefano e Giuseppe (Giuse). A pagina 53: l’ultimo foglio del Diario di nonno Peppe; Sant’Angelo in Lizzola, 1951. Il piccolo Checco nel pollaio dei nonni materni; in primo piano, la lettera del Presidente della Repubblica, al quale Francesco Nicolini ha voluto donare una copia del Diario di Nonno Peppe.

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Sono nato il 6 Giugno 1949 in casa dei nonni materni (Elvira Cinotti ed Elmo Cermaria detto Pep) che avevano un podere nella zona tra Apsella e Sant’Angelo in Lizzola chiamata “valle del Brasco”, in dialetto pesarese el Brasc. Tutte le famiglie di allora, come se fossero delle tribù di indiani, avevano un soprannome. Il soprannome della famiglia della nonna era el Turc; il nonno apparteneva alla famiglia dei Richein. […] I Richein erano i contadini del prete di Sant’Angelo in Lizzola, don Vitale Zazzeri. Mia madre Rina, ci teneva però che la chiamassimo Irene, mi diceva che quando sono nato i nonni stavano mietendo il grano (a mano, con la falce). Era di buon auspicio… anche se qualcuno aveva predetto: ste burdel en chempa (questo bambino non riuscirà a sopravvivere) perché ero magrissimo. Per culla avevo una cassetta di legno che aveva contenuto precedentemente dei panetti di sapone. Mio padre veniva dalla famiglia dei Fabre che aveva avuto come capostipite Nicolini Gaetano originario di Fiorenzuola di Focara, era figlio di Francesco e Balsamini Genoeffa (detta Olga) e aveva un fratello (Celso) e tre sorelle (Mercede, Maria ed Elia). Mio padre diede origine alla famiglia dei Maranga, la mia: il soprannome deriva dalla storpiatura del nome marenghein d’or (marenghino d’oro), con cui la gente chiamava mio padre da piccolo perché era biondissimo e in più aveva il nonno materno, Balsamini Nazzareno, che possedeva moltissimi marenghi d’oro guadagnati prima facendo “il passatore” a piedi nudi, sia d’estate che d’inverno, nel fiume Apsa (caricava sulle spalle, perché ancora non c’era il ponte, le persone che andavano e venivano da Pesaro e Urbino) e poi vendendo l’olio nelle stesse città. Io ero conosciuto come el fiol d’Maranga o el fiol d’Edo. Mia madre era molto impegnata ad aiutare mio padre Edo per tirare avanti la famiglia con grande dignità e fierezza. Mio padre faceva el trecle (pollivendolo), ma vendeva di tutto. Mia madre era una bravissima sartina, mestiere estinto, ogni giorno aveva in media quattro o cinque ragazze che venivano nella sua bottega ad imparare l’arte. Lavorava fino a tarda notte e si alzava prestissimo, specialmente quando doveva cucire i vestiti da sposa. […] Quando ero molto piccolo mio padre o mio nonno mi portavano dall’Apsella al podere del Brasco nel side-car della moto Guzzi, oppure mi veniva a prendere la nonna Elvira a piedi… e a piedi tor-

navamo nel loro podere passando per la via Brasco che parte dall’Apsella e arriva fino alla Serra di Sant’Angelo in Lizzola attraversando il podere dei Giulion… quello degli Scaramucci… e quello dei Santecchia, e poi salivano per una ripidissima costa fino ad arrivare a casa. I nonni, la campagna, gli animali sono stati il mio “mare dei Sargassi”. Il podere dei nonni era il mio mondo e lo vivevo con i ritmi della campagna. […] Arriviamo al 27 Maggio del 1916. Viene un ordine di formare un nuovo reggimento, il 230°. La banda viene sfasciata, gli strumenti sono spediti a casa e via che ci si prepara ad aspettare un qualcosa che arriverà di lì a poco. […] Il 6 o il 7 di Giugno del 1916 abbiamo preso il treno per andare al di sopra di Padova, tra Campo San Pietro e Cittadella. Si era già in zona di guerra. Dopo di che ci portarono a Santa Maria di Camisano: percorremmo la strada che aveva percorso Napoleone. Il tratto da Padova a Vicenza lo abbiamo percorso a piedi. In quel periodo gli Austriaci avevano attaccato sul Trentino, e intendevano impossessarsi di Vicenza. […] Ci portarono a Cismon del Grappa. Ci fermammo lì per diciotto giorni. Poi prendemmo il treno a Bassano e arrivammo a Cividale. Poi ancora ci mandarono a piedi a San Pietro al Natisone (dalla parte del monte Nero) per la strada che porta a Caporetto. […] Arriviamo al 29 Ottobre del 1917 [tra il 24 Ottobre e il 12 Novembre del 1917 si svolse la battaglia di Caporetto, n.d.r.]. Ci siamo resi conto che eravamo tutti prigionieri in quanto eravamo rimasti isolati. Ci siamo ritirati tutti su una collina e aspettavamo solamente che arrivassero i Tedeschi: questo perché dove si trovava la nostra linea non c’era più nessuno, erano fuggiti tutti, noi non sapevamo dove andare, i nostri ufficiali ci avevano abbandonato. Noi eravamo sul Dosso Zait che è un monte molto alto, vedevamo i razzi dei Tedeschi sul monte San Michele, vale a dire 8 o 10 chilometri più indietro. Era chiaro che eravamo prigionieri perché ci trovavamo intrappolati all’interno delle linee nemiche. I nostri ufficiali ci avevano lasciato lì senza nessun ordine né di avanzare, né di ritirarci. Verso le 23 arrivarono 5 soldati tedeschi, spararono qualche colpo da sopra la collina e ci fecero prigionieri. Abbiamo reso le armi. A raccontarla tutta sarebbe troppo sporca. I nostri comandanti si sono ritirati di giorno, e penso proprio che si siano salvati tutti, mentre noi, poveri soldati, lì in trincea a tener duro il Fronte o morire. […] Noi non potevamo fare i vigliacchi e abbandonare la trincea però alla fine ci siamo dovuti arrendere perché eravamo circondati.

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[…] Il mio primo ricordo da quando sono al mondo, crescendo il nonno me lo ha “rinfrescato”, si riferisce all’episodio in cui una mattina, svegliandomi, il nonno Peppe mi sollevò sopra di lui con le braccia tese dicendo che bel burdel (che bel bambino): per tutta risposta io gli feci una pisciatina in testa. […] Il camino, come tutti i camini di campagna di allora, era costituito da una grande apertura a semicerchio da cui pendeva internamente una catena; davanti al camino c’era una piattaforma… l’arola che aveva diverse funzioni: base per i treppiedi su cui appoggiare, una volta messi sotto i carboni, i vari tegami che servivano alla nonna per cucinare, base su cui mettere le patate che, ricoperte con cenere e carboni, si cuocevano risultando di una bontà divina specialmente nella parte dove si formava una crosta croccante oppure per cuocere con lo stesso metodo le lumache (quelle bianche e nere), di cui la nonna era ghiottissima (io non riuscivo a mangiarle, mi facevano schifo)… o per appoggiarvi i piedi quando alla sera, dopo cena ci si riuniva tutti intorno al camino. Il nonno, la nonna, lo zio Zeno mi raccontavano le loro storie rischiarati dalla fiamma del camino e da un piccolo lume a olio che ancora conservo come una reliquia: basta metterci un po’ d’olio… dè su mal lugén (allungare lo stoppino fuori dal beccuccio della lampada) e poi accenderlo con un fiammifero. Ed esce il genio... il genio dei ricordi. […] Spesso il nonno mi raccontava della Prima Guerra Mondiale. Storie tremende, della fame e della sete che ha patito, di quando rubava il cibo nelle ciotole dei cani per sopravvivere, di quando mangiava le barbabietole, di quando beveva nei fiumi, del freddo che ha sofferto, delle trincee piene d’acqua; mi insegnò la canzone del Piave, e un’altra canzonetta che diceva: Il general Cadorna mangiava le bistecche e i poveri soldati castagne e fichi secchi e poi ancora Garibaldina trullalà... tu sei la stella di noi soldà. Mi raccontava dei suoi amici che erano morti in guerra e che erano a Redipuglia, di quando li andava a trovare e non mi ci portava mai nonostante le promesse perché (l’ho saputo molto tempo dopo, da Zeno) non si voleva far vedere piangere da me… mi raccontava di tutti i suoi eroi, Gugliemo Oberdan, Cesare Battisti, Nazario Sauro, Enrico Toti, Francesco Baracca (era il mio preferito, perché portavo il suo nome, che coincideva anche con quello del mio nonno paterno). […] Una volta arrivati al campo di concentramento ci hanno fatto fare il bagno, ci tagliarono i capelli e ci ritirarono tutti i vestiti di panno che avevamo dandoci in cambio vestiti di carta. La camicia era fatta come la stola da prete, dopo tre giorni i pantaloni mi cadevano a pezzi: erano fatti con un filo più grosso di quello delle ‘balle’ [sacchi di juta]. Mi sembra di ricordare che mi lasciarono solo la giacca. Il primo giorno ci diedero da mangiare 52

della polenta poi le barbabietole secche; al mattino ci davano il tè. La razione di pane era una pagnottina in quattro: il pane era nero e ‘strideva’ sotto i denti quando lo masticavamo. La pagnottina non era neanche un chilo: si facevano quattro pezzi, si faceva la conta per chi dovesse scegliere il primo quarto partendo da destra o da sinistra. Mai nessuno stava alle regole, tutti volevano il pezzo più grosso, facevamo certe scazzottate. […] Non parliamo poi del freddo... quando c’era la tormenta il nevischio passava nelle fessure della baracca e riempiva la stanza. Alla sera quando andavamo a dormire ci mettevamo tutti da una parte, su un tavolato… senza paglia, con una copertina da campo. […] Nel mio Gruppo c’era un mio paesano detto el moro d’Giumbilon che, tanto per tenermi allegro, mi informò che in quel campo ogni giorno morivano non meno di trenta persone. […] Il 13 Gennaio 1918 tutto il mio Gruppo, mille soldati, partì per andare a lavorare. Ci portarono in Transilvania ai confini con la Romania. […] Siamo rimasti in Transilvania dal 20 Gennaio al 27 di Maggio del 1918. A Maggio la mia compagnia, che inizialmente era composta da 250 uomini, era ridotta a 47 uomini. Gli altri, deperiti, man mano andavano all’ospedale e poi non li abbiamo più visti ritornare. […] La nonna spesso “metteva su il condito” che le sarebbe servito per le tagliatelle del pranzo. Tutte le persone che conoscevo chiamavano le tagliatelle macaron. A me questo condito e le tagliatelle piacevano tantissimo… erano diversi da come li faceva mia mamma. Il condito era più saporito, sapeva di lardo leggermente rancido, le tagliatelle erano più grosse e rugose: una vera bontà. […] Quando potevo guidare le mucche mi sentivo il padrone del mondo anche se ero così piccolo che dalle sponde del biroccio spuntava solo la testa dagli occhi in su, e vedevo davanti a me solo le corna delle mucche e il loro culo, spazzolato dalla coda con un movimento continuo a pendolo. Arrivati a destinazione il nonno e la nonna, a seconda della stagione, si apprestavano a fare i vari lavori: il taglio dell’erba, togliere le patate, raccogliere l’uva, la frutta, le cipolle, la fava, l’aglio, l’insalata, potare le piante, sistemare i filari, dare lo zolfo alle viti, dare el vetriol. Io gironzolavo attorno a loro, scalzo, con la mia fionda sempre al collo e le tasche piene di sassolini o palline di coccio. […] A metà mattinata la nonna ci chiamava per la merenda: sollevava dal cesto, che conteneva le cibarie preparate in casa, un grande fazzoletto blu a righe e scacchi (el fasulet dla gluppa) e si cominciava a mangiare. Le salsicce secche erano le mie preferite: la nonna mi ricordava sempre di dare un piccolo morso alla salsiccia e uno grande al pane (c’erano delle fette enormi), sintetizzando il tutto con questa frase: Coc fa a cica. Il mio record era riuscire a mangiare due fette enormi di pane con solo mezza salsiccia, lasciando il promemoria_numerodue


pezzo finale (el cul), per poi mangiarlo, finalmente, senza pane.Verso mezzogiorno, quando la campana della chiesa di Farneto suonava, la nonna a piedi ritornava verso casa per preparare il pranzo… e se non avevo trovato nulla di divertente da fare, spesso l’accompagnavo. […] La cottura dei macaron: era un gioco di squadra tra me, la nonna e il nonno. Dopo aver fatto la sfoglia, la nonna aveva installato il caldaio (el calder) sul fuoco agganciando il manico a uno degli anelli della catena posta all’interno del camino e lo aveva riempito a metà di acqua. Io ero andato a prendere i legnetti secchi (i batech) nelle fascine vicino al forno e i tutle [l’ “anima” delle pannocchie di granturco, lasciata seccare] in tla capana, e il nonno era già arrivato a casa dai campi perché la nonna lo aveva richiamato dall’aia con la sua poderosa voce: Pep, ven su che è ora da cocia… Peppe vieni su a casa perché dobbiamo cuocere. La cottura dei macaron durava qualche minuto, e si ripeteva giornalmente con precisione estrema. Il mio compito era finito una volta che avevo consegnato i legnetti alla nonna: mi mettevo in un angolo a osservare la scena. La nonna metteva tutti i legnetti nel fuoco, si formava una fiammata che durava qualche minuto e che portava l’acqua nel caldaio in ebollizione, pronta ad accogliere i macaron che la nonna velocemente gettava nel caldaio… poi al grido di dai dai che j’è nut su (veloce veloce che sono venuti su) il nonno si avvicinava al camino, con uno straccio afferrava il manico del caldaio, lo toglieva dalla catena del camino e con sicurezza si avviava appena fuori di casa dove lo stava aspettando la nonna con uno scolapasta di legno dal manico molto lungo. […] Appena fuori, all’inizio dell’aia, versava acqua e macaron nel colapasta che la nonna reggeva. Da una nube di vapore acqueo usciva la nonna che, dopo una scrollatina, depositava i macaron in un grande piatto di coccio avviandosi velocemente in cucina… posava il piatto al centro della tavola, prendeva il tegame del condito dal

fornellino, versava il contenuto al centro del piatto, rigirava sapientemente il tutto in modo che il condito si amalgamasse e si distribuisse uniformemente e, come ultimo atto, dava una spolverata di formaggio pecorino (comperato da mio padre), el furmaj… e potevamo cominciare a mangiare. La bontà dei macaron della nonna Elvira era unica. […] Il 4 Novembre 1918 ci fu l’armistizio: i gendarmi ci dissero: Italiani, potete tornare a casa. Noi non credevamo che fosse vero anche perché otto giorni prima, la sera del 27 Ottobre un infermiere dell’ospedale mi disse: - Cermaria, è arrivata una telefonata, è stato firmato l’armistizio. Siccome poi non se ne seppe più nulla, si pensava che anche questa volta fosse uno scherzo. Per questo motivo siamo rimasti, in cinque italiani, altri quattro giorni aspettando la notizia definitiva. […] Il giorno 8 Novembre siamo partiti per Fiume. Il nove, quando siamo arrivati a Fiume, non c’era neanche un italiano… siamo stati i primi. Al largo c’erano ancora le navi Italiane e Francesi e nessuno era ancora sbarcato. La sera dell’11 Novembre arrivarono i Carabinieri a cavallo, poi i Bersaglieri e la Fanteria, senza sparare un colpo. Mi ricordo che alla sera ci fu un gran corteo. Davanti al Palazzo del Municipio erano state appese le fotografie del Re e della Regina.VIVA L’ITALIA. […] Dopo pranzo il nonno andava a riposare: d’estate aveva una abitudine stranissima. Invece di andare a dormire in camera prendeva un sacco di juta (quelli usati per metterci il grano), andava sotto l’albicocco o l’olmo che erano sulla sinistra della casa, prima dell’aia e si metteva a dormire: il nonno mi diceva che non c’ era posto migliore che dormire per terra sotto l’ombra di una pianta. Io non l’ho mai capito… Zeno mi diceva che aveva preso questa abitudine durante la prima Guerra Mondiale.

Il diario di nonno Peppe è stato pubblicato a cura di Francesco Nicolini presso le edizioni Il Fiorino di Modena: Elmo Cermaria, La prima Guerra Mondiale… del nonno Peppe, Modena 2010 (www.edizioniilfiorino.com).

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Monteciccardo, 1900. Concerto al Conventino avvenne ieri

La delicata (ed enigmatica) statuetta della Madonna del Conventino di Monteciccardo: cronaca di un ritrovamento, 1900-2011 a cura di

Sotto e a pagina 56: la statuetta in cartapesta ritrovata nel 1900 presso il Conventino (fotografie Cristina Ortolani 2007). Nella pagina seguente: in alto, la statuetta in una fotografia degli anni 1910-1914 (Archivio comunale di Monteciccardo); in basso: una fotografia dagli album di Giovanni Gabucci. Sul margine don Gabucci annota: M° Bruscolini - Ma Giannoni (a sinistra) e, a destra, Sig. Belli Giuseppe (Archivio storico diocesano, Pesaro; Fondo Giovanni Gabucci).

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Monteciccardo, 28 Ottobre 1900. Secondo che erasi già deliberato dalla Giunta Municipale, si è oggi tenuta la premiazione scolastica per gli anni 1898-’99 e 1899-‘900. In difetto di un’aula, che si prestasse all’uopo, è stata adoperata la chiesa dell’ex Convento dei Padri Serviti, abilmente trasformata e addobbata dall’egregio dottore Bramante Servici. Partecipò al geniale trattenimento una rappresentanza del vicino Comune di Ginestreto e di quel Pio Istituto [le maestre Pie dell’Addolorata] e vi convenne un pubblico affollatissimo, tra cui signore e signori dei dintorni. Il Sindaco, sig. Eugenio Costantini, quale al principalmente devesi tal festa, la inaugurò leggendo belle e commosse parole, accolte con molti plausi. Lo seguì il giovane e stimato segretario, sig. Cristoforo Mambrini, che aveva l’incarico di pronunciare il discorso d’occasione. Trattò sulla necessità dell’istruzione popolare, e dei benefici che ne provengono, in ispecie se congiunta con l’insegnamento elementare pratico d’arti e mestieri o d’agricoltura. Si diffuse opportunamente intorno al fine della scuola rurale e quindi, accennando con felice digressione alla bellezza, varietà e ubertà della nostra terra, fece richiamo all’industria madre - l’agricoltura sola speranza di vero progresso economico. Delineò per ultimo i miglioramenti introdotti nelle leggi sulla Pubblica Istruzione sino a quella del 1895, prendendone argomento per ricordare la memoria del Re Buono, e per esprimere l’augurio che durante il regno di Vittorio Emanuele III l’Italia assurga a migliori destini. Tutto il discorso efficace e di eletta forma riscosse promemoria_numerodue


la generale approvazione e molti applausi. Dopo di che ebbero luogo i saggi di recitazione e canto, fra i quali riuscirono graziosissimi due cori delle scolaresche del Capoluogo e della Frazione di Monte Santa Maria; istruite l’una della propria maestra, signorina Carolina Fanchiotti, l’altra dalla maestra signorina Veronica Andreatini, cooperata dalla signorina Giuditta Belli, alunna del Liceo Rossini. La nobile gara dell’egregie insegnanti e de-

gli alunni venne meritatamente coronata da bis e prolungate approvazioni. A vie meglio poi rallegrare la festa, la stessa signorina Belli ebbe la cortesia di suonare negl’intermezzi scelti pezzi al pianoforte, rivelandosi d’intelligenza e perizia distinte. E così? Anche quassù si vive, e si dimostra che la Rappresentanza Comunale tiene alto il prestigio del proprio paese (“La Provincia”, 4 Novembre 1900).

Consiglio Comunale di Monteciccardo, 13 febbraio 1903. Provvedimenti in merito alla statuetta di cartapesta ritenuta antica o artistica. Il Signor Presidente espone all'adunanza come per l'occasione della distribuzione dei premi agli alunni delle scuole elementari nell'anno 1900, tenutasi all'ex Convento dei PP. SS., accadesse che, guardandosi dal sig. Giuseppe Belli di Pesaro (intervenutovi con la figlia pianista) alle suppellettili ed agli arredi sacri, si trovasse una statuetta di cartapesta, dichiarata subito di qualche valore. Rileva come, ciò stante, egli avvisasse prudente di trasportarla tosto nella casa comunale per la migliore conservazione in una più sicura custodia, e come, ulteriormente, il Belli lo abbia richiesto della vendita, e sia finanche tornato appunto ad esaminarla. Facendola mostrare ai signori convenuti, lo stesso presidente significa che l'interessamento preso dal detto sig. Belli, il quale è tenuto per persona intelligente in fatto d'antichità, induce convincimento che la statuetta debba riputarsi antica o artistica e come tale avere qualche pregio. Dopo brevi considerazioni il Consiglio delibera di dare incarico al Sindaco Presidente di presentare la statuetta ai competenti dimoranti a Pesaro, per giudizi e pareri. Qualche mese dopo il signor Belli si fa avanti per l’acquisto della statuetta, unico offerente con la somma di lire 250: il 18 ottobre 1903 l’Amministrazione decide di alienarla, riservandosi di deliberare sulla destinazione della somma. Non sembra però che la trattativa sia andata a buon fine: il 30 luglio 1914, infatti, il Sindaco scrive al Prefetto di Pesaro per richiedere un giudizio autorevole sulla statuetta modellata in iscagliola sopra tela, con decorazioni policromiche su fondo dorato, dell’altezza di centimetri 35, che da periti è giudicata artistica, del XIV o al più dei primi del XV secolo, e di considerevole valore. Quasi due anni dopo, l’8 giugno 1916, un telegramma annuncia finalmente la visita dell’incaricato della Regia Soprintendenza alle gallerie e agli oggetti d’arte di Urbino, più volte sollecitata dall’Amministrazione. Notizie della statuetta si hanno ancora nel 1925, quando la rivista “Rassegna Marchigiana” (e per noi don Giovanni Gabucci) la segnala tra le Opere d’arte mobili delle Marche: Municipio, gabinetto del Sindaco, Arte marchig. del sec. XVII: Madonna assisa (è un’Addolorata, precisa Gabucci nei suoi diari), statuina policroma, tela rivestita di stucco, a. 25 [sic]; arte dell’Italia centrale, sec. XVI. Dopo anni di silenzio la statuina ricompare nei primi anni Duemila: a ritrovarla casualmente, inciampando in una pila di carta destinata al macero, è l’allora sindaco Giovanni Barberini. In attesa di restauro, oggi la Madonnina del Conventino - secondo una recente perizia figura di donna seduta, probabilmente una madonna che aveva nel grembo un bambino, non di fattura locale - è nuovamente custodita presso il gabinetto del Sindaco.

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Il “funere” in suffragio di re Umberto I Il 29 Luglio 1900 Umberto I, figlio del primo re d’Italia Vittorio Emanuele II viene assassinato a Monza dall’anarchico Gaetano Bresci. In tutta Italia si organizzano cerimonie in ricordo del “re buono”: ecco la cronaca del “funere” celebrato il 21 Agosto nella Collegiata di Sant’Angelo in Lizzola. A cura del Municipio [si è svolto nella chiesa priorale] un funere in suffragio della grand’anima del compianto ed amato sovrano Umberto I. Alla mesta cerimonia oltre le Rappresentanze degl’enti locali gentilmente sono intervenute ancora la Giunta Municipale di Ginestreto, una rappresentanza della Società Operaia di detto Comune nonché la Giunta Municipale di Monteciccardo. Tutte queste rappresentanze hanno offerto delle splendide corone di fiori. […] Un particolare elogio merita questo parroco perché ha mostrato nobilmente sentimenti di sacerdote, e sentimenti di italiano, permettendo l’ingresso in chiesa delle bandiere delle varie corporazioni (“La Provincia”, 26 Agosto 1900). Sotto il Padre Priore Campelli il Padre Ferri l’Anno 1745 regalò alla Chiesa una statuetta della Madonna, la quale serve per portare in Processione tutte le terze Domeniche del Mese, adorna con piedestallo di Legno indorato ed un piccolo cuore con sette spade d’argento, con la spesa di scudi 2 e Bajocchi: sessanta del suo deposito*.

La chiesa del Conventino in alcune immagini del 2006 - 2007 (fotografie Cristina Ortolani). Da qualche anno il Conventino ospita la sede amministrativa dell’Accademia di Montegral, diretta dal M° Gustav Kuhn. Insieme con l’Amministrazione comunale, l’Accademia organizza periodicamente nella chiesa del Conventino concerti di musica lirica.

Fonti e tracce

“La Provincia”, 4 Novembre 1900. Archivio storico comunale di Monteciccardo, Deliberazioni e Carteggio. Archivio storico diocesano, Fondo Giovanni Gabucci, Monteciccardo, Taccuini.. * Campione [...] di Monte Cicardo, da E. F. Londei - P. Mascia, Il Conventino e Monteciccardo, Pesaro 1995, p. 31.

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Musi neri. Da Monteciccardo a Marcinelle centolire

La “mina”, le “cantine”, la “catastròfa”. Storie di minatori di Pian del Bruscolo raccontate da Ugo Barbieri, partito da Montegaudio per il Belgio nel 1948

conversazione di

Il 23 Giugno 1946 il primo ministro italiano Alcide De Gasperi firma con il ministro belga Van Hacker un patto che prevede la possibilità per l’Italia di acquistare carbone a un prezzo di mercato, in cambio dell’impegno di inviare in Belgio cinquantamila minatori. In seguito all’accordo uomocarbone tra il 1946 e il 1957 arrivano in Belgio circa centoquarantamila italiani1, per svolgere un lavoro che i belgi rifiutano. Troppi i rischi della miniera, a fronte di un salario decisamente esiguo. Nelle Marche si contano nel 1946 oltre duemila espatri, che nel 1948 salgono a 9.146, secondo un trend destinato a scendere solo dopo la metà degli anni Sessanta2. Molte di queste persone provenivano dalla provincia di Pesaro e Urbino, ed erano dirette verso le miniere di carbone del distretto di Charleroi. Le pagine che seguono anticipano una ri-

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cerca sugli emigranti pesaresi, promossa dall’Amministrazione provinciale di Pesaro e Urbino in occasione del cinquantacinquesimo anniversario della tragedia di Marcinelle, dove l’8 Agosto 1956 morirono nella miniera del Bois du Cazier 262 persone. Tra loro 136 italiani, nove dei quali provenienti dalla nostra provincia. Stringendo ancora l’obiettivo, ricordiamo le tre vittime di Marcinelle nate nel territorio di Pian del Bruscolo: Edo Dionigi, originario di Colbordolo; Sisto Antonini di famiglia santangiolese ma in gioventù residente a Montegaudio e Alvaro Palazzi di Monteciccardo. Primo esito della ricerca sarà un filmato realizzato con le testimonianze di alcuni emigrati tuttora residenti nel distretto di Charleroi, tra i quali anche Ugo Barbieri (classe 1924), che abbiamo incontrato durante la sua permanenza estiva in Italia nella casa di Montegaudio, il paese da cui è partito nel

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Dalla raccolta di Giuliano Vagnini, Pesaro: il passaporto di Marco Vagnini (1927), due immagini del funerale di Alvaro Palazzi, morto nella tragedia di Marcinelle. Nella pagina precedente: a colori, Ugo Barbieri durante l’intervista realizzata per il progetto Musi neri, promosso dall’Amministrazione provinciale di Pesaro e Urbino (nell’immagine in basso è ritratto anche l’operatore Filippo Biagianti); in bianco e nero, Barbieri in una pausa dal lavoro (anni Settanta; raccolta Ugo Barbieri, Fleurus, Belgio).

1948. Oltre alle immagini di Ugo Barbieri, illustrano queste pagine alcune fotografie dalle raccolte di Cesare Antonini (Sant’Angelo in Lizzola), figlio di Sisto; Giuliano Vagnini di Monte Santa Maria e Severino Foglietta di Montegaudio. Sono sceso in miniera il 22 ottobre del 1948, e il 31 Marzo 1974 sono andato in pensione. Come dice il dottore, “la polvere non mi dà fastidio”, è per questo che ho potuto lavorare così a lungo. Dal paese siamo partiti in quattro o cinque, “Sei pazzo ad andare a lavorare nella mina” mi dicevano. La mina: con un termine impastato di francese gli intervistati si riferiscono alla miniera, un amalgama che tornerà spesso, fino ad arrivare alla catastròfa, stupefatta e inaudita parola dove si riassume la tragedia di Marcinelle. Eravamo contadini. Dalla campagna, da queste colline a lavorare sdraiato in terra o a camminare sui gomiti il passaggio non è stato facile. Ma era la mina. E come siete venuti a conoscenza della possibilità di andare a lavorare in Belgio? C’erano questi manifesti rosa un po’ dappertutto, in chiesa, in Comune... poi la voce si spargeva, c’era la miseria, non c’era speranza per noi, qui. Siamo partiti da Pesaro, eravamo un’ottantina; a Milano

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siamo rimasti due giorni, ci hanno visitato e da lì siamo ripartiti, sempre in treno, verso il Belgio. L’accordo Italia - Belgio prevedeva che i lavoratori avessero meno di 35 anni (ma in seguito l’età fu elevata a 40, per favorire le partenze) e si presentassero a Milano per sottoporsi a visite mediche e controlli di polizia; a Milano chi era ritenuto idoneo firmava un contratto della durata minima di dodici mesi, che ben presto però furono portati a ventiquattro. Per i primi quattro mesi sono stato a Eisden, poi sono andato a Lambusart, dove sono rimasto per venticinque anni. Anche da noi c’è stato un incidente [nel 1962], sono morti sei italiani, è il ricordo più brutto per me. Chi voleva cambiare lavoro poteva farlo solo dopo cinque anni, se volevi andare a lavorare in fabbrica dovevi comunque fare cinque anni in miniera. Molti avevano paura dell’ascensore che ti portava giù - e io non ero più brillante di un altro. A Lambusart ero responsabile di un gruppo di operai, prima però mi hanno fatto fare qualche mese di addestramento, per imparare il lavoro. I turni duravano otto ore, da quando si era sopra a prepararsi a quando si sortiva. Appena arrivato, come tutti, ho preso alloggio in una promemoria_numerodue


cantina, poi a Lambusart abitavo in una casa privata, in affitto. La cantina: baracche militari, avanzi della guerra riattati - neanche tanto - per ospitare i minatori. Molti di quelli che lavoravano con me erano ex prigionieri di guerra rimasti lì, Marocchini, Polonesi, Greci, Turchi, sì, molti Turchi. Com’era la convivenza, viene da chiedere, ma prima che la domanda sia formulata per intero lo sguardo distante di Barbieri ricolloca la questione nella sua giusta sede: la convivenza? Trovi difficoltà se hai un carattere difficile, certo, c’erano dei problemi con i Turchi, idee troppo diverse, ma anche con i Belgi. Bisogna vedere come ti comporti. Se ti comporti bene, ti accettano. Se ti comporti bene. Come dire: “convivenza”, “integrazione”: per noi, categorie di là da venire. Anche se la storia parla di razzismo: l’Italia era pur sempre un’ex alleata di Hitler, i minatori gueules noir e dunque “Italiani = Macaronì”, “Vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”, eccetera eccetera. L’8 Agosto del 1956 ero in Italia, in ferie. Dopo l’incendio dell’8 Agosto, al Bois du Cazier i tentativi per salvare i minatori intrappolati proseguono per quindici giorni. Tutti cadaveri! è il disperato annuncio che mette fine alle operazioni di soccorso il 23 Agosto. Quando sono tornato là, c’erano le mogli che aspettavano, i parenti. Hanno portato i morti in una scuola, in una stanza c’erano le bare, numerate, in un’altra stanza i vestiti, sempre con i numeri o le medaglie: così veniva fatto il riconoscimento, ma alcuni sono rimasti senza nome. Numeri: anche in vita i minatori erano identificati tramite un numero, impresso su una medaglia di latta, simbolo del loro lavoro insieme con l’elmetto e la lampada. I gridi, caro mio, i gridi.

Fonti e tracce

Conversazione con Ugo Barbieri, 29 Settembre 2010. A 50 anni da Marcinelle 1956/2006, allegato a “La Provincia di Pesaro e Urbino”, n. 3-4, Dicembre 2006. 1 Cfr. http://www.lastoriasiamonoi. rai.it; 25 Maggio 2011, 18. 2 Cfr. http://www.museonazionaleemigrazione.it/regioni.php?id=11; 24 Maggio 2011, 12.15.

Vestito di mina e vestito con la cravatta fa tutto differente. Ogni minatore conserva una foto con il ‘muso nero’: il sigillo di un’epopea finita in Europa con la chiusura dell’ultima mina di carbone, quella francese di Creutzwald. Oggi Ugo Barbieri, vedovo, vive a Fleurus (Charleroi) e torna in Italia, a Montegaudio, due volte l’anno. Per lui, e per tutti gli italiani in Belgio che abbiamo intervistato, “Patria” si scrive con la maiuscola, e significa case linde e ordinate, prati ben tenuti, centrini sui tavoli e alle pareti le foto ‘dei vecchi’. Perché dopo la pensione voglio tornare qui, in Italia.

In alto, Marcinelle, 1949. Severino Foglietta ‘muso nero’ (raccolta Severino Foglietta, Montegaudio - Monteciccardo); qui a fianco: due immagini dalla raccolta della Famiglia Cesare Antonini di Sant’Angelo in Lizzola: Sisto Antonini a Marcinelle e una cartolina dalla miniera di carbone n. 5 (anni Cinquanta del ‘900). promemoria_numerodue

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Da Montecchio al Cile. Antonio e Violante Serafini centolire

Seppure meno numerosi che in Argentina, in Brasile o negli Stati Uniti, gli italiani emigrati verso il Cile furono all’ inizio del ‘900 protagonisti della crescita di questo paese. Tra loro anche il montecchiese Antonio Serafini ricordi di

Tra il 2007 e il 2008 l’Amministrazione Comunale di Sant’Angelo in Lizzola promosse il progetto Montecchioracconta, per approfondire le ricerche della Memoteca intorno alla frazione di Montecchio. Primo frutto del lavoro fu il volume Un paese lungo la strada, pubblicato nel 2009 e dedicato alla storia di Montecchio tra il XVIII e il XX secolo. I materiali raccolti nel volume sono in parte pubblicati anche sul sito www.montecchioracconta.pu.it, attraverso il quale è possibile segnalare storie e ricordi, in un continuo percorso di approfondimento. Proprio tramite il web ci è giunto lo scorso inverno il racconto del dottor Ernesto Guiraldes, pronipote di Antonio Serafini, montecchiese emigrato in Cile da Roma nel 1891 insieme con la moglie Violante Filipetti Novelli e i figli Dante e Luigi.

Ernesto Guiraldes Camerati

In attesa del filmato dedicato agli anni del dopoguerra, e della ricostruzione, con il quale prosegue idealmente il percorso di Montecchioracconta (ne abbiamo parlato nel numero 2 di “Promemoria”), pubblichiamo il racconto della vita di Antonio e Violante, nelle parole di Ernesto Guiraldes, che ringraziamo di cuore per il suo contributo alla nostra raccolta. Un’ulteriore traccia riguardante i nostri paesi, ma soprattutto una testimonianza di quanto sia viva l’idea della patria in chi, pur lontano, in Italia affonda le proprie radici, particolarmente significativa in questo 2011 nel quale si celebra il 150° anniversario dell’Italia unita. Aggiungiamo che il dottor Guiraldes scrive in un italiano davvero molto preciso: ciò che segue è quindi una trascrizione solo lievemente modificata delle email che ci ha inviato (c.o.).

Gentile Cristina, ho preso la libertà di mandarLe una foto di miei bisnonni Antonio Serafini Magrini e Violante Filipetti Novelli. Antonio Serafini è nato nel comune di Sant’Angelo in Lizzola, e prima di emigrare verso il Cile nel 1891, abitava con la sua famiglia a Montecchio, vicino al confine con Tavullia (allora chiamata Tomba).Violante nacque a Jesi, Ancona. Antonio Serafini e Violante Filipetti hanno vissuto a Talca nel Cile, dove entrambi morirono negli anni Cinquanta del ‘900. Entrambi marchigiani, Antonio e Violante si sono incontrati per la prima volta a Roma, dove erano emigrati ciascuno per proprio conto quando erano ancora molto giovani. Si sono sposati a Roma, hanno avuto due figli, Luigi e Dante, e hanno deciso di emigrare in Cile. Non ho mai saputo il motivo specifico della scelta della meta del Sud America 60

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da parte dei miei bisnonni, ma in quei giorni (nell’ultimo decennio del XVIII secolo), il numero di italiani emigranti verso il nuovo mondo era davvero notevole. I miei bisnonni arrivarono alla località costiera (e in quei giorni, porto) di Constitución, nel Cile centrale. Da lì sono andati a Talca, città in cui hanno vissuto fino alla fine della loro vita. Antonio Serafini è stato imprenditore importante a Talca. Fu uno dei due partner della società “Serafini y Forno”, che gestì il tram a cavallo di Talca dal 1904 fino alla fine degli anni Dieci. Allo stesso tempo, Antonio era socio in una società di mulino di grano e aveva anche vigneti a Colín, nei pressi di Talca. È stato un agricoltore ed enologo di un certo successo nella regione centrale del Cile. In Cile i miei bisnonni hanno avuto altri quattro figli: Julia, Aurora (mia nonna), Oreste e Eduardo, (i due bambini più grandi, nati in Italia erano morti giovani). Negli anni Venti Antonio Serafini è stato nominato vice console d’Italia a Talca, dove ebbe il dovere di accogliere il figlio del Re d’Italia quando il principe ha visitato il Cile. Antonio e Violante sono stati benefattori ben noti a Talca, tra cui diverse opere collegate alla comunità italiana in quella città. Antonio è morto a 99 anni di età nel 1956,Violante, l’anno successivo a 92. La tradizione che afferma che i marchigiani hanno una longevità notevole si è dimostrata vera con miei bisnonni. Uno dei fratelli di Antonio, Terenzio è migrato in Brasile dove il suo cognome è stato cambiato in Derenzi. Annunziata, la sorella di Antonio è migrata in un’altra località del Cile, dove si sposò ed ebbe figli. Per motivi che la nostra generazione non conosce, ma probabilmente legati alla calorosa accoglienza del Cile ai migranti italiani, alla migrazione di quasi tutta la famiglia, e alla relativa prosperità della famiglia Serafini in questo paese, i miei bisnonni non hanno mai guardato indietro.

Avevano pochi contatti con l’Italia, con l’eccezione di un paio di visite che il mio bisnonno ha fatto in Italia in occasione dell’esposizioni mondiali in Europa. Purtroppo, anche per questo gli attuali discendenti dei miei bisnonni non conoscono nessuno dei loro (nostri) parenti de Le Marche, sia che vivano in quella regione, o altrove. Noi, i discendenti di Antonio e Violante oggi assommiamo a diverse decine. Nessuno di noi è rimasto a Talca. La maggioranza vive a Santiago del Cile e in Linares. Ci sono anche membri delle giovani generazioni che vivono in Australia, nel Regno Unito, Brasile, Nuova Zelanda e Puerto Rico. Tra noi ci sono imprenditori, scrittori, medici, professori universitari, poeti, artisti grafici, operatori sociali, insegnanti, militari, piloti di linea, ingegneri, infermieri, avvocati, agenti immobiliari, agricoltori, economisti, attrici, sceneggiatori, dentisti, psicologi, funzionari di TV. Ho avuto il privilegio e il piacere di essere il primo discendente di Antonio e Violante a visitare le rispettive città di origine di miei bisnonni. Nel novembre 2010 ho avuto la fortuna immensa di visitare Montecchio, con il prezioso aiuto del prof. dr. Carlo Catassi, di Ancona e il reverendo padre Orlando Bartolucci, di Montecchio che furono le mie incomparabile guide e ispiratori. La Casa Serafini e la Casa Magrini sono ancora sulle mappe locali, nonché sul territorio comunale! Entrambe si trovano nella strada che conduce a Tavullia, vicino al confine con la Romagna. Ho anche visitato la “magica” città di Jesi, in provincia di Ancona, dove è nata mia bisnonna Violante Filipetti Novelli. Inoltre, sono stato ad Ancona, Sant’Angelo in Lizzola, Fossombrone, e ho visitato il gioiello massimo delle Marche, Urbino. Ernesto Guiraldes Camerati, Santiago del Cile, Dicembre 2010

La città di Talca, una delle più importanti del Cile, si trova a circa 250 km a sud di Santiago. Fondata da José Antonio Manso de Velasco nel 1742 col nome di San Augustin de Talca su insediamenti preesistenti, conta oggi circa 180.000 abitanti, distribuiti su una superficie di 232 km quadrati. Due volte distrutta da violenti terremoti (nel 1742 e nel 1928), due volte ricostruita, Talca fu nuovamente colpita dal gravissimo sisma del Febbraio 2010, che danneggiò gran parte del centro storico della città. Talca, Calle 1 Sur, una delle principali vie della città, nel 2006 (da http://en.wikipedia.org/wiki/File:Talca_1_sur.jpg; 18 Maggio 2011, 14.45). Nella pagina precedente,Antonio Serafini e Violante Filipetti (raccolta Ernesto Guiraldes, Camerati Santiago del Cile).

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Vicini a voi. Rio Salso, Tavullia

Banca dell’A driatico

Banca & Territorio

ha profonde radici nel territorio di

“Promemoria”. Storia e storie delle filiali di Pian del Bruscolo

riferimento di

La Banca? Subito dopo la guerra era a Padiglione, ma presto è stata trasferita qui a Rio Salso. Esordisce così Dorino Generali, attento testimone di storie del suo paese, e confermano i più grandi tra gli abitanti della località situata sulla Provinciale Feltresca, il cui territorio è suddiviso tra Tavullia e Mondaino, tra Marche e Romagna (marchignolo si definiva lo scrittore Fabio Tombari, che visse nella grande casa sul limitare del ‘Rio’, già in Romagna ma affacciata sul podere in terra marchigiana). Siamo ai tempi della Banca Popolare Pesarese, gloriosa istituzione cittadina che dopo svariate trasformazioni è oggi parte del Gruppo Intesa Sanpaolo con il nome Banca dell’Adriatico, e la Relazione sull’attività per l’anno 1961 registra a Rio Salso un “Ufficio di Corrispondenza”, come per altre località allora in via di sviluppo, da Montecchio di Sant’Angelo in Lizzola a Ca’ Gallo di Montecalvo in Foglia. L’ “Ufficio di corrispondenza” di Rio Salso nacque negli anni Cinquanta del ‘900 in abbinamento al Consorzio agrario di Padiglione di Tavullia: era una prassi diffusa all’epoca, sottolinea Luciano Dolcini, attualmente in servizio presso la Segreteria Generale di Banca dell’Adriatico, dal 1974 al 1979 cassiere a Rio Salso. Anima della filiale era Linda Maffei, ragioniera, in un’epoca in cui le donne impiegate di banca rappresentavano un’eccezione. Ap-

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partenente a una delle famiglie più in vista di Padiglione, Linda aprì l’ufficio della Banca Popolare Pesarese al piano terra della propria abitazione, a poca distanza dal confine con il Comune di Montegridolfo. A lungo ‘contesa’ tra Rio Salso e Padiglione, la filiale si trasferì definitivamente a Rio Salso negli anni Sessanta, dapprima all’angolo tra la Provinciale Feltresca e l’attuale piazza Marchionni, spostandosi negli anni Settanta nei locali dell’ex cinema del paese, vicino al bar - un tempo osteria - di Learco Ambrogiani. Anche a Rio Rio Salso di Tavullia, l’attuale sede di Banca dell’Adriatico; in basso: Pesaro, 19 Marzo 1957, biglietto di auguri inviato da Salso la filiale fu a lungo gestita dalla sola Linda Maffei a Giuseppina Andreani, impiegata presso una Linda che, ci hanno detto in paese, arrivava delle sedi pesaresi della Banca Popolare (raccolta Corrado Tomassoli, Pontevecchio di Colbordolo). da Padiglione in sella alla sua Vespa. Tra i clienti non poteva mancare Fabio Tom- Nella pagina precedente: Padiglione di Tavullia, anni Sessanta-Settanta del ‘900 (cartoline, raccolta Pro Loco Fogliense, bari: cambiava o depositava sul suo libretto Belvedere Fogliense - Tavullia). gli assegni circolari dei diritti d’autore, sorride Luciano Dolcini, al quale lo scrittore donò un dattiloscritto che tuttora custodisco tra le mie cose più care. Fonti e tracce Banca Popolare Pesarese. La nuova Nella stessa occasione gli chiesi di autografarmi alcuni suoi sede della agenzia di Montelablibri che già possedevo. bate, 13 Maggio 1961, opuscolo Dal 30 Gennaio 2006 la filiale di Rio Salso di Banca dell’Adriaedito dalla stessa Banca Popolare tico ha sede in una palazzina di fronte alla chiesa di Sant’APesarese, Urbania, s.d.. Conversazioni con Dorino Gegnese: una costruzione moderna, dagli interni ariosi, in grado nerali, Rio Salso, Aprile - Maggio di rispondere alle richieste di una clientela in continua evolu2011. zione ma che conserva intatta la dimensione di luogo di inconConversazioni con Luciano Doltro e di scambio tipica di una banca profondamente radicata cini ed Enrico Agostini, Aprile Maggio 2011. sul territorio. Rio Salso e la vicina Borgo Massano (frazione di Montecalvo in Foglia) hanno conosciuto nel tempo un forte sviluppo industriale, e gli insediamenti produttivi di queste zone ospitano ditte di rilevanza nazionale: a loro Banca dell’Adriatico offre prodotti e servizi dinamici e attentamente studiati, nei quali i vantaggi di un istituto di credito capillarmente presente sul territorio sono sostenuti dalla possibilità di usufruire della struttura del grande Gruppo Intesa Sanpaolo, aperta verso una prospettiva internazionale, fondamentale per restare competitivi e affrontare efficacemente un mercato sempre più complesso. Allo stesso tempo le famiglie possono contare su una fitta rete di sportelli, pronti ad ascoltare le loro esigenze, nell’attenzione al tessuto sociale oltre che a quello economico. Non è un caso che molte delle storie che state leggendo su questo numero di “Promemoria” siano state segnalate proprio attraverso la filiale di Rio Salso la quale, con il direttore Enrico Agostini, Francesco Maria Pagnini, Omar Troiani e Francesca Urbinati ha simpaticamente fatto da tramite tra i nostri collaboratori e le tante persone desiderose di condividere i propri ricordi. promemoria_numerodue

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Vicini a voi. Notizie Vicini a voi. Notizie Vicini a voi. Dario Pilla nuovo direttore generale di Banca dell’Adriatico Dal Gennaio 2011 Banca dell’Adriatico ha un nuovo direttore generale: Dario Pilla ha infatti preso il posto di Roberto Troiani, che dopo cinque anni è passato alla Direzione Regionale Lazio di Intesa Sanpaolo. Sposato con due figlie, cinquant’anni, dopo aver ricoperto incarichi via via sempre più rilevanti nel Gruppo Intesa Sanpaolo, tra i quali quello di responsabile dell’Area Milano Città, Pilla è oggi alla guida degli oltre 200 sportelli di Banca dell’Adriatico dislocati tra Marche, Abruzzo e Molise. Il nuovo direttore ha dichiarato Giandomenico Di Sante, presidente di Banca dell’Adriatico punterà a rafforzare ancor più il ruolo che l’istituto di credito già oggi svolge come banca del territorio della dorsale adriatica, consolidando il radicamento nelle tre regioni Marche, Abruzzo e Molise e mantenendo la stretta vicinanza alle famiglie, al mondo delle piccole e medie imprese, agli Enti locali e alle associazioni, forte anche degli strumenti operativi e finanziari di un grande gruppo bancario internazionale come Intesa Sanpaolo. A Dario Pilla il nostro augurio e il pieno sostegno per l’importante impegno che l’attende. Ringrazio Roberto Troiani, ha aggiunto Di Sante, per l’intenso lavoro svolto in questi cinque anni alla guida di Banca dell’Adriatico, che ha consentito alla stessa di affermarsi sempre più come protagonista nel mercato del credito locale.

Vicini a voi. Notizie Vicini a voi. Notizie Vicini a voi. Banca dell’Adriatico, una nuova filiale per Pesaro Con l’apertura della sede pesarese di via del Novecento, inaugurata il 14 Febbraio scorso da un evento in tema con la festa di San Valentino (la presentazione in forma teatrale del dipinto di Carlo Levi Gli innamorati, affidata alla voce di Cristian Della Chiara), Banca dell’Adriatico tocca il significativo traguardo della trentatreesima filiale sul territorio provinciale di Pesaro e Urbino. Stiamo investendo sul territorio, ha dichiarato Giandomenico Di Sante, presidente della Banca, per dare nuovi strumenti ed opportunità di crescita all’economia locale, per mettere a disposizione di imprese e famiglie i servizi di una banca di prossimità. Con le nostre oltre duecento filiali puntiamo a diventare la banca di riferimento della dorsale adriatica, aggiunge il direttore generale Dario Pilla, per sostenere lo sviluppo sociale ed economico dell’area: anche la nuova apertura di via del Novecento va in questa direzione. Il nuovo sportello bancario, situato in via del Novecento 61, nel quartiere residenziale Celletta, è diretto da Daniela Farisello che coordina il lavoro di due giovani colleghe: Maria Giovanna Paccapelo e Roberta Adorno; oltre a un parcheggio per la clientela, la nuova filiale di Pesaro è dotata di due sportelli bancomat di ‘ultima generazione’ che consentono, oltre a prelevare contante e ricaricare il cellulare, di effettuare versamenti sul proprio conto, in contanti e assegni, e di eseguire molteplici pagamenti, il tutto in piena autonomia 24 ore su 24.

Vicini a voi. Notizie Vicini a voi. Notizie Vicini a voi. Finanziamenti agevolati per le famiglie e agli imprenditori colpiti dal maltempo dello scorso inverno Banca dell’Adriatico ha messo a disposizione un plafond di 50 milioni di euro per speciali finanziamenti, a condizioni agevolate, a sostegno delle famiglie e delle imprese marchigiane danneggiate dalle calamità naturali dello scorso inverno. Le richieste possono essere presentate presso uno degli oltre 200 sportelli di Banca dell’Adriatico presenti sul territorio. Con questa iniziativa, ha dichiarato Dario Pilla, direttore generale di Banca dell’Adriatico, vogliamo fornire una risposta tempestiva e concreta a una situazione di emergenza che ha colpito con particolare intensità le Marche, e desideriamo essere vicini alle famiglie e agli imprenditori danneggiati dalle avversità atmosferiche con la concessione di prestiti a condizioni particolari e in tempi il più possibile rapidi (sopra: foto Luca Toni).

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oltreconfine sguardi fuori Pian del Bruscolo

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“Udite, udite o rustici!”. Mercati, mercanti & ricordi oltreconfine | la vita quotidiana

Da tempo a “Promemoria” giungono

sollecitazioni riguardanti fiere, mercati,

il commercio in genere.

Ecco un assaggio sul tema,

in attesa di una ricerca più ampia e dettagliata che presenteremo sui prossimi numeri conversazione di

Cristina Ortolani

- E la scerafata? - Ehhh? Sotto: Pesaro, Maggio 2011. Da sinistra: Giorgio Lucenti, Luciano - Sì, la scerafata. Cecchini, Gianni Pentucci e Gior- Certo, a scriverla non fa lo stesso effetto, deve essere la voce: gio Valchera durante la conversa- una leggera impennata nel tono, e in una frazione di secondo zione con “Promemoria”. Nella pagina seguente: in alto, a co- siamo lì, a Pesaro, in piazzale Garibaldi ex piazzale del Mercalori, un’ambulanza Austin, in uso du- to (Porta Cappuccina o Collina o Curina) o in qualche paese rante la seconda guerra mondiale; dell’entroterra, poca la differenza per chi spesso in piena notte in bianco e nero, l’ambulanza Austin sale sul camion e parte, alla conquista di nuovi clienti. trasformata in ‘furgone per mercati’ da Umberto Lucenti. In basso: Pe- Da tempo a “Promemoria” giungono sollecitazioni riguardansaro, 1948-1950. Il banco di tessuti ti fiere, mercati, ambulanti, il commercio in genere: quella che di Umberto Lucenti. Nella foto, da segue è la cronaca di un paio di chiacchierate sul tema con sinistra: Giorgio e Pietro Lucenti, quattro simpatici signori pesaresi, Giorgio Lucenti, Giorgio figli di Umberto, Santina Cerri, sua moglie, il commesso Fernando Boc- Valchera, Luciano Cecchini in rappresentanza della Famiglia coni detto Bucon (raccolta Giorgio Cermatori, capitanati dall’infaticabile Gianni Pentucci, che Lucenti, Pesaro). In primo piano: alla Memoteca collabora con i suoi suggerimenti ormai da Umberto Lucenti, inserzione pubblicitaria da Pesaro, piccola guida qualche anno. Ci ripromettiamo di tornare sull’argomento nei prossimi numeri, con maggiori e più circostanziati dettagli, 1951, Pesaro 1951. ma il racconto è troppo ghiotto per non anticiparne subito almeno un capitolo. E chissà se il marketing è pronto a captare lo spunto, oltre il mall, il franchising, e il fuorituttosottocosto. Dunque, la scerafata. Il termine arcano (per dire, Google non restituisce in proposito nessun risultato, anche se la sostanza è vecchia quanto la prima bancarella, e di sicuro della parola esisteranno chissà quanti sinonimi) arriva da Giorgio Lucenti, titolare insieme con i fratelli Pietro e Remo di uno dei principali negozi di abbigliamento per uomo di Pesaro, 66

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chiuso nel 2008 dopo sessant’anni di gloriosa carriera (tra i riconoscimenti assegnati a Giorgio anche l’Aquila d’oro della Confcommercio di Pesaro, che premia oltre quarant’anni di ininterrotta attività). Dunque, la scerafata. Personaggi: l’imbonitore (il venditore), lo sceraffo (il compare). Tra le bancarelle ce n’era una gestita da un certo Torcoletti [l’imbonitore], che vendeva caramelle e ‘luperie’. Per attirare i clienti, per dare il via alle vendite, preparava tanti mucchietti di caramelle: “caramelle a 10 lire...”, decantava; uno di noi, figli e garzoni degli altri venditori [il compare], si faceva avanti e si avvicinava al banco: “due sacchetti per me!”. A quel punto Torcoletti ammoniva “ah no, non più di un sacchetto a testa”, come se la scorta di caramelle non fosse sufficiente a soddisfare tutte le richieste. Nove volte su dieci la “gag” riusciva, la bancarella cominciava ad affollarsi, e le vendite si impennavano. (Avete presente il “sottocosto - offerte soggette a quantitativi limitati” delle grandi catene?). Dalla memoria di Giorgio Lucenti emerge anche una piantina con la distribuzione delle bancarelle del settore tessuti che, nel mercato pesarese dell’immediato dopoguerra, in piazzale Garibaldi, occupavano appunto l’area dove attualmente si trova l’edicola. All’angolo con via Oberdan c’era la bancarella di mio padre Umberto, con il quale lavoravamo anche noi figli; seguivano, in direzione della stazione ferroviaria, Saponaro di Fano, Volponi di Pesaro, Mario Bezziccheri di Montecchio, Riminucci di Montelabbate, Luigi Cermatori e Cardellini, entrambi di Pesaro. Davanti al Rossini c’erano invece le bancarelle più piccole, e i venditori ambulanti, soprattutto maglieria e chincaglieria, spesso non avevano un banco ma un telo steso a terra. Indelebile la sequenza settimanale dei mercati, che Lucenti sgrana senza esitazioni: Lunedì Mondolfo, Martedì Pesaro, Mercoledì riposo o, una volta al mese, la fiera a Mondaino o altrove; Giovedì Senigallia, Venerdì Saltara, Sabato Fano, Domenica? Domenica Cattolica, oppure qualche fiera. Eh, i mercati li abbiamo fatti per vent’anni... Figlio di Umberto, Giorgio Lucenti cresce con i fratelli tra vestiti e tessuti: Appena arrivati a Pesaro, tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, i miei genitori hanno aperto un negozio in via Branca. Venivano dalla Romagna, mio padre era originario di un paese vicino a Bologna. Ma anche dopo aver aperto il negozio non hanno smesso subito di fare i mercati, prima si spostavano col cavallo, poi con un furgone FIAT (nell’abitacolo c’era posto per sole due persone, e così due di noi viaggiavano sul tetto) e, dopo la guerra, con un’ambulanza Austin inglese, riadattata e riverniciata, che avevamo acquistato dall’ospe-

O voi, matrone rigide, ringiovanir bramate? Le vostre rughe incomode con esso cancellate. Volete voi, donzelle, ben liscia aver la pelle? Voi, giovani galanti, per sempre avere amanti? Comprate il mio specifico, per poco io ve lo do*.

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dale di San Costanzo. A proposito di guerra, come molti pesaresi eravamo sfollati dalle parti di Pian del Bruscolo, e mio padre si trovava nel Circolo di Montecchio la sera dello scoppio, il 21 Gennaio del 1944. Sgnič sgnič... Con fare sornione Lucenti si sofferma tra sé su uno scioglilingua appreso dai genitori, la cui trascrizione ci appare impossibile, un gergo mutuato dalla lingua degli zingari, parole da masticare tra i denti per scambiarsi commenti, istruzioni, o anche solo apprezzare le grazie di qualche bella ragazza di passaggio. Il primo negozio era in via Cattaneo [di fronte al Molino Albani, recita una réclame del 1951], poi ci siamo trasferiti in via Branca, dove ora si trova “Massimo calzature”[per inciso, fondato dal figlio di Pierino Massalini, calzolaio e memoria storica di Belvedere Fogliense] e infine, nel 1962, si è trasferito in via Branca angolo via Cattaneo, in Galleria Roma. Come Giorgio Lucenti, anche Cermatori e Cardellini ben presto amplieranno la loro attività, diventando titolari di due tra i più grandi negozi pesaresi del settore tessile. Originario di Tavullia, Luigi Cermatori si stabilisce a Pesaro tra il 1945 e il 1946 e, insieme con il fratello Silvio inaugura la propria attività esponendo la mercanzia su una bancarella di fortuna, allestita grazie a un tavolino preso a prestito dal “Caffè della Peppina”, conosciutissimo ritrovo di piazza Lazzarini - il Trebbio. Nel 1960 già la scritta “Cermatori” in eleganti lettere al neon fa bella mostra di sé sul palazzo all’inizio di viale XI Febbraio, sovrastando bonaria tessuti e ‘confezioni’ in vetrina. E qui ho anch’io una chicca, interviene Gianni

Pentucci, mostrandoci una comunicazione su carta intestata di Cermatori Luigi tessuti che discretamente invita il pregiatissimo signore in indirizzo a venire a parlare con urgenza da me per cose che Vi riguardano. Non c’è privacy che tenga di fronte allo stile di questa lettera commerciale impostata con garbo deciso, in realtà né più né meno che un sollecito di pagamento. Ancora Gianni ci propone la storia di Florindo Valchera, commesso viaggiatore della ditta Mondesir (Solingen), ramo coltelleria, articoli per barbieri, arrotini e mille altre cose, che nel 1965 aprirà la pelletteria di via Branca, gestita fino al 2009 dal figlio Giorgio. Nel 1938, di passaggio a Pesaro, in cerca di una camiciaia per rinfrescare il proprio guardaroba Florindo incontra Caterina Panicali, provetta sarta figlia di Fabio (detto Febo), triccolo (el trécle o, per i pesaresi, tréccol, procacciatore di uova, polli, conigli) di Pantano ma originario di San Pietro in Calibano. I due si innamorano, si sposano e, dopo una breve permanenza a Bologna negli anni di guerra, presso i genitori di Florindo, Gelsomino e Annunziata Molinari, nel 1945 la famiglia Valchera torna definitivamente a Pesaro. Caterina apre un laboratorio di camiceria che ben presto diventerà uno dei più quotati della città (lavorava anche per la ditta Fiorini di Bologna, fornitrice della Casa Reale, annota Giorgio Valchera in una sua memoria); Florindo riprenderà la propria attività di commesso viaggiatore fino, appunto, all’apertura della pelletteria. Nei primissimi tempi vendeva i suoi articoli su un Senigallia, anni Cinquanta del ‘900. Florindo Valchera con i suoi articoli Zed - Solingen e la sua Topolino giardinetta in metallo (raccolta Giorgio Valchera, Pesaro).

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telo, aggiunge Giorgio Lucenti, davanti alla fotografia che ritrae Florindo a fianco della sua Topolino giardinetta in metallo. Per incrementare gli affari, sorride Giorgio, mio padre non esitava a improvvisarsi barbiere: all’epoca non tutti si radevano quotidianamente, e così, per dimostrare la bontà del suo prodotto lui radeva il cliente per metà. Solo a vendita conclusa gli consegnava lametta o rasoio, per completare l’opera. Florindo: nome da romanzo e storia da film, molti lo ricorderanno ormai anziano, intento a vigilare sull’operato del figlio Giorgio o di qualche giovane commessa anche nel negozio di via Bramante, tra cuoi pregiati e funzionali valigie Samsonite. Parlando di ambulanti non possiamo non ricordare anche Nando Piovaticci conclude Lucenti: prima di aprire il negozio di via Branca anche lui faceva i mercati, aveva un camioncino Ford del 1922 che non partiva mai. Anche allora trattava articoli di gomma, camere d’aria, copertoni, tubetti di mastice e simili. E chissà se anche allora omaggiava i clienti con qualche strofa composta in dialetto, come avrebbe fatto in seguito, quando ogni acquisto nel suo negozio - siamo ancora in via Branca, ex via dei Calzolai - era accompagnato da un foglio piegato, fitto di parole. I ragazzi alzavano le spalle, questo signore bizzarro, un po’ fissato con ‘sto dialetto, chi l’avrebbe mai detto che Pesre vechia ci sarebbe diventata così cara?

A destra, dall’alto: anni Cinquanta - Sessanta del ‘900. Dino Bezziccheri con il suo banco di tessuti al mercato di Sant’Angelo in Lizzola e con la sua Balilla. Prima della guerra mio padre si spostava in bicicletta, una pila di pezze sulla ruota davanti e una sulla ruota dietro, racconta Mario Bezziccheri, figlio di Dino ed Elisa Lapi. Il secondo mezzo di trasporto, già di lusso per i tempi, fu una moto col sidecar, poi arrivò la Balilla ritratta nella foto (raccolta Mario Bezziccheri, Montecchio - Sant’Angelo in Lizzola). Dino Bezziccheri inizia la propria attività di commerciante negli anni Trenta come dipendente di Umberto Lucenti: vicino ai nostri banchi, al mercato di Pesaro, c’era un altro commerciante di Montecchio, Volponi; sempre della nostra zona ricordo D’Angeli, detto Pinén, originario di Bottega di Colbordolo, e Broccoli di Tavullia, continua Mario. Negli anni Quaranta Dino si mette in proprio e, dopo la guerra, ben presto anche il figlio comincia a collaborare all’attività di famiglia: ho iniziato a dodici anni, negli anni Cinquanta. Nel 1962 abbiamo aperto anche il negozio di corso XI Gennaio, tessuti e confezioni, allora a Montecchio le case erano davvero poche. All’epoca tutti noi eravamo impegnati con il negozio, lavoravano qui anche mia madre e mia sorella Marisa, che poi ha aperto un’attività in proprio. Oggi la gestione del negozio, che nel frattempo si è specializzato in biancheria intima e beachwear, è affidata alla terza generazione dei Bezziccheri con Lucia, figlia di Mario e Maria Olivieri. Anche a Mario Bezziccheri la Confcommercio di Pesaro ha consegnato l’Aquila d’oro. In basso: Montelabbate, anni Quaranta del ‘900. Dino Bezziccheri (a sinistra) e, a destra, il commerciante di tessuti Mario Riminucci. Nell’immagine si intravede la fotografa ambulante Emma Parola, affacciata alla porta insieme con il marito (raccolta Anna Capponi Donati, Montelabbate). promemoria_numerodue

Lunedì mandò Martedì da Mercoledì per sapere da Giovedì se era vero che Venerdì aveva detto a Sabato che Domenica era festa**.


Con il buon nome. Luigi Cermatori e la sua Famiglia, nel ricordo della figlia Giuliana Mio padre ha iniziato l’attività di commerciante all’età di 11 anni (1914 - ‘15), con quattro fratelli più piccoli, ereditando una piccola bottega situata nel castello di Tomba (Tavullia), dove si vendeva di tutto: generi alimentari, cappelli, zoccoli, terraglie, articoli per la campagna, ferramenta. Questo miscuglio di roba (come diceva lui) non piaceva a mio padre e non rendeva quanto egli avrebbe voluto, per sfamare tutta la famiglia. Cercò allora di specializzarsi in un settore, quello dei tessuti. Si era fatto un buon nome a Tomba e nei dintorni e così molti fornitori lo aiutarono. Si trasferì nel Borgo, dove comprando una casa in costruzione aprì il negozio in via Roma (attuale Banca dell’Adriatico). Contemporaneamente svolgeva l’attività di ambulante: Pesaro, Sant’Angelo in Lizzola, Montecchio, Cattolica... dapprima con il cavallo, poi con la Balilla, sino all’inizio della guerra aiutato dal fratello Silvio. Finita la guerra, poiché aveva perduto tutto, con poche pezze di stoffa e una motocicletta BSA venne a fare il mercato a Pesaro. Continuò a fare l’ambulante e a gestire il negozio di Tavullia con l’aiuto del fratello Silvio, della moglie Iolanda e della sorella Maria; anche la moglie di Silvio, Maria, collaborava all’attività di famiglia. Nel 1950 comprò una casa a Pesaro, in piazza Garibaldi - viale XI Febbraio e aprì un negozio, pur continuando a lavorare come ambulante, anche se meno assiduamente. Poiché nel commercio bisogna sempre stare al passo coi tempi (diceva), ed essere lungimiranti, al posto della casa con l’aiuto delle banche, la vendita di alcuni appartamenti e il buon nome i fratelli Cermatori edificarono l’attuale palazzo che da loro ha preso il nome, definito all’epoca da un articolo sul “Resto del Carlino” biglietto da visita della città, e inaugurarono un negozio per quei tempi grandioso: era il 1960. Si vendevano ancora solo tessuti. Alcuni anni più tardi Luigi e Silvio ebbero l’autorizzazione anche per la vendita di confezioni e accessori. Purtroppo nel 1963 Silvio morì, e mio padre Luigi rimase a capo delle due famiglie, coadiuvato nell’attività commerciale, qualche anno dopo, da mio fratello Francesco. Si divisero in seguito le attività: “Cermatori classico” e “Cermatori sport”.Tuttora “Cermatori sport” è gestito dagli eredi di Silvio. Pesaro, Maggio 2011 Giuliana Cermatori Cecchini

Anni Cinquanta del ‘900. La bancarella di Luigi e Silvio Cermatori e due immagini della casa che sorgeva dove si trova l’attuale palazzo Cermatori (la foto al centro è datata 1955) (raccolta Giuliana Cermatori Cecchini, Pesaro).

Fonti e tracce

* Udite udite o rustici (cavatina di Dulcamara, Atto I, scena V), da Elisir d’amore (1832), libretto di Felice Romani, musica di Gaetano Donizetti. ** Filastrocca popolare, da Dolores Prato, Giù la piazza non c’è nessuno, Milano 2001. Le testimonianze di Luciano Cecchini e Giuliana Cermatori

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Cecchini, Giorgio Lucenti, Giorgio Valchera e Gianni Pentucci sono state raccolte a Pesaro, tra il Settembre 2010 e il Maggio 2011. La testimonianza di Mario Bezziccheri è stata raccolta a Montecchio - Sant’Angelo in Lizzola, in più conversazioni tra l’Agosto 2008 e il Maggio 2010. Nando Piovaticci, Pesre vechia, Pesaro 1974. promemoria_numerodue


Margherita e il Cotone

oltreconfine | i luoghi, le persone

Attraverso le “bizzarre vie dell’ amicizia” “Promemoria” torna in provincia di Livorno, stavolta a Piombino, nel quartiere Cotone, con i ricordi di Margherita Orlandini di

Margherita Orlandini fotografata nel suo quartiere, il Cotone, a Piombino.

Laura Campagna

Per le insolite e bizzarre vie dell’amicizia qualche mese fa mi è giunto tra le mani il numero zero di “Promemoria”. Ho letto con grande interesse le ricche storie di persone, luoghi, tradizioni, racconti che hanno costruito e disegnato il volto di alcuni paesi attorno a Urbino e Pesaro. Mentre leggevo, poi, il mio pensiero volava ai pomeriggi trascorsi assieme a una cara persona, Margherita, di un quartiere di Piombino in cui vivo da circa un anno e di cui mi è data oggi l’occasione di parlare. Un’unica strada permette l’ingresso in Piombino e d’estate è molto trafficata a motivo dei tanti turisti che, arrivati al porto, si imbarcano per raggiungere la meta ambita: l’isola d’Elba. All’imboccatura di quest’unica strada si è accolti dall’altoforno delle acciaierie per poi costeggiare, senza attraversarlo, il Cotone, quartiere operaio sul cui sfondo si staglia l’industria siderurgica. Lo spettacolo che si presenta lascia sempre attoniti coloro che lo guardano: l’imponenza dell’altoforno, i fumi, le strutture annerite dall’usura, lo spolverino, il pulviscolo nero che, quando soffia lo scirocco, copre con una nebbia tutto intorno. Ed è proprio di questo piccolo angolo apparentemente sfortunato d’Italia che vorrei parlare. Infatti se si va oltre l’apparenza del luogo e si spazza via lo spolverino che oscura la visuale, si può scoprire un tesoro ricco di una storia antica e recente fuori del comune che rende gli abitanti di questo quartiere dei piombinesi un po’ speciali: i “cotonesi” appunto fieri e orgogliosi di essere vissuti e cresciuti in una realtà a un tempo dura ma anche fortemente aggregante. Ma ora lascio la parola a Mar-

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Piombino, il Cotone

Abitata sin dalla preistoria, la località Cotone prende il nome dalla coltivazione dell’omonima pianta, introdotta nella zona dopo la conquista francese, al principio del XIX secolo. Intorno al 1860 furono impiantate le prime industrie siderurgiche, il cui sviluppo finì col determinare l’identità stessa della cittadina.

gherita perché grazie alla sua microstoria ci permette di dischiudere e apprezzare parte di questo tesoro. Margherita è una donna alta, dall’andatura sicura e con una postura dritta; i suoi intensi occhi azzurri e vivaci, il volto fresco e solare fanno intuire il grande amore che ha per la vita, l’energia e la vitalità che la contraddistinguono. È nata ed è sempre vissuta qui al Cotone fin dal 1915, anno della sua nascita. Abita al quarto piano (senza ascensore!) di uno dei palazzi destinati alle famiglie di operai oggi per lo più senegalesi, i quali via via sono subentrati agli italiani nel lavoro alle acciaierie. Nella mente e nel cuore, Margherita conserva i ricordi del quartiere di cui ha visto i tanti cambiamenti. A ragione è considerata la memoria storica del Cotone e con entusiasmo racconta aneddoti del passato, descrive spazi, luoghi, strutture di uno scenario completamente diverso da quello che si guarda oggi. Non c’è nostalgia nelle sue parole, semplicemente constata la realtà che cambia, ne gusta e ne apprezza la positività perché, dice, si va sempre verso il meglio. È interessante, allora, lasciarsi guidare dai suoi racconti e guardare attraverso gli occhi della sua memoria alcuni scorci del quartiere Cotone che con il tempo è cambiato, si è sviluppato, si è ampliato. Quarta di cinque figlie, Margherita era fin da piccola una bambina vivace e turbolenta: Non amavo molto andare a scuola; eravamo tanti in classe, quarantacinque allievi con un’unica maestra e il più delle volte non ri72

uscivo a sentire quello che lei spiegava. Per questo nelle belle giornate mi lasciavo più facilmente attrarre dal mare turchese della spiaggia “ponte d’oro” - distante appena quindici minuti dal quartiere - più che seguire le lezioni! Non andò oltre la seconda elementare, ma l’insuccesso scolastico fu per Margherita la buona occasione per cominciare a dedicarsi alla sua grande passione per il cucito e il ricamo. Era specializzata soprattutto in fiocchi e scolli tanto che nel quartiere aveva lanciato una vera e propria moda: avere lo “scollo a Margherita” era un privilegio e motivo di apprezzamento. Ancora oggi ama fare dei lavoretti di sartoria per sé o per chi tra i suoi vicini ne ha bisogno. Il suo “regno di lavoro” si trova in una stanza dell’appartamento in cui vive attrezzato con tutto il necessario. Una finestra della stanza si affaccia laddove un tempo, spensierata, amava correre, verso la spiaggia “ponte d’oro”, ma che ora non esiste più perché ha ceduto il posto all’ampliamento delle acciaierie… Alla finestra, con la sua solita positività, dice: è vero il paesaggio è cambiato, ma almeno si è dato lavoro ad altra gente perché, come mi diceva sempre il mio babbo: il fumo è pane e se c’è il fumo le ciminiere sono accese, gli operai guadagnano e possano portare avanti la famiglia! Margherita, come tanti altri anziani, vede nel fumo delle ciminiere prima di tutto il segno di un lavoro per molte famiglie bisopromemoria_numerodue


In alto, il quartiere Cotone, oggi (foto Laura Campagna, Piombino). Nella pagina precedente: anni Venti del ‘900. Piombino, Veduta Cotone e Cantiere navale (cartolina, raccolta privata, Piombino). Nella pagina seguente, la statua della Madonna del Rosario, alla quale è intitolata la parrocchia del Cotone (foto Fabio Cento, Piombino).

gnose, più che la fonte di inquinamento. Oggi le acciaierie ricoprono dieci chilometri del litorale piombinese a motivo di un aumento di produzione degli anni ’60 , ma durante gli anni della seconda guerra mondiale le industrie, come la maggior parte della città di Piombino, furono pesantemente bombardate. Negli anni di guerra, infatti, il lavoro di produzione di acciaio venne convertito in produzione di armi. Per questo lo stabilimento si trovò ad essere un bersaglio privilegiato di attacchi aerei. Dunque quello che oggi appare come uno spettacolo desolante di folle inquinamento e di sconvolgente bruttura, al termine del conflitto mondiale era simbolo di ripresa e di un nuovo inizio di vita e lavoro. Nel 1940 fu dichiarato ufficialmente che l’Italia sarebbe entrata in guerra a fianco della Germania. Noi gente semplice non sapevamo niente: ci siamo trovati in mezzo a una guerra che non avevamo cercato, di cui non sapevamo le motivazioni e che alla fine si rivelò una guerra di cattiveria più che una guerra tra stati. Margherita ebbe però la fortuna, rara per le donne di quegli anni, di avere accanto a sé il marito Mario. Inizialmente egli dovette partire per la Grecia proprio pochi mesi dopo le loro nozze, ma una volta rientrato fu chiamato in fabbrica perché avevano bisogno di manodopera per la produzione di armi. Nel quotidiano anche se in alcuni momenti si conduceva una vita apparentemente normale di fondo c’era un sentimento di paura che abitava tra la gente, soprattutto al termine del conflitto quando l’Italia si alleò con gli americani e i tedeschi si mostrarono duri e cattivi con gli italiani. Spesso sorride quando sente la gente alla fermata dell’autobus che si lamenta per la difficoltà economica di questi giorni e allora con la dolcezza e l’autorevolezza dei suoi anni ribatte dicendo: Coraggio se ce l’abbiamo fatta noi che siamo arrivati a non avere nulla da mangiare e per giorni dovevamo sopportare i crampi della fame, si può attraversare anche questo periodo dove, in realtà, manchiamo del superfluo ma non dell’essenziale! Ogni giorno Piombino veniva ripetutamente bombardata e oltre al dispiacere di vedere demolire il proprio quartiere Margherita ricorda con grande desolazione la distruzione pressoché completa della chiesa del Cotone. Questa era stata fortemente voluta da padre Giustino Senni, frate francescano che ancora oggi viene ricordato con grande affetto e commozione per la

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sua umanità ma anche per la sua risolutezza di carattere. Egli si prodigò sempre per il bene di tutti ma soprattutto per i poveri e le sue parole, unite ad azioni concrete di carità, superarono la diffidenza di molti in quella città che, per la sua lunga tradizione socialista, vedeva nella chiesa cattolica ufficiale la grande complice dei padroni e del Fascio. Padre Giustino giocò un ruolo fondamentale per la comunità del Cotone nel rimediare alla povertà non solo materiale (e migliorare così le condizioni igienico - sanitarie), ma anche a quella spirituale. I lavori per la nuova chiesa iniziarono nel 1923 e nel progetto era incluso anche un asilo che potesse accogliere i bambini degli operai delle acciaierie. Purtroppo padre Giustino non poté vedere la chiesa ultimata (era il 1929) perché morì qualche mese prima di polmonite lancinante; dalle foto che immortalano i suoi funerali appare quanto il cordoglio per la sua morte avesse toccato l’intera città. Della chiesa voluta e fatta costruire da padre Giustino non rimane più nulla salvo una statua della Madonna. Ricordo che ogni giorno mi affidavo a lei nelle mie preghiere perché risparmiasse la mia casa e custodisse i miei familiari. Dai bombardamenti si salvarono alcuni palazzi tra cui anche il mio ma la chiesa andò completamente distrutta salvandosi proprio la Madonna a cui rivolgevo le mie preghiere e che ancora oggi non smetto di ringraziare. Una delle conseguenze negative della guerra di cui Margherita si dispiace è la mancanza di quel senso di fratellanza che si era intessuta nel quartiere: Eravamo come una grande famiglia, non si chiudevano le porte di casa (l’unica serratura poteva essere una sedia di legno appoggiata

alla porta la sera prima di coricarsi!), così chi voleva poteva passare per chiedere qualcosa o semplicemente per andare a salutare e scambiare due chiacchiere. Se poi qualcuno si sentiva male ci si prodigava ad aiutare la famiglia: c’era chi portava i figli a scuola, chi preparava da mangiare, chi puliva la casa… i vicini erano semplicemente un prolungamento della propria famiglia. Dopo il crollo della chiesa se ne costruì una nuova molto più tardi, nel 1965, e in una zona diversa da quella di prima; il Cotone, infatti, come dicevamo, è sempre stata considerata la roccaforte della sinistra a Piombino e per questo, lì per lì, nessuno sentì la necessità di edificare una chiesa per non rischiare di trovarsi di fronte a una possibile avversaria della classe operaia. Una svolta decisamente nuova per il quartiere fu l’arrivo di due missionari nel 1985: padre Carlo Uccelli (della famiglia dei Missionari Saveriani) ed Emma Gremmo (missionaria laica), dopo quindici anni di vita missionaria in terra d’Africa, decisero di rientrare in Italia per aprire un centro di formazione alla vita missionaria e scelsero questo quartiere e le sue caratteristiche per dar vita al loro progetto e, nello stesso tempo, per ricostruire una nuova e viva comunità cristiana laddove non c’era nulla. Proprio quest’anno ricorrono i venticinque anni del loro arrivo qui al Cotone e durante la messa di ringraziamento per il cammino fatto insieme, Margherita è intervenuta rievocando gli inizi: Quando arrivarono padre Carlo ed Emma in chiesa alla domenica eravamo soltanto in quattro donne. E invece guardate oggi: si vede una vera e propria comunità! Piano piano grazie alla loro perseveranza e alla loro umanità sono riusciti a conquistarsi la simpatia del quartiere e non solo! Come ogni anziano colmo di esperienze di vita, Margherita avrebbe da raccontare tanti altri episodi; ho proposto solo questi perché possiate farvi l’idea che anche a Piombino c’è molto di più oltre al porto che conduce all’isola d’Elba. promemoria_numerodue


esercizi di memoria

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la memoria degli altri | 1 Il territorio dei cinque Comuni di Pian del Bruscolo ospita poco meno di quattromila persone provenienti da paesi esteri, secondo una percentuale leggermente superiore al 10% del totale dei residenti, in linea con i dati nazionali e provinciali. “Promemoria” dedica loro questo spazio: storie di integrazio-

ne e difficoltà, di affiatamento e ricerca di un’armonia spesso lontana, punti di vista differenti e posizioni destinate a far discutere. In tutti i casi, storie che invitano ad alzare lo sguardo dal nostro consueto panorama per provare a metterci, per un istante almeno, nei panni degli altri. conversazioni di

Wahiba Djemil, Montelabbate

Confesso di avere alcune aspettative quando entro in casa di Wahiba, Leila di soprannome. Non l’ho mai conosciuta di persona, ma ho conosciuto sua figlia, Samara, una bimbetta tutta riccia che frequenta la scuola materna di Montelabbate. La piccola, pur essendo nata con un grave problema di udito, curato con successo, è vivace, curiosa, allegra, “svelta come la polvere”. Questo mi aveva indotto a immaginare una mamma felice, soddisfatta, soprattutto dopo la nascita di un secondo figlio, stavolta un maschietto. Leila è in Italia dal 2006, arrivata per ricongiungimento famigliare con il marito Noureddine, operaio edile. In Algeria, sua patria d’origine, viveva ad Annaba, una grande città sul mare, dove si è laureata, aveva un ottimo impiego come direttrice commerciale presso la sede locale della ditta che produce una nota bevanda, aveva amici e famiglia. Il primo impatto con il nostro territorio non è stato dei migliori, certamente lo sradicamento dalle proprie origini non è mai indolore. Quello che accade a Leila nel tempo trascorso dal suo arrivo, però, non modifica la sua percezione delle cose, soprattutto non sopisce il suo desiderio di tornare a casa. Il primo problema che incontra è l’integrazione, difficile e, secondo il suo parere, mai avvenuta: probabilmente il passare da una grande città a un piccolo borgo non ha semplificato le cose. Le difficoltà più grosse però arrivano con la nascita della sua prima bimba, con la scoperta del suo problema. Sarebbe complicato per qualunque madre, ma credo di poter solo lontanamente immaginare la sensazione che deve aver provato, sola e lontana, straniera e inesperta. La sensazione che mi trasmette mentre mi racconta tutto 76

Antonella Polei

ciò è quella di una donna chiusa in una gabbia, con tutte le forze e la volontà di uscirne, ma senza nessuno che le indichi la via per farlo. Leila accusa di ciò il mondo che la circonda, fatto di persone, istituzioni, personale medico, conoscenti..., che a suo dire l’hanno lasciata sola, senza averle indicato quali fossero i diritti dei quali poteva godere, non lei, ma la sua piccola. Leila non chiede che qualcuno faccia per lei ciò che deve essere fatto, bensì che qualcuno, una qualche istituzione, si ricordi di loro non solo quando devono essere recapitate multe, ma anche quando c’è la possibilità di accedere a dei servizi. Nonostante tutto compie un enorme lavoro con la figlia, che, come detto, è serena e vivace, conduce una vita normale, da bambina, non fosse per il fatto che le sue amichette rimangono tali solo fino al cancello dell’asilo, che scherzosamente Leila chiama la frontiera. Dopo di che, anche incontrandosi al parco o in luoghi simili, non ci si scambia mai più di un cortese saluto. Leila ora non lavora, le piacerebbe, ma essendo laureata non se la sente di impiegarsi come colf o badante, magari neanche in regola, perchè non crede che una donna algerina laureata che si impiega in queste mansioni una volta qui in Italia, possa dignitosamente rivolgersi ai genitori in patria dicendo sì, qui lavoro. Non vedo come si possa darle torto. L’incontro con questa giovane donna mi lascia pensierosa, tanto che passo diverse ore a elaborare quello che ci siamo dette. Quelle colline che a me appaiono come il sinuoso confine di dolci tramonti, per lei sono diventate una prigione, o forse ancor peggio, dato che, come mi conferma diverse volte nel corso della conversazione, non è mai riuscita a non sentirsi straniera. Dunque occorre riflettere su questa esperienza, che, come la stessa Leila dice, anche tanti altri si trovano ad affrontare, tanti italiani, anche, tiene a specificare. Lascio perciò sospeso ogni giudizio, ogni valutazione in merito a quanto Leila mi ha raccontato, con la speranza che questo nostro dolce e accogliente territorio lo sia per tutti e per merito di tutti. A buon intenditor... promemoria_numerodue


Incontro la signora Immacolata, Tina come preferisce farsi chiamare, un pomeriggio, in un caffè. Incontro lei ed è come se incontrassi la sua famiglia. Non ci conosciamo e per iniziare la nostra conversazione le chiedo di parlarmi un po’ di lei, della sua storia. Poche brevi notizie: nata a Napoli, dove frequenta l’istituto magistrale, si sposa a 21 anni con un ragazzo di Bacoli, paese sul mare, poco distante dalla sua città; ha due figlie, una di 21 e l’altra di 25 anni, laureanda. Mi racconta il suo arrivo a Pesaro, a Borgo Massano per la precisione, dove risiede il fratello, del fortuito incontro con una ditta locale, dove il marito trova lavoro immediatamente, stanco dell’impiego che aveva a Napoli e che non gli lasciava tempo per la famiglia. La famiglia. Credo di dover interrompere qui il racconto per soffermarmi su quello che mi sembra l’argomento cruciale della nostra conversazione. Tina ha dei begli occhi azzurri e non è banale dire che si accendono - mi sembra prendano il colore del mare che mi ha raccontato, dove ha conosciuto il marito solo quando iniziamo a parlare della famiglia. Non di cose concrete, ma della famiglia come la intende lei, quella che a Napoli si riuniva, numerosa, rumorosa immagino, allegra, unita, in casa sua, per pranzare ogni domenica come fosse una festa; questa è la differenza più grande. In realtà Tina è passata da una grande città a un piccolo borgo, da un lavoro proprio ad un lavoro come dipendente, da una città del sud a un paesino del centro nord, con tutto ciò che questo passaggio comporta, ma ognuno di questi cambiamenti è stato affrontato e superato senza troppa fatica da tutta la famiglia. Quello che è veramente diverso è il rapporto con la famiglia, andare a cena la vigilia di Natale con il proprio ragazzo e basta è una tristezza; la famiglia, specie durante le feste, sta unita con gioia, con la voglia di ritrovarsi e di passare il tempo assieme. La seconda grande questione che affrontiamo chiacchierando è proprio quella del tempo, che nella visione

Eppure, il cuore e la mente ci dicono che per noi la vera festa è fatta di altro, di cose che non si pesano in quantità ma in qualità, che non si misurano in estensione ma in profondità: incontri autentici, momenti di condivisione, equilibri di silenzi e parole, tempo offerto all´altro nella gratuità. Enzo Bianchi, Il nostro tempo per gli altri, “la Repubblica”, 23 Dicembre 2010

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di Tina è strettamente legata alla gestione del nucleo famigliare. Il ritmo che teniamo qui, con il lavoro, la necessità di avere due stipendi in una famiglia, la pausa pranzo di un’ora, ecc.ecc... hanno molto modificato il rapporto della signora Tina con la sua famiglia, non nel senso qualitativo del termine, ma in quello prettamente quantitativo. A Napoli la vita è meno cara, i ritmi sono meno serrati, le donne hanno il tempo per dedicarsi alla cura ed alla crescita dei figli, lì non succederebbe mai che un bambino di sette anni fosse lasciato solo a casa, anche per poco tempo. Orgogliosamente Tina mi dice che una delle sue figlie, la maggiore, apprezza e mantiene le tradizioni famigliari: ha capito il valore della riunione, della condivisione del tempo con la famiglia allargata, del godersi questo tempo con la serenità, con la tranquillità, con la consapevolezza che questo tempo non è sprecato. Quando siamo giù, quando mia figlia è giù, anche per telefono la sento più rilassata, non deve sparecchiare la tavola mentre ancora manda giù l’ultimo boccone!!! E’ una questione di abitudine e di necessità, l’avere o non avere tempo, e paradossalmente è una questione di ricchezza o meno, il fuggire da un futuro senza prospettive per arrivare dove la ricchezza economica non concede tempo al tempo, e tempo alla famiglia. Tina non lo dice mai direttamente, ma è qui per permettere alle figlie di avere una possibilità, una scelta. Quello che dice chiaramente è che tornerebbe a Napoli anche domani, se il lavoro lo permettesse. Ma così non è, anzi, mentre lei e il marito sono stati fortunati, e di conseguenza le sue figlie, tanti fra i suoi nipoti sono intrappolati, questo mi lascia capire, giù, dove non c’è lavoro. Così terminiamo il nostro incontro, chiacchierando della crisi, del lavoro, ciò di cui si parla davanti a un caffè, ma ringrazio Tina, per la suggestione dei pranzi in famiglia dei quali mi ha permesso di sentire l’odore e l’allegria, e per avermi dimostrato come l’egoismo e l’edonismo dei quali tendiamo ad essere vittime possono essere superati con cose semplici: per esempio, cucinando per i propri cari.

Immacolata di

Caro, Padiglione di Tavullia

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parole nel tempo

Nello Barberini

in cucina: le parole, le ricette di

Miss Nettle

L a mattra con la panara, le furcine, la battlarda. E la Salsa all’erba cipollina, la Zuppa coi fagioli. Alla scoperta di una vecchia cucina con Nello Barberini, segretario comunale

Nello Barberini, segretario comunale. Segretario comunale a Gradara, Montegrimano, Frontone, Carpegna, Fratterosa e, infine, a Sant’Angelo in Lizzola. Segretario comunale che in quarant’anni di attività ha guidato con la sua esperienza più d’un sindaco, sorvegliando saggiamente il buon andamento della vita amministrativa. Assai lontano dal ruolo manageriale che la legge assegna da qualche anno a questa figura, il segretario comunale (il Segretario Comunale, anzi) fino a non molti anni fa rappresentava il vero e proprio volto pubblico del Comune: presente nelle amministrazioni locali sin dalla nascita dello Stato italiano, aveva per compito istituzionale la garanzia della legalità, quasi una sorta di notaio del Comune o della Provincia1. In più, specie nei piccoli comuni come quelli nei quali fu impiegato Nello Barberini, il segretario era un punto di riferimento per gli stessi cittadini, che a lui si rivolgevano per conoscere l’andamento di una pratica, per segnalare disservizi, o anche solo per scrivere una lettera o farsi spiegare qualche documento dall’oscura sintassi. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che ancora nell’Italia degli anni Cinquanta l’Italia viveva soprattutto di agricoltura e poteva permettersi di avere il 59,2 per cento della popolazione senza titolo di studio e per metà totalmente analfabeta. Andava in onda in quegli anni una trasmissione televisiva dal titolo Non è mai troppo tardi. Il conduttore, Alberto Manzi, insegnava agli spettatori a leggere e a scrivere e si conta che, grazie alle 78

sue lezioni, quasi un milione e mezzo di persone abbiano conseguito la licenza elementare2. Nato a Montalfoglio di San Lorenzo in Campo, antico luogo di feste e riposo dei signori della zona, Nello Barberini (1921 - 2001) si trasferì a Sant’Angelo in Lizzola nel 1971, insieme con la famiglia: la moglie Tea Mezzaluna, i figli Giovanni (per due legislature sindaco di Monteciccardo, primo presidente dell’Unione dei Comuni e successivamente assessore alla cultura della stessa Unione) e Loretta (insegnante di scuola media), oggi residenti rispettivamente a Monteciccardo e Sant’Angelo in Lizzola. Prese servizio a Sant’Angelo nel ’69, ricorda la signora Tea, acutissimi occhi azzurri che guardano la vita con un sorriso, mentre ci offre un generoso trancio di crescia di Pasqua, e vi rimase fino alla pensione, negli anni Ottanta. Tra i sindaci affiancati da Nello Barberini vi fu anche Nazzareno Guidi, a capo della Giunta Comunale di Sant’Angelo dal 1970 al 1975, la cui testimonianza è apparsa sul numero uno di “Promemoria”: davvero per me Barberini fu un aiuto insostituibile con la sua cultura e la sua professionalità ha affermato Guidi in quell’occasione. promemoria_numerodue


Con la sua grafia ariosa e ben leggibile Nello Barberini non ha riempito solo i registri delle delibere comunali; nell’appartamento santangiolese di piazza Perticari la signora Tea conserva una miriade di foglietti sui quali l’ingegno curioso del marito

ha appuntato vecchi modi di dire, ricette, minuzie quotidiane d’ogni sorta. Le parole e i sapori della memoria si riuniscono su questo numero della nostra rivista e, insieme con Nello Barberini, entriamo a scoprire i segreti di una vecchia cucina.

In Cucina La mattra con la panara La madia con la spianatoia dove le donne facevano il pane e la pasta, e dove si mangiava anche la pulenta (polenta) tutti insieme intorno al tavolino [dove la spianatoia veniva trasferita dopo avervi versato sopra la polenta]. Il pane si faceva ogni quindici o venti giorni, dopo lievitato si portava a cuocere a Montalfoglio nel forno comunale.

La battlarda Mobiletto tipo comodino, dove alzato il coperchio c’era [un piano fatto con il] il legno di merollo (quercia) molto duro per battere il lardo.

Il sciacquatore Era l’unico lavandino della casa dove oltre a lavarci i piatti, bicchieri ecc. ci si lavava anche le mani e la faccia con un catino (la catinella), prendendo l’acqua dagli orci (recipienti di terracotta che si riempivano al pozzo). Il sciuttamano era di solito appeso a un chiodo vicino al sciacquatore.

Il camino con la rola Piano di mattoni sporgente dove si faceva il foco anche per cucinare con le pigne e tigami di terracotta. Attaccato a una catena si teneva il caldaro (paiolo) per cuocere la pasta, la verdura e fare la pulenta. D’inverno per scaldarsi un po’ si stava tutti intorno alla rola.

Le furcine (forchette), le cucchiare (i cucchiai) e i curtelli (coltelli) si tenevano nel cassetto del tavolino. I tigami (tegami) dentro la credenza, nella parte bassa; in alto si tenevano i bicchieri con la bocaletta (boccale) per il vino e il petriolo (imbuto) che serviva per riempire qualche buttija (bottiglia).

Il fuoco aveva una sacralità maggiore del pane: questo era spuntato dalla terra , quello caduto dal cielo. Il fuoco non era quello dei fornelli, era quello sull’ arola sotto la grande cappa. Il libro di lettura diceva focolare, noi dicevamo arola; non sapevo che arola era una piccola ara , ma una percezione

d’altare mi sfiorava. Dolores Prato, Giù la piazza non c’è nessuno, 2001

inviaci anche tu i detti, i proverbi e le ricette della tua tradizione: li pubblicheremo sui prossimi numeri della rivista

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il sapore dei ricordi Salsa all’erba cipollina

Zuppa saporita

Ingredienti per quattro persone gr. 30 di burro; 1 dl di vino bianco; ¼ di litro di panna da cucina; gr. 50 di erba cipollina; sale, pepe bianco Preparazione Nettare l’erba cipollina, scottarla in acqua salata bollente, scolarla e sminuzzarla. Metterla in un tegame, unire la panna e cuocere a fuoco vivo mescolando di tanto in tanto. In un pentolino a parte far ridurre il vino a circa tre cucchiai e aggiungerlo all’erba cipollina con la panna, amalgamando bene.Terminata la cottura mettere il composto in un mixer e frullare per alcuni minuti. Prima di servire la salsa, scaldarla e sciogliervi il burro.

Ingredienti per quattro persone gr. 250 di funghi misti (per esempio, champignon e porcini); 1 patata; 1 cipolla; ½ bicchiere di panna da cucina; ½ l di brodo (anche di dado); latte; olio extravergine di oliva; sale, pepe; 4 fette di pane bianco; 2 cucchiai di parmigiano grattugiato Preparazione Mettere a bagno i funghi in un po’ di latte tiepido. Sbucciare la cipolla, affettarla e farla insaporire con l’olio. Sgocciolare i funghi, tritarli e unirli alla cipolla. Lasciar insaporire, quindi aggiungere una patata lessa passata allo schiacciapatate. Salare, incorporare un po’ di panna da cucina e far sobbollire per 5 minuti.Aggiungere due bicchieri di brodo e far proseguire la cottura per 30 minuti. Nel frattempo tostare le fette di pane e sistemarle sul fondo dei piatti individuali. Quando la zuppa è pronta, versarla sul pane, spolverizzare di parmigiano grattugiato e servire in tavola.

Zuppa contadina Ingredienti per quattro persone gr. 300 di fagioli (borlotti o cannellini); gr. 30 di prosciutto crudo tagliato in una sola fetta; 1 cipolla; 1 spicchio d’aglio; 1 costa di sedano; ½ cavolo verza; 1 patata; 1 barattolo di pomodori pelati; olio extravergine di oliva; sale, pepe Preparazione Cuocere i fagioli. Rosolare il prosciutto crudo, la cipolla, l’aglio e il sedano tritati in una pentola con un po’ d’olio. Poi unire la verza tagliata a striscioline e una patata a pezzetti. Salare, pepare e aggiungere i pomodori pelati. Cuocere per 30 minuti, unendo un po’ dell’acqua di cottura dei fagioli. Aggiungere anche i fagioli, metà interi e metà passati, lasciar bollire il tutto per altri 10 minuti e servire in tavola.

1943, Nello Barberini su una moto “Indian”, durante la seconda guerra mondiale; sullo sfondo: gli appunti di Nello Barberini su parole e ricette. A pagina 78 in alto, San Lorenzo in Campo, 1942.Tea Mezzaluna e Nello Barberini ai tempi del loro fidanzamento; in basso: 1943-’44. Nello Barberini insieme ad alcuni commilitoni (foto “Vincere”, L’Aquila). A pagina 79: Castelleone di Suasa, primi anni Quaranta. Nello Barberini (secondo da sinistra) insieme con un gruppo di partigiani di San Lorenzo in Campo. La fotografia è stata scattata nella ‘villa del Principe’ (fattoria Ruspoli), dove Giovanni Barberini, padre di Nello, era fattore (raccolta Tea Mezzaluna Barberini, Sant’Angelo in Lizzola).

Fonti e tracce

Conversazioni con Tea Mezzaluna Barberini, Maria Mezzaluna e Giovanni Barberini, Sant’Angelo in Lizzola, Aprile - Maggio 2011. 1 Intervista a un segretario comunale, da http://robskipper.blogspot. com/2007/11/intervista-un-segretario-comunale.html (3 Maggio 2011, 11.45); “Segretari comunali”, da http://patrimonio.

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archiviodistatonapoli.it/h3/h3.exe/adam.asna_prefettura/fpage02_02_01#03 (3 Maggio 2011, 10). 2 Tecla Biancolatte, In Italia un milione di analfabeti ma “non è mai troppo tardi” da “la Repubblica”, 27 Ottobre 2006 (estratto da http://www.repubblica.it/2006/10/sezioni/scuola_e_universita/ servizi/educazione-permanente/educazione-permanente/educazione-permanente.html; 3 Maggio 2011, 10.30). promemoria_numerodue


la memoria delle cose

L’uomo dei sette capanni.

Corrado Tomassoli Intervista di Sandro Tontardini Vicino al Mulino di Pontevecchio, un signore estroso e gentile raccoglie migliaia di oggetti del tempo passato.

Ecco un ‘assaggio’ della sua collezione Corrado Tomassoli, anni 72, nasce a Pontevecchio e vive tuttora vicino a questo piccolissimo borgo, conosciuto per la presenza di un importante mulino ad acqua e per i ruderi di un suggestivo ponte romanico distrutto in parte nella seconda guerra mondiale. Il mulino, costruito nel 1560 e gli edifici annessi sono stati acquistati e restaurati grazie all’intervento congiunto di tre enti pubblici, Provincia di Pesaro e Urbino, Comune di Colbordolo e ERAP, che in collaborazione con il privato hanno ridato vita ad un edificio in abbandono, dandogli una nuova funzione sociale culturale ed economica. È tuttora in corso il ripristino della turbina per la produzione dell’energia elettrica che sfrutterà come alcuni anni fa la portata d’acqua del fiume Foglia. Chi è Corrado Tomassoli? Per la maggior parte degli abitanti di Colbordolo è il figlio del fabbro (Pipetta) di Pontevecchio, colui che raccoglie le cose vecchie. Per me invece sino a non molti anni fa era un distinto signore con la barba che si aggirava per le varie manifestazioni organizzate dall’amministrazione comunale con una macchina fotografica biottica “tipo Rollei”. Non conoscevo Corrado come un collezionista di vecchi oggetti che molti pensano siano legati al solo filone della civiltà contadina. Preceduto da una telefonata, incontro Corrado Tomassoli il 22 Aprile nelle prime ore del pomeriggio. Corra-

do mi aspetta in uno dei suoi capanni, nel suo angolo relax dove si trovano una comoda sedia a sdraio e un televisore dotato di un rudimentale ma ingegnoso telecomando, una piccola canna d’India che gli permette di modificare le funzioni del televisore senza alzarsi dalla sdraio. Dopo alcune battute ci spostiamo all’interno della sua abitazione e di fronte ad una tazzina di caffè inizia la mia intervista. Che scuole hai fatto? Ho frequentato la scuola di Arti e mestieri per il settore meccanico in Urbino. Ho successivamente dato l’esame di ammissione per poter frequentare l’ITI “Montani” di Fermo. Purtroppo all’esame scritto di italiano sono stato bocciato. Ho dovuto quindi frequentare sempre nello stesso istituto le scuole tecniche per due anni, riuscendo così ad essere ammesso al secondo anno. Ero abbastanza bravo soprattutto nei primi anni di studio, tant’è vero che nei primi due anni ebbi l’encomio solenne del Preside e l’abbonamento al “Touring Club”(cosa che veniva riservata ai due migliori allievi di ogni corso). Al 3° anno ebbi invece in dono un manuale “Hoepli” con dedica dal mio insegnante di disegno tecnico (libro che ancora conservo come una reliquia). A Fermo abitavo proprio sopra un bar e giocavo spesso a biliardo, una passione che ancora mantengo. Quindi... Raccontami... Ho cominciato a non andare a scuola e a frequentare assiduamente il bar anche la mattina, sono stato così rimandato in tutte le materie a ottobre [ai tempi era possibile]. Nel frattempo sono dovuto partire per il militare, assolti gli obblighi di leva ho ripreso la scuola e nei tempi

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normali ho concluso il corso di studi acquisendo il diploma di perito Elettrotecnico. Terminati gli studi che lavoro hai fatto? Conseguito il diploma ho iniziato ad insegnare ad Urbino all’INAPLI [attualmente scuola gestita direttamente dalla Provincia]. Insegnavo con passione agli apprendisti che non sempre avevano troppa voglia di studiare. Anche se oggi non sembra ero un po’ ribelle, e per incompatibilità di carattere con il direttore della scuola mi sono trasferito a Pesaro nella stessa scuola che nel frattempo era passata sotto la direzione della Regione. Per tanti anni ho insegnato alla sezione dei meccanici, cultura civica, disegno tecnico, antinfortunistica e tecnologia. Nel 1982 sono passato all’ufficio tecnico e programmazione per il settore meccanico, dal 1985 ho ricoperto poi anche il ruolo di ispettore responsabile per la gestione dei corsi del fondo sociale europeo. Come ti sei avvicinato alla raccolta degli oggetti? Frequentavo per il lavoro di mio padre i venditori di ferro vecchio, i più anziani forse si ricordano El Rosc de Pesre [il Rosso di Pesaro] ma non nutrivo all’inizio nessuna particolare passione, tieni conto che alla morte di mio padre mi ero addirittura disfatto delle attrezzature classiche da fabbro, forgia, incudine…, avevo conservato solo un vecchio trapano. Dal 1975 al 1988 possedevo solo oggetti legati a mio padre, poi, visitando musei diversi, frequentando i mercatini, ma soprattutto insieme ad un amico quando uscivo da scuola mi recavo presso la ditta Marcello Cesarini che raccoglieva i materiali ferrosi e la carta, e tra i tanti mucchi di cose gettate ho cominciato a raccogliere un po’ di tutto. 82

Vecchi documenti, libri, ricordo che questi potevano essere acquistati a chili, mi sembra mille lire al chilogrammo. In quegli anni tutto era a buon mercato e tantissime cose che io prendevo non erano minimamente considerate. Guardando la quantità di materiale raccolto nel tempo è logico pensare che avrai speso un patrimonio. Si e no. Devi sapere che nel 1989 mi succede un episodio particolare che dà una svolta definitiva alla mia raccolta. Mia madre entra in coma, viene ricoverata con la Croce rossa [l’ambulanza] a Pesaro. Mentre con comprensibile ansia seguivo l’ambulanza dicevo fra me: se mia madre si salva io smetto di fumare. Così fortunatamente accade, mia madre si salva ed io ho smesso di fumare anche se per tanti anni tenevo sempre in bocca un bocchino e quindi sembrava ai più che in realtà fossi ancora un accanito fumatore. All’epoca io fumavo tantissimo, più di tre pacchi di sigarette al giorno. Smesso di fumare decisi quindi di investire il corrispettivo delle spese delle sigarette, e non solo, nell’acquisto di questi vecchi oggetti che oggi sono un patrimonio senza una fissa dimora. A onor del vero occorre ricordare che una parte di questo materiale che tu vedi mi è stato regalato. Sto preparando un elenco dei donatori anche per ringraziarli della loro generosità. Oggi le cose sono più complicate, tutto costa di più e alpromemoria_numerodue


cuni venditori nei mercatini alzano artificiosamente il prezzo, spesso e volentieri non sapendo nemmeno cosa vendono. Dove tieni i tuoi oggetti? Tutti gli oggetti posseduti sono conservati in una serie di capanni che ho appositamente costruito, riutilizzando materiali di scarto. Sta di fatto che nel tempo questi capanni sono diventati sei o sette e qui, in maniera non proprio scientifica, ma certamente funzionale trovano posto tutte queste cose.Tra i vari ambienti esiste una specie di cortile in parte coperto in parte a cielo aperto, dove passo parecchio tempo a riparare e rendere perfettamente funzionante tutto il materiale. Cosa hai raccolto nel tempo? Di tutto e di più: foto, la maggior parte eseguite personalmente, e riproduzioni di immagini del passato interessanti e significative, legate al territorio e ai suoi personaggi; pezzi legati alla civiltà contadina e all’artigianato, dai classici aratri agli utensili più importanti per il lavoro; libri, anni fa leggevo tantissimo e di tutto, anche libri di letteratura, fumetti, libri di storia locale, una raccolta consistente i cui particolari faccio fatica a ricordare. La maggior parte del materiale è stato raccolto nel periodo tra il 1990 e il 1997. Dicevi prima che hai letto tanti libri, quali ricordi con maggior piacere? Quelli relativi alla letteratura russa. Ci sono degli oggetti a cui ti senti particolarmente legato e che non vorresti cedere a nessuno? Sono legato a tutti, anche perché a volte la ricerca di un oggetto può richiedere tanto tempo, fortuna, intuito e capacità di trattare con il venditore.

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Quale è stato il primo oggetto che hai raccolto? Una piccola stufa in ghisa e successivamente un attrezzo da pasticcere dotato di un meccanismo particolare che serviva per tagliare velocemente con una certa precisione la pasta. Cosa pensi di fare di tutto questo materiale accumulato? È evidente, vorrei che questo materiale o almeno una parte significativa potesse essere visibile in un museo. Devi sapere che quando venni a conoscenza del fatto che Ezio Marchionni proprietario del mulino, lo voleva vendere, mi adoperai affinché questo stabile potesse accogliere il mio materiale, purtroppo non sono stato fortunato, la destinazione finale è stata un’altra e io ancora, con grande rammarico sono alla ricerca di qualcuno che possa prendere in mano la mia situazione. L’intervista è finita e propongo a Corrado di andare a scegliere alcuni oggetti della sua ricca collezione. Girando tra i vari locali alla ricerca degli oggetti che si vorrebbe esporre in occasione della presentazione di questa rivista proprio nel Mulino di Pontevecchio, mi rendo ulteriormente conto che, anche se non classificati scientificamente, anche se alcuni necessitano di restauri, siamo in presenza di un patrimonio di valore inestimabile, di fronte ad una “Storia delle cose”. Storia della progettazione, delle tecniche, delle tecnologie, del commercio, dell’industria, del lavoro. “Storie” diverse che hanno accompagnato la nascita e la vita di questi meravigliosi oggetti del passato.


n puoi ggetti che no Se hai degli o gettare, che non vuoi a m re va er cons li ado Tomasso contatta Corr ), di Colbordolo (Pontevecchio 06 allo 0721 4954

Le fotografie che illustrano l’intervista a Corrado Tomassoli sono state scattate da Cristina Ortolani l’11 Maggio 2011.

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capitanomiocapitano

giocavano di

Gianluca Rossini

“Nonno ma te a cosa giocavi da piccolo?” Incanto, entusiasmo e fantasia nei divertimenti di qualche anno fa

Nonno ma te a cosa giocavi da piccolo se non avevi né il Nintendo né la Playstation? La domanda che ho udito un giorno, all’interno di un centro commerciale, rivolta da un bimbo al nonno, proprio di fronte alla vetrina dove erano esposti questi moderni giocattoli, mi ha dato l’idea per questo mio piccolo articolo.Vari autori hanno scritto numerosi saggi sul ruolo del gioco e del giocattolo nella storia, saggi facilmente reperibili nelle biblioteche e nelle librerie. Si tratta di un argomento serio, degno di approfonditi studi sociologici, in quanto il gioco (e di conseguenza lo strumento giocattolo) è forse la manifestazione più spontanea e insieme più intima delle potenzialità fisiche e psicologiche dell’essere umano. I giochi ci aiutano a crescere e a formare il nostro carattere, sono una prima forma di relazione e interazione, un modo di evadere e di liberare il nostro spirito. Poi l’età adulta ci costringe nei limiti delle convenzioni sociali e della realtà quotidiana distruggendo, quasi sempre definitivamente, l’incanto del gioco. Ho provato a chiedere a numerose persone di varie età cosa si ricordavano dei loro giochi e dei loro giocattoli. Devo dire che tutti quanti hanno immediatamente reagito allo stesso modo: dapprima una sonora risata, quasi a voler ridicolizzare una attività di cui, essendo adulti, si vergognavano, come se volessero prendere le distanze da quella parte della loro vita. Poi, tutti, pro-

seguivano dicendo che loro, in realtà, non avevano mai giocato da piccoli, perché a quel tempo non si poteva perder tempo in stupidaggini: c’era da lavorare! In seguito alla mia insistenza, visto che una bugia del genere non poteva reggere, tutti gli intervistati hanno iniziato a ricordare e a raccontare quasi come un fiume in piena. Non c’era niente, la miseria era tanta, figurati se si potevano spendere dei soldi per i giocattoli mi ha risposto mia madre, bambina del Farnét [Farneto, località di Montelabbate] nell’immediato dopoguerra. Nei pochi momenti liberi, quando non dovevamo badare alle pecore né aiutare gli adulti, giocavamo tra di noi con i pochi giocattoli che riuscivamo a realizzare da soli dice mio suocero, bambino di Ca’ Mazzasette [Urbino] al tempo del fronte.

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In effetti, per coloro che si sono trovati a vivere in età infantile il periodo della guerra e dell’immediato dopoguerra, la vita è stata avara anche in termini di giochi. La miseria era davvero tanta, sia per chi viveva nei paesi sia per chi viveva nelle campagne, e non c’era certamente il sentimento di cura e rispetto verso i bambini che vige invece nella società odierna. Un bambino era considerato un aiuto per i lavori e un sostegno per coloro che sarebbero stati i vecchi, di lì a qualche anno. Ma i bambini erano pur sempre bambini, e quella voglia di gioco insita in loro li portava comunque a inventarsi qualcosa per poter giocare, per liberare la loro fantasia. Ecco così le palle fatte con gli stracci, ottime per giocare a calcio, anzi al pallone, ma inutilizzabili in caso di pioggia. Pioggia che non sempre era negativa, però: quando i fossi erano pieni d’acqua ci si divertiva a fare i butacc e poi a romperli per vedere l’effetto dell’onda che ne conseguiva. Si costruiva cioè con dei rami una specie di ponte sopra il fosso, bello stabile, e magari ci si sistemava sopra qualcosa, delle ghiande o dei pezzi di legno. Poi si realizzava, a monte, una specie di diga (il butacc appunto) piuttosto alta, in modo che si accumulasse molta acqua. Poi, dopo tutta questa fatica, con un bel colpo si rompeva el butacc e si rimaneva a osservare, ammaliati, l’effetto dell’onda distruttiva sul ponte e le povere cose sopra di esso: davvero un gran bello spettacolo! Grazie alla pioggia si potevano anche realizzare biglie fatte con il fango, accuratamente lavorate tra le mani e lasciate seccare al sole o di fianco al camino: certo il più delle volte si spaccavano dopo pochi colpi ma se si era fortunati si riusciva a fare filotto!! Quando c’era la disponibilità di qualche mattone, anche mezzo rotto, ci si divertiva a fare la fila e poi a osservare la rapida sequenza con cui i mattoni cadevano, uno dopo l’altro, in una specie di domino rimediato. Quando si era in molti e non si aveva nessun giocattolo con cui

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giocare, i maschi si cimentavano nello scargabott: ci si ammucchiava tutti uno sull’altro, tranne uno, a turno, che invece prendeva la rincorsa e saltava sopra il mucchio generando tante risate e qualche ammaccatura che le varie nonne del tempo dovevano poi rimediare con impacchi e, qualche volta, sonori ceffoni. Poi c’erano i giochi di gruppo che definirei unisex e per tutte le stagioni, come il campanone, il tingolo, i quattro cantoni, lo schiaffo del soldato, giochi che hanno resistito anche negli anni a venire, e che ancora resistono nell’epoca dei giochi elettronici e delle chat. Anche le bambine dovevano adattare la propria fantasia alle ristrettezze dell’epoca: le bambole erano veramente rare e se c’erano erano per lo più fatte in casa, dalle nonne o dalle mamme, con vecchi stracci riempiti di crusca per dare consistenza a testa e corpo e del carbone a disegnare il viso e i capelli. Anche le bambine usavano il fango per i loro giochi, realizzando dei pupini che poi si lasciavano asciugare al calore del camino. Erano delicatissimi ed il più delle volte non si riusciva a giocarci che una o due volte al massimo. Un altro gioco divertente, da fare in casa quando il papà ed il nonno non c’erano, era quello delle vetrine: si prendeva una panca, ci si stendeva sopra uno straccio e si esponevano i vari cocci che si erano salvati dall’essere gettati via. Poi, a turno, una faceva la negoziante ed una la cliente: il denaro era fatto con ritagli di giornali, conservati con cura e nascosti sotto il materasso. Certo d’estate era più facile giocare, all’aperto nell’aia o con l’acqua dei fossi. In inverno invece si stava spesso nella stalla ad ascoltare le chiacchiere dei grandi che fabbricavano i cesti. Prima dell’inizio della scuola, qualche minuto prima, ci si metteva in cerchio e si cominciava: o quante belle figlie madamadorè… la più bella l’ho già scelta… e a turno si veniva eliminate finché non ne rimaneva una sola, la vincitrice, e poi si ricominciava. Passato il periodo dell’immediato dopoguerra, a metà degli anni Cinquanta, anche i giochi cominciarono a modificarsi, a seguito dell’aumentato benessere. Ci si potevano permettere delle palle di cuoio, delle corde per saltare: i giochi che si facevano con giocattoli improvvisati divennero più facili da farsi e la fantasia dei bambini (o forse di qualche adulto) inventò altri giochi come la palla avvelenata. Si giocava all’aperto con l’ausilio di un muro su cui si doveva far rimbalzare la palla avvelenata. Con una conta si decideva il primo battitore.Tutti i partecipanti aspettavano intorno al battitore che lanciasse promemoria_numerodue


la palla contro il muro chiamando, a scelta, uno di loro. Chi veniva chiamato, doveva afferrare la palla che rimbalzava contro il muro, mentre tutti gli altri giocatori scappavano il più lontano possibile. Appena catturata la palla, gli altri giocatori dovevano interrompere la fuga e rimanere immobili. Il bambino con la palla poteva avanzare di tre passi e lanciarla contro una delle statue, cercando di colpirla. La statua/giocatore poteva cercare di schivare la palla ma senza spostarsi con i piedi. Se la statua era colpita, era eliminata e doveva uscire dal gioco. I partecipanti venivano eliminati uno ad uno, vinceva chi rimaneva per ultimo. Poi gli anni Sessanta, gli anni del boom economico cominciarono a stravolgere i giochi dei bambini. Io, che

sono del 1967, ricordo benissimo le palle di plastica, i fortini dei cowboy, i Lego, i mattoncini di legno. Fortunatamente la televisione non era ancora così invadente nelle vite di tutti noi e quindi noi bambini si stava la maggior parte del tempo all’aperto, in parte a fare quegli stessi giochi che i nostri nonni o genitori facevano ed in parte condividendo i giochi che Babbo Natale o i nonni ci avevano donato. Condividere, forse è questo ciò che manca di più ai bambini di oggi. Troppe paure degli adulti e troppo poco tempo da dedicare ai più piccoli ci ha portato sempre più a considerare i nostri bambini come qualcosa da difendere, da preservare. Così abbiamo cominciato a riempirli di giocattoli, tecnologici per lo più, ma a segregarli in casa, al riparo dai “cattivi”, impedendo loro la condivisione del gioco con i coetanei e rendendoli quindi sempre meno fantasiosi e meno disponibili al confronto con gli altri... ma questa è tutta un’altra storia.

Il gioco delle palline

Tutti i bambini dell’Apsella giocavano a palline. Le palline erano di coccio o di vetro, coloratissime all’interno, ed erano di due dimensioni: piccola - el palinein - e grande - el palinon. Quelle di coccio erano ideali come proiettili per la fionda, quelle di vetro non si usavano mai per la fionda. Io avevo un “socio” di un paio di anni più grande di me, Giuan, il figlio della Pressede e di Tonino Furiassi: io tiravo con il palinein, Giovanni con il palinon. Giuan non c’è più... Ho ancora qualche pallina di vetro nascosta da qualche parte. Il gioco consisteva nel mettere le palline (una o due per giocatore) per terra, in fila indiana, a una certa distanza l’una dall’altra (il bottino). Da una posizione ben precisa, individuata da una linea più o meno diritta, si tirava, dopo una selezione in cui si definivano le priorità, con la propria pallina verso il bottino. La regola era semplice: se colpivi la prima pallina rispetto alla linea, vincevi una pallina; se colpivi la più distante la tutta, vincevi cioè tutte le palline; se non prendevi nessuna pallina ti avvicinavi solo al bottino, pronto per un nuovo tentativo, secondo i turni, e sempre che fossero rimaste ancora delle palline come bottino. Il modo di tirare la pallina era davvero curioso: la pallina si metteva tra il pollice (sopra) e l’ indice (parte interna) della mano destra - o sinistra per i mancini - la mano si teneva leggermente sollevata da terra e appoggiava, nella congiunzione con il braccio, alla punta del pollice dell’altra mano che appoggiava per terra e puntava con il mignolo sulla riga (la prima volta che si tirava) oppure nel punto esatto dove era finita la pallina dal secondo tiro in avanti.Questo era il “tiro corto”: se tutti erano d’accordo si passava al “tiro lungo”, che si differenziava dal precedente per il pollice della mano di appoggio che appoggiava sul gomito del braccio con cui si tirava. Le fufigne [imbrogli] erano ricorrenti: tutti cercavano di allungare il più possibile il segmento ideale che univa il mignolo alla pallina in modo da accorciare il tragitto pallina-bersaglio. Alcune volte il tiro veniva annullato al grido te fufignet - “hai barato” e quindi si ripeteva il tiro, se si era d’accordo; altrimenti si passava alle vie di fatto con spintoni, calci, pugni e poi si riprendeva a giocare con qualche graffio in più. Per un motivo o per l’altro eravamo sempre feriti, tut sbuc. Terreno ideale di gioco delle palline era l’esterno del lavador [il lavatoio], un complesso risalente al tempo del Fascio, utilizzato dalle donne dell’Apsella come lavatoio poi dismesso . Francesco Nicolini Sant’Angelo in Lizzola, 1958. Francesco Nicolini in versione cowboy (raccolta Francesco Nicolini, Modena); in alto: girandola in carta, dall’album di lavori di Emilia Barbanti Badioli, 1910 circa (raccolta Maria Teresa Badioli, 2009). A pagina 85: Tavullia, anni Quaranta-Cinquanta del ‘900. Un gruppo di bimbi gioca per strada (raccolta Alberta Gambini, Tavullia). promemoria_numerodue

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pian del bruscolo da sfogliare

Montelabbate,

pesche, diavoli, e un’Abbadia

Montelabbate può contare su numerose pubblicazioni che consentono di conoscerne storia e vita quotidiana, dagli opuscoli dedicati alla consolidata Sagra delle Pesche ai volumi curati da appassionati di storia locale fino a quelli che studiano da vicino il Farneto, suggestiva località il cui nome, per gli abitanti della zona, è indissolubile da un detto che suona più o meno così: se vuoi vedere il diavolo all’inferno, vai al Farneto d’inverno (il Farneto, come si dice qui, si trova in cima a una collina e la strada per arrivarvi era un tempo piuttosto impervia). Senza dimenticare le più attuali guide per il cittadino edite dall’Amministrazione comunale, spesso contenenti anche notizie di carattere storico e culturale. L’autore di riferimento rimane a tutt’oggi Luigi Michelini Tocci, che del castello di Montelabbate narra le origini nel suo Castelli pesaresi sulla riva del Foglia (Pesaro, 1973); del castello e del Borgo si è occupato anche il giovane Roberto Rossi, che ha scritto del suo paese in Montelabbate, memorie di una comunità (Urbania 2002), mentre notizie riguardanti la Pro Loco, da sempre impegnata nella valorizzazione delle specificità montelabbatesi si trovano in Storia della Pro Loco di Montelabbate: origini è

attività di Rita Luccardini (Pesaro, 2008). Meno recente (ma lo si può facilmente trovare in biblioteca), è l’opuscolo sul centenario della Società di Mutuo Soccorso di Montelabbate, edito nel 1991. Ricco di immagini è poi il volume di Vincenzo Piermaria, Montelabbate: il territorio prima e dopo il P.R.G. (Montelabbate 2006), attraverso il quale ci si può fare un’idea dello sviluppo urbanistico di questa parte della Valle del Foglia. Don Zenaldo Del Vecchio, parroco della frazione di Apsella, è autore di un volume sull’abbadia di San Tommaso in Foglia, millenario monumento nazionale legato alle vicende di papa Clemente II, che qui morì nel 1047 (L’abbadia di San Tommaso e la valle del Foglia tra reperti e storia, Urbania 2002), che si segnala, oltre che per le notizie, per la passione profusa da don Zenaldo nel restauro dell’edificio, da lui instancabilmente promosso. A Dante e Giuliano Simoncelli si deve infine una completa ricognizione sul Castello di Farneto: Farneto: storia, fede, arte (Roma 2005): ricordiamo che Dante Simoncelli ha anche curato l’edizione completa delle poesie di don Ciro Scarlatti - Sferza, tra il 1917 e il 1942 parroco di San Martino del Farneto.

Montelabbate. Da sinistra: l’ingresso del castello di Farneto (fotografia Comune di Montelabbate); la vista dalla strada Apsella - Farneto e l’abbadia di San Tommaso in Foglia, all’Apsella (fotografie Cristina Ortolani, 2009).

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mi ricordo

Tra Proust e Perec, due pagine di memorie in libertà. E tu, cosa ricordi?

Mi ricordo le estati a Colbordolo quando il pomeriggio sorseggiavamo un bicchiere di cedrata fresca in piazza. Mi ricordo gli inverni a cena aspettando il programma “Super Gulp fumetti in TV”. Mi ricordo le partite che giocavamo a calcio con punteggi infiniti. Mi ricordo la merenda della nonna fatta di pane bagnato e zucchero. Flavio Fabi Colbordolo

Mi ricordo quando facevo il bagno a mia sorella nella ‘mastella’. Mi ricordo quando noi quattro fratelli preparavamo la ‘schiumina’ del caffé sbattendone le prime gocce con lo zucchero. Era un vero e proprio rito, che si svolgeva accanto alla stufa a legna. Simona Bartoli Tavullia

Ricordo le bottiglie e bottigliette che dopo essere state ben lavate, stavano ore e ore sotto l’acqua che scendeva a filo nel lavandino della farmacia dei nonni perché perdessero qualsiasi odore e fossero pronte per contenere le medicine che i nonni preparavano tra contagocce, bilancini e mortai. Agla Marcucci Pesaro

Mi ricordo il piccolo baule nella soffitta di mia nonna Palma a Ginestreto, con la camicia di un garibaldino e il suo cappello. Raffaella Corsini Pesaro

Mi ricordo quando prendevo la corriera di Davani e da Talacchio andavo a Montefabbri dalla zia Zemira, avevo otto anni. Anna Maria Damiani Colbordolo

Mi ricordo quando il conte della Porta mi portava a Gubbio insieme con suo figlio Ferdinando. Dormivamo in un antico palazzo di sua madre, e in camera c’era un crocefisso gigantesco, e ai suoi piedi una lucina. Che paura! Giovanni Barberini, Monteciccardo

Chiudo gli occhi e... Mi rivedo sulle spalle del babbo e dei suoi amici (Mimmo, Pelo, Giorgio) a vedere sfrecciare le moto a pochi metri da noi e a rimanere estasiati dal rombo dei motori: erano i tempi di Agostini e

Pasolini!! Rivivo la gioia per le nevicate e per le discese con i sacchi di concime riempiti con la paglia. Assaporo le caramelle Panna che don Orlando ci regalava alle scuole elementari quando vincevamo le gare di quiz tra noi amici. Alessandro Pieri Tavullia promemoria_numerodue

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Mi ricordo che dopo la refezione scolastica a Montecalvo in Foglia ci fermavamo dietro il cimitero a giocare a campanone. Zina Erigini

Mi ricordo quando tornò dal Canadà il nonno della Eleonora, mise tutti i bambini dell’Apsella in gruppo, ci fece una foto con una macchina che dopo un minuto produsse le nostre immagini e diede a ognuno di noi un rettangolino odoroso avvolto in una carta bianca: era il mio primo chewingum o meglio “cigomma”. Francesco Nicolini Modena

Mi ricordo la Letterina di Natale, tutta piena di luccichini, con gli auguri e le promesse scritte con tanto impegno, all'asilo, con l'aiuto della suora. Che emozione quando si preparava la tavola nascondendola sotto il piatto e che gioia quando il babbo la scopriva e manifestava tutta la sua sorpresa!!! Mi ricordo la sensazione di serenità che provavo da piccola, quando, con i miei fratelli, tornavo a casa dal Mese di maggio all'imbrunire, nelle prime serate di caldo della stagione, passando per il sentiero tra i campi con l'odore forte dell'erba tagliata, dei primi papaveri e con le lucciole che ci svolazzavano attorno. Se continuo a pensare vengo sopraffatta dalle emozioni della mia infanzia!!! Non so se sono riuscita ad esprimerle. Spero di si. Grazie per avermi dato l'opportunità di ricordare. Daniela Ciaroni Colbordolo

Mi ricordo la musica ma non le parole. Stefano Clò, Bologna

Mi

ricordo quando si vendevano

le sigarette sfuse, solitamente cinque ma anche due o una e quasi sempre “nazionali”.

Si

spesa si aggirava sulle

Mi ricordo che mia madre non voleva lasciarmi uscire a giocare prima delle 16,30. Per anni ho messo indietro di mezz’ora l’orologio di casa per poter uscire prima. Claudio Donati Tavullia

Nel 1960, all’età di tre anni, andavo a piedi all’asilo dalle Suore a Colbordolo: passavo per via Cupa. Mia madre mi accompagnava fino a metà strada, la zia Carmela, che abitava a Colbordolo, mi aspettava all’inizio del Paese. All’uscita il contrario: zia Carmela e mamma. L’anno dopo, don Giuseppe mi veniva invece a prendere con una macchina. Durante gli anni dell’asilo recitavo nel teatro parrocchiale di Colbordolo. La Domenica mattina, sempre agli inizi degli anni ’60, da Capponello (via Canarecchia) andavo alla Messa a Colbordolo con mia madre e altre tre o quattro donne (tra tutte mi ricordo della Maria de Colocc, della Nuccia e della nonna Nina), passavo per via Cupa, che via non era, ma sentiero stretto e fangoso a seguito dell’abbandono delle campagne da parte dei contadini avvenuto anni addietro, e cambiavo le scarpe alla prima casa di Colbordolo, da Davani. Mettevo le scarpe bon e lasciavo dietro un angolo della casa quelle trist; finita la Messa toglievo quelle bon e rimettevo quelle trist!! Nell’Ottobre del 1963 frequentavo la I elementare a Bucaferrara: ero l’unico alunno della prima, in una pluriclasse, dalla I alla V elementare. Si scriveva con il pennino e l’inchiostro; le macchie si asciugavano con un foglio di carta assorbente bianca che però quando era nuova mi dispiaceva molto sporcare, più del quaderno dei compiti! 90

mettevano in

una bustina di carta sottile e la retta.

Alcuni, che

8 Lire

a siga-

avevano il vizio

del fumo ma neanche il becco di un quattrino, pagavano con erano gli anni

2

uova...

'50/'60. Iliano Franca Tavullia

Mi ricordo che sempre in I elementare, la maestra De Marchi di Pesaro, andata in pensione nei primi mesi del 1964, aveva ancora dei metodi di insegnamento molto persuasivi! Se facevi qualche marachella con una bacchetta menava sulle mani che dovevi tenere ferme sul banco: se le toglievi, la dose veniva raddoppiata! In una circostanza, non mi ricordo per cosa aver combinato, le toglievo sistematicamente ogni volta fino a che, stanca, mi ha mandato in castigo in una stanza attigua all’aula che dava in un corridoio che conduceva al piano superiore. Qui c’erano alcune stanze date in uso all’insegnante, in una di queste c’era dell’uva che le avevano portato i genitori (usava molto in quel periodo regalare i prodotti agricoli: mi ricordo che “la guardia” veniva spesso a casa del nonno e andava via sempre con la borsa piena!…), ebbene io mi ricordo di averla schiacciata tutta con i piedi. Accortasi del fatto i giorni dopo l’insegnante convocò a scuola i miei genitori che dovettero riportare l’uva con, naturalmente, una sgridata memorabile che per diversi anni mi ha assillato la notte... . Mi ricordo..., anzi, non mi ricordo! Fra poco, alle cinque, inizia la mia giornata. Sauro Crescentini Colbordolo promemoria_numerodue


Non fotografare Non fotografare gli straccioni, i senza lavoro, gli affamati. Non fotografare le prostitute, i mendicanti sui gradini delle chiese, i pensionati sulle panchine solitarie che aspettano la morte come un treno nella notte. Non fotografare i neri umiliati, i giovani vittime della droga, gli alcolizzati che dormono i loro orribili sogni. La società gli ha già preso tutto, non prendergli anche la fotografia. Se è davvero l’umana solidarietà quella che ti conduce a visitare l’ospizio dei vecchi, il manicomio, il carcere, provalo lasciando a casa la macchina fotografica. Ando Gilardi, Meglio ladro che fotografo, 2007


hanno collaborato a questo numero Cult movies: Ninotchka di Ernst Lubitsch, a pari merito con Intrigo internazionale di Alfred Hitchcock, e The pirate di Vincente Minnelli. Cult books: Jane Austen, Orgoglio e pregiudizio; Cristina Campo, Gli imperdonabili; Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby. Un cibo: solo uno? Comunque, piadina con le erbe di campagna, latte intero, cioccolato fondente. Luogo: la luce della Provenza. Colori: quelli di Matisse. Si avvicina al racconto della memoria attraverso i libri di Giovannino Guareschi, le storie di fantasmi della nonna e le provocazioni del professor Arnaldo Picchi, con il quale si è laureata a Bologna, al DAMS - Spettacolo, nel 1993. Del teatro (per il quale ha firmato dal 1984 al 2004 i coristina stumi di diversi spettacoli di opera lirica) le restano scatole di campioni di tessuti d’epoca, che utilizza rtolani per comporre artworks ai quali - dice - spera di dedicare la vecchiaia. Tra storia e storie ha curato una ventina di pubblicazioni, principalmente legate al territorio provinciale di Pesaro e Urbino, tra cui Pesaro, la moda e la memoria (2008 e 2009) e Il facchino della diocesi - Giovanni Gabucci (2011). Ha collaborato con la Fondazione Vittorio De Sica, con saggi sui costumi nei film del grande regista. Dal 1999 scrive anche per Internet, occupandosi di costume, lifestyle, teatro e cinema. Dal 1996 collabora con i Comuni dell’Unione Pian del Bruscolo per progetti e iniziative culturali sui temi della memoria locale; nel 2005 ha creato la Memoteca Pian del Bruscolo e ideato le cene in famiglia di Belvedere Fogliense (Tavullia). È nata nel 1965 a Pesaro, dove vive e lavora.

C O

Laureato in filologia greca e latina presso l’Università degli Studi di Napoli ‘Federico II’, ha conseguito successivamente presso la Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari dell’Università degli Studi di Roma ‘La Sapienza’ prima il diploma di conservatore di manoscritti, poi il diploma di Archivista Paleografo, quindi il diploma di Paleografia Greca presso la Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica. Presso l’Università degli Studi di Macerata ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in ‘Cultura dell’età romanobarbarica’. Vincitore di concorso per archivista di Stato ricercatore storicoscientifico, dal 1999 è nei ruoli del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Dal 1 Giugno 2009 è direttore dell’Archivio di Stato di Pesaro. de

Antonello Berardinis

Franca Gambini

Nata a Sant’Angelo in Lizzola il 17 Febbraio 1958. Laureata in Scienze Agrarie. Sposata, con una figlia. Svolge attività di libero professionista, didattica e editoriale nel settore paesaggistico, agricolo ed ambientale. Dal Giugno 2009 è assessore del Comune di Sant’Angelo in Lizzola con deleghe alla Pubblica Istruzione, Formazione, Ambiente e Agricoltura. Segretario membro del Consiglio direttivo dell’Accademia Agraria di Pesaro, per Promemoria Franca Gambini ha curiosato negli archivi di questa prestigiosa istituzione, con la serie Esercitazioni Agrarie.

Sono nata quando Modugno vinse Sanremo con Nel blu dipinto di blu. Laureata in Lettere con tesi in Storia dell’arte e diplomata in Archivistica, Paleografia e Diplomatica. E così ho dichiarato subito i miei due grandi amori. In nome del primo ho partecipato all’organizzazione di alcune mostre, tra cui quelle a San Leo sul Valentino, il Seicento eccentrico (di cui son stata co-redattrice del catalogo per Giunti Editore) e Ciro Pavisa a Mombaroccio; ho redatto e schedato per il volume I Santuari nelle Marche, relazionato a convegni sulla scultura lignea; ho collaborato alla stesura dei testi per il video Medioevo nella Provincia di Pesaro. Ho curato schede sugli arredi di imonetta alcune chiese dell’urbinate e, per la De Agostini, sui Pittori marchigiani dell’800. Per l’altro amore, l’archivistica, ho anche continuato a studiare, frequentando due Master sulla Progettazione e gestione astianelli informatica dei servizi documentari e un corso universitario; ho riordinato gli archivi di vari Comuni e lavorato al censimento, commissionato da Regione e Soprintendenza, degli archivi ospedalieri e degli enti assistenziali della Provincia. La conoscenza degli archivi e la ri-conoscenza per la storia mi hanno messo sulla via delle mostre storicodocumentarie e della pubblicazione dei relativi contributi. Oggi lavoro come archivista del Comune di Pesaro.

S B

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Francesco Nicolini: Apsella 6 Giugno 1949. Sposato con Mara, due figli, Elisa e Stefano. Asilo: nel Brasco presso i nonni materni. Elementari (fino alla IV): Apsella, maestra Norrito. Elementari (V): Pesaro Seminario vescovile presso il Sacro Cuore di Via Cesare Battisti (maestra suor Edoardina). Medie (I e II): Pesaro, Seminario Vescovile in via Rossini. A metà anno scolastico vengo cacciato dal Rettore don Scalognini …perché non avevo la “vocazione”. Medie (fine della II e III): Pesaro presso le “G. Picciola”. Superiori: I.T.I.S.“E. Mattei” di Urbino, perito Elettronico,V F. Università: dal 1968, biennio alla Sapienza di Roma: partecipazione ai “moti” del ’68; dal 1970, trasferito alla “Alma Mater Studiorum” di Bologna rancesco per il triennio: laureato in Ingegneria Elettronica, indirizzo Biomedico nel 1974. Seguono due anni di insegnamento (Istituto “A.Volta” di Fano e Cagli, preside A. Bischi - “Benelli” di Pesaro - Istituto per icolini Geometri di Pesaro, preside “Gibo”). Ai Geometri di Pesaro, negli orari dedicati alla cultura, esame critico dei testi delle canzoni di Bob Dylan. Da ricordare la studentessa Stefania Palma che un giorno, messa alle strette dai suoi compagni di sezione, confessò di aver preso “la scuffia” per Graziano. Dal 1977, Modena e Bologna: libero professionista nel settore informatico. Dal 1997, Modena, Milano, New York,Toronto,Vancouver, Palo Alto, Newport Beach, Cypress, Dallas, Cleveland, San Diego, Hawaii, Miami, New Orleans, Detroit, Edmonton, Las Vegas: dirigente di una multinazionale, settore informatico. Alcune persone, cose, luoghi da ricordare: Irene, Moto Guzzi Sport 14, Sacrario di Redipuglia, Jimi Hendrix,Tashunka Uitko, Edo, Ivano (Dionigi),Woodstock, Ivan (Graziani), Joe Cocker, Pantano, Jan Anderson, Nino (Pieri), Robert Allen Zimmerman, Memè (Perlini), Malcom X, Lake Huron, Equipe 84, Rubin Carter, Zeno, Saint-Tropez, Ducati.

F N

Sono nata a Rho, città industriale a quindici chilometri da Milano e lì sono cresciuta fino a diciannove anni; ho vissuto per altri tredici sulla serra morenica vicino a Ivrea, in Piemonte, e ora, per le strane vie della provvidenza, sono residente a Piombino da un anno. Condivido con altre tre persone una vita comune di preghiera e lavoro e momentaneamente siamo ospiti nella parrocchia “Madonna del Rosario” nel quartiere del Cotone. Ho la grande fortuna di lavorare in una vigna vicino a Suvereto coltivata su un poggio costeggiato dal fiume Cornia; in questo modo ho l’occasione di fuggire dall’inquinamento delle acciaierie per respirare aria buona e, di tanto in tanto, lustrarmi gli occhi con il paesaggio favoloso che circonda l’intorno.

Antonella Polei

Laura

Campagna

Amo il teatro in ogni sua forma: pedagogica, catartica, estetica, divulgativa, comica, sociale. Amo cucinare, cose buone e sane, soprattutto per gli amici; amo passare una serata intorno ad una buona tavola con davanti un bicchiere di buon rosso. Amo viaggiare, ascoltare il rumore dei posti, sentirne gli odori, stare seduta da una parte e guardare gente con abitudini diverse. Amo la musica, non tutta e non di tutti i generi, ma a quella che amo sono estremamente fedele. Amo camminare sul bagnasciuga in inverno, specie quando sono molto arrabbiata. Amo il mio cane Pedro, il mio piccolo Gioele e il suo babbo. Io sono Antonella.

Sandro Tontardini, 61 anni, insegnante tecnico pratico in pensione, sposato con due 2 figli. Vive a Bottega di Colbordolo. Si è sempre dimostrato attento e sensibile ai problemi di carattere culturale del proprio territorio. Collabora da tempo all’organizzazione della Mostra del Libro per Ragazzi di Morciola di Colbordolo, giunta quest’anno alla XXXIII edizione. Attualmente ricopre presso l’amministrazione comunale di Colbordolo la carica di assessore alla Cultura, Promozione del territorio e Volontariato.

Sandro

Tontardini

Gianluca Rossini

Nato nel 1967, coniugato, 2 figli maschi. Ingegnere elettronico, mi occupo di automazione e strumentazione per impianti oil&gas. Ho una passione per la Storia, soprattutto quella che va dal 1943 al 1945 e che riguarda gli IMI (Internati Militari Italiani): faccio parte dell’ISCOP (Istituto di Storia Contemporanea di Pesaro e Urbino), nel quale seguo la sezione Memoria della deportazione. Ho una moto del 1982 (Honda Nighthawk) che non riesco mai a adoperare quanto vorrei. Mi piace viaggiare: ho viaggiato “abbastanza” per lavoro venendo a contatto con mentalità e modi di vivere tra i più vari: non mi piace viaggiare solo per divertimento o per svago ma per conoscere altri modi di vivere diversi dal mio. Credo profondamente nell’integrazione tra tutti gli uomini e nel rispetto di ogni diritto. Mi piace leggere: ho una buona biblioteca nonché alcuni volumi “antichi” (dal 1600 in poi).

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La Memoteca Pian del Bruscolo Da cinque anni, ormai, la Memoteca Pian del Bruscolo percorre il territorio dei Comuni dell’Unione Pian del Bruscolo, raccogliendo ricordi e testimonianze in un progetto di recupero e valorizzazione della memoria (le memorie) della comunità locale della bassa Valle del Foglia. Oltre trecento persone hanno sinora partecipato alla raccolta del materiale, con fotografie dagli album di famiglia (circa cinquemila le immagini raccolte), interviste, segnalazioni di documenti di diverso genere, dalle ricette di cucina alle lettere agli elenchi dei corredi, solo per citarne alcuni: un patrimonio ricco di minute informazioni, grazie al quale la vita quotidiana tra XIX e XX secolo si intreccia con la storia, componendo un quadro sempre più preciso delle trasformazioni avvenute nel nostro territorio. Materiale che, insieme con quello proveniente da archivi comunali, parrocchiali e altri è stato utilizzato per esposizioni, pubblicazioni, filmati, proposti al pubblico in numerose occasioni. Una parte di queste testimonianze iconografiche e documentarie è inoltre stata catalogata secondo standard inter-

Questa pubblicazione è realizzata grazie al sostegno di

Puoi partecipare al progetto inviandoci fotografie o riproduzioni di altri documenti, raccontando la storia della tua famiglia o le storie del tuo paese: per informazioni puoi rivolgerti all’Unione dei Comuni Pian del Bruscolo (tel. 0721 499077), scriverci all’indirizzo info@memotecapiandelbruscolo.pu.it o consultare il sito www.memotecapiandelbruscolo.pu.it. La Memoteca ha anche una pagina Facebook (Memoteca Pian del Bruscolo).

La Memoteca Pian del Bruscolo - Pubblicazioni e iniziative dal 2007 2007 lizzazione del volume Caccia alle tracce > Percorso espositivo Scrigni della Me- - L’album del concorso, presentato al Pamoria. Sei tappe nei cinque comuni dell’UlaDionigi di Montecchio. nione, in occasione di altrettanti eventi 2009 programmati dalle amministrazioni. > Pian del Bruscolo. Itinerari tra sto> Partecipazione al II Festival nazionale ria, memoria e realtà: volume di itinerari dell’Autobiografia Città e paesi in ractematici intercomunali alla scoperta del conto di Anghiari (AR). territorio dell’Unione Pian del Bruscolo. 2008 > Caccia alle tracce. Collaborazione al VII Concorso letterario per piccoli scrittori: lezioni nelle 13 classi partecipanti al Concorso; visita di due classi all’Archivio Comunale di Sant’Angelo in Lizzola; esposizione fotografica-documentaria presentata alla 31a Mostra del Libro per Ragazzi di Colbordolo; rea-

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nazionali e inserita sul sito web www. memotecapiandelbruscolo.pu.it, cuore del progetto, luogo virtuale di scambio tra persone e generazioni, al quale l’Unione dei Comuni intende affiancare presto uno spazio reale. Al di là del valore di ricostruzione di un tessuto storico e sociale fatto di dettagli (la microstoria), va segnalato l’interesse che le ricerche della Memoteca hanno suscitato tra le persone coinvolte, portando giovani e anziani, bambini, nonni e “nuovi arrivati” a radunarsi, e non di rado a far festa, intorno ai loro luoghi, scoprendone (o ritrovandone) radici e identità. Una vivacità che caratterizza il lavoro della Memoteca sin dagli inizi e che ne è ormai divenuta la cifra. Come dice Moni Ovadia, che certo di queste cose se ne intende, la memoria è un progetto per il futuro: recuperare le radici significa per noi attingere alla memoria nella sua connotazione più vitale e meno nostalgica, così come emerge dalla quotidiana frequentazione di persone e luoghi dove usi e tradizioni di stampo antico coesistono senza troppi attriti con la contemporaneità.

2010 - 2011 > Nell’Aprile 2010 l’esperienza della Memoteca Pian del Bruscolo è stata al centro della tavola rotonda Vetera componere novis, organizzata dall’Archivio di Stato di Pesaro in occasione della XII Settimana nazionale della cultura. “Promemoria”: numero 0, presentato nel

Maggio 2010; numero 1, presentato nel Novembre 2010. Febbraio 2011: presentazione del primo dei “Quaderni della Memoteca”: Il facchino della diocesi. Giovanni Gabucci (1888-1948). > La Memoteca ha inoltre collaborato con il Comune di Sant’Angelo in Lizzola alle prime due edizioni del Piccolo Convegno di Storia Locale (luglio 2007 e agosto 2008) e al progetto editoriale Montecchioracconta - storie e memorie di un paese lungo la strada (2007-2009); con il Comune di Monteciccardo la Memoteca ha collaborato alla realizzazione del progetto editoriale Monteciccardo, cronache, storie, ricordi (2008-2009). promemoria_numerodue


> Promemoria - periodico culturale testata registrata presso il Tribunale di Pesaro, autorizzazione n. 578 del 9 Luglio 2010 > numero due > chiuso in redazione il 27 Maggio 2011 > direttore responsabile Cristina Ortolani > coordinamento editoriale, immagine e grafica Cristina Ortolani > hanno collaborato a questo numero Simonetta Bastianelli, Antonello de Berardinis, Laura Campagna, Franca Gambini, Francesco Nicolini, Antonella Polei, Gianluca Rossini, Sandro Tontardini > in copertina Figura di donna seduta (Madonna assisa?), statuetta, tecnica mista (Archivio storico comunale, Monteciccardo) > informazioni memotecapiandelbruscolo.pu.it; info@memotecapiandelbruscolo.pu.it Unione dei Comuni “Pian del Bruscolo”, via Nazionale, 2 61022 Bottega di Colbordolo (PU) - tel. 0721 499077 unionepiandelbruscolo.pu.it; info@unionepiandelbruscolo.pu.it Cristina Ortolani, via Avogadro 39 - 61122 Pesaro cristina@cristinaortolanistudio.it > le immagini appaiono con l’autorizzazione degli aventi diritto > il materiale raccolto è stato inserito con la massima cura, tuttavia i responsabili della pubblicazione si scusano per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti e resta a disposizione degli aventi diritto per le immagini di cui non è stato possibile rintracciare i titolari del copyright > i testi sono rilasciati sotto la licenza Creative Commons “Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0” (http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0) > la responsabilità dei contenuti dei testi è dei rispettivi autori > stampa SAT - Montecchio, Sant’Angelo in Lizzola (PU) la carta utilizzata per la stampa di Promemoria ha ottenuto la certificazione ambientale F.S.C. (Forest Stewardship Council), che identifica i prodotti contenenti legno proveniente da foreste gestite secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici. > la Memoteca Pian del Bruscolo è un progetto realizzato con il contributo della Provincia di Pesaro e Urbino ai sensi della L.R. 75/1997 > realizzazione del portale Servizio Informativo e Statistico - Provincia di Pesaro e Urbino, progettazione della banca dati Michele Catozzi > coordinamento organizzativo Vincenza Lilli - Unione dei Comuni Pian del Bruscolo

Memoteca Pian del Bruscolo e “Promemoria” concept+image Cristina Ortolani

> per i documenti, racconti, le fotografie, la pazienza grazie a: Archivio storico diocesano di Pesaro; Parrocchia di San Michele Arcangelo, Sant’Angelo in Lizzola; Parrocchia di San Sebastiano, Monteciccardo; Parrocchia di Santa Maria del Rosario, Piombino; Archivio di Stato di Pesaro; Amministrazione Provinciale di Pesaro e Urbino e Ufficio Sviluppo economico - Emigrazione Provincia di Pesaro e Urbino; Archivio storico comunale di Monteciccardo; Archivio storico comunale di Montelabbate; Archivio storico comunale di Sant’Angelo in Lizzola; Archivio storico e Ufficio tecnico Comune di Tavullia; Accademia Agraria di Pesaro; ISCOP Pesaro;AMLE - Pesaro;Accademia di Montegral, Monteciccardo; Pro Loco Fogliense, Belvedere Fogliense - Tavullia. grazie ai collaboratori della Memoteca e di Promemoria; agli amministratori e al personale dell’Unione dei Comuni Pian del Bruscolo e dei Comuni di Colbordolo, Monteciccardo, Montelabbate, Sant’Angelo in Lizzola e Tavullia e a Annamaria Agabiti Terenzi e Gualtiero Terenzi, Tavullia; Enrico Agostini, Francesco Maria Pagnini, Omar Troiani e Francesca Urbinati, Tavullia; Bar “Ambrogiani”, Tavullia; Famiglia Cesare Antonini, Sant’Angelo in Lizzola; Antonella e la Comunità di Bose, Magnano (BI); Gabriella Arceci Testasecca, Pesaro; Maria Teresa Badioli (1923-2010); Giovanni e Sandra Barberini; Monteciccardo; Loretta Barberini, Sant’Angelo in Lizzola; Tea Mezzaluna Barberini e Maria Barberini, Sant’Angelo in Lizzola; Ugo Barbieri, Fleurus; Simona Bartoli,Tavullia; Mario, Maria e Lucia Bezziccheri, Sant’Angelo in Lizzola; Filippo Biagianti; Gabriele Bonazzoli, Monteciccardo; Moreno Bordoni, Pesaro; Laura Campagna, Piombino (Livorno); Anna Capponi Donati, Montelabbate; Alfio Carpignoli, Tavullia; don Giuseppe Cenci, Monteciccardo; Fabio Cento, Piombino (Livorno); Giuliana Cermatori e Luciano Cecchini, Pesaro; Daniela Ciaroni, Colbordolo; Stefano Clò, Bologna; Riccardo Corbelli, Pesaro; don Igino Corsini, Pesaro; Raffaella Corsini Ortolani e Giorgio Ortolani, Pesaro; Rina Corsini e Antonio Terenzi, Pesaro; Franco Costanzi, Saltara; Sauro Crescentini, Colbordolo; Anna Maria Damiani, Colbordolo; Immacolata De Caro e la sua Famiglia, Tavullia; Wahiba Djemil e la sua Famiglia, Montelabbate; Luciano Dolcini, Pesaro; Claudio Donati, Tavullia; Antonino Emma, Pesaro; Zina Erigini; Loredana Ercolani, Sant’Angelo in Lizzola; Flavio Fabi, Colbordolo; Guido Fabrizi, Pesaro; Gabriele Falciasecca, Pesaro; Piergiorgio Ferri, Colbordolo; Severino Foglietta, Monteciccardo; Iliano Franca,Tavullia; Mariangela e Beatrice Franca, Zemira Paolucci,Tavullia; Famiglia Galeazzi, Montelabbate; Alberta Gambini e Famiglia Gambini, Tavullia; Terenzio Gambini e la sua Famiglia, Montelabbate; Famiglie Dorino e Giorgio Generali, Lucia Generali, Tavullia - Mondaino; don Enrico Giorgini, Sant’Angelo in Lizzola; Leonella Giovannini e Anna Donati, Sant’Angelo in Lizzola; Elio Giuliani, Pesaro; Federica Gresta, Pesaro; Nazzareno Guidi e la sua Famiglia, Sant’Angelo in Lizzola; Ernesto Guiraldes Camerati, Santiago del Cile; “Lo specchio della città”, Pesaro; Luca Lucarini, Colbordolo; Giorgio Lucenti, Pesaro; Bruno Macci, Colbordolo; Laura Macchini,Tavullia; Linda Maffei,Tavullia; Agla Marcucci Gattini, Pesaro; Duilio (Idillio) Mattioli,Tavullia; Geppina Moroni Massa, Pesaro; Francesco Nicolini, Modena; Claudio Oldrini, Sant’Angelo in Lizzola; Margherita Orlandini, Piombino (Livorno); Simona Ortolani, Costanza e Walter Vannini, Pesaro; Nicola Pallotta, Sant’Angelo in Lizzola; Giovanni Palma, Colbordolo; Giannino Pentucci, Pesaro; Alessandro Pieri,Tavullia; Luca Pieri, Pesaro; Matteo Ricci, Pesaro; Francesco Scarabicchi, Ancona; Fausto Schiavoni e Concetta Spada, Pesaro; Paola Solforati, Sant’Angelo in Lizzola; Fabrizia Tagliabracci, Montelabbate; Iva Tarini, Montelabbate; Corrado Tomassoli, Colbordolo; Famiglia Tombari; Roberto Urso e la sua Famiglia, Giordana Mazzanti Urso, Bologna; Giuliano Vagnini, Pesaro; Giorgio Valchera, Pesaro.

Promemoria - Come collaborare La collaborazione a Promemoria è aperta a tutti ed è a titolo gratuito. Gli elaborati dovranno essere originali e inediti, e dovranno riguardare tematiche d’interesse della rivista: memoria locale, memorie personali, personaggi del territorio dell’Unione Pian del Bruscolo o di zone limitrofe ecc.; per altri temi consigliamo di contattare comunque la redazione, che valuterà ogni proposta. È possibile anche segnalare persone da intervistare o storie da raccontare ai nostri collaboratori. La pubblicazione dei contributi avviene a discrezione della redazione, che si riserva di apportare tagli e/o modifiche, rispettando il senso e la sostanza dei testi.

I testi inviati devono essere accompagnati da nome e cognome dell’autore, luogo e anno di nascita, recapiti (compresi cellulare e indirizzo email), professione o qualifica. Saranno valutate eventuali richieste di pubblicazione sotto pseudonimo. La rivista è pubblicata anche in versione digitale sul sito della Memoteca Pian del Bruscolo; alcuni contributi potranno essere pubblicati, con il relativo materiale iconografico, anche in forma di pagine del sito. Per tutti i dettagli consultare il sito www. memotecapiandelbruscolo.pu.it. o scrivere a info@memotecapiandelbruscolo.pu.it.

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finito di stampare nel Giugno 2011 da SAT s.r.l. - Montecchio (PU)



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