Pesaro, la moda e la memoria

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Pesaro, la moda e la memoria il lavoro dei sarti 1900_1970 a cura di Cristina Ortolani


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Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa Associazione provinciale di Pesaro e Urbino

Pesaro, la moda e la memoria - il lavoro dei sarti 1900_1970 concept, ricerche e testi Cristina Ortolani progetto grafico e impaginazione Ufficio Stampa CNA Pesaro - Maria Grazia Nardini collaborazione ai testi Claudio Salvi le fotografie e i documenti riprodotti appaiono con l’autorizzazione dei proprietari e degli aventi diritto; il materiale raccolto è stato inserito con la massima cura; tuttavia, l'editore è a disposizione per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti; i testi di Cristina Ortolani sono rilasciati sotto la licenza Creative Commons “Attribuzione Non commerciale Condividi allo stesso modo” 2.5 Italia; in copertina: Pesaro, anni Cinquanta del ‘900: défilé al Teatro “G. Rossini” (raccolta Cristina Ortolani, Pesaro) per informazioni: CNA - Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa Associazione provinciale di Pesaro e Urbino - www.cnapesaro.com - info@cnapesaro.com


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Raccontare una storia lunga quasi un secolo, descriverne i personaggi, i luoghi, le vite, i sogni, le relazioni, le cose fatte e quelle che invece non si sono potute realizzare, non era impresa di poco conto. Ricostruire un percorso nel quale poter leggere le vicende ed i suoi protagonisti ma anche le trasformazioni di una società attraverso le mode, i costumi e soprattutto gli abiti, poteva sembrare all’inizio un progetto sin troppo ambizioso. Ma attraverso la testimonianza diretta dei protagonisti ed il loro diretto contributo, questo volume sulla moda e la memoria a Pesaro è diventato una sorta di grande almanacco illustrato sulla sartoria al quale ognuno ha voluto dare il proprio contributo. Grazie al lavoro certosino, paziente ed appassionato di Cristina Ortolani, Pesaro, la moda e la memoria è diventata così la più importante ed autorevole storia sulla moda e la sartoria a Pesaro. In queste pagine ritroveremo il racconto di una città, delle mode che l’hanno attraversata, di coloro che l’hanno resa ora distinta ed elegante, ora fantasiosa innovativa ed anticonformista. Di chi attraverso quegli abiti ha trasmesso, prima ancora dell’abilità, tutto il proprio gusto, la creatività: in una parola “l’anima” del proprio sentire. A tutti questi maestri del vestire, piccoli e grandi che siano stati, che hanno lavorato per anni nelle loro botteghe in silenzio, magari lontano dai grandi clamori delle passerelle, va oggi tutto l’omaggio ed il ringraziamento della CNA. In queste pagine piene di immagini e storie, che sono il frutto di un grande lavoro collettivo al quale gli stessi protagonisti hanno in grande misura contribuito, c’è il cammino di una società, la storia ed il lavoro appassionato di tante donne e uomini, delle loro famiglie, dei dipendenti, di tutti coloro che li hanno aiutati a realizzare le proprie aspirazioni. Volevamo raccontare tutto questo in un libro affinché non andasse disperso questo prezioso patrimonio e perché si realizzasse così quell’entusiasmante progetto che ci ha mosso sin dall’inizio: raccontare la sartoria, la moda ed i suoi protagonisti a Pesaro. Speriamo, almeno in parte, di esserci riusciti. Giorgio Aguzzi

Presidente provinciale CNA

Camilla Fabbri

Segretario provinciale CNA


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La pubblicazione di questo volume Pesaro, la Moda e la Memoria è parte integrante di un progetto più ampio dal titolo Idee in Moda che la CNA di Pesaro e Urbino ha messo in campo fin dallo scorso anno per valorizzare un settore fondamentale dell’economia del nostro territorio come quello del tessile abbigliamento pur nell’attuale situazione di difficoltà in cui il comparto stesso versa. Idee in Moda ha come finalità quella di evidenziare le specificità e le capacità di imprenditori artigiani a creare un prodotto moda unico ed esclusivo. I sarti, le piccole imprese del tessile ed anche le aziende più strutturate della moda della nostra provincia, sono depositarie di un patrimonio di tradizioni e conoscenze che hanno radici molto lontane. Si tratta di attività che si sono sempre caratterizzate per la grande qualità del prodotto, frutto di lavorazioni manuali di grande qualità, che hanno trovato riscontro in tutto il mondo. Partendo da questo vero e proprio “tesoro” che la storia del nostro territorio ci ha consegnato, la CNA ha deciso di continuare con impegno il percorso iniziato con grande entusiasmo un anno fa, cercando di porre all’ attenzione del grande pubblico le aziende locali che producono moda e che rappresentano la continuazione naturale del fitto tessuto di sarte e sarti che hanno contribuito a far crescere nei decenni un’ insostituibile sapienza artigianale. La ricerca che è alla base di questa pubblicazione è stata fatta con una cura a dir poco meticolosa e attraverso l’innata capacità che l’autrice, Cristina Ortolani, possiede nello scovare fotografie e documenti ormai dati per dispersi. Una ricostruzione ricca di testimonianze e notizie che rendono questa pubblicazione ancor più preziosa ed inedita. Dalle pagine di questo libro traspira la passione che ha guidato Cristina Ortolani nella difficile e complessa ricerca di “verità” e storie ormai sepolte dagli anni che ritrovano splendore e il giusto riconoscimento con questa pubblicazione. La CNA di Pesaro e Urbino ha tra i propri associati autentici “artisti” che hanno acquisito specializzazioni importanti e qualificate che rappresentano un patrimonio straordinario di manualità, ingegno e gusto.Tramandare e salvaguardare questo patrimonio d’ arte e cultura che rischia di rimanere sconosciuto o, peggio, di andare perduto, è un preciso dovere che la CNA ha ritenuto di assumersi nella speranza che sia di buon auspicio e sostegno per le attività che tuttora producono moda ad alto livello e che devono confrontarsi quotidianamente con le insidie del mercato globale. Con Idee in Moda, CNA vuole fare leva su una tradizione ed una professionalità che solo i nostri artigiani ed imprenditori sanno “mettere in campo”; caratteristiche che unite al gusto, alla creatività e alla qualità, li rende ancora oggi unici e inimitabili. Moreno Bordoni

Responsabile provinciale Federmoda CNA


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La moda è la sorella preferita della memoria Su misura. Prima dell’avvento delle confezioni, della moda pronta diffusasi in Italia nel secondo dopoguerra, tutti si vestivano su misura. Nelle grandi sartorie, con il loro corredo di riti e atmosfere rarefatte, ma anche e soprattutto ricorrendo ad artigiani che, in genere dopo un periodo di apprendistato presso qualche sarto o sarta di nome, intraprendevano un’attività propria rivolta al paese, al quartiere o a pochi affezionati clienti che bastavano a tirare avanti.Abiti che duravano più di una vita, e che rivoltati, accorciati e riadattati accompagnavano le generazioni al pari dei mobili o delle foto di famiglia. Questo volume ripropone, con consistenti integrazioni e aggiunte, i materiali presentati nell’esposizione fotografica-documentaria Pesaro, la moda e la memoria_1900-1970, allestita a Palazzo Gradari nell’ambito del progetto Idee in moda_2007. Sarti, sarte e sartine; setaiole, tessitrici, cappellai e modiste di città ma anche dei paesi vicini (per non parlare degli eserciti di pantalonaie, camiciaie, asolaie, ricamatrici) che, tra aspidistre, romanzi d’appendice e binari del treno, hanno governato, avrebbe detto Irene Brin, il gusto di una città, rispecchiandone le storie e la storia nel taglio di un paletot o nella linea di un tailleur. Un tessuto davvero composito, del quale è probabilmente impossibile determinare con esattezza le dimensioni, e che è stato in parte ricostruito grazie a testimonianze orali e materiali recuperati, talora in modo fortunoso, soprattutto presso raccolte private. I documenti conservati negli archivi pubblici, infatti, difficilmente recano traccia di questo pur notevole stuolo di artigiani e ci parlano prevalentemente di realtà più articolate, come le industrie della filatura della seta, da quelle ben note di Fossombrone alle meno indagate filande di Pesaro o, per restare in città, come l’industria delle trecce di paglia Scrocco o le fabbriche, ancor più lontane nel tempo, di fettuccie e nastri di cui esisteva sul finire dell’Ottocento una fiorente produzione. Un’ulteriore, importante indicazione metodologica: in questa prima fase della ricerca abbiamo privilegiato il punto di vista degli stessi artigiani, proponendo quasi esclusivamente materiale proveniente dagli archivi di sarte e sarti, per focalizzare l’attenzione sulle modalità, sugli strumenti e sui ritmi di un operare quotidiano dal quale, nonostante la relativamente scarsa distanza cronologica, sembra separarci un tempo incolmabile. Paillettes, jais e strass meticolosamente catalogati in un italiano incerto e come per incanto risparmiati dalla polvere nelle loro scatole di cartone; campioni lavorati secondo tecniche antiche; figurini segnati da tratti di matita per adattarli alle esigenze di un pubblico poco incline alle novità; sgabelli, squadre di


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legno, manichini; diplomi e attestati esibiti con orgoglio sulle pareti di stanze che avrebbero fatto la gioia di Gozzano; i libri delle misure, pieni di note a margine che custodiscono i segreti di sguardi pietosi (curvo di spalle, panciuto, molto formato di fianchi, vuoto di torace). Ma ciò che più colpisce, nel percorso compiuto, è il gran numero di forbici superstiti, miracolosamente scampate a traslochi, bombardamenti, passaggi di proprietà. Sono state fatte su misura da un artigiano di Brescia, all’epoca costavano più di diecimila lire (oggi sarebbero due o tremila euro), sono tedesche, sa, le migliori, senta come pesano, mio padre le ha sempre tenute con sé: se mancano i documenti e le immagini sono rare (non avevamo tempo di fare le foto), le forbici con le loro superfici levigate dall’uso sopravvivono alle vicissitudini e alle guerre.Ancora affilatissime, protette da panni morbidi, sono mostrate con trepidazione, pronte come in una fiaba a riprendere il lavoro da un momento all’altro. Una suggestione che rimanda il senso più vero della ricerca, e che abbiamo tentato di restituire radunando nel capitolo finale strumenti e materiali del mestiere del sarto, fotografati senza abbellimenti, così come li abbiamo trovati. Infine, un invito: i sarti che abbiamo incontrato (i loro figli e nipoti) sono schivi, emozionati all’idea di comparire in un libro ma, salvo rarissime eccezioni, restii a parlare di sé, segreti e selettivi come la città dove hanno vissuto e operato. Più che in altri casi, sta qui al lettore ricomporre in filigrana il racconto che si snoda tra le pagine, con particolare attenzione a quei nomi riportati in chiusura, dove abbiamo riunito come in una foto di gruppo tutti gli artigiani citati nel volume. Ringrazio la CNA di Pesaro e Urbino, che con gli altri enti promotori del progetto mi ha dato l’opportunità di presentare al pubblico questo lavoro, nato da un’antica e tenace passione personale: un grazie va dunque a Camilla Fabbri e Giorgio Aguzzi, che hanno creduto nell’importanza di testimoniare un’attività artigianale che va scomparendo. Grazie di cuore poi ai compagni di strada Moreno Bordoni, che ha coordinato il progetto con attenzione e sensibilità, e Maria Grazia Nardini e Claudio Salvi che hanno pazientemente seguito tutte le fasi della realizzazione del volume. Soprattutto, ringrazio davvero tutti coloro che hanno accettato di condividere con noi i loro ricordi e le loro storie, per la disponibilità con cui ci hanno accolto e l’entusiasmo con cui hanno contribuito al completamento di questo mosaico. Cristina Ortolani


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La vera creatrice della moda è la storia Alfredo Panzini 1930


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Avvertenza Le indicazioni bibliografiche e le referenze iconografiche sono date di volta in volta e compaiono tra ( ). Il corsivo identifica le citazioni da documenti, fonti a stampa e testimonianze orali; tra [ ] le note dei redattori. In corsivo sono indicati anche titoli di libri, articoli e riviste, siti internet, titoli di spettacoli e manifestazioni. Le citazioni da internet sono state estrapolate dai rispettivi siti il 24 maggio 2008. Gli artigiani e le sartorie sono presentati in ordine cronologico, a seconda della data di inizio della loro attivitĂ ; il volume si chiude con un elenco delle sartorie citate


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Vestivamo alla pesarese

setaiole, sarti e sartine, 1860 - 1960

E cle vest, sa v’arcordè, Quand le à cminced usè, Sa chi cerch cum i palon, Ce steva sotta ott person! (…) Dop è vnud un’antra moda: Le soten fatt sa la coda. Anca quell era poch blén Da portè tutt chel stragén!... (…) Dop useva el fioch di dria, L’era insegna dl’ostaria. Adess usa l’gonn tired; Sa i’avé ben osserved (E pó s’en credé, guardè) Quand le s’ved a caminè Sarà un palma el pass dla donna S’la ‘l fa d’più la romp la gonna!

(…) L’en va tant a considrè Ch’c’è le vest dop d’arconcè Che ce vria più d’na stmena Arconcé qualca sotèna, A pulila e pó a lavela Dop c’è bsogn anca d’stirela; E pó dop fatt sta fatura La ‘n fa più la su figura, Mo sa vlé che la sotèna La s’mantenga sempre sèna A m’arcmand, non ve sforzè, Fè chel pass ch’a podé fè; En ve sucedrà più gnent E a v’podrì trovè content Fina a la mort, e fè la prova; Sempre a i’avrì la vesta nova. Odoardo Giansanti (Pasqualon), Guei ma chi tocca, 1886, da Poesie, Pesaro, 1968


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Pesaro, 1849-1859. Presso molte famiglie, insieme con le singole caldaie della seta, si trovava il telaio per la lavorazione delle fettucce, di cui v’era un buon opificio. Fiorivano le conce di pelli di via Galligarie e Vallato... e non mancavano al pari d’oggi le filande e le fabbriche di Ceramica. (...) E via Branca? - chi non rammenta d’averla sentita chiamare dal popolo, tenace nelle tradizioni: “via dei Calzolari”? - allora più storta, più sudicia, più oscura, insieme con le bottegucce dei calzolari, offriva parecchie ben fornite botteghe di cordami e di pannine (note tra esse quelle della “sora Ghita”, della “sora Nina” e del vecchio Frontali). Ma di quelle caratteristiche botteghe “a sette”, atte a disporre in mostra la mercanzia e a dar luce all’ambiente. Vetrine? Basti il lusso di qualche scaffale, dentro, e di un bancone non indecenti (da G. Ugolini, Pesaro cinquant’anni orsono, 1910, in Omaggio a Giorgio Ugolini, 2000). Da pagina 16 a pagina 19; alle pagine 38 - 39, 57: Pesaro ai primi del ‘900 nelle fotografie degli album di don Giovanni Gabucci (Archivio Diocesano di Pesaro)


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Pesaro e dintorni,

seta e setaiole ai primi del ‘900

LE SETAIOLE Orario invernale dalle ore 4 e 1⁄4 fino alle 18 con soltanto un’ora di intervallo a mezzodì per mangiare pane con cipolla o grugni, allattare i bimbi che venivano a quell’ora portati. Lavoro duro, con mani sempre a bagno nell’acqua bollente della bacinella per le seguenti paghe: operaia L. 0,40 al giorno; sotira: L. 0,50; maestra, L. 0,60. Per tale paga le operaie, che erano in maggioranza del porto, venivano anche da fuori (da Saltara, Gallo ecc.) il lunedì mattina a piedi, portando un sacchetto di pane per tutta la settimana; pagavano a Pesaro due soldi ogni notte un giaciglio. La nostra casa a Porta Rimini confinava con la Filanda Torre (detto il Francese); io ero a volte svegliato alle 4 dalla sirena che chiamava a lungo le operaie, e le conoscevo e le vedevo ogni giorno a frotte. Non esistevano sale di riunioni per le operaie, spogliatoi ecc.; scendevano a mangiare per la strada e sull’ingresso (da G. Ugolini, Pesaro cinquant’anni orsono, 1910, in Omaggio a Giorgio Ugolini, 2000).

Annuncio pubblicitario del Regio Osservatorio bacologico di R. Giovanelli, da Pesaro, guida pratica illustrata, 1911

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Pesaro, 1883. Per quanto riguarda l’industria ed il Commercio daremo un cenno statistico dei principali Stabilimenti industriali dai quali si potrà fare un’idea di ciò che produce il paese, e quali sono i prodotti che, in ragione della loro quantità, possono essere esportati. Vi sono: BACHI - Uno stabilimento a confezione di seme bachi che con 40 operaj dà un prodotto di 2.000 oncie in media. FILANDE - Sei filande a vapore e 11 a fuoco diretto: le prime in tutto contano 281 bacinelle, lavorano da 6 a 8 mesi circa nell’anno, impiegando 850 operaje e producendo annualmente chili 9.000 di seta. Le seconde hanno 62 bacinelle, lavorano circa 4 mesi e con 170 operaje, producono chili 1.800 circa di seta. HOZ OTTONE - Sedici fabbriche di fetucce che vengono tutte ecclissate o quasi da quella del sig. Hoz Ottone che impiega tutto l’anno in quest’industria 160 operaje, producendone 40,000,000 di metri all’anno, giusto il nastro che ci vorrebbe per cingere la terra all’equatore. Lo stesso Sig. Hoz tiene nel suo vasto e magnifico Stabilimento una tintoria a vapore con 50 operai (da G.Vanzolini, Guida di Pesaro, 1883).


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Sin dal ‘700 la sericoltura ebbe grande diffusione nelle Marche, dove la coltura del gelso e l’allevamento del baco erano praticati nelle campagne almeno dal XIII secolo. Inizialmente esercitata presso le stesse abitazioni contadine, la trattura della seta si spostò progessivamente verso le città, organizzandosi intorno alle filande, che rappresentano all’inizio dell’800 uno dei primi esempi di fabbrica attivi in Italia. Le prime filande...sorsero nelle zone di maggior disponibilità di bozzoli,e di massima reperibilità di manodopera (soprattutto femminile e minorile). Dopo un’attività di quasi due secoli, esse subirono un’irreversibile paralisi: le guerre, la nascita della seta artificiale, le scarse innovazioni tecnologiche, lo scemato entusiasmo imprenditoriale sancirono la morte dell’industria serica (da M.F. Chiodi, Le filande marchigiane tra Ottocento e Novecento, 2003). Nella nostra provincia, che nel 1839 era al quindicesimo posto nella graduatoria nazionale, la sericoltura si concentrava soprattutto a Fossombrone, dove nel 1744 erano attivi 44 opifici e che resterà il primo centro di produzione marchigiano fino al 1902, anno in cui sarà superato da Jesi. A Pesaro i registri della Camera di Commercio elencano per il 1883 - ‘84 19 filande, 5 delle quali a vapore: la filanda Cecchi Agostino e la filanda Fratelli Giovanelli, con 110 operai; la filanda Eredi Spinaci, con 100 operai; la filanda Testenoire e Palluat, con 200 operai (1883); la filanda Valazzi Luigi, con 107 operai (1883). La manodopera era prevalentemente femminile: nel 1884 la filanda Cecchi Agostino impiegava 105 operaie, 3 operai e 2 fanciulli; 107 femmine e 3 maschi lavoravano presso i Fratelli Giovanelli, mentre la filanda Eredi Spinaci contava 95 operaie, 2 maschi e 3 fanciulli. La filanda Testenoire e Palluat impiegava 160 femmine, 6 maschi e 25 fanciulli e, infine, la filanda Valazzi contava 80 operaie e 2 operai maschi. Filande e industrie legate al settore dell’abbigliamento presenti a Pesaro tra il 1883 e il 1884 (dove presenti, sono riportati anche i dati relativi alla produzione media annuale; dai Registri della Camera di Commercio ed Arti di Pesaro, Archivio di Stato di Pesaro)

Filanda

n° bacinelle

n° operai nel 1883

n° operai nl 1884

Produzione media annuale in kg

Cecchi Agostino

34

110 (di cui 105 femmine, 3 maschi e 2 fanciulli)

Fratelli Giovanelli

34

110 (di cui 107 femmine, 3 maschi)

850

Eredi Spinaci

32

100 (di cui 95 femmine, 2 maschi e 3 fanciulli)

750

Testenoire e Palluat

72

200

191 (di cui 160 femmine, 6 maschi e 25 fanciulli)

2.400

Valazzi Luigi

36

107

82 (di cui 80 femmine e 2 maschi)

1.400

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1.600


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Filande a fuoco diretto

Filanda

Produzione media annuale in kg

n° bacinelle

n° operai nel 1883

n° operai nl 1884

Bonetti Matilde

2

6

7 (6 femmine e 1 fanciullo)

Brunelli Luigi

6

15

17 (16 femmine e 1 fanciullo)

Bruscoli Ercole (chiusa nel 1886)

4

9

60

Cartoceti Giocondo

3

7

90

Cinotti Giuseppe

14

44

Guidi Filomena

9

11

Marini Andrea

4

10

Mariotti Marianna

8

19

Massacesi Eredi

3

7

30

Mini Giuseppe

4

10

200

Pagnoni Terenzio

8

19 (17 femmine e 2 fanciulli)

300

Roberti Terenzio

6

15 (13 femmine e 2 fanciulli)

Sponza Melchiorre

63

Terenzi Domenico

4

42 (tutte femmine)

800

150

190 (182 femmine, 4 maschi e 4 fanciulli) 14

200

3.600 170

Pesaro, Mercato serico, bollettino per il 1 e 2 luglio 1923 (Archivio Comunale di Sant’Angelo in Lizzola)

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Industrie legate al settore dell’abbigliamento

Industria

n° operai nel 1884

Produz. media annuale in Kg

Della Costanza Raffaele, fabbrica fetuccie (sic) con 16 (13 femmine per la fab10 telai e, dal 1884, anche tintoria brica di fettucce e 3 maschi per la tintoria)

500

Fabbri Secondo, fabbrica fetuccie con 6 telai

10 (7 femmine e 3 fanciulli)

500

Gennari Raffaele, fabbrica fetuccie con 8 telai e, dal 14 (10 femmine e 4 maschi) 1884, anche tintoria

500

Hoz Ottone, fabbrica fetuccie con 126 telai e tintoria 135 (124 femmine, 8 maschi, 3 fanciulli per la fabbrica di fettucce piĂš 40 per la tintoria)

40.000

Tamburini Raffaele, fabbrica fetuccie

24

18

2.000


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1881. Dalla Statistica della Provincia di Pesaro e Urbino per G. Scelsi. Cap. VI – Industrie manufattrici - In tutta la provincia [vi sono] 12 fabbriche di cappelli ... L’unica industria di materie animali che si mantiene in fiore è quella della seta. Sono 37, fra piccole e grandi, le filande esistenti nella provincia, alcune delle quali, in Pesaro, Fano, Fossombrone e Urbino, di notevole importanza e tenute coi migliori sistemi. Vi lavorano per buona parte dell’anno non meno di 1.442 operai; e di questi 155 sono uomini, 1.000 donne e 287 fanciulli. Il loro prodotto totale è di lire 1,221,262; e da esso togliendo il valore delle materie prime ch’è di lire 996,980, la spesa della mano d’opera in lire 106,580, e le altre spese per interessi diversi, rimane l’utile netto di lire 71510 e la media di L. 15,38 per ogni 100 lire di capitale impiegato. ...Un’industria nascente nella provincia è quella del seme di bachi preparato col sistema Cantoni-Pasteur... ora molto in voga. Due sole ditte, una di Fossombrone, l’altra di Pesaro, esitano una buona quantità di seme scelto col microscopio... La spesa totale è di lire 55162 e l’utile netto di lire 29838; in ragione di L. 54,09 per ogni 100 lire del capitale impiegato. ...Fra le 24 fabbriche di fettucce, una sola può dirsi vero e grandioso stabilimento industriale, fondato da poco tempo in Pesaro dal signor Hoz a Porta Rimini coll’applicazione dei migliori sistemi economici. Vi è pure annessa una tintoria. Il Municipio ha dato all’intelligente e coraggioso fabbricante ogni maniera di facilitazioni per l’apprestamento del locale costituito con tutte le regole dell’arte ed in forma elegante. Queste facilitazioni e il tenue costo della mano d’opera assicurano allo stabilimento una vita rigogliosa. Il valore dei prodotti che oggidì si ottengono da tutte le fabbriche di fettucce è di circa lire 200.000; vi lavorano, pressoché continuamente, 238 operai, per lo più donne; la mano d’opera costa lire 126,390, e l’utile netto si fa ascendere a lire 35050; ed in media L. 22,06 per ogni 100 lire del capitale impegnato (Dalla Statistica della provincia di Pesaro e Urbino per G. Scelsi - Pesaro, 1881, Ristampa anastatica, Provincia di Pesaro e Urbino, 1997).

Confronto delle mercedi giornaliere corrisposte agli operai nel 1860 e nel 1880 (da Tav. XXXIV - Scelsi, cit.) 1860

1880

Sarti

1,25 (Fano e Urbino: 1,75)

1,50 (Fano e Urbino: 2,00)

Cappellai

1,50 (Urbino: id; Fano 1,75)

2,00 (Urbino e Fano id)

Calzolai

1,25 (Fano: 1,00; Urbino: 1,50)

1,50 (Fano: id; Urbino: 1,75)

Orefici

1,30 (Fano: 1,10)

1,50 (Fano: id)

Conciapelli

1,25

1,50

Canepini

1,30 (Fano: id)

1,60 (Fano: 1,50; Urbino: 1,75)

Filandieri

0,65(Fano:0,80;Fossombrone:0,80;Mondolfo:1,00) 0,90 (Fano: 0,80; Fossombrone: 0,90; Mondolfo: 1,00)

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La filanda di Mombaroccio La filanda - dove si eseguiva solo la prima fase del ciclo della seta, la trattura -, era costituita da un impianto di 80 bacinelle a fuoco diretto, posto in un ampio ambiente del palazzo di proprietà di Vedaste Del Monte. L’impianto nel 1857 venne radicalmente ammodernato: scomparvero gli antiquati fornelli sostituiti da 50 bacinelle riscaldate da un’unica caldaia; fu questo il momento di maggior splendore della fabbrica che ricevette lusinghieri riconoscimenti tra cui una medaglia d’argento all’Esposizione nazionale organizzata a Firenze per celebrare l’Unità d’Italia. Negli anni successivi la filanda declinò, anche se non ne sono chiari i motivi. …Si può ipotizzare che l’atrofia dei bozzoli [malattia dei bozzoli diffusasi in tutta Italia a metà del XIX secolo]… avesse prima diminuito e poi scoraggiato questa pionieristica attività industriale. Nel 1868, secondo un’indagine svolta dall’amministrazione comunale e comunicata alla Camera di Commercio di Pesaro, su 50 bacinelle ne lavoravano solo 12 e limitatamente a 98 giorni all’anno, si impiegavano 6.400 kg di bozzoli per produrre circa 550 kg di organzino. Nel 1869 il volume produttivo diminuiva ancora: lavoravano 16 bacinelle per soli 64 giorni, trasformando complessivamente 5.000 kg di bozzoli in 370 kg di organzino. Negli anni successivi né l’amministrazione comunale né la Camera di Commercio pesarese registrarono alcuna attività, per cui si deve presumere che essa fosse cessata o continuasse in maniera trascurabile (da Giorgio Pedrocco, Mombaroccio, 1800-1945, Storia di un paese tra Risorgimento e Liberazione, 1985). Ricordiamo che secondo il censimento 1871 Mombaroccio contava 2.704 abitanti (dalla Statistica della provincia di Pesaro e Urbino per G. Scelsi - Pesaro, 1881, Ristampa anastatica, Provincia di Pesaro e Urbino, 1997). Dati relativi al mercato serico pesarese: a sinistra, L’Idea 23 giugno 1923; a destra, La Provincia, 7 luglio 1901.

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La lavorazione della seta a Sant’Angelo in Lizzola Usciti di chiesa e proseguendo sino in fondo alla via, venti anni fa saremmo stati fermati dal canto delle filandaje che lavoravano con passione i bozzoli acquistati sul locale mercato serico allora molto fiorente. La filanda era gestita da tre proprietari di ideali diversi che il popolo aveva ribattezzati col nome di Inferno, Purgatorio e Paradiso. Ora al posto della filanda è stato aperto nel 1942 l’Asilo infantile con annessa scuola di lavoro e doposcuola sotto la direzione delle benemerite Maestre Pie dell’Addolorata; ed il locale accoglie provvisoriamente anche le scuole elementari, in attesa che venga definitivamente sistemato il nuovo edificio Scolastico dedicato a Branca, posto fra la Piazza Perticari ed il viale Dante Alighieri (Giovanni Gabucci, A casa nostra, lettura al cinema “Branca”, 13 marzo 1948, Archivio parrocchia San Michele Arcangelo, Sant’Angelo in Lizzola).

Sant’Angelo in Lizzola (PU), 1927, operaie della locale filanda (raccolta Associazione culturale “G. Branca”, Sant’Angelo in Lizzola)

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Nel maggio 1903 il Comune di Sant’Angelo in Lizzola (2003 abitanti nel 1900) decide di istituire un proprio mercato serico: già dal 1883 i registri della Camera di Commercio di Pesaro segnalano nel Comune due stabilimenti bacologici, quello di Luigi Marcolini e quello di Giobatta (Giovan Battista) Sallua. Presso lo stabilimento Marcolini sono impiegati 10 operai, e la produzione annua corrisponde a un valore di 2.880 lire; lo stabilimento Sallua, che risulta fondato nel 1874, conta 15 operai, con una produzione annua pari a un valore di lire 4.032. In quegli anni figurano nell’elenco degli Utenti Pesi e Misure anche un sarto, Giuseppe Sora, e un tintore, Giuseppe Guidi; da ricordare che un tintore, Giuseppe Berti, compare nei documenti dell’Archivio Comunale sin dal 1813. Nel 1907 la Statistica dei prodotti agricoli e bestiame - Camera di Commercio ed arti in Pesaro (marzo 1908) registra per il Comune di S.Angelo la produzione di 90,18 quintali di bozzoli (pari a 414 lire); nel 1930, secondo i dati del censimento agricolo, la produzione complessiva dei bachi da seta è di 5.165 kg (peso complessivo dei bozzoli freschi). Il 7 maggio 1926 i Registri delle delibere consigliari riportano una Domanda per la costruzione di un padiglione per mercato serico: Considerato che il mercato serico il quale si svolge da tempo assai remoto in questo paese e ha assunto uno sviluppo notevolissimo, tanto che dal diritto di pesa dei bozzoli il Comune ritrae annualmente un gettito di lire 3.000 minaccia di declinare perché il Comune non ha un luogo coperto ove possa essere tenuto, di guisa che nei giorni di poca buona stagione i venditori, piuttosto di correre il rischio di perdere il loro prodotto, si recano a Pesaro; riconosciuto essere indispensabile - in primo luogo per non perdere i notevoli, e assai sensibili vantaggi che ritraggono il Comune e il Paese e in secondo luogo per assecondare le due fiorenti industrie della filatura della seta e produzione del seme bachi esistenti in questo Capoluogo - costruire un apposito padiglione per il mercato serico, affinché questo non si debba svolgere più all’aperto lungo la via principale del paese e sia evitato l’esodo dei venditori e lo sconcio di vedere, nei giorni di pioggia improvvisa, mercanti e merci riparare in Chiesa; visto il progetto di massima redatto da un tecnico incaricato, dal quale 28


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si desume che la spesa che importerà al Comune... sarà di lire 40.000 [il Consiglio Comunale] ...delibera in via di massima di costruire nel Capoluogo un padiglione per il mercato serico. Più di un anno dopo, il 17 settembre 1927, il Consiglio delibera di chiedere al prefetto l’autorizzazione a cominciare i lavori in economia data l’urgenza di iniziare i lavori per combattere la disoccupazione, mentre da una delibera del 1 dicembre 1927 si ricava che i costi per la costruzione del padiglione sono saliti a 47.000 lire. Il 27 luglio 1930, tra le note liquidate dal Comune compare anche la voce Compenso agli incaricati del servizio per il mercato serico: ...nel passato mese di giugno durante il mercato serico prestarono servizio le seguenti persone 1 – N.C. contabile; 2 – S.L. Pesatore; 3 – D.V.D. pesatore; 4 – C.D. registratore; 5 – G.E. sorvegliante; ...Il servizio quest’anno fu più importante [dell’anno scorso] perché si sono incassate a beneficio del Comune L. 2.376,50 mentre l’anno scorso si riscossero L. 2.089,80, e malgrado la differenza il Commissario concede lo stesso compenso e cioè 1 – N.C. contabile L. 200; 2 – S.L. Pesatore 80; 3 – D.V.D. pesatore 80; 4 – C.D. registratore 80; 5 – G.E. sorvegliante 30. Il 30 luglio 1931 le delibere riportano ancora i compensi per gli incaricati del mercato serico, dove nel 1931 furono venduti e comprati 6.187,800 chilogrammi di bozzoli con un beneficio per la Cassa comunale di Lire 1.237,55 per diritti di pesatura. L’ultimo riferimento al mercato serico nei registri delle delibere consigliari, infine, è del 1 ottobre 1931, quando sono liquidate a C.G. 10 lire per stoffa bandiera mercato serico. Tra il 1903 e il 1906, e in misura minore anche negli anni successivi, numerose operaie della filanda di Sant’Angelo in Lizzola emigrarono per il sud della Francia, dove trovarono impiego presso la manifattura di seta Franquebalme, a Villedieu, vicino ad Avignone. Sopra: Sant’Angelo in Lizzola, Mercato serico, bollettino relativo al periodo 18 giugno - 2 luglio 1906 (Archivio Comunale di Sant’Angelo in Lizzola); sotto:Avignone, Francia, primi del ‘900: la filanda Franquebalme a Villedieu (da http://www.cartes-et-patrimoine.com/vaucluse-villedieu-c-73_168_23848.html); nella pagina a fianco: carta intestata dello Stabilimento bacologico Sallua (Archivio Comunale di Sant’Angelo in Lizzola)

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Pesaro e dintorni,

il vestiario nelle campagne alla fine dell’800

I coloni non portavano scarpe, se non la domenica, ma usciti dalla Chiesa o dal centro abitato se le cavavano sempre e le gettavano in spalla per camminare meglio e non consumarle. Vestivano di cotone d’estate senza giacca, e di bavella quasi sempre bigia d’inverno (da G. Ugolini, Pesaro cinquant’anni orsono, 1910, in Omaggio a Giorgio Ugolini, 2000).

L'allevamento [del baco da seta] di rado si fa nelle bigattiere, e quasi sempre nelle case coloniche e in molte case di città; anche i braccianti di campagna allevano per solito il baco. (…) Il vestiario in generale è di rascia, lana e filo di canapa, per l'inverno, e di rigatino, tutto filo, per l'estate, tessuti per lo più dalle donne di casa (...) Le biancherie sono o di filo di canapa, o di cotone secondo che vennero o tessute in casa o acquistate al mercato. La qualità può ritenersi per buona; ma e per la poca frequenza onde vengono mutate, e per la nessuna cura onde vengono rammendate e imbiancate si rendono presto tutt'altro che igieniche (dall’Inchiesta Jacini, 1877-1882, relativamente al vestiario dei popolani e contadini della zona di Pesaro).

Rio Salso di Tavullia, 1900 circa, Marianna Duchi Antonelli (raccolta Pro Loco Fogliense,Tavullia)

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Numero dei telai presenti nei Comuni della provincia di Pesaro e Urbino nel 1885 – dati relativi ad alcuni Comuni del Circondario di Pesaro (dai Registri della Camera di Commercio ed Arti di Pesaro, Archivio di Stato di Pesaro)

Comune

Numero di telai

Fibra tessuta

Gabicce

26

Lino e canapa

Ginestreto

40

Lino e canapa

Gradara

105

Lino e canapa

Montebaroccio (sic)

170

Lino e canapa

Monteciccardo

230

Lino e canapa

Montelabbate

76

Lino e canapa

106

Lino e canapa

70

Lino e canapa

Sant’Angelo in Lizzola

192

Lino e canapa

Tomba (Tavullia)

170

Lino e canapa

Novilara Pozzo Alto

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Attiva fino a pochi anni fa, Luisa Talevi è una delle poche artigiane ad aver continuato la tradizione della tessitura a mano di Candelara e Novilara (due piccoli borghi del Comune di Pesaro), mantenuta viva per tutto il ‘900 dalle Pie Artigiane Cristiane di Novilara e Candelara. L’iniziativa, assunta sin dal 1929 dall’abate Terenzio Cecchini di Novilara, si è successivamente sviluppata anche a Candelara grazie all’opera del parroco monsignor Nicola Alegi, che si attivò per offrire una formazione professionale alle ragazze in cerca di occupazione negli anni del dopoguerra; l’attività ricevette poi ulteriore slancio dall’apporto della professoressa Egizia Bazzigaluppi Bargossi. Tra gli apprezzatissimi prodotti della tessitura di Novilara e Candelara ricordiamo i tappeti in lana e le tele di canapa e lino, oltre ai ricami eseguiti con diverse tecniche; diminuita col passare degli anni, l’attività del sodalizio si interruppe definitivamente alla morte della professoressa Bargossi e dei due parroci (notizie raccolte da Martina Giorgi).


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Sopra: Sant’Angelo in Lizzola (PU), Scuola di lavori femminili, 12 marzo 1922 (foto Bertozzi, Pesaro; raccolta Gabriella Giampaoli, Pesaro). Nella pagina precedente: anni Ottanta del ‘900, Candelara di Pesaro, Luisa Talevi al telaio (raccolta Famiglia Giorgi, Candelara di Pesaro)

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Dalla Nota dei panni di lana, lino, seta, biancherie, ori e perle il tutto dato in dote a T. figlia di G. e S. coniugi B., maritata con L. C. di Calibano, 1844 (raccolta privata, Pesaro)

Camicie n. 9 padovane Altre due camicie use Una veste di rascia [sorta di panno grossolano] color caffè Una veste di rascia color torchino con guarnigione di velluto Una veste di rascia verdone usa Una veste di rascia verde con guarnigione di velluto Una veste di bavella [tessuto di seta] color torchino Una veste bavellona usa Una veste cambrino [cambrì, sottile tela di lino] fiorata usa Una veste cambrino rigata con fiori diversi usa Una veste bianca mossola [mussola] con guarnigione ed altro sottanino Una veste tela indiana fiorata torchino usa Altra veste simile con fiori diversi fondo torchino usa Una sottana cotonina rigata torchino con corpetto usa 2 zinali rigatino nuovi 2 sottane rigatino Una veste rigatino torchino Zinali diversi, due cambrino, uno cotonina 2 scialli uno di lana e l’altro cottone Un fazzoletto di tullo Un fazzoletto da testa ricamato bianco Un busto Calzette n. 4 paia, due bianche e due torchino 2 paia scarpe La sposa vestita Un collo perle di file n. 8 Un paia pendenti d’oro Una verga di diamanti, con anello contornato simile e verga d’oro Un filo coralli Un paia pendenti di corallo Un paia cerchietti 34


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Pesaro e dintorni

sarti, sarte e sartine 1900-1940

Pesaro,Villa Fastiggi, anni Trenta - Quaranta del ‘900: un gruppo di sarte (Archivio Biblioteca “V. Bobbato”, Pesaro/Fondo Pezzolesi)

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Nella foto, scattata nel 1941 a Talacchio, Luigia Damiani (Gigia) seduta in primo piano a sinistra con il vestito scuro, insieme con alcune sue allieve e alcuni parenti

Luigia Damiani, sarta in Talacchio Luigia Damiani nasce a Talacchio di Colbordolo il 2 Novembre del 1914. Non aveva ancora vent’anni quando iniziò a frequentare come apprendista la sartoria della Bolognese, una delle sarte più rinomate di Pesaro. E’ rimasta a lavorare dalla Bolognese fino al 1940, tornando successivamente a Talacchio, dove viveva la sua famiglia, per avviare l’attività in proprio. Ha lavorato per più di cinquant’anni e nel suo laboratorio sono andate tantissime ragazze per imparare il mestiere: Gina, Augusta, Mariolina, Doriana, Adriana, Clara, Anna, Lola, Pina, Filomena, Giuliana, Maria... (notizie raccolte da Anna Damiani Tontardini e Sandro Tontardini).

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Montelabbate (PU), anni Quaranta del ‘900: Zina Bedetti al lavoro insieme con alcune sue colleghe (raccolta Zina Bedetti e Famiglia Bertuccioli, Montelabbate/archivio Memoteca Pian del Bruscolo)

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Pesaro, dal Ruolo esercenti arti, industrie e commercio, 1869. Antonelli Eugenio, orologiaio; Bailetti Raffaele, fabbrica di tele con telai meccanici e vendita tessuti; Battistelli Bianca in Sanchioni, modista; Battistoni Carlo, corami e calzolaio; Baglini Luigi, sarto; Carletti Ugo, tessuti; Castellani Giovanni, cappellaio; Cecconi Getulia, modista; Ceccolini Amalia, deposito macchine da cucire; Cecconi Adolfo, sarto-mercante; Gennari Pietro, cappellaio; Gregori Nicola, cappellaio; Giammarchi Romeo, sarto; Giovagnoli Ercole, sarto; Gattoni Salvatore, sarto; Gasperi Augusto, sarto e mercante; Mariotti Augusto, negozio di cappelli; Monacciani Agostino, sarto-mercante; Moscatelli Adolfo, calzoleria; Macchini Gaetano, calzolaio; Moretti Giuseppe, sarto; Orazi Francesco, sarto; Rossi Igino, venditore di tessuti; Raffaelli Ercole, parrucchiere; Severini Francesco, sarto-mercante; ditta Maria Salvino, manifattura cappelli di paglia; Spanocchi Cesira, modista; Servadei Pietro, cappellaio; Venturini Gino, sarto-mercante.


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In queste pagine: annunci pubblicitari, da Pesaro, Guida pratica illustrata, 1911 e (Sartoria Inglese) da L’Ora, 11 aprile 1926


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Le mie predilette sono le sartine indipendenti,

le isolate, che abitano una periferia percorsa dai treni, e cuciono nella stanza da letto, misurano nella sala da pranzo (c'è sempre un grosso tavolo, con tappeto di pizzo ed aspidistra in vaso d'ottone, ed il lume trema al passaggio dei camion). Intanto la possibilità del miracolo l'avvolge: e non è puntuale, e non è precisa, e non accetta suggerimenti, né critiche. Se le si porta un giornale di moda, lo sfoglia appena, di malavoglia, indugiando soltanto sulle pagine della réclame, davanti a immagini colorate, vistose e inattuabili. Se le si affida il capo di buon taglio, che un'amica ci permette di copiare, lo solleva con due dita, lo disprezza in silenzio, lo lascia ricadere. Accetta suggestioni dal cinematografo soltanto, e da film americani: Loretta Young, e qualche volta Joan Crawford, sono le sue ispiratrici. I suoi prezzi sono imprevedibili, talvolta si presenta di sera tardi, a esigere, aspramente, le 1.500 lire di fattura per una sottana. Talaltra rimanda, per sei mesi, la fatica di scrivere, sopra un pezzetto di carta dubbia "Conf. Prinsess lire 6.00, lampo lire 380, ovattina lire 1.200, forniture varie lire 75". Può decidere di diventare ricca e celebre, e ci riesce. Più spesso sceglie la povertà anonima, ma è sempre lei, confusa, violenta, sensibile, che governa la moda (da Irene Brin, Fanno loro la vera moda, 1949

Le apprendiste sarte Lavoravano gratis del tutto una decina d’anni presso le proprietarie delle sartorie, maestre per imparare. Soltanto per la festa annuale ricevevano un regalino di un paio di lire come un fazzolettino di seta e una merenda (da G. Ugolini, Pesaro cinquant’anni orsono, 1910, in Omaggio a Giorgio Ugolini, 2000).

Finite le scuole elementari, si doveva decidere cosa avrei fatto. …optai per il lavoro e a 12 anni andai a imparare a cucire. La mia maestra era una pesarese, emigrata a Parigi dopo la guerra [la I guerra mondiale]. …Consigliata dal mio sindacato mi presentai in una sartoria più grande, di Alta Moda. …Eravamo negli anni Trenta, anni di grande crisi… Alle compagne di scuola, si erano aggiunte altre amicizie come le compagne midinettes (sartine), le storie delle loro famiglie, i loro flirts, un ambiente nonostante tutto giocoso, allegro, importante, e i loro problemi come i miei, di passaggio ulteriore di qualifica professionale. Per molte di loro era arrivare a essere première main (sarta finita). Io vedevo il mio futuro… Sì, diventare una brava sarta dell’Alta Moda, ma non solo per fare dei vestiti per le collezioni e per farli indossare alle donne borghesi, ma fare dei vestiti belli per le operaie, per le lavoratrici... (da Sparta Trivella, Sono contenta di essere nata femmina, 1990). 42


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Sopra: sarte e apprendiste (1905-1910) in una sartoria pesarese (raccolta Cristina Ortolani, Pesaro); la bambina al centro della prima fila è Zaira Mignoni, futura sarta in proprio; sotto: Maria Filippetti e Vincenzo Clementi in viaggio di nozze; Maria Filippetti indossa un cappotto realizzato nella sartoria di Zaira Mignoni, presso la quale fu apprendista (raccolta Giovanna Clementi Macchini, Pesaro)

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L’industria serica, la filanda, occupava come quella

delle trecce per cappelli fatte a macchina nello stabilimento Scrocco, per la gran parte lavoranti femminili. Anche presso Scrocco le condizioni di lavoro erano nei limiti e al livello dei tempi; un lavoro duro, anche qui, retribuito modestamente come si usava, in ambienti non riscaldati (solo nell’ora dedicata alla colazione le lavoranti in genere si riunivano nello stanzone dove c’era la caldaia che forniva vapore alle macchine) (da Caterbo Mattioli, Pesaro anni Trenta, 1993)


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1934. La Filanda Sociale Pesarese e la Filanda Giuliani e Vici, assorbono i prodotti comunali dell’allevamento del baco da seta. (...) Tra le produzioni artistiche artigiane si ricordano Le Industrie Femminili Pesaresi per la lavorazione e confezione dei ricami Bella e proficua iniziativa industriale pesarese si deve all'attività di Pietro Scrocco, i cui stabilimenti per la lavorazione del truciolo e la fabbricazione di trecce di paglia per cappelli, senza mai aver conosciuto crisi di sorta, unici in Italia, esportano la loro produzione in Francia, Inghilterra ed America. [La ditta] fu fondata dal sig. Pietro Scrocco nel 1911, quando le classiche trecce di paglia di Firenze e di trucioli di salice, fatte a mano in Toscana e nel Modenese, cominciavano a perdere terreno, sotto la pressione della produzione tedesca e svizzera, ottenuta a macchina. (...) L'iniziativa del Sig. Scrocco, mentre in quel momento rispondeva a un bisogno dell'Industria Italiana delle Trecce in generale, cadeva opportuna per Pesaro, dove, per mancanza di altre industrie, era disoccupata la mano d'opera femminile locale, numerosa e diligente. Sorse così in Pesaro la fabbrica meccanica delle trecce: un embrione di fabbrica con poche macchine e 5 operaie, che a poco a poco sviluppandosi, raggiunse i primi ranghi tra le consorelle più anziane... (da O. T. Locchi, La Provincia di Pesaro e Urbino, 1934).


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Sant’Omobono

Sant’Omobon

A m’arcord, par la tu’ festa, sa ‘l principèl in testa, a vnémmi sò t’la chisuléna par la messa d’la maténa e dop preghéd in abondanza a rempì s’giva la panza. Dop dic’ann de sartoria a m’so méssa par cónt mia e i gratachep i sa sol Dio. Capitèva fra i client, qualch giuvnott un po’ sigènt: Maché è strétt, maché è lènt! in tla buga an butta bèn, liscia pur, mè, sa le mèn! D’cunfesèl an mè rincésc mo butèva sempre pégg’! A pensèva ma un malòcch’ parché ‘l difett el crescèva a vista d’òcch’!

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E sa ‘l tu’ aiut preziós a j ho vestit anca ma j spós e par gì t’l’altèr a dì de sé ho contribuid un po’ anca mè! Pò an el so s’m’han ringrazièda o s’m’han mandèd a murì mazèda. Ma j òm molt tèmp ho dedichèd, a j ho vestid, a j ho spujèd! Adèss prò ho gambièd bandira, a j ho chius la mi’ carìra. E dat l’età un po’ vanzèda d’bacilè me so stufèda. E senza tant preocupazión a facc i cul ma i vècch’ calzón. Sant’Omobon, tmè vrà scusé, da neatre s’dic acsé! E s’en me còj nisciun malann a c’sentém anca n’antr’ann. Aida Fabbri, 4 febbraio 1990 (raccolta Mina Forlani, Pesaro)


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Sant’Omobono (13 novembre) Oltre a essere patrono di Cremona, Omobono Tucenghi è protettore di mercanti, lavoratori tessili e sarti. Egli stesso, infatti, fu commerciante di stoffe stimatissimo in città. Era abile negli affari e ricco. Ma il denaro - nella sua concezione della ricchezza, vista non fine a se stessa - era per i poveri. La sua azione lo portò ad essere un testimone autorevole in tempi di conflitto tra Comuni e Impero (Cremona era schierata con l’imperatore). Quando morì d’improvviso, il 13 novembre del 1197, durante la Messa, subito si diffuse la fama di santità. Innocenzo III lo elevò agli altari già due anni dopo. Riposa nel duomo di Cremona (da L’avvenire, citato in www.santiebeati.it).

Sopra: Sant’Omobono, immaginetta sacra italiana, 1930 circa (raccolta privata, Pesaro); nella pagina a fianco: 14 novembre 1960, le sarte di Pesaro in gita al Santuario di San Luca, a Bologna, in occasione della festa di Sant’Omobono (raccolta Cisa Paccassoni, Pesaro). I sarti della nostra città ricordano con particolare affetto un quadro di autore ignoto conservato presso la Chiesa dell’Adorazione di Pesaro, raffigurante Sant’Omobono (Sant’Omobono veste i poveri della città, XVIII secolo)

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Tanto di cappello la moda e gli accessori Impossibile non dedicare almeno qualche riga all’arte delle modiste: dalla Rosina Lugli alle sorelle Negrini fino alla Lucetta, anche a Pesaro le loro creazioni hanno segnato un’epoca, lo sguardo a metà tra suggestioni gozzaniane e le luci lontane di Hollywood e Cinecittà. Fustelle, miscele gommate la cui formula è rivelata a bassa voce, strumenti dall’aspetto misterioso per formare feltri, organze e asprì: i segreti delle modiste si tramandano attraverso una sapienza delle mani (e del cuore) e, più che in altri casi, non si lasciano facilmente fermare su carta. In queste pagine, come in un piccolo album o in un filmato un po’ corroso dai giorni, alcuni lampi a ricordo delle signore dei cappelli.

In questa pagina: annunci pubblicitari dei primi del ‘900. A sinistra da La Provincia, 25 dicembre 1904; a destra, sopra, da La Provincia, 29 ottobre 1910; sotto, da Pesaro Guida pratica illustrata, 1911

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Sopra: materiali e fustelle per modisteria dalla modisteria L’Arte di creare, di Loredana Della Costanza, Pesaro (1948-2008)


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La Cappelleria Mancini Dai feltri modello Borsalino alle berrette, passando per i fascinosi panama, la Cappelleria Mancini di Corso XI Settembre in quasi un secolo di vita ha ‘coronato’ le teste di molti pesaresi. La Cappelleria viene fondata negli anni Dieci del ‘900 da Marino Mancini; sul finire degli anni Quaranta suo figlio Piero apre un negozio di abbigliamento nel locale attiguo, per ampliare la vendita di confezioni già iniziata nella cappelleria, che dopo la morte di Marino sarà gestita dagli altri suoi eredi. Gli anni Sessanta vedono i due rami della famiglia continuare a occuparsi rispettivamente di cappelli e abbigliamento, mentre negli anni Novanta Gilberto, nipote di Marino e attuale titolare unifica i due negozi, mantenendo l’attività sotto la splendida insegna realizzata da Alcibiade Della Chiara.

Sopra, Marino Mancini davanti alla Cappelleria (1910 circa); nella pagina a a fianco, in senso orario: Piero Mancini, titolare del negozio (a destra) con il fratello Enzo e la vetrina della Cappelleria negli anni Quaranta del ‘900; il negozio oggi e in una fotografia del 1958 (raccolta Gilberto Mancini, Pesaro)

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La vera creatrice della moda è la storia Alfredo Panzini, 1930


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Umberto e Raffaele Garattoni Nato nel 1888 a San Nicola, località a pochi chilometri dal centro di Pesaro, Umberto Garattoni apre nel 1911 in via Petrucci la sua sartoria, una delle più antiche della città. All’inizio degli anni Trenta del ‘900 si trasferisce in viale Zara, nell’elegante villa all’angolo con viale della Vittoria ancor oggi abitata dalla famiglia, che fa bella mostra di sé sulle cartoline pubblicitarie della sartoria. Nella bella stagione spesso mio nonno lavorava in giardino, racconta il nipote Giuliano, artista affermato che custodisce con dedizione i ricordi dell’attività di famiglia: fu uno dei primi a costruire in viale Zara, all’epoca questa zona era ancora quasi interamente occupata dagli orti, la città-giardino si concentrava tutta intorno al villino Ruggeri, nell’attuale Piazzale della Libertà. Dal 1933 Umberto Garattoni è affiancato nell’attività dal figlio Raffaele (1913 - 1992): rinunciando a malincuore alla vocazione di architetto, Raffaele continuerà in grande stile la tradizione del padre, dopo aver affinato il mestiere presso una nota sartoria di Roma. L’arte resta però una costante nella sua vita: pittore di talento, Raffaele si circonderà di amici artisti, gli stessi che frequentavano la Bottega d’Arte di Alcibiade Della Chiara. Tra i più illustri clienti della sartoria Garattoni, che arrivò a contare una quindicina di lavoranti, ci fu anche il maestro Amilcare Zanella (1873 - 1949), direttore del Liceo Musicale “G. Rossini” dal 1905 al 1940. Nominato Cavaliere di Vittorio Veneto nel 1970, Umberto Garattoni si spegne nel 1982. Pesaro, anni Sessanta del ‘900: da sinistra a destra, Raffaele Garattoni e la moglie Maria Luisa Ruggeri, la signora Garattoni e Umberto Garattoni; dietro, Giuliano Garattoni, figlio di Raffaele

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Sopra: Pesaro, anni Trenta del ‘900, Umberto Garattoni sul balcone della sua abitazione di viale Zara; a destra: etichetta per capi di colore chiaro. Nella pagina precedente, sopra: cartolina pubblicitaria degli anni Trenta del ‘900; al centro, a sinistra: Diploma di anzianità artigiana conferito dalla Confederazione generale italiana dell’artigianato a Raffaele Garattoni, esercente il mestiere di sarto in Pesaro dal 1933 e a destra: Bologna, maggio 1928, Umberto Garattoni riceve la medaglia d’oro alle Esposizioni riunite presso il complesso del Littoriale, per la confezione elegante e accurata di abiti per uomo; sotto pubblicità del 1911 da Pesaro, guida pratica illustrata

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In questa pagina, sotto: Bruno Baratti, ceramica raffigurante Sant’Omobono, protettore dei sarti: la ceramica fu donata a Raffaele Garattoni dai suoi dipendenti; sopra: Raffaele Garattoni, Ritratto del padre Umberto e (con i baffi) Autoritratto. Nella pagina a fianco: Alcibiade Della Chiara, insegna della sartoria Garattoni

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Egregio Garattoni, ho ricevuto i vestiti che man mano li proverò. Attendo la nota che spero sarà fatta da... amico. Vi avverto che i ritagli di stoffa sono troppo scarsi. Sarebbero scarsi anche se si trattasse di un vestito solo Figuriamoci poi trattandosi di parecchi vestiti! Dunque mi raccomando...! Gradite i miei migliori saluti Vostro Amilcare Zanella Pesaro, Liceo Musicale Rossini - 15/12/XVIII (1940)

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Umberto e Raffaele Garattoni

Viale Zara. La strada dove sono nata. La strada dei miei ricordi. Ciò che talvolta si riaffaccia alla memoria risale agli anni ‘20 o meglio ancora agli anni ‘30. (...) Sì, la strada c’è ancora, ma di quel tempo, di quel vivere nulla è rimasto. Solo la memoria è l’unica testimone e la strada rivive nel ricordo. (...) Riemerge, come d’incanto, dal mondo dei miei ricordi il giardino fiorito del sarto Garattoni. Era proprio all’inizio, superata la nazionale. Il sarto Garattoni era noto per la sua bravura, aveva clienti molto esigenti (vedi mio fratello il dottor Cancelli) che solo lui riusciva ad accontentare e di ciò ne andava fiero. Ma io credo che la sua vera passione fossero i fiori. Quando non era particolarmente intento nel suo lavoro, era particolarmente intento al suo giardino. Era molto facile vederlo curvo sull’aiuola a zappettare, sarchiare, piantare o trapiantare... fiori per ogni mese, per ogni stagione, fiori per tutto l’anno. Dalle prime violette ai crisantemi. E chi passava di lì non poteva fare a meno di fermarsi ad ammirare quel tripudio di colori. “Che bello!” E il sarto Garattoni sorrideva felice (Guglielmina Cancelli da Ricordo di una strada: Viale Zara). In questa pagina, sopra: luglio 1951, gita della sartoria Garattoni alla Bettola, sul colle Ardizio; sotto: Umberto Garattoni e l’ars topiaria (tutte le immagini di questo capitolo provengono dalla raccolta della Famiglia Garattoni, Pesaro)

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Erasmo Pezzodipane Quando scelgo un tailleur, quando compro un tessuto, ancora oggi penso a mio padre: sono parole di Licia Pezzodipane Ratti, signora dell’eleganza che dal 1945 modella con gusto sicuro lo stile dei pesaresi, prima a fianco del marito Pietro Ratti, oggi coadiuvata dalla figlia Silvana e dalla nipote Matilde D’Ovidio. All’affermazione delle Boutiques Ratti, note in tutta Italia, ha certo contribuito quella particolare sensibilità per la cura del dettaglio artigianale, la qualità dei materiali, la perfezione del taglio che Pietro Ratti, tenente dei bersaglieri reduce dalla Russia in villeggiatura a Pesaro nell’immediato dopoguerra, intuisce nell’allora diciannovenne Licia, figlia di uno dei più noti sarti della città: Erasmo Pezzodipane. Sono cresciuta in sartoria, racconta la signora Licia, e sono stata la persona più vicina a mio padre, nel suo lavoro. In sartoria lo aiutavo a decidere stoffe e colori, e devo a lui se ho imparato a riconoscere al tatto la composizione di un tessuto. Il ricordo delle sue giacche mi ha accompagnato per tutta la vita, e l’attenzione scrupolosa che metteva nel suo lavoro è stata per me una lezione da non dimenticare. Nato nel 1899 a Macerata, dove appena quindicenne fu apprendista presso la Sartoria Marconi, Erasmo Pezzodipane arriva a Pesaro negli anni Venti del ‘900. Dopo aver brevemente collaborato con Umberto Garattoni, Pezzodipane si mette in proprio nel laboratorio di via Mazza, affiancando da subito alla creazione di abiti da uomo anche la realizzazione di uniformi militari e di tailleur da donna. Negli anni precedenti la II guerra mondiale la Sartoria Pezzodipane si trasferisce in Corso XI Settembre, dove avrà sede sino alla chiusura, avvenuta nei primi anni Settanta; assistito da una quindicina di lavoranti, Pezzodipane serve una clientela prestigiosa: mio padre, conclude la

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Sartoria Erasmo Pezzodipane, annuncio pubblicitario, da L’Ora, 15 agosto 1926


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signora Licia, aveva molti clienti anche fuori Pesaro, gli affezionati non lo hanno mai lasciato, arrivavano da tutta la provincia e anche da fuori, da Milano, per esempio. Tra i riconoscimenti ottenuti dal sarto nel corso della sua lunga carriera c’è anche il Cavalierato, conferito anche alla signora Licia nel 2003. Erasmo Pezzodipane si spegne a Pesaro nel 1978. A destra: Sartoria Erasmo Pezzodipane, annuncio pubblicitario, da Pesaro, Piccola guida, 1951. Nella pagina a fianco: Pesaro, primi anni Sessanta del ‘900, Erasmo Pezzodipane posa nella sartoria di corso XI Settembre: sul manichino, una giacca da uomo (raccolta Licia Pezzodipane Ratti, Pesaro)

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Marcello Pezzodipane in arte Tusco (1930-2001), attore e doppiatore, con uno smoking e un completo sportivo realizzati dal padre Erasmo Pezzodipane (anni Sessanta del ‘900; raccolta Licia Pezzodipane Ratti, Pesaro); nella pagina accanto: Mauro Sabatinelli, per sedici anni collaboratore di Erasmo Pezzodipane, premiato nel 1968 con la medaglia d’argento nel concorso Forbici d’oro, riservato ai giovani sarti. Sabatinelli, fanese di nascita, è stato a lungo titolare di una propria attività; dal 1985 è responsabile della sartoria interna della Boutique Ratti (raccolta Mauro Sabatinelli, Fano)


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Erasmo Pezzodipane

La storia della sartoria Pezzodipane e quella delle Boutiques Ratti si intrecciano, oltre che nella figura di Licia, anche nella persona di Mauro Sabatinelli, sarto di classe che proprio con Erasmo Pezzodipane imparò il mestiere e, dopo una lunga esperienza in proprio, è oggi responsabile della sartoria interna di Ratti. Di Erasmo Pezzodipane Mauro Sabatinelli ricorda soprattutto il rigore e l’instancabile ricerca della perfezione, che si traducevano in uno studio costante per aggiornare i metodi di taglio: Pezzodipane padroneggiava cinque o sei diversi sistemi, e da ciascuno prendeva la parte migliore per arrivare al modello perfetto, all’a piombo ideale. Con me è stato generoso, mi portava ad assistere alle prove degli abiti, e questo mi ha permesso di imparare i segreti del mestiere, cose che non si possono apprendere sui libri. 71


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Prima Paganelli,la Bolognese E’ incredibile quanto una persona possa influire sulla vita di chi le sta vicino: noi dobbiamo molto alla ziona, se non ci fosse stata lei le nostre vite sarebbero state di sicuro molto diverse. Era una calamita, un catalizzatore di affetti. Così Roberto Urso, chirurgo ortopedico, ricorda la prozia Prima Paganelli, meglio nota in città come la Bolognese. E’ seguendo il filo della sua memoria, e di quella davvero eccezionale di suo padre Luciano, Primario di anestesia e rianimazione all’Ospedale Rizzoli di Bologna, che scegliamo di raccontare l’attività di una donna diventata il simbolo dell’arte sartoriale a Pesaro. Discussa e ammirata, dotata di una personalità magnetica che emerge intatta dai suoi ritratti, la Bolognese è ancor oggi, a quasi quarant’anni dalla morte, il primo nome che si affaccia alla mente dei pesaresi quan-

Pesaro, 1935, Prima Paganelli con una copia di Harper’s Bazaar (raccolta Famiglia Urso, Bologna)

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do si parla di sarti e sartorie. Poco incline a farsi condizionare dagli eventi, che piuttosto volgeva a proprio vantaggio grazie a una volontà irresistibile, Prima Paganelli era donna di grande intelligenza, ma soprattutto di gran cuore, come testimoniano le parole dei suoi famigliari. Io sono quello che sono perché c’è stata la zia, commenta il professor Luciano, figlio di Pia, sorella di Prima: lei mi ha dato la possibilità di studiare medicina, una strada che volevo seguire sin dall’età di dodici anni, mentre i miei genitori avrebbero preferito che dopo la scuola industriale continuassi l’attività di mio padre, che aveva una piccola officina… La zia Prima, poi, si interessava sempre delle vicende di noi nipoti, si era presa il ruolo di paciere famigliare, ricordo che spesso interveniva per mediare tra noi fratelli: quando c’era qualche attrito andavamo a Pesaro, lei aggiustava tutto e al ritorno quello che sembrava un dramma diventava una cosa semplice, era tutto risolto. Il primo viaggio della mia vita, all’età di cinque anni, è stato proprio per raggiungere la zia Prima a Pesaro: mi hanno ‘caricato’ sul treno e mia madre mi ha affidato a una passeggera, chiedendole di farmi scendere una volta a destinazione. Quando mi sono laureato mi ha regalato un vaso d’argento con la dedica, era molto orgogliosa della mia laurea.

Pesaro, anni Trenta del ‘900, Prima Paganelli di fronte all’ingresso dei bagni pubblici, in via Rossini (raccolta Famiglia Urso, Bologna)

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Sopra e a destra: Pesaro, anni Quaranta del ‘900, Prima Paganelli insieme con il nipote Luciano Urso (raccolta Famiglia Urso, Bologna)

Affabulatore nato, il professor Luciano Urso, che tra le importanti tappe della sua carriera annovera anche le fondamenta progettuali della Clinica mobile, l’ospedale viaggiante dei piloti motociclisti creato con altri colleghi nel 1972, ricorda ancora: le piaceva far sposare i nipoti, tra l’altro ha contribuito a organizzare il mio matrimonio, infatti mi sono sposato alla chiesa di Cristo Re. Io ero il primo nipote, e la zia Prima aveva un affetto speciale per me, continua, mentre il figlio Roberto aggiunge: noi abbiamo sempre trascorso le nostre estati a Pesaro, e tuttora io e la mia famiglia, appena abbiamo qualche giorno libero preferiamo trascorrerlo in questa città così piena di ricordi per noi. Eravamo sette nipoti, e tutti i pomeriggi ci ritrovavamo a merenda nel giardino della sartoria, in viale Corridoni: senza contare poi il ‘rito’ della pesatura, la ziona ci metteva sulla bilancia appena arrivavamo e quando ripartivamo, per vedere la differenza… Era una persona estremamente generosa, aveva sempre qualcosa per tutti, ha aiutato molte persone, sempre con grande riservatezza.

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Nata a San Lazzaro di Savena (Bologna), Prima Paganelli arriva a Pesaro nel 1923. Prima di quattro figli (oltre a lei, Pia, Ettore, Antonio), è registrata nei pochi documenti che ci restano come vedova di Ermenegildo Mattei. Assai scarse anche le testimonianze che parlano della sua attività, iniziata in quegli anni con pochi mezzi e in brevissimo tempo cresciuta fino a raggiungere le dimensioni di un vero e proprio atelier, organizzato come le case di moda delle grandi città. Non sappiamo le motivazioni del suo trasferimento a Pesaro, chissà, magari ci è passata una volta per caso, le è piaciuta e ha deciso di fermarsi, dice il professor Luciano, aggiungendo non mi meraviglierebbe, sarebbe stata una cosa degna di lei.Aveva imparato il mestiere nella Sartoria Policardi di Bologna, una delle più importanti della città; a Pesaro la sua attività ebbe la prima sede in via Manzoni. Successivamente si trasferì in via Rossini, nel palazzo della Fabbrica Scrocco, e quindi in viale Corridoni, all’angolo con viale Zanella. Qui è rimasta fino alla fine, al piano terra c’era il laboratorio, al primo piano la sartoria vera e propria con i salottini per le prove e gli specchi, i tessuti e gli accessori e al secondo l’abitazione. Mi ricordo ancora il numero di telefono, era il 268: la casa di viale Corridoni aveva appartamenti molto spaziosi, circa duecentotrenta metri quadri per ogni piano. Luogo di eleganza e riti d’antan, la Sartoria Bolognese arrivò a contare nei periodi di maggior successo oltre cento lavoranti, tra apprendiste e maestre, il cui lavoro era coordinato dalle première. In molti ricordano lo sciamare delle sartine fuori dalla villa tra viale Corridoni e viale Zanella: le più belle, quelle con il portamento, assurgevano poi per il tempo di un défilé al ruolo dorato di mannequin, popolando i sogni dei ragazzi in bicicletta che attendevano davanti ai cancelli, come nei film dei telefoni bianchi. La zia aveva una grande manualità, creava i suoi modelli partendo da un drappeggio provato sul manichino, e quando c’era nell’aria qualche festa importante cominciavano a girare queste stoffe, che poi diventavano vestiti. Ma di Prima Paganelli va sottolineata innanzitutto la decisa capacità imprenditoriale e di gestione, che insieme a una grande attenzione all’immagine e a una certa schietta diplomazia tutta emiliana le hanno consentito di crearsi una clientela ragguardevole, sia a Pesaro sia in città come Roma,Venezia, Perugia. Cordiale ed estroversa, la Primetta, come affettuosamente la chiamavano le clienti più vicine, sapeva consigliare a ciascuna il modello

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più adatto o i colori più donanti: a volte, continua divertito il professor Urso, certe clienti diciamo così, di una certa opulenza, volevano a tutti i costi i modelli visti sfilare indosso alle mannequin, e la zia con un grande savoir-faire riusciva a convincerle ad apportare le modifiche necessarie. Le clienti le erano molto affezionate, con loro la zia instaurava un rapporto di amicizia: a Pesaro l’alta borghesia si serviva da lei, e tra le clienti di fuori c’erano molte personalità del bel mondo, la famiglia del prefetto di Venezia, la contessa Prampolini e Sofia, la prima moglie del generale Badoglio. Della parte amministrativa della sartoria si occupava il suo compagno Lelio Agostini, originario di Mercatello sul Metauro. Lelio aveva impiantato anche una tintoria, in via Castelfidardo, gestita poi dal fratello di zia Prima, Antonio.

Pesaro, 1934. Prima Paganelli al mare (raccolta Famiglia Urso, Bologna); pagina precedente, etichetta, anni Trenta del ‘900

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Pesaro, 14 luglio 1935. Gita agli abeti; nella pagina a fianco: anni Trenta del ‘900, Prima Paganelli in posa con la sua Lancia Artena ai piedi del San Bartolo (raccolta Famiglia Urso, Bologna)

Due volte l’anno Prima Paganelli presentava le collezioni, tagliate su modelli acquistati a Parigi o creati ex novo, proponendo anche pellicce e accessori, che la Bolognese faceva realizzare appositamente da artigiani della sua città d’origine. I défilé pesaresi erano accompagnati dai rinfreschi della pasticceria “Gino”, ma erano le sfilate romane quelle che più contribuivano ad accrescere la fama della sartoria: si partiva in treno, cariche di bauli, la signora Paganelli accompagnata dalla première e dalle mannequin, per andare a sfilare all’Hotel Excelsior, di fronte ai personaggi che riempivano le cronache mondane. E ci scappava anche il tempo per un caffè da Doney, prima di ripartire. L’attività della sartoria continuò per tutti gli anni Cinquanta - Sessanta, sempre con grande successo, fino a cessare nell’agosto 1969, un anno prima della morte della titolare. Fedele alla città che le aveva dato il successo, Prima Paganelli scelse di riposare per sempre nel cimitero di Pesaro. 78


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Anni Cinquanta - Sessanta del ‘900, sopra: lavoranti a un tavolo della sartoria Bolognese (raccolta Lucia Amantini Maggiulli, Pesaro); sotto: Prima Paganelli insieme con le sue dipendenti durante un pranzo per Sant’Omobono, (raccolta Anna Gaudenzi Mariotti, Pesaro)

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Anni Cinquanta del ‘900: la villa all’angolo tra viale Corridoni e viale Zanella, sede della Sartoria Bolognese; sotto: anni Quaranta del ‘900, foto di gruppo davanti alla sartoria e, al centro, un’altra immagine della sede di viale Corridoni, che reca sul retro l’annotazione di Prima Paganelli La mia casa 12.6.1954 (raccolta Famiglia Urso, Bologna)


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Moda autarchica Nel 1935 il regime fascista varò l’Ente Nazionale della Moda che aveva il compito di italianizzare il guardaroba femminile e di adeguarlo ai comandamenti dell’autarchia. Era appena stata scatenata la guerra d’Etiopia. (…) A Ginevra, la Società delle Nazioni, prima e più irresoluta edizione dell’Onu, aveva dichiarato l’Italia “Stato aggressore”, deliberando le sanzioni economiche e l’embargo per certi prodotti. Roma aveva risposto lanciando l’ideologia del “bastiamo a noi stessi”, dell’autarchia. Il popolo italiano doveva “consumare Italia” e felicemente indossare lana di caseina, la lanital, e cotone tratto dalle fibre di ginestra. Entravano in produzione i tessili dell’indipendenza e anche la moda doveva rendersi indipendente dai diktat di Parigi, doveva italianizzarsi come certe parole mutuate dall’inglese e dal francese: amoretto invece di flirt, arzente invece di cognac. Toccava ai sarti creare un’eleganza nazionale. Non ne furono entusiasti. A pestare in questo mortaio, ci si era messo lo stesso Mussolini e ancora prima delle sanzioni che avevano obbligato l’Italia

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a fare da sé. Il duce, sporgendo la mascella da un podio sullo sfondo del milanese Castello Sforzesco nel maggio del ‘30, aveva proclamato: “Una moda italiana nei mobili, nelle decorazioni, nel vestiario non esiste ancora: crearla è possibile, bisogna crearla”. E di slancio erano state organizzate le “adunate della moda”. Nell’aprile del 1933, Torino, eletta capitale dell’eleganza, aveva organizzato mostre e sfilate all’insegna dell’italianità e Mussolini aveva telegrafato: “Se l’inizio è buono, il seguito sarà migliore: si tratta di avere fede”... Ma i sarti e le sarte nicchiavano, perché le clienti pretendevano Parigi o qualcosa che avesse almeno quell’aria... Allora, l’Ente della Moda inventò il marchio di garanzia da assegnare solo a modelli “di ideazione e produzione italiana”. In una collezione, almeno il 50 per cento degli abiti doveva poter esibire quell’attestato di italianità, pena una multa da 500 a 2 mila lire. Spesso le Case, ottenuto il marchio di verginità, lo nascondevano alle clienti perché, se no, i modelli rimanevano a invecchiare negli armadi, invenduti. La bugia poteva costare da 1000 a 5 mila lire di ammenda (stangata durissima nei tempi che cantavano “se potessi avere mille lire al mese”), ma salvare una collezione valeva il rischio. (…) Racconta la giornalista Elisa Massai: “L’autarchia ebbe almeno il merito di obbligare le case di moda a lasciarsi almeno un po’ alle spalle la comodissima abitudine di acquistare a Parigi, moltiplicare in Italia e vendere”. Finiva che tutti compravano le stesse cose. Sì, c’erano due, tre disegnatori che usavano Parigi e ricreavano, Pascali, Pelizzoni, Elio Costanzi. Ma nessuno si sarebbe messo in testa di fregarsene dei grandi francesi. Se no, addio alla clientela… Al di là delle forzature, l’idea nazionalista di una moda italiana non era affatto sballata. Il nostro artigianato era di prim’ordine. Avevamo, nelle sartorie, mani preziose. I nostri sarti da uomo erano fra i migliori del mondo. Spesso i tessuti, che passavano per inglesi, di inglese avevano solo l’etichetta. Erano prodotti nostri, salvo alcuni cachemire che noi abbiamo cominciato a lavorare solo negli anni ‘50. Il progetto di una nostra moda, di una moda che non pagasse tributi alla Francia, non era affatto peregrina. C’erano un humus adatto, un entroterra favorevole. Lo ha dimostrato, a partire dal febbraio 1951, dalla prima sfilata di Firenze, il nostro prêt-à-porter. Nel periodo dell’autarchia della guerra, qualcosa si mosse: modelli un po’ scopiazzati ma con dentro un che di nuovo” (da http://dellamoda.it/dizionario_della_moda/m/moda_autarchica.php).

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Nella zona prima della villa Ugolini, dopo la “nazionale” allora

c’era un altro luogo che ci faceva sognare: era la Bolognese: la sar-

toria della gran moda negli anni Trenta. Era spesso al centro delle

conversazioni, specialmente degli uomini perché si diceva che

impiegasse splendide modelle. Andavamo ad appostarci per atten-

dere l’uscita delle ragazze... Dietro quelle indossatrici correvano i

nostri sogni ma si spegnevano presto... (da Caterbo Mattioli, Pesaro anni Trenta, 1993).

Pesaro, anni Quaranta del ‘900: Adriana Tangucci Filippetti in posa da mannequin per la Bolognese (raccolta Adriana Tangucci Filippetti, Pesaro); a pagina 82: un’immagine dall’album di Prima Paganelli (raccolta Famiglia Urso, Bologna)


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Qui a fianco, Maria Amantini, per lungo tempo collaboratrice di Prima Paganelli. Abilissima sarta, autodidatta, Maria emigrò in Francia nel 1929, insieme con il marito (raccolta Lucia Amantini Maggiulli, Pesaro)

P r e mi è r e Ruolo sartoriale per i capi su misura, per l’alta moda. La première è una sorta di traduttrice, perché in effetti traduce lo schizzo del disegnatore nel modello in tela e lo prova sulla mannequin d’atelier (altra figura simbolo, la cosiddetta “fissa”), per stabilire quale tessuto e modello scegliere per valorizzare meglio la linea. È una figura chiave. Ogni buona sartoria ne ha diverse, secondo la specializzazione. C’è infatti una première per ogni reparto (da http://dellamoda.it). 86


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In questa pagina: la Bolognese con alcune lavoranti all’uscita dalla sartoria; sotto, a sinistra, Prima Paganelli (a destra nella foto) e, al suo fianco, Maria Amantini e Dina Veronesi, per lungo tempo première della sartoria (raccolta Lucia Amantini Maggiulli, Pesaro; a destra: raccolta Famiglia Urso, Bologna)


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Pesaro, anni Venti - Trenta del ‘900, alcune immagini dall’album della Famiglia Urso


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Sopra, Ferro alla patria, 1936 (raccolta Famiglia Urso, Bologna). Durante lo sfollamento, nel periodo dei bombardamenti, la zia fu ospitata dal veterinario di Mombaroccio (il bolognese Antonio Romagnoli, in un appartamento di Palazzo Del Monte), ma dappertutto aveva immagazzinato bauli con i materiali della sartoria e con gli oggetti più preziosi, racconta Luciano Urso (tra gli esemplari che la Bolognese riuscì a sottrarre alla furia della guerra un imponente vaso di ceramica Molaroni con il suo piedistallo, che oggi fa bella mostra di sé nella sua abitazione bolognese); la sartoria aveva sospeso l’attività già dal ‘41 - ‘42, ma alla fine della guerra la zia poté subito riprendere a lavorare perché aveva stipato due casse di spolette e di tessuti nei sotterranei del suo ex atelier in via Rossini; a Montelabbate presso alcuni conoscenti aveva qualche valigia, tutti materiali che le permisero di ripartire dopo la guerra. Durante lo sfollamento aveva accumulato anche cioccolate per noi nipoti, sorride il professor Luciano, vicino alla zia anche negli anni di guerra.

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Gita alla Bettola, 3 agosto 1940: Prima Paganelli è la signora con l’abito a pois a sinistra nella foto; di fronte a lei Bianca Spadoni, un’altra prèmiere della sartoria e, seduto all’ultimo posto, con l’abito bianco, il fratello di Prima Paganelli (raccolta Lucia Amantini Maggiulli, Pesaro e, a destra, Famiglia Urso, Bologna). Nella pagina successiva: anni Cinquanta - Sessanta del ‘900. La signora Giordana Mazzanti Urso, moglie del professor Luciano, con alcuni modelli realizzati dalla Sartoria Bolognese; a pagina 93: Prima Paganelli in un’immagine del 1958 - ‘59 (raccolta Famiglia Urso, Bologna)

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Luisa Rossi Giuliani Se la moda pesarese degli anni Trenta del ‘900 è dominata dalla figura di Prima Paganelli, la rinomata Bolognese, non mancano in città altre sarte di spicco, tra cui Luisa Rossi Giuliani (1899 - 1981), attiva dalla metà degli anni Venti fino al 1944 e di nuovo, sebbene in misura minore, dopo il 1950. Prima della guerra mia madre, aveva la propria sartoria presso Palazzo Avezza, all’angolo tra corso XI Settembre e via Tortora, racconta Fiora Giuliani, primogenita di Luisa e Corrado, in un edificio tuttora esistente, ma che è stato ricostruito dopo i danni provocati dai bombardamenti. Nel periodo di maggior successo, negli anni TrentaQuaranta, la sartoria contava una decina di lavoranti, e i clienti erano prevalentemente i notabili della città, le mogli del Prefetto, del Questore, del Provveditore; c’era anche la signora Zandonai (il maestro Riccardo Zandonai fu nominato nel 1940 direttore del Conservatorio “G. Rossini” di Pesaro, e nella nostra città rimase fino alla morte, avvenuta nel 1944). Ricordo che queste signore venivano in sartoria a provare gli abiti intorno all’ora di pranzo, verso le 13, continua Fiora: quello della sarta era un mestiere senza orario, e mia madre, che era conosciuta per la puntualità nelle consegne, era molto attenta ad assecondare le esigenze delle clienti, con le quali instaurava rapporti di amicizia oltre che professionali. Dopo gli inizi, con l’attività ben avviata, il rapporto con le clienti, la scelta dei modelli e dei tessuti, le prove, occupavano quasi completamente mia madre, e così il lavoro venne organizzato come negli atelier di alta moda: la lavorazione dei capi tagliati era affidata alla direttrice della sartoria, che coordinava le ragazze. Gli abiti erano tagliati su modelli che mia madre prendeva fuori, soprattutto a Milano, anche se poi apportava sempre qualche modifica. Specialmente nei primi tempi, però, le piaceRoma, 1949: un primo piano di Luisa Rossi Giuliani

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va anche crearli ex novo, ricordo certi bellissimi abiti da sera... E pensare che aveva iniziato per hobby, spiega Fiora: a quindici anni ha cucito il primo abito per sua madre, e poi pian piano ha trasformato la sua passione in un lavoro. Del resto quella del sarto era un’arte di famiglia, suo zio Filippo Rossi aveva una sartoria in via Castelfidardo, poi trasferita in via Petrucci e infine per il Corso. Per un breve periodo alla sartoria collaborò anche Sonia, la futura moglie del ceramista Bruno Baratti. Molte vicende, oltre a quella di Sonia Baratti, si intrecciano alla vita di Luisa Rossi Giuliani, prima fra tutte la storia della famiglia del marito, Corrado Giuliani, ceramista per Molaroni e, successivamente, insegnante di ceramica al carcere minorile.Artista versatile, Corrado Giuliani collaborò a lungo con il fratello Amanzio, fondatore della Mobili e Ceramiche d’Arte Fratelli Giuliani, importante fabbrica di mobili intagliati per la quale Corrado realizzava le decorazioni in maiolica; anche Violetta, sorella dei due, fu ceramista presso le due più note manifatture pesaresi, Mengaroni e Molaroni, collaborando anche all’attività dei fratelli, e con la ditta Effeenne di Nino Falcioni. Il fratello Alcide lavorò a lungo come elettricista presso il Teatro - Cinema “Duse”; noto per il suo impegno politico, infine, l’altro fratello Lottaldo, presidente della nostra Provincia tra il 1959 e il 1968. Dopo lo sfollamento, negli anni successivi alla guerra Luisa Giuliani si trasferì a Roma, tornando a Pesaro nel 1950. A Roma entrò in contatto con diverse famiglie originarie della nostra città o che comunque con Pesaro mantenevano dei legami, magari per la villeggiatura estiva; molte di loro divennero anche sue clienti quando, dopo la guerra, mia madre riprese a lavorare nella sua abitazione di traversa Monte Ardizio, vicino alla villa dei Ninchi, conclude Fiora, sottolineando è stato anche grazie al lavoro di mia madre, alla sua capacità organizzativa nel gestire la propria attività che durante la guerra siamo riusciti a far fronte alle difficoltà della vita. 96


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Luisa Rossi Giuliani

Sopra: Pesaro, anni Sessanta - Settanta del ‘900, Luisa Rossi Giuliani con il marito Corrado Giuliani; nella pagina precedente: Pesaro, 1933, Luisa Rossi Giuliani posa sulla spiaggia (tutte le immagini di questo capitolo provengono dalla raccolta Fiora Giuliani Moretti, Pesaro)

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Giuseppina Francolini Magnelli Occhi acuti e ridenti, tempra d’acciaio, Giuseppina Francolini Magnelli (1903-2004) ha vestito per anni le signore dell’alta borghesia pesarese con la stessa eleganza raffinata e nonchalante che caratterizzava la sua figura svelta, in tarda età inseparabile da quella della cagnolina Laika, anche lei sempre très chic con il suo collarino rosso. Dopo aver appreso le prime nozioni di taglio a Firenze, Giuseppina Francolini torna a Pesaro, dove sul finire degli anni Trenta del ‘900 comincia l’attività in proprio in un piccolo appartamento di viale Cialdini, spostandosi successivamente in via Manzoni e, con l’ampliarsi della clientela, nella più spaziosa sede di viale XXIV Maggio. Se i documenti sulla sua attività sono piuttosto scarsi, assai vivi sono invece nella memoria delle clienti e delle sue più giovani colleghe la verve e lo stile della signora Giuseppina: era bravissima, conferma Anna Maria Montagnoli, valente sarta formatasi proprio presso l’atelier della Magnelli; i suoi modelli erano lavorati alla perfezione, era attentissima a ogni particolare, ma soprattutto aveva una classe e un’eleganza rare. Era l’unica, all’epoca, che potesse competere con la Bolognese, era molto estrosa, e sapeva sempre cosa fare per valorizzare ogni cliente. Aveva una clientela importante, che amava i suoi modelli molto particolari, continua la nuora Antonia, che insieme con il marito Giuliano, figlio della signora Giuseppina, ci ha aiutato a ricostruire il suo profilo. Proprio da una serie di fotografie appartenute a Giuseppina Francolini Magnelli, scattate durante l’edizione 1954 o 1955 del Festival della Moda al Teatro Giuseppina Francolini Magnelli in una foto degli anni Cinquanta - Sessanta del ‘900

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“G.Rossini” di Pesaro, è partita la ricerca che ha portato a questa pubblicazione: ve le proponiamo alle pagine seguenti, trascrivendo anche le meticolose annotazioni che la signora riportò sul retro di ciascuna stampa. Documenti che, tra Prati fioriti in organdis di seta, gonne da Gitana in nastro di paglia, e Folletti in ottoman di cotone restituiscono intatto il sapore di un’epoca, quando la moda attingeva alla poesia, e raccontava la vita con i colori dei film e dei sogni di un’Italia appena uscita dalla guerra. Ma anche una testimonianza periferica e per questo da non dimenticare, della vitalità dello stile italiano, che proprio allora andava muovendo i primi passi con le creazioni di Schubert, Pucci e delle sorelle Fontana.

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Sopra: Pesaro, anni Cinquanta - Sessanta del ‘900, foto di gruppo in sartoria per Sant’Omobono; nella pagina a fianco, anni Trenta del ‘900, alcune immagini di Giuseppina Francolini Magnelli: in alto in posa con un suo cappotto; in basso a sinistra, con il figlio Giuliano (1938 circa) e, a destra, con il marito


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Giuseppina Francolini Magnelli

L’8 maggio 1955 ha luogo al Teatro “G. Rossini” la seconda edizione del Festival della Moda (la prima si era svolta il 28 marzo dell’anno precedente). Sopra: da Il Resto del Carlino, 8 maggio 1955 e, a sinistra, Jula De Palma, ospite d’onore al Festival della Moda 1955. Nella pagina precedente, sopra: due abiti da sposa; sotto due immagini di Giuseppina Francolini Magnelliolini Magnelli: qui (----) con il figlio Giuliano, intorno al 1938; sopra in posa con un suo cappotto; (---) con il marito

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Firenze, 1951. Nasce la moda italiana Il 12 febbraio 1951 Giovan Battista Giorgini, segugio del bello, del raffinato e compratore su commissione organizza nella propria villa di via dei Serragli a Firenze un défilé per proporre a un gruppo di buyers americani una selezione di capi di alta moda prodotti da sarti e artigiani. E’ l’atto di nascita dello stile italiano nella moda, di uno stile autonomo rispetto alla secolare sudditanza nei confronti di Parigi. (...) Giorgini aveva un bel rivendicare le antiche credenziali dei guardaroba etruschi, dell’italiana eleganza di Caterina de’ Medici, del ‘700 di Venezia e quelle più spendibili di un riconosciuto primato dei nostri tessutai, delle nostre mani al tombolo, della nostra sapienza nel lavoro d’ago e filo, sapienza da paese povero, da società di abiti fatti in casa, di vestiti delle madri riadattati per le figlie. Una moda italiana non esisteva. Aveva soltanto vagito negli anni dell’autarchia, quando Mussolini impose che i nostri atelier disegnassero in proprio, senza ispirarsi a Parigi o copiare, almeno il 50 per cento delle collezioni. (...) Mentre Giorgini pensava a un’eleganza firmata Italia, le nostre Case, le nostre sarte spendevano migliaia di franchi, di quelli vecchi e pesantissimi, a Parigi per comperare tele, modelli, esclusive da Dior, da Balenciaga, da Fath, da Patou, per sfamare gli appetiti delle italianissime clienti, voraci, dopo la lunga dieta di guerra, di moda francese, di moda-moda si diceva, come si era detto caffè-caffè per distinguerlo dai surrogati. Perché, in quell’inizio del decennio ‘50, con il paese ancora ansimante e ferito dai 5 anni di guerra, avrebbe dovuto riuscirci Giovanni Battista Giorgini a incrinare quel granitico monopolio o almeno a correggere una secolare tendenza? Forse perché il terreno era stato concimato da quei primi tentativi autarchici. Senza dubbio perché la sua idea di incitare le sartorie, i nascenti stilisti, a un’autonomia creativa, senza plagi, senza vassallaggi, di organizzarli, di dare loro una comune strategia non puntava al mercato interno, elitario, snobistico, condizionato dalla tradizione francese, ma all’America, anch’essa, in fatto di alta moda, riverente verso Parigi, ma capace di pragmatismo commerciale. (...) [Giorgini] Proponeva alle sartorie di essere creative, di tentare uno stile italiano e di presentarlo

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Giuseppina Francolini Magnelli

tutte insieme, in uno stesso luogo e immediatamente dopo le sfilate di Parigi. Tre rivoluzioni in una. Era rara, quasi inesistente la creatività sartoriale. Mai le Case si erano alleate per défilé in comune. Da sempre sfilavano molte settimane dopo le collezioni di Parigi, per avere così il tempo di tradurre ed elaborare le indicazioni e le linee che la capitale della moda imponeva. Quell’immediatamente dopo, indispensabile per convincere i buyer a prolungare il viaggio europeo da Parigi a Firenze, era di per sé una garanzia che l’alta moda italiana non sarebbe stata una fotocopia dell’ultimo grido francese: magari non sarebbe stata sublime, ma di certo non avrebbe fatto scomodare i compratori per una scopiazzatura. (...) I capi erano imprevisti, giovani, freschi, portabili. I colori, un inaspettato tripudio. La qualità sorprendente. I prezzi incredibilmente interessanti. I compratori capirono subito che stava aprendosi un settore di mercato di vaste prospettive. Seppero subito riconoscere l’affare ed ebbero occhi attenti e ben disposti anche per le creazioni d’alta moda... All’ultimo modello, venne l’applauso. Ma non era ancora una prova. Poteva essere un applauso di stima, come s’usa in teatro quando un buon attore non azzecca la serata. Giorgini si avvicinò ai buyer: “Funziona? Qual è la vostra impressione?”. Stella Hanania, la compratrice di I. Magnin disse: “Parigi non ci ha emozionato così”. Gertrude Ziminsky di B. Altman disse: “Valeva il viaggio”. Stilisti, sarte, première, piscinine, stiratrici, vestiariste si affacciarono al salone, raggianti. Era nata la moda italiana (Guido Vergani, voce Giorgini, da http://dellamoda.it/dizionario_della_moda/g/giorgini.php). Pesaro, 1954 o 1955,Teatro “G.Rossini”, Festival della Moda. Le fotografie alle pagine 104 - 111 portano sul retro le dettagliate annotazioni della signora Magnelli (che però non indicò purtroppo la data della manifestazione), riproposte fedelmente. In queste pagine, tre immagini del modello Marinella - completo spiaggia in tela di cotone, sfumature dal bluette - celeste - bianco (nei calzoncini c’è un ricamo a pesciolini rossi)

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Sopra, a sinistra: completo estivo formato da abito con bretelline e giacca; a destra: modello Pinguino in organdis di seta bianco a grandi righe in raso nero - motivi di garofani eseguiti con valencienne in rilievo; nella pagina a fianco: tre immagini del modello Prato fiorito - abito in organdis di seta a fiori bianco-giallo-verde-nero


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In questa pagina, dall’alto in senso orario: modello Ore 17, elegantissimo abito in georgette di lana nero e taffetà seta pura nero, completamente plissettato à soleil a ciuffi incrociati (ancora, la signora aggiunge in calce: questo è splendido, peccato che nelle foto non si veda nulla, ma è il capo che à destato più ammirazione per la sua ampiezza); tailleur in lana color banana con manica kimono; abito in jersey rosso; sotto: tailleur; nella pagina a fianco, sopra: due immagini del modello Turismo, paletot di lana blu foderato in cinz rosso a bolli bianchi - tailleur in jersey di cotone bianco; sotto: due immagini del modello Gitana (questa gonna è una meraviglia annota sul retro la signora Francolini Magnelli): gonna in paglia grezza eseguita con 36 metri di nastro di paglia - 39 metri di vellutina bluette e m. 12 di bordo a fiori (tirolese)

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L’uscita finale del dÊfilÊ di Giuseppina Francolini Magnelli; sotto, tre immagini del modello Sera d’estate - abito da gran sera in organdis di seta blu a bolli bianchi e jersey di seta bianco, fibbia, collier e pendente in strass


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Giuseppina Francolini Magnelli

Le sarte sul palco al termine della serata: nella foto sotto si riconoscono Iolanda Secchiaroli (la prima a destra) e Giuseppina Francolini Magnelli (l’ultima a sinistra, con gli occhiali)


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Giuseppina Francolini Magnelli

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Roma, anni Sessanta del ‘900: due modelli di Giuseppina Francolini Magnelli (foto Angelini, Roma; le immagini di questo capitolo provengono dalla raccolta Famiglia Magnelli e dalla raccolta Cristina Ortolani, Pesaro)


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Nicola D’Amario Nato in provincia di Chieti, Nicola D’Amario apre la sua sartoria a Pesaro negli anni immediatamente precedenti la II guerra mondiale, dopo aver svolto nella nostra città il servizio militare. La prima sede della sua attività, racconta oggi il figlio Marco, era in via Mazza; poi mio padre si trasferì al 93 di corso XI Settembre e, infine, in via Branca, dove la sartoria si trasformò pian piano in un negozio di confezioni. Esponente della rinomata scuola abruzzese, Nicola D’Amario aveva fatto pratica presso un’importante sartoria di Roma: molte le personalità pesaresi presenti nel suo Libro delle misure, mentre tra le sue creazioni, oltre agli impeccabili abiti da uomo nei quali era maestro, ci sono anche giacche per tailleur femminili.

Nicola D’Amario al tavolo da lavoro

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In questa pagina, sopra: Nicola D’Amario lascia la presidenza dell’Artigianato Provinciale, da L’Artigianato provinciale, 22 febbraio 1964; sotto: annuncio pubblicitario, da Pesaro, Piccola Guida 1951. Nella pagina a fianco: etichetta per capi di colore scuro (tutte le immagini di questo capitolo provengono dalla raccolta Famiglia D’Amario, Pesaro)

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Nicola D’Amario

Quello che intendiamo come stile italiano della sartoria è venuto in gran parte dall’Abruzzo. Abruzzese fu Nazareno Fonticoli (1906-1981), fondatore della sartoria Brioni e come tale ambasciatore dell’estetica italiana nel mondo. Abruzzese Domenico Caraceni (1880-1940), a tutti noto per i suoi meriti, patriarca di una dinastia ancora attiva e creatore di quel paradigma stilistico universalmente apprezzato che miscelò la densità britannica con la morbidezza mediterranea. (...) Come dice Guido Vergani nel suo Sarti d’Abruzzo, già con D’Annunzio aveva cominciato a spirare una brezza di patriottismo estetico. Sorta in Abruzzo col Vate, si sarebbe diffusa in tutto il paese per diventare una tempesta. A questo si aggiunga l’inconcepibile quantità di sartorie, a volte decine in paesi di mille anime, che furono a lungo una miniera dai cui recessi spuntava di tanto in tanto qualche pietra particolarmente preziosa e brillante (da www.noveporte.it).

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Ruggero Poderi Noto per la vitalità e per la sua prontezza di spirito quanto per l’abilità di sarto, Ezio Poderi, per tutti Ruggero (1916-1989), originario di Pozzo Alto, fu titolare tra la fine degli anni Trenta e il 1965 di una sartoria situata sopra l’Arco di Porta Rimini prima e al civico 244 di corso XI settembre poi, nella zona del Borgo. Aveva imparato il mestiere in un atelier di Roma, nella capitale la madre era stata alle dipendenze della Contessa Spanocchi, esordisce Stefano, figlio di Ruggero, e probabilmente fu grazie a questi contatti che mio padre scelse Roma per il proprio apprendistato. Una curiosità: mia nonna raccontava che a casa Spanocchi aveva lavorato come maggiordomo Beniamino Gigli, e che ogni tanto gli chiedevano Beniamino canta qualco’. Tornato da Roma Ruggero si mise in proprio negli anni immediatamente precedenti la II guerra mondiale, guadagnandosi sin dai primi tempi un’ottima clientela, che ne apprezzava la simpatia oltre all’abilità di tagliatore. Poderi poté contare per tutto l’arco della sua carriera su clienti affezionati, in larga parte pesaresi ma anche provenienti da altre città, tra cui Fano e Ancona. Nella sua attività mio padre fu sempre aiutato da mia madre Onelia, continua Stefano, anzi, era lei, con la sua grande capacità lavorativa, a coordinare le dipendenti, a tenere le fila della sartoria, mio padre era quasi sempre impegnato con il taglio, le prove degli abiti e nei rapporti con i clienti. E in più, come tutte le donne della sua generazione, ha saputo mandare avanti la casa, crescere i figli e seguire la famiglia. Sarta ella stessa, prima di collaborare con il marito Onelia è stata dipendente della Sartoria Sgrignani. Anche nella memoria di Stefano hanno un posto importante le veglie, ossia le nottate trascorse dai genitori a lavorare febbrilmente per far fronte alle consegne nei periodi più impegnativi, come i giorni del Natale; molti altri sarebbero gli aneddoti da raccontare, conclude Stefano, da quando mio padre, in ritardo nella realizzazione di una giacca, misurò al cliente quella destinata a un’altra persona, assicurando al malcapitato che con un colpo di ferro tutto si sarebbe sistemato (e la giacca era di un altro colore!), a quando dovette salire su uno sgabello per provare la giacca al primo giocatore americano della pallacanestro pesarese. Nottambulo per vocazione, mi piace ricordarlo con una frase che ripeteva spesso: quando morirò, avrò vissuto il doppio degli anni, tanti di giorno quanti di notte. Pesaro, Ruggero Poderi nella sua sartoria

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Pesaro, anni Trenta - Quaranta del '900. Le lavoranti della Sartoria Sgrignani: tra loro, anche Onelia Poderi, moglie di Ruggero (le immagini di questo capitolo provengono dalla raccolta Famiglia Poderi, Pesaro)

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Sebastiano Buttafarro Di origini siciliane, Sebastiano Buttafarro (1910-1973) arriva a Pesaro negli anni Trenta del ‘900. Nel 1940 i registri segnalano l’apertura della sua sartoria in via Zongo 45; poco dopo lo raggiunge a Pesaro il fratello Antonio, detto Nino, anch’egli sarto. Nino avvierà in seguito una propria attività in via Giordano Bruno, mentre Sebastiano, che resterà a lungo uno dei più conosciuti sarti da uomo della città, si trasferirà in via Sabbatini 30, a pochi passi da via Zongo. Appassionato fotografo (oltre che motociclista), Sebastiano Buttafarro è l’autore di alcune delle immagini di questo capitolo, come quelle che ritraggono un gruppo di sarti pesaresi in gita a Venezia. A questo proposito il figlio Gaetano ricorda con particolare simpatia i momenti conviviali che vedevano i sarti e le loro famiglie ritrovarsi in occasione della festa di Sant’Omobono: prima ogni artigiano offriva il pranzo ai propri lavoranti, spesso in qualche ristorante ‘fuori porta’, nei dintorni di Pesaro; poi, dimenticate la rivalità e la concorrenza, i titolari delle sartorie si riunivano a loro volta per festeggiare con le famiglie al seguito.

Pesaro, anni Quaranta del ‘900, Sebastiano Buttafarro al lavoro nel laboratorio di via Zongo

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Alcune immagini della Sartoria Buttafarro in via Zongo; etichetta per capi di colore chiaro e un biglietto da visita della sartoria


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Sebastiano Buttafarro

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Venezia, 1950 circa: i sarti pesaresi in gita (altre fotografie scattate in quella occasione sono presenti alla pagina 135)

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Sebastiano Buttafarro

Pesaro, 1949-1950. Foto di gruppo per i sarti pesaresi. Nell’immagine si riconoscono: seduto a terra, in primo piano, un giovanissimo Marcello Sili; alle sue spalle, da sinistra: Marcello Tusco, Denizio Guerra e Nino Buttafarro; seduto, in prima fila, all’estrema destra Pino Tebaldi. Nella fila centrale: il secondo da sinistra è Antonio Foti e, alla sua sinistra, Ernesto Lamberti; con il fiocco nero, il signor Mancini; sempre nella fila centrale, all’estrema destra Sebastiano Buttafarro e, alla sua destra, Nicola D’Amario. Nell’ultima fila, da sinistra, Ruggero Poderi, Luigi Sgrignani (con gli occhiali) e Pino Mecchi (tutte le immagini di questo capitolo provengono dalla raccolta di Loretta e Gaetano Buttafarro, Pesaro)

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Ernesto Lamberti Una caratteristica di mio padre era quella di riuscire a tagliare un abito impiegando la minima quantità di tessuto necessaria, esordisce Ivana Lamberti, maggiore dei cinque figli del sarto Ernesto e, insieme al fratello Giuseppe, loro portavoce per l’occasione; prerogativa, questa, che negli anni difficili del dopoguerra era particolarmente apprezzata. Ideatore di un metodo di taglio che consentiva di realizzare un completo maschile con soli due metri di tessuto, contro i due metri e trenta-due metri e mezzo di solito richiesti, Ernesto Lamberti vendette poi il suo brevetto a un’azienda di confezioni: mio padre era molto abile nell’elaborazione dei modelli, aggiunge il secondogenito Giuseppe, addirittura per un periodo collaborò con una ditta francese realizzando i prototipi sui quali venivano poi prodotte le collezioni. In famiglia sia lui sia mia madre ci hanno sempre raccontato di una notte in cui riuscì a tagliare e cucire un completo da sposo tutto da solo; il suo ‘occhio’, poi, era leggendario, tanto che riusciva a fornire ai clienti gli abiti finiti senza nemmeno una prova. Originario di Vergato, paese dell’Appennino tosco-emiliano in provincia di Bologna, Ernesto Lamberti (1918-1966) si avvicina al mestiere a soli sette anni, quando inizia a frequentare il laboratorio di un sarto bolognese riconosciuto tra i migliori a livello internazionale: era il più giovane tra gli apprendisti della sartoria, e secondo il suo maestro anche il più bravo, ricorda ancora Giuseppe. A soli quattordici anni ha tagliato e cucito interamente da solo il suo primo abito da cerimonia, il completo da sposo per il suo futuro cognato. Dopo aver lavorato sei anni presso il sarto D’Aurizio, nel capoluogo emiliano, a 17 anni mio padre è partito volontario per imbarcarsi sull’incrociatore “Giuseppe Garibaldi”, continua Ivana, si è sposato e ha finito il servizio militare a Venezia durante i giorni del viagErnesto Lamberti

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gio di nozze. Appena sposato, nei primi anni Quaranta ha aperto la sartoria di via Tortora, dietro piazzale I maggio. Nel tempo la sartoria, che realizzava sia abiti da uomo sia da donna, ha avuto diverse sedi: dopo una breve parentesi bolognese siamo tornati a Pesaro e ci siamo stabiliti in via Borgomozzo, con il laboratorio allestito nella mansarda, quindi in via Tebaldi, poi in via Mazza, in via Sabbatini e, infine, in via Milite Ignoto. Purtroppo mio padre è mancato solo una settimana dopo il trasloco, ricorda Ivana, era tanto orgoglioso della sua nuova casa… Oltre all’abilità di sarto, di Ernesto Lamberti va sottolineato anche l’impegno politico: dopo gli anni di guerra, nei quali partecipò alla lotta partigiana, mio padre restò fedele al proprio ideale, con una militanza appassionata. Del resto la nostra famiglia è sempre stata in prima linea nelle lotte politiche, a partire dalle bisnonne, emiliane di gran carattere che, per non sentire i morsi della fame, inventavano cori anarchici. Ernesto Lamberti ha cessato l’attività nei primi anni Sessanta, lasciando strumenti e segreti del mestiere ai suoi allievi. Gli erano molto affezionati, conclude Ivana, anche perché li rispettava: per esempio, un segno di questo suo atteggiamento altruista e generoso era la puntualità nei pagamenti, ogni sabato saldava i conti delle pantalonaie e delle lavoranti esterne, conosceva le esigenze delle famiglie e anche in questo era coerente con i propri principi. Nel periodo di maggiore espansione dell’attività, la Sartoria Lamberti contava una dozzina di dipendenti e circa trenta collaboratrici esterne. Tra gli allievi di Ernesto anche Console Costantini e Davide Camilli: quest’ultimo prima di aprire una propria attività a Pesaro, collaborò con il suo maestro nella sartoria di Bologna.

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Ernesto Lamberti

Sopra, Pesaro, primi anni Cinquanta: i modelli realizzati da Ernesto Lamberti con soli due metri di tessuto, esposti nei locali della Camera di Commercio, in corso XI Settembre.Tra le innovazioni studiate da Lamberti anche una giacca maschile senza tagli sulle spalle; nella pagina precedente: Pesaro, 1949: Ernesto Lamberti con i figli Ivana e Giuseppe durante una Festa de L’Unità agli Orti Giuli; sotto: Sartoria Lamberti, un’etichetta degli anni bolognesi (tutte le immagini di questo capitolo provengono dalla raccolta Famiglia Lamberti, Pesaro)

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Elso Perugini Numerosi erano i sarti che a Pesaro, negli anni a cavallo della II guerra mondiale, esercitavano la loro attività nella zona del Borgo, in fondo a corso XI Settembre: tra loro anche Elso Perugini (1924-1976), attivo dalla metà degli anni Quaranta fino al 1969. Pesarese del Porto, Elso Perugini è figlio di Carlo, noto in città come Bicicletta, marinaio e abilissimo costruttore di brigantini e bastimenti in miniatura. Dapprima apprendista presso Erasmo Pezzodipane, Elso apre la sua sartoria all’angolo tra corso XI Settembre e via della Pace poco prima del matrimonio con Bruna Battistelli, avvenuto nel 1948. Mia madre era filandaia e sarta, dice la figlia Daniela, fedele custode delle memorie famigliari e dopo essersi sposata collaborò a tempo pieno con mio padre in laboratorio, aggiunge, ricordando del padre la meticolosità e l’amore per il lavoro. Mio padre era sarto da uomo, anche se cedeva ogni tanto alle richieste di realzzare capi per me speciali, su mio disegno: alcuni li conservo ancora con commossa nostalgia, prosegue Daniela sfogliando le pagine degli album di famiglia, dove le immagini di una Pesaro che non c’è più si sovrappongono a quelle, rare e struggenti ma fortemente vitali nel loro bianco e nero un po’ confuso, che mostrano il sarto al lavoro nella sua bottega. L’aria che respiravo nel laboratorio era verace e famigliare. Ricordo con affetto alcuni dei lavoranti della sartoria, in particolare Remo Pugliese che fin da piccola ho visto in casa; Remo mi accompagnava all’asilo e mi faceva scherzi: l’ho sempre considerato un fratello acquisito, a cui i miei genitori erano affezionati e di cui mi hanno sempre tessuto le lodi, conclude Daniela.

Pesaro, anni Quaranta - Cinquanta del ‘900, Elso Perugini al lavoro nella sua sartoria di corso XI Settembre

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Pesaro, anni Quaranta - Cinquanta del ‘900: alcune immagini della Sartoria Perugini; nella foto grande anche un giovanissimo Remo Pugliese (il bambino in seconda fila a sinistra)

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In questa pagina e alla seguente, alcune immagini dall’album della Famiglia Perugini: sopra, una foto scattata davanti alla sartoria; nella pagina seguente: sopra, Elso Perugini e sua moglie Bruna Battistelli; sotto: appassionato di moto e di lirica, Elso Perugini era anche un abile suonatore di mandolino


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Venezia, 1950 circa: i sarti pesaresi in gita (altre fotografie scattate in quella occasione sono presenti alla pagina 124 (tutte le immagini di questo capitolo provengono dalla raccolta della Famiglia Perugini, Pesaro)

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Anna Maria Montagnoli Pesarese del Borgo, formatasi nell’atelier di Giuseppina Francolini Magnelli, dove ha lavorato dal 1935 al 1940, Anna Maria Montagnoli si mette in proprio negli anni immediatamente seguenti alla II guerra mondiale, lavorando in casa, in via della Maternità, a pochi passi dal Conservatorio “G.Rossini”. Dopo qualche anno, nel 1951, Anna Maria Montagnoli si sposa e si trasferisce in via Sabbatini, dove la sartoria resterà fino al 1960, per approdare poi definitivamente nell’ampio appartamento di piazzale Albani, dietro il Teatro “G.Rossini”. A mia madre dicevo sempre che volevo essere una sarta, ma una sarta brava come quelle che vanno a Parigi! racconta la signora Anna Maria, elegantissima in seta blu, in un completo – naturalmente! – di sua mano; e per questo ho deciso di andare a perfezionarmi a Bologna, negli anni tra il 1941 e il 1942, frequentando la Scuola di taglio Ferri Bagnoli. Appena tornata a Pesaro ho cominciato a tagliare e cucire i miei vestiti da sola, quando camminavo per strada le persone mi chiedevano dove li avessi comprati, e così ho cominciato pian piano a farmi conoscere. La cosa che mi piace ricordare è che molte clienti le ho vestite per quaranta-cinquant’anni, siamo cresciute insieme, continua la signora, si fidavano del mio gusto, addirittura a chi non abitava a Pesaro spedivo gli abiti finiti senza nemmeno fare una prova.

Pesaro, un recente ritratto di Anna Maria Montagnoli

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Gli abiti da sposa erano il mio forte, ricorda Anna Maria Montagnoli, in tutta la mia vita ne avrò fatti più di duecento, tante volte lavoravamo anche di notte, per finire e consegnare in tempo. Il laboratorio, attualmente trasformato in grande sala da pranzo-salotto, ospitava fino a 20 ragazze: accompagnandoci in quello che era il salottino di prova, la nipote acquisita Dorothy Willoughby, interior designer, ci fa notare i tavoloni consumati dall’uso, segnati a intervalli regolari dalla presenza delle lavoranti che vi appoggiavano i piedi. La zia aveva molti clienti anche da fuori, e un suo abito, indossato dalla moglie di un diplomatico, è persino arrivato a Londra, a un ricevimento di corte della regina Elisabetta, aggiunge Dorothy, grande fan della zia, mostrandoci con orgoglio alcune fresche vestine in cotone che la signora Anna Maria ha recentemente creato per i nipotini. Insomma, posso dire di essere soddisfatta di quello che ho fatto: ho lavorato tanto, troppo forse, ma sono contenta perché a me piaceva fare delle cose belle, conclude la signora Anna Maria.

Pesaro, 16 luglio 1960, Teatro “G. Rossini”, gli abiti di Anna Maria Montagnoli sfilano nel corso di un défilé organizzato dall’Artigianato Provinciale. In questa pagina e alle seguenti, i modelli di Anna Maria Montagnoli. I tessuti li prendevo a Milano, da Galtrucco, oppure a Bologna da Valli, dice la signora Anna Maria; mi piaceva molto giocare con i colori, specialmente con il double-face, anche se è una lavorazione abbastanza complicata (raccolta Anna Maria Montagnoli, Pesaro)


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Anna Maria Montagnoli


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A destra: Pesaro, 16 luglio 1960, Teatro “G. Rossini”, gli abiti di Anna Maria Montagnoli sfilano nel corso di un défilé organizzato dall’Artigianato Provinciale (raccolta Anna Maria Montagnoli, Pesaro); sopra: l’elenco dei modelli presentati da Anna Maria Montagnoli (raccolta Domenica Fabbri)

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Sopra, una selezione di modelli presentati da Anna Maria Montagnoli nel corso di una delle sfilate organizzate dal Gruppo Sarti al Teatro “Sperimentale� di Pesaro (1975);nella pagina a fianco,un modello del 1981, presentato in una sfilata a Roma (raccolta Anna Maria Montagnoli, Pesaro)

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Iolanda Secchiaroli Iolanda Secchiaroli (1915-2005) inizia la propria attività in via della Battaglia, negli anni immediatamente precedenti la II guerra mondiale, dopo aver imparato il mestiere lavorando a fianco della sorella maggiore, Rosina. Ultima di quattro fratelli, due dei quali morti in giovane età, la signorina, come tutti la chiamavano, nel 1955 trasferisce la propria attività nella vicina palazzina di viale Marsala 21, da lei stessa fatta costruire: al primo piano trova posto la sartoria, con il laboratorio e il salottino per le prove; al piano superiore c’è invece l’abitazione. Le ragazze arrivavano, lasciavano la bicicletta nel seminterrato e poi salivano in sartoria, ci hanno detto alcune sue ex lavoranti, che della signorina ricordano affettuosamente la gentilezza d’animo e la grande capacità lavorativa. Il lavoro è la miglior cura, ripeteva spesso Iolanda Secchiaroli, riferendosi alle difficoltà che aveva dovuto affrontare nel corso della sua vita; al pari delle colleghe Iolanda non si tirava indie-

Iolanda Secchiaroli, al centro nella foto, con le sue collaboratrici e con alcune clienti (anni 1955 - 1965, raccolta Famiglia Cesarini e Wanda Giombini Cesarini, Pesaro)

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tro se c’era da fare le notti in piedi, per le consegne più urgenti: spesso, ricorda Wanda Giombini Cesarini, dal 1947 collaboratrice della sartoria, prima come apprendista poi come première, la signorina cenava con una bella bistecca, diceva che le dava forza per lavorare fino a tardi. Tra le clienti, sebbene presente in modo occasionale, Ave Ninchi, che a Iolanda Secchiaroli commissionò un cappotto. Specializzata nei tailleurs e negli abiti da sera, che le sono valsi numerosi premi in manifestazioni di moda, Iolanda Secchiaroli era tra le poche sarte pesaresi in grado di realizzare anche capi in pelliccia. Le foto che la ricordano si riferiscono in gran parte a occasioni conviviali: in molte di esse la signorina appare circondata dai fiori, una delle sue grandi passioni insieme con la lirica e i viaggi. Le clienti sapevano di questo suo amore per i fiori, e per la festa di San Francesco, il 4 ottobre (data in cui a Pesaro si tiene la tradizionale Festa dei fiori), la venivano a trovare portandole una pianta, aggiunge Wanda, che è rimasta fino alla fine accanto alla signorina.

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In queste pagine, Maria Bacchiani, una cliente di Montelabbate, con due modelli realizzati da Iolanda Secchiaroli: il cappotto bianco è del 1946 (indossato durante il viaggio di nozze a Roma); il completo nella pagina precedente è del 1942 (la fotografia è stata scattata a Montelabbate; raccolta Stefania Bacchiani, Montelabbate)


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Gigliola Gori indossa due abiti realizzati da Iolanda Secchiaroli; il modello in questa pagina è stato disegnato da Emilio Schubert (1904-1972), il grande creatore di moda amato dalle dive, noto tra l’altro per gli sfarzosi costumi indossati da Wanda Osiris nei finali delle sue riviste (raccolta Gigliola Gori, Pesaro)

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Altre due immagini di Iolanda Secchiaroli, sopra con una cliente nel salottino della sartoria; sotto, durante una riunione conviviale (raccolta Famiglia Cesarini e Wanda Giombini Cesarini, Pesaro)

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Iolanda Secchiaroli

Massimo Cesarini, figlio di Wanda Giombini Cesarini davanti allo specchio per le prove degli abiti nella sartoria di via Marsala; (raccolta Famiglia Cesarini); sotto: Iolanda Secchiaroli insieme a Adriana Mancini Soliman, sua cliente e amica (raccolta Marta Soliman Bonali, Pesaro)

Lettera a una cara amica A volte il destino aiuta due persone che si sono incontrate per anni per le vie della città, senza conoscersi, un saluto fugace, qualche amicizia comune. Mia madre Adriana sognava di poter un giorno indossare quei meravigliosi vestiti che la signorina Iolanda creava nel suo atelier, un sogno poi diventato realtà. Un viaggio le ha fatte incontrare per caso ed è stata subito amicizia, un’amicizia durata anni, anni felici, fatta di altri viaggi insieme, di simpatiche visite, di affettuose telefonate e di tanti abiti che le sue mani d’oro hanno creato per mia madre, modelli unici, moderni, spiritosi e sempre alla moda. Grazie Iolanda per la tua amicizia, per quella persona speciale che sei stata per mia madre - Marta Soliman, maggio 2008

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Domenico Ciarrocchi Schivo e riservato, Domenico Ciarrocchi comincia l’attività in proprio nel 1951, due anni dopo il suo arrivo a Pesaro, dopo aver collaborato brevemente con uno dei capostipiti della sartoria maschile pesarese, Erasmo Pezzodipane. Originario di Ascoli Piceno, Domenico Ciarrocchi aveva imparato il mestiere a Macerata, presso la sartoria dei fratelli Virgili: da un rappresentante di tessuti aveva saputo che a Pesaro Pezzodipane cercava collaboratori esperti e aveva deciso di spostarsi, ci racconta la moglie Amelia, sempre al suo fianco anche nell’attività lavorativa. La prima sede del laboratorio è in via Perfetti (una piccola traversa di corso XI Settembre): tre anni dopo l’apertura il lavoro aumenta al punto da spingere il sarto a trasferirsi in un appartamento più grande, nella vicina via Mazzolari, presso Palazzo Cecchi, ove la sartoria arrivò a impiegare fino a una quindicina di lavoranti. Tra i clienti, dice ancora Amelia Ciarrocchi, molti pesaresi che hanno fatto strada, come Arnaldo Pomodoro,

Sanremo anni Sessanta - Settanta del ‘900: Domenico Ciarrocchi insieme con la moglie Amelia

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che spesso ci ospitava a Milano per le prove dei vestiti; da ricordare anche le uniformi (soprattutto per gli ufficiali superiori) realizzate dalla Sartoria Ciarrocchi e, tra le occasioni professionali più prestigiose, le sfilate al Grand Hotel di Riccione. Anche se, aggiunge la signora Amelia, mio marito non ha mai amato molto le sfilate e le altre occasioni pubbliche, e a Sanremo (dove dagli anni Settanta del ‘900 il Gruppo Sarti di Pesaro prendeva parte al Festival della Moda) ci andavamo per vedere il lavoro dei colleghi ma, soprattutto, per goderci i pochi giorni di vacanza. Ricordo che spesso i miei genitori lavoravano in sartoria anche la notte di Natale, ricorda la figlia Maria Teresa, che al pari di molti altri figli di sarti contribuiva all’attività famigliare consegnando gli abiti ai clienti. Nel 1964 la sartoria si trasferisce in via del Corpus Domini, dove Domenico Ciarrocchi eserciterà il mestiere di sarto per altri vent’anni: sempre attento all’aggiornamento professionale, fu tra i primi a dotarsi delle macchine che potevano alleggerire le fasi più pesanti della lavorazione, come per esempio i tavoli da stiro aspiranti o le macchine “Strobel” per i punti invisibili. Consigliere dell’Artigianato provinciale, Domenico Ciarrocchi è scomparso nel 2002, dopo aver insegnato il mestiere a molti sarti della generazione successiva, tra cui Piero Battisti e Console Costantini; il suo congedo ai ragazzi che lasciavano la sartoria per mettersi in proprio era sempre lo stesso: ti auguro di lavorare tanto come ho lavorato io, conclude Amelia Ciarrocchi, sottolineando subito dopo che il successo della sartoria si deve all’impegno e alla grande dedizione profusi dal marito nell’attività lavorativa. In chiusura ci piace ricordare, come in una sorta di ideale passaggio del testimone, che una nipote di Amelia e Domenico lavora oggi a Milano, per uno tra i più noti marchi italiani di moda.

Sartoria Ciarrocchi: etichette per capi di colore scuro e chiaro (tutte le immagini di questo capitolo provengono dalla raccolta della Famiglia Ciarrocchi, Pesaro)

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Domenica Fabbri Nata a Pesaro il 5 maggio 1923, Domenica Fabbri trascorre l’infanzia e la fanciullezza a Milano, restando dai 5 ai 14 anni presso un collegio di religiose. Nel giugno del 1937 torna a Pesaro, dove inizia un periodo di apprendistato presso il laboratorio di Rosina Secchiaroli Balducci, sorella di Iolanda, in via Castelfidardo. Qualche tempo dopo apre un’attività in proprio che manterrà fino al termine della II guerra mondiale, con una breve interruzione nel periodo dello sfollamento da Pesaro. Nel 1947 Domenica è chiamata da Iolanda Secchiaroli a dirigere la sua sartoria, in via Marsala: all’epoca il laboratorio della signorina Secchiaroli conta otto dipendenti, arrivando poi fino a venti. Lasciata Pesaro per una breve parentesi in Romagna, dove nell’agosto 1952 nasce a Cesenatico sua figlia Marina, Domenica torna nella città natale alla fine del 1953, per riprendere l’attività sartoriale in proprio nel piccolo appartamento di viale Trento 74. L’8 maggio 1955 prende parte al II Festival della Moda, organizzato dall’Unione Artigiani al Teatro “G.Rossini”, dove i suoi modelli riscuotono un grande successo.Tra il 1956 e il 1957 Domenica si trasferisce a Villa Olga, nell’appartamento preso in affitto dalla famiglia Ruggeri; dal 1957 al 1967 svolge la sua attività nel laboratorio di via Picciola 14, poco distante dall’ex stazione delle corriere: è di que-

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Domenica Fabbri nella sua sartoria di via Picciola


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sto periodo (1966) il Diploma d’onore, conferito dal settimanale Amica alle sarte più votate nel referendum nazionale indetto dalla stessa rivista. Con l’affermarsi della propria sartoria Domenica Fabbri si trasferisce nella villa di proprietà della famiglia Recchi in viale della Repubblica 8, dove rimane fino al 1989, anno in cui decide di cessare l’attività artigianale per dedicarsi al nuovo gratificante ruolo di nonna dell’adorato nipote Andrea (notizie raccolte e ordinate da Marina Fabbri). Sorridente ed estroversa, Domenica Fabbri è ricordata con grande affetto dalle clienti – amiche: era la più brava, dicono ancora oggi, con una punta di rimpianto per quegli abiti dallo stile estremamente femminile, sempre attentissimi alla moda del momento ma capaci di durare nel tempo. I rari modelli che Domenica conserva nei suoi armadi stupiscono per la perfezione del taglio ma anche per l’elevata qualità dei tessuti, da sempre uno degli atout della sartoria Fabbri: i tessuti li sceglievo da Gandini, a Milano, racconta Domenica, mentre ripercorriamo con la figlia Marina le tappe della sua lunga attività di fronte a un tavolo ingombro di fotografie; per i modelli mi ispiravo a “Vogue” o ad “Harper’s Bazaar” ma alla fine aggiungevo sempre qualcosa di mio, mi piaceva personalizzare con un dettaglio, una linea particolare… Ogni anno partecipavo a diverse sfilate, sia a Pesaro sia fuori, a Roma per esempio, e nell’autunno 1968 ne ho organizzata una anche nella mia sartoria, in viale della Repubblica, con indossatrici professioniste e la modista Zerri di Bologna. Nella vastissima produzione di Domenica occupano un posto particolare gli abiti da sera e, soprattutto, quelli da sposa e da cerimonia, anche per bambini (spesso mi invitavano alle feste, le clienti mi volevano molto bene, ero quasi la mascotte della sartoria, dice Marina): da segnalare poi, tra gli abiti per bambini, i deliziosi costumi per Carnevale, per i quali Domenica vinse anche alcuni premi.

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Domenica Fabbri In questa pagina, a sinistra Domenica Fabbri e Iolanda Secchiaroli durante un viaggio di lavoro a Milano, fine anni Quaranta del ‘900; sotto, a sinistra: due etichette; a destra Domenica Fabbri entra nell’Albo d’oro delle Sarte italiane istituito dal settimanale Amica (1966). Nella pagina precedente: provincia di Pesaro, fine anni Quaranta del ‘900: foto di gruppo per Iolanda Secchiaroli e le sue lavoranti presso la casa di campagna di una cliente. Nella pagina seguente: alcuni modelli di Domenica Fabbri sfilano nella II edizione del Festival della Moda, organizzato dall’Unione Artigiani di Pesaro al Teatro “G.Rossini” (1955)

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Domenica Fabbri, poesia di Emma Corvo (1963)

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Pesaro, 16 luglio 1960, Teatro “G.Rossini”: défilé di moda organizzato dalla Confederazione Generale Italiana dell’Artigianato - Artigianato proviciale di Pesaro; alla pagine seguente, due modelli di Domenica Fabbri: sopra, Cappuccino, sotto: Mattinata

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Pesaro, 16 luglio 1960, Teatro “G.Rossini”: défilé di moda organizzato dalla Confederazione Generale Italiana dell’Artigianato - Artigianato proviciale di Pesaro; pagina precedente: Città di Pesaro (modello composto da un abito prendisole e un costume in lino nelle sfumature dell’azzurro con applicazioni e ricami); sopra: Fuochi d’artificio; alla pagina 164, sopra, Via Veneto sotto, Bosforo; alla pagina 165, Pistacchio. A pagina 166 in senso orario: Vernissage, Derby, Calypso, Sayonara (foto G. Pandolfi, Pesaro). Pagina 167: sopra, Cerasella e Conchiglia (questo modello - ricorda la signora Domenica - era di un bellissimo broccato bianco e oro, mentre Cerasella era rosso con un orlo in tulle plumetis); sotto, gli stessi modelli sfilano alla Corte Malatestiana di Fano, il 17 luglio 1960


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Marina Fabbri, figlia di Domenica, posa con alcuni costumi di Carnevale e abiti realizzati dalla madre. In questa pagina: Pesaro, 1957: sopra, a sinistra una coppia di contadinelli (Marina è en travesti); a destra: Marina, ancora nelle vesti di piccola modella, sfila al Cinema - Teatro “Nuovo Fiore” durante una manifestazione organizzata per promuovere il cotone Valle Susa. Nella pagina precedente, sopra, Pesaro, 1958: i costumi di Domenica Fabbri premiati nel corso di una sfilata al Teatro “G.Rossini” e, in basso a destra, Marina nei panni di una cinesina; al centro, Cappuccetto Rosso (primi anni Sessanta del ‘900) e, a sinistra, una damina, 1959 (tutte le immagini di questo capitolo provengono dalla raccolta Domenica Fabbri)

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Anna Maria Lugli Ho sempre fatto quel che sentivo cercando di dar forma alle idee e ai miei gusti senza accettare compromessi. Anna Maria Lugli, una delle firme più prestigiose dell’abbigliamento in città, rivendica il coraggio e la tenacia con cui ha costruito negli anni una delle attività commerciali più longeve e blasonate del centro. Oggi, aiutata nella gestione delle sue boutique che si snodano lunga via Morselli e via Giovannelli dalle quattro figlie, la signora Anna non ha perso la grinta e quel suo grande spirito di indipendenza e libertà che ha sempre contraddistinto la sua vita. Ho cominciato a lavorare a sedici anni. Avevo una zia che faceva la sarta, si chiamava Alda Lugli e aveva una quindicina di lavoranti; insomma, una bella sartoria. Fu mia nonna Emma a spingermi verso quella strada: Vai e impara a cucire! mi disse. Io stetti lì qualche mese, cercando di imparare a fare orli, ricami, ma mia zia, che era molto esigente, mi disse che forse era meglio se avessi fatto altro. Avrei considerato chiusa quell’esperienza se non fosse stato per mia mamma - Santina Masetti - che, invece, insistette. Ambiziosa, elegante, dedicava tanto tempo anche a noi e ai miei fratelli per vestirci bene e con cura. Fu così che mi spinse ad imparare il lavoro nella sartoria di Maria Cardellini.

Anna Maria Lugli in una recente immagine

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Fu proprio nel laboratorio della brava sarta in via Cavour che Anna Maria Lugli iniziò senza saperlo la sua carriera alla fine degli anni Cinquanta. Mi impegnai moltissimo e in meno di sei mesi divenni una delle più brave; avevo imparato a fare di tutto, e solo in quel momento decisi di mettermi in proprio. Mi ricordo che fu mio padre, a diciassette anni, ad anticiparmi dei soldi per una macchina da cucire che dovetti pagare poi a rate. Iniziai così a cucire facendo dei vestiti alle mie amiche e poi dei baschi di velluto. Il mio primo vero lavoro fu confezionare abiti alle figlie dei colonnelli del 6° Car della Caserma in occasione delle feste del Circolo Pesarese dove vinsi dei premi. Fu proprio in quell’anno che partecipai a una sfilata al Teatro Rossini. Io, la più giovane, in mezzo a tante sarte molto più esperte e famose, riuscii a conquistare la giuria e il pubblico. Fu in quella sfilata che la bellissima attrice del cinema Anna Maria Pierangeli volle acquistare a tutti costi uno dei miei abiti. Insomma, cominciai così, divertendomi. Ma a plasmare la vita professionale di Anna Lugli fu senz’altro Milano. Volevo imparare la bellezza dello stile, conoscere l’alta e altissima moda, vedere sfilate. Fu proprio a Milano che iniziò la mia frequentazione con la famiglia Dogle-Farè esclusivista di Yves Saint Laurent e Christian Dìor. Entrai nelle loro grazie e in quegli anni vidi le più belle creazioni della moda internazionale. Fu una palestra eccezionale perché lì affinai il mio gusto e la mia visione del vestire. Decisi a quel punto che era l’ora di aprire un’attività commerciale senza però abbandonare completamente l’attività sartoriale. Tornata a Pesaro l’intraprendente Anna Lugli decide di aprire la sua prima attività commerciale senza però tralasciare l’attività di sartoria. Mio marito era contrario, non voleva che lavorassi. Ma io decisi a quel punto di fargli firmare una sorta di contratto-statuto in base al quale ognuno decideva di vivere la sua vita in piena libertà e autonomia, soprattutto dal punto di vista professionale, purchè questo non andasse a discapito della famiglia qualora avessimo avuto dei figli. Lui accettò e firmò.

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Anna Maria Lugli

Era il 1959 e scelsi di aprire la mia prima boutique in viale Trieste, sotto l’Hotel Principe. Anche in quel caso, come ho sempre fatto nella mia vita, ho creduto che fosse importante dare un’impronta personale a un’attività commerciale: ecco perché decisi di arredare tutto da sola, in base alle mie idee e ai miei gusti. Devo dire che fu proprio un bell’inizio. Ma di lì a poco decisi di spostarmi in via Rossini. Fu una sistemazione temporanea perché poi mi innamorai di via Morselli e di quello splendido giardino segreto di Casa Mancini. Fu proprio in questa via fino ad allora non molto valutata di Pesaro, che Anna Maria Lugli decise, come sempre contro il parere di tutti, di stabilire il suo nuovo atelier e dare così libero sfogo a tutto il suo gusto nell’arredare e ristrutturare appagando allo stesso tempo il suo amore innato per l’architettura e l’arredamento. Pareti con porzioni di mattoni a vista, soffitti in legno d’abete, mobili antichi, cristalli, sculture di Pomodoro e Facchini, quadri di Ceroli, Burri, De Carolis, Lugli, Basile. Insomma Anna Maria Lugli ha vissuto ogni suo negozio quasi come fosse la nascita di un figlio. Dai pavimenti ai soffitti, dalle pareti agli arredi, dalle porte alle luci. Nulla lasciato al caso ma alla fantasia, al gusto, alla classe. Boutique con un’anima, impregnate di eleganza ma anche di cultura, raffinate e per una clientela “illuminata”. Era il 1961 e tutto questo allora sembrava pura avanguardia. E’ stato proprio in via Morselli che Anna Maria Lugli ha dato sostanza alle sue passioni e alla sua intelligenza: l’alta moda, l’architettura, l’arredamento. Una prima boutique, e poi un’altra e un'altra ancora. Fino a quattro (uomo, donna, bambino e borse), in poche decine di metri a dare un segno d’eleganza a un angolo bellissimo della città. Tutte nate con entusiasmo, fantasia, gusto: Sono riuscita a creare con tenacia e passione un lavoro che è diventato per me anche un adorabile passatempo.

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Pesaro, 16 luglio 1960,Teatro “G.Rossini”: défilé di moda organizzato dall’Artigianato provinciale; sopra: l’elenco dei modelli presentati da Anna Maria Lugli (raccolta Domenica Fabbri, Pesaro); nella pagina a fianco i modelli di Anna Maria Lugli. Alla pagina 172: Anna Maria Lugli, bambina; alla pagina 173, in alto: Milano, Anna Maria Lugli riceve un premio alla Camera di Commercio; sotto: con la figlia Giorgia (raccolta Anna Maria Lugli, Pesaro)

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In questa pagina, sopra: Pesaro, due interni delle boutique Lugli, progettati dalla stessa Anna Maria Lugli, che per questo suo lavoro è apparsa come progettista e designer nel volume Nuovi negozi in Italia, ed. L’Archivolto, 1997. Nella pagina a fianco, quattro abiti da sposa: in alto a sinistra, un modello di Yves Saint Laurent durante una sfilata della boutique Lugli svoltasi nel giardino di Casa Mancini; in due delle immagini si intravedono le quattro figlie della signora Anna Maria, Camilla, Giorgia, Micol e Uga. Micol ha ereditato la passione materna per la moda e lavora come stylist per importanti settimanali italiani (raccolta Anna Maria Lugli, Pesaro)

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Remo Pugliese Sono nato in sartoria, dice Remo Pugliese (1941), riferendosi scherzosamente alla giovanissima età alla quale ha iniziato il proprio apprendistato: a soli dieci anni, infatti, Remo entra nel laboratorio di Elso Perugini, in Corso XI Settembre, nel Borgo. L’arte del taglio è nel DNA di Remo: il fratello di sua nonna materna (l’elegante signora ritratta nella foto alla pagina seguente) era sarto, così come due suoi cugini per parte di padre. Successivamente titolare di una sartoria in via Cavallotti, Remo Pugliese a ventisei anni diventa modellista e prototipista presso la ditta Coronet-Salvaterra, dove resta per circa sette anni; la voglia di sperimentare e il desiderio di mettere a frutto le esperienze acquisite lo spingono a intraprendere la strada delle confezioni di qualità, aprendo un’azienda artigiana di produzione in serie. Attiva dal 1973 al 2006, nei momenti di maggior impegno la sua azienda ha avuto una quarantina di dipendenti. Come molti colleghi anche Remo Pugliese ha svolto parallelamente al mestiere di sarto un’intensa attività nel campo della formazione: nel 1989 ha iniziato la sua collaborazione con la Scuola Regionale di Pesaro, e oggi ha al suo attivo ben cinquantacinque corsi tra Italia ed estero. Accanto ai corsi tenuti in numerose località della nostra provincia, Pugliese ha insegnato l’arte e i segreti del taglio in Basilicata e Abruzzo e, all’estero, in Romania, Tunisia e, nel 2001 persino in Kazakistan, dove è stato chiamato nell’ambito di un progetto TACIS, promosso dall’Unione Europea e incentrato sull’alta formazione. Attualmente affianca all’impegno nel settore della formazione l’attività di consulente tecnico per aziende italiane ed estere. Remo Pugliese fotografato con un abito realizzato durante un corso di formazione

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Ci piace segnalare, infine, che Remo Pugliese ha contribuito in modo decisivo alla nostra ricerca, indicandoci tracce, ripescando nella memoria nomi e indirizzi e riallacciando molti dei fili che ci hanno permesso di recuperare, almeno in parte, volti e vicende delle sartorie pesaresi.

A sinistra, dall’album di famiglia di Remo Pugliese: la raffinata signora è la nonna di Remo, originaria di Orense, nel nord-ovest della Spagna; sopra: Remo Pugliese al lavoro presso la Coronet-Salvaterra. Nella pagina a fianco: alcune immagini del corso di formazione ad Almaty, capitale del Kazakistan (2001; tutte le immagini di questo capitolo provengono dalla raccolta Remo Pugliese, Pesaro)

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Il Gruppo Sarti Tra gli anni Sessanta e Novanta del ‘900 la storia delle sartorie pesaresi coincide quasi del tutto con quella del Gruppo Sarti, un’associazione nata da diverse esperienze di consorzi provinciali e regionali che riuniva artigiani di tutta la provincia. Per tutti gli anni Sessanta - Settanta il Gruppo Sarti, in collaborazione con le Associazioni di Categoria, la Camera di Commercio e altri Enti cittadini, promuoverà il lavoro degli associati attraverso una serie di sfilate al Teatro “Sperimentale” di Pesaro, le Rassegne della Moda, la cui prima edizione si svolse il 23 agosto 1969. Dalla metà degli anni Ottanta fino ai primi Novanta le sfilate si spostano in Piazza del Popolo, dove attirano un pubblico numerosissimo, anche grazie al puntuale e frizzante coordinamento dell’agenzia Intercontact di Silvia Cordella e Simonetta Campanelli. In quegli anni le sfilate si ripetono anche in altre piazze della provincia, tra cui Fano e Cagli, oltre che presso i padiglioni fieristici di Campanara, nelle diverse edizioni della fiera Pesaro produce (successivamente Marche producono), alle quali il Gruppo Sarti prende parte sin dagli inizi, nei primi anni Settanta. Da ricordare anche la partecipazione del Gruppo Sarti a molte edizioni del prestigioso Festival della Moda di Sanremo. La generale crisi del su misura, i cui molteplici aspetti emergono dalle testimonianze presentate nelle pagine che seguono, provoca insieme con altri fattori la progressiva chiusura di quasi tutte le sartorie cittadine, delle quali assai poche restano oggi in attività. I sarti della nostra città sono però tuttora molto legati: alcuni di loro si ritrovano per festeggiare Sant’Omobono o in altre occasioni, e non mancano parole affettuose per chi non c’è più. Rispettando il loro desiderio, presentiamo le sartorie legate all’esperienza del Gruppo Sarti in un unico capitolo, a rappresentare la moda pesarese degli ultimi trent’anni. Pesaro, padiglioni fieristici di Campanara, anni Ottanta del ‘900: alcuni componenti del Gruppo Sarti (raccolta Romeo Fiorà, Pesaro)

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Pesaro. 7 febbraio 1972. Si costituisce il Comitato Sarti (futuro Gruppo Sarti). Dal comunicato stampa (raccolta Aleardo Asdrubali): Si è riunito a Pesaro l’esecutivo del Gruppo Provinciale sarti e sarte, per esaminare problemi specifici di categoria e per provvedere alla nomina degli organi direttivi che sono stati così distribuiti: presidente, Asdrubali Aleardo; Vice presidente: Righetti Bruno; Segretario, Garattoni Raffaele; Vice segretario: Macchniz Elsa; Cassiere: Camilli Francesco; Consiglieri: Fabbri Domenica, Scatassa Alba, Sabatinelli e Gualazzi, Tonucci Renato,Vichi Gianfranco. Il Consiglio si è poi incontrato con i rappresentanti delle Organizzazioni Sindacali Artigiane per illustrare l’atteggiamento del Gruppo e le sue prospettive di lavoro. E’ stata ribadita la volontà di affrontare solo problemi tipici e promozionali di categoria, mentre è stato riconosciuto insostituibile l’impegno delle organizzazioni sindacali a risolvere i problemi di fondo che investono la realtà artigiana. Dalla bozza di statuto del Gruppo Sarti Art. 1 - L’Associazione di categoria dei Sarti e Sarte della provincia di Pesaro è libera da qualsiasi influenza esterna e non si sostituisce alle organizzazioni sindacali esistenti nella Provincia. Art. 2 - L’Associazione non ha scopo di lucro, ma solo iniziative promozionali di categoria. Art. 3 - I Sarti e le Sarte conservano l’adesione alle organizzazioni artigiane di provenienza, impegnandosi alla individuazione, allo studio e alla soluzione dei problemi tipici della categoria; lasciando alle rispettive organizzazioni i compiti più generali di difesa della categoria e degli artigiani. Ancona, 1971: il Gruppo Sarti riunito in occasione della Giornata della Sartoria (raccolta Rosetta Sili Mueller, Pesaro); nella pagina a fianco: 1971, un articolo sulle sfilate del Gruppo Sarti da una rivista di settore (raccolta Elsa Macchniz, Pesaro)

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Pesaro, anni Settanta del ‘900: il Gruppo Sarti al termine di una sfilata al Teatro “Sperimentale” (raccolta Rosetta Sili Mueller, Pesaro) Impossibile nominare tutti coloro che hanno preso parte alle sfilate del Gruppo Sarti tra gli anni Settanta e Novanta del ‘900; dalla pubblicistica relativa a quelle manifestazioni ricaviamo i nomi di alcuni altri componenti pesaresi dell’associazione: Maria Bocci, Bruno Righetti, Anna Maria Severi, Gianfranco Vichi e Tonino Vichi

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Il Gruppo Sarti

Dal su misura alla confezione Alla fine degli anni Cinquanta, la confezione in serie italiana appariva ancora sottodimensionata se paragonata al resto dell’industria europea. Nel 1959, ad esempio, la produzione olandese di abiti e tailleurs per signora era pari a quasi tre volte quella italiana (che produceva soltanto per un terzo del mercato interno), mentre la Germania Occidentale, con oltre 25 milioni di pezzi, la superava di quasi venti volte. Il mercato italiano era dominato ancora da grandi couturiers, sarti e sartine. L’abito sartoriale (spesso riciclato, riadattato e riutilizzato) manteneva ancora un ruolo predominante rispetto a quello confezionato industrialmente, di basso prezzo, ma anche di qualità e vestibilità inferiori. Tuttavia, nel corso degli anni Sessanta, la domanda interna si riprese: i confezionisti italiani assimilarono metodi produttivi e formule distributive provenienti dall’industria confezionista americana, accrescendo la qualità dell’offerta pur mantenendo i prezzi a livello competitivo (i primi lotti in uscita dalla nuova produzione costavano un terzo di quelli su misura). Il prestigio della confezione seriale italiana si accrebbe ulteriormente grazie alla realizzazione di alcune ben congegnate idee promozionali, come quella del SAMIA (Salone Mercato Internazionale dell’Abbigliamento) di Torino, e grazie al successo americano della riproduzione seriale di modelli derivanti dall’alta moda e dalla moda boutique. L’interesse verso il pronto attirò anche i singoli sarti, che non si limitarono più solo a cedere i propri modelli ai department stores e alle manifatture americane, ma iniziarono a sviluppare loro stessi produzioni seriali d’alta moda, l’alta moda pronta, realizzando convenzioni con industrie italiane o, come una delle sorelle Fontana, aprendone di nuove loro stessi (da Ivan Paris, La nascita della Camera Nazionale della Moda Italiana e il suo ruolo nello sviluppo del Sistema Italiano della Moda, in Balbi sei, Rivista digitale e on-line del Dipartimento di storia moderna e contemporanea Università degli Studi di Genova, n. 0 del 2004, http://www.balbisei.unige.it/Paris.pdf)

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Elsa Macchniz Profuga triestina (non esule, sottolinea), nata in Liguria e in tempo di guerra rifugiatasi con la famiglia in Garfagnana (la zona tra l’Appennino tosco emiliano e le Alpi Apuane, in provincia di Lucca), Elsa Macchniz è una delle più note sarte della nostra città.Arrivata a Pesaro nel 1945, alla fine della II guerra mondiale, Elsa è sposata con Emilio Vichi, pesarese doc (la sua famiglia è originaria del Porto) ma cresciuto a Parigi e rimpatriato ugualmente a causa della guerra. Un incrocio di culture e atmosfere che ha profondamente influenzato la moda di Elsa Macchniz, intessendo i suoi abiti e i suoi colori. Dopo un breve periodo di pratica presso la sartoria di Tina Fiorani, Elsa continua il suo apprendistato nell’atelier di Giuseppina Francolini Magnelli: ma tu cosa pretendi - mi chiese la signora Magnelli quando andai da lei per il colloquio, e io risposi - niente, solo di imparare il mestiere. Ed è proprio quello che è successo, da lei ho imparato il mestiere e di questo ancora le sono grata. Grazie alla sua abilità nell’arte del ricamo, appresa dalla suore di Portorose a Trieste, Elsa salta tutti i passaggi dell’apprendistato, e dopo tre anni e mezzo, decide di lasciare la sua maestra per iniziare l’attività in proprio: nel 1948 può già contare su una base di clienti di circa venticinque famiglie. Nel 1955, a venticinque anni e con un figlio di uno, Elsa Macchniz si reca a Milano, all’Istituto “Marangoni”, uno dei più rinomati d’Europa, a perfezionarsi nel taglio: è qui che il suo stile già formato troverà quell’apertura verso la moda internazionale che caratterizza le sue creazioni, e che contribuirà a farle guadagnare numerosi premi e riconoscimenti (impossibile citarli tutti, ricordiamo qui solo il prestigioso Oscar della moda “Città di Rimini” vinto nel 1971). A ventisette anni Elsa Macchniz partecipa al suo primo défilé: è l’inizio di una serie ininterrotta di successi, che la porteranno a sfilare in tutta Italia, spesso anche in rappresentanza della nostra provincia e della nostra regione. Elsa Macchniz festeggia Sant’Omobono insieme con Giuseppina Francolini Magnelli (la signora vestita di bianco)

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Molto attiva anche nel settore della formazione, Elsa Macchniz ha collaborato con l’Istituto d’Arte “F. Mengaroni” di Pesaro e, dopo essere stata chiamata come esperta da diversi istituti professionali, è stata assunta con lo stesso ruolo dalla Regione Marche. Sempre curiosa, si è cimentata inoltre nella conduzione di due programmi televisivi, Eva 78 e Eva oggi, dedicati al mondo delle donne dall’emittente locale Telepesaro; tra i successi di Elsa Macchniz ci sono infine anche due spettacoli teatrali, La Barba del Conte (Pesaro - Teatro “G.Rossini”, 1991) e La storia di un povero fantasma, con la scuola media di Villa San Martino (Pesaro). Molto importante è stato per Elsa Macchniz l’impegno all’interno delle associazioni di categoria: tra i suoi incarichi ricordiamo quelli di vicepresidente e poi presidente della Cooperativa artigiana di garanzia, ruoli che ha ricoperto per vent’anni ottenendo importanti risultati; la vicepresidenza del Gruppo Sarti di Pesaro, durante la presidenza di Console Costantini e, infine, l’attività svolta come consigliere della Confartigianato e del Consorzio Istruzione Tecnica.

In questa pagina: Pesaro,Teatro “G. Rossini”, 16 luglio 1960, alcuni modelli di Elsa Macchniz; nella pagina a fianco da un quotidiano dell’epoca un articolo sulla stessa sfilata

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In questa pagina, anni Cinquanta - Settanta del ‘900, da sinistra in senso orario: uno dei primi abiti realizzati da Elsa Macchniz; un modello fotografato nella Sartoria di piazzale Collenuccio; lo stand di Elsa Macchniz al SAMIA Salone Mercato Internazionale dell’Abbigliamento di Torino; nella pagina a fianco: anni Settanta - Ottanta del ‘900, alcuni modelli di Elsa Macchniz.A pagina 196 due ‘uscite’ di Elsa Macchniz che destarono scalpore: in una sfilata a tema floreale, la Macchniz presentò dei modelli realizzati con veri fiori e foglie; sotto a destra: Elsa Macchniz con Mariolina Cannuli e Silvan (tutte le immagini di questo capitolo provengono dalla raccolta Elsa Macchniz, Pesaro)

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Nel mio piccolo sono consapevole che, pur vivendo in una cittadina come Pesaro, ho contribuito a tenere alto il nome dell’alta moda italiana nel mondo Elsa Macchniz, giugno 2007


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Alba Scatassa Grande lavoratrice, talmente perfezionista da far ritardare le spose all’altare per dare gli ultimi tocchi a un orlo, a una manica o un pizzo, dotata di una fervida creatività che si esprimeva al meglio negli abiti da sera e da sposa e che è ricordata come la sua cifra distintiva: Alba Scatassa ha lasciato un segno forte nella moda pesarese. Le fotografie ce la restituiscono vitale e anche un po’ diva, come tutte le grandi sarte: nata nel 1923, pesarese di Villa Fastiggi, Alba impara il mestiere affiancando in giovane età la madre Giuseppina Bertuccioli Scatassa, anch’ella sarta. Dopo essersi perfezionata presso la Bolognese,Alba Scatassa si mette in proprio nei primi anni Cinquanta, aprendo un laboratorio in via Battelli. Ha dedicato tutta la sua vita alla sartoria, racconta la cognata Bianca Taini Scatassa, e ha continuato a lavorare fino agli ultimi anni. Quando c’erano le consegne più urgenti restavamo in piedi tutta la notte, e Alba chiedeva a noi della famiglia, alle persone più vicine, di darle una mano per finire in tempo. Persino il marito Luigi Pratelli, consapevole di avere al fianco un’artista, si era adeguato ai ritmi di lavoro di Alba, e l’assecondava in tutto. Si teneva aggiornata, anche in età avanzata continuava a documentarsi sulle novità, e quando trasmettevano le sfilate di moda in tv prendeva appunti, disegnava degli schizzi, aggiunge la nipote Anna che, occasionalmente, da ragazza ha fatto da mannequin alla zia. Sempre attenta agli aspetti promozionali del proprio lavoro, Alba Scatassa non perdeva una sfilata, dagli esordi, con il Festival della Moda al Teatro “G.Rossini” alle Rassegne della moda degli anni Settanta - Novanta, insieme con il Gruppo Sarti, passando per i défilé al Circolo cittadino. Orgogliosa della propria attività,Alba Scatassa guadagnò nel corso della sua lunga carriera (quasi cinquant’anni) numerosi riconoscimenti, tra i quali i premi vinti nelle due edizioni del Festival della Moda al Teatro “G.Rossini” e il Diploma d’onore, conferito dalla rivista Amica alle sarte più votate in un referendum nazionale. Pesaro, anni Settanta del ‘900, un primo piano di Alba Scatassa

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Tra le creazioni della sartoria anche pellicce e cappelli coordinati, completi da mare e accessori, dei quali Alba Scatassa curava personalmente il disegno. Da sottolineare, specie negli abiti più importanti, la scelta di tessuti di alta moda, acquistati presso le principali case italiane, oltre all’accurata lavorazione delle decorazioni in pietre, paillettes e strass, applicati pazientemente uno a uno secondo disegni preparatori tracciati su carta velina. Per i suoi modelli utilizzava anche dei figurini di grandi atelier, che però personalizzava sempre con qualche modifica, anche per adattarli alle esigenze delle clienti, continua Anna: in sartoria c’era sempre un andirivieni di signore che venivano a provare, e io stessa ho ancora qualche abito che mi ha cucito la zia Alba, sono sempre attualissimi, hanno una linea classica ed elegante che li rende senza tempo. Alle clienti forniva un servizio completo, dal tessuto alla personalizzazione dei modelli, con risultati degni degli atelier delle grandi città. Fantasiosa e brillante,Alba Scatassa è ricordata in tutto come un’artista della moda: se le si poteva muovere un appunto, conclude la cognata Bianca, era quello di inseguire la perfezione fino all’ultimo momento, le sue consegne erano al cardiopalma, anche se poi, di fronte al capo finito, tutti restavano meravigliati del risultato; ricordo che una volta una sposa è arrivata in chiesa con un bel po’ di ritardo perché Alba voleva a tutti costi ritoccare l’abito fino agli ultimi minuti prima della cerimonia! Alba Scatassa al lavoro nella sartoria di via Battelli; sopra: Pesaro, 1954, Alba è madrina al battesimo di una nipote

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Alba Scatassa

Pesaro, 1954-1955, Alba Scatassa partecipa alle prime due edizioni del Festival della Moda al Teatro “G.Rossini�; sotto: il diploma conferito ad Alba Scatassa dalla rivista Amica nel 1966 e due etichette

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Pesaro, 1968, due modelli di Alba Scatassa fotografati davanti al Kursaal; nella pagina a fianco: Pesaro, anni SettantaOttanta del ‘900, modelli di Alba Scatassa presentati in diverse edizioni della Rassegna della moda al Teatro “Sperimentale”

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Alba Scatassa

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In questa pagina, quattro figurini; nella pagina a fianco, Pesaro, anni Sessanta - Settanta del ‘900: quattro modelli di Alba Scatassa presentati durante le sfilate al Circolo Pesarese


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Anni Settanta del ‘900, due modelli di Alba Scatassa (tutte le immagini di questo capitolo provengono dalla raccolta della Famiglia Scatassa, Pesaro)

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Aleardo Asdrubali L’attività di Aleardo Asdrubali inizia sotto il segno di una prestigiosa vittoria, il I Premio Assoluto al Concorso Nazionale Fliselina, indetto nel 1955 dall’Associazione nazionale dell’abbigliamento su misura e della moda insieme con l’Associazione italiana degli industriali dell’abbigliamento per lanciare un nuovo prodotto, la fliselina, una sorta di tela utilizzata per dare sostegno ai tessuti. Il premio, consistente in un diploma e in una macchina per cucire Necchi, è solo il primo di una serie di riconoscimenti che il sarto pesarese otterrà nel corso della sua carriera. Primo presidente del Gruppo Sarti di Pesaro, esperienza grazie alla quale resterà sempre un punto di riferimento per i suoi colleghi, Asdrubali entrerà nel 1979, nell’Accademia dei Sartori di Roma in qualità di membro partecipante e delegato regionale. Ho cominciato subito dopo le elementari da Antonio Foti, che aveva una sartoria in via Castelfidardo, e ho continuato il mio apprendistato da Nino Buttafarro: il suo laboratorio si affacciava su via Giordano Bruno, ci si conosceva tutti e non è stato difficile crearmi una clientela, così a metà degli anni Cinquanta ho potuto aprire la mia attività in proprio. Dapprima situata in viale Trento, la Sartoria Asdrubali si trasferisce successivamente nella più spaziosa sede di via Cavallotti: il lavoro era molto, è capitato che alcuni clienti dovessero aspettare mesi prima che potessi soddisfare le loro richieste, continua Asdrubali. Pesaro, 1945: Aleardo Asdrubali insieme con alcuni colleghi

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Appassionato cultore di storia locale con l’hobby della fotografia (le immagini che illustrano questo capitolo sono amorosamente ordinate in grandi album, dove le tappe principali della sua carriera si alternano a immagini significative di Pesaro, la sua città), Aleardo Asdrubali chiude la sartoria nel 1999, dopo oltre quarant’anni nei quali ha vestito con occhio attento e mano sicura generazioni di pesaresi.

Luglio 1955, Aleardo Asdrubali vince il I Premio Assoluto al Concorso Nazionale Fliselina, indetto dall’Associazione nazionale dell’abbigliamento su misura e della moda insieme con l’Associazione italiana degli industriali dell’abbigliamento. Così recita la motivazione: Giacca di perfette proporzioni e di linea molto netta. L’interno è costituito da un fusto di cammello con toppa di Fliselina 100 applicata in modo semplice e preciso. (...) Il rever e il bordo sono rinforzati da un’unica striscia di Fliselina 50 tra il cammello e la stoffa. L’effetto conseguito con tale ottima lavorazione è ben visibile…

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Aleardo Asdrubali

Fliselina Tessuto non tessuto, privo cioè dei tradizionali elementi di ordito e trama, costruito con fibre artificiali e sintetiche. Di aspetto simile al feltro, ma molto più sottile e leggero, può avere consistenza molto rigida. Fliselina è in realtà, il nome commerciale di un prodotto della ditta tedesca Freudenberg, anche se ormai è esteso a tutte le stoffe con uguali caratteristiche. Esiste anche in versione termoadesiva, come elemento di rinforzo nell’abbigliamento (da http://dellamoda.it/dizionario_della_moda/f/fliselina.php).

Pesaro, 24 giugno 1952: l’interno della Sartoria Nino Buttafarro, in via Giordano Bruno. Aleardo Asdrubali è il ragazzo intento a cucire a destra nella fotografia

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Accademia Nazionale dei Sartori Nasce dall’Antica Università dei Sartori che fu fondata a Roma per volontà del Papa Gregorio XIII nel 1575. La sua prima sede era in via della Consolazione, vicino al Campidoglio, dove sorgeva la Chiesa di S. Omobono, tuttora esistente e luogo di culto dei sarti. L’edificio fu più volte distrutto e ricostruito subendo numerosi restauri. Nel 1574 la chiesa di S. Omobono venne concessa come sede sociale e religiosa alla corporazione. L’Università dei Sartori iniziò proprio qui la sua attività nel 1575 mediante un canone annuo di 20 scudi e 20 libbre di cera lavorata da versare allo Stato Pontificio. Nel 1801, tutte le corporazioni, compresa quella dei Sartori, vennero soppresse per ordine del Papa Pio VII con la conseguente chiusura dell’Università. Nel 1938, durante il periodo fascista, la chiesa venne restituita ai sarti e dal ‘40 al ‘42 fu anche restaurata a spese del comune di Roma. Nel ‘47 il maestro sarto Amilcare Minnucci decise di continuare la tradizione dell’Università dando vita all’attuale Accademia Nazionale dei Sartori. Nel ‘48, dopo 373 anni dalla fondazione dell’Antica Università, non sarà più l’edificio di S. Omobono a ospitare i Sartori ma un locale di Piazza San Silvestro dove viene presentata la prima sfilata di moda promossa dall’associazione. Nel ‘60 la sede è trasferita in via Due Macelli e nel ‘67 in Largo dei Lombardi dove è tuttora operante. Al principio del nuovo millennio sono in tutto 250 le sartorie che fanno capo all’Accademia dei Sartori (da http://dellamoda.it/dizionario_della_moda/a/accademia_nazionale_dei_sartori.php).

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Febbraio 1963, una riunione conviviale: insieme con Aleardo Asdrubali si riconoscono Erasmo Pezzodipane, Domenico Ciarrocchi, Sebastiano Buttafarro


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Aleardo Asdrubali

In questa pagina, sopra, Pesaro, 23 agosto 1969: al Teatro “Sperimentale” si svolge la prima Rassegna di Alta Moda, organizzata dall’Artigianato provinciale insieme con l’Azienda Autonoma di Soggiorno. Nella foto in bianco e nero, un completo sportivo. A destra, in alto, Pesaro, 2 settembre 1972, Teatro “Sperimentale”, Rassegna di Alta Moda: l’indossatore porta un completo da sera della Sartoria Asdrubali. Il disegno a quadri sul gilet è realizzato con applicazioni di cordoncini in seta rossa, che riprendono il colore della fodera della giacca.A destra, in basso, un modello di Aleardo Asdrubali fotografato nella sartoria di via Cavallotti (1970 circa)

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In questa pagina, Pesaro, 14 maggio 1973: il Gruppo Sarti sfila con una selezione di modelli nell’ambito della XIII Mostra del Mobile presso i padiglioni fieristici di Campanara. Da un quotidiano dell’epoca: Gemellaggio tra moda e mobili. Successo del défilé presentato da Gabriella Farinon nel padiglione centrale della mostra. Di alta classe i modelli presentati dai sarti pesaresi Mina Forlani, Elsa Macchniz, Annamaria Montagnoli, Resy (creazioni tricot),Aleardo Asdrubali, Piero Battisti, Console Costantini, Giovanni Costanzi, Gianfranco Magi, Bruno Righetti, Marcello Sili, Alessandro Spadoni, Graziano Torcoletti, Gianfranco Valli, Tonino Vichi, Coiffeur Orfeo, calzature Moscatelli. (...) Particolarmente festeggiata l’affascinante presentatrice Gabriella Farinon. Oltre mille spettatori (altrettanti fuori per mancanza di spazio). Nella pagina accanto: Pesaro, anni 1980-1990: un completo elegante della Sartoria Asdrubali; il gilet è realizzato con un intarsio di strisce di tessuto in seta bianco/nero (tutte le immagini di questo capitolo provengono dalla raccolta Aleardo Asdrubali, Pesaro)

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Gianfranco Magi Titolare di una sartoria attiva per circa un ventennio, Gianfranco Magi inizia a lavorare ad appena undici anni come apprendista presso Romano Oliva, nel laboratorio di viale Cialdini. Romano Oliva aveva una sartoria ben avviata, ricorda Gianfranco: quando rilevò l’attività del collega Sgrignani, in via Gramsci, aveva una decina di dipendenti, più avanti trasferì la sede della sartoria in piazzale Collenuccio. Nel 1958 Magi si mette in proprio, nei locali presso l’abitazione di via Flaminia, proprio di fronte alla centrale telefonica: allora via Flaminia era molto meno trafficata, casa mia confinava con i vigneti, e negli anni abbiamo assistito alla trasformazione di questa zona; all’epoca in Piazza Redi c’erano ancora i campi, e anche tutt’intorno, racconta insieme alla moglie Alfonsa. Figlio di una sarta, Anna Livi, che per un lungo periodo collaborerà con lui, Gianfranco Magi chiude la sartoria nel 1975, per dedicarsi a un’altra attività: quando ho deciso di cambiare settore, osserva, si sentivano i primi segni della crisi dell’abito su misura ma il lavoro aveva un buon ritmo, avevo parecchi clienti; però non c’erano prospettive di sviluppo: i miei collaboratori erano tre pensionati, già scarseggiavano i giovani che volevano imparare il mestiere, e così ho deciso di cogliere un’opportunità che mi veniva offerta in tutt’altro campo. Anche Gianfranco ricorda con simpatia il rapporto creato con i clienti: dopo un po’ si diventava amici, e passavano da me anche solo a far due chiacchiere,come dal barbiere. Tra le tappe principali dell’attività di Gianfranco Magi ci sono, negli anni Sessanta - Settanta del ‘900 le sfilate insieme con i colleghi del Gruppo Sarti, alle quali si riferiscono gran parte delle immagini di queste pagine. 1971, Ancona, Gianfranco Magi premiato durante l’edizione di quell’anno della Giornata della Sartoria

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In questa pagina, sopra: Pesaro, Sartoria Gianfranco Magi: una giacca in prima prova e un cappotto finito. Nella pagina precedente, sopra: 1971, Ancona, Giornata della Sartoria, due capi della Sartoria Gianfranco Magi; sotto: Gianfranco Magi (il primo da destra nella foto) insieme con alcuni colleghi a Sanremo, durante un’edizione del Festival della Moda (1970-1975). A pagina 216, Pesaro,Teatro “Sperimentale� 1970-1975: alcuni capi della Sartoria Gianfranco Magi e, a pagina 217, sotto: il Gruppo Sarti al termine di una sfilata; sopra, Pesaro, agosto 1972: padiglioni fieristici di Campanara, lo stand del Gruppo Sarti alla prima mostra-mercato Pesaro produce (la futura Marche Producono) (tutte le immagini di questo capitolo provengono dalla raccolta Gianfranco Magi, Pesaro)

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Console Costantini I sartor j’è tutt mez sciaparèl [I sarti sono tutti mezzi matti] Giovanna & Console Costantini

Così, con grande senso dell’ironia Console Costantini e sua moglie Giovanna riassumono quasi cinquant’anni di attività, segnata da grandi successi che hanno portato l’Atelier Console ai vertici dell’arte sartoriale in Italia e all’estero. Originario di Monteguiduccio, frazione di Montefelcino (PU), Console Costantini comincia il suo apprendistato presso un sarto del paese natale trasferendosi poi a Pesaro, presso Raffaele Farina, dove da subito si guadagna il posto di primo lavorante: con Farina sono rimasto dieci anni, ero uno di casa, abitavo anche con loro e ancora sono in contatto con i suoi figli. Salernitano, Farina è annoverato tra i principali sarti della città nel dopoguerra. Nel 1959 Costantini apre il suo primo atelier in via Rossini; tre anni dopo decide di perfezionarsi nel metodo di taglio presso l’Accademia dei Sartori di Roma, conseguendo al termine dei due anni di corso il Diploma di Maestro tagliatore: il mio maestro era l’abruzzese Ciro Giuliano, con Caraceni era uno dei due più importanti sarti italiani, tra gli altri aveva vestito anche Mussolini. E’ l’inizio di una carriera che porterà Costantini a lavorare per importanti personalità internazionali del mondo della televisione, dell’industria e dell’arte: un nome per tutti, Bruno Bruni, il pittore e scultore tedesco d’adozione ma originario della nostra provincia, considerato tra i maggiori esponenti dell’arte contemporanea.

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Ancona, 2000. Console Costantini durante una premiazione


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Tuttora in attività, Costantini da circa 35 anni collabora con clienti tedeschi, soprattutto nelle città di Berlino e Francoforte: nonostante negli ultimi tempi abbia rallentato un po’ il ritmo, ho molti clienti in Germania, attualmente servo circa venti-venticinque persone, in passato erano molti di più. Mi sono fatto conoscere grazie al passaparola, e continuo a fare la spola con la Germania un paio di volte al mese. Caratteristica di Console Costantini è proprio questa grande vitalità, grazie alla quale i suoi vestiti sono arrivati in tutto il mondo, da Mosca a Manhattan: per 14 anni l’Atelier Console ha avuto una sede a New York, nei pressi della prestigiosa Madison Avenue. Tra i clienti ho avuto l’onore di annoverare David Nemad, un gallerista molto noto; ogni due mesi andavamo a Manhattan, a consegnare, ci fermavano quindici giorni per prendere gli ordini, tornavamo in Italia a realizzare i capi e dopo quarantacinque giorni eravamo di nuovo a New York per le consegne. Ancora oggi lavoro a domicilio, prima presento al cliente i campionari di tessuti, poi torno con l’abito in prova e, infine, per consegnare il capo finito. Un servizio completo, che insieme all’elevatissima qualità della lavorazione ha consentito a Console Costantini di mantenere nel tempo una clientela affezionata, affrontando la crisi del settore senza troppi problemi. Sempre coadiuvato dalla moglie Giovanna, nota tra gli amici come Consolina, Costantini ha partecipato a un gran numero di sfilate (quante non ce lo ricordiamo neanche più, dice Giovanna), prima tra tutte quella svoltasi all’inizio degli anni Sessanta del ‘900 al Casinò de la Vallée di Saint-Vincent.

In questa pagina e alle seguenti: Saint Vincent, Casinò de la Vallée, 1960 circa, alcune immagini della prima sfilata dell’Atelier Console; nella pagina a fianco,sopra:Console Costantini insieme a Otis Redding;Giovanna Costantini insieme a Ricky Gianco;sotto: Otis Redding (foto Palopoli e foto Dall’Acqua,Torino)

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Poi… poi c’è da dire che io ho la malattia dei tessuti, aggiunge Console di fronte a una selezione di pezze di cachemire che occhieggia dagli scaffali del laboratorio di via Gramsci, attuale sede della sartoria; sono soprattutto tessuti da uomo, ma nel mio atelier ho sempre confezionato anche giacche, pantaloni e abiti classici da donna, anzi, ho ancora qualche cliente che preferisce farsi realizzare le giacche da me, come una volta.Vincitore di numerosi premi, Costantini ha ricoperto anche diversi incarichi all’interno delle associazioni di sarti: negli anni Settanta del ‘900 membro del Consiglio direttivo del Festival della Moda di Sanremo, è stato presidente del Gruppo Sarti di Pesaro e di altre associazioni marchigiane; nel 1972 gli è stata conferita la medaglia d’oro della Fondazione Maestrelli di Milano (rubata dal quadro dove la conservavo, ricorda mostrando lo strappo nell’attestato). Per finire, una nota curiosa: devo il mio nome al regime fascista, racconta divertito il sarto, quando sono nato, nel 1935, alle madri di due gemelli veniva corrisposto un assegno cospicuo, che era consegnato dal Federale insieme ai nomi scelti direttamente da Roma, così io all’anagrafe sono Consolo, mentre il mio fratello gemello, purtroppo scomparso in giovane età, si chiamava Canzio, due nomi legati alla classicità latina. Canzio, in ricordo dello zio, è anche il nome di uno dei figli di Giovanna e Console, attualmente dirigente per il Sud-est asiatico di una grossa industria del riminese; l’altra figlia, Cristina, ha invece seguito le orme paterne, lavorando a lungo come stilista presso Missoni, Krizia, Rena Lange a Monaco, Calvin Klein a New York e, infine, Dolce & Gabbana a Milano.

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In questa pagina, Console e sua moglie Giovanna insieme con Mario Cagna, titolare della ditta di tessuti Scotland house, in alto a Londra nel 1972; sotto, a Parigi, nel 1977 (foto Mossotti, Milano)

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Console Costantini e Renato Tonucci Insomma, la mia vita è un libro, conclude Console mentre, ancora una volta aiutato dalla moglie Giovanna, dà gli ultimi tocchi a una giacca, discutendo sui tipi di crine per infustire i tessuti e sulla loro resa. Su Console Costantini ci fermiamo qui: insieme a lui dedichiamo queste ultime righe a uno dei suoi colleghi, Renato Tonucci, grande amico di Console e suo collega.

Tra tutti noi era il migliore, ecco cosa si può dire di Renato. Lo ricordo con molto affetto. Con Marcello [Sili] e Renato eravamo proprio amici, quasi un gruppetto a parte, ci scambiavamo i modelli e ci passavamo consigli, una cosa piuttosto rara in questo ambiente. Gran lavoratore, me lo ricordo come una specie di mascotte del gruppo, era buffo con i suoi baffoni e le camicie colorate, aveva una vena poetica che sbucava nei momenti più inaspettati. Ed era una persona di una profonda umanità, sanguigno, vivace, con un cuore grande così. Renato sarebbe contento che si ricordasse di lui anche la passione per la pallacanestro: nel 1988, proprio per festeggiare la vittoria nel campionato della sua squadra del cuore, la Scavolini, Tonucci si tagliò i baffi chilometrici, che erano un po’ il suo marchio di fabbrica, e oggi c’è un club di tifosi che porta il suo nome.

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In queste pagine, alcuni capi realizzati tra il 1970 e il 1975 fotografati nell’atelier di via Rossini (foto G. Pandolfi, Pesaro; tutte le foto di questo capitolo provengono dalla raccolta Console Costantini, Pesaro)


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Marcello Sili I colleghi lo ricordano con un sorriso, e la sua verve traspare anche dalle fotografie, dove sin da giovanissimo esibisce un’aria scanzonata e giocosa: elegante, allegro e impeccabile nell’attività lavorativa, Marcello Sili (1931-1990) è stato per circa trent’anni uno dei più attivi sarti pesaresi. Era molto allegro, conferma la moglie Rosetta Mueller, ma anche molto serio nel suo lavoro: ha iniziato come apprendista da suo zio, il sarto Guido Curina, nel laboratorio di via Petrucci 30; a diciotto anni è andato a Roma, dove ha lavorato fino al 1963 per uno dei principali atelier della città, che serviva tutto il jet-set internazionale e contemporaneamente ha frequentato la scuola di taglio Accademia, per perfezionarsi. Poi è tornato a Pesaro, e ha rilevato la sartoria dello zio. Anche il nonno materno era sarto, continua Rosetta, e così sua madre, Elvira Ricci, che ha aiutato Marcello nel suo lavoro per molto tempo. Del resto anch’io, nei momenti liberi ho dato una mano a mio marito in sartoria, aggiunge Rosetta, a lungo impegnata nel settore del turismo. Creativa, amante degli animali, Rosetta Sili Mueller è di origine svizzera, e vive tra ready-made e quadri da lei stessa realizzati, insieme con la gatta Mitzi, fascinosa trovatella persiana (ma il suo piccolo zoo comprende anche cani, tartarughe e una capretta). La sua passione per le storie di famiglia è contagiosa, e si esprime in grandi album dove sono raccolti momenti e immagini della sua famiglia e di quella del marito Marcello, in un intreccio tra Pesaro e la Svizzera che davvero basterebbe da solo a riempire le pagine di un romanzo: in molte di quelle imma-

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Marcello Sili in sartoria: a sinistra, settembre 1984; a destra: agosto 1988


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gini compaiono anche le collaboratrici di Sili, tra le quali Rita Innocenti e Ivana Battilana, vicine al sarto per molti anni, ‘storiche’ colonne della sartoria che con i loro ricordi hanno contribuito a comporre queste pagine. Grande appassionato di pallacanestro, passione che condivideva con il collega Renato Tonucci, Marcello Sili ha animato con le sue creazioni sempre à la page le iniziative del Gruppo Sarti, dalle sfilate pesaresi a quelle di Sanremo; anche per Sili, il ‘testimone’ della passione per la moda è stato raccolto dalla figlia Vanessa, che lavora per una tra le principali stiliste italiane. Guido Curina (1889-1977), zio di Marcello Sili e suo maestro. Guido Curina, che lavorò anche come sarto teatrale per il Teatro “G. Rossini”, era figlio di Ermete, la cui sartoria risulta attiva già nel 1911. Nella pagina a fianco: Marcello Sili a Roma (19551963)

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Pesaro, anni Settanta del ‘900. Due fotografie dall’album di famiglia di Rosetta Sili Mueller: sopra, la Sartoria Sili al completo, riunita per il matrimonio di Ivana, collaboratrice di Marcello Sili. Nella foto, da sinistra: Elvira Ricci, madre di Marcello; Rosetta Sili Mueller, Marcello Sili; Ivana Battilana e il marito Claudio Gasparri; Anna Bellini, Rita Innocenti e suo marito Walter. Sotto, da sinistra: con il bicchiere in mano Rosetta Sili Mueller, Marcello Sili, il piccolo Riccardo Battisti, sua madre Rosanna, e il padre, il sarto Piero Battisti.

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Sopra: Gite di sarti e sarte per Sant’Omobono, anni Sessanta - Settanta del ‘900. Eravamo dei gruppi molto numerosi, ricorda Rita Innocenti, per dodici anni collaboratrice di Marcello Sili, e le gite erano organizzate da padre Gambini della parrocchia di San Pietro (Villa Fastiggi)

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In queste pagine, Pesaro Teatro “Sperimentale�, settembre 1971: Marcello Sili, Francesco Camilli e Renato Tonucci posano in occasione della Rassegna della Moda


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Pesaro, 1989: un completo di Marcello Sili e un abito di Mina Forlani (tutte le immagini di questo capitolo provengono dalla raccolta Rosetta Sili Mueller, Pesaro)


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Francesco e Gabriele Camilli Originari di Pedaso, in provincia di Ascoli Piceno, Francesco e Gabriele Camilli fondano nel 1959 la Sartoria Camilli, pochi anni dopo il loro arrivo a Pesaro. Gabriele ha già lavorato per un anno con un sarto della città natale e ha proseguito il proprio apprendistato con Orlando Talevi, in corso XI Settembre: in sartoria si occuperà soprattutto della lavorazione dei capi, mentre Francesco si dedicherà, sempre insieme a Gabriele, alle pubbliche relazioni e ai contatti con clienti e fornitori, impegno particolarmente pressante durante i periodi delle sfilate, sia a Pesaro sia fuori provincia. L’attività dei Fratelli Camilli segue da vicino lo sviluppo della località di Borgo Santa Maria, tra Pesaro e Tavullia, dove la sartoria ha avuto sede dal 1963 fino alla chiusura, avvenuta negli anni Novanta del ‘900: la nostra fu la seconda casa costruita a Borgo Santa Maria, racconta Gabriele, e quando i suoi locali divennero troppo piccoli per ospitare l’attività, ci trasferimmo nella nuova sede all’interno del centro commerciale della zona. Molto legato ai colleghi del Gruppo Sarti, Gabriele Camilli ricorda con piacere i momenti conviviali, dalle gite agli incontri per Sant’Omobono, dei quali conserva nel proprio album molte immagini: con alcuni dei miei colleghi si è instaurato negli anni un rapporto di vera e propria amicizia, continua, e posso affermare che tra noi c’era una bella armonia, tanto che ancora oggi continuiamo a ritrovarci due o tre volte l’anno, quasi come in famiglia. Come per tutti i sarti che abbiamo Francesco Camilli (1939-1987) insieme con il collega Renato Tonucci in una fotografia scattata a Sanremo,nei primi anni Ottanta del ‘900,durante una delle molte edizioni del Festival della Moda

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incontrato, anche per Gabriele Camilli il lavoro è stata la passione di una vita: era un’attività molto impegnativa, figurarsi che mi sono tagliato e cucito io stesso il completo da sposo, lavorando la notte prima del matrimonio fino alle quattro di mattina. Quando poi si partecipava alle sfilate o si otteneva qualche riconoscimento la soddisfazione ripagava di tutte le fatiche e le notti in bianco… Se guarda le fotografie delle feste di famiglia, comunioni, cresime, matrimoni, noi abbiamo sempre l’aria stanca, perché non c’era occasione in cui non tiravamo tardi per finire qualche abito, aggiungono Vittoria e Maria, mogli rispettivamente di Francesco e Gabriele.

Sopra, Pesaro, anni Ottanta del ‘900: lo stand della Sartoria Fratelli Camilli a Marche Producono. Nella pagina accanto:con questo completo la Sartoria Fratelli Camilli vinse nel 1977 il II premio al Concorso nazionale Gran Premio Amilcare Minnucci, intitolato al celebre sarto fondatore dell’Accademia dei Sartori di Roma.Fu mio fratello Francesco che prese parte alla sfilata finale,a Roma,racconta Gabriele;il tessuto ci fu spedito dagli organizzatori del concorso,si fecero due prove dell’abito, una a Pesaro e una a Roma, prima della serata finale della sfilata e della premiazione.

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In questa pagina, Pesaro, piazza del Popolo, alcuni modelli della Sartoria Fratelli Camilli: sopra, 1989; a destra, 1988. Nella pagina a fianco, Pesaro, anni Settanta del ‘900: alcuni capi della Sartoria Fratelli Camilli dalle sfilate organizzate al Teatro “Sperimentale� di Pesaro dal Gruppo Sarti (tutte le fotografie di questo capitolo provengono dalla raccolta Famiglia Camilli, Pesaro)


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Mina Forlani Da piccola tutte le mie amiche mi portavano le bambole da vestire, ho sempre pensato che avrei fatto la sarta, e a tredici anni ho cominciato a lavorare, entrando come apprendista da Domenica Fabbri. Sorridente e gentile, di Mina Forlani, sarta tra le più rinomate della città, ci piace ricordare subito l’entusiasmo con cui ci ha aiutato a ricostruire il tessuto di relazioni che ancora oggi unisce i protagonisti dell’arte sartoriale pesarese. Noi del Gruppo Sarti siamo rimasti molto legati anche dopo che molti hanno cessato l’attività, aggiunge Mina, e anche con i nostri maestri c’è un’amicizia, un affetto che dura nel tempo: ci sentiamo per le feste, ci ritroviamo insieme ogni anno, per Sant’Omobono o in altre occasioni, insomma, è un po’ come se fossimo una famiglia. Dopo l’esperienza nella sartoria di Domenica Fabbri, dove lavora per circa sei anni durante i quali apprende dalla maestra i segreti di un’eleganza raffinata e originale, fatta di dettagli particolari e mai sopra le righe, Mina Forlani apre la propria attività negli anni Sessanta del ‘900 in via Barignani, dove rimane fino al 1976. Appena sposata Mina trasferisce la sartoria nello stesso edificio dell’abitazione, in via Ugolini, a pochi passi dalla chiesa di Santa Maria di Loreto, usufruendo della spaziosa mansarda che si affaccia sul balcone colorato di fiori, una delle sue passioni insieme con la cucina. Pesarese, nota specialmente per i suoi abiti da sposa da sogno, Mina è stata in realtà molto più che una sarta, inventandosi un ruolo di wedding planner ante litteram: ho vestito centinaia di spose, e tutte le ho accompagnate fino al giorno del matrimonio, scegliendo con loro gli accessori, l’addobbo della chiesa e il bouquet; prima della cerimonia andavo a vestirle personalmente, mi piaceva seguire tutti gli aspetti dell’evento, in modo che tutto fosse coordinato. Pesaro, anni Novanta del ‘900: Mina Forlani al termine di una sfilata

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Uno stile che si ritrova anche in un’attenzione all’immagine davvero da grande atelier: etichette, carta velina, grucce e custodie per gli abiti, tutto recava il marchio della sartoria, in una ricerca della perfezione che corrisponde alla passione per i ricami e i dettagli minuziosamente realizzati, cifra distintiva degli abiti di Mina Forlani. Da ricordare infatti la lavorazione del pizzo, delicata fase che Mina non ha mai delegato alle assistenti, curando in prima persona i tagli e gli incastri, che non prevedevano cuciture a macchina ma solo a mano. Quasi sempre ricamavo io anche le applicazioni di perline, un lavoro paziente e molto lungo, che però era ripagato dalla gratificazione di vedere il capo finito indossato dalla sposa. Da sottolineare anche, a testimonianza di un sapere artigianale tramandato da maestra ad apprendista, la modalità di lavoro di Mina: prima creavo il modello in carta sul manichino, poi lo riproducevo in tela, e solo alla fine procedevo al taglio dell’abito nel tessuto definitivo. Mi piaceva drappeggiare i tessuti sul manichino, ma spesso utilizzavo anche i modelli originali dei grandi atelier. Presente per oltre trent’anni alle sfilate del Gruppo Sarti, Mina Forlani ne ha seguito anche gli aspetti organizzativi, ricoprendo diversi incarichi nelle associazioni di categoria e nella Cooperativa Artigiana di Garanzia, attività che le sono valse anche numerosi attestati e riconoscimenti.

Nella pagina a fianco, Pesaro, anni Novanta del ‘900: un abito da sposa durante una sfilata in piazza del Popolo

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La mia produzione sempre strettamente artigianale si rivolge a tutte le donne senza distinzione di età o taglia che desiderano avere un capo unico, personalizzato, creato e curato in ogni particolare. Ora il nostro settore sta attraversando una crisi di ricambio generazionale perché per imparare il nostro lavoro ci vogliono tempi molto lunghi, molto spirito di sacrificio e tanta pazienza (Mina Forlani, da un’intervista apparsa su Il Resto del Carlino, 11 maggio 1995)

Sopra, da sinistra: figurino di Marina Marchetti per la sartoria Mina Forlani; Le Mariage, edizione 1995 (supplemento a La Fiera del 22 gennaio 1995); nella pagina a fianco: anni Ottanta - Novanta del ‘900, due abiti da sposa e uno stand della Sartoria Mina Forlani (Marche Producono, padiglioni fieristici di Campanara); in basso a destra, Pesaro,Teatro “Sperimentale”, 1980: Rassegna di Alta Moda, un modello da sposa

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Sembra quasi l'inizio di una favola, invece stiamo entrando in un mondo magico: l'atelier, la sartoria, un ambiente particolare dove si vive, si crea, si sogna e il sogno diventa realtà. La creazione di abiti sartoriali richiede preparazione manuale specifica, creatività, fantasia, spirito d'iniziativa perché ogni abito su misura deve essere personalizzato e studiato accuratamente per ogni figura, in special modo gli abiti da sposa che devono rispecchiare la personalità di chi li indossa ma devono anche essere attuali, seguire il trend stagionale ed esaltare la bellezza della sposa. I nostri abiti sono realizzati con tessuti preziosi che con artigianale cura e tanto amore diventano opere d'arte... arte da indossare - Mina Forlani, gennaio 1995

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In questa pagina, Pesaro, 1989 - 1990: sopra, un abito da sera con gonna in taffetĂ viola/rosso insieme con un completo maschile della Sartoria Sili; a fianco, un abito da cerimonia in raso di seta rosa e nero: la doppia gonna è caratterizzata da impunture, mentre la manica del corpino è impreziosita da incrostazioni di strass e perle. Nella pagina precedente: anni Novanta del ‘900, un abito da sposa durante una sfilata in piazza del Popolo (tutte le immagini di questo capitolo provengono dalla raccolta Mina Forlani, Pesaro)

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Piero Battisti Dopo l’apprendistato svolto presso tre dei più conosciuti sarti della città,Vichi, Ciarrocchi e Garattoni, Piero Battisti (1938) apre la propria sartoria nei primi anni Sessanta del ‘900. Il suo laboratorio, nel quartiere di Soria, sarà in funzione fino al 1975, anno in cui Battisti decide di cessare l’attività, che come quella di molti colleghi cominciava a risentire della sempre maggior diffusione della moda pronta (le confezioni).

Le immagini di questo capitolo si riferiscono ad alcune delle sfilate alle quali Piero Battisti ha preso parte insieme con il Gruppo Sarti negli anni Settanta, al Teatro “Sperimentale” e presso i padiglioni fieristici di Campanara; nelle pagine seguenti, a sinistra, il bimbo che sfila con aria perplessa è il figlio di Piero Battisti, Riccardo (tutte le immagini provengono dalla raccolta Piero Battisti, Pesaro)

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Romeo Fiorà Nato a Giulianova, in provincia di Teramo, Romeo Fiorà comincia nel 1950, a soli 12 anni, il suo apprendistato presso una sartoria della sua città. Perfezionatosi prima in una Pescara devastata dalla guerra poi a Milano, durante il periodo della leva e infine a Roma, Fiorà ricorda così i suoi inizi: all’epoca era una prassi costante quella di frequentare diverse sartorie, per acquisire i diversi metodi di taglio; nei laboratori di provincia sin da piccoli ci si abituava a vedere le prove degli abiti, seguendone tutte le fasi della lavorazione, era un’ottima scuola, anche perché nei grandi atelier difficilmente ci si poteva occupare di più di un aspetto della realizzazione dei capi. Nel 1963 Fiorà si stabilisce a Pesaro, e pochi mesi dopo il suo arrivo apre la propria attività, coadiuvato da un collega: ho iniziato quasi casualmente, con una clientela di amici, grazie al passaparola. Devo dire che all’epoca i sarti erano molti, c’era una concorrenza agguerrita e sulle prime ho un po’ faticato a integrarmi nel contesto pesarese, anche se appena ingranato non ho più incontrato difficoltà. La prima sede della Sartoria Fiorà è in via Mazza, dove rimane sette anni; nel 1971 l’attività, di cui nel frattempo Fiorà è diventato l’unico titolare, si sposta in corso XI Settembre 101: provvisoriamente, continua il sarto, perché i tre piani di scale sembravano poco agevoli per i clienti… in realtà sono rimasto qui per più di quarant’anni! Anche tra i ricordi di Romeo Fiorà occupa un posto di riguardo l’esperienza del Gruppo Sarti, nel quale entra dal 1972 - ’73, diventandone negli anni Novanta anche presidente. Erano nottate di lavoro, per completare i capi destinati alle sfilate: il primo appuntamento importante dell’anno era il Festival della Moda di Sanremo, dove ogni sartoria inviava quattro capi; subito dopo, in agosto-settembre c’era Marche producono, che era nata come Pesaro produce: siamo arrivati ad avere mille spettatori a sera, sia da Pesaro sia da altre località, ogni sera

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si organizzava una sfilata alla quale prendevano parte tutti i sarti e le sarte del Gruppo. La stagione autunnale si concludeva con le sfilate allo Sperimentale e in Piazza, le Rassegne della Moda Adriatica su misura, che erano un altro appuntamento molto atteso da tutta la città, inserito tra le manifestazioni culturali, con presentatori e ospiti di rilievo nazionale. Provetto cuoco (tuttora cucina le sue specialità di pesce per i colleghi-amici), Romeo Fiorà ha portato a Pesaro, insieme con Nicola D’Amario, la tradizione sartoriale abruzzese, nota in tutto il mondo; infaticabile organizzatore di iniziative a sostegno della categoria come di occasioni conviviali, Fiorà ha lavorato per qualche tempo insieme con la figlia Giorgia che, cresciuta in sartoria, si avvale nella sua attuale attività dei segreti imparati presso il laboratorio paterno.

Sopra: 1980, Concorso nazionale Amilcare Minnucci: il completo presentato dalla Sartoria Fiorà, realizzato con tessuto Adam della ditta Ermenegildo Zegna; nella pagina accanto: Sanremo, Festival della Moda, anni ’80 del Novecento: quattro modelli della Sartoria Fiorà. Nelle pagine seguenti: Pesaro, anni Ottanta - Novanta del ‘900. Alcuni capi di Romeo Fiorà presentati nelle sfilate in piazza del Popolo e a Marche producono. A pagina 258, dall’alto in senso orario: un mantello in cashmere con cappuccio e manica a chimono; un cappotto maschile di cammello; tre modelli maschili eleganti: un completo in seta bordeaux, uno spezzato con blazer bordeaux e pantaloni blu e uno spezzato con giacca in seta grigia. A pagina 259 un tailleur in tessuto gessato largo e un completo composto da abito più giacca: sono stato tra i primi a utilizzare il gessato largo, ricorda Fiorà, un tessuto che poi la moda ha riproposto per diversi anni. A pagina 260 un completo elegante caratterizzato dallo spencer: anche la corta giacca di ispirazione inglese è tra gli elementi ricorrenti delle collezioni della Sartoria Fiorà. Nella foto anche due abiti da sposa della Sartoria Mina Forlani (tutte le immagini di questo capitolo provengono dalla raccolta Romeo Fiorà, Pesaro)

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Giacca maschile corta alla vita, nata in Inghilterra alla fine del ‘700. È uno di quei casi in cui un capo di abbigliamento prende il nome da chi lo ha indossato per primo. In questo caso si tratta di Lord Spencer (1758-1834) che ne ha introdotto l’uso. Era mono o doppio petto con revers. A cavallo del ‘700 e ‘800, entra a far parte anche del guardaroba femminile e serve per coprire il busto. Nel corso del XIX secolo è in gran voga nell’abbigliamento maschile. A partire dal 1815, anno del Congresso di Vienna, lo spencer viene anche arricchito con grossi alamari e il modello prende il nome di spencer all’ussara o all’ungherese (da http://dellamoda.it/dizionario_della_moda/s/spencer.php).

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Rosalia Canarini Originaria di Frontone (PU), Rosalia è stata per dodici anni titolare della Sartoria Rosi, con sede a Pesaro in via A. Costa. Trasferitasi a Pesaro nel 1971, Rosalia Canarini ha appreso sin da giovanissima le basi del taglio e cucito presso una sarta del suo paese, seguendo il consueto iter artigianale; dopo una lunga esperienza come collaboratrice di Alba Scatassa apre nel 1981 un’attività in proprio, che porterà avanti fino al 1993, anno in cui decide di dedicarsi completamente alla famiglia. Schiva e riservata, Rosalia preferisce lasciar parlare le proprie creazioni, abiti da sposa e da sera soprattutto, nei quali si riconosce la lezione della sua maestra: alla Scatassa devo tutto, dice, è lei che ha risvegliato la mia creatività, che mi ha fatto venir voglia di mettermi in proprio; sin da piccola il mondo della moda mi affascinava, quello della sarta è un lavoro che ho sempre sentito dentro, e ho avuto la fortuna di incontrare questa persona che ha saputo farmi amare la sartoria, nonostante la fatica, le nottate in piedi per consegnare puntualmente. Penso che anche che i miei modelli si siano evoluti dopo l’incontro con Alba Scatassa. Da segnalare la stretta collaborazione con la figlia Maria Teresa Caprini che della Sartoria Rosi è stata, come dice Rosalia, l’anima creativa: mia figlia disegnava ed elaborava i modelli, forte anche della sua formazione all’Istituto d’Arte “F. Mengaroni” di Pesaro; alla chiusura dell’attività abbiamo lavorato insieme nella sartoria del Teatro Rossini, e dopo altre esperienze nel settore della moda, tra cui la realizzazione di campionari per l’industria e la mostra Concetto moda con Tiziana Paci, anche Maria Teresa ha deciso di fare la mamma a tempo pieno. Rosalina Canarini in una recente immagine

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Sopra da sinistra: Pesaro, 1987 piazza del Popolo: una mise da sera in taffetĂ verde smeraldo con corpetto steccato; 1984, un figurino di Maria Teresa Caprini per la Sartoria Rosi; 1993, un abito di seta impreziosito da ricami di perline e rose in seta applicate intorno allo scollo. Nella pagina a fianco, Pesaro, anni Ottanta - Novanta del ‘900: alcuni modelli di Rosalia Canarini. Dall’alto in senso orario: un modello da sposa con gonna corta bordata di raso di seta applicato su organza di seta; un abito da sposa in tessuto jeans corredato di accessori appositamente creati; un abito da sposa caratterizzato da un corpetto interamente decorato con applicazioni di rose in tessuto; due abiti da sposa di linea classica; un tailleur in seta a fiori. A pagina 264: Pesaro, anni Ottanta - Novanta del ‘900, due abiti da sera (tutte le immagini di questo capitolo provengono dalla raccolta Rosalia Canarini)

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giubartó Artista dalle molteplici sfumature, fieramente eccentrico, schietto fino alla provocazione e acutissimo nel captare stili e tendenze, giubartó (nom de plume di Giuliano Bartoloni) è senz’altro uno dei più versatili creatori di moda pesaresi. Dalla sua casa-bottega di via del Fallo, una vera galleria d’arte che ospita opere di Arnaldo Pomodoro, Nino Naponelli, Luigi Carboni, sono passati alcuni tra i più importanti personaggi dello spettacolo e della cultura italiana, da Paolo Poli a Giorgio Gaber, fino agli amici carissimi Paolo Bordoni, pianista e la regista Giuliana Gamba; le attrici Anna Bonaiuto e Manuela Kustermann, Francesco Guccini e Memè Perlini, protagonista del teatro italiano, per citarne solo alcuni: un milieu che ha senz’altro contribuito ad ampliare le potenzialità espressive di giubartó che, dopo una vita tra forbici e tessuti, si dedica attualmente alla pittura e alla scrittura di testi teatrali. (P.S. Anche il nome giubartó, che ha siglato in tutte minuscole una vita ricca e piena, come dice lui stesso vissuta all’insegna della consapevolezza, ha una storia da raccontare: qui diciamo solo che è stato scelto da Luciano Beretta, uno dei più grandi parolieri italiani, autore tra l’altro del testo de Il ragazzo della via Gluck). La mia carriera nel mondo della moda è iniziata nel 1967, dopo cinque anni trascorsi come correttore di bozze presso la Arti Grafiche Federici, ricorda Giuliano, Un ritratto di giubartó realizzato dal fotografo Roberto Angelotti, attivo tra l’altro anche presso la rivista Vogue (gli interventi pittorici sulla fotografia sono di Francesco Bruscia)

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che si è formato presso una nota sartoria romana: la mattina lavoravo nell’atelier, il pomeriggio in libreria, fino a quando i titolari della sartoria si sono trasferiti a Parigi e io ho deciso di ritornare a Pesaro, a mettere in pratica nella mia città quello che avevo imparato. Insieme con la stilista Laura Angelini, con la quale collaborerà fino al 1970, giubartó apre nel 1967 un laboratorio in via Petrucci, nei pressi di corso XI Settembre; successivamente la sua attività si trasferirà a Palazzo Baviera (di quegli anni ricordo con affetto le partite a carte nell’osteria della Guercia, un luogo pieno di poesia, dove ho visto i protagonisti di una Pesaro che non c’è più) e quindi, nel 1980, nella sede di via del Fallo. La moda è sempre stata il mio sogno, continua giubartó: da piccolo realizzavo con mia cugina gli abiti di carta per le nostre recite di bambini, che scrivevo io stesso: mi piaceva creare i costumi e recitare le storie. Sono cresciuto amando Roberto Capucci, da sempre il massimo artista che si possa trovare nel campo della creatività della moda. Gli altri stilisti bravi, alcuni speciali ma mai Capucci. I suoi abiti sono nei più importanti musei del mondo come opere d’arte senza tempo. Che emozione rivederli! Nella mia casa-bottega sono passati grandi artisti nel campo delle lettere, arti, musica; amici, alcuni, che poi sono diventati anche clienti: moda, pittura, scrittura, musica, tanti momenti della mia vita, vissuti con persone importantissime che hanno arricchito la mia casa attraversando la mia storia - conclude giubartó.

Nella pagina a fianco: il periodo da indossatore, giubartó indossa un’opera del pittore Carlo Naglia. Alle pagine 268 - 269: Pesaro, Hotel Spiaggia sfilate 1967-1970

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giubartó

Tornando indietro nei quarant’anni di attività (chiusa nel 2000), non posso dimenticarmi di persone che saltuariamente hanno collaborato con me condividendo il mio percorso artistico, e non sono solo dei nomi che affiorano… Paola, Gemma, Giuseppina, Ercolina, due Anite (grandi ricamatrici), Iside che sferruzzava tutto il giorno, Donna Maria (camiciaia storica morta a 100 anni) e Lina sua allieva, con la quale ho collaborato di più e più a lungo con armonia e rispetto. Non posso non citare agli inizi del mio viaggio nella moda Laura Angelini (la ‘mitica’ Lauretta for giubartó), versatile stilista con la quale ho passato tre anni di intenso lavoro, bravissima collaboratrice e amica-nemica che avendo prospettive allettanti da figurinista volante lasciò il sodalizio da noi creato nel 1967, perché come artisti emergenti facevamo la fame. E se non ci fosse stato mio padre a sovvenzionare il tutto, avremmo aperto e chiuso. Come da copione. E Gabriella Pandolfi, pittrice eclettica con la quale ho collaborato negli anni Novanta con défilé di abiti, top, maglie e camicie dipinti totalmente a mano. E di lei ho un bellissimo quadro di due metri che rappresenta il mio atelier, sul soffitto, vicino a uno di Memè Perlini. Questi personaggi che hanno circondato la mia vita di creatore io li ho sempre chiamati gli artigiani del tempo perso, perché molti di loro lavoravano dieci-dodici ore al giorno sommersi tra altri lavori e famiglie allargate.Altri lavori perché l’artigianato puro non pagava e non paga: grandi soddisfazioni e pochissimi soldi. E’ finita quell’epoca! Negli anni Sessanta si respirava quell’aria, quella creatività, quella bellezza. Poi con l’avvento delle macchine che “fanno quasi tutto” si è perduta l’anima dell’uomo e la sua potenzialità. Penso alla mia vecchia Singer a pedale, che cuciture meravigliose! Si è snaturato tutto, poco mi entusiasma ora, tutto è più facile qualche volta inutile. Questi artigiani del tempo perso sono scomparsi, estinti come i dinosauri, non ci sono più botteghe con i loro caratteristici mestieri e c’è un grande rimpianto di quelli che come me hanno collaborato con loro. E’ finita un’epoca, dicevo. Gli anni Sessanta - Settanta sono evaporati al sole della modernità, lasciandoci orfani di un patrimonio irripetibile e ripensando con tenerezza e nostalgia a tutto questo mi sento enormemente fortunato di averne fatto parte - giubartó, maggio 2008

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Le foto che vedete (anni Sessanta del ‘900) illustrano abiti fatti a mano (sferruzzati) o abiti di sartoria, ma dietro la doppia esecuzione c’era un lavoro enorme: le lane filate a mano in Ciociaria (noi le ordinavamo di pecore nere e bianche e relativi mélange; le lavavamo con acqua calda e lisciva, per eliminare l’olio con cui veniva-

mo intrise nella lavorazione, e le facevamo tessere a Roma a mano); i tessuti venivano confezionati in sartoria secondo i nostri modelli (parlo al plurale perché c’era anche Lauretta). Gli abiti di seta pura li facevamo a batik con diversi bagni o ricamati a mano. Artigianato puro, molto dificile da capire nella nostra provincia, allora nel 1967 al primo défilé e anche dopo. Successo di critica, ma non molto di pubblico - giubartó, maggio 2008

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In questa pagina, Pesaro,Teatro “Sperimentale”, agosto 1969: alcuni modelli di giubartó; nelle pagine seguenti: anni Novanta del ‘900: una serie di abiti dipinti a mano (tutte le immagini di questo capitolo provengono dalla raccolta giubartó, Pesaro)

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(raccolta Famiglia Camilli)

gli strumenti

Sartoria Fratelli Camilli - Pesaro forbici per sarto

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(raccolta Famiglia Garattoni)

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Sartoria Garattoni - Pesaro fustelle per asole

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(raccolta Famiglia Garattoni)

gli strumenti

Sartoria Garattoni - Pesaro agoraio in avorio

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(raccolta Famiglia Garattoni)

Libro Moda III Parte

Sartoria Garattoni - Pesaro forbici/cesoie per sarto

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(raccolta Famiglia Lamberti)

gli strumenti

Sartoria Lamberti - Pesaro forbici/cesoie per sarto

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(raccolta Famiglia Poderi)

Libro Moda III Parte

Sartoria Ruggero Poderi - Pesaro forbici/cesoie per sarto

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(raccolta Famiglia D’Amario)

gli strumenti

Sartoria Nicola D’Amario - Pesaro libro delle misure

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(raccolta Mina Forlani)

Libro Moda III Parte

Sartoria Mina Forlani - Pesaro ferro da stiro a carbone

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(raccolta Mina Forlani)

gli strumenti

Sartoria Mina Forlani - Pesaro Macchina per cucire sistema Howe costruita dalla ditta tedesca Haid & Neu tra il 1870 e il 1880 (per le informazioni ringraziamo G. Brioschi e il Museo della macchina da cucire di Arcore - MI)

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(raccolta Romeo FiorĂ )

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Sartoria Romeo FiorĂ - Pesaro mezzaluna in legno

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(raccolta Famiglia Scatassa)

i materiali

Sartoria Alba Scatassa - Pesaro perle e paillettes (1950 - 1970)

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(raccolta Cristina Ortolani)

Libro Moda III Parte

Manufactures de Soieries Lyon Campionario di tessuti per abiti da sposa (1870 - 1880)

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(raccolta Cristina Ortolani)

i materiali

Manufactures de Soieries Lyon Campionario di tessuti, gamma cromatica (1870 - 1880)

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(raccolta Cristina Ortolani)

Libro Moda III Parte

Manufactures de Soieries Lyon Figurino per abito femminile con campionatura di tessuto (1880 ca.)

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(raccolta Cristina Ortolani)

i materiali

Manufactures de Soieries Lyon Figurino per abito femminile con campionatura di tessuti (1880 ca.)

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(raccolta Cristina Ortolani)

Libro Moda III Parte

Passamaneria in jais nero, 1900 circa

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(raccolta Licia Pezzodipane Ratti)

lo studio

Sartoria Erasmo Pezzodipane - Pesaro appunti per il taglio di giacche maschili

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(raccolta Licia Pezzodipane Ratti)

Libro Moda III Parte

Sartoria Erasmo Pezzodipane - Pesaro modello per pantaloni maschili

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(raccolta Licia Pezzodipane Ratti)

lo studio

Sartoria Erasmo Pezzodipane - Pesaro lezione n. 11 - soprabito

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(raccolta Remo Pugliese)

Libro Moda III Parte

Sartoria Remo Pugliese - Pesaro fusto per giacche monopetto, appunti (1950 - 1955)

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(raccolta Mina Forlani)

le lavorazioni

Sartoria Mina Forlani - Pesaro pizzo su tulle: dettaglio del fiore arricchito da un ricamo a mano realizzato a punto vapore

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(raccolta Famiglia Scatassa)

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Sartoria Alba Scatassa - Pesaro campioni per decorazioni in perle di conteria, paillettes e strass (1960 - 1970)

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(raccolta Famiglia Urso)

le lavorazioni

Sartoria Bolognese - Pesaro abito femminile, 1960 - 1970 - dettaglio dell’allacciatura posteriore

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(raccolta Gigliola Gori)

Libro Moda III Parte

Sartoria Iolanda Secchiaroli - Pesaro abito femminile, dettaglio della lavorazione plissĂŠ del corpetto (anni Cinquanta - Sessanta del ‘900)

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(raccolta Famiglia Cesarini)

lo stile - i figurini

Sartoria Iolanda Secchiaroli - Pesaro stampa da rivista femminile, 1890 circa

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(raccolta Cristina Ortolani)

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Sartoria pesarese, figurino di abito femminile, 1960 circa

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(raccolta Cristina Ortolani)

lo stile - i figurini

Sartoria pesarese, figurino di abito femminile, 1960 circa

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Per la pazienza, la disponibilità e per i loro racconti grazie a Don Igino Corsini, Archivio Diocesano - Pesaro Don Enrico Giorgini - Parrocchia di San Michele Arcangelo, Sant’Angelo in Lizzola (PU) Archivio di Stato - Pesaro Archivio della Camera di Commercio di Pesaro e Urbino Comune di Sant’Angelo in Lizzola (PU) Unione Pian del Bruscolo/Memoteca Pian del Bruscolo (PU) Biblioteca Oliveriana - Pesaro Biblioteca Federiciana - Fano Biblioteca “V.Bobbato” - Pesaro Accademia Nazionale dei Sartori - Roma Museo della macchina da cucire - Arcore (MI) Casinò de la Valée - Saint Vincent Associazione Culturale “G.Branca” - Sant’Angelo in Lizzola (PU) Pro Loco Fogliense - Tavullia (PU) Lucia Amantini Maggiulli e Maria Laura Maggiulli - Pesaro Demetrio Artusio - Pesaro Aleardo Asdrubali - Pesaro Stefania Bacchiani - Montelabbate (PU) Ivana Battilana - Pesaro giubartó - Pesaro Piero e Riccardo Battisti - Pesaro Zina Bedetti e Famiglia Bertuccioli - Montelabbate (PU) Loretta e Gaetano Buttafarro - Pesaro Maria e Gabriele Camilli,Vittoria Camilli - Pesaro Rosalia Canarini e Maria Teresa Caprini - Pesaro Amelia e Maria Teresa Ciarrocchi - Pesaro Giovanna Clementi Macchini - Pesaro Raffaella Corsini Ortolani e Famiglia Ortolani - Pesaro Giovanna e Console Costantini - Pesaro Marco D’Amario e Famiglia D’Amario - Pesaro Anna Damiani Tontardini e Sandro Tontardini - Colbordolo (PU)

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Domenica e Marina Fabbri - Pesaro Romeo FiorĂ - Pesaro Giuliano Garattoni e Famiglia Garattoni - Pesaro Anna Gaudenzi Mariotti - Pesaro Gabriella Giampaoli - Pesaro Wanda Giombini Cesarini e Famiglia Cesarini - Pesaro Martina Giorgi e Famiglia Giorgi - Pesaro Gigliola Gori - Pesaro Fiora Giuliani Moretti - Pesaro Rita Innocenti - Pesaro Famiglia Lamberti - Pesaro Anna Maria Lugli - Pesaro Laura Macchini - Tavullia (PU) Elsa Macchniz Vichi ed Emilio Vichi - Pesaro Alfonsa e Gianfranco Magi - Pesaro Gilberto Mancini, Piero Mancini abbigliamento - Pesaro Anna Maria Montagnoli - Pesaro Cisa Paccassoni - Pesaro Antonia Patrignani Magnelli e Giuliano Magnelli - Pesaro Daniela Perugini - Pesaro Stefano Poderi e Famiglia Poderi - Pesaro Boutique Ratti, Pesaro - Licia Pezzodipane Ratti, Mauro Sabatinelli e Anna Mola Rosetta Sili Mueller - Pesaro Marta Soliman Bonali e Famiglia Soliman - Pesaro Bianca Taini Scatassa, Annamaria Scatassa e Famiglia Scatassa - Pesaro Adriana Tangucci Filippetti - Pesaro Luciano Urso e Giordana Mazzanti Urso - Bologna Roberto Urso e Flavia Lanzoni Urso - Bologna Dorothy Willoughby - Pesaro Grazie anche a Famiglia Barbadoro, Simonetta Bastianelli, Simonetta Campanelli, Silvia Cecchi, Graziano Giangolini, Elio Giuliani, Paolo Cappelloni, Lucia Curina, Claudia Mares, Simona Ortolani e Walter Vannini, Eugenia Peli Grianti e Isabella Grianti, Claudio Rosati della Camera di Commercio di Pesaro e Urbino; infine, un grazie particolare a Mina Forlani e Remo Pugliese per i preziosi consigli

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Artigiani e sartorie pesaresi citati nel volume Asdrubali Aleardo Battisti Piero Bedetti Zina Bocci Maria Buttafarro Nino Buttafarro Sebastiano Camilli Francesco e Gabriele Canarini Rosalia Cappelleria Mancini Cardellini Maria Cecconi Adolfo Ciarrocchi Domenico Costantini Console Curina Ermete Curina Guido D’Amario Nicola Damiani Luigia Della Costanza Loredana Fabbri Domenica Farina Raffaele Fiorà Romeo Fiorani Tina Forlani Mina Foti Antonio Francolini Magnelli Giuseppina Garattoni Raffaele e Umberto giubartó Guerra Denizio Lamberti Ernesto Lucetta Lugli Alda Lugli Anna Maria Lugli Rosina

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Macchniz Elsa Magi Gianfranco Mecchi Pino Mignoni Zaira Montagnoli Anna Maria Oliva Romano Paganelli Prima (Sartoria Bolognese) Perugini Elso Pezzodipane Erasmo Poderi Ruggero (Ezio) Pugliese Remo Righetti Bruno Rossi Filippo Rossi Giuliani Luisa Sartoria Inglese Sartoria Mancini Sartoria Sabatinelli & Gualazzi Scatassa Alba Secchiaroli Balducci Rosetta Secchiaroli Iolanda Severi Anna Maria Sgrignani Luigi Sili Marcello Sorelle Negrini Talevi Luisa Talevi Orlando Tebaldi Pino Tonucci Renato Vichi Gianfranco Vichi Tonino


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Introduzione Nota della curatrice

p. 7 p. 11

Vestivamo alla pesarese. Setaiole, sarti e sartine - Pesaro, 1860-1960

p. 15

Umberto e Raffaele Garattoni Erasmo Pezzodipane Prima Paganelli, la Bolognese Luisa Rossi Giuliani Giuseppina Francolini Magnelli Nicola D’Amario Ruggero Poderi Sebastiano Buttafarro Ernesto Lamberti Elso Perugini Anna Maria Montagnoli Iolanda Secchiaroli Domenico Ciarrocchi Domenica Fabbri Anna Maria Lugli Remo Pugliese

p. 59 p. 67 p. 73 p. 95 p. 99 p. 115 p. 119 p. 121 p. 127 p. 131 p. 137 p. 145 p. 153 p. 155 p. 171 p. 179

Il Gruppo Sarti

p. 185

Elsa Macchniz Alba Scatassa Aleardo Asdrubali Gianfranco Magi Console Costantini Marcello Sili Francesco e Gabriele Camilli Mina Forlani Piero Battisti Romeo Fiorà Rosalia Canarini giubartó

p. 191 p. 197 p. 205 p. 213 p. 219 p. 229 p. 237 p. 243 p. 251 p. 255 p. 261 p. 265

Il Mestiere del sarto - strumenti e materiali

p. 279

Grazie Artigiani e sartorie pesaresi citati nel volume

p. 307 p. 309


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Finito di stampare nel mese di giugno 2008 dalla SAT srl industria grafica (PU)

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