Piccole grandi storie di Isola - Silvano Sau

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Silvano Sau

PICCOLE GRANDI STORIE DI ISOLA

1 Editrice “Il Mandracchio - Isola”


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Silvano Sau

PICCOLE GRANDI STORIE DI ISOLA

Editrice “Il Mandracchio - Isola”

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CIP - Kataložni zapis o publikaciji Narodna in univerzitetna knjižnica, Ljubljana 94(497.4Izola) SAU, Silvano Piccole grandi storie di Isola / Silvano Sau. Isola : Il Mandracchio, 2014 ISBN 978-961-6391-25-2 273616896

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Prefazione Leggende, frammenti di storia, cronache …e tante altre tessere vanno a comporre un mosaico colorato che vuole presentare al lettore un’immagine composita e varia di un’Isola che c’era una volta e che, forse c’è ancora. L’autore scava, fruga nei cassetti, cerca negli archivi e trova. Porta alla luce, spolvera, lucida e ci offre le perle della sua Isola. Le trova nei luoghi più reconditi, nella storia lontana e recente, nelle calli, negli edifici storici, nei ruderi rimasti, nel duomo di San Mauro oppure nelle chiesette della campagna circostante. Rievoca i personaggi illustri, dimenticati dai più e di cui Isola dovrebbe essere orgogliosa, ricorda fatti storici, vicende umane significative, iniziative importanti che hanno segnato lo sviluppo di questa cittadina. È sufficiente una cartolina, una veduta particolare, una lapide del cimitero, per ricostruire una vicenda storica oppure un fatto di cronaca che vale la pena di ricordare. Questa pubblicazione è un’ulteriore testimonianza dell’attaccamento che l’autore ha per il suo paese, il legame inscindibile che lo stimola a continuare con perseveranza nella ricerca e nel recupero della memoria storica. Lilia Macchi

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Silvano Sau: Piccole grandi storie isolane La storia di Isola è una storia antica. Una storia di secoli legati indissolubilmente alla storia della sua matrice etnica e geografica, l’Istria. Storia di millenni, durante i quali si sono avvicendate popolazioni, abitudini, lingue, culture e colture. Si dirà, che la memoria dell’uomo è molto più corta di quella del territorio e della sua storia. Ma, per fortuna, rimangono sempre alcune testimonianze che ci permettono, almeno in parte, di seguirne le vicende. È per questo, forse, che le origini dell’Istria, delle sue popolazioni e delle sue vicende sono a volte legate anche alla leggenda. Nell’antichità si credeva che i grandi fiumi che attraversano l’Europa riuscissero a collegare tutti i mari. Da qui il mito di Giasone che alla ricerca del vello d’oro avrebbe risalito con la nave Argo dapprima il Danubio, conosciuto allora come Istro, e successivamente il Timavo ed il Quieto, ritenuti suoi affluenti, sino a giungere all’Adriatico e nella penisola che da loro prese il nome di Istria. Il territorio di Isola – comunque - doveva essere stato abitato già molto tempo prima che di essi fosse rimasta una qualche memoria scritta o orale, certamente prima dell’arrivo dei romani e prima che questi si insediassero nella bellissima insenatura conosciuta oggi come S. Simone e allora denominata Alieto, o – per dirla in latino con i romani – Haliaetum. Si ha notizia, per esempio, del Castelliere di Albuciano situato sulle alture circostanti e si presume, quindi, che fosse stato innalzato molto prima dell’arrivo dei romani. Anzi, è probabile che fosse uno dei tanti villaggi fortificati che, durante le guerre con i romani, osteggiavano con le armi la loro avanzata verso il centro dell’Istria e verso Nesazio. Del Castelliere, tuttavia, si ha notizia certa in epoca romana durante l’invasione nelle pianure friulane di Attila, denominato “il flagello di Dio”. Dopo la caduta di Aquileia, le popolazioni fuggiasche verso Grado e verso l’Istria, sembra abbiano trovato rifugio proprio tra le mura di Albuciano e sullo scoglio circondato dal mare antistante Haliaetum. Se così è, allora è possibile desumere che la nascita di Isola, in quanto agglomerato urbano sull’omonimo scoglio, debba venir ricondotta al periodo della calata degli Unni in Italia e della distruzione di Aquileia, più o meno nel 452 dopo Cristo. Tutta

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la storia dei secoli successivi è sostanzialmente legata alle vicende che si svolsero all’interno di quelle mura circondate dal mare e di quelle popolazioni, anche se – almeno per i primi secoli poche sono le notizie. Scrissi tempo fa, che dev’esser stato amore a prima vista, qualche millennio fa, per quel fortunato gruppo di persone che dall’alto del ciglio carsico fermò lo sguardo sulla baia tra Ronco e Punta Villisano con al centro l’isolotto che ancora oggi, pur se non più circondato dal mare, porta il suo nome più autentico: “Isola”. Deve esser stato un innamorato della natura chi progettò con tanta perizia questo lembo dell’Adriatico, quasi a voler raccogliere tutti gli effluvi, i profumi, i sapori e gli umori provenienti dal grande Mediterraneo. Dev’esser stato tutto questo e tante altre cose ancora che convinsero l’uomo antico a scegliere questa dolce insenatura a forma di conchiglia con al centro la sua perla, Isola, per farne la propria dimora. Ed è stato l’uomo che, con la propria infinita creatività, ha voluto infondere vita a questo giardino naturale, immerso nel caldo profumo del mare e lambito dall’aria fresca e limpida delle vicine montagne che nelle sue acque si specchiano. Oggi come secoli fa, i punti di riferimento di Isola sono Piazza Grande con il mandracchio e l’antico Municipio, Piazza Manzioli, un tempo Piazza Piccola, con la piccola chiesa di S. Maria d’Alieto, e Palazzo Manzioli: veri e propri esempi di architettura legata all’ambiente e, nei secoli, laboratori di cultura che hanno promosso e sostenuto l’avvento dell’idea rinascimentale in Istria e nella nostra piccola città. Tra le testimonianze più interessanti per Isola, il documento nel quale, per la prima volta nel 932 d.C. viene citato il nome della località “Insula”, assieme a quello di un suo rappresentante, denominato Georgius de Armentressa, chiamato a sottoscrivere l’impegno che la città di Capodistria dovette firmare con Venezia per un rifornimento annuo di cento anfore di buon vino. Già nella seconda metà del X secolo (952), l’imperatore Ottone I donò al veneto Vitale Candiano “in comitatu istriensi in loco qui vocatur Insula” che a sua volta la vendette al patriarca di Aquileia Rodoaldo. Nel 1031 ha termine il dominio diretto su Isola da parte dei patriarchi di Aquileia. Il patriarca Popone dona la cittadina al

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monastero delle dame di S. Maria di Aquileia fuori le mura, per aumentarne così le rendite. Il rapporto sofferto e difficile di Isola con le monache di S. Maria d’Aquileia fuori le mura si protrasse a lungo e alcuni tributi vennero mantenuti anche dopo che la cittadina si sottomise alla giurisdizione veneta. Quanto difficile fosse la situazione instaurata dalle monache viene testimoniata anche nel 1220 quando si giunse ad un “convegno” fra il monastero ed il comune di Isola per la nomina del gastaldo: l’accordo dimostra con incontestata evidenza che il comune tentava già da parecchio tempo di liberarsi dai legami feudali ecclesiastici, avvocando a sè il diritto di nomina del gastaldo e presentando alla conferma di detta carica un certo Adeldo (Adeloldo) da Isola. Questo ed altri avvenimenti successivi e concomitanti, come la nomina nel 1253 da parte del Consiglio Maggiore del Comune, riunito nella piazza di fronte al Municipio, di tre rappresentanti muniti di tutte le autorizzazioni per indurre la Badessa a smorzare le esose richieste delle decime e degli altri tributi, indicano chiaramente che Isola stava ormai svincolandosi dalla giuris-dizione del monastero per costituirsi a comune libero e indipendente. “Volti gli occhi e l’animo” alle libertà municipali, Isola mostrò più volte la sua “fierezza” e, dopo essere stata molto tempo nell’ombra, tornò verso la metà del XIII secolo alla luce della storia; allora disponeva già di un proprio palazzo, di un consiglio, di un podestà. Di tutti quelli strumenti che ne facevano un libero comune. Nel maggio del 1280, Isola si diede alla Repubblica di Venezia. La sottomissione di Isola alla Serenissima portò con sè anche la regolamentazione degli ordinamenti interni e degli statuti; quest’ultimi furono codificati nel 1360, sulla base degli antichi. Una decisione che comportò la perdita di ogni libertà di intraprendenza, dovendosi sottomettere in tutto e per tutto agli ordini della repubblica. È questo, senz’altro, uno dei moventi che produssero il diffondersi di una malcelata ostilità presso gruppi e singoli, determinando più o meno riusciti tentativi di ribellione. Nonostante la sottomissione a Venezia che indubbiamente garantiva alla cittadina sicurezza, non sempre le era possibile sfuggire alle insidie dei nemici, sia perché in lotta con la Serenissima, sia perché

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il territorio istriano era molto appetibile. Note le difficoltà con la vicina Trieste, allora possedimento austriaco, sia con altri nemici, come la stessa Repubblica marinara di Genova ed i suoi alleati. Sembra che proprio in queste vicende abbia fondamento anche la storia del simbolo comunale della nostra città: la colomba con il ramoscello d’ulivo in bocca, in segno di pace. Secondo la leggenda, infatti, i cavalieri friulani agli ordini del capitano genovese Doria, accampati presso la chiesetta di San Lorenzo, non attaccarono la città causa una fitta nebbia che nel frattempo era arrivata dal mare, coprendo completamente la vista di Isola. Proseguirono quindi verso l’interno dell’Istria, fino a raggiungere Pola e distruggendo numerosi villaggi e paesi incontrati sul loro cammino. Alla loro partenza il patrono della città, San Mauro, inviò sopra Isola una colomba con il ramoscello d’ulivo a indicare alla popolazione che il pericolo era ormai passato. A partire dal XVI secolo, per Isola giunse la fine del periodo di fioritura e di benessere. Sopravennero la peste, le guerre e le carestie. Il commercio cominciò ad indebolirsi; devastatrici epidemie di peste colpirono anche il suo territorio nel 1554; nel 1595 il canonico J. Thamar trovò non più di 1.490 anime: particolarmente intensa fu l’epidemia del 1630-31, quella descritta da Alessandro Manzoni nel suo romanzo “I promessi sposi” per la zona di Milano, che dimezzò la popolazione e che tale rimase sino quasi al cadere del Seicento. Così nei secoli XVII e XVIII, Isola andò incontro a quella decadenza generale che già ben si palesava nel governo delle città istriane; quando fu decisa la sorte della Serenissima Repubblica (1797), la popolazione, non prestando fede ai grandi fatti compiuti, credendo il podestà veneto, Nicola Pizzamano, complice, con alcuni maggiori cittadini, di un tradimento, lo uccise con un colpo di fucile: era l’ultimo rappresentante del governo che oramai male si adattava alle condizioni del tempo. Venezia tramontava tra i lazzi dei suoi carnevali, e le cittadine istriane rispecchiavano, anche nella decadenza, la vita della Dominante; non meno delle altre città venete, Isola s’incamminava verso un dorato tramonto. Dopo la caduta della Serenissima, la storia di Isola segue le vicende delle maggiori cittadine istriane. Dapprima con il governo di

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Bonaparte, poi con l’avvento dell’Austria-Ungheria. Fino alla Prima Guerra mondiale che porta la cittadina a ridosso del fronte sul Carso. È storia, però, che, bene o male, si trova su tutti i libri di scuola, pur se variamente raccontata e interpretata, come sempre avviene per quei territori che si trovano a ridosso di confini che singole popolazioni, demagogie ed ideologie tendono a contendersi. Fino ai giorni nostri. Della lunga storia di Isola poche sono le immagini che oggi ci possono raccontare come era nel corso dei secoli. Le poche di cui disponiamo sono alquanto approssimative e, spesso, costruite ricorrendo alla memoria. Soltanto con il XVIII e XIX secolo giunge a noi quale illustrazione che – in fondo – non ci offre una visione della cittadina molto diversa rispetto a quella che conosciamo a partire dalla fine dell’Ottocento. Il volume che vi proponiamo rappresenta una piccola raccolta dei tanti eventi che, nei secoli, hanno contribuito a costruire il volto e l’anima della nostra città. Piccoli e grandi eventi sparsi nei secoli che hanno contraddistinto l’evoluzione lenta, a volte drammatica, della popolazione isolana. Proprio per questo abbiamo voluto dare al libro il titolo di “Piccole grandi storie isolane”. Tutte storie conosciute, ma che, crediamo aiuteranno il lettore a conoscere meglio le radici della cità che hanno la fortuna di abitare e, perchéno, anche semplicemente di visitare. Storie, che volendo e potendo, potrebbero diventare centinaia o migliaia, tante quante sono le storie di Isola che si sono avvicendate nei secoli e nei millenni e delle quali è rimasta una qualche testimonianza che è giusto conoscere.

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A.D. 200 - Isola romana Nel corso di tutto il XX secolo si sono susseguite numerose attività di ricognizione, con tecniche sempre più sofisticate e da parte di diversi enti ed istituti. Il primo studio dei resti archeologici di San Simone sono dovuti negli anni ’20 del secolo scorso allo storico isolano, Attilio Degrassi, professore all’Università di Padova.

Ricostruzione grafica della villa marittima romana di Haliaetum di Isola.

Negli ultimi decenni sono state eseguite prospezioni geofisiche per sondare le antiche strutture coperte da coltri di terra, in quanto questo complesso presenta due settori di ricerca: uno sulla terraferma e uno sotto l’acqua del mare. Per quanto riguarda il primo aspetto, si sono individuati oltre 3.000 metri quadrati che appartenevano alla villa, organizzata attorno ad una corte interna e collegata al porto tramite un lungo portico. A nord sono visibili i resti delle murature e la copia di uno dei mosaici dell’area residenziale, mentre a sud si può osservare il portico che conduceva al porto. A sud-ovest di quest’ultimo si trova un’ampia struttura sommersa che può forse essere messa in relazione con i magazzini portuali.

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Foto del molo di Haliaetum, ben visibile durante la bassa marea.

Nelle fonti scritte antiche si trovano invece notizie riguardo alle attività produttive per le quali l’Istria era nota in epoca romana e con cui la villa di San Simone può senza dubbio essere messa in relazione, come la produzione di olio, vino, cereali, lana e garum, a cui si aggiunge l’allevamento e il commercio di pesci e molluschi. Davanti all’edificio della villa si dispongono i resti del porto provvisto di banchina, molo e diga; sia la banchina sia il molo, che alla fine dell’Ottocento presentava ancora anelli di bronzo per l’attracco delle navi, sono ora coperti dalle attuali strutture destinate ai bagnanti, mentre i ruderi della diga – benché sommersi – sono ancora visibili. Per la sua ampiezza quest’impianto, coevo all’edificio della villa, costituisce uno dei principali porti romani della zona e, grazie alla sua felice collocazione, con l’ampia diga contro il vento di Scirocco e di Bora, permetteva un approdo sicuro in ogni stagione, anche a imbarcazioni di grandi dimensioni come le navi myriophorus, corbita e corbita vinaria, con una lunghezza di 25 m e una portata di 1000 anfore vinarie.

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All’arrivo del cristianesimo, in quest’area venne edificata una chiesa consacrata a San Simone, che diede il nome alla baia. Le vestigia del frangiflutti sono visibili ancora oggi presso la riva. I resti dell’antica villa, però, si trovano parecchio al di sotto della superficie del mare poiché dall’epoca romana ai nostri giorni si è avuto un innalzamento del mare di 1,6 metri. Sommersa è pure un’altra struttura, situata a sud-ovest, che secondo gli archeologi poteva rappresentare uno spazio di manovra pertinente ai magazzini del porto.

Il porto romano di Villisano che emerge durante le basse maree situato poco dopo il primo ponte verso Capodistria. Probabilmente serviva per il trasporto di mattoni e anfore prodotte in una vicina villa rustica romana, della cui ubicazione non si ha ancora notizia.

Sempre a Isola, però, esiste ancora un porto di epoca romana situato a Punta Villisano, nell’insenatura situata nel settore nordorientale, pure visibile durante la bassa marea. Nella località, come si presume, probabilmente esisteva una fabbrica di mattoni e, perché no?, anche di vasellame – come diremmo oggi – di largo consumo. I contenitori per trasportare l’olio, il vino e liquidi in genere, cereali e altri viveri, erano le anfore. Erano di terracotta e venivano fabbricate

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in speciali officine. È presumibile, che anche il porto di Villisano fosse collegato ad una domus romana, attrezzata proprio per la produzione di laterizi, usati poi per il trasporto di ingenti quantità di olio d’oliva e di vino dai porti di Alieto e Villisano fino a quello di Aquileia.

Quanto resta dell’antico porto romano di Aquileia, uno dei pià importanti dell’Adriatico.

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A.D. 900 - Il mare in Piazza Piccola Come era l’immagine di Isola nell’antichità? Durante i lavori di restauro della Chiesetta di Santa Maria d’Alieto e del vicino Palazzo Manzioli, entrambi gli edifici posti l’uno dirimpetto all’altra in quella che, un paio di secoli fa, veniva ancora chiamata “Piazza Piccola”, sono venuti alla luce importanti dati che fanno prospettare anche una diversa fisionomia dell’isolotto, più tardi chiamato “Insula”. Già a circa mezzo metro sotto il selciato attuale, è stata scoperta un’altra diversa pavimentazione e, addirittura, alcuni ritrovati che sembrano far pensare a dei prototipi di condutture dell’acqua del periodo risalente ai primi secoli del millennio precedente. Già la posizione del vecchio selciato scoperto, risalente a parecchi secoli prima, fa pensare ad un’altezza sul livello del mare inferiore all’attuale. Ma non solo.

La pavimentazione venuuta alla luce in Piazza Piccola - oggi Piazza Manzioli - durante le opere di scavo e di restauro dei due edifici: la Chiesa di S. Maria d’Alieto e il complesso di Palazzo Manzioli.

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Come ebbe a sottolineare la dottoressa Daniela Tomšič, chiamata a sovrintendere i lavori per conto della Sovrintendenza ai Beni Culturale, ...l’urbanizzazione dell’odierna penisola iniziò nel I sec. d.C., periodo in cui la configurazione del terreno era diversa dall’attuale. Su tale strato erano collocati due canali di scolo con sopra frammenti di ceramiche altomedievali, che indicano una sistemazione urbana del luogo ed una elevata cultura edilizia, risalenti al massimo alla prima citazione della località di Isola nelle fonti scritte, cioé intorno al X secolo.

Scavo effettuato all’interno della Chiesetta di Santa Maria d’Alieto che conferma quanto esposto dalla dott.ssa Daniela Tomšič.

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Anche i lavori di restauro delle murature - affermò la dottoressa Tomšič - hanno riservato sorprese: la fase più antica della chiesa, ossia quella romanica risalente al principio del XIII sec., era stata inglobata nella possente muratura ben squadrata della struttura precedente. Le indagini georadar del suolo, compiute in vista del risanamento statico non solo in chiesa ma anche in Piazza Grande e in Piazza Manzioli, hanno rilevato, con nostro grande stupore, un terreno manomesso sino alla profondità raggiunta delle indagini, cioé sino a – 2 m. Gli scavi archeologici nella chiesa, condotti dal Museo del Mare di Pirano nel 1995, hanno rivelato l’esistenza della costa marina in epoca romana alla profondità di -2,35 m sotto l’attuale piano di calpestìo della chiesa. Sopra il fondale marino sono stati rinvenuti frammenti dell’età tardoantica, datati approssimativamente al V-VI secolo.

Altra immagine degli scavi che confermano la presenza del mare nel perimetro all’interno della chiesa, fino ad una profondità che doveva superare i 2 metri.

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Di conseguenza, tenendo conto di tutte le ricerche e dei risultati conseguiti, è possibile affermare con una rilevante dose di certezza, che il mare si addentrava all’interno dell’isolotto per parecchi metri, e che sia Piazza Grande, ma anche l’odierna Piazza Manzioli, fossero coperte dalle acque del mare. Niente di strano, quindi, che infiltrazioni di acqua marina si riscontrino ancor oggi lungo le vie piane del centro urbano, infiltrazioni che contribuiscono a intaccare costantemente le malte e le verniciature esterne degli edifici.

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A.D. 932 - prima menzione storica di Insula - Isola Era l’anno 932 d.C. – quindi in pieno medio evo – e Isola veniva segnalata con il suo nome latino di “Insula”. Il documento di cui parliamo non riguarda direttamente la nostra cittadina, ma si tratta di un accordo siglato da Capodistria – Giustinopoli, con Venezia, già allora considerata una potenza marinara dell’Adriatico. A sottoscrivere il documento, il primo del territorio istriano con la Serenissima, anche una ventina di rappresentanti di città istriane, tra cui pure “Insula”. Con l’accordo, presente nella raccolta del “Codice Diplomatico Istriano” di Pietro Kandler, siglato il 14 Gennaio dell’Anno del Signore 932, il Comune di Capodistria, coadiuvato da altri comuni istriani, promette al Doge Pietro Candiano l’annua onoranza di cento anfore di buon vino per vedersi assicurata dal naviglio veneziano sicurezza sul mare che pullulava di pirati.

Immagine medievale di Capodistria - Giustinopoli.

Tra i firmatari del documento, in tutto ben 57, anche un rappresentante di Isola – Insula, nella persona di un certo Georgius de Amentressa de Insula. Anche se in quel periodo storico Isola veniva considerata soltanto un piccolo sobborgo della vicina Giustinopoli,

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va comunque ribadito che già il fatto di aver delegato un proprio abitante a rappresentarla in un consesso così importante, faceva presupporre l’esistenza già allora di una qualche forma abbastanza concreta di organizzazione rappresentativa locale. Elemento tanto più importante se considerato che lo scoglio isolano si era mantenuto praticamente disabitato fino al 450 d.C., cioè fino all’arrivo dei fuggiaschi da Aquileja davanti alle distruzioni del flagello di Dio, Attila. Ecco come argomenta la fondazione di Isola il vescovo di Capodistria, Paolo Naldini, riportando le parole del cartografo Isolano, Pietro Coppo, nella sua “Corografia Ecclesiastica di Giustinopoli, detto volgarmente Capo d’Istria” pubblicata a Venezia nel 1700: Petro Coppo Cosmografo, e Cittadino Isolano, vuole, che s’edificasse dagli Aquileiesi, quando alcuni di questi intorno al quattro cento cinquanta, per sottrarsi dall’esecranda barbarie d’Attila, si rifugiarono sovra d’un Monte da questo scoglio tre miglia distante, detto volgarmente, Castelliero; e da’ Latini per la sua grande altezza, Castrum aereum.

Georgius Amentressa de Insula – nell’originale, tra i 57 nominativi chiamati a firmare l’accordo di Giustinopoli (Capodistria) con Venezia del 932. Inspiegabilmente Pietro Kandler nel suo “Codice Diplomatico Istriano” trascrisse Armentressa aggiungendovi una ” r”. Evidentemente, al tempo, non disponevano degli odierni strumenti per rendere migliore la visibilità e le lettura dei documenti antichi. È molto probabile, inoltre, che la stragrande maggioranza dei convenuti non sapesse nè leggere né scrivere. Per cui, in casi del genere, era d’obbligo la presenza di un notaio che, come in questo caso, concludeva il documento con un: “Ego Georgius, dyaconus et notarius, per consensu populorum scripsi atque firmavi (Io, Georgius, diacono e notaio, per volontà dei presenti scrissi e poi firmai)”

Nel periodo di alcuni secoli, quindi, dopo la sconfitta e la scomparsa dei Romani, gli abitanti scesi dal Castelliere e insediatisi sullo scoglio assieme ai fuggiaschi di Aquileia, erano già riusciti a ripristinare alcune delle regole della convivenza civile, in vigore nelle “cives” romane, che erano state abolite dai Franchi di Carlo Magno con l’introduzione del feudalesimo.

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Insula - la prima menzione scritta di Isola presente sull’elenco che comprende il nome del suo rappresentante in calce al documento del 932.

Un primo segno, quindi, anche se non ancora decisivo, del proliferare – dopo un paio di secoli – di quel straordinario periodo conosciuto come Umanesimo e che vide proprio i Comuni Istriani in prima fila nella costruzione di un nuovo modo di intendere il ruolo partecipativo dei cittadini nella vita della propria Comunità – Comune, prendendo spesso esempio e prassi dalle regole degli antichi muncipia romani che conservarono la maggior parte dei propri magistrati e una certa autonomia amministrativa.

Gonfalone della Serenissima Repubblica di San Marco, chiamata con l’accordo del 932 a tutelare l’alto Adriatico dai pirati.

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Dello spirito altamente civile che pervase tutta l’area nel periodo che, sconfitto il feudalesimo, intraprese la strada dell’organizzazione comunale ne abbiamo una testimonianza proprio nello Statuto Comunale di Isola del 1360, quando già nel prologo ebbe a ribadire che: Non habbia inimicizie chi sede à dar raggione Né portino odio quelli hanno leggi, e raggione Non habbino paura d’un volto, né Delle parole altamente profferite dà Potenti Né si lascino mover dalle Lagrime Di persona che si lamenta.

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A.D. 1100 - Fontana Fora Pochi forse sanno che per molti secoli Isola, l’antica Insula, era conosciuta fuori dai suoi confini soprattutto per l’abbondanza e la qualità delle sue risorse idriche. In molti documenti del passato, infatti, Isola viene segnalata come provvista di ricche fonti idriche. Una notorietà che viene testimoniata anche dal suo antico concittadino, il cartografo Pietro Coppo che, in una delle prima carte geografiche dell’Istria del XVI secolo, nell’indicare la posizione della nostra città oltre che indicarla con il suo nome, pensò bene di mettere vicino anche la scritta “Fontana”.

Carta geografica del ’500 di Pietro Coppo, dove la località di Isola viene indicata anche come “Fontana”.

Fontana Fora, perché situata fuori dalle mura cittadine, era indubbiamente la sorgente principale della città, e si trovava immediatamente prima di arrivare alle porte d’entrata a Isola, sulla via che portava a San Simone. Fontana Fora, con il suo sistema di grandi vasche e fontane, rappresentava l’acqua madre degli Isolani ed era il

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punto di riferimento idrico per tutta la cittadina. Le donne facevano corteo con le mastèle per attingere l’acqua che serviva per le necessità domestiche.

Il Lavatoio, dove le isolane facevano il bucato ancora nei primi anni del secolo scorso.

Della bontà e della qualità della sorgente testimonia anche il vescovo Tommasini che, nel descrivere qualche secolo fa la produzione isolana del vino e dell’aceto, sottolineava in particolare come quest’ultimo fosse importante per gli isolani perché “viene venduto ai marinai, e serve ai vascelli con grandissimo utile degli abitanti e si dà la causa all’acqua di quella loro fontana, che sta vicino alla terra così abbondante, che tal anno facendosi dieciotto sino a 20,000 barile di zonta, mai resta asciutta nelle vendemmie”. L’esistenza della Fontana Grande, o Fontana Fora come dicevano gli Isolani, è menzionata già negli Statuti del 1360. Il cartografo isolano Pietro Coppo la cita nel suo “Del Sito de l’Istria”. Pare sia stata ricostruita al tempo dell’occupazione francese, e nuovamente restaurata più tardi nel 1847.

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Donne intente a fare il bucato nella vasca grande di Fontana Fora.

L’antica strada romana che portava al porto romano di Haliaetum passava anche nei pressi della Fontana Fora. Le strade tracciate dal passaggio dell’uomo passavano sempre dove si trovava pure l’acqua. Nel 1935, finalmente, Isola venne collegata al nuovo Acquedotto del Risano.

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A.D. 1150 - Isola e l’Istria dei cartografi turchi Al-Idrisi e Piri Reis Tra le immagini più antiche di alcune città istriane figurano certamente alcune risalenti al XII secolo per opera di un grografo arabo. Tra queste anche, crediamo, la più vecchia immagine disponibile della nostra città, Isola, che, secondo alcuni dati dovrebbe risalire addirittura al 1150. Ma chi era questo strano personaggio, grande viaggiatore, capace disegnatore, i cui lavori figurano negli arhivi dei più importanti musei del mondo? Di seguito alcune informazioni sulla sua vita e sulle sue opere, e, di seguito anche parte di quelle ricerche sulle località istriane da lui descritte e, alcune, pure disegnate.

Una immagine del viaggiatore e cartografo arabo al-Idrisi.

Al-Idrisi iniziò già da giovanissimo una lunga esperienza di viaggi nel Mediterraneo, in Asia Minore e nei paesi dell’Africa settentrionale. In breve tempo la notorietà del geografo e del “viaggiatore” raggiunse le raffinate élites dei paesi permeati di cultura islamica, fra cui, al centro del Mediterraneo, la Sicilia. Invitato nel 1138-39 da Ruggero II agli splendori della corte palermitana con l’obiettivo di realizzare un disegno conoscitivo dei paesi del Mediterraneo, vi rimase per oltre venti anni, sino al 1161, quando fuggì per il Nord Africa a seguito di sanguinose repressioni etniche. Ritornato nella nativa Ceuta, morì nel 1165. Fu il periodo

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palermitano quello piú fecondo della sua produzione, in cui, con un progetto molto articolato ed ambizioso, diede forma, alla metá del secolo, all’opera Sollazzo per chi si diletta di girare il mondo, nota comunemente come Il Libro di Ruggero.

La prima immagine conosciuta di Isola - Insula risalente al 1150.

Disegnata da Abu Abdallah Muhammad Ibn Muhammad Ibn AbdallahIbn Idris al-Qurtubi al-Hasani meglio conosciuto come AlIdrisi. Nacque a Ceuta, in Spagna nel 1099 a.C. Geografo arabo fu educato a Cordoba e, dopo un lungo periodo di viaggi, si stabilì alla corte normanna di Palermo. Dopo aver viaggiato per tutto il Mediterraneo, Al-Idrisi raggiunse la corte di re Ruggero II, in Sicilia, intorno al 1145 e trascorse a Palermo il resto della sua vita. Qui realizzò, nel 1154, un planisfero inciso su una lastra d’argento, completato da un libro di geografia, noto come il Libro di Ruggero (Kitab Rugiar). Visitò le due sponde dell’Adriatico e tra i disegni lasciati, anche uno

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di Isola risalente al 1150. Da notare che esistevano già le mura e che l’unica chiesa esistente era quella di S. Maria d’Alieto. Risalgono sempre ad un viaggiatore e cartografo turco, Piri Reis, anche altre immagini della costa istriana, anche se realizzate qualche secolo dopo. Abbiamo avuto modo di vederle ed ammirarle durante una esposizione al Museo del Mare di Pirano. Contemporaneo del cartografo isolano Pietro Coppo, Piri Reis era ammiraglio della flotta della Mezzaluna, cartografo di Solimano il Magnifico. Del 1513 è il suo Libro della Marina, con dettagliate e suggestive rappresentazioni grafiche dei porti e delle linee costiere del Mediterraneo e numerosissime annotazioni in cui si fondono la tradizione erudita e la scienza empirica dei marinai e che vi presentiamo nelle pagine seguenti.

Veduta di Isola di Piri Reis, sempre ripresa dal mare, per cui il suo aspetto di isola circondata dal mare non è visibile: erroneamente sembra direttamente attaccata alla terraferma. Come penisola è raffigurata soltanto Punta Gallo, perchésituata fuori dalle mura.

Il più noto, comunque, rimane sempre il suo predecessore Al Idrisi,del quale piubblichiamo alcuni brani tratti delle pagine che riguardano l’Istria e, quindi, pur se con qualche necessaria postilla (ma visti i tempi in cui sono state scritte, anche comprensibili), anche la nostra Isola. Evidentemente, nel brano l’autore prosegue il racconto proveniente dalla costa occidentale dell’Adriatico, da Ancona verso Aquileia per proseguire verso la costa istriana: In ogni caso, il testo

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di Al Idrisi, sarà corredato dalle immagini del suo connazionmale Piri Reis, che certamente meritano di essere conosciute per la loro bellezza, ma anche perchéper noi rappresentano una novità. … Di là il golfo si piega verso levante e con esso il paese di Aquileja. Fra le città continentali dipendenti da Aquileja [si annoverano] b.rȗnah o, secondo altri, b.rȃnah (Pirano) \ bȗb.lah (leg. bȗg.lah, in oggi Buglia o Buje) e tȃmat.r.s (Mattarada). b.r ùnah (Pirano) è città ragguardevole che dista da tȃmat.r.s (Mattarada) una breve giornata. Malgrado che l’autore asserisca esplicitamente che b.rȗnah o b.rànah ed ’.nm.lah (probabilmente ’.usulah) o ’.ng.lah sono città continentali, non parrmi dubio che si debba per queste intendere Pirano ed Isola, che appunto sono omesse fra le città primarie della costiera dell’Istria. Inoltre, b.r b.l ah che potrebbe leggersi b.rt.lah (Portole). Così da Mattarada a bùb.lah (Buje), città grande e popolata, nove miglia. Da questa ad ’.n m.l a h, che dicesi pure ’.ng.lah (Insula, Isola), città popolata di Franchi, tre miglia. Da Isola a q.ndìlat ’al ’ifrangìyùn (Candela de’Franchi?) tre miglia. Da questa [città] a b.run ah o, secondo altri, b.rȃnah (Pirano), della quale già abbiam fatto parola, duemiglia. Queste son tutte città continentali [del territorio] di Aquileja. Quanto alle città marittime, fra queste [noi troviamo] d.st.ri. s ([Capo] d’Istria), la quale è lontana da tȃmat.r.s (Mattarada), città pure [del territorio] di Aquileja, ventitre miglia. Da questa alla città di mùgȃw o, come altri dice, ’ùmȃgù (Umago) nove miglia. Così pure dalla città di Pirano la continentale alla città di Umago diciotto miglia. La popolazione di Umago sono Franchi e la città è posta alla marina. Da Umago a g.b.t nùbah (Cittanuova), che è la nuova città appartenente ai Franchi, otto miglia. Essa è divisa in due parti delle quali l’una è al piano, l’altra sopra un monte che domina il mare.

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Piri Reis: veduta della costa orientale del golfo di Trieste. Si vedono Isola e Capodistria. Mentre Isola sembra parte della terraferma, Capodistria è giustamente illustrata come isolotto attaccato alla terraferma. Una visione che, evidentemente, è causata da una prospettiva di mare.

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Da Cittanuova a b.r.ngù, che altri chiamano b.r.nzù (Parenzo), dodici miglia. Parenzo ò città popolata, molto fiorente, ed ha legni da guerra e navi numerose. Da questa a rìg.nù (Rovigno) che appartiene ai Franchi, quindici miglia. Rovigno è città grande, con dintorni ameni e molto popolata. Di qui a bùlah (Pola) dodici miglia. La città è bella, grande e popolata, ed ha naviglio sempre allestito. Da Pola a mùdùlìnah (Medolino), città ragguardevole e popolata, sedici miglia. Da questa ad ’albunah (Albona) quaranta miglia. Da Albona a f.lȃmùna (Flamona) sei miglia. Queste due città sono popolate, i loro territorii sono contigui e simiglianti le loro condizioni.

Immagine, per i tempi di allora, abbastanza corretta di Capodistria che, anche vista dal mare, era collegata alla terraferma da un ponte.

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Da Flamona ad ’al’.wranah (Lovrana) quattro miglia. Lovrana è città grande, popolata, in prospere condizioni; ha navi [sempre] pronte e costruzioni navali incessanti. Essa e l’ultima città marittima del paese di Aquileja. Sul confine orientale di questa regione trovansi montagne continue e deserte laude. Alle terre di Aquileja, seguono quelle della g.rwȃsiah (Croazia), chiamate dalmȃsìah (Dalmazia).

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A.D. 1200 - Il Castello di Isola Correva l’A.D. 1031, quando il Patriarca di Aquileia, Popone, decise di donare al Monastero benedettino di S. Maria d’Aquileia fuori le mura, la località istriana chiamata allora “Insula”. Evento che condizionò la piccola comunità per quasi quattrocento anni. Come racconta lo storico capodistriano Antonio Alisi, “agli inizi del XII secolo le monache di S. Maria, provvidero a costruire per il loro Gastaldo (personaggio nominato a tutelare i loro interessi ed a gestire anche la giustizia locale, un domicilio sicuro e adeguato che ebbe la forma di un rettangolo (o quadrato?) con torri ai quattro angoli, e di faccia alla torre T-4, per sbarrare l’accesso, fu costruita un’altra torre T-5.” Così, racconta verso gli inizi del secolo scorso Alisi: “ era possibile sorvegliare il ponte (P) che adduceva al largo spiazzo (S) dinanzi all’ingresso (I) del castello. Colà si trovava la pesa per i prodotti agricoli che gli isolani erano obbligati a consegnare quali decime e altri balzelli. Il castello era costruito immediatamente al mare e tra i vecchi ho trovato ancora chi si ricordava della stretta sponda presso l’angolo della torre T-1, perché l’attuale larga riva e la piazza datano appena d’intorno al 1860-70.”

Disegno del castello di Isola eserguito a mano al prof. Antonio Alisi.

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Alisi continuò la sua ricerca sul castello: “Il Municipio s’è insediato nella parte meglio conservata, verso il mare e verso la T-4. La cappella, che con quest’ultima era in comunicazione, fu trasformata intorno al Trecento in Chiesa della Madonna di Alieto, ottagonale. Delle torri si sono conservate solamente quella verso il fosso (T-3 e T-4). Sullo spiazzo (S) sorsero man mano delle case di cittadini più legati agli interessi delle monache aquileiesi e del loro Gastaldo; in seguito un paio di quelle case furono acquistate dai Manzuoli che le abbatterono per costruirsi il loro palazzo (M).

Pianta di Isola con la posizione che nell’XI secolo doveva avere il Castello.

“Nei documenti vi sono chiari accenni al fosso, ove era proibito di pascolare pecore, del ponte, della macelleria presso la torre T-5, della pesa, dei magazzini e dell’officina di fabbro ch’erano entro il recinto del castello, , la cui sala recentemente fu trasformata in varie stanze.cappella, che con quest’ultima era in comunicazione, fu trasformata intorno al Trecento in Chiesa della Madonna di Alieto, ottagonale. Delle torri si sono conservate solamente quella verso il fosso (T-3 e T-4). Il tauro generale di quanto rimaneva del castello, a giudicare dalle belle finestre ad archetto trilobato gotico-veneziano, dovrebbe aver avuto luogo alla fine del Trecento, ma nes-

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sun documento ne parla. Il bassorilievo del madonna col bambino, rozzo e ingenuo, sopra la porta della madonna d’Alieto, è anche di quel tempo, non del Duecento, come credono coloro che nella forma ottagonale di questa chiesa, datale appena nel Seicento, pensano di avere la prova che in essa fu il primo battistero d’Isola.” Ecco svelato così il mistero del Castello Medievale di Isola. A testimoniare di esso sono rimasti il Municipio veneziano e la Chiesa di Santa Maria d’Alieto, nelle cui fondamenta, come illustrò qualche tempo fa anche la dott.ssa Daniela Tomšič che curò la sovrintendenza del restauro della piccola chiesa di Piazza Manzioli, constatando che: “I lavori di consolidamento delle fondamenta della chiesa ci hanno confermato che l’edificio è stato eretto su strutture antecedenti e sugli scogli presenti nell’antica baia.”

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A.D. 1212 - La prima scuola pubblica Su incarico dell’amministrazione comunale, esperti dell’Istituto per la tutela dei monumenti di Pirano si sono impegnati qualche tempo fa nella delicata opera di restauro della storica lapide che, nel lontano 1794, venne incastonata sulla parete dell’edificio che anche allora ospitava la scuola pubblica di Isola, per ricordare ai posteri l’istituzione del Ginnasio isolano, voluto dal canonico Antonio Pesaro. L’area che gravitava attorno alla Chiesa di Santa Caterina e al contiguo convento dell’ordine dei Servi di Maria, ormai scomparso, ospitava le scuole che si sono succedute nei secoli. Merita ricordare a questo punto, anche se in maniera molto succinta, almeno alcune delle tappe percorse dall’istruzione pubblica a Isola fin dai tempi più lontani. A Isola, un Petrus magister scholae, viene registrato in un documento del 3 Giugno 1212, nell’ambito di un accordo fra canonici di Capodistria e Chierici d’Isola riguardante la suddivisione del quartese. E proprio questa data indica per Isola la prima menzione storica della presenza di una scuola e, tenendo conto il Petrus magister scholae non viene definito con qualche titolo o ruolo religioso, oltre a quello di chierico, va interpretato come persona incaricata del ruolo di maestro pubblico. L’organizzazione della scuola, che si svolgeva comunque sempre all’interno di istituzioni religiose, aveva pressappoco questo percorso di studi: Elementare: Dal literator e dal calculator si imparava a leggere, scrivere e far di conto. Medio: Insieme al grammaticus si approfondiva lo studio della lingua latina e si imparava quella greca; si studiava la letteratura di queste due lingue e le prime nozioni di storia, geografia, fisica e astronomia. Superiore: Dal rhetor si studiava eloquenza, l’arte di costruire discorsi per gli usi più vari (giudiziari e politici innanzitutto). Per far questo occorreva conoscere il diritto, la storia dell’eloquenza, la filosofia. Ciò che attualmente viene definito un corso di perfezionamento in discipline umanistiche. È sicuro, che le prime forme di istruzione a Isola non superavano certamente il livello elementare che si svolgevano fin dall’inizio presso il Monastero dei frati Benedettini e, più tardi, dell’Ordine dei

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Servi di Maria. D’altro canto è abbastanza normale che i primi maestri fossero persone del mondo religioso, in quanto erano soprattutto queste a saper leggere e scrivere.

L’allora presidente della Repubblica, Danilo Türk durante lo scoprimento della lapide restaurata che ricorda l’istituzione del Ginnasio di Isola nel 1794

Ben presto, però, con l’evolversi della vita cittadina e con lo sviluppo del sistema comunale, furono gli stessi Comuni a scoprirsi interessati per alcune forme di istruzione dei propri cittadini per le proprie necessità amministrative. Non dimentichiamo che proprio i primi secoli del nuovo millennio videro esplodere il desiderio delle autonomie locali e di persone capaci di amministrarle.

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Panoramica di Isola del XVIII secolo.

Ma fu soprattutto l’avvento di Venezia e la ricorrente sottomissione al suo dominio che fece irrompere in Istria il nuovo mondo dell’Umanesimo e, più tardi, del Rinascimento. Furono i podestà veneti assieme ai loro scrivani, cancellieri, notai, fatti arrivare dalle più lontane località della penisola italiana, a diventare i veri promotori di quel sapere e di quelle norme di comportamento che ancor oggi si trovano alla base della nostra cultura e della nostra civiltà. Per la verità, di quel lontano 1212, nella cui ricorrenza dell’800.esimo anniversario, non si sa molto, oltre a quello che lasciò scritto nel 1700 il vescovo di Capodistria, Paolo Naldini. Tuttavia, già due secoli più tardi, è evidente quanto fruttò quel primo modesto seme del sapere. Infatti, già il 2 Ottobre 1419, il Consiglio Maggiore di Isola, convocato ai piedi della Loggia dal podestà Marco Barbaro al suono delle campane, decretò le regole della libera scuola di Isola, dove tutti potevano accedere all’istruzione purché pagassero due ducati all’anno per la scuola latina e uno per la non latina, dove, probabilmente, l’insegnamento avveniva in italiano volgare. Decretava altresì che il primo maestro pubblico e rettore della scuola era un certo Benedetto Astolfi da Pola, cancelliere del podestà, e che il comune gli doveva uno stipendio di sessanta ducati d’oro all’anno

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Palazzo comunale di Isola.

La presenza della scuola a Isola fu costante in tutto il periodo seguente e sono conosciuti anche i maestri che, volta per volta, vennero chiamati a istruire i giovani Isolani. Tra questi anche alcuni nomi che nei secoli divennero famosi per il loro apporto alle scienze, alle lettere e alle armi non solo di Isola, ma anche di Venezia e di tutta la regione. Nomi, come il Coppo, i Contesini, gli Ettoreo, i Manzioli, i Carlin, i Besenghi, oppure, ancora, il grecista Egidio Francesco, il teologo fra Bonaventura Thamar o il canonico Antonio Pesaro. È lo stesso Vescovo Naldini a testimoniare che nel recinto di questa fabbrica tiene il suo posto la scuola pubblica della Gioventù Isolana, che sotto la sollecita vigilanza d’un Precettore, per lo più sacerdote secolare, dalla Comunità stipendiato, s’ammaestra nelle scienze humane, e Divine; poiché i più minuti accoppiando à i rudimenti grammaticali i Sacri dogmi del Vangelo, assistiti dal proprio Precettore, ne danno saggio di questi con le pubbliche dispute, tutte le Domeniche fra l’anno nella Chiesa Maggiore.

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Via Santa Caterina.

Gli edifici odierni dell’ex via S. Caterina, un tempo via Besenghi, oggi via Simon Gregorčič (vedi disegno A). Diversa la locazione della Chiesa rispetto ai secoli precedenti (vedi disegno B) quando sul retro era attaccata al Convento dei frati Servi di Maria e all’ospizio dei poveri. Nella seconda metà del XIX secolo la Chiesa venne ricostruita sul lato sinistro ed al suo posto venne inaugurato nel 1888 l’edificio della Scuola elementare “Dante Alighieri”. Il perimetro dove un tempo si trovava il Convento venne adibito a cortile della scuola. Anche i locali della Vecchia scuola pubblica nell’ala sinistra del Convento – Ospizio vennero destinati ad altro uso. A ricordare gli anni quando questi ospitavano il Ginnasio di Isola sulla fiancata dell’edificio vicino venne posta una lapide commemorativa che al giorno d’oggi meriterebbe miglior decoro.

Via S. Gregorčič.

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L’evento di grande rilevanza per la scuola isolana fu l’istituzione, il 7 giugno 1794, per opera del canonico isolano Antonio Pesaro, di un ginnasio, o scuola superiore: un vero e proprio istituto scolastico, provvisto di biblioteca, di un sufficiente numero di docenti, dove i giovani potevano assolvere tutta la scuola media, compresa la filosofia, e passare quindi al seminario di Capodistria, se si dedicavano al sacerdozio, o all’università di Padova se volevano intraprendere un’altra carriera. A testimonianza dell’evento sulla facciata dell’edificio adiacente alla scuola venne posta una lapide per commemorare l’emanazione del decreto del Maggior Consiglio di Venezia. Inutile dire, che esiste una cospicua documentazione della scuola con tutti i programmi scolastici e didattici.

La scuola italiana “Dante Alighieri” inaugurata nel 1889.

La lapide, che da tempo era completamente dimenticata e vittima dell’usura del tempo, è stata completamente restaurata e ripresentata al pubblico. Dopo la fine della Serenissima nel 1797 e l’avvento, dapprima di Napoleone e poi dell’Austria, la storia della scuola Isolana continuò con nuove esperienze. Certamente una delle più importanti fu

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la nuova sede delle Scuole Popolari intitolate a “Dante Alighieri” in via Santa Caterina, nell’area dove la scuola isolana era stata presente per tutti i secoli precedenti fin dal lontano 1212. Il nuovo edificio venne inaugurato il 10 settembre del 1899 con un solenne discorso dello scrittore triestino Domenico Venturini. Istituto che, a un secolo di distanza, nel 1998, si trasferì nella nuova sede che ancor oggi è occupata dalla Scuola elementare italiana “Dante Alighieri” e dalla Scuola Materna “L’Aquilone” ed alla cui inaugurazione intervennero i presidenti di Italia, Oscar Luigi Scalfaro, e di Slovenia, Milan Kučan.

Il nuovo edificio della scuola italiana di Isola “Dante Alighieri” inaugurata nel 1998 dai presidenti italiano, Oscar Luigi Scalfaro, e sloveno, Milan Kučan.

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A.D. 1214 - Storia della Malvasia Per noi europei il vino è il simbolo forte e primario delle radici della nostra stessa identità. Bevanda preziosa, alimento insostituibile, gioia dei forti e sollievo degli afflitti, il vino è vita: il sole, il sangue, il fuoco hanno i suoi colori e ne sono simboli; ed esso è simbolo per loro. Questi simboli, questi miti sono eterni e profondi. Nella loro più intima struttura sono anche universali, per quanto la vite e il suo frutto - oggi coltivata l’una e fermentato 1’altro anche nel nuovo e nel Nuovissimo Mondo - siano originariamente legati in maniera inestricabile al nostro Mediterraneo.

Il culto di Bacco, dio romano del Vino arrivò nella penisola Italica nel II secolo a.C. Viene raffigurato spesso come un uomo col capo cinto di pampini e tiene in mano una coppa di vino.

La storia del vino è anche la storia dell’Istria. E di Isola. Circa un millennio prima della venuta di Cristo, contemporaneamente all’espansione greca nel Mediterraneo, troviamo testimonianze di tecniche produttive molto affini alle nostre. In quell’epoca il vino si diffuse proprio nelle terre che ne sarebbero diventate la patria:

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Italia e Francia. Si ritiene che siano stati i Greci ad introdurre la vite nell’Africa del Nord, in Andalusia, Provenza, Italia continentale e Sicilia e forse anche lungo le rive del Mar Nero. La penisola italiana era chiamata dai Greci “terra del vino”.

Filari moderni di Malvasia alla periferia di Isola.

Con molta probabilità il vino fu scoperto intorno all’XI-IX secolo a. C., scoperta come molte altre casuale, avvenuta sorbendo del succo d’uva selvatica conservato in recipienti di terracotta e accidentalmente fermentato. L’epoca delle prime coltivazioni della vite si fa invece risalire a 4000 o forse 6000 anni prima della nascita di Cristo. Da alcune testimonianze si apprende che in Babilonia esistevano delle “botteghe del vino” gestite da donne, anche se è molto probabile che in questi negozi non si somministrasse soltanto vino. Anche in Egitto era consuetudine produrre vino, e la viticoltura probabilmente giunse in questo paese dalle colline della Siria e della Palestina che conducono al Mediterraneo. In Grecia, la viticoltura e la vinificazione erano già particolarmente diffuse nel corso dell’VIII sec. a. C.

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Antica immagine dell’isola greca di Monembasia, da dove sembra avere origine il vitigno della Malvasia.

Per l’Istria il racconto non è molto diverso. Se ne ha notizia dai tempi romani di Cassiodoro che in una lettera al suo agente, scritta tra il 533 al il 537, ordina che “i militi non restino sprovvisti di vino, altrimenti Paulus lo compri in Istria dove la vite ha dato un raccolto abbondante”. Ed è altrettanto certo che dal porto di Haliaetum (San Simone) e da quello di Villisano gli Isolani esportavano anfore di olio d’oliva e di buon vino dirette ad Aquileia. Michela dal Borgo, dell’Archivio di Stato di Venezia, in una breve storia della Malvasia, racconta che è datata 1214 la prima citazione ufficiale del vino Monemvasios, prodotto a Monembasia, città-fortezza fondata attorno al 588 in Laconia (Peloponneso). Dal XIII al XVIII secolo tale vino appare nei documenti ufficiali e nelle antiche cronache di viaggiatori con numerose alterazioni di denominazione, poiché il vitigno autoctono era stato largamente esportato e introdotto in varie località della Grecia e dell’intero bacino mediterraneo: vino di Monembasia, Monembasiotis, vino Monembasiaticos, vino di Monobasica, Monobasià, Malevasie, Malvoisie, Malvasia, Malvagia, Malvaxia, Monavaxia, Monovaxia, Malfasia, Malfatico.

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Pubblicità del Consorzio delle Cantine Sociali Istriane nella prima metà del secolo scorso.

Ancora oggi si conoscono due Malvasie, l’una dolce e l’altra comunemente appellata dai Veneziani Malvasia garba. La Malvasia trovò grande fortuna sulle tavole dei veneziani. Inizialmente, non potendo contendere il primato di consumo con i vini “da pasto”, sia per il maggior grado alcolico che per il costo più elevato, era vino destinato ad una fascia di consumatori di ceto medio-alto. Ciò è confermato anche dalla tipologia delle sue rivendite al minuto. Il termine “osteria”, comparso nella sua moderna accezione a Venezia

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solo nel XVIII secolo, indicava una locanda, dove si forniva vitto ma pure alloggio. Erano botteghe specializzate, chiamate anche banderuole e, nel 1514, fissate dalla Serenissima al numero massimo di 20, dove veniva applicato l’apposito dazio per la vendita al minuto nella misura del gotto (bicchiere, pari a 0,16 litri); nel 1567 il loro numero fu portato a 28. Nel gennaio 1572 i mercanti di Malvasia chiesero al Consiglio di Dieci la concessione di potersi configurare in corporazione di mestiere vera e propria, associata ad una fraterna di devozione dedicata a San Giovanni apostolo.

Trattoria “Mira l’ Onda” situata negli anni ’30 in Riva le Porte.

Purtroppo non ci è pervenuto il Capitolare, a Venezia chiamato mariegola, della scuola di mestiere ma solo quello dell’interna fraterna a scopi devozionali e di mutua assistenza per gli inabili, i vecchi, le vedove e gli orfani di confratelli. Tale mariegola, approvata dai Provveditori di Comun nel 1575, ci informa che i malvasiotti avevano stipulato un accordo con i conventuali di San Nicolò della Lattuga, presso la Chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari, per officiare le messe in onore del Santo patrono ed in suffragio delle anime dei defunti: in cambio si obbligavano a corrispondere

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ai frati la somma annua di 36 ducati e pure “tre secchi (una secchia pari a litri 10,73) di malvasia” di vino da messa. Ma già dalla prima metà del XIV secolo apparve difficile distinguere il vino di qualità “Malvasia” prodotto nella regione d’origine con quello proveniente da Creta. Anzi, soppressa ogni distinzione sul luogo di produzione, fu quasi automatico che nei secoli a venire la Malvasia perdesse la memoria storica della sua precisa origine territoriale, e che le regioni che la producevano fossero considerati i primigeni luoghi di vinificazione, come la Malvasia istriana.

Etichetta per uno spumante Moscato prodotto da Roberto Chicco ed esposto alla Prima Esposizione Provinciale di Capodistria del 1910.

La Malvasia Istriana è ormai da tempo un vino DOC, anche se spesso viene prodotto non solo in Istria, ma anche in Friuli e nel Veneto. Tra tutte queste, nel passato godeva particolare prestigio proprio la Malvasia Isolana, tanto da venir spesso citata anche in opere della letteratura italiana, come “Le confessioni di un italiano” di Ippolito Nievo, il quale, citando documenti della Serenissima, affermò che proprio il vino isolano, prima di esser trasportato nelle terre del Friuli, doveva pagare il dazio a Muscoli.

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A.D. 1253 – Libero Comune di Isola Anche se il primo testo dello Statuto isolano risale al 1360, secondo alcuni documenti è sicuro che la città disponesse di un documento analogo addirittura più di un secolo prima: comunque, almeno a partire dal 1253, quando il popolo isolano, riunitosi in piazza al suono delle campane, proclamò il “Libero Comune di Isola”. Il documento, sta a segnare già allora la presenza del libero Comun de Isola, ed è molto importante perché, con poche parole essenziali, attesta quale fosse la configura­zione di governo e l’assetto organizzativo della città alla metà del XIII secolo. Questo documento che, in fondo, tratta solamente della nomina di due procuratori, cita il palazzo comuna­le, il consiglio generale, il maggior e minor consiglio, il camerario comunale, i consoli, i nominati: nunzi, sindici, avvocati e procuratori, ed il notaio rogante.

Antica immagine di Isola.

Riportiamo di seguito il testo in una traduzione approssimativa eseguita anni fa dallo storico piranese Miroaslav Pahor: Nel nome del Signore, amen. Nell’anno della sua natività, indizione XIma, dì primo maggio, nel palazzo del comune di Isola, in consiglio generale.

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Presenti Wecelo Amaldi, Walteramo figlio di Simone e Nicolao figlio di Rupredo, che è camerario comunale, ed altri, i consoli di Isola Johannes Bonvinus, Walteramus Blasius e Walteramus figlio di Urso per volontà e con il consenso del maggior e minor consiglio posero e nominarono Venerio Paisane e Menardo Nastasie quali propri certi nunzi, sindici, avvocati e procuratori nella causa che è in corso tra la signora badessa del monastero di S. Maria di Aquileia e il comune di Isola davanti al signor Gregorio di Montelungo, patriarca eletto della Santa Sede di Aquileia e al Marchese d’Istria. I nunzi, sindici, avvocati e procuratori in merito all’accordo o sentenza definitiva e al dibattimento di nominare testimoni, replicare, appel­larsi a tutto o a particolari, che per il detto negozio (ovvero causa) ritenessero opportuno. Quello che detti nunzi, sindici, avvocati e procuratori di detti consoli faranno (sarà fatto) per volontà e con il consenso del maggior e minor consiglio, con la promessa di attenersi agli ordini e di non contravvenire a nessun articolo. Io Abelardo, notaio di Isola, fui presente e come già detto per ordine di detti consoli scrissi e confermai.

Testo originale dello Statuto isolano in lingua latina del 1360, conservato presso l’Archivio di Stato della Croazia a Fiume.

Il documento, rappresenta la prova più evidente dell’esistenza antica degli statuti e dei cambiamenti loro apportati in vari periodi successivi. La prima prova documentata è insita nella codificazione del 1360, dove si deplorano i difetti e le confusioni per le aggiunte e per le correzioni operate al Codice dai podestà prece­denti. Per eli-

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minare tali discrepanze il podestà Giovanni Sanudo, coll’assistenza dei giudici del luogo, Vitale fu Veltramo Vitale, Michele de Vernerio, Almerico Albini e Matteo Marani, e coll’opera del notaro del podestà fece ordinare meglio e codificare gli statuti i quali, dopo la conferma del consiglio, furono sottoposti all’approvazione di tutto il popolo isolano convocato in piazza al suono della campana. Il “Consiglio maggiore” costituiva la rappresentanza di tutto il popolo, cui spettavano le decisioni più importan­ti, come la legislazione, le imposte, l’elezione dei magi­strati, le dichiarazioni di guerra e di pace. Ed è all’interno delle norme approvate dal Consiglio Maggiore del Comune che troviamo il principale riscontro anche sull’istituzione della Scuola pubblica a Isola, quando il secondo giorno del mese di Ottobre del 1419, ai piedi della Loggia comunale alla seduta del Consiglio Generale degli uomini della terra di Isola convocati al suono delle campane …die secondo mensis octobris Insule sub logia comunis in pieno et generali consilio hominum terre Insule congregato ad sonum campane… deliberò l’istituzione della scuola pubblica e, con venti voti a favore e quattro contrari, … affirmatum fuit per consiliariis XX.ti et quatuor in contrarium quod s. Benedictus de Astulfi de pola … nominò a insegnante e Rettore un certo Benedetto Astolfi di Pola, stabilendo altresì che per il suo lavoro avrebbe percepito dalle casse comunali sessanta Ducati d’oro all’anno… habere debet pro salario suo a comuni Insule ducatos sesaginta auri in anno. Le norme dello Statuto medievale, oltre che rappresentare tutta una serie di elementi per meglio percepire la storia della città, rappresentano spesso anche un vero e proprio esempio di saggezza su come veniva esercitata allora l’amministrazione pubblica. Forse è per questo che il Comune di Isola, tramite bando pubblico, ha deciso di riportare alla conoscenza della popolazione locale e dei visitatori della città alcuni testi dell’antico codice che già allora regolamentavano la vita ed i comportamenti della popolazione e dell’amministrazione pubblica. Scolpendole in lastre di rame messe in vista sotto i tipici volti del centro urbano isolano, nella versione originale, latina, in quella della parlata volgare di Isola e nella traduzione slovena.

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Documento del 1036, che fa intuire alcune forme di autonomia di Isola che giĂ nei seguenti due secoli avrebbero preso forma come clausole dello Statuto Comunale.

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A.D. 1303 - Chiese e capitelli La migliore descrizione del rapporto che gli Isolani hanno avuto nella storia con le chiese, ci viene dal vescovo capodistriano Paolo Naldini nel volume “Corografia ecclesiastica della città di Capo d’Istria” pubblicato nel 1700. Naldini scrive: La Collegiata d’Isola, che di questo scoglio è il luminoso Fanale, di questa Terra la Sacra Torre, e di questo Popolo il sicuro Presidio, è pure la Madre affettuosa di tante Figlie, quante d’intorno se l’innalzano Chiese. Madre certamente feconda, se nell’angusto circuito d’un miglio si moltiplicano fino à dieci; à tal che sono per così dire più Chiese che strade; nè aggirasi il piede, che non inciampi in alcuna Chiesa. Felice inciampo, se erge gloriosi i trofei alla Divotione Isolana. Di queste Chiese (trattando per ora solo delle Secolari) cade in acconcio il discorso col ripartirle in due Classi: cioè altre contigue al Porto del Mare, ed altre annesse alla Porta di Terra.

La Chiesa di S. Maria d’Alieto.

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Al giorno d’oggi, il numero delle chiese esistenti, sia in città che nel contado, è notevolmente diminuito. Secondo informazioni scritte dallo storico Luigi Morteani, durante il secolo XIX a Isola vennero atterrate le seguenti chiese: San Bartolomeo e S. Antonio al Porto (1818), S. Andrea, alle porte (1797), S. Marina e S. Francesco, sempre in città (1805). Inoltre S. Rocco (1816), S. Donato, SD. Pelagio e S. Simeone nel territorio, ma senza una data precisa. Dopo il Duomo, la Chiesa più importante è certamente la chiesetta di S. Maria d’Alieto. Situata nei pressi del Palazzo Municipale, al quale era collegata da un passaggio interno, nelle immediate vicinanze del mandracchio, viene citata per la prima volta in un documento del 1303 con il nome di Sancte Mariae Ligeti de Insula nella sua funzione di chiesa parrocchiale. Funzione che le viene tolta nella prima metà del quindicesimo secolo, quando viene assegnata al neocostruito Duomo di S. Mauro. Il campanile venne costruito nel 1521 e nel 1652 venne fornita del battistero.

La Chiesa di S. Giovanni.

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Su alcune cartoline con la veduta del porto o della Piasa Granda è visibile l’edificio della Chiesa di S. Andrea. Purtroppo sono poche le notizie che la riguardano. Sembra addirittura che non abbia mai svolto le sue funzioni religiose, tanto è vero che non è nominata in nessuna delle cronache parrochiali del periodo. Di costruzione recente risalente al 19.esimo secolo, sembra sia stata innalzata dopo l’abbattimento della vecchia chiesa di S. Andrea situata alle Porte nel 1797 e, anche, dopo una lettera del parroco Lugnani con la quale sosteneva l’inopportunità di costruire una nuova chiesa in Piasa Granda.. Dalla lettera, tuttavia, ne viene che i pescatori desidervano consacrare una chiesa al loro santo patrono (S.Andrea) nell’edificio in cui aveva sede la Congregazione di S.Andrea, pure situata nel centro della Piazza. Per cui è probabile, così affermano alcuni, che la Chiesa di S. Andrea non fosse altro che questo, anche perché in fondo è servita quasi esclusivamente a questo scopo. È stata abbattuta nel 1927.

La Chiesa di S. Andrea in Piasa Granda.

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La Chiesa è situata alle Porte, dirimpetto all’antica strada dell’Ospedale, oggi, via Lubiana, che porta verso il Mandracchio e Piazza Grande. Delle tre Chiese che erano sorte subito all’entrata nella città è l’unica che si è conservata. Oggi dedicata a S. Domenico, prima alla Madonna del Carmine e, prima ancora, a S. Marina. Dapprima si trattava di un edificio isolato, finché ai suoi fianchi non vennero costruiti edifici più imponenti, tanto da renderla quasi invisibile. La base della Chiesa, che è rimasta invariata fino ad oggi, esisteva già nel quindicesimo secolo. Sul perché della modifica del santo cui è dedicata, sembra che ciò sia avvenuto in seguito alla venuta a Isola da Pola dell’Inquisitore generale, che era accompagnato dai frati domenicani, che proprio in questa Chiesa operavano le loro funzioni religiose.

La Chiesa di S. Domenico (ex Chiesa di S. Maria del Carmine?).

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Situata proprio al confluire delle principali vie del centro storico di Isola è stata consacrata nel 1459 ed ha mantenuto inalterate le sue caratteristiche architettoniche e funzionali, a parte il tetto che è stato innalzato nel secolo scorso.. Purtroppo la Chiesa è stata nei decenni scorsi sconsacrata e viene usata come deposito di materiali per la Parrocchia.

La Chiesa di S . Caterina

La Chiesa di S. Caterina, anche se sconsacrata, è ancora ben presente a Isola. Il Convento si trovava dove fino a qualche anno fa aveva sede la Scuola elementare italiana, costruita nel 1898, dopo l’abbattimento dello stesso. Di certo, la storia della Chiesa e del Convento di S. Caterina è tra le più ricche di Isola. Già nel 1152 esisteva a Isola un ospizio dei frati benedettini. Ivi aveva sede già nel 1212 una scuola e nel 1389 nel convento sono presenti le suore di S. Caterina. Lo abbandonano nel 1429 lasciandolo all’Ordine di Malta. Nel 1473 viene ceduto all’Ordine dei Serviti. Nel 1794 il Senato del-

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la Serenissima scioglie il convento dei Serviti e cede tutto l’edificio, chiesa compresa, alle autorità comunali per dare spazio alla scuola. In questo modo anche la Chiesa diventa legata all’attività scolastica. Dal 1816 non vengono più svolte funzioni religiose. Verso la fine del secolo, assieme al nuovo edificio scolastico, inaugurato nel 1898, viene costruita anche la nuova chiesa, ultimata nel 1899.

La Chiesa di S. Pietro.

Dalla Chiesa aveva preso nome tutta la zona circostante el Scoio de S. Piero. Caratterizzata dal fatto di essere stata costruita proprio sullo scoglio, isolata dall’abitato del centro storico. Fu investita di una certa importanza all’inizio del XIX secolo, quando nel 1809, il parroco don Bartolomeo Vascotto fece costruire nelle immediate vicinanze delle terme sulfuree. La successiva costruzione del conservificio non fece accrescere la sua importanza.. La Chiesetta venne costruita nell’XI/XII secolo. Ultimamente venne restaurata nel 1954, dopo di che venne data in uso alla vicina fabbrica Delamaris (Ex Ampelea). Venne demolita negli anni Sessanta.

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La Chiesa di S. Rocco ex Chiesa di S. Lorenzo.

L’attuale Chiesa di S. Rocco è situata sulla strada che porta a S. Simon, al tempo della sua costruzione si trovava nelle vicinanze della più importante sorgente di acqua di Isola: Fontana de Fora, fuori dal centro. Dove oggi si trova la chiesa di S. Rocco, fino al XIX secolo si trovava la Chiesa di S. Lorenzo, che dava il nome anche a tutta la contrada. La Chiesa di S. Lorenzo è di origine medievale, risalendo i primi decenni al 1412, quando nelle sue vicinanze e presso la sorgente di acqua si fermarono i soldati dell’imperatore germanico Pipot, forte di 3 mila uomini. A causa della nebbia, che rendeva invisibile la città, questa rimase incolume (la vittoria di S. Moro). Il fatto viene ricordato dal dipinto principale, posto sull’altare del Duomo, raffigurante il Santo patrono, S. Mauro. Il quadro è del 1580.

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La Chiesa di S. Giacomo.

Verso la metà del XIX secolo, la Chiesa si trovava in cattive condizioni, per cui al suo posto è stata costruita l’attuale Chiesa di S. Rocco. Una ricerca fatta dallo storico Naldini racconta che nelle vicinanze della Chiesa sono state trovate ossa di inusuali proporzioni. La Chiesa di S. Giacomo è situata sul monte alle spalle di Isola, oggi quasi centro dell’abitato di Saredo. Per importanza, nei tempi passati, veniva subito dopo la Chiesa della Madonna di Loreto. Consacrata nel 1600 venne ristrutturata nel 1861 e, ultimamente, nel 1939. Nella seconda metà del secolo scorso, per l’incuria era stata trasformata quasi in una rovina. Negli ultimi anni è stata rimessa a nuovo.

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La Chiesa di S. Maria di Loreto.

È stata costruita dalla famiglia Delise nel 1663. La festività veniva e viene tuttora celebrata l’otto settembre e veniva affettuosamente definita la Madona picia, per distinguerla da quella del quindici agosto che era la Madona granda e veniva festeggiata al Santuario di Strugnano. Dal nome della chiesetta ha preso il nome anche il territorio circostante: Loreto. Probabilmente è per la storia particolare della chiesetta dedicata alla B.V. di Loreto, che si vuole costruita in segno di ringraziamento per aver scampato la pestilenza del 1611, che anche il vescovo Naldini le dedica un’attenzione particolare. Infatti scrive: “A questo Santuario di Maria sopragiunge l’altro dell’habitatione della stessa Vergine, rafigurante la Santa Casa da lei habitata in Nazaret, quando dall’Arcangelo Gabriele s’annunciò Madre di Dio. Decanta la fama, e le fanno echo sonoro varj Auttori, che questo sacro Albergo si trasportasse sù l’ali Angeliche da Nazaret della Gallilea al Monte Tersaco nella Schiavonia all’Istria confinante; e

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La chiesetta di Loreto in questi giorni.

che di là dopo qualche tempo passasse con pari prodigio sù’l Colle Lauretano nel Piceno, dove oggi si conserva, & adora. Or di questo beato Santuario presone da Loreto il più esatto modello, se ne ritrova altri consimile su’l Poggio di Marzanè nel Territorio d’Isola. Giovanni de Lise, ricantata Famiglia della Patria, in un fondo di sua antica proprietà riposta havea entro d’angusto nicchio la Sacra Immagine della Vergine Lauretana; ed ivi affollandosi numerosi i Fedeli, sospirò a maggior gloria del Signore, e di Maria sua Madre, riddurlo in una Chiesa formale, fabbricata su’l dissegno della predetta Casa di Nazaret. Quindi ottenutone da Girolamo Rusca il benigno rescritto, a cui l’ingenita Pietà del Principe stese gratiosa la mano, se ne stabilì l’erettione alli dieci nove Gennaro del mille sei cento trenta, colle clausule seguenti:Che la nuova Chiesa si fabbrichi sù l’esatto modello della Casa Virginale di Maria conservata in Loreto; Che si doti cogli stabili fruttiferi della Famiglia di Lise; Che sia Ius padronato perpetuo di questa, e de’ suoi legitimi Discendenti; à fosse incorporato al Capitolo della Collegiata. E che il Sacerdote pro tempore eletto, & investito, governi la Chiesa, e maneggi le sue rendite senz’ingerenza del Fondatore, ò suoi Discendenti.”

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Il capitello di Lavorè nell’unica immagine ancora esistente.

Merita ricordare ancora, tra le piccole costruzioni religiose, ancora il capitello di Lavorè, scomparso già nei primi anni del dopoguerra per lasciar spazio ad un monumento ai partigiani caduti. Da lui, anche la zona, situata in cima alla salita di Saleto, prima di incominciare la discesa verso Lavorè, veniva chiamata dagli isolani “Capitèl”

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A.D. 1360 - Le androne, ovvero l’antico stradario di Isola Si sa, che ogni cambiamento di popolazione o di appartenenza statale di un determinato territorio comporta fin dall’inizio anche una nuova regolamentazione dei toponimi e degli odonimi. Non diversa è stata la situazione anche per Isola. Soltanto nel corso dei primi cinquant’anni del secolo scorso ha visto l’avvicendarsi di nuove amministrazioni statali e, dopo l’ultimo conflitto mondiale, anche di quasi tutta la popolazione. Tanto per fare un esempio, documentato anche da qualche cartolina, l’odierna Piazza Grande, cosi conosciuta anche fino all’arrivo della monarchia asburgica, ha conosciuto da allora almeno tre nominativi: L’Austria ha preferito dedicarla alla principessa Stefania, l’Italia a Garibaldi, la Jugoslavia all’Armata Popolare, la Slovenia dopo l’indipendenza ha preferito ripristinare l’odonimo originario. Ma quante altre vie, piazze e località hanno mantenuto una denominazione che, secondo qualcuno, pur non c’entrando niente con la storia isolana, vuol ancora significare un preciso segnale di possesso politico ed amministrativo: ve lo ricordate il motto romano cuius regio, eius religio?

Piazza alle porte, così chiamata perché ai tempi quando Isola era veramente un’isolotto, proprio qui esisteva la porta d’entrata in città, che contemporaneamente rappresentava anche il collegamento con la terraferma. Oggi si chiama “Piazza della Repubblica”, ma per gli Isolani continua ad essere “Alle Porte”.

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L’odonomastica (dal greco hodós “strada” e onomastikòs “atto a denominare”), rappresenta una branca della toponomastica, ed è lo studio storico-linguistico dell’insieme dei nomi delle strade, piazze e di tutte le aree di circolazione di un centro abitato. Studiare l’odonomastica, scienza nata nella seconda metà dell’Ottocento, significa ritrovare il senso di una data comunità, perché i nomi delle vie riflettono la situazione storica e culturale della stessa. Per il periodo antecedente alla prassi introdotta nella prima metà del XIX secolo di intitolare strade, vie, piazze e abitati secondo precisi criteri stabiliti per decreto amministrativo, invece la ricerca non è così semplice. Per Isola conosciamo soltanto alcune di queste antiche denominazioni, come “Alle Porte = oggi Piazza della Repubblica”, “Riva le Porte = oggi Riva del Sole”, “Contrada de l’Ospedal = oggi via Lubiana”. Un decreto del 1957 modificò completamente anche tutta la toponomastica dell’entroterra Isolano, importando “Jagodje”, “Dobrava”, “Livade”, “Dvori”. Meno male che è rimasto almeno il nome della nostra città: Isola

Tipico sottovolto dei vicoli di Isola che sfocia in Piazza Grande.

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Ma le altre vie e vicoli, le cosiddette “androne” del centro urbano, nel medioevo, come venivano identificati? Lo apprendiamo dal capitolo 61 del Libro III dello Statuto del Comune di Isola in lingua volgare del 1360, che stabilisce regole per il mantenimento dell’ordine e della pulizia nei vari rioni, ma rappresenta anche una bella descrizione delle famiglie e dei nomi che allora vivevano nella nostra città: De nettar le Androne Interdite nell’Anno. Statuimo, che le Androne, che sono Interditte per le strade de Isola di sopra, et dà basso, che per li vicini siano nettade tré volte all’anno in pena de soldi quaranta, cioè nel Mese di Aprii, nel Mese di Agosto, e nel Mese di Novembre. Et queste sono le Androne interditte. In primis. Una Androna appresso la Casa de Almerico q.m Carlo Albin appresso la Casa de Giacomel Civran appresso la strada di Comun. Item una Androna appresso la Casa de Mauro q.m Zuanne Pinzan, et appresso la Casa de Nicoletto Civran. Item nella piazza un’altra Androna appresso Nicolò detto Collossi q.m Piero de Grimaldo appresso Giacomello Civran. Item nella piazza un’altra Androna appresso il sopradetto Colossi, et appresso la Casa che fu de Nicoletto Comandador. Item un’altra Androna appresso ser Mengolin q.m Odorigo de Federigo, et appresso la Casa, nella qual habita Cattarina Stazonatta, ò Botteghera. Item una Androna appresso la Piazza appresso la Casa de ser Vidal q.m Valtrame, et appresso la Casa di Marridati. Item un’altra Androna appresso Verzero q.m Zuanne Coiman, et appresso Toma de Baiardo. Item un Androna appresso la Casa de Prè Nicoletto q.m q.m Novelo, et il detto Verzerio dalla banda di sopra della strada Comune. Item una Androna dalla parte di sotto della strada fino al Mare appresso s. Papo de Orso di Capod.a, et il detto Prè Nicoletto. Item una Androna dalla parte di sotto della Strada Comune appresso la Casa de Toma Gajardo, et appresso la Casa de Bertucci Stanza. Item un’Androna dalla parte di sopra della detta strada appresso li beni del q. ser Venier de Pellegrin, et appresso Dona q.m Marco de Marco. Item una Androna dalla parte di sotto della ditta strada appreso li beni del detto Toma Gaiardo, et i beni de Bertucci q.m Dardo Pasqual, et appresso li beni de ser Mengolin q. ser Odorico di Federigo. Item una Androna dalla parte di sopra della detta stra-

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da, et appresso il Casal de Alberigo fiol q.m Domenego Guecili dà Paesana, et appresso la Casa, che fu de Andrea Rita, et al presente è di Pasqualin Mugisan. Item una Androna dalla parte di sotto della strada appresso la Casa piana del detto Pasqualin, et appresso la Casa de Zuanne q.m Almerigo Carbagno con altri confini. Item un’altra Androna dalla parte di sotto della strada di Comun appresso la Casa de Andrea q.m Bernardo Paisan, et appresso i beni de ser Michiel q.m q.m Marco de Varnerio, et li altri suoi Confini sino al Mare. Item una Androna dalla parte di sopra della strada appresso la Casa di Prè Nicolo q. s. Novel, et appresso Marinel q.m Venerando. Item una Androna dalla parte di sotto della strada di Comun appresso li beni de M. Nicolò, et de Varnerio, et appresso Nicoletto q. s. Marco, et appreso la Casa che fu q. et altri Confini. Item una Androna nel medemo luogo dall’altra parte della detta Casa di Eredi de M. Marco de due bande. Item Una Androna dalla parte di sotto della strada di Comun appresso la Casa de Mistro Anzolo Stazonaro, et appresso la Casa de Collandro de Capo d’Istria. Item una Androna dalla parte di sotto della strada di Comun appresso il Casal, et Horto de Prè Nicolo q. s. Novello, et appresso il Casal de s. Piero q.m Almerigo Maran sino alli muri di Comun. Item una Androna dalla parte di sopra della strada di Comun appresso la Casa de s. Almerigo Sulcherio, et appresso la Casa de s. Vidal e parte di sopra della strada di Comun appresso Valtermo de Vidali. Item una Androna dalla parte di sotto della detta strada nel mede.mo luogo appresso li beni di s. Berticho q. s. Zuanne Albertin, et appresso li beni del Prè Toma Pievan, con altri Consorti sino alla strada Comun di sotto. Item una Androna dalla parte di sopra della strada di Comun appresso la Casa de Andrioli de Griffo, et appresso la Casa, che al presente è di Leon de Leo.

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A.D. 1379 - I miracoli di San Mauro Tutti conoscono la leggenda della colomba Isolana con il ramoscello d’ulivo in bocca e del miracolo compiuto da San Mauro, patrono di Isola. Vediamo come la racconta lo storico Luigi Morteani nella sua Storia di Isola, pubblicata nel 1888 e che gli valse la cittadinanza onoraria della nostra città.

San Mauro, con ai piedi la scena delle truppe patriarchine che stanno per assediare Isola.

Nel momento che Pietro Doria, condottiero della flotta genovese, si trovava innanzi Venezia coll’ armata navale, dopo essere stato vittorioso della battaglia contro i Veneziani seguita in faccia a Pola, fu sorpresa in questo frattempo la città d’Isola li 25 agosto 1379 da un corpo di truppe del Friuli; ma il podestà di Capodistria, Marco Giu-

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stiniani, quello di Pirano, Fantino da Mosto, ed il podestà scappato da Umago, Vito Bon, concertarono una spedizione per riconquistarla. Fu preparata in segreto con accortezza e vigore: le guarnigioni di Capodistria e di Pirano sopra galedelli, galeotte ed altre barche inaspettatamente assalirono la terra e la presero dopo aspro combattimento, in cui i patriarchini perdettero 106 soldati; gli altri si arresero ed il castello fu costretto a capitolare. Nell’anno seguente la flotta genovese condotta da Maruffo Doria s’ era portata sopra la costa istriana ed aveva costretto tutte le città a ritornare sotto il dominio dei patriarchi, eccetto Pirano che oppose seria resistenza.

Affresco sulla volta della navata centrale del Duomo di Isola raffigurante il miracolo di San Mauro che, secondo la leggenda, salvò Isola dall’attacco della flotta genovese..

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Il Doria si presentò a Capodistria, e prese la città, ma non potendo ridurre il castello per la viva resistenza della sua guarnigione, le sue truppe s’erano sparse nel territorio di Capodistria in distaccamenti, i quali crudelmente lo devastarono. In questa occasione fu che vennero i genovesi in Isola, e che restarono accecati, come corre la favolosa tradizione; e per cui gl’Isolani intitolarono la vittoria di S. Mauro, e la comunità assunse per stemma la colomba con un ramo d’ olivo in bocca. A questa guerra presero parte i Genovesi, gelosi del commercio de’ Veneziani nell’Oriente; il re d’Ungheria, desideroso di ricuperare le città e le isole della Dalmazia; il patriarca per riacquistare ciò che aveva perduto nell’Istria; Trieste, gelosa del monopolio commerciale de’ Veneziani nell’Adriatico; ed i Carrara pei impedire l’estendersi della repubblica nella terraferma. Essa ebbe fine colla pace di Torino (24 agosto 1387) in forza della quale le cose dell’ Istria ritornarono nello stato in cui si trovavano prima della guerra. Venezia conservò i domini acquistati, ed il patriarca e la repubblica rinunziarono .il possesso di Trieste, la quale un anno più tardi si diede alla casa d’Austria. Come racconta sempre il Morteani, però, la vittoria di S. Moro, secondo un’altra tradizione, si riferisce al tempo della guerra tra Venezia e l’imperatore Sigismondo, il quale voleva limitare il potere della repubblica in Dalmazia e ristabilire l’autorità de’ patriarchi, marchesi d’Istria. In questa guerra il generale dell’ imperatore Pipo (di cognome Filippo Scolari fiorentino), comandante dell’ armata imperiale, composta d’ungheresi, restò soccombente nella battaglia successa nella Trevisana nell’anno 1412, per lo che dovette tosto ritirarsi col resto dell’esercito in Istria in unione dello stesso imperatore. Questi aveva in Capodistria il conte di Cilli per suo plenipotenziario, per trattare l’accomodamento coi Veneziani, i quali avevano spedito egualmente colle facoltà medesime Tomaso Mocenigo ed Antonio Contarmi. Intanto che in Capodistria - come racconta il Morteani - si facevano le trattative di accomodamento, le armi ungheresi commettevano stragi in tutti i luoghi della provincia. In questo frattempo Pipo suddetto venne nella valle d’Isola con 3000 cavalli e 3000 fanti, e vi rimase tre giorni. Di ciò esistono le memorie tanto nel capitolare esistente nel comune, quanto nel vecchio originale statuto. Pipo si fermò presso la chiesa di S. Lorenzo, fino a che vide che una nube

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circondò miracolosamente il campo; allora levò 1’ assedio e s’incamminò alla via della Polesana, ove s’impadronì di Valle e Dignano. Per onorare la memoria di questo fatto fu ordinato un giorno festivo che il popolo ricorda col nome di Vittoria di S. Moro.

Ingrandimento dell’immagine di San Mauro raffigurante ai suoi piedi, sul lato sinistro, la chiesetta di San Lorenzo alla periferia di Isola, dove pare si siano radunati i tremila cavalieri pronti per attaccare Isola.

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Ingrandimento dell’immagine con le truppe patriarchie che non videro Isola perché sulla città si era abbattuta una fitta nebbia. Una colomba bianca con in bocca un ramoscello d’ulivo venne inviata da San mauro ad annunciare lo scampato pericolo.

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A.D. 1379 - I patriarchini attaccano Isola Abbiamo già scritto, anche se succintamente, delle due versioni esistenti in merito al miracolo di San Mauro e della colomba con il ramoscello d’ulivo in bocca. Tuttavia, per approfondire ulteriormente la materia, presentiamo di seguito lo studio eseguito dallo storico veneziano Vittorio Lazzarini e pubblicato in “Atti e Memorie della Società Istriana di archeologia e storia patria” LI-LII (19391949) pag. 109-118. Lo studio rappresenta una specie di cronaca degl eventi che coinvolsero Isola nell’ agosto del 1379. spiega cioè il come e il perchédella nascita della leggenda, da un punto di vista rigorosamente storico. Il racconto è suggestivo anche perchériporta uno scritto del settembre 1379 in una delle prime, se non la prima, versione conosciuta in lingua volgare italiana.

Il leone di San Marco chiamato a proteggere le cittadine istriane dagli appetiti del Patriarca di Aquileia e dei Conti di Gorizia.

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Una cronaca anonima veneziana, attribuita a Fantino Pisani che fu provveditore a Casalmaggiore l’anno 1426, così ricordo l’occupazione di Isola da parte dei patriarchini nell’agosto 1379 e il pronto riacquisto fatto dalle genti fedeli a Venezia: E a dì IIII ditto [settembre] el fo sapudo che de Friul e de Maran lo andava a Ixola molte barche et navyli chon grande quantitiade de Furlani, che jera zircha 800. Et questi andava per vendimar et abittarla, perchéla Sygnioria 1’ aveva fata habamdonar. E sapudo che ave la Sygnoria de questa chomytiva che andava là, quely de Chavodistria et de Piran et de Trieste de subito ly fexe grandissyma asunanzia e amde a Yxola là o’ che ly Furlany se aveva reduti et àrdidamente li lo ale man et schomfixely et fexe gramdissima crudelytade tra loro, et fo trovado aver per prixony per chomto 470, semzia queli fo morti, et questy prìxoni ly se partì fra de loro. Fra ly qualy de fo de molti prixony de molti chastelani, zircha 30 chavalyeri. Questa fo una gramdisyma schomfita ali Furlany, he gramde alegrezia a quely de 1’ Ystria. Aggiungono nuovi particolari, chiariscono e correggono la narrazione dell’anonimo documenti di provenienza veneziana e friulana; lettere dei podestà veneziani di Umago, di Isola e di Pirano, una lettera giunta dall’ Istria al patriarca Marquardo, una lettera degli ambasciatori patriarchini presso Carlo di Durazzo, inviata a Pietro D’Oria capitano generale dell’armata genovese e al suo Consiglio.

Tipiche imbarcazioni della marineria militare veneziana.

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Lorenzo Malipiero, podestà veneziano che aveva abbandonato Isola e s’ era ridotto a Capodistria, scrivendo a sua discolpa alla Signoria il 28 di agosto, accenna a relazioni e a fatti seguiti d’ accordo tra le genti del Patriarca e notabili di Capodistria e di Isola. Il 14 di agosto Marco Giustinian podestà e capitano di Capodistria aveva permesso fossero dati due galedelli ch’erano nel porto, il più grande, inviato da Venezia, ad uomini di Isola, il piccolo a due fratelli di ser Gavardo de’ Gavardi, e ad altri 13 capodistriani “de li mior”, col pretesto di andare a Trieste a prendere farina. Accompagnatisi, allo sbocco in mare del Risano, con un galedello di Muggia, e con una o due altre barche, tutti insieme, il giorno della Madonna, drizzarono le prore verso Belforte, castello de’ Veneziani al Timavo, e sotto colore d’ esser amici, di sorpresa, se ne impadronirono, dandolo poi nelle mani del patriarca aquileiese. Saputa la cosa la Signoria mandò ser Gavardo e i parenti degli altri a confine, senza far inquisizione e dar, se mai, tortura, provocando in tal modo mormorazioni tra i forestieri. Degli uomini d’Isola non s’ebbe, dal giorno 15 in poi alcuna notizia; fossero stati presi e costretti a pigliar parte all’impresa o no, convinzione del Malipiero fu che fossero andati di propria volontà, intendendosela molto bene con gli altri di Capodistria. Erano poi in Isola due uomini cui ser Pantaleone Barbo aveva assegnato il confine; costoro con la brigata scappata da Capodistria volevano impadronirsi del castello d’Isola, “ço che s’era visso [veduto]” aggiunge il Malipiero. La stessa Capodistria era mal difesa; sarebbe occorso un sussidio di 200 balestrieri, ed erano pochi.

Dipinto raffigurante la battaglia navale di Lepanto che coinvolse duramente gli armi veneziani.

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Ser Vito Bon podestà di Umago che, in seguilo alla pre-senza delle galee genovesi, era stato cacciato fuori del palazzo e del paese dagli uomini di Umago, riparato a Pirano, s’era mosso, di volontà di quel podestà, con 34 soldati per recar soccorso al castello d’Isola. Ma era ormai troppo tardi. Tre garzoni da lui presi gli riferirono che la terra era già occupata dai patriarchini e che ancora si combatteva intorno al castello; giunto però a circa mezzo miglio, scoprì che i nemici, gittata giù l’insegna di San Marco, erano entrati nel castello, e che molti uomini a cavallo stavano correndo loro addosso. Scampato, per la grazia di Dio, dalle mani dei nemici insieme con i suoi soldati, non mancò poi di partecipare a un’impresa che riacquistò per Venezia Isola e il suo castello. Egli narra nella sua lettera al doge che, d’ordine del podestà di Capodistria, il provveditore e il podestà di Pirano fecero una radunanza di gente armata, colla quale, servendosi di galedelli, galeotte e barche, sbarcarono ad Isola, togliendo la terra al nemico, ricuperando poi, in seguito a patti, anche il castello, restando durante l’azione morti e feriti dei migliori fra i sudditi e partigiani del Patriarca.

Primo piano di una nave veneziana durante una battaglia navale.

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Conferma in fondo il racconto del Bon un dispaccio degli ambasciatori veneziani, del 4 settembre, da Treviso: Lodovico Donato generale dei Minori aveva loro comunicato che Marquardo, allora al campo degli Ungari, aveva mostrato a Carlo dì Durazzo una lettera pervenutagli dall’Istria, nella quale, premessa la novella che le genti del Patriarca avevano acquistato Isola, si soggiungeva che i Veneti con due galee e una galeotta sbarcati colà, avevano poi ricuperata la terra e stavano infalibiliter per avere il castello, nel quale s’erano ridotti molti friulani. Nel combattimento erano rimasti uccisi due notabili, cavalieri del Patriarca. Pietro D’Oria capitano generale dell’ armata genovese, alla notizia dell’insuccesso, esprimendo da Chioggia all’alleato le proprie condoglianze, provvedeva ad inviare 15 galee in sussidio de’ possessi aquileiesi nell’Istria; per il che gli ambasciatori del Patriarca, rimasti nel campo presso Treviso, ringraziando il D’Oria, in nome del loro signore e proprio, gli notificavano che de’ nobili friulani erano morti tre: il marescalco, il maestro di Curia e un Giovanni camerario; fatti prigioni uomini di bassa condizione. Il nemico, appiccati incendi alla terra d’Isola e al castello, s’era poi allontanato.

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A.D. 1398 - Dante a Isola Dante è stato veramente a Isola, come è stato reclamizzato da una cartolina d’inizio secolo scorso? Beh, forse è meglio chiarire la domanda più generale, cioè se Dante è stato mai in Istria, per esempio a Pola, come alcuni deducono interpretando alcuni versi della Divina Commedia. Una leggenda, che nè documenti, nè l’ironia dei critici potè finora distruggere, indicando almeno due luoghi visitati, cioè Tolmino e Duino; mentre è Dante stesso che descrive una sua probabile visita a Pola. Va detto che Pola e la costa liburnica bagnate dal Quarnaro sono dipinte con una finezza di particolarità che si direbbe possibile soltanto da chi le vide realmente di persona.

L’edificio situato in Piazza Grande che, secondo una cartolina dell’inizio del secolo scorso, avrebbe nell’ottobre del 1308 ospitato il Sommo poeta. È possibile, comunque, che l’evento sia frutto di fantasia, dovuta, forse, al fatto, che alla fine del 1300 a Isola uno degli scrivani comunali proveniente da Tropea stava copiando la Divina Commedia.

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Per quanto riguarda Isola, invece, esiste una cartolina di inizio secolo scorso che raffigura un bell’edificio di Piazza Grande, riconosciuto come “Casa Delise”, dentro il quale, come scrive la didascalia, Dante avrebbe pernottato nell’ottobre del 1308. La leggenda racconta che il Sommo poeta si sia fermato a Isola durante il suo viaggio dal Friuli a Pola. Volendo giustificare il contenuto della cartolina, potremmo eventualmente anticipare la presenza di Dante a Isola di un paio d’anni, spostandola proprio al periodo della sua presenza a Treviso ed a Padova, nel periodo cioè quando stava lavorando al “De Vulgari Eloquientia” e stesse studiando i dialetti italiani. Tra questi, anche il dialetto istriano dall’accento aspro e duro, che oggi definiamo come istro-romanzo – che, si dice, udì parlare a Pola e nei paesi vicini. È più probabile, invece, che il nome di Dante fosse presente a Isola grazie al sistema allora in vigore di diffusione della Divina Commedia, sfruttando la bravura e l’amore per il Sommo poeta di qualche zelante scrivano comunale. Una precisa testimonianza su quel periodo ci venne offerta nel 1935 e rappresenta la reale testimonianza della presenza dantesca nella nostra città. Il 9 gennaio del 1935 la Presidenza del Consiglio Italiano emanò un comunicato stampa, col quale dava notizia dell’acquisto, per la somma di 200.000 lire, di un magnifico codice di fine XIV secolo contenente la Commedia di Dante con il commento di Benvenuto da Imola. Il codice, composto di 285 fogli di pregiata pergamena, era stato scritto, come risulta dagli explicit dell’autore, negli anni 1398 e 1399 in Isola d’Istria da un notaro e cancelliere al servizio del podestà di quella cittadina, che rispondeva al nome di Pietro Campenni di Tropea, figlio di Giovanni. La successiva trascrizione del commento risultava definitivamente completata nel 1400 a Portobuffolè, incantevole borgo medievale della Marca Trevigiana, dove Pietro si era nel frattempo trasferito per motivi di lavoro. Fu il governo italiano infatti nel 1934 ad acquistarlo su interessamento del Senatore Francesco Salata, d’origine istriana. Fu poi lo stesso Duce ad acquistarlo e a farne dono alla Biblioteca Marciana di Venezia. Poche le notizie relative a Pietro Campenni. Qualcosa si sa della sua famiglia d’origine, una delle più antiche e nobili di Tropea.

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Famiglia, tra l’altro, estinta intorno al 1676. Pietro quindi rivive per la prima volta dopo sei secoli di silenzio, grazie al ritrovamento e al rientro del codice isolano in Italia dagli Stati Uniti, dove - pare fosse di proprietà privata.

L’inizio della “Divina Commedia” del Codice conservato a Venezia.

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L’inizio della “Divina Commedia” del Codice conservato a Parigi.

Ai tempi del ritrovamento del manoscritto, agli studiosi di Dante era già noto un altro codice istriano con il commento di Benvenuto da Imola, custodito nella Bibliothèque Nationale de Paris. Era stato indicato e descritto da autorevoli studiosi, tra cui il rovignese

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Antonio Ive, che in un articolo apparso sul giornale “La Provincia dell’Istria”, che lo pubblicò il 16 agosto 1879. Da buon istriano, fornì un accurato esame non solo del testo ma anche della consistenza cartacea del manoscritto. Incerto il nome del copista causa una errata lettura del manoscritto. Quando venne scoperto l’altro codice istriano, quello ’veneziano’, non vi fu dubbio alcuno che quel Pietro fosse il Campenni di Tropea, notaio e cancelliere del podestà di Isola d’Istria. Ed è qui che Pietro ci appare non più come semplice copista ma come studioso dell’opera dantesca con il disegno ben preciso di diffonderla nel migliore dei modi. Su iniziativa della Comunità Italiana di Isola, che interessò dei codici il Centro di ricerche scientifiche dell’Università di Capodistria, venne procurata una copia digitale dei due codici con il proposito di pubblicarli, anche per ridare il giusto riconoscimento alla città e al copista che, a nemmeno 50 anni della scomparsa di Dante, lo riportò nella memoria culturale nella nostra cittadina.

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A.D 1450 - Leone di San Marco A Isola, il Leone di San Marco si trova sulla facciata del Palazzo Comunale in Piazza Grande. È situato entro il timpano della facciata e si tratta di un leone marciano andante risalente alla prima metà del XV secolo, al periodo, cioè, quando è stato costruito anche l’edificio. Costruito in pietra d’Istria il Leone regge il libro aperto con la scritta consueta in caratteri gotici. Avente il muso accigliato da leonessa. Come l’ha descritto Alberto Rizzi, che ha catalogato e descritto tutti i leoni veneziani d’Istria, per il corpo pressoché glabro e specialmente pel modo in cui cade la coda, il leone assomiglia un po’ ad un babbuino.

Il Leone di San Marco sulla facciata del Palazzo Comunale.

Oltre al Leone di San Marco, Isola vanta ancora un leone – questa volta seduto, ma probabilmente di epoca molto più remota. È posto a guardia di uno degli angoli di Palazzo Besenghi, ma si calcola sia di epoca romanica e pare sia stato trovato assieme ad un altro purtroppo scomparso, al momento della demolizione dell’antica chiesa di San Mauro, sul luogo dove pure oggi si trova il Duomo.

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Il Leone romanico posto sull’angolo sinistro di Palazzo Manzioli.

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A.D. 1512 - La “Donna vestita di Bianco” di Strugnano Migliaia di persone in pellegrinaggio ogni anno per onorare la Donna Vestita di Bianco apparsa mezzo millennio fa a Strugnano, anche se non ha mai compiuto miracoli nè promesso guarigioni impossibili. Anche gli Isolani, da cinque secoli, due volte all’anno, si recano in visita al Santuario che Lei stessa ha ordinato la notte del 14 agosto 1512.

Statua della Madonna di Strugnano che ogni anno, alla vigilia della festa dell’Ascensione. viene trasferita nella chiesetta di S. Maria d’Alieto di Isola e, il giorno dopo, portata in processione via mare al Santuario di Strugnano.

Ma veniamo al racconto dei fatti di 500 anni fa. “Quella del 14 agosto del 1512 – raccontano le versioni fino ad oggi pubblicate – doveva essere certamente una notte predisposta per lo straordinario evento che stava per compiersi sui dolci colli di Strugnano, fra Isola e Pirano. Nella campagna di Strugnano, nonostante il buio e l’ora

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tarda, vegliavano soltanto due uomini camminando lungo i filari delle vigne già ricche di grappoli d’uva che promettevano una generosa vendemmia”. Erano guardie campestri che vegliavano i campi per dissuadere eventuali tentativi di furto. Uno si chiamava Giovanni Grandi e l’altro era conosciuto come Pietro di Zagabria. La notte venivano a Strugnano per vigilare sulle vigne di Domenico Spadaro. Ad un tratto, verso mezzanotte, sul ripiano della collina tra le rovine di un’antica chiesetta scorsero brillare una luce. Giunti a pochi passi dalle rovine videro una Donna seduta su un rudere. Era vestita di bianco e stava parlando con un vecchio monaco con la barba che teneva in mano un grosso cero. Nonostante vegli su di voi mi avete dimenticato! Guarda come è rovinata la mia casa – sentirono dire dalla donna. Poi, quando impauriti tentarono di fuggire, lei li richiamò con dolcezza: Non scappate, figlioli. Dite al pievano che faccia riparare questa chiesa, se no saranno guai per Pirano! Poi l’immagine sparì.

Immagine raffigurante la B.V. e le due guardie campestri.

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I due guardiani riferirono la straordinaria visione e le parole della Donna biancovestita, come venne chiamata per molto tempo, alle autorità religiose e civili. Il 9 settembre, il pievano (o arciprete), Balsamino de Preto, e il pubblico notaio andarono a casa di Pietro da Zagabria, che si trovava a letto ammalato e raccolsero una deposizione giurata dell’incontro con la bianca signora. Il giorno seguente fu la volta di Giovanni Grandi. La sua deposizione, sempre sotto giuramento, avvenne nel palazzo municipale davanti al podestà Marco Novagerio e al pievano Balsamino. I verbali vennero trasmessi subito alla Curia di Capodistria e già il giorno 12, che era domenica, la visione e le parole della Signora vennero ufficialmente annunciati alla popolazione. La domenica successiva, tutta la popolazione di Pirano, con in testa le autorità, raggiunse in solenne processione la chiesa diroccata, conosciuta fino ad allora come “Santa Maria della Barcazza” – in memoria di una certa Osvalda, vedova di un Cristoforo Petronio, detto Barcazza che, nel 1463, aveva dotato la chiesetta di “cinque cavedini e mezzo” delle vicine saline di Strugnano – e da quel momento la Chiesa prese il nome di “Santa Maria della Visione”.

Vecchia stampa con il Santuario di Strugnano.

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Il 5 dicembre, il Consiglio municipale di Pirano, convocato dal podestà Novagerio, tenne una solenne riunione per prendere ufficialmente atto della visione e disporre una serie di provvedimenti. La delibera passò con 64 voti favorevoli e uno solo contrario. Il quadro che raffigura la seduta è ancora oggi appeso sulla parete della sala consiliare del Municipio di Pirano. La visione ebbe effetto quasi immediato su tutta la regione. La fama e la devozione al Santuario di Strugnano andarono crescendo di anno in anno, diventando mèta di migliaia di pellegrini provenienti da tutta l’Istria e dalle regioni contermini. Nel corso del tempo, il Santuario venne sottoposto più volte a piccole trasformazioni. Il più importante risale alla seconda metà del ’600, quando vennero realizzate le dieci tavole che ancor oggi rivestono le pareti della chiesa e che si richiamano agli episodi più importanti della “Vita di Maria”.

Una delle guardie campestri durante la deposizione al Comune di Pirano.

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Oggi, il Santuario di Santa Maria della Visione è il più importante punto di venerazione della Madonna di tutta l’Istria. Nel 1907 la cura del Santuario, centro di pellegrinaggio dei credenti, è stato preso in cura dall’Ordine dei frati di San Francesco d’Assisi della provincia di Trento. In occasione del 400.esimo anniversario della Visione il Vescovo di Trieste e Capodistria, Andrea Carlin, con il permesso del Papa Pio X, fece incoronare solennemente l’immagine della Vergine …detta di Strugnano, che è celebre per la moltitudine di prodigi e la frequenza dei popoli di tutta l’Istria.

Giuramento della guardia campestre sulla visione della Vergine.

Culto che venne ulteriormente favorito grazie ai naviganti che nella Madonna della Visione vedono la Stella del Mare, presidio e tutela dei marinai e dei pescatori. A questi ultimi il Santuario viene segnalato dalla grande croce innalzata nel 1921 sul ciglione del colle che spazia sull’incantevole distesa del Golfo di Trieste. Come giustificare, allora oggi, coloro che, per la seconda volta, con motivazioni futili, ancorchéaltisonanti che si richiamano alla creatività e all’arte, si sono

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permessi di imbrattare e incendiare un simbolo delle popolazioni locali. Isola ed alcune sue aree, sono direttamente e storicamente coinvolte dal Santuario Mariano della Visione. A tal punto che anche dopo l’esodo di oltre mezzo secolo fa, il 15 agosto, festa della Madona Granda de Strugnan, gli Isolani vi ritornano puntualmente anche nella seconda festa di Pasqua, il lunedì dell’Angelo. Da quasi cinque secoli. Non meno intensa e convinta anche la partecipazione del popolo isolano alla festività per l’Ascensione della Vergine, quando la statua della Donna Biancovestita viene trasportata a Isola nel Duomo di San Mauro, e, dopo una solenne visita alla Chiesa di Santa Maria d’Alieto, raggiunge in processione via mare Strugnano ed il suo Santuario.

L’altare del Santuario di Strugnano con il quadro raffigurante la Beata Vergine.

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Poco prima della Grande Guerra, i frati francescani fecero costruire il convento adiacente, come centro di assistenza ai pellegrini. L’edificio, che è direttamente collegato alla Chiesa, è stato nazionalizzato dal potere popolare il 17 maggio 1955 e trasformato in penitenziario. Ne sanno qualcosa anche alcuni Isolani che, battendosi per principi di libertà e di democrazia, come Luigi Drioli, o Salvatore Perentin, finirono in prigione a Strugnano. L’ultimo frate italiano della provincia di Trento fu padre Vincenzo Gelmini, che morì nel 1955 e venne sepolto nel cimitero di Pirano. Alla sua morte, la cura del Santuario è stata assunta dai francescani della provincia di Santa Croce di Lubiana. Dopo 65 anni dalla requisizione perpetrata dal regime comunista, nel 2010, il convento è ritornato di proprietà della Chiesa. Ancora oggi, la parrocchia di S. Maria della Visione, istituita nel 1961, è composta da tre filiali: dalla chiesa di San Basso, che si trovava in prossimità di villa Tartini e che venne demolita nel 1957; dalla Chiesa di San Cristoforo e dalla chiesa di S. Antonio di Padova. Per noi, Isolani, da ricordare che della parrocchia di S. Maria della Visione di Strugnano fanno parte anche le contrade isolane di Cavarìe, Marzanè, Ronco e Costerlago. Anche questa, forse, una ragione per legittimare tra gli Isolani la festa della “Madona Granda de Strugnan”!

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A.D. 1535 - La Loggia del Palazzo Comunale È confermato dai documenti, che anche Isola avesse una sua “Loggia” affiancata ai muri esterni del Palazzo Comunale, anche se di essa oggi non esiste più alcuna traccia. Tutti i palazzi comunali, o i Palazzi del Pretorio, in Istria disponevano di una loro loggia, in quanto svolgeva una ben precisa funzione, prevista anche dagli Statuti Comunali. Per quanto riguarda Isola, lo Statuto comunale del 1360, ma soprattutto alcuni documenti raccolti anche nel “Codice Diplomatico Istriano” di Pietro Kandler, si fa cenno diretto dell’esistenza di queste “logge” che vengono addirittura definite proprio “comunali” . Anche perchè, almeno per le riunioni importanti, serviva da struttura ai piedi della quale si riunivano le assemblee popolari, come, per esempio, il “Consiglio Maggiore” della città che costituiva la rappresentanza di tutto il popolo, al quale spettavano le decisioni più importan­ti, come la legislazione, le imposte, l’elezione dei magi­strati, le dichiarazioni di guerra e di pace.

Fotografia risalente alla fine del ’800 sulla quale appare quanto rimaneva del palco che, nei secoli precedenti, doveva aver svolto la funzione di Loggia Comunale.

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All’interno di alcune norme approvate dal Consiglio Maggiore del Comune di Isola, troviamo il principale riscontro anche sulla presenza in città di una loggia comunale. Così, il secondo giorno del mese di Ottobre del 1419, ai piedi della Loggia comunale gli uomini della terra di Isola, convocati al suono delle campane alla seduta del Consiglio Generale …die secondo mensis octobris Insule sub logia comunis in pieno et generali consilio hominum terre Insule congregato ad sonum campane… deliberarono l’istituzione della Scuola pubblica a Isola.

Ricostruzione di come doveva apparire la Loggia Comunale di Isola secondo gli storici. Da alcune norme dello Statuto medievale si evince, pure, che sotto la loggia avesse trovato sistemazione lo “speziale” - una delle prime “farmacie” di Isola).

È evidente che la Loggia serviva allora quale palcoscenico sul quale si defilavano il Podestà ed altri funzionari Comunali per gestire l’assemblea. Sotto la loggia, evidentemente in piedi, stavano i rappresentanti del popolo chiamati ad esprimersi su ogni importante questione cittadina. Infatti, secondo l’Enciclopedia Treccani alla voce “Loggia”, spiega che si trattava di Edificio o parte di edificio (in questo secondo caso è più come loggiato) comunicante diretta-

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mente con l’esterno su uno o piĂš lati: si distingueva sullo sfondo una piazza e un edificio a logge, dalle finestre a sesto acuto, fittamente arabescato, palazzo in cui, nei comuni medievali, avevano sede gli organi rappresentativi (da questa funzione il termine fu usato spesso come sinon. di luogo di riunione, e far loggia, tener loggia ha significato talora “riunirsi, adunarsiâ€?).

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A.D. 1547 - Pietro Coppo e il Duomo di S. Mauro Sulla data della prima erezione del Duomo isolano dedicato ai compatroni S. Mauro, S. Donato e S. Sisto non esistono documenti, per cui, secondo alcuni, sarebbe addirittura anteriore a quella della Chiesa di S. Maria d’Alieto, pur se molti sono a ritenere la seconda essere il più antico edificio religioso di Isola. Sulla ricostruzione del Duomo, portata a termine nel 1547, esiste una circostanziata relazione lasciata ai posteri da Pietro Coppo, allora nella sua veste di Vicedomino del Comune. Soltanto da quella data ebbero inizio anche i preparativi della solenne consacrazione del Duomo, che – però – avvenne il 10 agosto 1553. Riportiamo di seguito il testo integrale della Relazione del Coppo, che, tra l’altro, fornisce alcune importanti informazioni sui costruttori e sui costi.

Un’immagine dell’antico Duomo, come doveva risultare dopo la ricostruzione del 1547 descritta nella relazione di Pietro Coppo. Una importante ristrutturazione della Chiesa, che vide eliminate le due strutture di sostegno alla facciata dell’entrata venne effettuata nella seconda metà del XIX secolo per volontà del parroco don Zamarin.

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Essendo la Chiesa di S. Moro d’Isola Vecchia mal condicionata, et non capace à ret(en)er il Popolo nella celebration delli diuini officij. Parve all’Vnivcrsità, et Popolo diuoto, e molto inchlinato al culto diuino di reffar la detta Chiesa in più bela et ampla forma, per far, che questo suo diuoto, o ben uoler, e non pocco importante hauesse a sortir questo il debito effetto essistente il molto deuoto m(esser) Prè Domenego de Vascoto benemerito pieuano di detta Chiesa, e ora elletto il prudente, e molto honorato m(esser) Piero de Manziol q(uondam), m(esser) Balsemin con l’ingegnoso m(esser) Nicolo suo Nepote q(uondam), m(esser) Marco Proueditori, e dispositori sopra detta deuota, e laudabil opera con m(esser) Giacomo de Manziol q(uondam), m(esser) Piero sincero, e fido cassier, et gouernator delli danari si hauerà a spender nella detta fabrica, siche furono attrouati li danari per preparar tutte le cose aspetante, e pertinente à quella à questo modo.

Il campanile della Chiesa venne costruito con qualche anno di ritardo sul Duomo. Infatti venne portato a termine soltanto nel 1585.

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Che tutte le scuole, e fraternità d’Isola molto deuote, e desiderose honorar il sommo Onnipotente Iddio della lor propria entrada volontariam(en)te s’offersero dar l’infrascriti danari. e prima la scola, e Fraternità del Corpo di Christo L. 718:— Da S. Maria L 552:4 La Cameraria di S. Moro L. 751:17 Item ancora essa scuola di S. Moro L 541:14 Di S. Dona L 558:— Dì S. Michiel L 377:— Di S. Roccho L 118:4 Di S. Iseppo L 102:11 D(i) S. Antonio L. 90:15 L. 3810:5 Item. fu messo (lira):una d’oglio per Macina, fù trato orne 81/2 tratto il danaro di quelle fu L. 117:19, e tratto di Pietra, e legnami uenduti L. 282:13. Item aggionto la scola del Corpo di Christo L. 62:— Sum(m)a tutte le soprascrite parti L. 4332:9. Di che con li predetti danari preparati furono li legnami e la Pietra, colone, copi, e tuttel’altre cose che bisognaui per espedir detta, e la pietra di bella sorte per far quatordeci colone che li andaua. Li prefatti Proueditori cercarono di hauer uno il più ingegnoso Maestro di Fabrica di Chiesa, che si introuasse in Venezia molto laudato, e probatto da tutti, che fu Maestro Lunardo Malafuogo, con Maestro Francesco dà Cologna habitante in Capod(istri)a. M(aest)ro di Legnami e di muro molto per auanti adoperato in questa terra, e trouato molto sufficiente nel suo mistier di legnami, e ancor di muro, alli quali fu statuito, e datto il suo merito premio secondo il loro accordo, e comunam(en)te li furono datte le opere manual si nel disfar la detta chiesa e ad fraitcar di quella da tutta Vniversità e popolo d’Isola, secondo l’istesso. e facoltà di cadauno nemine excepto. e fù datto principio al disfar della detta Chiesa adi 15 del mese di Zugno 1547, e fu messa la prima colona li 5 : Luglio, adi 4 : ottobre fù compita con la mezzaria della Chiesa le ale ueramente adì 20: Novembre Posti li altari, fatta la porta e serata la Chiesa adi 14 Decembre 1547 al Dio Gratie.

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Ego Petrus Coppus Vice Dom(i)no Comunitatis Insul(a)e requisitus scribere ad futuram memoria(m) scripsi. Et io Zaxin de Lise q(uon)d(am). Dom(i)no Fran(ces)co per la Veneta Aut(ori)ta Nod(ar)o Pub(li)co ho copiato d’un Fog(li)o qual fu leuato la Copia del sud(det)to V(i)ce Dom(in)o, come nelli registri della V(ic)e Dominaria del Comu(n) d’Isola, e tanto in fede ho Copiato ad perpetuam rei Memoriam.

Un’immagine del Duomo come appariva agli inizi del secolo scorso.

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A.D. 1553 - La consacrazione del Duomo Per ricordare la consacrazione del Duomo di Isola, avvenuta nel 1553, riportiamo due brevi brani tratti dalle opere di due insigni personaggi della storia locale che meglio seppero illustrare l’importanza e la ricchezza del Duomo: lo storico Luigi Morteani che, nel 1888, ne parlò nel suo libro sugli Statuti di Isola, ed il Vescovo di Capodistria, Paolo Naldini, che nel 1700 pubblicò la sua monumentale “Corografia Ecclesiastica”. A noi basti ricordare che proprio in quel periodo l’Istria, e con essa anche Isola, era diventata la principale porta d’accesso verso est di quello storico processo evolutivo che è conosciuto come Umanesimo, poi come Rinascimento: quell’insieme di valori umani, sociali, culturali ed artistici che hanno contraddistinto e segnato tutti i secoli successivi, e dei quali anche noi, oggi, siamo legittimi discendenti. Scrive il Vescovo Paolo Naldini: Lo scolio d’Isola per altro tutto piano, s’alquanto in una competente largazza dalla parte di tramontana, esposta al mare In questa eminente pianura s’erge la Chiesa predetta; riedificata, come accennammo l’anno mille cinque cento quaranta sette; & essendo isolato il sito lungi da ogn’altro edificio, riesce la sacra molle à maraviglia lucida, vaga, e maestosa.

Il Vescovo di Capodistria, Paolo Naldini, che nel 1700 pubblicò a Venezia “Corografia ecclesiastica o sia descrittione della città e della diocesi di Giustinopoli detto volgarmente Capo d’Istria”.

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Dividesi in trè Navate, con metodica proportione alte, lunghe, e larghe. Quella di mezzo da più archi sopra quattordici Colonne di fino marmo sostenuta, termina con la Capella grande dell’Altar maggiore, con degna maestrìa l’anno mille cinquecento sessantasei efretta. Si sale a questa per una scala rotonda, posta nel mezzo della Nave trà due Balaustri di fina pietra, le quali gentkilmente la cbhiudano. Serve questa Capella di coro cole Sedie, e Scabelli drizzatevi dalla devota pietà di Tomaso Ettoreo, uno de’ più qualificati Cittadini nell’affetto alla Patria, e nella svisceratezza alla Chiesa. A capo del Coro, ch’è il fine della Capella, s’erge l’Altar maggiore, consecrato al Santo Sacerdote, e martire Mauro. La pittura non può essere più pretiosa, mà il contorno, di legno sì, mà abbellito di intagli, e lumeggiato d’Oro con colonne, & archi corrispondenti, è punto disdicevole. Gli Altari minori, che spalleggiano l’altre due Navate, veggonsi à sufficienza adorni, singolarmente di rare pitture; quali sono del Redentore, e della Vergine madre; Opere insigni del Palma: & altre colorite dallo Spilimbergo, dal Santa Croce, e dal Ventura, tutti celeberrimi Pittori di quel secolo: Vi sono pure al di dentro sù la porta principale un Organo maestro, fabbricato nel mille cinquecento settantasei; & al di fuori un’altro, e grande Campanile, perfettionato l’anno mille cinque cento ottanta cinque. Tutte prove palpabili dell’incessante divotione del Popolo Isolano, propenso a suiscerarsi per l’ingrandimento della Chiesa.

Immagine del Duomo di Isola, come doveva apparire nel XVI secolo.

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Compitane di questa la materiale struttura sospiravasi nuovo Prelato nella Cattedra Giustinopolitana in quÈ tempi desolata, e sconvolta, per decorarla coll’Ecclesiastico compimento della solenne Consecratione. E vi riparò propitio il Cielo, poiche Tomaso Stella, quà destinato dalla Provvidenza Divina à ristaurare la Diocesi abbattuta trà l’altre sue pastorali imprese, non ommise di consacrarla colle prescritte ceremonie il giorno decimo d’Agosto dell’anno mille cinquecento cinquanta trè. E sù la porta laterale se ne legge la memoria in queste voci. Thomas Stella Episcopur Justinopolitanus Ecclesiam hanc In Honorem S. Mauri Mart. Die X. Augusti M.D.LIII. Cum solitid Indulgentys Consecravit: Scrive, invece, nel 1888 il prof. Luigi Morteani: Oltre le chiese principali di S. Maria e di S. Mauro parecchie altre furono costruite e nel luogo e nel territorio: dal che si comprende che gli abitanti non risparmiarono nè fatica né spesa. Prima fra tutte la collegiata di S. Mauro, provvista d’un buonissimo organo, di molti ornamenti d’oro e d’argento e di altari adornati di belle pitture. Venne rifabbricata nel 1547, a spese del comune e delle scuole, e fu consacrata nel 1553. Per la rifabbricazione furono invitati il maestro Mazzafuoco di Venezia ed un certo maestro Francesco di Cologna abitante in Capodistria, i quali nel 14 dicembre del 1547 condussero a fine la loro opera, come si rende manifesto da una memoria scritta da Pietro Coppo, vice domino del Comune. Dividesi in tre navate: quella di mezzo, sostenuta da più archi sopra 14 colonne, termina colla cappella dell’altar maggiore, alla quale si accede per una scala rotonda, posta nel mezzo della nave fra due balaustri di pietra. Dietro l’altare è il coro costruito per cura di Tomaso Ettoreo, uno de’ più illustri cittadini. Sopra il coro c’è la palla di S. Mauro che ricorda la vittoria degli Isolani. Nel 1576 fu costruito l’organo col denaro della cameraria, delle scuole e del comune colla spesa di 3000 lire; e nel 1585 la cameraria spese del suo per l’erezione della cima del campanile, rifabbricato

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Bella veduta della navata centrale del Duomo di Isola come appare oggi.

nel 1655 e ristaurato nel 1705 sotto la direzione del maestro marchetti, il quale lo riparò dai danni cagionati dal fulmine. Lo stesso maestro vi pose nel 1722 la croce. Nel 1647 un giovane tedesco aggiustò l’organo; ed in questa occasione rileviamo che l’organista percepiva 212 lire di salario; 84 dal comune, 36 dalla cameraria e 92 da sei confraterne. Per la fede de’ cittadini e pel denaro della chiesa, questa si arricchì di molti ornamenti, fra cui nomineremo il Tabernacolo, donato nel 1641 dal cancelliere del podestà di Verona, Cristoforo Ettoreo d’Isola; il Cesandelo del valore di lire 691 e soldi 2, regalato da G. Battista Marini all’altare di S. Mauro; la Palla della B.V. della Cintura, dipinta dal pittore Francesco Minotto (1670); due palle, l’una del Redentore e l’altra della B.V. de’ Battuti, dipinte da Palma il Vecchio per la somma di 1860 (1582); la nuova Palla di San Mauro del Seccante da Udine, dipinta per lire 1240 (1580); il penello di S. Mauro dipinto da un celebre pittore di Capodistria per lire 170 (1761); la Palla di S . Giuseppe, dipinta da Girolamo di Santa Croce (1537); quella di San Donato, dipinta da romano Carlo Paparocci (1678); la pittura di S. Rocco, dipinta da Giorgio Venturini da

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Zara; la Palla di S. Giuseppe, dipinta da Giorgio Ventura da Capodistria. Sopra tutti questi dipinti merita speciale menzione la Palla di San Sebastiano, un capolavoro d’Irene da Spilimbergo, allieva del Tiziano. Aggiungendo ancora la Palla di S. Donato fuori delle mura, lavoro di un certo pittore Carlo (1661) per commissione della con fraterna del suddetto santo, e quella di S. Donato in morte, dipinta da Giorgio Ventura (1662), ci persuaderemo che Isola seguiva l’esempio delle altre città istriane nell’ornare le proprie chiese con dipinti di illustri pittori italiani.”

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A.D. 1652 - Il tesoro di San Mauro Per ricordare una serie di importanti anniversari della Chiesa di Isola Palazzo Manzioli ha ospitato tempo fa una mostra di importanti reperti storici legati alla presenza del Duomo ed al ruolo secolare della Chiesa nella nostra città. L’apertura della mostra, intitolata “Il tesoro di San Mauro”, è stata preceduta da una breve presentazione degli importanti anniversari che ricorrevano nel periodo, a partire dall’istituzione della stessa parrocchia voluta nel 1082 dal vescovo di Trieste, Eriberto.

La navata centrale del Duomo come appariva ancora prima della ristrutturazione effettuata a metà degli anni ’80 del secolo scorso.

Ricordato pure l’800.esimo anniversario da quando a Isola è stata concessa la fonte battesimale, cioè la possibilità concreta di battezzare nella chiesa di Santa Maria d’Alieto i propri bambini, senza doversi recare in barca a Capodistria. Diritto, che è stato concesso, appunto nel 1212, come risulta dallo stesso documento nel quale è stato evidenziato anche il nome del chierico Petrus, primo maestro di scuola, magister scholae di Isola. La fonte battesimale che oggi

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è possibile ammirare nella piccola chiesa, dopo la ristrutturazione e la grandiosa opera di conservazione, in parte finanziata anche dal Comune isolano, risale al 1652 ed è stata donata da Tomaso Ettoreo (Thomae Hectorei) appartenente ad una delle più importanti famiglie nobili isolane. A lui, tra l’altro si deve anche il prolungamento del coro alle spalle dell’altare del Duomo di San Mauro.

La fonte battesimale donata da Tomaso Ettoreo alla chiesa di S. Maria d’Alieto nel 1652.

Fino al 1212, i neoati isolani, per poter esser battezzati, dovevano esser portati fino al Battistero di Capodistria. Non è un caso, naturalmente, che il diritto del battesimo fosse stato concesso addirittura due secoli dopo l’istituzione della parrocchia di San Mauro. Il fatto che la Chiesa di Capodistria non abbia voluto concedere subito a Isola il diritto del battesimo assieme al plebanato – a guardarlo con gli occhi di oggi - dipende dal fatto che il rito del battesimo andava considerato come un servizio a pagamento, tramite le decime o il quartese. Rinunciando al servizio il clero capodistriano sarebbe stato costretto a ridurre, di conseguenza anche, i tributi che si faceva pagare ogni anno da Isola. D’altro canto, poiché la strada che collegava Isola a Capodistria era tutt’altro che agevole dovendo attraversare in salita tutto il monte di San Marco, i genitori che

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desideravano battezzare i propri figli si vedevano costretti a servirsi della più comoda via del mare, ed i capodistriani pensarono bene di offrire loro qualche aiuto. Infatti sotto Bossa Draga, più o meno dove oggi attraccano i moderni transatlantici, costruirono un piccolo porticciolo denominato Porto di Porta Isolana. Da qui, una volta legata l’imbarcazione al moletto, potevano imboccare la salita, raggiungere il vicolo che ancora oggi si chiama Porta Isolana, e quindi il Battistero adiacente al Duomo.

Vecchio disegno raffigurnte il porto di Porta Isolana, dove attraccavano le imbarcazioni isolane dirette al Duomo capodistriano per battezzare i neonati.

La serata organizzata a Palazzo Manzioli, non potè non soffermarsi anche sulla terza ricorrenza, al 470.esimo anniversario da quando a Isola i parroci avevano incominciato a registrare le nascite, poi i matrimoni e infine pure i decessi. Come noto, è stato il Concilio di Trento, conclusosi nel 1563, a sancire l’obbligo per la chiesa di introdurre i libri battesimali. Isola, diede il via al primo “Liber baptizatorum” addirittura una ventina d’anni prima. Il primo quaderno, infatti, risale al 1542, come è stato possibile constatare proprio sfogliando l’antico manoscritto esposto – naturalmente sotto chiave –

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alla mostra dedicata al Tesoro di San Mauro di Palazzo Manzioli. Il primo bambino iscritto nel libro risulta essere un certo Moro, figlio di Nicolò Vascotto, alla presenza di due padrini e di una madrina. Il quaderno contiene i nati fino al dicembre del 1568 e vanta ben due primati: praticamente la registrazione dei bambini è iniziata addirittura prima che a prescriverlo fosse stato il Concilio tridentino, iniziato nel 1545 ma terminato appena nel 1563. In secondo luogo il liber baptisatorum isolano è oggi il più antico registro dei battesimi in territorio sloveno.

Il “Liber baptizatorum” isolano del 1568.

Fra i cimeli del tesoro di San Mauro esposti, alcuni stendardi che venivano usati nelle processioni, alcuni abiti talari addirittura del XVIII secolo. Particolarmente apprezzati i ritratti ad olio dei parroci Francesco Muiesan e Giovanni Zamarin, nonché di Papa Benedetto XII (1285-1342), portato probabilmente a Isola all’epoca in cui esisteva anche il convento dei benedettini e della cui presenza nella nostra città si ha notizia addirittura nel 1152.

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A.D. 1681 - I “diamanti” di Isola L’Isolano Giovanni Russignan, detto Manasse, al quale la Comunità Italiana di Isola ha conferito nel 2012 il premio “Isola d’Istria” per le sue ricerche sulla storia della nostra città e per le sue opere di scultura, ci ha fatto pervenire tempo fa alcuni interessanti documenti e scritti riguardanti il nostro passato, più o meno lontano. Tra questi, anche il contributo riguardante presunti “diamanti” scoperti nella periferia di Isola. La testimonianza è stata pubblicata nel 2005 anche dalla rivista “Isola nostra”, pubblicata a Trieste, e ve la proponiamo nella versione integrale: Lo sapevate che a Isola avevamo una miniera di diamanti? Beh., proprio diamanti veri no, ma di qualcosa abbastanza dura da poter scalfire il vetro, si; da qui l’accostamento. Lo sapevano quasi tutti i ragazzini isolani, che se lo tramandavano di generazione in generazione.

Carta del territorio isolano. La zona dove, secondo il Russignan, è possibile trovare i presunti “diamanti”, è segnata con un cerchio nero.

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Lo sapeva anche il dotto Prospero Petronio, il quale, nelle sue “Memorie sacre e profane dell’Istria” (1681) dice: ‘queste sono le pietre marchesite, che anco nell’isolano se ne vedono, chiamate dal Mathioli pirite e dice che dove si trovano queste vi è anco la miniera d’oro e dell’argento; sono di vari colori, di sostanza metallica e ferrea...’. Il vescovo Paolo Naldini, nella sua “Corografia Ecclesiastica della Diocesi di Giustinopoli detta volgarmente Capo d’Istria” (1700) è addirittura più particolareggiato, ritenendo che le pietre siano il risultato delle acque di un corso d’acqua che ‘Scorre in oltre poco un torrente che accresciuto da più rigagni scaturienti da’ vicini colli, parve al Goineo connumerarlo tra i limpidi fiumi, denominandolo Acque vive. Può essere fosse tale ai suoi tempi, ma oggi che solo scorre all’innondare delle rovinose piogge, non ritiene di fiume nè l’apparenza nè il nome. Evui bensì vicino un minerale di finissimo argenti, ma questi pure per attestato del Petronio in così scarsa copia che lo scavarlo non porta il prezzo, è però da molti ò sconosciuto, ò negletto...’ Ma qui c’è qualcosa che non quadra. Evidentemente il Naldini non conosceva il luogo, o per lo meno, venne male informato. Il torrente “Aguavia” (Acqua viva) dei nostri giorni non scorreva in prossimità della Fontana Grande, ma ben aldilà della collina, in località Aguavia, denominazione derivata appunto dal torrente in questione nella valle di Strugnano. (...) È bene precisare che i “diamanti” si trovavano (e si trovano) inseriti nella massa marnacea (tassèl); da qui, in seguito all’erosione prodotta dalla pioggia, venivano messi allo scoperto, con conseguente rotolamento fino alla base della scarpata. Che detti “diamanti” non avessero pratica utilità, lo disse lo stesso Naldini; noi spinti dalla curiosità di conoscere la loro composizione chimica, li abbiamo sottoposti addirittura ad esame dell’Università di Trieste, del cui esito incompleto, data l’esigua quantità del materiale, si ricava che sono “essenzialmente pirite FeS2 (marcosite), con tracce di altri elementi.

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A.D. 1781 - Il palazzo e il casato dei Besenghi Il palazzo Besenghi è uno dei monumenti meglio conservati del tardo barocco ed è uno degli edifici più belli di tutta la regione. Pasquale Besenghi degli Ughi è uno dei poeti romantici importanti dell’Ottocento italiano. Eppure, il Palazzo ed il poeta, sembrano non meritarsi una via o una piazza della città che li ricordi o che, semplicemente, al visitatore ne indichino la strada. Palazzo Besenghi è un edificio a tre piani che è stato costruito nel centro di Isola in poco tempo considerando l’epoca: dal 1775 al 1781. La distinta e ricca famiglia Besenghi ha fatto costruire l’edificio all’architetto milanese Filippo Dongetti, uno degli architetti più importanti di quel tempo. Il leone di pietra nell’angolo dell’edificio è del XIII secolo, ed è stato trovato sotto la vestigia dell’edificio che esisteva prima al posto del palazzo. La famiglia disponeva anche di una ricca biblioteca. Pure oggi all’interno del palazzo viene custodito un’importante fondo librario che è conosciuto sotto il nome di “Biblioteca Besenghi, e nel quale sono conservati circa 3000 libri e manoscritti dal XVI al XVIII secolo. Oggi palazzo Besenghi ospita la locale scuola di musica, ma, in particolare la sala al piano nobile, riccamente affrescata, viene usata anche per concerti e cerimonie nuziali. In precedenza, prima di trasferirsi nel recentemente ristrutturato Palazzo Manzioli, il Besenghi aveva ospitato per alcuni decenni anche la sede della Comunità Italiana di Isola che ancor oggi porta il nome del grande poeta. Il palazzo Besenghi si gloria di una facciata ben ornamentata, di un mezzanino con un balcone a galleria e della sala principale. L’interno è pieno di stuccature e affreschi. Il palazzo rappresenta l’apice dell’architettura del tardo barocco nell’area dell’Istria occidentale che mostra anche elementi del Settecento veneziano ed è attribuita a Filippo Dongetti. Il salotto a due piani con un balcone di legno e con i disegni sul soffitto nei rami della stuccatura rappresenta la camera più riccamente allestita. Le vedute dei paesaggi nella sala per le cerimonie sono state dipinte da Angelo Venturini.

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Palazzo Besenghi agli inizi del secolo scorso.

L’antica e nobile famiglia dei Besenghi o Besengo si ritiene discenda da una signorile famiglia di origine toscana, rifugiatasi nell’Istria mentre imperversavano le lotte tra Guelfi e Ghibellini, ma su questo punto non tutti gli studiosi concordano. Il prenome

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Uno dei bellissimi affreschi che adornano il salone del piano nobile di Palazzo besenghi.

Besenghi si crede derivi da Besagne, forse abbreviato di Bevisangue (sic !), e comunque ci si muove sempre nel campo delle supposizioni. Documentata invece l’origine veneziana del capostipite di questa famiglia, Giovanni Pietro Besengo o Besenghi fu Pasquale, che venne da Venezia a Pirano nel 1698, portando con sé la madre Claudia, nata Carrara, e la moglie, nata Spiga. Pochi anni dopo, nel 1702, Giovanni Pietro abbandonò Pirano per stabilirsi nel castello di Piemonte d’Istria, dove fu insignito dell’onorifico titolo di Capitano civile e criminale, titolo conferitogli dalla famiglia Contarini Cav. del Zaffo, signora del castello. Giovanni Pietro, aggregato alla cittadinanza di S. Lorenzo nel 1718, ebbe per figli tanti personaggi importanti, tra i quali ricorderemo l’arciprete Don Giuseppe (morto 1746), il sacerdote Don Angelo (1776), il capitano civile e criminale Giacomo (1764), i notai Francesco e Pasquale ed infine un maggiore al servizio militare delle ordinanze, morto in Orsera nel 1768.

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Merita soffermarci su Pasquale, che abbandonò il castello di Piemonte per trasferirsi a Isola, nello stupendo palazzo Besenghi, costruito proprio in quegli anni (1775-1781). Il 10 gennaio del 1802 fu aggregato per acclamazione alla nobiltà di Capodistria, e tale titolo gli venne confermato dallo stesso imperatore Francesco I. Pasquale, nonno del poeta, sposò Agnesina della nobile stirpe degli Ughi, e volle aggiungere al proprio anche il cognome di questa antichissima famiglia fiorentina, venuta a Isola nel XIV secolo, ricordata dallo stesso Dante nel Paradiso (XVL., 88) Io vidi gli Ughi, e vidi i Castellini.

Il poeta Pasquale Besenghi degli Ughi, considerato uno dei maggiori poeti romantici italiani.

Giovanni Pietro Antonio, figlio del suddetto e padre del poeta, fu persona di grande intelligenza, distinta ed onorata, che aveva ricoperto diversi incarichi pubblici: l’8 dicembre 1801 fu aggregato alla nobiltà di Parenzo, il 14 gennaio 1802 nominato cittadino di Pirano, il 23 agosto fu accolto membro dell’Accademia degli Arcadi Romano-Sonziaci in Gorizia ed il 31 luglio del 1797 in quella de’ Risorti di Capodistria. Nel medesimo anno venne nominato primo Dirigente del Tribunale provvisorio politico e giustiziale di Isola, il 4 aprile 1804 fu nominato a presiedere alla commissione delegata alla tassazione dei terreni nell’Istria, il 2 dicembre 1807 l’imperatore

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Napoleone Bonaparte gli conferì il titolo di consigliere generale del Dipartimento d’Istria, il 9 novembre 1805 ebbe dal pontefice Pio VII il titolo di conte Palatino Lateranense per sé ed eredi col cavalierato della milizia aureata ad vitam, e finalmente, il 28 ottobre del 1823 gli venne finalmente, dall’imperatore Francesco I., confermata la nobiltà per sé ed eredi. E quali eredi ! Sposata Oristilla Freschi del Friuli, ebbe da lei due figli, Giacomo e Pasquale, e due figlie Agnese e Domenica, andate in sposa rispettivamente al dott. Francesco Bressan avvocato di Trieste e a tal Amoroso Giacomo da Pirano.

Lo stemma della Casata dei Besenghi degli Ughi.

Ma la fama della famiglia era destinata ad essere perpetuata dal suo ultimo rampollo, il poeta Giuseppe Pasquale Besenghi degli Ughi, uno dei più vividi e colti ingegni istriani dell’Ottocento. Nato ad Isola il 31 marzo o il 4 aprile 1797, compì i suoi primi studi nella città natia sotto la guida del canonico Antonio Pesaro. Terminato il corso di grammatica e di retorica, il Besenghi passò quindi a studiare filosofia sotto la guida del dottore Stefano Castellani nel seminario vescovile di Capodistria. Recatosi nel 1816 all’Università di Padova per dedicarsi allo studio delle leggi, volse ben presto tutto il proprio animo alla poesia ed alle belle lettere. Ter-

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minati gli studi decise di andare in Friuli dai parenti materni, dove lo raggiunse la notizia sui moti del Regno di Napoli, il che lo spronò a partecipare attivamente alla conquista della libertà partenopea. Dopo un lungo viaggio i n Dalmazia e dopo una lunga e volontaria prigionia di studio nel palazzo paterno a Isola, il Besenghi passò a Trieste. Ristampò a Venezia nel 1826 un saggio di Novelle orientali, già pubblicate sui giornali; e a Padova nel 1829 gli Apologhi che, pubblicati l’anno prima, erano stati sequestrati. Visitò la Grecia, che era insorta, stanca della lunga e feroce dominazione ottomana, ed anzi combattè per la sua libertà (25 dicembre 1829), ma anche in questa avventura, lo squallore della realtà in stridente contrasto con la visione classicistica dell’antica culla della cultura mondiale, servì soltanto a disilludere il poeta ed a fargli perdere quell’entusiasmo che ne aveva provato da lontano. Visse poi, sino al 1848 tra Trieste, il Friuli e Venezia, ospite di parenti e amici, intrattenendo una corrispondenza irregolare, ma abbastanza fitta, con i più noti poeti e letterati del tempo, in un continuo di alti e bassi di scandali mondani e amori più o meno corrisposti, che lo costringevano a chiudersi in sè stesso e nei propri studi. Non poté, per malattia, partecipare alla campagna del ’48; il 24 settembre del 1849 moriva di colera che già da mesi incombeva a Trieste. Sepolto in una fossa comune del cimitero di Sant’Anna, la sua salma venne più tardi esumata e trasferita in un altro luogo dello stesso camposanto, luogo del quale s’è però persa ormai ogni cognizione. Con la morte dei fratelli Giacomo e Pasquale Besenghi, si estinse il prolifico ceppo della nobile famiglia isolana. Una via dedicata al poeta Pasquale Besenghi esiste a Trieste, città che ha voluto ricordare il personaggio anche con la posa di un monumento in uno dei parchi della città. Nella sua città natale, Isola, dopo il 1957, quando la via a lui dedicata che portava a palazzo Besenghi è stata sostituita con il nome del poeta sloveno Gregorčič, nessun toponimo gli è stato più dedicato. Qualche anno fa, su iniziativa dei consiglieri italiani, il Consiglio ha approvato un delibera per il parziale ripristino del toponimo. Fino ad oggi, anche questa è rimasta lettera morta.

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Salone del piano nobile di Palazzo Besenghi, come appariva agli inizi del secolo scorso. A parte gli affreschi, restaurati nel dopoguerra, il resto dell’arredo è andato disperso.

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A.D. 1790 - La scuola isolana di merletti È grazie ad una recente pubblicazione della “Scuola dei corsi merletti di Gorizia” intitolata “Il Filo Spezzato - Da Isola d’Istria gli intrecci del passato si riallacciano al presente” che alcune notizie sulle fortune isolane del merletto veneziano non sono più un mistero. Il volume contiene un lunga storia illustrata assieme ad una ricca lista di documenti che l’autrice dei testi, Rosita d’Ercoli, ci propone in lettura, assieme ad alcune belle immagini di questi famosi merletti.

La classe del 1908 della scuola merletti di Isola.

Di seguito, riportiamo una breve sintesi tratta da uno scritto del 1981 dell’isolano Salvatore Perentin: Anche dopo la caduta di Venezia avvenuta nell’anno 1797, Isola continuò a rendere giustizia all’arte del merletto veneziano. Anzi è proprio nell’800 che nella cittadina costiera istriana, il merletto veneziano ritornò alla sua antica gloria per merito di un’artigiana, una certa Cencia Scarpariola, che aveva conservato presso di sé gli antichi modelli di carta che andavano fermati con spilli sul tombolo.

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Isola, peraltro, vantava l’abilità delle sue donne in tale arte con tutta una serie di punti, taluni dei quali sconosciuti persino a Venezia e a Burano.

La copertina del libro “Il filo spezzato - Da Isola d’Istria gli intrecci del passato si riallacciano al presente”, pubblicato a Gorizia nel 2012.

Questo lavoro casalingo a indirizzo artigianale fu tramandato nel corso degli anni fino a quando, grazie all’interessamento del parroco di Isola, si decise di migliorare e perfezionare questi lavori. Infatti mons. Giovanni Zamarin, verso il 1880, mandò una popolana isolana, Teresa Maria Vascotto, a frequentare un corso di perfezionamento del lavoro a fuselli a Vienna. Ritornata a Isola la signora, sempre su incarico di mons. Zamarin, aprì da noi una scuola di merletti veneziani su tombolo, inaugurata ufficialmente il 12 novembre 1882 nella ricorrenza del 25° anniversario del solenne ingresso di mons. Zamarin quale parroco di Isola. Questa scuola aveva sede nei locali del palazzo Besenghi, fino a quando fu trasferita in altra sede sempre in contrada Santa Caterina.

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Documento del 6 gennaio 1914 contenente il timbro della “Scuola professionale di Isola” tratto dal volume “Il filo spezzato. (A.S.T. prot. n. 777 del 27.02.2012).

Allora venivano eseguiti bellissimi lavori molto apprezzati e con disegni più vari, perlopiù su ordinazione. La scuola partecipò a numerose mostre, sempre a Vienna, meritando la medaglia d’argento e diversi diplomi per i bellissimi lavori ivi esposti. Le scolare frequentavano la scuola a tempo pieno, i lavori eseguiti venivano loro pagati, e così la scuola da artigianale divenne professionale.Accanto a questa scuola c’era però anche una sezione per principianti: queste giovani scolare frequentavano la scuola solo il giovedì, che allora era considerato festivo agli effetti dello studio e così queste ragazze potevano apprendere i primi elementi per il lavori sul tombolo.

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Timbro della scuola merletti di Isola all’inizio del secolo scorso.

Alla prima maestra se ne aggiunse ben presto una seconda, Agnese Tamaro in Degrassi. A lei subentrò poi la figlia, Pia Degrassi, che diresse la scuola sino allo scoppio della Grande Guerra, quando fu mandata per incarico a Leibnitz, in Austria. Per questo, naturalmente, la scuola venne chiusa. Essa riaprì i battenti nel 1920 al pianoterra della casa che chiamavamo “al Lido”, e più tardi in alcuni locali del Municipio. In tale data, maestra di questi corsi era la signorina Luigia Pugliese. All’apertura dei corsi integrativi, il lavoro a fuselli fu abbinato ad altra specie di lavori femminili. Dapprima la scuola dipendeva dal Commissariato della Venezia Giulia, mentre dal 1924 in poi la scuola passò sotto l’amministrazione dei Corsi Merletti di Gorizia. Nel 1936 poi la nostra scuola fu definitivamente chiusa e la maestra Luigia Pugliese trasferita ad Idria. Da allora nella nostra cittadina nessuno si dedicò più a questa bellissima arte.

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Originale di un merletto eseguito alla Scuola per merlettaie di Isola e conservato nella documentazione raccolta dalla Scuola di merletti di Gorizia.

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A.D. 1790 - El rato del Podestà Non credo siano molti gli Isolani che saprebbero spiegare a che cosa si riferisca il toponimo “rato del Podestà”, oppure a illustrarne l’origine ed il significato. Certo che, ai tempi quando nella nostra città il primo cittadino era rappresentato dal Podestà nominato dalla Serenissima, le vie di comunicazione lasciavano alquanto a desiderare. Basti pensare al tortuoso percorso che era necessario compiere per recarsi a Pirano, oppure più semplicemente a Strugnano: a cavallo di un asino, di un carro di “campagnòi”, oppure – trattandosi del Podestà – a bordo di una carrozza trainata da cavalli.

Il tratto di strada che tra Loreto e Marzanè veniva chiamato “el rato del podestà”.

Secondo alcune indicazioni presenti in un paio di testi, pare che il “rato del Podestà”, che sta a significare la “salita del podestà”, si riferisca al tratto di strada che dalla valle di Strugnano, nella zona di Marzanè, porta fino alla chiesetta di Loreto. Un tempo, quella strada tortuosa e tutta in salita, rappresentava l’unica possibilità per raggiungere Strugnano e da qui, poi, anche Pirano.

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“El rato del podestà” visto oggi dal satellite.

Perché “salita del podestà”? Sembra sia stato il podestà veneto Cristoforo Bonlini, insediato a Isola dal 1786 al 1789, cancelliere un certo Antonio Torre di Monfalcone, ad aver ordinato una sistemazione delle curve rendendole più sicure soprattutto durante i mesi invernali. Anzi, secondo alcune malelingue, la decisione di riparare a spese del Comune quel tratto di strada sembra venuta, dopo che sia stato proprio il podestà ad essere uscito di strada per la grande velocità con tanto di carrozza e cavalli.

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A.D. 1797 - Il patibolo per gli assassini del podestà Nicolò Pizzamano Note e ampiamente descritte, ormai, le vicende riguardanti l’insurrezione popolare di Isola del 5 giugno 1797 che portarono anche all’assassinio del podestà Nicolò Pizzamano. Meno noti, invece, gli eventi che accompagnarono il processo contro gli imputati e, in particolare, contro i due Isolani accusati di aver sparato al podestà. Presentiamo di seguito, alcuni stralci della sentenza (ma si era ormai in piena occupazione austriaca): In nome di sua Maestà Ces. Reg. Apostolica l’Imperatore Grazio-sissimo Protettore di questa Provincia, il Tribunale prov. di 2. da Instanza, procedendo con l’autorità impartitale da S. Ecc. Sig. Conte Commissario aulico, è divenuto alle seguenti Sentenze contro gl’infrascritti Rei. Zuane d’Udine q.m Nicolò detto Salmestrin Bastian Perentin di Balsemin d. to Bastianella imputati per quelli, che nella mattina 5 Giugno passato, sparsasi una voce nella Terra d’Isola, che fosse stata introdotta la Bandiera imperiale, di cui venivano imputati autori li Sig. ri Pietro Besengo, Giuseppe Moratti, Domenico Costanzo, Nicolò Drioli, e l’Eg. D.r Pare, con l’intelligenza, ed assenso del fu Podestà Pizzamano, nascesse una universale insurrezione, e quindi fatte addossare le militari divise ad alcuni erano soldati Reclute, comparissero questi armati sopra la pubblica Piazza, e quindi salite da rivoltosi le scale del Palazzo di detto Sig.r Pizzamano, aprissero forzatamente le Porte, che erano state chiuse al primo scoppio dell’insurrezione (…) Continuando quindi li mali trattamenti verso l’infelice fu Pizzamano lo riduccessero necessità di fuggire da quella abitazione, dirigendo stentatamente i suoi passi verso la casa Moratti, inseguito da osservabile numero de rivoltosi, che non cessavano di menargli de’ pugni, e delle boccate di Schioppo, gli venisse praticato contro lo sparo della propria arma senza colpirlo, dall’inquisito Zuanne d’Udine, che gli dimenasse poscia tante percosse con l’arma medesima per la vita, che la rompesse in due pezzi, ed afferratosi l’infelice con una mano alla porta della Casa Moratti per non potersi più reggere, gli chiedesse la vita per carità, ma continuando nel furente ingiusto livore, ordinasse l’inquisito d’Udine, all’altro inquisito Ba-

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Isolani davanti a casa Contesini di fronte alla Chiesa di S. Maria d’Alieto

stian Perentin detto Bastianella di privarlo di vita, cosicché con un colpo di schioppo esoneratogli contro lo riducesse cadavere, fatti tutti comprovati dal detto di più giurati testimonj, che però esaminate le colpe di essi inquisiti, ha il Tribunale medesimo decretato, sentenziato, e pronunciato, che Zuanne d’Udine detto Salmestrin q.m Niccolò, e Bastian Perentin de Balsemin, detto Bastianella, absenti, ma legittimamente citati in qualunque tempo caderanno nelle Forze della Giustizia siano tradotti nella Terra d’Isola, ed ivi sopra un paio di eminenti Forche impiccati per le canne della gola sicché muoiano, le quali forche dovranno essere immediatamente erette doppo la pubblicazione della presente sentenza, ed alle stesse appesi i nomi delli predetti sentenziati, Zuanne d’Udine, e Bastian Perentin, e queste in Lettere cubitali, onde siano alla vista di cadauno.

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Fotomontaggio con la presenza simbolica di due forche innalzate di fronte al Municipio in Piazza Grande, in attesa, come recitava la sentenza, che i due condannati in contumacia venissero catturati e immediatamente “impiccati per le canne della gola sicché muoiano”.

A dire il vero, dai documenti a disposizione è accertato che i due assassini non sono mai stati catturati, né dagli atti processuali è dato vedere se alla fine le due forche sono state effettivamente costruite né, nel caso lo fossero state, per quanto tempo sono state lasciate in attesa della loro cattura.

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A.D. 1811 - La dote dei preti Isolani ai tempi di Napoleone Circa due secoli fa, nel 1811, quando Isola apparteneva al Regno d’Italia e Napoleone Primo ne era il Re, i nostri concittadini Antonio Vascotto, Bortolo Costanzo, Antonio Carboncich e Giovanni Delise decisero di diventare preti. Avevano già frequentato il biennio del Convitto del Seminario vescovile di Capodistria, come si rileva da uno dei tanti certificati conservati in una cartella dell’ Archivio di Stato di Trieste, (Fondo del Cesareo Regio Governo per il Litorale, b. 1347). Per poter accedere al Subdiaconato e successivamente diventare Sacerdoti per legge essi dovevano disporre di un certo patrimonio, una specie di dote onde poter con decenza mantenersi nella Carriera, come recita uno degli Atti notarili. Riproduciamo di seguito parte del contratto notarile, fornitoci dall’amico Ferruccio Delise dopo una ricerca all’Archivio triestino, e che si riferisce a Prè Antonio Vascotto al quale i famigliari ascrivono parte delle proprietà di famiglia:

Paramenti sacri appartenenti a preti d’anteguerra e conservati nella Chiesa di San Mauro.

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Provincie Illiriche - Napoleone Primo per la Iddio Grazia, e per le costituzioni Imperatore de’ Francesi, e Rè di Italia a tutti li presenti e venturi salute. Adi dieci Geñaro milleottocento undici giorno di Giovedi nella Comune di Isola Dipartimento di Istria, Regnando Napoleone Primo Imperatore de’ Francesi, e Rè di Italia. Costituiti personalmente negli Atti di me Nodaro, ed alla presenza dei scritti Testimonj li Marco e Catterina jugali Vascotto quondam Antonio agricoltori di condizione, domiciliati qui in Isola, e da me Nodaro pienamente conosciuti, i quali in derivazione all’aspiro prossimo a cui tende il Religioso di loro Figlio Prè Antonio di essersi promesso all’ordine del Subdiaconato, per quindi passare a quello del Diaconato, e poscia al Sacerdozio, e dovendosi quindi provederlo di un assegno Patrimoniale a sensi delle Leggi Canoniche, e delle Sinodali prescrizioni, onde possa egli decorosamente mantenersi nel pio suo Religioso instituto, assegnano gli infrascritti fondi di Città, e Campagna risultanti al valore in pieno di Italiane lire duemila duecento conquantaquattro Cmi diecisette, come ciò dimostra le unite due perizie l’una di data due 2 Geñaro milleottocentoundici del Proto Nicolò Zanon Perito Muraro; l’altra delli trentauno Decembre passato milleottocentodieci del Perito di Campagna Antonio Russignan quondam Marco, quali perizie resteranno presso di me Nodaro custodite, e conservate in unione alla presente matrice e sono li seguenti fondi, cioè una Camera in secondo piano, esistente nella Casa di abitazione di detti costituenti jugali Vascotto, situata in questa Comune nella Contrada de’ Forni per prezzo di Italiane lire settecento quindici C.mi 32. Più un stabile di Campagna in Contrada di Lavorè di questo Territorio con entro Olivi numero centocinque N.° 105, Viti a palo numero centocinquantasei N.° 156, Viti basse numero duecentoquarantasette N.° 247, per il prezzo di Italiane lire milleduecento ottantadue Centesimi ottantanove sei 4. L 1282 89/100 sei/4 e l’assegno sopradetto intendono li costituenti accennati abbia questo di servire per il mantenimento del Religioso loro Figlio del quale hanno esperiti li saggi più veraci della di lui inclinazione al Sacerdozio, che Iddio secondi con benedizione, e contento. Li Comparenti Vascotto inoltre dichiarano, che l’assegno pre-

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Antica ampolla d’argento contenente sacre reliquie conservata nel Duomo di Isola.

detto nelli fondi indicati non sia collusorio, né fittizio, e siano questi liberi da qualunque gravezza, od ipoteca, e ciò sia fatto a Fede di Iddio Signore, a pieno conforto delle Parti, e per benedizione della Famiglia. Promettendo inoltre li jugali predetti di manutenzione, e difesa in caso di qualsivoglia molestia, o evizione sotto obbligazione de’ proprj Beni in formar. Da me Giuseppe Moratti quondam Giovanni Pubblico Nodaro nella Comune d’Isola, Dipartimento d’Istria, fù scritto, rogato, stipulato, ed a chiara intelligenza delle Parti, e de’ Testimonj fu quindi letto, e publicato in detta Comune alle ore quattro della sera, nello solito studio, e Casa di abitazione di me infrascritto Nodaro, posta nella Contrada di mezzo, avendo servito di Testimonj li Don Giacomo Canonico Lugnani quondam Antonio, e Don Filippo Zaro quondam Antonio ex Cappucino, i quali si sottoscrissero unitamente a me Nodaro, dicendo le Parti comparenti di non poter sottoscriversi per non sapere.

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Io Don Giacomo Lugnani Can.co fui presente Testimonio. Io Don Filippo Zaro fui presente Testimonio. Giuseppe Moratti q.m Giovanni Publico Nodaro hà rogato. Capodistria li 14 Geñaro 1811 - . Registrato in Libro del Registro della sezione quinta al N.° 53 e pagato il diritto con Franchi trè C.mi 84, come da Boletta di data odierna pari al N.° 53 dico --- Franchi 3 : 84. De Rin Conservator

Ritratto di don Muiesan, uno degli ultimi parroci isolani a cavallo tra il XIX ed il XX secolo.

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A.D. 1829 - Le terme di San Pietro L’acqua de òvi Che Isola possa vantare da sempre sorgenti di acqua termale sulfurea che, in certe zone, fanno ribollire la superficie del mare non è una novità, tanto che, ancora nella prima metà del secolo scorso, il caratteristico odore aveva indotto gli abitanti a chiamarla “acqua de òvi”. Oggi, con Isola votata all’industria dell’ospitalità, si sta pensando di riportare nuovamente in vita l’idea con la quale, un paio di secoli fa, l’abate Bartolomeo Vascotto fece inaugurare degli stabilimenti termali nella zona di San Pietro.

Vecchia immagine di Isola pubblicata come pubblicità per l’apertura delle Terme sulfuree di San Pietro a Isola nel 1829.

Infatti, come informava un manifesto dell’epoca, l’inaugurazione avrebbe dovuto svolgersi il 24 maggio 1829, con un notevole ritardo sull’annunciata apertura prevista inizialmente per il 6 giugno del 1824. Il Discorso pronunciato per la celebrata inaugurazione della nuova bagni minerali di S. P. in Isola seguita li 6 giugno 1824 con la solenne esposizione dell’Augusta Immagine di Sua l. R. Maestà Francesco I”, venne tenuto dal patrizio triestino Antonio de’ Giulia-

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ni, incaricato degli affari commerciali della Città e del P.to Franco di Trieste. Fra l’altro, il de’ Giuliani, rilevò che “nel mentre che Trieste s’incammina a divenire una Città destinata a rimpiazzare la superba sua rivale... la fortuna volse favorire questa quasi ignota città d’Isola con la recente scoperta di nuove acque termali. L’opinione, la fama di questi nuovi Bagni termali, ormai confermata da felici successi, contribuiranno a toglierla dalla sua oscurità. Tutto sembra anunziare che questo picciolo ignoto paese vedrassi in breve più animato, sparirà il suo languore, e le sue sorgenti salutari diverranno altresì le sorgenti del bene generale di questa popolazione. L’oratore, ci tenne ancora a ribadire che “un bollimento nel mare che si rendeva visibile in tempo di bassa marea, diede motivo alla scoperta di acque minerali, che assoggettate alla analisi dei fisici e protomedici, furono aggiudicate confacenti alla guarigione di varie malattie. Alla fine del XIX secolo, nella sua “Storia di Isola ed i suoi Statuti”, lo storico Luigi Morteani ricorda che i bagni termali, aperti per cura del prete Vascotto, il quale fece analizzare quelle acque sulfuree e persuase i cittadini all’erezione del primo stabilimento che non era altro che una rozza tettoia con dieci stanzine ed altrettante vasche. Oggidì - scrive il Morteani nel 1888 - non esiste più nulla. L’interno del luogo è ripieno di spessissime case di varia grandezza secondo la ricchezza degli abitatori, con vie strette con volti ed androne proprie di tutte le città venete. Non ha ritenuto necessario sottolineare che il modesto impianto termale è stato venduto a imprenditori francesi che, già nel 1881 vi costruirono la prima fabbrica per la conservazione del pesce di Isola.

La zona di San Pietro, dove erano state costruite le terme, poi sede dell’Industria Alimentare Francese.

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L’avviso pubblicato dall’abate Bartolomeo Vascotto, con cui annunciava l’apertura dei bagni termali, pur se con notevole ritardo sul previsto. Infatti, le Terme avrebbero dovuto venir inaugurate già nel 1824.

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A.D.1842 - Domenico Lovisato, garibaldino e scienziato Domenico Lovisato, matematico e geologo di fama internazionale, nonché patriota isolano e istriano. nacque ad Isola il 12 agosto del 1842 da modesta famiglia. Studente di grande talento, acceso irredentista, fu protagonista di clamorose manifestazioni di protesta contro la polizia austriaca, fu processato, incarcerato e condannato al confino più volte. Nel 1866 si arruolò al seguito di Garibaldi per combattere in Trentino e per la liberazione della Venezia Euganea.

Domenico Lovisato negli anni della maturità, professore all’Università di Cagliari.

L’interesse scientifico e la forte tempra fisica lo portarono, nel 1881, a partecipare all’importante spedizione di Giacomo Bove in Patagonia e nella Terra del Fuoco, dove fece eccezionali scoperte. Nel 1884 fu nominato ordinario di geologia e mineralogia presso l’università di Cagliari. La permanenza in Sardegna e gli interessi scientifici non spensero però il suo amore per la terra natale ed i sentimenti antiaustriaci, che indussero lo stesso a definirsi, proprio in riferimento al suo legame con l’Eroe dei due Mondi, “un coraggioso “avanzo di camicia rossa”.

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Domenico Lovisato morì il 23 febbraio del 1916 a Cagliari, dove il “Museo di Mineralogia” porta ancora oggi il suo nome. A Isola, nel 1922, per ricordare la sua scomparsa e per il legame personale con Giuseppe Garibaldi, gli venne dedicata una lapide che in presenza della cittadinanza, era stata scoperta sulla facciata della casa natale.

La piazza antistante la casa natale di Domenico Lovisato durante la cerimonia di scoprimento della lapide nel 100.esimo anniversario di Giuseppe Garibaldi.

Nel 1953 la lapide venne tolta senza alcuna spiegazione e, probabilmente, distrutta.. Nel 200.esimo anniversario della nascita di Giuseppe Garibaldi, su iniziativa della Comunità Italiana di Isola, nel corso di una significativa cerimonia, una lapide identica a quella originale, è stata nuovamente collocata sulla facciata della casa natale di Domenico Lovisato.

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NATO IN QUESTA CASA AVITA ADDÌ XII AGOSTO MDCCCXLII MORTO IN CAGLIARI IL XXII FEBBRAIO MCMXVI DOMENICO LOVISATO MATEMATICO E GEOLOGO IL NOME ISTRIANO ONORÒ NELLE CATTEDRE UNIVERSITARIE E SUI CAMPI DI BATTAGLIA CON GARIBALDI CHE L’EBBE CARISSIMO ADDÌ XX SETTEMBRE MCMXXII POSERO I CITTADINI

Nel 200.esimo anniversario della nascita di Giuseppe Garibaldi, la Comunità Italiana di Isola ha fatto ricollocare la lapide a Domenico Lovisato, dopo che, negli anni ’50 del secolo scorso, era stata divelta dal potere popolare.

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A.D. 1857 - Versi del Besenghi in omaggio a don Antonio Zamarin Nonostante una piccola ricerca riguardante la parrocchia isolana verso la metà del XIX secolo, non siamo riusciti a scoprire chi fosse il personaggio, certamente isolano, che, firmandosi soltanto con le iniziali C.C., volle salutare la nomina di don Giovanni Zamarin a parroco di Isola con una iniziativa tutta particolare.

Ritratto del parroco di Isola Mons. Antonio Zamarin.

Con un opuscolo, rintracciato presso la Biblioteca Civica di Trieste e datato 8 Novembre 1857, C.C. dedica “al Reverendo Don Giovanni Zamarini – novello Parroco di Isola”, una poesia scritta nel 1831 da Pasquale Besenghi degli Ughi per un altro parroco. La dedica è quanto mai eloquente: “A Domenico Brovedani – eletto Parroco di Bagnarola – Canzone di Pasquale Besenghi degli Ughi”. Interessante, che in un documento a parte, viene allegata una lettera autografa del Besenghi al parroco di Isola, don Antonio Carboncich, pervenuta al destinatario il dieci di luglio 1849, e consegnata tramite la Farmacia Bondolini.

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Lettera autografa del poeta Pasquale Besenghi indirizzata al parroco di Isola don Antonio Carboncich nel 1849.

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In quella missiva, il Besenghi chiedeva di esser ascoltato in confessione, probabilmente presago della prossima fine. Infatti morì il 24 settembre del 1849 di colera che da mesi incombeva a Trieste A parte pubblichiamo la copertina dell’opuscolo, la lettera autografa del Besenghi e il testo della dedica a Mons. Zamarin nonchéalcune strofe della poesia al Parroco di Bagnarola, Domenico Brovedani. AL REVERENDO D. GIOVANNI ZAMARINI Nella solenne occasione del Vostro ingresso alla parrocchia d’Isola, bramava darvi pubblica testimonianza della stima che vi professo; né giudicai disacconcia la ristampa di alcuni cenni intorno ad Isola, i quali trovansi sparsi nei volumi dell’ Istria, vasto archivio provinciale dischiuso alla scienza dall’ amor patrio e dalla erudizione del ch. Dr. Kandler. Dalle iniziali sottoposte a qualche brano, lo comprenderete dettato dall’uomo rispettabile ch’è onor vivente d’Isola sua patria, riverito da tutti, carissimo al Vostro cuore, ed al mio. E siccome ognorachési tratti d’Isola, il mio pensiero non può non ricorrere a Pascale Besenghi degli Ughi che vi ebbe la culla, ed al quale mi legavano vincoli di fratellevole domestichezza, volontieri qui ripeto la Canzone che fin dal 1831 ei pubblicava per novello parroco, suo amico, A ciò fare sono indotto dalla analogia della circostanza, e dalla dipintura fedele che quell’ anima sdegnosa e travagliata vi dà di se stessa, che unicamente nel porto della religione scorgeva calma e rifugio. Besenghi aveva, allora 34 anni; ed immutabilmente serbò fino alla morte, che avvenne il 24 Settembre 1849, le credenze e le pratiche della cattolica chiesa; ne fa prova, solenne la lettera. ch’ei dirigeva quattordici giorni pria dì morire, ma sendo sano, al suo confessore ordinario Don Antonio Garboncich, pio sacerdote vìvente, che gli fu amico sin dall’infanzia. Né Voi, reverendo Don Giovanni Zamarini, potreste meglio inaugurare i primordii del santo ministero al quale siete chiamato dal voto unanime degli Isolani, che redimendo dalla calunnia la fama cristiana di quel potente ingegno. Se tuttora siamo, pur troppo, costretti a deplorare la misteriosa scomparsa delle opere sue maggiori, e particolarmente quella della sua Storia del Friuli sotto i patriarchi, ci resti il conforto di sapere ch’ei visse e morì, non da filosofo moderno, ma da cristiano. Egli è perciò che Vi mando il facsimile di quel viglietto prezioso. Vivete felice. C. C.

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Ritratto del mpoeta isolano Pasquale Besenghi degli Ughi.

A DOMENICO B R O V E D A N I ELETTO PARROCO DI BAGNAROLA. DI PASCALE BESENGHI DEGLI UGHI (1831). Che è mai la vita? un giorno Nubilo, breve e freddo; Una notte privata D’ogni pianeta sotto pover cielo; Un di gonfie e funeste onde torrente, Di cui non trovi ‘1 guado; Una inculta deserta orrida riva; Una selva oscurissima e selvaggia . . . Beato è ehi non nasce, O, nato appena, muor entro le fasce!

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Copertina dell’opuscolo dedicato a don Antonio Zamarin, “novello parroco di Isola”.

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(...) I miei giorni com’ombra Passarono, e com’erba, Che al mattino fiorisce E in su la sera si dissecca, io sparvi. Ramingo, oscuro e sconsolato io vissi , Chéi duri tempi e ’l fato Non consentir (cosi mi furo avversi) Che il mìo nome di bella, itala gloria S’infuturasse: guerra Mi farà l’età avara anche sotterra. E allor quando la squilla Chiamerà alcun de’ tuoi All’ultima quiete; Io ti vedrò benigno Àngiol di pace D’infra gli sparsi cumuli e le croci: E le congiunte a Dio Palme innalzando, t’udrò dir: Tu all’uomo Desti compagna la sventura: ah fine Abbian qui le sue pene: Tu ’1 desta a più felici ore serene.

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A.D. 1881 - La rivoluzione industriale La prima fabbrica per la conservazione del pesce sorse a Isola nel 1881 (20 gennaio 1881) nell’area dove prima esisteva uno stabilimento di bagni termali. La zona ancora oggi viene ricordata per le sue sorgenti di acque sulfuree che gli Isolani, per l’odore che emanavano chiamavano aqua de òvi, e che venivano sfruttate, per la verità senza troppo successo, a scopo terapeutico.

La fabbrica della “Societe Generale Française des Conserves Alimentaires” sorta sullo Scoglio di San Pietro, dove pochi decenni prima esistevano le strutture dei Bagni termali.

Il conservificio venne costruito su iniziativa della neocostituita “Societe Generale Française des Conserves Alimentaires”, che aveva sede a Parigi e una sua rappresentanza a Trieste. Proprio per questo, la fabbrica veniva definita dagli Isolani “dei francesi”, oppure, per il luogo dove era stata aperta, “ai bagni”. Dopo la prima Guerra Mondiale cambiò proprietari e denominazioni. Ancora oggi è conosciuta soprattutto come “Ampelea”. Per un periodo, oltre alla lavorazione del pesce, produsse anche carne in scatola (soprattutto durante la seconda Guerra Mondiale per le

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necessità dell’esercito) e qualcuno degli Isolani più anziano ricorda ancora el vecio masèlo, il macello situato a San Piero, nelle vicinanze della fabbrica.

La fabbrica “Warhanek”, poi diventata “Arrigoni”. Sulla sinistra la chiesetta di San Rocco, sulla destra gli impianti turistici di “Porto Apollo”.

L’altra fabbrica per la conservazione del pesce che sorse poco tempo dopo a Isola fu per opera degli austriaci Warchanek, che costruirono il proprio stabilimento subito dopo la chiesetta di San Rocco, sulla strada che da Fontana Fora porta a San Simon. Anche in questo caso la sua collocazione territoriale contribuì a farla ricordare dagli Isolani come la fabrica de San Rocco, prima di attecchire definitivamente con il nome di “Arrigoni”. Alla fine della Grande Guerra la Warchanek cedette la fabbrica al triestino Giorgio Sanguinetti, che usò la ragione sociale di un’azienda acquistata in Liguria da un piccolo industriale: Gaspare Arrigoni. È naturale che il rapido successo registrato dai conservifici invogliasse anche altri a intraprendere la strada dell’imprenditoria. Così verso la fine del 1800 nacque un’altra fabbrica di pesce conservato per opera dell’Isolano Giovanni Degrassi. Situata anche questa tra Fontana Fora e il mare nell’area che prima era occupata dalle saline. La vicinanza del mare, ovviamente, era necessaria per facilitare

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Interno della fabbrica “Ampelea� con gli operai sorvegliati da un militare.

Le fabbrichine al lavoro: altro che catena di montaggio!

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il rifornimento di materia prima: il pesce. Anche questa fabbrica resistette fino allo scoppio della Grande Guerra, poi, nel 1919 venne rilevata dal marchese romano Luigi Torregiani. Infine venne incorporata dalla sempre più grande e importante Ampelea. Pure un altro Isolano tentò la grande avventura della conservazione del pesce. Nel 1924 Nicolò Delise inaugurò la sua più modesta fabbrica in via A. Volta. Lo stabilimento a conduzione familiare si distinse subito per la qualità delle sardine sott’olio e per i filetti di pesce salato. Tuttavia, dopo la morte del fondatore gli eredi non riuscirono a far fronte ai giganti del settore e la fabbrica finì per essere assorbita dall’Ampelea che per un certo periodo mantenne ancora in vita il marchio “N.Delise & Figli” per accontentare i numerosi clienti. I conservifici si assicuravano il rifornimento della materia prima per la loro attività stipulando contratti annuali con i pescatori isolani che avevano l’obbligo di cedere tutto il pescato. Il sistema, però, si dimostrò inefficace soprattutto con il continuo aumento delle necessità, in quanto era praticamente impossibile evitare che una parte consistente del pescato dirottasse sul mercato libero, in particolare a Trieste e a Capodistria. Di conseguenza, l’Arrigoni e l’Ampelea decisero di costruire e gestire in proprio delle flotte pescherecce che avrebbero assicurato stabilità nei prezzi e nell’approvvigionamento. Armarono una trentina di moderni barche attrezzate per la cattura del pesce azzurro, ciascuna con un equipaggio di 8-10 persone guidate da un “capobarca”. Nel 1938 l’Arrigoni rilevò addirittura un’intera flottiglia per la pesca del tonnetto, composta da una decina di pescherecci a vapore di 400 t. di stazza, che rimasero per anni a Isola con i loro caratteristici nomi di “Grongo”, “Cernia”, “Dentice”, ecc. Secondo alcuni dati pubblicati dallo storico Luigi Morteani, l’industria conserviera isolana produsse già nei primi anni di attività quantità ragguardevoli di scatole di pesce conservato. Così, nel 1887, la Warhanek confezionò 435.600 scatole, la Società francese Roullet & Comp. 470.936, mentre la più giovane, la Degrassi 180.000. Il giornale locale “La Provincia” che veniva pubblicato a Capodistria, il 16 ottobre 1887 pubblicò la notizia secondo cui la Roullet aveva costruito un impianto per la preparazione del guano con le teste delle sardelle, il cui interno era ripartito in fosse cementate staccate dalla fabbrica stessa. Le teste venivano stratificate con calce

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viva, e dopo due mesi con segatura di legno e con acido solforico. Il prodotto veniva venduto ad un agricoltore di Vienna. Anche la fabbrica di C. Warhanek iniziò la produzione di concime dalle teste del pesce gettandole in una fossa e mescolandole con calce.

La flotta dell’Ampelea prima di esser confiscata dal potere popolare nel 1947.

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A.D. 1883 - Il Cimitero storico di Callelarga La storia del cimitero di Isola, o meglio dei cimiteri che hanno preceduto l’attuale, è alquanto lunga e, per quanto modesta, interessante. Sulla base di documenti conservati sia all’Archivio regionale di Capodistria che presso la Sovrintendenza ai beni culturali di Pirano, Isola, come buona parte delle località in Europa, nel medio evo era solita seppellire i propri defunti nello spazio adiacente la Chiesa di San Mauro e, ma valeva soltanto per i più abbienti, anche all’interno del Duomo.

Proposta di ampliamento del cimitero situato a Punta Gallo agli inizi del XIX secolo.

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A partire dal 1643, al tempo del parroco Marino Contesini, il cimitero venne spostato a Punta Gallo, occupandone praticamente tutta la superficie. Il nuovo sito si mantenne per circa due secoli e mezzo, tanto che nel 1820 si stavano preparando dei progetti di riassestamento e di ammodernamento, che soltanto in minima parte vennero anche realizzati. Da uno schizzo del 1921 è visibile la proposta di suddividere il cimitero in più settori e di collegare la zona al Duomo con una strada migliore di quella esistente. Il progetto non venne portato a termine in quanto, ad un certo punto si preferì trasferirlo, visto che le mareggiate avevano incominciato ad erodere il terreno. Si decise la traslazione delle tombe nell’area alle spalle del “primo ponte”, sul terreno denominato “Cavo dei fossi”, ma - come risulta da documenti della parrocchia isolana - allora conosciuto anche come “Callelarga”. Per realizzare il trasferimento, fu necessario un accordo tra il podestà ed i proprietari dei terreni. Tra i nomi che figurano, oltre a quello del parroco Lugnani, alcuni Degrassi, un Perentin ed un non meglio identificato Besenghi. Perito Domenico Russignan.

Tomba dei Tamaro che risulta essere tra i sepolcri più antichi del cimitero storico di Callelarga a Isola.

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Il nuovo cimitero venne inaugurato il giorno dei Santi, 2 novembre 1883. A quell’anno risale anche l’edificio che rappresenta l’entrata del Cimitero e che comprende pure la camera mortuaria, anche se questa venne formalmente inaugurata appena due anni più tardi, visto che non si era riusciti in tempo a realizzare il portone d’ingresso. La cappella dedicata, come da tradizione a San Michele, venne innalzata al centro del camposanto ed ultimata il 7 maggio del 1886. A consacrarla è stato il vescovo Glavina il 29 giugno del 1887. Da ricordare, che una piccola cappella dedicata a San Michele esisteva già nel cimitero di Punta Gallo, in quanto è noto che l’arcangelo S. Michele è per tradizione il Santo che accompagna le anime alla vita eterna. Il nuovo cimitero mantenne la sua forma e dimensione originaria fino ai primi anni ’60 del secolo scorso. Venne progettato come la maggior parte dei cimiteri istriani e ultimato appena nel 1929, impreziosito dalla presenza di alti e poderosi cipressi sempreverdi lungo i viali che attraversano il sito. Progetti di ampliamento e di ristrutturazione preparati dal tecnico comunale Ettore Longo risalgono al 1944, ma, causa le note vicende che coinvolsero tutto il territorio alla fine della Seconda Guerra Mondiale, non vennero mai realizzati. Il cimitero è situato a est del centro storico di Isola, lungo la strada che collega la città a Capodistria e che ormai pochi Isolani ricordano essere la strada che passava sul “primo ponte”. Questa parte del cimitero rappresenta un’importante testimonianza storica della popolazione isolana degli ultimi due secoli, anche se - soprattutto nell’ultimo mezzo secolo - molte di queste testimonianze (lapidi ed epitaffi) sono andate perdute. Proprio per questi motivi il Consiglio Comunale di Isola, su iniziativa dei consiglieri italiani, approvò qualche anno fa all’unanimità un Decreto che proclama il Cimitero monumento storico e culturale cittadino assicurando la necessaria tutela per conservare ai posteri un importante documento della storia isolana.

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Pianta del cimitero storico di Isola tutelato dal Decreto comunale che lo proclama monumento culturale di interesse cittadino. La colorazione delle singole tombe stanno a designare il grado di tutela cui sono sottoposte.

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A.D. 1893 - Il pontile d’approdo

Il pontile d’approdo di Isola, oggi chiamato “Molo Doganale”, come risulta da una fotografia di fine XIX secolo, prima della sua ricostruzione in pietra e cemento.

Esiste una vecchia fotografia del pontile d’approdo di Isola risalente agli ultimi anni del XIX secolo, dove si vede che si trattava ancora di una costruzione in legno abbastanza malandata. In base a documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Trieste risulta che nel 1883 a Isola non esisteva ancora un molo costruito in pietra dove potessero approdare i piroscafi ed i velieri che arrivavano o partivano da questa località. Dal lontano 1326, quando per ordine del podestà Giorgio Contarini, venne costruito il mandracchio e ad accogliere le imbarcazioni esisteva un pontile di legno che veniva spesso danneggiato dalle intemperie, ma che, come raccontano i documenti, finiva anche come bottino di ladri di legname. Con la nascita e lo sviluppo dell’industria conserviera, naturalmente, aumentò anche la necessità di offrire spazio e sicurezza ai mezzi di trasporto marittimi. Una prima richiesta in merito, rivolta al Governo marittimo austriaco di Trieste, venne inviata dall’Agenzia di porto e sanitaria marittima di Isola il 18 marzo 1883.

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Progetto del 1878 per la ricostruzione del molo d’approdo di Isola.

Il nuovo molo di Isola, soprattutto dopo che ebbe inizio l’approdo dei primi vaporetti che facevano linea tra Isola Capodistria e Trieste, era diventato un vero e proprio salotto per gli Isolani che, alle ore previste per l’arrivo dei piroscafi, soprattutto al pomeriggio, accorrevano per vedere chi arriva, ma anche per sentire qualche nuova.

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Il molo, finalmente in pietra, venne completato appena nel 1893. Un suo successivo ampliamento e allungamento venne realizzato nel 1903. Da allora divenne uno dei punti d’incontro quotidiani favoriti di una buona parte della popolazione isolana, come sempre curiosa di vedere chi arrivava e chi partiva.

Ben presto il molo divenne il principale punto di imbarco e di sbarco per tutti coloro che commerciavano con la vicina Trieste. Oltre ai prodotti delle locali fabbriche numerose soprattutto le presenze dei contadini che portavano ortaggi freschi sul mercato triestino.

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A.D. 1895 - Il Gabinetto operaio di lettura Isola non gode di una ricca storia delle proprie biblioteche, né pubbliche né private o religiose, paragonabile, per esempio, a quella ben più consistente della vicina Capodistria. Si ha notizia di piccoli fondi librari dei quali, col tempo, non si conosce la fine. Esisteva certamente una importante biblioteca privata del poeta e nobile Pasquale Besenghi degli Ughi, per la quale però è ormai accertato sia andata dispersa, in parte naufragata in fondo al mare durante un tragitto da Venezia a Trieste, in parte entrata a far parte di altri fondi librari di intellettuali triestini, dopo che in precedenza avevano seguito il poeta nel suo peregrinare da una città all’altra.

La prima pagina dello Statuto del “Gabinetto Operaio di Lettura” del 1895, che rappresentò il punto di partenza per la fondazione della prima biblioteca pubblica di Isola nel 1902.

Una prima sala di lettura popolare a Isola venne costituita il 12 aprile 1895 con il nome di Gabinetto operaio di lettura. Nel volumetto “Breve storia del movimento socialista isolano narrata al popolo dal compagno G. Vascotto” pubblicato nel 1914 e contenente il discorso per la “Solenne inaugurazione della nuova, seconda Casa del Popolo”, l’autore scrive testualmente:

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Si fù appunto nell ’aprile - nella dolce stagione, in cui natura scuote di dosso il gelido torpore del verno e nell ’armonia dei colori e dei canti si risveglia a novella rigogliosa e splendida vita fu a di 12 aprile del 1895, epoca memoranda da vero, che in Isola si istituì per la prima volta un Gabinetto operaio di lettura. Nobile ne era lo scopo: riunire in un fascio operai e agricoltori e, attenuando ogni stridore di tinte politiche, fondendole anzi tutte in quella spiccante della religione, promuoverne l’elevamento intellettuale e morale. Vi s’inscrissero allora settanta soci. Raccolti entro le tranquille pareti del loro Gabinetto, leggendo questo e quel giornale, questa e quella rivista, i lavoratori andavano acquistando sempre maggiore interesse alla lettura e, fra sé meditando e fra loro intrattenendosi su quanto avevano letto, allargavano man mano la cerchia delle loro cognizioni e snebbiavano la mente da molti e inveterati pregiudizi. I libri, che fino a quel momento stavano rinchiusi in alcune biblioteche private, come quella del parroco o quella della famiglia Besenghi o quelle abbastanza povere di volumi delle singole congregazioni religiose, incominciano a circolare ed a trovarsi anche nelle mani dei cittadini isolani. Ma quello che è ancora più importante, finalmente una parte della popolazione isolana incomincia a leggere, e legge anche i giornali. Entrano - di conseguenza - nel mondo della cultura e della politica. E fu all’interno del Gabinetto operaio di lettura che prese piede l’idea di dare finalmente vita ad una vera e propria biblioteca aperta al pubblico.

Timbro della “Biblioteca Circulante Popolare”, il primo di una serie di timbri che segnarono il percorso delle biblioteche italiane di Isola di durante tutto il ventesimo secolo.

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Scrive il Vascotto: Per iniziativa del Gabinetto operaio di lettura, un comitato promotore di quindici membri lancia in data 4 febbraio 1902 un caldo appello fra le persone e gli enti tutti, a cui dovrebbe stare a cuore la coltura del popolo, e ne chiede l’ausilio: vogliamo concorrere con oblazioni sia di denaro sia di libri ali ’opera eminentemente civile e morale dell’istituzione di una Biblioteca popolare circolante in Isola. Inoltre il Gabinetto stesso offre al comitato l’appoggio che può, stanziando all’uopo nel suo non lauto bilancio una piccola somma annua e mettendo a disposizione della novella istituzione i propri locali, a patto che fra i lettori sieno annoverati anche i suoi soci. Molti volonterosi rispondono all’appello: il comune isolano - podestà Eugenio Marchetti, girella come il suo predecessore contribuisce al nobile scopo con dieci corone e qualche libro antiquato; la direzione centrale della Lega Nazionale con ventiquattro volumi; il parroco Francesco Muiesan con nulla. La biblioteca, provvista così, oltre che dell’enciclopedia del Vallardi, di altri cinquecento libri, si stabilisce nel Gabinetto ed è aperta al pubblico dal 22 di giugno di detto anno. 1 soci, compresi quelli del gabinetto, ammontano a duecento.

Cartolina illustrata del 1902 pubblicata a Isola per celebrare l’inaugurazione della “Biblioteca Popolare Circulante” che venne aperta al pubblico il 22 giugno del 1902.

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Probabilmente con ragione il G. Vascotto pone in rilievo anche nella pagine successive, l’importanza che dapprima il Gabinetto Operaio di lettura e successivamente la Biblioteca popolare circolante ebbero per tutta la nostra cittadina. Allora - ribadì nel 1914, alla vigilia dello scoppio della Grande Guerra, il nostro concittadino e connazionale - non più patria dalle frontiere contestate, non più animosità nazionali, non più eserciti pronti a fraternamente sgozzarsi, non più intolleranze di religioni e persecuzioni settarie, non più esoso capitalismo monopolista affamatore, sfruttatori e sfruttati non più. Ma gli uomini tutti saranno cittadini del mondo; loro patriottismo la fratellanza universale; loro religione l’amor del prossimo.

Immagine di pescatori istriani tratta da uno dei 15 volumi dell’Enciclopedia Universale Illustrata Vallardi pubblicata a Milano nel 1890 e che alla voce “Isola” scrive: “Borgo italiano dell’Austria-Ungheria, in provincia del Litorale, nell’Istria, a 6 km. O. da Capo d’Istria con 5600 ab. comprese parecchie frazioni. È costruito ad anfiteatro sulle rocce calcari della costa meridionale del golfo di Trieste e possiede una sorgente termale solforosa.”

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Negli anni ’50, dopo varie vicissitudini che rischiavano di comprometterla, a Isola venne istituita anche la “Biblioteca Besenghi” che viene collegata alla sede tradizionale di Palazzo Besenghi, non solo per il nome, ma anche perché fa riferimento ad uno dei più grandi poeti istrani, Pasquale Besenghi degli Ughi. Il fondo, sempre custodito a Palazzo Besenghi e gestito dalla Comunità Italiana di Isola sotto il nome di Fondo o Biblioteca Besenghi, tuttavia, è formato da libri che mai sono appartenuti (se non in minima parte) alla famiglia Besenghi. La vera biblioteca del Besenghi non esiste più poichéè andata irrimediabilmente dispersa alla morte del poeta. Ciò che oggi a Isola si conserva sotto suo nome, sono i libri della contigua ex biblioteca parrocchiale di Isola.

La Biblioteca Besenghi, gestita dalla Comunità Italiana di Isola, ha sede in Palazzo Besenghi e comprende circa 3000 volumi, e per decisione del Ministero della Cultura sloveno è stata restituita in proprietà alla locale Parrocchia. Il fondo librario del più grande poeta romantico isolano e istriano, Pasquale Besenghi degli Ughi, sembra sia andata irrimediabilmente dispersa.

Per quanto riguarda la raccolta libraria appartenuta alla famiglia Besenghi, andò irrimediabilmente perduta alla morte del poeta Pasquale Besenghi. Alla scomparsa andarono sottratti soltanto pochissimi volumi grazie alla cura dei parroci isolani. Il poderoso fondo

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di quasi 3000 volumi, comunemente ritenuto Fondo Besenghi, si è invece costituito soltanto nel 1952 quando una commissione incaricata dal potere popolare di allora di inventariare i fondi librari privati, credette appartenessero al fondo Besenghi i libri dell’ufficio poarrocchiale di Isola cheper un certo periodo, aveva trovato sede pure in Palazzo Besenghi.

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A.D. 1896 - Corrispondenza da Isola per il giornale “L’Avvenire” di Vienna Nel 1896 Isola sta affrontando il periodo probabilmente più burrascoso della sua entrata nel mondo dell’industrializzazione. Nel corso di un decennio sorgono alcuni importanti impianti industriali che, anche nel periodo successivo, hanno condizionato lo sviluppo sociale, economico, politico e culturale della cittadina. Inclusa una importante presa di coscienza civile del mondo del lavoro. Così, già nel 1896 riscontriamo una corrispondenza pubblicata dal giornale “L’Avvenire” di Vienna riguardante i comportamenti più o meno civili dei primi industriali isolani. Un non meglio identificato “Falstaff”, così commenta il rapporto del proprietario della fabbrica Degrassi con i suoi lavoratori: Voglio approfittare dalle colonne dell’Avvenire onde mettere a giorno lo sfruttamento che devono subire gli operai di questa città, e per ora voglio occuparmi in ispecial modo della fabbrica sardine del sig. Degrassi: agli altri stabilimenti ritornerò poi un po’ alla volta.

La fabbrica del Degrassi, poi divenuta “Torregiani”, ai tempi della corrispondenza.

Le condizioni degli operai di questa fabbrica sono molto tristi e peggiori di quelle delle altre fabbriche, e causa principale ne è quel famigerato di Francesco degrassi, fratello del padrone, che ne inventa ogni giorno una per sfruttare quei poveri operai che merita d’esser messo alla berlina. Si trattava di alcuni operai che dovevano andare a Comisa, in Dalmazia, ad occuparsi in codesta fabbrica:

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e siccome pare che colà gli affari non sieno così splendidi come in queste di Isola si ha inventato un modo per rimediare le deficienze di guadagno, facendole pagare agli operai, cioè si voleva dar loro una paga inferiore di quella che avevano negli anni scorsi. Non crediate però che ciò sia seguito così senz’altro; no, codesti fior di galantuomini hanno trattato con quei poveri operai come tanti briganti, ed hanno messo loro la scelta di essere licenziati se non accettano il patto loro proposto. Naturalmente gli operai non accettarono ed a stento ottennero la paga di 2 fiorini al giorno. Non bisogna poi credere che queste condizioni sieno tanto grasse come i signori lo vogliono far creder, giacchédato il lavoro, pel quale non c’è orario e considerato che sono costretti a vivere in doppia spesa, la famiglia qui ed essi a Comisa, poco loro rimane. Noto ancora che le altre fabbriche, e queste se ne intendono si di sfruttamento, danno bensì fior. 2 al giorno, ma a lavoro fatto, e se questo supera quest’importo, essi ricevono la differenza, pagata a lavoro finito; invece da Degrassi nulla di tutto questo.

Procedura riguardante l’essicazione all’aperto del pesce.

Il sig. Degrassi dovrebbe rammentarsi che anche lui era povero, e se oggi un raggio di fortuna lo ha protetto non deve agire in quel modo col povero operaio che lavora e patisce per lui, e infine è la fonte della sua ricchezza.

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Qualcuno dice che il sig. Degrassi non è tanto vampiro, ma che egli è aizzato dai suoi agenti di qui, incapaci di corrispondere al loro dovere, cercano collo sfruttare il povero rendersi benvisi al padrone. Ma voi, sig, Padrone, già che vi pavoneggiate cogli operai di umanitario (io non la vedo però la vostra umanità) dovreste istruire meglio i vostri agenti, che così, oltre a rendervi beneviso agli operai fareste pure il vostro tornaconto. In questi giorni è stata una pesca abbondante di sardelle, le altre fabbriche molte ne comperarono e lavoravano a tutta possa, ma il sig. Degrassi poco o nulla ha preso perché i prezzi troppo alti, di conseguenza gli operai della suddetta fabbrica poco hannoguadagnato. Dopo che furono da voi trattenuti con mille lusinghe di non cercar occupazione presso le altre fabbriche devono languire perché voi non siete mai sazio di guadagnare.

Il molo di carico e di scarico della fabbrica Degrassi, oggi decretato come patrimonio storico del Comune.

Si vocifera che i gerenti di tutte le fabbriche di qui si sono messi d’accordo di non prendere in un’altra fabbrica alcun operaio che si licenzia da se, attentando con ciò alla libertà di questi poveri oppressi e legandoli al gioco con la forza brutale della fame. Un’altra voce dice, che si ha l’intenzione di prendere nuovi apprendisti onde, aumentando la concorrenza fra i lavoratori, ribassare i già miseri guadagni”.

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Le “fabbrichine” intente a preparare le sardine da inscatolare: una vera e propria catena di montaggio.

Se ciò fosse vero, una seria minaccia pende sul capo degli operai di qui. Non provvederanno essi a tempo debito? Non sentiranno il bisogno di imitare i lavoratori di tutto il mondo che si organizzano per salvaguardare i loro interessi? Lavoratori d’Isola, sarebbe tempo di svegliarsi, giacchéaspettando ancora potrebbe essere troppo tardi. Colla mia prossima vi farà note molte angherie di certi bei soggetti di capi-operai della fabbrica Anglo-Austriaca. Falstaff

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A.D. 1900 - Porto Apollo Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo Isola venne investita da due importanti fattori di sviluppo economico e di modernità che, almeno fino all’inizio della Grande Guerra nel 1914, inserivano di fatto la cittadina tra quelle che a buon diritto potevano vantarsi di partecipare attivamente alla tendenza allora in voga della “bella époque”. Da una parte il rapido e vorticoso sviluppo dell’industria conserviera, che aveva fatto nascere a Isola importanti industrie per la lavorazione e la conservazione del pesce e della frutta, tra le più significative dell’alto Adriaitico.

Veduta degli impianti turistici di “Porto Apollo” visti dalla spiaggia.

Dall’altra, seguendo lo sviluppo tecnologico in atto, che aveva facilitato il movimento delle persone e che veniva supportato dall’idea che il benessere non dovesse avere mai fine, la nascita dell’industria dell’ospitalità. Quest’ultima aiutata in particolare dal movimento marittimo dei passeggeri lungo la costa adriatica e triestina e, dopo il 1902, dall’introduzione della linea ferroviaria che collegava Trieste a Parenzo.

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Bar e ristorante all’aperto dei “Bagni Porto Apollo”.

Già nei primi anni del ’900, di particolare importanza la nascita di nuovi alberghi, anche se di capacità limitate, ma anche del complesso alberghiero noto con il nome di “Porto Apollo”. Il proprietario di allora, Francesco Felluga, ci teneva a ribadire che l’albergo era provvisto di tutti i confort ritenuti obbligatori per essere considerati alla moda nel periodo e, come reclamava la pubblicità, con stanze ben arredate, giardino munito di ristorante all’aperto e spiaggia con tanto di regolamento a tutela dei bagnanti. In base ad un’informazione dei primi anni XX del secolo scorso, si apprende che il complesso alberghiero “Porto Apollo” disponeva di Albergo e Bagni e bagni per complessive 43 camere, con 70 letti. I prezzi andavano da 7 a 22 Lire. La pensione era di 12 lire. Il complesso, come si sottolineava nella pubblicità, era provvisto di spiaggia, giardino, illuminazione e riscaldamento ed era aperto soltanto durante la stagione estiva.

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Locandina pubblicitaria dei primi anni del secolo scorso per “Porto Apollo�.

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A.D. 1902 - El Brustolin – la Parenzana A dare un notevole impulso allo sviluppo di Isola fu anche l’inaugurazione della linea ferroviaria che collegava Trieste a Parenzo. Come ricorda Antonio Vascotto nel suo libro di testimonianze su Isola, il fatto che la “Parenzana” venisse inaugurata proprio il 1. aprile 1902 convinse qualcuno che si trattasse di un “pesce d’aprile”, per cui si guardò bene dall’intervenire alla cerimonia. Ciononostante, l’avvenimento venne accolto con entusiasmo da tutta la popolazione, tanto che rapidamente sul conto della nuova stazione ferroviaria nacquero presto anche iniziative economiche. Come è noto la famosa strada ferrata era a scartamento ridotto (76 cm) e rimase in funzione per trentatré anni, e fece il suo ultimo viaggio il 31 agosto del 1935.

L’edificio della stazione ferroviaria entrato in funzione il primo aprile 1902.

A Isola, l’area dove venne costruita la stazione, situato allora in aperta campagna, venne subito chiamato Ala stasion, e anche il ristorante vicino non poteva che chiamarsi Ristorante alla stazione.

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L’albergo “Alla Stazione” inaugurato poco dopo l’avvento della ferrovia.

Il caffè dell’Albergo “Alla Stazione”.

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Gli Isolani trovarono subito un soprannome anche per il treno, che fu piĂš conosciuto come El brustolin. I binari, che da Semedella a Isola costeggiavano il mare, dalla stazione si addentravano nella campagna e, in larghi tornanti da Canola sbuffava fino a Saletto, dove entrava nella galleria per uscirne sotto Capitel. Da, qui dopo il lieve pendio di Lavorè, si apriva la magnifica panoramica della valle di Strugnano, per proseguire la sua strada verso Santa Lucia, Sicciole e Buie. Si racconta che sull’erta di Canola i passeggeri potevano tranquillamente scendere dalle vetture, cogliere della frutta che si trovava nei campi lungo il tracciato e poi risalire sul treno che arrancava sbuffando. Secondo alcuni racconti, bastava qualche chilogrammo di fichi gettati sulle rotaie per bloccare la locomotiva che prendeva a slittare. Allora il macchinista doveva scendere, pulire i binari e far ripartire il treno. Particolarmente pericolosi erano i refoli di bora, che riuscirono addirittura a far deragliare il treno. Il 31 marzo 1910, il convoglio venne rovesciato nella valle di Zaule provocando addirittura tre morti.

Comitiva di passeggeri che si son fatti fotografare in attesa della partenza del treno.

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La difficoltà del percorso attraverso il nord-ovest dell’Istria impose la costruzione di numerosissime curve e un saliscendi continuo che ottenne il duplice effetto negativo di dilatare i costi e abbassare la velocità massima raggiungibile a 25/30 km/h. Tra il 1903 e il 1906 venne fatta circolare sulla linea anche una automotrice a vapore da 16 posti a due assi. Dopo la prima guerra mondiale la linea passò sotto l’amministrazione italiana. Nonostante l’aumento del traffico tuttavia le spese di esercizio rimasero elevate per un territorio non ricco come quello istriano attraversato dalla piccola ferrovia. La chiusura di tutta la linea venne decretata il 31 agosto 1935. La linea venne presto smantellata e il materiale rotabile in parte demolito in parte alienato. La locomotiva P 7 è l’unica ad essere sopravvissuta fino ad oggi ed è ospitata dal Museo nazionale della scienza e della tecnologia Leonardo da Vinci di Milano, mentre la P 3 è esposta sulla strada all’entrata di Isola, mentre la P 37 è parcheggiata davanti alla stazione di Capodistria, assieme ad alcuni vagoni del convoglio passeggeri.

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A.D. 1903 - Baruffe Isolane Forse è perché agli inizi del secolo scorso, quando più forte e rapido risultava il processo di sviluppo e di cambiamento della società isolana, la cittadinanza avvertì pure con maggiore intensità il piacere della vita sociale, soprattutto tra gli operai delle industrie conserviere. Così risultavano particolarmente attese le fiere patronali tra le quali primeggiava da sempre quella dedicata al patrono San Donato. Festività che veniva sempre coronata da canti, balli e, spesso, anche da baruffe di osteria. Dal 1903 è addirittura documentata una furiosa lite tra Isolani e Capodistriani, venuti a Isola in occasione della festa di San Donato, lite che finì nel Tribunale di Pirano e nella rubrica “La vita in Provincia” del giornale triestino “Il Gazzettino” del 5 settembre 1903. Riportiamo la testimonianza che è stata tratta integralmente dal giornale triestino. [4 settembre]. Oggi si tenne il dibattimento per i noti fatti d’Isola che si svolsero il giorno 10 agosto, fiera di S. Donato. Isola in quel giorno festeggiava il patrono. Alla sagra oltre a molti forastieri prese parte una compagnia di giovanotti capodistriani, i quali alla sera trovandosi nell’osteria Bonavia incominciarono ad altercare, a quanto credesi per antichi rancori tra capodistriani ed isolani. In breve i due contendenti vennero alle mani: nel locale ove si trovavano volava per aria quello che loro capitava sotto le mani.

Piazza Tartini a Pirano agli inizi del secolo scorso. Il tram allora in funzione aveva la sua fermata proprio davanti al tribunale.

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Nella terribile zuffa accesasi, d’ambe le parti ci furono i malconci ed i feriti. A battaglia finita i proprietari dell’osteria, coniugi Ferluga, ebbero a constatare che nel loro locale tutto era rovinato: sedie, bicchieri, boccalette e tavole andarono a pezzi. Il danno che essi ebbero a soffrire ascende a Corone 238. Per questi fatti vennero nella notte istessa ed il giorno appresso arrestati 28 individui i quali furono passati nelle carceri di Pirano a disposizione dell’autorità giudiziaria. La Procura di Stato di Trieste rilasciò gli atti al nostro Giudizio non avendo essa trovato che i fatti possano rivestire un delitto di crimine. La sala del Giudizio è zeppa, regna un caldo soffocante. L’Aggiunto de Gresic presiede il dibattimento e passa all’interrogatorio degli accusati i quali sono in contraddizione con le deposizioni odierne a quelle precedenti scritte nei verbali. I molteplici testimoni chiamati confermano quasi tutti l’atto di accusa.

“Alle Porte” di Isola durante una ripresa fotografica eseguita sicuramente d’inverno: basta vedere come sono imbacuccate le signore!

L’avv. Fragiacomo rappresenta i danneggiati e chiede la condanna degli imputati ed il risarcimento dei danni. L’avv. Bubba difende gli accusati isolani, tentando scalzare l’atto d’accusa mitigando la responsabilità dei fatti. Chiede per taluni l’assoluzione e

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per altri mitigazione di pena. L’avv. Ventrella difende gli accusati di Capodistria e li fa apparire irresponsabili del fatti. Il giudice pronuncia sentenza che condanna: Pugliese Giacomo [Isolano] a sei settimane di arresto, Laero Giovanni a cinque, Riosa Angelo a tre, D’Este Giovanni [Isolano] a tre, Dell’Ore Giovanni [Isolano] a tre, Ricobon Giuseppe a due, Conte Nazario a due, e Conte Pietro. L’arresto degli accusati viene inasprito da un digiuno. Inoltre sono condannati a rifondere in “solidum” ai danneggiati coniugi Ferluga l’importo di 848 Corone. Gli altri accusati sono stati assolti.

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A.D. 1903 - Pesca e pescatori isolani Poiché Isola nei secoli scorsi è stata sempre quanto descritto dal suo nome, cioè un’isola circondata dal mare, molti ancora oggi continuano a considerarla come un paese abitato in prevalenza da pescatori. Nella realtà, le attività pescherecce sono diventate importanti soltanto a partire dalla fine del XIX secolo, quando sorsero importanti impianti per la conservazione del prodotto ittico. Già nel giro di un decennio Isola divenne il più importante centro per la pesca del pesce azzurro di tutto il nord Adriatico.

Il moletto di sbarco per le sardelle della fabbrica Degrassi - poi Torregiani - oggi in rovina, ma tutelato come retaggio storico in quanto trasformato dopo il 1950 in squero per la riparazione delle piccole imbarcazioni.

Un documento sullo stato della pesca nell’Alto Adriatico commissionato nel 1903 dal Circondario marittimo di Trieste constatava …che i pescatori di mare professionisti ascendevano allora nel circondario al numero complessivo di 1595, di cui 350 a Grado, 100 a Pirano, 600 a Isola, 180 a Capodistria, 16 a Muggia, 4 in Valle San Bartolomeo, 15 a Zaule, 16 a Servola, 30 a Barcola, 42 a Contovello, 56 a S. Croce, 3 a Grignano, 21 a Duino e 162 a Mon-

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falcone. Per quanto riguardava Isola, il documento stabiliva ancora che la città era congiunta colla città di Pirano mediante una strada distrettuale, la quale traversando la città, proseguiva poi alla volta di Capodistria. Con Trieste e Piran, inoltre, stava in comunicazione mediante piroscafi, i quali approdavano giornalmente in quello scalo marittimo. Col principio del corrente anno una Società isolana aveva attivato una regolare comunicazione giornaliera fra Isola e Trieste senza toccate di altri scali intermedi. La relazione, è stata pubblicata integralmente nel volume “L’Isola dei Pescatori” di Ferruccio Delise, pubblicato qualche anno fa dalla nostra Comunità.

Pescatori isolani alle prese con un tonno di notevoli dimensioni.

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A Isola - raccontava il documento - sono in uso per la pesca i bragozzi, i battelli, denominati anche toppi e le battelline. I bragozzi sono alquanto più grandi a quelli che usano i pescatori gradesi e piranesi, in quanto che così stazzano da 12 a 14 tonnellate di registro; sono provveduti di due alberi fissi, equipaggiati da 5 a 6 persone ed il valore di ciascuno in istato nuovo si fa ascendere a 3500 corone. I battelli, conosciuti anche con il nome di toppi, sono consimili alle battelle, vulgo battane, dei pescatori piranesi e non già ai toppi dei pescatori gradesi, i quali ultimi sono più grandi e conseguentemente anche più costosi. Questi battelli hanno una media portata di 3 tonellate di registro; sono provveduti dell’albero di maistra ed eventualmente di trinchetto, che viene adoperato assai di rado; hanno un’equipaggio che varia da 3 a 6 persone, avvertendo che il maggior numero viene impiegato per la pesca delle sardelle, e costano in istato nuovo da 600 a 700 corone ognuno. Le battelline sono identiche nella forma a quelle usate a Pirano; solamente sono un po’ più grandi stazzando 1 ½ tonellate; non tengono un albero fisso e regolarmente vengono condotte a remi da un solo pescatore.

Battelli per la pesca ripresi probabilmente durante l’occupazione del Reich a Isola nel periodo 1943 - 45. Da notare le prime due imbarcazioni con impressa la svastica nazista.

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Ad Isola, le sardelle venivano consegnate alle fabbriche ed una limitata quantità a negozianti locali, i quali si occupavano della salagione del pesce fresco. Tutto l’altro pesce veniva venduto dai pescatori ai trafficanti di pesce, i quali lo vendevano al minuto nel mercato locale, oppure lo inoltravano per la vendita al mercato di Trieste. Ad Isola vi erano 14 trafficanti di pesce, una parte dei quali era occupata giornalmente alla vendita del pesce nel mercato di Trieste, vendita questa che veniva fatta al minuto e non all’ingrosso. Oltre a ciò vi erano ad Isola quattro commercianti, i quali acquistavano sardelle e sardoni a scopo di salagione, e quando il pesce era confezionato lo vendevano poi tanto all’ingrosso quanto a dettaglio. Le barche da pesca ad Isola avevano diretta comunicazione con quel mercato, e rispettivamente colle fabbriche di sardine, mentre i trafficanti di pesce si servivano esclusivamente della via del mare per introdurre il pesce fresco sul mercato di Trieste.

Gruppo di pescatori isolani ritratto nei primi anni del secolo scorso.

Ad Isola nel 1903 esistevano quattro fabbriche di conserve di pesce, che confezionavano sardelle e sardine all’olio uso di Nantes, sardelle salate all’olio, tonno e scombri all’olio, filetti di sardelle all’olio ed anguille ammarinate. Le suindicate quattro fabbriche

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appartenevano alla “Societé generale francaise de conserves alimentaires”, alla Carlo Warhanek di Vienna, e a Giovanni Degrassi da Isola dimorante però a Vienna, ed a Noerdlinger e fratello di Trieste. Il prezzo unitario variava a seconda della qualità e del peso di ogni singola scatola confezionata di sardine; così ad esempio scatole del peso di 1/9 costavano 42 centesimi; di 1/8 centesimi 48; di 1/5 centesimi 58; di 1/4 centesimi 76; di 1/2 corone 1,60 e di 4/4 corone 2,80.

Ragazzini vestiti alla marinara intenti al rattoppo delle reti vicino alla nuova pescheria.

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Le sardelle salate venivano confezionate in vasi di latta del peso da 1 fino a 10 chilogrammi al prezzo di corone 1,50 fino a corone 15 per chilogrammo. Il pesce tonno e gli scombri venivano confezionati ad un prezzo maggiore del 30 %, rispetto a quello delle sardine, ed i filetti di sardelle salate al prezzo maggiore del 20 %. Le anguille ammarinate venivano confezionate in vasi di latta del peso da 1 fino a 10 chilogrammi al prezzo di corone 2,50 per chilogrammo, come pure in barili del peso da 10 fino a 50 chilogrammi al prezzo di 20 corone per chilogrammo. Fuori delle fabbriche venivano salati sardoni e sardelle per uso del commercio da quattro negozianti locali, ed il pesce così preparato veniva venduto tanto a dettaglio quanto all’ingrosso sia nell’interno che all’estero al medio prezzo di 1 corona per chilogramma. Per uso di casa venivano confezionati pure sardoni e sardelle, però in piccolissima qualità [quantità?], non superando negli ultimi dieci anni la quantità di 2.600 barili. Per il commercio furono confezionati negli ultimi 10 anni 26.000 barili di sardelle e sardoni salati.

Una delle prime immagini che ritraggono le “fabbrichine” al lavoro.

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Il documento del 1903, testimonia ancora, ...che ad Isola le contravvenzioni di pesca avvenivano esclusivamente per pesca abusiva dei pescatori locali nelle acque pertinenti ad altri Comuni, e ciò entro il primo miglio marittimo dalla costa. Il numero delle contravvenzioni nel corso di dieci anni ammontarano a 950 [un record rispetto agli altri sottocircondari marittimi di Trieste, il che rappresenta un importo superiore alla somma di tutte le altre contravvenzioni. N.d.r.], anche se negli ultimi due anni queste contravvenzioni andarono diminuendo sensibilmente.

Costume tipico dei pescatori isolani in una foto dei primi anni del secolo scorso.

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Che la pesca a Isola fosse sempre rigidamente controllata e regolamentata anche nei secoli precedenti, lo dimostrano alcuni testi tratti dal Libro III degli Statuti medievali del Comune di Isola del 1360, che riportiamo nella loro versione in lingua volgare del XV secolo: Della pena di Pescatori, che portaranno il pesce vender fuori della terra de Isola. Niuno Pescator habbia ardire di portar il pesce fuori della Terra de Isola per vender ad altri se non in Isola se dalla severità del tempo non sarà astretto, ò senza licentia del Sig.r Podestà sotto pena de pagar del Comun soldi quaranta, et pagar il Daccio del pesce, che avesse venduto altrove, et chi acusara habbia soldi vinti. Della pena di Pescatori, che non vendaranno il pesce nella piazza de Alieto appresso la Beccaria, overo Gradata. È constatato, et ordinato, che tutti li Pescatori de Isola debbano vender il pesce secco, ò recente nella piazza di Comun, et non in Casa sotto pena de soldi quaranta de piccoli, et più, et meno in arbitrio del Sig.r Podestà, et ognuno di nostri vicini siano tenuti manifestar li contrafacienti, et debbano chi manifesterà, haver soldi vinti. Et la pescarla debba esser in piazza de Alieto appresso la Beccaria, ò gradata, et niun pescator possa di pesci, che vorrà vender portarli à Casa sotto pena predetta. Et dapoi che haveranno portato il pesce à Casa, non debbano più portar detto pesce in pescaria à vender nella pena sopradetta. Et ciascun pescator sia tenuto vender dà per se tutto il pesce, che haverà incominciato, et tutto il detto pesce cavar di Barca, et ponerlo in Terra. Et li detti Pescatori siano tenuti portar esso pesce al palazzo del Sig.r Podestà overo dimandarli licentia di venderlo, ò alla sua famiglia avanti che incomincino a venderlo in pena de soldi quaranta per ogni volta. Che li Venditori di pesce putrido paghi al Comun soldi vinti. Item statuimo, et ordinammo, che niun pescator ardisca vender ad alcuno pesce fracido, ò putrido sotto pena de soldi vinti de piccoli da esser pagata ogni volta, che contrafarà et che tali pesci siano gettati in mar per li Iustitieri di Comun dapoi che il Sig.r Podestà sarà fatto chiaro di questa cosa; Et lo accusator habbia la Metta della detta pena, et il Comun l’altra Metta.

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Lo specchio di mare prospiciente Isola, prima di venir completamente occupato dalle imbarcazioni da diporto.

Anche se non esistono testi che documentino il percorso storico che a Isola ebbero le attività collegate con la pesca. Praticamente non esistono precisi riferimenti per quasi tutto il periodo in cui la città fu dedita alla Serenissima. Tuttavia, da una lettera dell’undici maggio 1746 inviata da Capodistria ai Cinque Savi della Mercanzia di Venezia, si apprende che a Isola esistevano in tutto soltanto 33 imbarcazioni da pesca, nessuna adibita al trasporto e 13 adibite alle mercanzie. Complessivamente, gli addetti all’attività peschereccia di Isola non superavano le cento persone (99 per l’esattezza), mentre altre 46 si occupavano del commercio delle mercanzie. Che Isola non contasse alcuna imbarcazione da trasporto, di dimensioni quindi più grandi rispetto a Capodistria e Pirano, probabilmente dipendeva dal fatto che la nostra cittadina ormai aveva completamente abbandonato la produzione del sale, e non sussisteva quindi la necessità del suo trasporto dalle saline ai magazzini.

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1905 - Anche allora la pubblicità era l’anima del commercio! La pubblicità cerca di influenzare il cliente con un messaggio che vinca la sua resistenza all’acquisto. Ciò su cui si fa leva sull’acquirente non è il lato informativo, ma l’immagine del prodotto. Quindi cerca di stimolare l’inconscio del cliente. E dove il bisogno non c’è, lo si crea. Così definì Tullio Avoledo la pubblicità una decina di anni fa, facendo proprio e rispondendo all’ormai celeberrimo aforisma, secondo cui “La pubblicità è l’anima del commercio”.

Anche Isola ebbe il suo periodo d’oro nella creazione pubblicitaria, soprattutto nei primi decenni del secolo scorso: da una parte l’avvio di una promettente attività turistica con l’invenzione del complesso alberghiero di Porto Apollo, dall’altra con l’importante consolidamento della locale industria conserviera dell’Arrigoni e dell’Ampelea.

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Conosciute a tutt’oggi, grazie alla diffusione delle cartoline illustrate, le prime immagini fotografiche dell’impianto turistico di Posto Apollo, oggi ricercate soprattutto dai collezionisti di cose isolane, e si sa che proprio le cartoline si trovano al primo posto tra le richieste più frequenti, soprattutto nei mercati dell’antiquariato che ormai stanno diventando abitudinari anche dalle nostre parti. Va detto, comunque, che le prima immagini che pubblicizzavano la nascita delle terme sulfuree di Isola risalgono addirittura alla prima metà dell’800.

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Una notevole spinta alla pubblicità venne data in tutta l’area dalla Prima Esposizione Provinciale Istriana del 1910 che, nel catalogo, diede spazio anche alla promozione degli espositori, e tra questi non pochi anche gli Isolani. Primeggiano, naturalmente i vini.

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Ma è stato il periodo dopo la prima guerra mondiale, tuttavia, che il messaggio pubblicitario divenne un fenomeno quotidiano anche nella nostra città portando a casa dell’acquirente le novità della produzione. E fu soprattutto il Conservificio Arrigoni a primeggiare, grazie anche ad un’organizzazione e ad una redazione interna che, tra l’altro, pubblicava anche un rivista per i propri dipendenti: La Voce di Arrigo. Non solo, ma proprio negli stabilimenti dell’industria isolana aveva sede anche un attrezzato ufficio grafico capace di produrre in loco i propri manifesti pubblicitari, anche impegnando importanti artisti provenienti da Trieste. Da non dimenticare che nella vicina città operavano nomi di grandi artisti che si sono fatti conoscere anche a livello internazionale, come Marcello Dudovich e Argio Orell. Quest’ultimo, tra l’altro, nei primi anni del 1900 visse anche a Capodistria.

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Come dire, ripetendo famosi aforismi che – a quanto pare – avevano trovato terreno fertile anche nella nostra città, se la pubblicità non funziona, non resta che cambiare la merce. Ma anche rispettando il detto di Henry Ford, secondo cui chi smette di fare pubblicità per risparmiare soldi è come se fermasse l’orologio per risparmiare il tempo, pur se oggi, anche dalle nostre parti e pure nella nostra cittadina, sembrano essere sempre più valide le affermazioni di Serge Latouche che nel 2007 ebbe a dichiarare che per permettere alla società dei consumi di continuare il suo carosello diabolico sono necessari tre ingredienti: la pubblicità, che crea il desiderio di consumare, il credito, che ne fornisce i mezzi, e l’obsolescenza accelerata e programmata dei prodotti, che ne rinnova la necessità. Anche perché nessuno, a parte la Zecca, può fare soldi senza pubblicità!

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A.D. 1905 - Riva alle Porte

Panoramica di Isola con la Riva nel 1888.

Quasi fino agli ultimi anni del XIX secolo, al di fuori dell’area adiacente il mandracchio ed il molo sanità, nonché Punta Gallo, tutta la parte meridionale di Isola era circondata dal mare che, in pratica, arrivava quasi fino alle case. Una situazione che era venuta a configurarsi dopo la distruzione delle antiche mura cittadine: un anello difensivo che serviva, appunto, a difendere l’isola da possibili minacce che avrebbero potuto arrivare per mare. Anche l’area immediatamente prossima alle Porte, dopo la scomparsa delle saline, col tempo si era andata trasformando in una zona paludosa e piena di fanghiglia.

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Il Porto di Isola con il progetto dell’ing. Purschka del 24 febbraio 1893, per sanare Riva de Porta. Da notarsi la fabbrica di sardine Degrassi, e nella nota in lingua tedesca la citata casa di Raffaele Vascotto detto “tre gambe”. Il disegno originale misura cm 21x34 (AST, Gov, b. 605, prot. 7747, a. 1914, c. 865).

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Lo schizzo in carta velina oleata inviato il 13 ottobre 1905 al Governo Marittimo, dal Podestà isolano Francesco Vascotto, assieme alla richiesta di interrare una parte della Riva e del Mandracchio, per poter allargare la strada. L’originale misura cm 31,7x44,5 (AST, Gov, b. 800, prot. 18447, a. 1905).

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Con lo sviluppo delle industrie e soprattutto con l’incremento del traffico portuale si fece avanti la necessità di migliorare le linee di comunicazione tra le Porte ed il Mandracchio che, fino a quel momento trovavano l’unica via di passaggio attraversando via dell’Ospedale Vecchio e Contrada di sopra, che sboccavano in Piazza Grande e in Piazza Piccola. L’unica soluzione possibile era stata identificata nella bonifica dell’acquitrino delle ex saline e nella costruzione di una riva che permettesse a tutta la città un nuovo sbocco al mare, ma anche una più semplice via di congiungimento con il porto.

Disegno dei profili del progetto dell’ing. Purschka del 28 novembre 1912, per la costruzione di un nuovo Mandracchio in Riva de Porta. L’originale misura cm 62x34 (AST, Gov, b. 605, prot. 7747, a. 1914, c. 944).

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Da questo punto di vista, un’area che fino a quel momento rimaneva estranea alla vita quotidiana della città, assunse un’ importanza per Isola non indifferente, pur se minore rispetto alle priorità trattate nei capitoli precedenti.

Una delle prime immagini di Riva alle Porte pochi anni dopo la costruzione.

Le nostre Rive, con il passare del tempo, vennero usate sempre più non solo per lo scarico e il deposito provvisorio delle merci, ma anche per stendere le reti da pesca ad asciugare e da sito ai pescatori per rammendarle. Oggi sono dedicate soprattutto alle passeggiate ed a qualche sosta al ristorante o in pasticceria.

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A.D. 1905 - Un giardino in Piazza Grande Ve l’immaginate come sarebbe bella, soprattutto d’estate, Piazza Grande senza quelle decine e decine di automobili che, non solo ne deturpano la godibilità, ma, con tutte quelle lamiere esposte al sole incandescente di luglio e agosto, contribuiscono (almeno questa è la percezione) ad aumentare ulteriormente il caldo.

Una bella cartolina a colori risalente ai primi anni del secondo scorso, quando Piazza Grande si chiamava ancora Piazza Stefania, e tutta la superficie era dedicata alle passeggiate dei cittadini e, come naturale per un paese dedito alla pesca, per il rattoppo delle reti.

E ve l’immaginate, come sarebbe ancora più a misura d’uomo, se su tutto lo spazio, al posto delle automobili, fossero piantati degli alberi rigogliosi ed ombrosi? Chissà che, prima o dopo, una o l’altra delle amministrazioni comunali che si susseguiranno nei prossimi decenni, non ci facciano un pensierino. Si sa, che buona parte della piazza è stata interrata verso il XII secolo, comunque prima che uno dei podestà veneti provvedesse a ricostruire il mandracchio nel XIV secolo. Si sa, pur, secondo i risultati degli scavi archeologici effettuati all’interno della Chiesa di Santa Maria d’Alieto e di Palazzo Manzioli, sono stati trovati reperti a indicare che in tempi preroma-

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nici il bagnasciuga, ad una profondità di oltre un metro, arrivava fino alle fondamenta di questi edifici.

Anche questa cartolina porta probabilmente la stessa data di quella precedente e deve esser stata scattata durante un normale pomeriggio estivo. La data approssimativa si può desumere dalla grandezza degli alberi, molto vicina a quelli della cartolina precedente.

Sono le cartoline illustrate d’inizio secolo scorso a testimoniare come era Piazza Grande in quel periodo, prima che, per rendere più agibile il porto, per far fronte ai trasporti sempre più cospicui delle locali fabbriche per la conservazione del pesce, diventasse impellente il bisogno di attrezzare adeguatamente non soltanto la piazza, ma anche tutta la riva e lo stesso molo d’imbarco. Dalle immagini un paio di vedute di come appariva la piazza ancora agli inizi del secolo scorso. Forse, avendo pronosticato un futuro turistico per la nostra città, tenendo conto della sua storia e di un’offerta sempre più finalizzata, potrebbe essere un’idea vincente proporre una ristrutturazione dell’area trasformandola in un simpatico appuntamento all’aperto dal quale godere la fresca brezza marina,.

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A.D. 1908 - Finestre veneziane riciclate Con il tempo, non solo gli uomini, ma anche le città cambiano. Vie ed edifici che una volta facevano parte delle vedute di singoli rioni, con le nuova necessità della vita cittadina venivano demoliti o modificati e sostituiti da altri. Non sempre, però, parti di questi immobili, che avrebbero potute essere scaricate come semplici macerie, andavano disperse. Qualche volta, trattandosi di materiale di un qualche valore, veniva riutilizzato per venir inserito in qualche nuova costruzione. Sia per servire da solide fondamenta, ma anche per abbellirne le fattezze.

Vecchia immagine di Casa Contesini, situata di fronte alla Chiesa di S. Maria d’Alieto, prima di essere abbattuta e ricostruita.

Così, nei primissimi anni del XX secolo, in quella che era chiamata “Piazza Piccola” – o meglio nella parlata isolana “Piasa picia”, i proprietari di un antico edificio di stile tipicamente veneziano,

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per la verità abbastanza malandato esteriormente e situato all’inizio dello spiazzo, proprio davanti alla Chiesa di Santa maria d’Alieto, decisero di abbatterlo per sostituirlo con uno più consono alle nuove esigenze.

Casa Contesini vista dalla stessa angolatura di un secolo fa, come appare oggi.

La casa apparteneva ad una delle famiglie nobili più importanti di Isola, i Contesini. Si era nel periodo in cui tutta l’Europa, e anche a Isola, pur nel suo piccolo, era permeata da quel sentimento di diffuso benessere che si condensava nelle immagini della “belle epoque” e che non sembrava ancora percepire l’arrivo degli oscuri nuvoloni dell’imminente catastrofe della Grande Guerra.

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Tipica finestra veneziana che, tolta dalla facciata di Casa Contesini, è stata inserita sul lato posteriore della Chiesa di S. Maria d’Alieto.

L’edificio venne abbattuto e al suo posto, come si vede bene dalla testimonianza che ci viene da alcune cartoline d’inizio secolo, venne innalzato un edificio dai colori vivaci e multiformi: per un’antica piazza cittadina medievale, forse anche troppo. Ma non tutto venne distrutto. Le due finestre tipicamente veneziane che ne abbellivano la facciata vennero conservate. E, come si vede da altre immagini scattate soltanto qualche anno dopo, sono state inserite nelle due facciate d’angolo della chiesetta di Santa Maria d’Alieto, nella via Verdi che ancora oggi confluisce in “Piasa Picia” e dove le finestre veneziane fanno ancor sempre bella figura di sé.

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A.D. 1909 - Il Magazzino No. 11 delle Cooperative Operaie di Trieste, Istria e Friuli Gli scritti piÚ completi sulla nascita e sullo sviluppo del movimento operaio nella Regione Giulia sono certamente dello storico triestino Elio Apih. Per quanto riguarda la nostra città , invece, credo rimanga ancor sempre insuperato il discorso pronunciato da Arsenio Vascotto in occasione dell’inaugurazione della seconda casa del Popolo nel 1914 .

Il magazzino No. 11 delle Cooperative Operaie inaugurato a Isola il 13 dicembre 1909.

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Nella breve comunicazione che A. Vascotto ne da durante il discorso per l’inaugurazione della nuova Casa del Popolo, ribadisce che ... nel 1909, ai 13 di dicembre, si pianta a Isola con cencinquanta soci un Magazzino - il XI delle cooperative operaie di Trieste, Istria e Friuli, il quale già nei primi giorni fa un incasso giornaliero di censessanta corone e prende via via uno sviluppo sempre maggiore. Oggi - conclude il Vascotto - conta ormai dugento soci, che comperano in media per dugentocinquanta corone al giorno.

Il primo camion delle Cooperative Operaie.

Un testo che illustra per sommi capi i momenti salienti del movimento operaio isolano. In ogni caso, oltre alla presenza fisica delle due Case del Popolo (la prima è del 1906), l’altra testimonianza importante è rappresentata certamente quella delle Case Operaie, in cui si identifica l’idea fondamentale dello sviluppo sociale,della solidarietà e del mutuo soccorso. Proprio l’idea della cooperazione di molte persone che lavorano assieme mostra concretamente tutti i suoi vantaggi e appaiono sempre più una forza utilizzabile - come scrive Apih - non soltanto in funzione del capitale d’impresa, dei suoi interessi e della sua organizzazione tecnica, ma è sempre più

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valida nella soluzione della “questione sociale” aperta dal capitale stesso, nel conseguimento di un maggiore benessere generale, che superi l’ingiustizia e la disuguaglianza del classismo.

Il primo magazzino di Trieste in via dell’Istria.

Idee, che, anche a Isola, erano presenti già negli ultimi anni del XIX secolo, grazie allo sviluppo dell’industria, e si svilupparono fortemente nei primi anni del secolo XX con la nascita di un forte movimento operaio, della nascita di associazioni di mutuo soccorso e di solidarietà. Sembra addirittura naturale, di conseguenza, che una delle prima presenze delle Cooperative Operaie, dopo Trieste, venisse concretizzata proprio a Isola. Sorte nel 1903 nel capoluogo giuliano, le “Operaie” diventarono subito elemento vitale della città e di tutta la regione. Il 17 novembre 1909, l’azienda assunse la ragione sociale di “Cooperative Operaie di Trieste, Istria e Friuli”, che rese possibile anche la nascita di agenzie in altre località. Già nel dicembre del 1909 fu aperto lo spaccio di Isola d’Istria che, nel 1212 si fuse con l’Unione Cooperativa di Capodistria.

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A.D. 1910 - Le Case Operaie Lo sviluppo del movimento operaio a Isola, come conseguenza e risultato dell’avvento dell’industrializzazione, significò indubbiamente un importante conquista per il benessere generale della popolazione. Da questo punto di vista risulta certamente importante la realizzazione di tutta una serie di progetti legati al mondo operaio, tra cui, indubbiamente, la costruzione ideata e portata avanti dalle istituzioni fondate nell’ambito della prima Casa del popolo di una serie di case per i lavoratori. Nel volumetto pubblicato nel 1914 con la storia del movimento operaio e socialista isolano, troviamo questa importante testimonianza, che riportiamo integralmente: Così. il 24 aprile del 1907, viene creato il Banco Agricolo Marittimo Operaio, un’opera, con la quale il Partito Socialista Isolano, oltre al proprio di classe, veniva a fare anche l’interesse de’ suoi avversari, fossero liberali o clericali, e dava agli uni e agli altri nobilissimo esempio di tolleranza politica e religiosa. Correvano allora tempi economicamente difficili sia per tutta la monarchia, a cagione dell’incerta situazione politica, sia per Isola specialmente, le cui campagne avevano sofferto danni elementari non indifferenti. Ebbene: per sovvenire la piccola economia agricola e industriale del luogo, il Banco profuse in tenui prestiti a interesse minimo, già nei primi due anni della sua attività, la bella somma di quasi centoventi mila corone, in buona parte versati nella sua cassa dagli odiati proletari socialisti, salvando così non pochi agricoltori di parte avversa dallo strozzinaggio dei riveriti e reverendi amici capitalisti. Inoltre il Banco fin dalla sua costituzione si occupò a sistemare con grande zelo e perfetta correttezza lo stato finanziario della prima Casa del popolo. L’ultimo esercizio di questa benefica istituzione, del 1912, confrontato con quello dell’anno primo, e una prova palmare del lento si, ma sicuro sviluppo della sua solidità. Nel 1912 ebbe cinquecentocinquantasette soci, un giro di cassa di oltre un quarto di milione, un utile netto di oltre mille e cento corone; mentre nel primo anno i soci non erano stati che dugentosessantanove, il giro di cassa un po’ meno di cento mila, l’utile netto un po’ più di dugento corone. Da quando fu creato ne è benemerito presidente il compagno Rodolfo Carlin.

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Immagine delle case operaie scattata nella prima metà del secolo scorso.

Inoltre: il 1 maggio 1908 vede rigermogliare l’Organizzazione dei prodotti chimici, ch’è un fatto compiuto a mezzo il novembre successivo. Essa si trasforma nella Federazione fra lavoratori e lavoratrici, tutt’ora esistente, che contò e conta dai cento ai centoventi ascritti, tutti persuasi dei benefici che ne ritraggono.

Immagine delle case operaie scattata dal fotografo isolano Erminij Benčič probabilmente negli anni ’80.

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Ed ancora, per iniziativa del Banco, ai 21 settembre del 1909 si costituisce, formato dalla sua direzione, dalla commissione del sindacato e da alcuni soci, presidente Giovanni Deluca, un comitato, che debba studiare un piano per la costruzione di un complesso di case allo scopo di offrire alla classe operaia d’Isola in generale, senza distinzione di parte, delle abitazioni decorose ed economiche e insieme comode e corrispondenti alle moderne esigenze dell’igiene. Devono essere di due tipi e di due costi: a solo pian terreno e a pian terreno e primo piano, con tre di questo tipo alquanto più ampie delle altre. Il comitato si mette all’opera sollecito. Acquistato il fondo di diecimila metri quadrati fra la stazione ferroviaria e la strada che mena a Capodistria, si rivolge, per l’aiuto finanziario, all’Istituto di assicurazione per gl’infortuni sul lavoro per Trieste e il Litorale e alla Federazione dei consorzi industriali ed economici della provincia d’ Istria. Questi di buon grado l’assecondano. Poi fa elaborare dal perito Ettore Longo il piano dei fabbricati - che dalla prima esposizione provinciale istriana e premiato con medaglia d’argento - e preventivare le spese e, a cominciare del 19 maggio 1910, alloga prima l’una e poi le altre due costruzioni dei tre lotti di diciassette case ciascuno. Il primo gruppo e pronto già nel dicembre dello stesso anno. Nell’aprile dell’anno seguente la encomiabile opera è, almeno per tre quarti, bella e compiuta. Manca l’ultimo gruppo, perché l’Istituto per gl’infortuni non pote al momento accordare il relativo mutuo, non avendo i denari a disposizione. E le cinquantuna casette, senza pretesa, ma linde e sorridenti ai loro giardinetti, allineate su due nuove e ampie vie, sono li a testimoniare eloquentemente i miracoli, che sa fare una ben sentita e ben diretta cooperazione. E sono anche esempio degno d’imitazione da parte di tanti paesi dell’Istria nostra, dove, pur troppo, il ceto agricolo specialmente, così abbandonato a se stesso com’è e fu sempre, si pigia con enorme disagio in luride catapecchie, prive d’aria e di luce e d’ogni più elementare comodità e necessità della vita, spesso in un solo locale, che riunisce in nauseabondo accordo e abitazione e cantina e stalla e porcile.

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Ma non va dimenticato come il clerical municipio, non potendo altrimenti ostacolare la lodevole impresa, pur trovò modo di farne un’altra delle sue. Contento, pare, come una Pasqua che de’ suoi diletti amministrati sguazzassero intanto in mezzo metro di fango, tirò in lungo quanto più gli fu possibile la regolazione delle vie dinanzi alle case. Le case operaie isolane valgono intorno a un quarto di milione di corone. La tutela n’ è affidata alla direzione del Banco, amministratore di tutta l’azienda, intermediario fra il comitato edilizio e gli altri enti, e garante morale. Esso disimpegno e disimpegna il suo compito come meglio non si potrebbe.

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A.D. 1910 - Le prime vedute panoramiche dall’alto Sarebbe interessante, oltre che utile dal punto di vista storico e scientifico, avere la possibilità di osservare oggi come si è formata la costa della nostra regione costiera negli ultimi secoli. Per esempio, come fu che la nostra Isola, da piccolo scoglio circondato dal mare, nel corso dei secoli si attaccò indissolubilmente alla terraferma trasformandosi nella penisola odierna? Testimonianze abbastanza precise sono possibili oggi grazie alle immagini che quotidianamente vengono fornite dai satelliti in orbita attorno al nostro pianeta e, prima ancora, da quando è stato possibile scattare foto da un aereo in volo. Grazie alla generosità di due amici, che da tempo vivono lontano dalla nostra città, siamo riusciti ad entrare in possesso, di alcune immagini delle località costiere a noi vicine. Sono state scattate da uno dei primi piloti della nascitura aviazione militare asburgica nei primi anni del secolo scorso. Già da queste è possibile constatare la grande trasformazione subìta dalle nostre città, in parte come risultato di eventi e processi naturali, in parte (a volte in maniera determinate) per la sconsiderata opera dell’uomo.

Veduta aerea di Isola ripresa nel primo decennio del secolo scorso.

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La foto che pubblichiamo è stata resa possibile per gentile concessione del legittimo proprietario, Pocecco Paolo, che pare le abbia avute, ancora su vetri da sviluppare, dimenticate in una valigia lasciatagli dal nonno che, forse, era stato uno dei primi aviatori della regione. A noi, le foto sono state consegnate dall’amico Orlini Francesco, con l’obbligo di segnare sempre la loro provenienza. Di seguito, (ma con un po’ di orgoglio campanilistico) , vi presentiamo anche le altre immagini della costa orientale dell’Istria (Capodistria, Pirano e Strugnano), assieme alla foto di un aereo d’epoca, che faceva parte della collezione, anche se non sappiamo se è stato proprio l’aereo usato per le fotografie.

Isola ripresa dall’aereo nel 1910 a confronto con Isola ripresa qualche anno fa dal satellite.

Per rendere un’idea dei mutamenti avvenuti nel giro di circa un secolo, abbiamo pensato di offrirvi anche una immagine della nostra città presa da Internet – Google Earth dalla quale è possibile vedere il tratto di costa settentrionale che è stato sottratto al mare.

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L’aereo dal quale, probabilmente, sono state scattate le immagini aeree di Isola e delle altre località vicine.

A parte le immagini riguardanti Pirano e Strugnano, che per la stessa conformazione del terreno, non potevano subìre consistenti modiche del territorio, sono invece indicative quelle scattate all’inizio del secolo scorso per Capodistria e per la foce del Risano. Rappresentano, e in particolare quest’ultima, un vero attacco dell’uomo all’immagine costiera di tutta l’area.

Foto aerea di Capodistria, che nel primo decennio del secolo scorso era ancora circondata dalle saline. Verso sud, dopo Semedella, è ben visibile il tracciato della ferrovia.

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Di particolare interesse anche la foto aerea della foce del Risano che, nella sua corsa al mare, è circondato da entrambi i lati da terreni che, dopo gli anni ’60, sono serviti da piattaforma per la costruzione del porto e dei suoi impianti che, ormai, si estendono su una superficie ben più grande della stessa città di Capodistria.

Così sembrava la foce del Risano appena cent’anni fa.

Panoramica aerea di Pirano.

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Panoramica di Strugnano.

Meno impressionanti le immagini aeree di Pirano e Strugnano che, anche a distanza di un secolo, non hanno subĂŹto forti modifiche del proprio territorio.

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A.D. 1913 - La pesa pubblica La pesa pubblica, a Isola, rappresentava il punto d’incontro mattutino tra i “campagnòi” che venivano a vendere i prodotti della campagna, ed i “vendarìgoli”, cioè coloro che al mattino acquistavano dai contadini frutta ed ortaggi per la rivendita nei “boteghìni”. Forse la miglior spiegazione dell’uno e dell’altro ci viene dal libro “Voci della parlata isolana nella prima metà di questo secolo” di Antonio Vascotto che, però, essendo stato scritto nel 1980 e pubblicato nel 1987, almeno il titolo andrebbe ricondotto al “secolo scorso”.

“Le Porte” di Isola che, fino agli anni ’50 del secolo scorso ospitavano il piccolo edificio con la pesa pubblica.

Il Vascotto scrive che la pèsa pubblica è praticamente una bilancia, ed era costituita da una stadèra all’esterno di un piccolo ufficio che conteneva anche una più piccola stadèra a ponte, mobile, per pesate più piccole. Ricordo che era gestita da una ex guardia, Degrassi, e d’estate si trovava al centro di contrattazioni tra “vendarigoli” e agricoltori. Quando una merce era posta in vendita, i “vendarigoli” interessati dicevano all’orecchio del venditore il prezzo offerto. Il contadino la cedeva al miglior offerente. in pratica, una vera e propria borsa degli ortaggi per assicurare alla popolazione

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locale quanto necessario, senza tener conto, naturalmente, che una buona parte dei prodotti agricoli prodotti dagli Isolani prendeva la via di Trieste, vuoi con il treno, vuoi con le barche o i vaporetti.

Primo piano con il piccolo edificio alle Porte, dove era situata la pesa pubblica, qui ripresa con il tradizionale carretto dei “campagnòi”.

I “campagnòi” invece, come scriveva giustamente il Vascotto erano il gruppo sociale più numeroso di Isola, ed avevano (almeno fino ai primi anni del secolo scorso, dopo il consolidamento della classe operaia avvenuto con l’industrializzazione) un grosso peso politico, sociale e religioso. Il gruppo aveva, come accade un po’ dappertutto, un difetto/virtù, il conservatorismo, che se salvaguardò e difese molti elementi positivi della Comunità isolana, la tenne alquanto arretrata, chiudendo gli occhi al progresso di cui gli si facevano vedere soprattutto gli aspetti moralmente e religiosamente deteriori. È del resto inevitabile, legato all’isolamento al quale è costretto l’agricoltore, e che d’altronde non annulla i benefici di salute fisica e morale, ed il dono del senso della grandiosità dell’universo...

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Immagine caratteristica di un “campagnòl” isolano, assieme al principale strumento isolano di trasporto: “el mùs”.

L’isolamento, cui fa cenno Antonio Vascotto, dipendeva anche dal fatto che il contadino isolano abitava nel centro urbano, ma aveva le campagne disperse in tutta le periferia , anche quella più lontana. Così che, al mattino per raggiungere i campi si allontanava da casa all’alba e vi ritornava al calar del sole. I pochi momenti di socialità e di incontro con gli altri era limitato alla domenica durante le feste, da trascorrere preferibilmente in compagnia all’osteria.

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A.D. 1913 - La protesta isolana per il gas Nel 1913, Isola, Rovigno e Pola erano le città dell’Istria che avevano un gasometro per fornire il gas alle case e illuminare alcune zone della città. Nessuno ormai ricorda più i fanali a gas che illuminavano alcune piazze e vie principali di Isola. Esiste un ricordo abbastanya preciso ancora, dell’uso che si faceva del gas a casa mia fino ai primi anni ’50, quando con il quale gas si cucinava e integrava l’uso dello“Spacher”,la cucina economica a legna e carbone. E come non ricordare - scrive l’Isolano Ferruccio Delise, gli innumerevoli lunedì mattina, quando ci si recava al Gasometro, e si attendeva in fila il turno per acquistare il carbone Cock. Di questo gasometro e del suo gas, lo stesso Delise ha trovato un’articolo alquanto interessante, nella prima pagina di un quotidiano di Pola del 1913 (Il Giornaletto di Pola, 13 marzo 1913,), a proposito del “caro gas”, quando a Isola dominava ancora l’Austria . Riportiamo di seguito alcuni stralci degli articoli di giornale che allora seguivano le vicende isolane.

La casa del custode del gasometro, che molti ancora ricordano.

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LA PROTESTA DEL GAS Il Lavoratore, 7 maggio 1913 Dati i contrasti politici sempre vivi, nessuno avrebbe sperato tanta serietà d’intendimenti fra i cittadini e tanta solidarietà nella questione del gas. Quasi tutti, e con non poco sacrificio (gli esercenti specialmente) eseguirono il deliberato dell’assemblea del 23 aprile per la rinunzia all’uso del gas. Solo qualcuno del partito “Liberale Nazionale” (salvo rarissime ed onorevoli eccezioni) non ha aderito al movimento d’interesse cittadino; e sono proprio quelli che dicono di voler coltivare il popolo! Essi ubbidiscono ad un cenno qualunque, venga pur questo da un tedesco difensore del capitale prussiano! Questi propagatori della civiltà latina... nei territori slavi, piegano la schiena di gomma innanzi al signor Brüssbreiler che li catechizza sui sacri diritti del capitale germanico, assecondato in ciò dal signor Maurizio, il quale, poverino, non sa dir che si e no.

L’articolo pubblicto dal “Lavoratore” di Trieste.

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Ad onta di tutto questo, la popolazione rinunzia unanime alle comodità che può offrire il gas e si rende solidale col Comitato, il quale non teme le spavalderie dell’ex capo-guardia Orlizech, ora poliziotto al servizio della ditta di Augusta, nè le arlecchinate del capoposto di gendarmeria probabilmente appoggiato dal capitano distrettuale. Noi vorremmo semplicemente chiedere a tutti questi signori, se l’interesse della ditta Verelnigi Gaswerke, debba andare innanzi a quello dell’intera cittadinanza.

Lampione a gas posto proprio all’inizio della via delle Case operaie.

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Il manifesto sequestrato - Isola, 12 [maggio 1913]. Un comitato cittadino aveva pubblicato un manifesto alla cittadinanza, per ringraziarla della adesione compatta ed unanime all’azione di protesta contro la società del gas, per ottenere una riduzione del prezzo del consumo. Con somma meraviglia il comitato si vide sequestrato dall’autorità politica [austriaca] il manifesto, che non attaccava alcuna persona, ma si limitava a stigmatizzare l’agire poco riguardoso di una società forestiera, la quale mentre fa grandi concessioni nei prezzi dei suoi prodotti ad industrie dirette da tedeschi, non ha nessun riguardo per i cittadini stessi, i quali sono costretti ad accettare altissime tariffe. Vari sono i commenti, su questo inesplicabile sequestro dell’autorità politica distrettuale. Ancora “Il Lavoratore” di Trieste sulla protesta isolana La questione del gas, per la quale furono fatte invano proteste e reclami onde evitare un danno permanente alla cittadinanza, è entrata ora in una fase risolutiva, con la deliberazione unanime dei consumatori privati di rinunciare all’uso e consumo del gas con 2 maggio qualora la ditta di Augusta non concedesse la chiesta riduzione di prezzo. A questa determinazione i consumatori sono venuti considerando i vantaggiosi ribassi accordati alle fabbriche dalla ditta fornitrice, la quale per tale circostanza già dall’impianto faceva promesse di facilitazioni ai privati, promesse che poi non furono mantenute. Ora che i consumatori hanno deliberato di non consumare più gas, la ditta adopera tutte le armi per sventare la viva unanime ribellione cittadina e fa rapporti alla gendarmeria per investigare e far apparire questo movimento come il prodotto di “istigazioni” e “pressioni” da parte di singoli membri del Comitato, mentre esso è dovuto all’adesione generale e favorevole, anche dello stesso Municipio. Si vorrebbe perfino rendere responsabile il Comitato nominato dall’assemblea anche se accadessero eventualmente atti di sabotaggio, pretendendo di affidare a questo Comitato assurdamente la tutela dell’ordine pubblico!

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Via dello Scoglio illuminata da una lampada a gas.

L’assemblea e il Comitato nominato a raccogliere l’adesione dei consumatori non hanno nemmeno lontanamente parole incitanti alla violenza, quindi il Comitato ha ragione di credere che se avvenisse qualche “malizioso danneggiamento” si dovrebbe ritenerlo provocato ad arte dalla ditta stessa, perchéi cittadini non hanno la minima intenzione di subire persecuzioni penali per far piacere al signor Schiffel.

Lampione a gas davanti alla pescheria in Piazza Grande.

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I consumatori del gas, ad onta di queste pressioni e intimidazioni, resteranno solidali e non consumeranno più gas fino a che il prezzo non verrà ridotto in misura adeguata. Noi aderiamo di gran cuore a questo movimento d’interesse economico cittadino, al quale, con la solidarietà di tutti gli interessati, non può mancare la vittoria.

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A.D. 1913 - L’ addio alla prima Casa del popolo di Isola Così, il 27 agosto 1913 “Il Lavoratore” di Trieste annuncia agli Isolani la serata d’addio alla vecchia Casa del Popolo: Tutti i compagni sono invitati a partecipare alla serata di addio alla vecchia Casa del Popolo e all’inaugurazione dei locali della nuova Casa, sabato, col seguente programma: Ore 7 ½ riunione di tutti i compagni nella vecchia Casa del popolo. Passeggiata dimostrativa e fiaccolata per le vie della città col vessillo rosso e la banda. Inaugurazione dei locali della nuova Casa del popolo. Pubblico comizio in Piazza alle porte. Perlerà il valoroso compagno Tonet di Monfalcone. I compagni sono invitati a partecipare numerosi stante la grande importanza di quanto venne più su esposto. Mercoledì, 3 settembre 1913, “Il Lavoratore” racconta l’evento isolano del sabato precedente:

“Il Lavoratore” di Trieste annuncia la manifestazione d’addio alla Vecchia casa del Popolo.

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La serata di addio alla vecchia casa del popolo 2000 persone partecipano al corteo socialista. La manifestazione di sabato scorso resterà memorabile nella storia del nostro partito. Come già annunziato, si diede l’addio alla vecchia Casa del popolo. Alle 7.30 convengono in folla i compagni nella vecchia Casa. In breve la sala, il giardino e la via della Stazione sono totalmente gremiti. La folla prorompe in grandi applausi quando la nostra Banda intona l’Internazionale. Frattanto sale su un tavolo il comp. Pugliese, il quale fa la storia del partito, dal giorno in cui venne ad Isola per un comizio di propaganda il compianto Carlo Ucekar, ad oggi, in cui le Sedi socialiste vengono portate bella nuova casa del popolo.

La prima Casa del Popolo, inaugurata nel 1906.

Al Pugliese segue il comp. Prof. Bondi, il quale pronuncia un ispirato discorso di propaganda. Sono applauditissimi. Poi la Banda intona l’Inno dei lavoratori. La folla si forma in corteo ed applaude l’inno che saluta per l’ultima volta la vecchia Casa del popolo. Indi preceduto dalle rosse bandiere e dalla banda, la dimostrazione si muove verso la Piazza alle Porte. Qui un magnifico spettacolo si presenta: La nuova Casa, sfarzosamente illuminata, forma l’ammi-

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razione di tutto il popolo. Uno scoppio irrefrenabile di applausi accoglie il corteo socialista al quale partecipano circa 2000 persone. Il corteo percorre tutte le vie della città dirigendosi alla Stazione per ricevere il comp. Tonet. Questi arriva alle 9.20 pom. Accolto entusiasticamente al suono dell’Internazionale. Il corteo si ricompone e nuovamente si dirige verso la nuova Casa del popolo dove si tiene il comizio. La Piazza alle Porte è affollatissima. Il comp. Emilio Vascotto dichiara aperto iol comizio. Frequentemente applaudito dalla moltitudine, il Tonet pronuncia un magnifico discorso esaltando la cooperazione proletaria, base del nuovo ordinamento sociale. Ha vive parole di ammirazione per l’opera compiuta dai socialisti isolani, i quali non devono arrestarsi, ma proseguire per il cammino tracciatosi; cammino irto di spine, ma che sicuramente condurrà alla vittoria. Chiude fra grandi applausi inneggiando al socialismo, liberatore di tutte le ingiustizie. La Banda intona nuovamente l’Internazionale e la folla invade la nuova sede del Partito socialista. Tutti hanno parole di elogio ammirando le magnifiche e vaste sale illuminate a giorno. Poi, fraternamente, la festa si protrae entro le sale sino alla 1 del seguente mattino. Oh, che fremiti di rabbia deve aver avuto l’anima bieca di qualche nostro avversario, che usa lanciare manate di fango contro i nostri migliori uomini e contro le nostre istituzioni!

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A.D. 1914 - Il 1° Maggio 1914 l’inaugurazione della nuova Casa del Popolo Grande festa popolare a Isola, in occasione dell’inaugurazione della seconda Casa del Popolo. Riportiamo di seguito la cronaca del 1° maggio 1914, come testimoniata dalla cronaca dal giornale socialista di Trieste “Il Lavoratore” in data 7 maggio 1914: Isola festeggiò quest’anno il Primo Maggio in modo veramente solenne. A ciò contriibuì non poco l’inaugurazione del rosso vessillo della nuova casa del popolo, che nella piazza alle Porte fra il verde degli alberi fa bella mostra di sé con la sua imponente mole. La mattina il Corpo filarmonico socialista suonò la sveglia per le vie della città eseguendo i nostri fatidici inni. Verso le 9 ½ ant. Ebbe luogo nella Piazza delle Porte l’annunziato pubblico comizio. Gli oratori parlarono dal balcone della nuova Casa del popolo. Il comp. Pugliese rilevò l’importanza del Primo Maggio; il comp. Laurencich portò, fra unanimi applausi il saluto dei socialisti triestini, e rivolse parole augurali alla nuova casa, frutto della perseveranza e dei sacrifici dei socialisti isolani.

La nuova Casa del Popolo con il vessillo rosso dei Lavoratori.

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Manifesto del Partito Socialista Italiano inneggiante al Primo Maggio.

A questo punto fu innalzata sul tetto della Casa una grande bandiera rossa e la Banda intonò l’Inno dei lavoratori, mentre sulla piazza l’enorme folla prorompeva in grandi applausi. Parlò quindi il comp. Tonet facendo il doloroso quadro delle miserie che affliggono l’umanità mentre i Governi e le classi privilegiate sprecano le ricchezze prodotte dal popolo in arnesi di distruzione e di morte. Chiuse, fra grandi applausi, maledicendo la guerra e inneggiando alla pace e al socialismo. Durante il suo smagliante

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discorso il comp. Tonet fu spesse volte interrotto dal commissario politico, fra le energiche proteste della folla. Al comizio seguì la passeggiata dimostrativa che riuscì quanto mai imponente. L’autorità aveva preso straordinarie e ridicolissime misure di… precauzione. La città pareva in istato d’assedio. Specialmente durante la passeggiata facevano capolino ad ogni svolta di via gli elmi e baionette dei gendarmi! Il palazzo Besenghi era addirittura bloccato e pareva il grande Tarabose, minacciato da un assalto… montenegrino. Non meno affannate erano le ridicole guardie comunali d’Isola, le quali non sapevano come comportarsi per far bella mostra del loro zelo presso i gendarmi. Sempre in riferimento a quei giorni, una lettera che ci venne consegnata dal senatore Paolo ����������������������������������������������� Sema e inviatagli nel 1971 da Ottone Lantieri, nella quale descive un fatto curioso accaduto a Isola il 30 agosto 1914, durante una manifestazione organizzata dalla nuova Casa del Popolo. Da ricordare, che soltanto due giorni prima, il 28 agosto, l’ Austria-Ungheria aveva dichiarato guerra alla Serbia in seguito all’assassinio a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando.

Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale vista da Giuseppe Scalarini pubblicata il 7 agosto 1014.

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In occasione di quella manifestazione, noi del Circolo Giovanile Socialista avevamo organizzato una gita sociale in vaporetto e partecipato in letizia, con la nostra banda, alla festa di Isola. Alla sera si riparte nell’accostarsi al mare e la nostra banda, come d’uso, intonò a tutta forza l’Internazionale, quando vedemmo sulla riva una grande agitazione e un nuvolo di guardie si sbracciavano e gridavano comandi che noi non capivamo. Accostati che fummo le guardie tutte infuriate ordinarono il silenzio: era avvenuta la tragedia di Sarajevo. Firmato: Ottone Lantieri.

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A.D. 1915 - Nives Poli prima ballerina scaligera Siamo convinti che una città, anche molto più grande di Isola, dedicherebbe ad un personaggio come Nives Poli, se non proprio un monumento, almeno una piazza o una via. Invece… quasi nessuno (dalle nostre parti) sa chi era Nives Poli. Forse perchépreferiva dichiararsi proveniente dalla poco distante e certamente più importante Trieste.

Nives Poli è nata nel 1915 a Isola (prima della Grande Guerra non era ancora diventata Isola d’Istria). Ballerina e coreografa. Allieva alla Scala debuttò giovanissima nel teatro milanese e già nel 1936, secondo la dizione di quei tempi, venne promossa “prima ballerina assoluta”. Nel 1938 fu protagonista ineguagliabile di rara bellezza, fascino e bravura, nella prima edizione italiana dello “Schiaccianoci” di Froman-Chaikovskij. L’anno successivo fu no-

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minata direttrice del corpo di ballo, per il quale ideò la formula dei “balletti sinfonici” avvalendosi di una forte preparazione musicale che la porterà, negli ultimi anni della carriera a dedicarsi alla musica antica in veste di strumentista. Nel 1940 approntò alla Scala una nuova versione de “La bella addormentata” e l’anno successivo realizzò la coreografia de “L’uccello di fuoco” di Stravinskij, sempre riservando a sé stessa i ruoli della protagonista. Trasferitasi a Firenze, dal 51 iniziò a collaborare con il Maggio Musicale Fiorentino, dove ha lavorato nel dopoguerra come coreografa e poi come musicista di strumenti antichi e come eccellente concertista. Tra le cose e le persone importanti di Isola, crediamo che si meriti almeno un meritevole cenno.

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A.D. 1918 - … quel 7 Novembre 1918 4 novembre 1918 – Il Regio Esercito Italiano prende possesso dell’Istria “per diritto di conquista e di occupazione”.

Fotomontaggio di due cartoline illustrate pubblicate verso la fine della Grande Guerra: l’Imperatore austriaco Francesco Giuseppe in preghiera, preoccupato per le sorti del conflitto, assieme all’immagine sbarazzina e volutamente erotica della ragazzina che vuole personificare l’avanzata sul fronte del Regio Esercito Italiano.

Il 7 novembre 1918, Unità del Regio Esercito Italiano entrano in Isola. Per ricordare l’evento sulla facciata del Palazzo comunale viene scoperta una lapide. La riva, che va dalla vecchia pescheria al Comune, viene denominata “Riva VII settembre”. Stando all’unica fotografia di cui disponiamo e che testimonia i responsabili del Comune per l’arrivo delle unità militari italiane, non credo si possa dire che si trattasse di un’atmosfera festosa. A pochi giorni dalla fine della Grande Guerra, quando molti Isolani si trovavano ancora assenti e non ancora smobilitati dalle unità militari del nemico, è evidente che tra la popolazione esistesse un certo timore nei confronti delle autorità che ancora fino a pochi giorni prima si era chiamati a combattere sul fronte del carso o sulla linea del Piave.

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Il 14 novembre 1918, viene esonerato dall’incarico e deferito al Tribunale disciplinare il segretario comunale Armido Basilisco per il suo comportamento filoaustriaco durante il conflitto, e su decisione del Commissario straordinario, a governare il Comune viene chiamato un Comitato Nazionale.

Rara fotografia del 7 novembre 1918, quando le autorità, alquanto spaesate, si erano disposte in Piazza Grande in attesa delle unità militare di conquista italiane, che fino a qualche mese prima per la popolazione locale rappresentava “il nemico”.

Da alcuni resoconti di stampa, ben diverso il comportamento degli Isolani in occasione del primo anniversario della presa di possesso di Isola da parte del Regno d’Italia. Da una corrispondenza del 5 novembre 1919, il quotidiano “La Nazione” scrive testualmente che la sveglia di giubilo alla popolazione isolana venne allegramente suonata alla mattina dalla banda cittadina lungo le vie, le calli, i larghi e le piazze pavesate a festa. Il corteo, che si formò al Municipio, era seguito dai fanti della Brigata Casale, nella loro gloriosa divisa di guerra, e quindi dal Commissario del Comune con i membri del Comitato per la festa della redenzione, gli scolari e le scolare col loro tricolore e guidati dai bravi maestri, il Ricreatorio Italia con bandiere e popolo in lungo suolo. Più tardi, riuniti in piazza davanti al palco, il Presidente del Comitato volle a parte onorare a nome dei

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concittadini tutti - il fante isolano Amedeo Degrassi, fregiando il suo petto, gloriosamente, con una grande medaglia d’oro, che il Janesich di Trieste incise con fine senso d’arte. Quindi il presidente scoprì la lapide commemorativa posta sulla facciata del Municipio. L’epigrafe, dettata dal cav. Fragiacomo e dal parroco mons. Muiesan, recitava: L’alba del 7 novembre 1918 che, spezzato il secolare servaggio dopo quadriennale titanica lotta, salutò i primi soldati d’Itaolia approdare liberatori a questi lidi. Il popolo d’Italia inneggiando alla Patria volle ai posteri perennemente ricordata.

Ben diversa la situazione in occasione del primo anniversario di quella che veniva considerata “la Redenzione” di Isola e dell’Istria. Migliaia le persone accorse in Piazza Grande per scoprire la lapide commemorativa fissata sulla facciata del Municipio e ormai scomparsa.

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A distanza di quasi un secolo, l’evento è materia degli storici per discutere se l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 sia stato un atto dovuto o meno, oppure se la sua entrata a Trieste e in Istria nel 1918 sia stata un’occupazione, una redenzione o una liberazione dalla “prigione dei popoli”. A queste domande, oggi, da cittadini europei, non serve rispondere. Quel primo abbraccio tra popolazione italiana dell’Istria e l’Italia, oggi, rappresenta un valore storico e culturale, ma può essere interpretato anche come un profondo atto di amore. Nonostante tutto – come venne sottolineato a Palazzo Manzioli dai rappresentanti della Comunità Italiana durante la manifestazione rievocativa del 90.esimo anniversario dell’evento - è grazie a questo amore per la propria Matrice Nazionale, anche se non sempre corrisposto, che troppi Isolani e troppi Istriani hanno abbandonato tutto per seguirla. Ed è anche sempre grazie a questo amore che noi, Italiani rimasti, siamo ancora qui, dopo aver resistito per oltre mezzo secolo, a testimoniare nuovamente la nostra appartenenza e la nostra presenza.

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A.D. 1920 - Il giardino pubblico Uno dei luoghi che godevano delle maggiori simpatie da parte della popolazione isolana era, almeno fino alla prima metà del secolo scorso, il giardino pubblico, ribattezzato circa un ventennio fa in “Parco Pietro Coppo”.

Cartolina illustrata del Giardino pubblico nei primi decenni del secolo scorso. Sono ancora visibili le statue delle quattro stagioni

Nel periodo d’anteguerra, ma anche dopo gli anni ’50 del secolo scorso, veniva frequentato dalla mularia, ma pure dalle persone pià anziane. Luogo particolarmente indicato perchéforniva parecchi elementi per qualche fotografia, almeno da quando prese piede la possibilità di disporre di un proprio apparecchio fotografico. E poi, c’erano le panchine che, durante la bella stagione offrivano ombra a refrigerio, magari in attesa dell’ora pomeridiana adeguata per raggiungere, lungo Riva le Porte, il molo d’approdo e attendere l’arrivo di qualche Piroscafo. Pochi, però, sono a conoscenza delle modifiche che, soprattutto dopo gli anni ’50, sono state apportate al giardino, Per rendersene conto basta dare un’occhiata ad alcune cartoline e fotografie del tempo scattate prima dell’avvento del potere popolare. Così,

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è stato demolito il Monumento ai caduti della prima guerra mondiale: probabilmente perchési riferiva agli Isolani caduti nelle file dell’Esercito Italiano che, sul Carso e sull’Isonzo, combattevano contro l’esercito austriaco.

Istantanea degli anni dell’immediato dopoguerra, quando anche il Monumento alla Prima Guerra mondiale serviva da sfondo per qualche ricordo dei più piccoli.

Dal giardino, però, sono scomparse anche le statute che, poste attorno alla vasca con il cigno, rappresentavano le quattro stagioni. La ragione, è probabile, vada ricercata nelle intemperie atmosferiche che ne avevano compromesso la struttura. Anche se, osservando bene le immagini, abbiamo il sospetto che siano state usate a suo tempo per adornare il Monumento ai caduti. Una volta eliminato questo, però, perchénon sono state rimesse al loro posto? Ci

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sembra, che, invece del mastodontico capanno di stile alpino fatto erigere recentemente nel centro dello spiazzo, le quattro simpatiche statuine avrebbero fatto certamente bella figura, magari restaurate, come del resto è stato fatto per la vasca, la fontana ed il bambino con il cigno.

Cartolina del giardino pubblico con il monumento ai caduti nella Prima Guerra mondiale.

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A.D. 1921 - Temporali a Isola Visto l’andamento delle condizioni atmosferiche di questi ultimi anni, che colpiscono duramente sia la penisola italica, come pure la zona interna della Slovenia e, pure, dell’Istria, sono molti a ritenere che la nostra posizione al limite estremo nord dell’Adriatico rappresenti una garanzia di tranquillità , almeno dal punto di vista atmosferico.

Lettera inviata al Municipio di Isola dal tecnico comunale Ettore Longo per denunciare i danni provocati dal temporale del 5 agosto 1921.

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Tuttavia, almeno per quanto riguarda la documentazione di cui si è entrati in possesso, Isola è stata spesso colpita da pesanti temporali che, volta per volta, richiedevano l’intervento delle autorità Così, per esempio, esiste testimonianza del 1921, quando un fortunale danneggiò seriamente il molo ed altre strutture portuali. Questa volta a descriverlo fu il noto geometra isolano Ettore Longo, che essendo un tecnico comunale, riferì per iscritto al Comune di Isola scrivendo che In seguito all’uragano scatenatosi la sera del 5 agosto 1921 tutte le rive e molo d’approdo furono in più punti gravemente danneggiate, in special modo è da considerarsi il tratto della riva Nazario Sauro, un tratto del molo d’approdo, ed un tratto di fronte all’Officina del Gas. Onde scongiurare danni maggiori si rende avvertito questo Spettabile Municipio di prendere le disposizioni del caso.

Anche Piazza Grande, non ancora asfaltata o lastricata, contribuiva a riempire il mandracchio di detriti provenienti dai vicoli dell’interno dopo ogni grande pioggia.

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Una violenta bomba d’acqua aveva fatto completamente sommergere negli anni ’70 Le Porte e tutti gli spazi circostanti. Di un violento nubifragio a Isola abbiamo anche una testimonianza fotografica risalente, crediamo, agli anni ’70 del secolo scorso, per opera del compianto Erminij Benčič che, anni fa, consegnò le immagini davvero inconsuete alla nostra redazione.

In particolare il mandracchio era spesso all’ordine del giorno della corrispondenza con le autorità portuali, in quanto dopo ogni grande pioggia, l’acqua proveniente in discesa dai vicoli che dal Duomo scendevano ripidi verso Piazza Grande, portavano con sè anche grandi quantità di detriti che, naturalmente, finivano in mare. Crediamo sia stato proprio quell’evento a convincere le autorità comunali della necessità di ripulire tutti i canali di sfogo del centro isolano che, evidentemente, non ce la facevano a far defluire l’enorme ed improvvisa quantità provocata dalla bomba d’acqua.

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A.D. 1920 - Lo Squero Negli ultimi anni l’amministrazione comunale di Isola ha proclamato e tutelato con tanto di modifica del piano regolatore dell’area lo squero sorto nel dopoguerra nei pressi delle industrie per la conservazione del pesce. Decisione meritevole di particolare elogio per non far cadere nell’oblio anche questa forma di attività legata al mare. Purtroppo, però, è andata completamente persa la memoria degli squeri esistenti a Isola fino agli anni ’50 del secolo scorso.

Lo squero dei Deste, che sorgeva lungo la riva verso Punta Gallo, subito dopo l’edificio della nuova pescheria.

Nella prima metà del secolo scorso, quando Isola deteneva il primato assoluto della pesca di tutto l’alto Adriatico, la necessità di riparare le imbarcazioni, piccole o grandi che fossero, aveva portato alla nascita di mestieri specifici che venivano eseguiti in riva al mare: carpentieri, calafatari, ecc... Per queste esigenze erano nati due piccoli cantieri navali, che oltre alla manutenzione delle barche erano attrezzati anche per costruirne di nuove, sempre di modeste proporzioni. Di squeri a Isola ne esistevano due, il primo a ridosso dell’edificio della pescheria, verso Punta Gallo, uno secondo aveva sede nell’area che affiancava il Primo Ponte.

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Altra immagine dello squero di Punta Gallo.

Della loro esistenza non sono rimaste che alcune immagini, a testimonianza dei mestieri e degli artigiani che nella cittadina erano sorti come conseguenza dello sviluppo industriale. Praticamente, vista la loro modesta dimensione, ma anche per l’assenza di una necessaria infrastruttura di supporto, erano costretti alla costruzione di piccole imbarcazioni e, ma la loro attività principale era soprattutto quella della manutenzione e della riparazione dei natanti da pesca.

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A.D. 1927 - I vespasiani Di vespasiani a Isola, a memoria d’ uomo, fino agli anni ’50 del secolo scorso, ne esistevano tre: davanti al giardino pubblico dietro la pesa pubblica, accanto al “campo de balon” vicino al mare, e, sempre vicino al mare, sul piazzale antistante la pescheria.

Il vespasiano che fino agli anni ’50 del secolo scorso era funzionante in Piazza Grande, tra la pescheria e la diga.

A Isola sono stati smantellati subito dopo l’avvento del potere popolare, peccato, però, che non ne sia stato conservato nemmeno uno da esporre come reperto museale, a parte le immagini che ci vengono dalle cartoline d’epoca. Secondo il dizionario di lingua italiana, il vespasiano è un Orinatoio pubblico per uomini a forma di colonnetta. Oppure ancora: sono dei bagni pubblici a forma di edicola fortemente voluti dall’imperatore Vespasiano, per salvaguardare l’igiene pubblica. La tradizione, accolta da Svetonio in “De vita Caesarum”, vuole questa frase attribuita a Tito Flavio Vespasiano, imperatore romano (nato presso Rieti nell’anno 9 d.C. e morto a Cutilie, Sabina, nel 79 d.C.), a cui si deve il nome, in quanto i vespasiani furono da lui sottoposti a speciale tassazione. La tassa era dovuta dai “fullones” (erano coloro

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che lavavano e smacchiavano le vesti) i quali, dai residui organici ricavavano l’ammoniaca.,

Particolare ingrandito del vespasiano situato in Piazza Grande.

Ai vespasiani, dicono le enciclopedie, è legato il detto: Pecunia non olet, che è una locuzione latina il cui significato letterale è “Il denaro non ha odore”, che, dalle nostre parti si usa ancora oggi tradotto nella parlata isolana che pare sostenga che i sòldi i no spùssa! È una frase che viene cinicamente usata per indicare che, qualunque sia la sua provenienza, “il denaro è sempre denaro” o “il denaro è solo denaro”; nel senso che il mezzo non determina l’intenzione e che la provenienza non darebbe alcuna connotazione positiva o negativa al mezzo/strumento che è il denaro.

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A.D. 1928 - Mésa Grisa Il viale oggi intitolato al Primo Maggio e, prima, al XX Settembre, era conosciuto soprattutto come “Mésa Grisa” , cioè “Mezza Grigia”. Il nome era stato inventato dal popolo, dopo che il Comune, agli inizi del secolo scorso, decise di pavimentare la strada che sbocca alle Porte con lastre di pietra istriana grigia.

Cartolina d’epoca con un’immagine di Viale XX settembre - oggi Viale Primo Maggio - quando si passeggiava ancora su terra battuta, agli inizi del secolo scorso.

Non soltanto questa, ma nei secoli, quasi tutta Isola era stata pavimentata con la pietra grigia. Tutte le vie dell’interno, soprattutto quelle che salgono verso il Duomo, ma anche le piazze, quando non erano di terra battuta, venivano ricoperte con questa pietra. In fondo, era una caratteristica di tutte le cittadine istriane, prima che fosse inventato l’asfalto. Sull’uso e sulla presenza della pietra in Istria, riportiamo come ebbe a scrivere qualche tempo fa lo studioso di cose istriane, Ulderico Bernardi, ripetendo una metafora della Bibbia: Chi di voi, se suo figlio gli chiede pane, gli darà una pietra? L’Evangelo di Matteo (VII, 9) propone una metafora cruda. Ma per generazioni, in tanti

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luoghi dell’Istria e della montagna che fa da sfondo all’Adriatico la pietra si è davvero fatta pane quotidiano spartito in famiglia. È storia di cavatori, di tagliapietre, di scalpellini che nei secoli hanno perpetuato un mestiere antico come la casa degli uomini. Pietra squadrata per alzare le mura della città, ma anche per lastricare le strade che portano al mondo, per segnare la soglia, per suggellare la volta dell’arco, per onorare la tomba, per pavimentare le stanze di palazzi dove si amministra la giustizia, la piazza dei cittadini, il mercato degli scambi, luogo d’incontro tra le culture. Pietra calda e odorosa del focolare domestico dove cuoce il pane.

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A.D. 1928 - La “Pullino” di Isola campione olimpionico Lunga e gloriosa la storia del canottaggio di Isola, iniziata nei primi anni ’20 del secolo scorso con la costituzione della A.S. “Canottieri Giacinto Pullino”, è proseguita anche nel dopoguerra, pur se, dopo il 1945, con altre società e con altri equipaggi. La “Pullino, dopo che le è stato cambiato il nome in “G. Delise”, perchéal potere non andava il riferimento a “Giacinto Pullino”, il sommergibile italiano comandato dal capodistriano Nazario Sauro, e catturato dagli Austroungarici nella Prima Guerra Mondiale, si ricostituì dopo l’esodo della popolazione isolana, a Trieste ed oggi è ancora presente nella vicina Muggia. Dopo i successi ottenuti in campo italiano, il “quattro con” della Canottieri “Giacinto Pullino” conquistarono l’alloro olimpico alle Olimpiadi di Amsterdam del 1928.

Il manifesto delle Olimpiadi di Amsterdam del 1928.

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L’armo, composto da Giovanni Delise, Nicolò Vittori, Giliante Deste, Valerio Perentin, con Renato Petronio, timoniere e allenatore, approda ad Amsterdam per rappresentare l’Italia alle Olimpiadi.

Gli olimpionici isolani vincitori dell’oro olimpico del 1928 nel “quattro con”.

La consegna dell’alloro olimpico al “quattro con Isolano” dopo la vittoria di Amsterdam.

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I giovani isolani regatano sullo stretto di Slotenkanal, dove possono cimentarsi solo due equipaggi per volta. Il primo percorso lo affrontano senza avversari. Nel secondo si trovano di fronte la favorita compagine della germania. La battono clamorosamente. Nel terzo ancora la Germania e, ancora una volta, il successo. Ne quarto, battono senza problemi la Svizzera. Nel quinto e decisivo percorso si lasciano nuovamente alle spalle la Svizzera. È l’oro olimpico.

L’imbarcazione della Pullino durante le prove nello specchio d’acqua davanti a Riva le Porte. Lo storico canotto degli olimpionici isolani è ora esposto al “Museo del Mare” di Trieste.

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A.D. 1929 - Il Grande freddo Ad ogni ondata di freddo, ritorna dalla memoria collettiva, quella del 1929, anche se pochissimi ormai ne hanno un ricordo diretto. Eppure, temperature che nei primi giorni di febbraio scesero a meno 20 gradi, con una popolazione che da poco era uscita stremata dai drammi e dalle paure della Grande Guerra, affrontò con spirito ottimista anche questa calamità.

Gruppo di Isolani che, durante il grande freddo del 1929, si sono fatti ritrarre . come atto di coraggio - sul mare ghiacciato al “primo ponte” .

Sembra un’immagine ripresa in Siberia, da dove – si racconta - il vento gelido stava attanagliando tutta l’Europa, eppure (chi lo direbbe?) sono soltanto un gruppo di impavidi giovanotti isolani che si sono fatti riprendere, proprio nel gennaio del 1929, nel tratto di mare ghiacciato nell’insenatura di fronte allo scoglio di San Marco, al Primo Ponte, a pochi passi dalla fabbrica di conserve alimentare “Ampelea”.

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Un’immagine della Laguna di Venezia completamente ghiacciata e sulla quale si poteva anche pattinare.

Gravissimi i danni per l’agricoltura, praticamente annientata la produzione dell’olivicoltura, che, a quanto sembra, stia riprendendosi appena in questi anni del XXI secolo, dopo quasi un secolo. Tra le testimonianze degli agricoltori di allora, ne riportiamo una emblematica: …Qualcuno tagliò i rami, qualcuno tagliò le piante raso terra. Qualche pianta germogliò di nuovo, altre morirono del tutto. Un freddo simile non si ricordava da cento anni e anche dopo non si è più verificato. A quasi tutti i contadini quell’inverno si congelarono le patate e la frutta nelle dispense; perfino le uova delle galline si congelarono nella cova. Molti quell’inverno non lo superarono, si ammalarono e morirono. Da quell’inverno la produzione dell’olio subì un drastico arresto. Anche i frantoi rimasero chiusi per molti anni. Anche questi ultimi anni, tra febbraio e marzo, si registrano ondate improvvise di gelo, tanto che anche il giornale della nostra Comunità, nel darne notizia un paio d’anni fa, pubblicò alcune drammatiche immagini, ribadendo che si trattava di un gelicidio, fenomeno che non si vedeva da oltre mezzo secolo. Il pericolo in questo caso per l’agricoltura era rappresentato soprattutto dal peso del ghiaccio sui rami che rischiava la loro rottura.

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Immagine recente di qualche anno fa, quando una gelata notturna aveva fatto temere il peggio per le piante e, soprattutto, per gli ulivi. Fenomeno, vher gli rdperti definirono come “gelicidio�.

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A.D. 1930 - La saccaleva Anche se il sistema della saccaleva, come testimonia lo storico Luigi Morteni nella sua storia isolana, era presente a Isola già alla fine del XIX secolo, è tra le due guerre del secolo scorso che prese definitivamente cittadinanza lungo le nostre coste per merito dei Troian. Albino Troian, autore – con l’aiuto del prof. Giuliano Orel - del libro “Il mio mare” racconta: La saccaleva ad anelli ha origini dalmate. La sua invenzione nella forma attuale avviene nel 1926 e si deve al rovignese Ribarich, nocchiero di pesca, che aveva trascorso un lungo periodo di vita militare in Dalmazia.

Immagine delle saccaleve al porto di Isola in attesa di uscire in mare verso il tramonto.

L’idea comunque, convince i pescatori Giacomo e Angelo Troian di Isola d’Istria. Insieme la costruiscono, avvalendosi dell’aiuto economico del Ministero della Marina, ottenuto grazie ai buoni auspici del comandante Manicor, della Capitaneria di porto di Trieste.L’introduzione della saccaleva ad anelli suscitò non poche reazioni da parte degli altri pescatori, sino allora dediti a una pesca limitata, condotta con reti ad imbrocco (utilizzate durante il plenilunio) oppure con menaide.

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Pescatori davanti al proprio peschereccio che stanno controllando le reti per la saccaleva.

La saccaleva consentiva maggiori catture, da qui la falsa credenza che questo tipo di pesca, oltre che determinare un sensibile calo del prezzo del pesce per aumento dell’offerta, avrebbe indotto la distruzione dello stock, con evidente definitivo danno per tutti i pescatori. Si trattò di un’autentica sollevazione: i pescatori si rivolsero anche alle autorità civili e amministrative, senza tuttavia nulla ottenere. Ci si appoggiò dunque alle confraternite religiose, le quali acconsentirono di estromettere i fratelli Troian dalla processione con barche, che accompagnavano la statua della Madonna di Isola al Santuario di Strugnano e tutto questo per il danno arrecato alla pesca e alle marinerie. Non bastò questa estromissione, vi furono insulti e minacce; si dedicò loro persina una canzonetta dal titolo “I rovinamondo”:

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La processione, dalla quale vennero estromessi i fratelli Troian, che ogni anno partiva dal molo isolano per raggiungere la “Madona Granda de Strugnan”.

Anche Segadissi, con Nicoletto Spanghe, i se gà trovà pusai sule stanghe e ciacolando la sacaleva i la vol far. Questi rovinamondo, i no se rendi conto che de sardele e de sardoni la distrusion i la vol far. Ala sacaleva con i faraia carburo con batel e batelini quatro parte i ghe vol dar. Questi rovinamondo, i no se rendi conto, che duti i pescauri in miseria i farò ’ndar. “Come è naturale - scrive lo stesso Albino Troian nel suo volume “Il Mio Mare” - si trattò di un’opposizione di breve durata, destinata all’inesprabile fallimento innanzi ai dati di fatto: la saccaleva si poneva quale strumento più idoneo alla cattura del pesce azzurro.” Troian, nel suo volume, parla anche delle reti a strascico e dove e cosa si pescava: Le reti da strascico, venivano usate a Isola fina

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Copertina del volume “Il mio mare” di Albino Troian.

dall’Ottocento, sotto Ronco e a San Simone per la pesca di Boghe, Spigole, Cefali, Seppie, Aguglie, Mormori, Occhiate, More, Saraghi maggiori, Orate, Calamari, Polpi comuni, durante l’estate e in autunno. Nella baia di Strugnano, invece, per la pesca delle acciughe in tutte le stagioni.

Suggestiva immagine notturna con le saccaleva ferme nel mandracchio isolano.

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A.D. 1933 - Giani Stuparich in vacanza a Isola Durante il periodo antecedente la Seconda guerra mondiale, quando Isola offriva molte possibilità di godimento della natura, assieme a un ambiente popolare e piacevole, decine di persone venivano a trascorrervi le vacanze estive, soggiornando sia negli alberghi che presso amici o parenti. Tra i visitatori abituali della nostra città, anche la famiglia di Giani Stuparich, che dalla vicina Trieste, trascorreva qualche settimana di tranquillità in una cittadina istriana. Tra le località preferite, anche per la vicinanza, la cittadina di Isola, come ce la racconta lo stesso Stuparich, una volta diventato adulto ed affermato scrittore.

Lo scrittore triestino Giani Stuparich che, nella sua raccolta, intitolata “Racconti Istriani”, racconta più volte dei suoi soggiorni da bambino a Isola.

Lo Scoglio d’Isola rappresentò per varie estati la realizzazione dei nostri sogni di ragazzi, quando dall’obbligo e dalla fatica della scuola la nostra immaginazione correva alla libertà delle vacanze. Così inizia uno dei Racconti istriani che Giani Stuparich, scrittore triestino (1891-1961), dedica ai suoi ricordi legati alla nostra cittadina. Il padre originario di Lussimpiccolo portava spesso la famiglia a trascorrere le vacanze estive in amene località istriane. Nei primissimi anni del secolo, il piccolo Giani trascorse qualche estate anche ad Isola, certamente non annoiandosi, come lo dice egli stesso. Isola

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era un vero nido di pescatori. A Isola come in nessun altro posto dell’Istria, a noi ragazzi s’apriva il mondo della pesca... La maggior parte di quella pesca andava alla fabbrica, che elevava il suo fumaiolo proprio sullo Scoglio, non lontano dai nostri bagni. Tutto intorno odorava di pesce salato e lustrava di teste di sardelle. Bariletti di teste si portavano via i pescatori e si servivano di esse per il “pascolo”: per la “bruma”: Qua a Isola, duto el fondo del mar xe coverto de teste de sardele, un vero pascolo che ciama i altri pesi!

Immagine di pesca sulla costa istriana, tratta dal volume “Marine Istriane” di Giuseppe Caprin.

Giani Stuparich racconta le pescate che faceva con il padre e con un Isolano che chiamava “Marco il pescatore”: Il fatto straordinario della straordinaria avventura era la veleggiata in piena notte, saremmo infatti partiti poco prima della mezzanotte, per giungere sul posto alcune ore dopo a seconda del vento, e attendervi l’alba. Come spiega lo stesso Stuparich, si trattava di andare a pesca di sgombri: .. con lenze tutte ben ordinate: ce ne saranno state una ventina e in confronto con quelle che adoperavamo noi, ci sembravano gigantesche, avvolte attorno a larghi sugheri, coi piombi pesanti, il filo di Spagna grosso, ricche di ami. Non eravamo mai andati alla pesca degli sgombri. - Perché tante? - chiedemmo a Marco e Marco ci spiegò che all’occorrenza papà e lui avrebbero pescato con quattro. - Con quattro? - Si, due su le recie e due in man. In due ore d’affannoso e

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gioioso lavoro pescammo, quella indimenticabile mattina, intorno ai trenta chili di sgombri. Il posto lo si ritrovava per riferimenti. Quando il camino della fabbrica di sardelle si allineava perfettamente con il campanile del Duomo e la casetta rosa sullo scoglio copriva un’altra casetta bianca più in alto, eravamo sul posto.

Copertina del volume “la isla” di Giani Stuparich, con alcune pagine dedicate anche alla pesca isolana.

Tra i “Racconti istriani” di Giani Stuparich ambientati a Isola, sempre carichi di una umanità e di una capacità di fotografare luoghi e situazioni rare, bisogna ricordare anche “L’aquilone”, dove l’autore triestino descrive i giochi assieme ai coetanei e al padre durante

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una delle estati che fu, come dice egli stesso, particolarmente splendida. Descrive alcuni giocattoli e giochi tipici dell’epoca che sembra divertivano molto i bambini dell’epoca, cioè dei primi anni del secolo scorso: un giorno papà veniva a casa con un mazzo di canne palustri e da queste, con arte, egli ricavava per noi fischietti, piccoli zufoli e schizzetti: per una settimana, con disperazione della mamma, noi assordavamo l’aria di fischi e nessun passaggio all’aperto era più al sicuro dai nostri spruzzi. Un altro giorno vedevamo papà manipolare misteriosamente ogni sorta di stracci... ne venne fuori, con nostra gioia e sorpresa, una bella palla vibrata, cucita solidamente, con un forte manico di stoffa. Non appena il sole declinava un poco, eravamo sul prato, divisi in due squadre opposte, a lanciarci la palla e a farci sotto per afferrarla al volo.

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A.D. 1935 - Acquedotto del Risano È stata la costruzione dell’Acquedotto Istriano a risolvere definitivamente il problema dell’acqua a Isola. È comunque noto, che la nostra città non ha mai sofferto per la mancanza di questo prezioso liquido, nemmeno nei periodi di grande siccità. Grazie, soprattutto alle sorgenti presenti sul territorio, e in particolare, in prossimità del centro abitato.

Isolane che, ancora nei primi anni del secolo scorso, frequentavano il Fontanone sia per fornirsi di acqua potabile che portavano a casa nelle “mastèle”, sia per il bucato.

Con la crescita della popolazione, ma soprattutto con la nascita di una fiorente industria conserviera, si fece pressante anche il fabbisogno di acqua. Così nei primi anni del secolo scorso l’amministrazione austriaca di Isola ritenne opportuno dotare l’abitato di una serie di fontane pubbliche, nelle quali, attraverso un piccolo acquedotto, faceva confluire l’acqua del torrente Ricorvo. A testimonianza esiste ancora in periferia uno dei grandi serbatoi di quel periodo.

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Il serbatoio che, raccogliendo l’acqua del torrente Ricorvo, provvedeva, agli inizi del secolo, a convogliarla in basso verso i punti di distribuzione situati in alcune zone del centro urbano.

Secondo una ricerca effettuata dall’isolano Giovanni Russignan intitolata “le risorse idriche” si apprende che di sorgenti cospicue a Isola se ne potevano contare addirittura tre: quella della fonte degli Àgnesi o, secondo alcuni, Àgnisi di cui non è possibile ricostruire l’origine del nome, quella del torrente Ricorvo, che poi venne convogliata in un piccolo acquedotto, e quella del Fontanon o Fontana Fora.

Fotografia d’inizio secolo scorso che ritrae una delle pompe d’acqua pubbliche. Probabilmente anche a Isola ne esistevano di uguali.

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Quest’ultima è stata nei secoli certamente la più importante risorsa idrica per tutta la città, ma va ricordato che anche la Àgnisi aveva per gli abitanti di Isola una notevole importanza, proprio perché situata non troppo distante dal centro abitato. Probabilmente rifatta al tempo dell’occupazione napoleonica del primo decennio dell’800, era situata poco prima dell’incrocio della strada romana con il torrente Pivol. Consisteva di un pozzo di forma quadrangolare che finiva con un muro in pietra. Da qui, attraverso un foro, l’acqua si riversava in una vasca più piccola, pure quadrata, che serviva da abbeveratoio per gli animali. Infine, l’acqua in eccedenza entrava in un canale di scolo e scendeva fino al mare nei pressi del macello. Come rileva il Russignan, la strada romana che le passava accanto testimonia dell’importanza della sorgente fin dai tempi più remoti

Fontane in ghisa che vennero installate in alcune piazze isolane dopo la costruzione dell’Acquedotto Istriano. Rimasero in funzione fino ai primi anni ’60 del secolo scorso, poi, per la loro immagine raffigurante il “Fascio Littorio”, eliminate.

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Le fontane pubbliche avevano una colonna di ghisa con qualche modesto elemento decorativo, erano alte metri 1,60 e con un piano d’appoggio per i recipienti. Erano situate nelle maggiori piazze e nei piazzali, ma di esse non rimane più traccia.

La fontana pubblica inaugurata nel 1935, quando anche Isola venne inserita nelle rete idrica dell’Acquedotto Istriano. Anche questo venne abbattuto qualche decennio più tardi, vista la scritta “Volontà fascista l’acqua del Risano qui condusse. E.F. XIII.”

Nel 1935, finalmente, Isola venne collegata al nuovo Acquedotto del Risano che ancor oggi assicura l’acqua per tutta la città, ed a testimoniarne l’importanza, purtroppo, non esiste più il monumento in Piazza Tristan, ristrutturato qualche decennio fa, non per necessità pratiche, ma semplicemente per rispondere ad una scelta ideologica che non gradiva la scritta scolpita bene in vista. Va comunque sottolineato che la realizzazione dell’Acquedotto del Risano rappresentò una grande conquista per tutta l’Istria. E anche per Isola.

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A.D. 1938 - Isola e i vaporetti Chi è vissuto a Isola fino alla prima metà degli anni ’50 del secolo scorso può rivivere a volte la notalgia delle interminabili ore trascorse al molo per veder partire o arrivare i piroscafi di linea che, giorno per giorno, e più volte al giorno, collegavano la nostra città a Trieste, ma anche a Pirano, Capodistria o Muggia. Di mattina o nel tardo pomeriggio, per vedere chi arrivava e chi partiva. Quali erano le persone che si conoscevano, e quali quelle che si vedevano per la prima volta.

Isolani sul molo d’approdo nei primi anni del secolo scorso in attesa dell’arrivo di uno dei numerosi vaporetti che facevano linea tra le cittadine istriane, Isola compresa, e la vicina Trieste.

È difficile - oggi - immaginare i moli di Trieste, Capodistria, Isola, Pirano e Muggia brulicare di persone che attendevano i vaporetti per recarsi al lavoro, al mercato, in vacanza. Eppure, fino a sessant’anni fa, le rive di queste città erano animate dalla parlata istroveneta, con cadenze e accenti diversi, ma pur sempre riconducibile a quell’aria di casa nella quale ci si riconosceva. È difficile immaginare che il molo di Isola, oggi quasi sempre vuoto e desolato, fosse stato luogo di appuntamenti quotidiani di una parte della popolazione, bambini e donne soprattutto, con orari regolati della sirena dei vaporetti che ne annunciavano l’arrivo.

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Vaporetti attraccati al molo di Isola in arrivo o in partenza.

Pubblicità per le linee marittime che collegavano Isola alle altre città dell’alto Adriatico e Trieste.

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Negli anni immediatamente precedenti il secondo conflitto mondiale l’Istria registrò un notevole e molto intenso traffico marittimo soprattutto nel settore passeggeri, come si può rilevare da alcune analisi effettuate nel golfo di Trieste riguardanti il settore. Nel 1938, per esempio, si raggiunsero i 4,85 milioni di passeggeri, il che rappresentava più della metà dell’intero movimento passeggeri registrato allora in tutta l’Italia. Si trattava indubbiamente di una particolarità di questo territorio da sempre vitalmente legato a Trieste e che comportava un consistente spostamento quotidiano di persone, sia che si trattasse di operai e manodopera impiegata nelle industrie e nei cantieri di Trieste e di Monfalcone, ma anche di commercianti, artigiani, contadini. Infatti, Trieste era la più grande piazza ortofrutticola di tutta l’Istria nord-occidentale. Una tendenza, in fondo, che si è mantenuta anche durante il periodo bellico, come pure negli anni dell’immediato dopoguerra – pur con la presenza di confini a volte anche ermetici.

La motonave “Dionea” che anche negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso faceva linea lungo le coste istriane e il capoluogo giuliano. Oggi, la Dionea è stata trasformata in uno yacht di lusso.

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A.D. 1940 - Forneri e pancogole Pare che con il numero dei panifici e delle rivendite di pane si sia tornati ai tempi di una volta, quando a Isola esistevano addirittura sei o sette “fornèri”, come venivano chiamati. Oggi, naturalmente, i forni per la cottura del pane sono molto diversi, anche tecnologicamente, il che rende il tutto più facile. L’impasto non segue più i riti in auge ancora trenta o quaranta anni fa, quando lo si preparava a casa e le “bighe, le strùse o i cornèti”, già tutto lievitato, si portavano dal fornaio soltanto per la cottura. Come scrive Antonio Vascotto nel suo volume “Voci della parlata isolana”, negli anni ’30 del secolo scorso esistevano a Isola ben 5 pannettieri. Il Vascotto ricorda: quel dei Ragaù, vicino alle scuole, quel de Viola, in via Besenghi angolo vicolo Egidio, quel dela Piranèsa, vicino alla chiesetta di S. Giovanni, quel de Ràlsa in vicolo Porta Ughi, e infine quel “Fora” tacà al campo de Balòn. Par i cornèti el mèo ièra Ràlsa, ma dùti fèva squasi sempre un pan bòn; e a ièra a bòn marcà, UNA Lira al chilo nel 1930. a no mancava, no!

Il forno dei “Viola”di Vinicio Ulcigrai negli anni ’40 del secolo scorso.

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La cottura e la vendita del pane, naturalmente, è stata sempre di grande importanza per tutte le realtà sociale. Niente di strano, quindi, che anche lo Statuto comunale di Isola del 1360, abbia dedicato più norme per regolare sia la concessione per la cottura, sia la vendita del pane. Così, il libro III dello Statuto in lingua volgare decreta che: È satuito, che per l’avvenir niun Pancogolo, niun Beccaro, niun Tavernaro, et Hosto debba haver l’Officio de Iustitier, et se sarà alletto sia cassada la ellettion, et un’altro sia elletto a quell’Officio. (Iustitier = Funzionario del Comune incaricato di sorvegliare il rispetto dei pesi e delle misure secondo i valori tipo conservati nel Palazzo Comunale - art. 24). Inoltre, all’art. 25, che Ciascuno, che incantarà, et comprarà le raggioni della Pancogolaria habbia, e guadagni otto soldi per ogni quarta di formento, che vendarà al far del pan per vender in Isola, et debba haver, et tegna cinque, over sei pancogole, et non meno in pena de soldi quaranta; Et niuno fazza pan dà vender se non quelli, à quali sarà concesso, et ciascuno, che haverà del detto Dacio sia tenuto a pagar il Dacio in trè termini, sicome si pagano gli Dacij sotto pena del Doppio. E, all’art. 27, che niuna persona debba far pan dà vender se non li pancogoli, à quali è concesso per il Comun, et se li detti pancogoli non potranno far del pan à sufficientia sia in arbitrio del Sig.r Podestà à far far del pan come meglio li parerà.

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A.D. 1945 – I tedeschi distruggono la diga La domenica del 22 aprile 1945, i tedeschi, che avevano occupato Isola nel settembre del 1943, si stavano preparando per ritirarsi dalla città. Prima di mettersi in fuga, però, fecero saltare in aria la diga precedentemente minata con una forte carica di tritolo. Di seguito la testimonianza e le fotografie tratte dal volume “Il porto di Isola” di Ferruccio Delise. Come racconta Ferruccio Delise, è stato Giovanni Delise, detto Nino Pissimol, che immortalò con alcune fotografie i danni provocati e i dintorni del porto nella stessa mattinata dello scoppio. La nostra cittadina, come del resto la maggior parte delle altre consorelle istriane, ha vissuto ore di trepidazione, di sgomento, per tutta la durata dell’ultima guerra, ma ad eccezione di piccoli e sporadici fatti che l’ hanno turbata, poteva dirsi ancora fortunata se, proprio alla fine del conflitto, non avesse passato una giornata che stentatamente riusciremo a dimenticare: domenica 22 aprile 1945.

Erano appena passate da pochi minuti le 6 e 45, quando una fragorosa esplosione (si parlò allora di quintali di esplosivo) avvertì ciò che da qualche tempo si temeva avesse a succedere. Il molo e la diga erano stati fatti saltare dai Tedeschi che sapevamo li avevano minati da tempo.

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Fu una cosa disastrosa per la nostra cittadina che i danni materiali provocati da una simile guerra non li aveva esperimentati ancora. Un bombardamento non avrebbe fatto tanto danno. Un centinaio di case erano state gravemente danneggiate, alcune rese poi inabitabili. Di tutte le altre non ci fu casa che non avesse ad esser stata colpita sul suo tetto.

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Il tetto della chiesa della Madonna fu completamente rovinato ed una pietra abbastanza grossa (probabilmente della diga non tanto distante) dopo aver sfondato il tetto venne a cadere ai piedi dell’altare maggiore. Moltissimi furono i coppi del duomo rotti, come infranti andarono tutti i vetri dei suoi finestroni. La chiesa stessa di San Domenico, ebbe uno squarcio sul tetto.bDelle grosse pietre furono scaraventate fino in Callegarga. Fu un vero miracolo che non si ebbe a registrare nessuna vittima umana, mentre queste avrebbero potuto esser molte se l’esplosione avesse avuto luogo qualche ora più tardi: pochi furono anche i feriti e di poco conto ad eccezione di due.

Se non ci furono delle vittime lo si deve al giorno festivo, al temporale che da poco era appena terminato ( e certamente fu questo a consigliare l’impresa eroica) e al coprifuoco che fino alla mattina precedente era dovuto finire alle ore 7 e che non tutti per fortuna sapevano quella mattina ridotto alle 5. Tutti siamo stati quindi presi di sorpresa, perché nessun avvertimento era stato dato in precedenza, anzi si era fatto credere, con il finto asporto delle micce e delle spolette, che l’intenzione di far saltare eventualmente il molo e la diga veniva cambiata. Gli eroi di tanta prodezza, appena compiuta l’azione, sono fuggiti.

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A.D. 1945 - Quel veglione di Capodanno Chi si ricorda ancora dei veglioni di Capodanno che, fino a qualche decennio fa, stavano a segnare l’anno vecchio che lasciava il posto a quello nuovo? Rappresentavano una festa che gli Isolani festeggiavano in allegria, riuniti in qualche salone per brindare. Rilevanti anche i veglioni che annualmente venivano organizzati anche dalle società sportive. Tra le più conosciute, certamente quelle della “Pullino”. Da alcuni documenti che risalgono al 1945 e che ci sono stati inviati dal nostro concittadino Ferruccio Delise, siamo venuti a conoscenza, però, di una energica protesta del parroco isolano, don Giuseppe Dagri, contro il Comando tedesco della “Landschutz” di stanza allora a Isola.

Manifesto dette truppe tedesche che invitavano la popolazione italiana ad arruolarsi nella Legione delle SS.

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Lettere che, oltre al comando tedesco, sono state indirizzate anche al Vescovo, Mons. Santin e alla Prefettura di Pola, e riguardano l’intenzione del Comando tedesco di organizzare, in pieno periodo di guerra, dei veglioni danzanti nel salone del Conservificio “Arrigoni”. Riportiamo alcuni stralci della corrispondenza di don Dagri, che ci permetterà di farci un’idea della situazione isolana, ma anche del carattere battagliero del parroco. Tutti i documenti, che conserviamo nella versione del testo originale, vanno dal 5 gennaio al 18 febbraio 1945, compreso il rapporto del 25 aprile 1945 che li segue, e che riassume i danni subìti a Isola, causa lo scoppio del porto fatto saltare dai Tedeschi prima di ritirarsi.

Di seguito la missiva, inviata il 5 gennaio 1945 dal Parroco don Giuseppe Dagri al Vescovo Santin, al Comando tedesco e al Municipio di Isola: Eccellenza Ill.ma e Rev.ma Mi permetto di farle avere, per conoscenza, copia della lettera di protesta che mi sono sentito in dovere di inviare a questo Comando della Landschutz, organizzatore di un veglione danzante. Pur nella spiacevole convinzione di non ottenere nulla sta bene dire a certa gente che non tutti la pensano come loro. È stato da me questa sera il Comandante a presentarmi le sue scuse e a chiedermi che cosa

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deve fare dal momento che è tutto pronto. Il Podestà, con il quale ho conferito in merito, lo consiglierebbe a sospendere la manifestazione; il locale Comando tedesco invece gli dice che la manifestazione si deve tenere poiché gli inviti sono già stati diramati. (...) Gradisca, Eccellenza, ogni mio ossequio e voglia benedirmi.

Altro manifesto pubblicitario delle SS tedesche.

Allo Spett. Comando della “LANDSCHUTZ” e allo Spett. Municipio - Isola d’Istria. È a conoscenza del sottoscritto che, organizzato da Codesto Spett. Comando, è indetto per la notte dal 6 al 7 m. c. un veglione danzante il cui ricavato, si dice, dovrebbe essere devoluto a scopo benefico. Il sottoscritto deve meravigliarsi altamente che si possa pensare a simili generi di divertimenti – che, oltre al resto, dovrebbero essere anche in contrasto con le vigenti disposizioni di legge, – mentre tanto si soffre e si piange e mentre la guerra continua con la sua furia crudele a seminare distruzioni e stragi. E assieme alla sua meraviglia sente il dovere di esprimere anche la sua disapprovazio-

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ne e la sua protesta perché nell’organizzazione di tale manifestazione, pur ammantata di fine filantropico, vede l’assenza completa di comprensione della terribile serietà del momento e un insulto atroce alle sofferenze ed al pianto di coloro – e sono innumerevoli – che dalla guerra conoscono tutto lo strazio. (...) Dall’Ufficio Parrocchiale di San Mauro Martire Il Parroco Don G. Dagri.” Il Vescovo non si fece attendere e rispose già il giorno successivo: Al Ven. Ufficio parr. di Isola “Apprendo con un senso di profondo dolore e con viva indignazione, che in quest’ora di dolore e di sangue, mentre d’attorno vi è tanto lutto e tanto pianto, mentre la Patria è ferita da tutti i lati, mentre la nostra terra è piena d’angoscia per i tanti sinistrati, profughi, morti e assenti, vi sia della gente che, a maggiore ironia e ripugnante ipocrisia, in nome del bisogno dei poveri colpiti, organizza veglioni danzanti. (...) La condanna più decisa colpisce, da parte di tutti, chi è così insensibile al dolore dei fratelli e non sa comprendere quale sia oggi il dovere di ognuno. D. C. V. Tr. Epifania 1945 † A. [Vescovo Antonio Santin]” Evidentemente la voglia dei veglioni non aveva freno, nonostante la guerra e i tanti lutti che avevano colpito anche la popolazione isolana, tanto che don Dagri contattò nuovamente il Vescovo, e questi ritenne necessario scrivere il 7 febbraio 1945 alla Società Arrigoni di Trieste e alla cui risposta (non trovata) replicò il 14 febbraio successivo. Alla Soc. An. Prodotti Alimentari G. Arrigoni - Trieste - Via Galatti, 24 “Un gruppo di Isolani, con una incoscienza che spaventa, sta organizzando veglioni su veglioni, adoperando sempre la sala della Fabbrica Arrigoni, perché quella dell’Ampelea fu giustamente sempre rifiutata. L’enormità di questa smania di clamorosi divertimenti

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è in contrasto con l’immenso dolore che grava sul nostro popolo e con le fumanti rovine che hanno distrutto e distruggono la nostra Patria. Prestarsi a tale deplorevole smania è un aiutare questa gente ancor più a discendere, è anche un affronto alla maggioranza, che sale in silenzio il suo calvario e deplora tali segni di morale degradazione. Anche l’ultima festa, nella quale si doveva evitare il ballo, si cambiò in un veglione indecoroso. (...) I migliori si chiedono perché l’Arrigoni dimostra tanta arrendevolezza. Con ossequio deferente, Trieste, 7 febbraio 1945, † A.” Il 18 febbraio 1945, Don Giuseppe Dagri riscrisse al Vescovo allegando un suo manifestino distribuito ai parrocchiani di Isola il 18 gennaio, che in parte riproduciamo:

Il Gauleiter Odilo Globočnik, ufficiale delle SS, tristemente famoso in zona per esser stato Comandante della Risiera di Trieste, dopo aver supervisionato diversi campi di concentramento in Polonia. Noto anche come “boia di Lublino”.

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PARROCCHIANI ! Dopo aver pubblicamente, ma purtroppo inutilmente, protestato contro l’incosciente insensibilità di chi, in questi tempi di dolori e di lutti tremendi, organizza veglioni e di chi vi partecipa, sento il dovere di far sentire la mia voce accorata ed indignata contro il ripetersi di simili spettacoli che non possono non incontrare la più alta disapprovazione da parte di ogni benpensante. È un’ora di dolore e di sangue questa: attorno vi è tanto lutto e tanto pianto: la Nazione è ferita da tutti i lati: la nostra terra è piena d’angoscia per i tanti sinistrati, profughi, morti e assenti. Ma tutto ciò non serve a correggere certa mentalità calpestando qualsiasi sentimento di solidarietà cristiana ed umana. La condanna più decisa colpisce,

Il verbale di costituzione del Comitato di Ordine Pubblico istituito a Isola l’11 settembre 1943, e rimasto in clandestinità come CLN fino al maggio 1945. Don Giuseppe Dagri ne faceva parte con la sua funzione di parroco.

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da parte di tutti, chi è così insensibile al dolore dei fratelli e non sa comprendere quale sia oggi il dovere di ognuno. Io non voglio ammettere che sia completamente scomparso o distrutto ogni senso di umanità. Forte perciò di questa convinzione faccio appello a tutti perché nessuno sia estraneo dal disapprovare ciò che da tutti dev’essere disapprovato. Isola d’Istria, 18 gennaio 1945. IL PARROCO Tanto per concludere: dimenticavamo di dire che il parroco Don Giuseppe Dagri (vedi sopra il facsimile del verbale) già dall’11 settembre 1943 faceva parte del “Comitato di Ordine Pubblico” messo su all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre e che, assieme alle altre forze politiche democratiche di Isola (tra cui Luigi Drioli, Giacomo Bologna, Gottardi Vigilio, Bruno Deste e altri), pur costrette ad operare in clandestinità, svolse il ruolo di Comitato di Liberazione Nazionale. Ruolo che mantenne durante tutta la presenza a Isola dei tedeschi fino ai primi giorni del maggio 1945, quando venne destituito dal cosiddetto Potere Popolare.

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A.D. 1975 - L’Isola che diventa penisola Concludiamo questa serie di piccoli grandi racconti isolani con alcune immagini che, per opera dell’uomo nel corso del secolo precedente, hanno ulteriormente contribuito a trasformare a Isola dall’isola che era stata in passato in una penisola: anzi, a parte il centro urbano e l’area di Punta Gallo, ormai è diventata sempre più “terraferma” lambita dal mare. Le immagini, gentilmente forniteci qualche anno fa, prima della sua immatura scomparsa, dal fotografo di Isola, Erminij Benčič, l’opera di interramento eseguita, credo, negli anni ’70 del secolo scorso, nell’area a ridosso del “primo ponte” a partire da quell’insenatura che ancora agli inizi del secolo scoorso portava il mare quasi fino alle porte della città. Le presentiamo senza bisogno di alcun commento particolare: si commentano da sole.

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Bibliografia Giulio Roselli; Cara Parenzana, Edizioni B&MM Fachin, Trieste, 1987 Ivan Markovič: La Biblioteca Besenghi, Editrice “Il Mandracchio”, Isola, 1999. Franco Degrassi: L’insurrezione popolare d’Isola del 1797 e l’uccisione del podestà Pizzamano, in “Gli ultimi giorni della Serenissima in Istria”, Edizioni “Il Mandracchio, Isola - 2010 Piero Delbello: Sogni dei Segni al Muro, Pubblicità commerciale 1900 - 1910, I.R.C.I., Istituto Regionale per la Cultura Istriana, Trieste, 1998 Antonio Alisi - Il castello di Isola - Manoscritto - archivio personale dell’autore. M. Amari-C.Schiapparelli: “Atti della Reale Accademia dei Lincei” - Roma - 1883 Ferruccio Delise: Il Porto di Isola, Edizioni “Il Mandracchio”, Isola - 2008 Bruno Volpi Lisjak: Delamaris 1879 - 1999, VEK Koper - Capodistria - 1999 Elio Apih, Claudio Silvestri: Le Cooperative Operaie di Trieste, Istria e Friuli, RIVA, Trieste - 1976 Albino Troian: Il mio mare - Sessant’anni di pesca nell’alto Adriatico, Tip. Sartor, Pordenone - 2001 Ferruccio Delise: L’isola dei pescatori, Edizioni “Il Mandracchio” Isola - 2010 Ferruccio Delise: La società civile a Isola, Documenti, Statuti e Regolamenti di associazioni 1597 - 1941, Edizioni “Il Mandracchio” Isola - 2011 Ferruccio Delise: Servizi pubblici e Guide Generali di Isola, Edizioni “Il Mandracchio”, Isola - 2011 Achille Gorlato: L’Istria e Venezia, Edizioni Helvetia, Venezia - 1983 Vido Vivoda: Malvasia Istriana, “Annales” - ZRS Koper, Capodistria - 2003 Silvano Sau (a cura di): 590 anni della scuola pubblica a Isola - Editrice il Mandracchio - Isola, 2009 Franco Degrassi - Un volo sull’onda: i 75 anni della s.n. “Pullino” Isola 1925 - Muggia 2000. “L’Avvenire” - Vienna, 28 maggio 1896 Giovanni Russignan: Raccolta di scritti vari, Stampa Astra, Trieste 1994 Giovanni Russignan: I testamenti di Isola, Trieste Giovanni Russignan: Isola d’Istria ed il Monastero di S. Maria di Aquileia, Stampa Astra, Trieste - 1987

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Giuseppe Franceschin: Santa maria di Aquileia - Monastero, Chiese e Cura d’anime 1036-1782, Edizioni della Laguna, Mariano del Friuli 2007 Luciana Sitran Rea: Presenze istriane e fiumane nello studio patavino nel secolo XVII, estratto da “Quaderni per la storia dell’Università di Padova”, Editrice Antenore, Padova - 1991 Giorgio Bocca: I manifesti italiani fra Belle Epoque e fascismo, Fratelli Fabbri Editori, Milano - 1971 Collezionismo italiano, Vol. I, Cartoline Postali Illustrate, Compagnia Generale Editoriale, Milano - 1979 Marcello Lorenzini: Il Santuario di Strugnano - Santa Maria della Visione, “Isola Nostra”, Trieste - 1993 “La Nazione” - Firenze, 5 Novembre 1919 “Il Gazzettino” - Trieste, 5 settembre 1903 Paolo Naldini - Corografia ecclesiastica (O sia descritione della Città e della Diocesi di Capo d’Istria) - Venezia - 1700 “La Provincia” - Trieste, 1913 “Il Lavoratore” - Trieste, 1914 Alberto Rizzi: Il Leone di San Marco in Istria, Signum Editrice, Padova, 1998 Leo S. Olschki: Il ritorno in Italia di un codice istriano trecentesco della Divina Commdia, in “Bibliofilia” - 1935. Luigi Ferrari, Il nuovo codice dantesco marciano, Officine grafiche di Carlo Ferrari, Venezia, 1935. A.V.: Per la solenne inaugurazione della Casa del Popolo di Isola, tip. Priora Capodistria - 1014 Giacomo Scotti: Questo paese, scusi, come si chiama?, Società Italiana di Ricerca, Capodistria - 1999 Luciano Lago - Claudio Rossit, Descriptio Histriae, La penisola istriana in alcuni momenti significativi della sua tradizione cartografica a tutto il secolo XVIII, CRS - Rovigno - Trieste 1981 Miroslav Pahor, Isola 1253 Silvano Sau (a cura di): Isola, immagini di una storia. Editrice “Il Mandracchio”, Isola - 2006 Pietro Kandler - Codice Diplomatico Istriano, Editore Tipografia Riva S.p.A. Trieste - 1986 Giannandrea Gravisi: “I nomi locali del territorio di Isola “- Atti e memorie della Soocietà istriana di archeologia e storia patria - Volume XXXIV, Parenzo - 1922 “Libro dei morti”, 1700 - 1800, vol VIII - Archivio Parrocchia di Isola Andrej Capuder - SVETI MISION - Kronika Župnijske cerkve sv. Mavra v Izoli, sestavljena v letu 1958. (dattiloscritto, inedito) 1958 Reclus Vascotto: Domenico Lovisato, “Isola Nostra”, Trieste - 1977

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Franco Stener: Il Canottaggio nella cartolina da Grado a Zara, Unione degli Istriani, Trieste - 2002 Giani Stuparich: Un Anno di scuola e Ricordi istriani, Editore Einaudi, 1994 Giorgio Spazzapan - Paolo Valenti: I Vaporetti - Storia dei servizi costieri per passeggeri nel golfo di Trieste. Associazione Marinara “Aldebaran” - Ediozioni Luglio - San Dorligo della Valle, Trieste, 2003. Nadja Terčon: Z barko v Trst - Knjišnica Annales Majora, ZRS, Koper - 2004 Achille Gorlato - Elio Predonzani: Leggende istriane - Poesia di popolo, Villaggio del fanciullo, Trieste - 1956. Consorzio per la traformazione fondiaria dell’Istria: L’Acquedotto Istriano, Capodistria, 1935 Vittorio Lazzarini: Atti e memorie della Società istriana di archeologia e storia patria - Trieste, 1939-1940 Marko Stokin, Katharina Zanier, San Simone / Simonov zaliv, Zavod za varstvo kulturne dediščine Slovenije / Istituto per la Tutela dei Beni Culturali della Slovenia, Ljubljana - 2012 Attilio Degrassi: Scoperte d’antichità romane nel territorio d’Isola, Archeografo triestino, vol. VII, fasc.I, terza serie - Trieste - 1913 Stefan Groh - Helga Sedlmayer: Nuove ricerche nella villa Marittima romana di San Simone presso Isola, Aquileia Nostra, Anno LXXX - 2009 Rosita d’Ercoli - Giovanna Vesci: “Il Filo Spezzato” - Da Isola d’Istria gli intrecci del passato si riallacciano al presente, Scuola dei corsi merletti di Gorizia, Gorizia - 2012 Marino Bonifacio- Giovanni Radossi; Cognomi e stemmi di Isola Editrice “Il Mandracchio”, Isola, 2000 Roberto Spazali: Luigi Drioli, Un esempio di coerenza, Società Istriana di Archeologia e Storia Patria, Trieste, 2011 Lodovico Rustico: MALISANA - La vita e l’economia in un piccolo borgo rurale della bassa friulana nal ‘600, Arti grafiche friulane, Udine - 2006 Isola in 200 cartoline - Edizioni “Il Mandracchio”, Isola - 1999 Silvano Sau - L’Isola che non c’è più - Edizioni “Il Mandracchio”, Isola - 2014 Vanda Bezek: Analitični Inventar Fonda Občine Izola - 1849 - 1900, Pokrajinski Arhiv Koper - Capodistria, 1979 Daniela Tomšič, Jure Mušič: Tihi pomniki minljivega časa, Drobci o šegah slovesov in pokopališki kulturi na slovenskem etničnem ozemlju Izola, Forma 7, Ljubljana, 1999. Autori Vari: ISOLA D’ISTRIA dalle origini all’esilio, Edizioni “Isola Nostra”, Trieste , 2000

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Pietro Stancovich: Biografia degli uomini distinti dell’Istria, Carlo Priora editore, Capodistria, 1888. Franco Degrassi - Silvano Sau: Statuti del Comun d’Isola - “Il Mandracchio” - Isola, 20003 Luigi Morteani: Isola e i suoi statuti, Parenzo, 1888 Antonio Vascotto: Ricordando Isola, Cesena, 1980 Antonio Vascotto: Voce della parlata isolana nella prima metà di questo secolo, Cesena, 1996. A.A.V.V.: La nostra storia - calendario storico di Isola fino al 1954 “Il Mandracchio” Isola 1997

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Indice Prefazione di Lilia Macchi Introduzione di Silvano Sau A.D. 200 – Isola romana A.D. 900 – Il mare in Piazza Piccola A.D. 932 – Prima menzione storica di Insula – Isola A.D. 1100 – Fontana Fora A.D. 1150 – Isola e l’Istria dei cartografi turchi Al-Idrisi e Piri Reis A.D. 1200 – Il Castello di Isola A.D. 1212 – La prima scuola pubblica A.D. 1214 – Storia della Malvasia A.D. 1253 – Libero Comune di Isola A.D. 1303 – Chiese e capitelli A.D. 1360 – Le androne, ovvero l’antico stradario di Isola A.D. 1379 – I miracoli di San Mauro A.D. 1379 – I patriarchini attaccano Isola A.D. 1398 – Dante a Isola A.D. 1450 – Leone di San Marco A.D. 1512 – La “Donna vestita di Bianco” di Strugnano A.D. 1535 – La Loggia del Palazzo Comunale A.D. 1547 – Pietro Coppo e il Duomo di S. Mauro A.D. 1553 – La consacrazione del Duomo A.D. 1652 – Il tesoro di San Mauro A.D. 1681 – I “diamanti” di Isola A.D. 1781 – Il palazzo e il casato dei Besenghi A.D. 1790 – La scuola isolana di merletti A.D. 1790 – El rato del Podestà A.D. 1797 – Il patibolo per gli assassini del podestà Nicolò Pizzamano A.D. 1811 – La dote dei preti Isolani ai tempi di Napoleone A.D. 1829 – Le terme di San Pietro – L’acqua de òvi A.D. 1842 – Domenico Lovisato, garibaldino e scienziato A.D. 1857 – Versi del Besenghi in omaggio a don Antonio Zamarin A.D. 1881 – La rivoluzione industriale A.D. 1883 – Il Cimitero storico di Callelarga A.D. 1893 – Il pontile d'approdo

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A.D. 1895 – Il Gabinetto operaio di lettura A.D. 1896 – Corrispondenza da Isola per il giornale “L’Avvenire” di Vienna A.D. 1900 – Porto Apollo A.D. 1902 – El Brustolin – la Parenzana A.D. 1903 – Baruffe Isolane A.D. 1903 – Pesca e pescatori isolani A.D. 1905 – Anche allora la pubblicità era l’anima del commercio! A.D. 1905 – Riva alle Porte A.D. 1905 – Un giardino in Piazza Grande A.D. 1908 – Finestre veneziane riciclate A.D. 1909 – Il Magazzino No. 11 delle Cooperative Operaie di Trieste, Istria e Friuli A.D. 1910 – Le Case Operaie A.D. 1910 – Le prime vedute panoramiche dall’alto A.D. 1913 – La pesa pubblica A.D. 1913 – La protesta isolana per il gas A.D. 1913 – L’ addio alla prima Casa del popolo di Isola A.D. 1914 – Il 1° Maggio 1914 l’inaugurazione della nuova Casa del Popolo A.D. 1915 – Nives Poli prima ballerina scaligera A.D. 1918 – … quel 7 Novembre 1918 A.D. 1920 – Il giardino pubblico A.D. 1921 – Temporali a Isola A.D. 1925 – Lo Squero A.D. 1927 – I vespasiani A.D. 1928 – Mésa Grisa A.D. 1928 – La “Pullino” di Isola campione olimpionico A.D. 1929 – Il Grande freddo A.D. 1930 – La Saccaleva A.D. 1933 – Giani Stuparich in vacanza a Isola A.D. 1935 – Acquedotto del Risano A.D. 1938 – Isola e i vaporetti A.D. 1940 – Forneri e pancogole A.D. 1945 – I tedeschi distruggono la diga A.D. 1945 – Quel veglione di Capodanno A.D. 1975 – L’Isola che diventa penisola Bibliografia

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Editore / Izdajatelj

Comunità degli Italiani “Pasquale Besenghi degli Ughi” – Isola Skupnost Italijanov “Pasquale Besenghi degli Ughi” - Izola Casa Editrice / Založnik Il Mandracchio – Isola / Izola Titolo / Naslov PICCOLE GRANDI STORIE DI SOLA Autore / Avtor Silvano Sau

Impaginazione / Prelom Andrea Šumenjak Stampa / Tisk Birografika – BORI d.o.o. Tiratura / Naklada 400 copie / izvodov Isola, giugno 2014 / Izola, junij 2014

Un ringraziamento particolare è indirizzato a Unione Italiana, organizzazione degli Italiani in Croazia e in Slovenia, che ha reso possibile il progetto e lo ha finanziato con il contributo del Ministero Affari Esteri del Governo Italiano. Il volume è anche risultato della collaborazione con la Comunità Autogestita della Nazionalità Italiana di Isola Posebna zahvala gre Italijanski Uniji, organizaciji Italijanov na Hrvaškem in v Sloveniji, ki je omogočila projekt s prispevki Ministrstva za zunanje zadeve Italije Knjiga je tudi rezultat sodelovanja z Italijansko samoupravno narodno skupnostjo Izola

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