Dizionario del dialetto Isolano

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Silvano Sau

DIZIONARIO del dialetto Isolano

Raccolta di parole e modi di dire della parlata isolana di ieri, di oggi e, forse, di domani

Disegni originali di Marjan Motoh

Edizioni “Il Mandracchio� 1


CIP - Kataložni zapis o publikaciji Narodna in univerzitetna knjižnica, Ljubljana 811.131.1’282(497.4Izola) SAU, Silvano Dizionario del dialetto Isolano : raccolta di parole e modi di dire della parlata isolana di ieri, di oggi e, forse, di domani / Silvano Sau ; disegni originali di Marjan Motoh. - Isola : Il Mandracchio, 2009 ISBN 978-961-6391-15-3 248747008 2


Prefazione di Silvano Sau Il dialetto è come i nostri sogni, qualcosa di remoto e di rivelatore; il dialetto è la testimonianza più viva della nostra storia, è l’espressione della fantasia. (Federico Fellini) “Salvaguardate e conservate la vostra lingua: anche la parola si può perdere, come si può perdere una città, un paese, la terra, l’anima. Ma che cosa può essere un popolo, se perde la propria lingua, se perde la propria terra, se perde la propria anima? Cambiano i Paesi, cambiano gli Stati, cambiano i governanti, una comunità può cambiare anche la propria terra. Ma se cambia la propria lingua, la propria tradizione, la propria cultura, allora vuol dire che non è più quella comunità, che non ha più la propria anima, ma ne ha acquisita un’altra.” Anche se scritte quasi novecento anni fa da un personaggio lontanissimo dalla nostra storia e dalla nostra regione, quando il concetto di Nazione, o di Popolo era ancora di là da venire, in queste parole di Stefan Nemanja è presente buona parte dei motivi che mi hanno spinto a raccogliere la testimonianza odierna della parlata isolana, formatasi da quando Dante aveva introdotto il codice linguistico del volgare, sostituendolo al latino. Forse ancora in tempo prima della sua completa scomparsa. Ecco perché, anche a livello piccolo, come la nostra cittadina, è importante salvaguardare la memoria della propria lingua. E se il termine di lingua sembra troppo impegnativo per la nostra piccola comunità, allora diciamo che è importante salvaguardare la nostra parlata, il nostro dialetto, il nostro vernacolo, perché senza di essi non potremmo constatare di disporre ancora di una cultura, di una tradizione, di una particolarità che ci rende diversi, e proprio per questo anche preziosi e unici. Come le lingue, anche i dialetti sono testimoni preziosi di storia civile e culturale, religiosa, territoriale: sono intrisi dell’intelligenza e della fatica, del sapere intellettuale e delle esperienze culturali delle genti che li hanno parlati e ancora li parlano. 3


Bisogna guardare al patrimonio dialettale senza ostilità, ma con curiosità e rispetto, come a un patrimonio vivo e da conservare, pur nel continuo mutare dell’uso quotidiano. L’esistenza dei dialetti è il risultato di una storia antica e complessa. Come lo è anche quella istriana. E come lo è pure quella Isolana. Quando ho incominciato a pensare alla possibilità di raccogliere del materiale che, un giorno, avrebbe potuto consentirmi di dar vita ad un modesto dizionario del dialetto isolano, non mi rendevo conto delle difficoltà che ciò avrebbe comportato: la volontà di far affidamento solo sulla propria memoria e sulle proprie conoscenze in materia ha finito ben presto con il dimostrare che il lavoro non sarebbe arrivato lontano. Oltre a segnare i termini raccolti nei propri ricordi, nei contatti quotidiani e nelle limitate letture disponibili, si rese necessario far ricorso a tutta una serie di altre opere del genere, soprattutto per quanto riguarda le parlate che facevano e fanno riferimento al dialetto istroveneto. Da qui, il bisogno di mettere nero su bianco, tutte le notizie, le riflessioni, le argomentazioni storiche e linguistiche che ebbi occasione di incontrare nel frattempo lungo questo percorso, pur nella discontinuità di trattamento e di indagine. La necessità, quindi, di dar vita ad una ricerca che raccogliesse almeno una parte degli elementi che potrebbero consentire una parziale verifica delle origini, delle derivazioni, del contesto storico generale e regionale dei dialetti dell'area istriana, per approdare infine alle peculiarità della parlata isolana. Da qui, inoltre, anche la necessità di strutturare – pur sommariamente – alcune delle regole che caratterizzano il dialetto isolano, conservatosi per qualche secolo fino ad oggi, quando è venuto a trovarsi in una fase di rapido deterioramento e imbastardimento causato da una modificata struttura generale della popolazione parlante. Solo a seguito di questi ragionamenti, è stato possibile stilare e raccogliere un elenco abbastanza corposo di termini dialettali isolani, anche se, ancor sempre completamente sprovvisti di un sistema di catalogazione e di elaborazione secondo i principi in vigore da tempo per i dizionari: etimologia, percorso storico, differenziazione dei valori e dei significati. Sono convinto, tuttavia che – pur nella sua parzialità e nella sua ostentata provvisorietà - questa raccolta potrebbe rappresentare in futuro la stessa spinta che tempo fa indusse il sottoscritto ad iniziare 4


questa ricerca. Una ricerca che, probabilmente, non si concluderà mai, perchè altri troveranno forse in queste pagine lo stimolo per redigere un documento più completo sulla parlata locale isolana, a partire dai tempi della sua graduale nascita, nell'ambito della lingua volgare italiana, fino ai giorni nostri. A questo punto un doveroso ringraziamento all’artista Isolano Marjan Motoh che, pur nel breve spazio di tempo a disposizione, ha saputo esprimere con il disegno una serie di aspetti particolari dell’Isola di un tempo, rendendo anche da questo punto di vista, il volume più completo e godibile.

Isola, Dicembre 2009

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Avvertenza Quali sono le regole che abbiamo ritenuto necessario rispettare nella lettura e nella pronuncia, ma che sono altrettanto importanti se usate anche nella scrittura, pur se con qualche piccolo sotterfugio per mantenerne in vita la dolcezza e l’armoniosa cadenza della nostra parlata? Il dialetto isolano usa lo stesso alfabeto della lingua italiana, salvo per la “Z”, sia sorda che dolce, inesistente nella nostra parlata e sostituita, sempre e comunque, dalla “S”. Come nell’Italiano, la “S” ha il suono aspro e quello dolce, che graficamente viene indicato con il segno “Ş” (la lettera Ş con una piccola virgola, o segno, sotto, come si vede nei migliori Dizionari italiani per descrivere pronuncia e dizione di una parola). Non è stata presa in considerazione, per indicare la S dolce, la lettera “X”, benché usata da molti, perché anche noi la riteniamo un segno di dubbia interpretazione, e rappresenterebbe un inutile ripiego vista la disponibilità della S. Inizialmente si pensava di usare la “X” almeno per il verbo “è = xè”, ma abbiamo preferito rispettare l’alfabeto italiano che (nonostante Goldoni) non conosce quella lettera. Il dialetto isolano non conosce le consonanti doppie (nemmeno la “S”! Infatti la “S” aspra offre già di per sé un suono rafforzato).

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Abbreviazioni agg.: art.: avv.: bot.: cong,: escl.: fig.: inter.: loc.: n.pr.: num.: pl.: pr.: prep.: s.f.: s.m.: top.: v.: (v.)

aggettivo articolo avverbio botanica congiunzione esclamativo figurativo interiezione locuzione nome proprio numero plurale pronome preposizione sostantivo femminile sostantivo maschile toponimo verbo vedi

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Aa A, prima lettera dell’alfabeto italiano e anche di quello isolano. A, prep.: A, ad. A, pr.: Egli. Lui. Esso. Viene usato al posto di Egli, Lui o Esso, cioè di pronome personale della terza persona maschile singolare (Gigi, dove a şè? A şé con so nevòdo! – Dov’è Gigi? È con suo nipote!) A, particella pleonastica e rafforzativa: A guai! El balo ièra a gratis! Spesso usato anche come interrogativo: a? = come?, cosa? ABÀDO, s.m.: Ascolto. Attenzione. Dare importanza. Badare. No dàrghe abàdo = Non gli badare, non dargli ascolto, non dargli retta. ABAŞAMÈNTO, s.m.: Basamento. Zoccolo. Base di un muro. ABÀSO, avv.: Abbasso. Giù. Di sotto. Abàso gavèmo la stàla e ‘l tinèlo (Rosamani).

ABITASIÒN, s.f.: Abitazione. Alloggio. Appartamento. ABITUÀR, v.: (v. Bituàr) Abituare. ABITÙDINE, s.f.: Abitudine. ABOCÀTO, s.m. (v. Bocàto) Abboccato. Termine usato dai degustatori del vino. ABONÀR, v.: Abbuonare. Condonare. Perdonare. Ridurre. Gò pagà la metà e ‘l resto el me gà abonà. (Rosamani) ABONDÀNSIA, s.f.: (v. Bondànsia) Abbondanza. Grande quantità. ABONDÀNTE, agg.: (v. Bondànte) Abbondante. ABORDÀR, v.: Abbordare. Affrontare. ABORDÌR, v.: Abortire. ABÒRDO, s.m.: Aborto. Interruzione della gravidanza. ABRASÀR, v.: Abbracciare. ABRASO, s.m.: Abbraccio. ABRÈO, s. m.: Ebreo. Tirchio. Esoso.

ABATÙ, agg.: Abbattuto. Avvilito.

ACHERÌNA, s.f.: Varechina. Veniva spesso usata nelle faccende domestiche per pulire, disinfettare e smacchiare.

ABELÌDA, s.f.: Abbellimento. Eseguire abbellimenti. Dàrghe un’abelìda a la cuşìna = dipingere la cucina.

ACOMODÀR, v.: (v. Comodàr) Accomodare. Aggiustare. ACÒRŞERSE, v.: (v. Inacòrşerse) Accorgersi.

ABELÌDO, agg.: Abbellito. Reso bello.

ACOSTÀR, v.: Accostare. Socchiudere. Avvicinare. Acòsta la porta che se sénti un spìfero.

ABÀTER, v.: Abbattere.

ABELÌR, v.: Abbellire. Dipingere. Gavèmo dovù abelìr dùta la càşa. ÀBILE, agg.: Abile. Idoneo. Capace. Nella leva militare del ’18 si diceva che oramài i şé dùti àbili, anca i fiòi. ABISÌNSIO, s.m. (v. Bisìnsio): Assenzio. Sia la pianta che il liquore.

ACUŞÀR, v.: Accusare. Incolpare. ADÀIO, avv.: Adagio. Piano. Lentamente. ADATÀR, v.: Adattare. ADEMPÌR, v.: Adempiere. Mi adempìso, ti te adempìsi, lù adempìsi, noi adempìmo, voi adempì, lòri i adèmpisi.

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ADOCIÀR, v.: Adocchiare. Guardare. Intravedere. A la gà adociàda e poco dòpo a la gà spoşàda. (Manzini-Rocchi). ADÒSO, avv.: (v. Dòso). Addosso. AFAMÀ, agg.: Affamato. AFÀR, s.m.: Affare. AFESIONÀR, v.: Affezionare. AFIÒR, s.m.: Fior di farina. Farina bianca. AFITÀR, v.: Affittare. AFÌTO, s.m.: Affitto. Pigione. AFITUÀL, s.m.: (v. Fituàl): Inquilino. Locatario. Chi detiene un alloggio in affitto. ÀGHE, s.f.pl.: Acque. ÀGIO, s.m.: (v. Àio): Aglio. AGNÈL, s.m.: Agnello. AGNIŞÈTA, s.f.: Anisetta. Liquore di anice. ÀGNIŞI, top.: Toponimo alla periferia di Isola. È situato subito dopo il vecchio macello, operante questo ancora nei primi anni cinquanta del secolo scorso e oggi destinato ad area turistica. La località era nota per una fontana con sorgente d’acqua cui attingevano gli abitanti delle campagne circostanti, per i quali recarsi al Fontanòn (v.) detta anche Fontana de fòra (v.), era troppo distante. Il toponimo sembra di origine romana derivante da “Anicius”, nome personale o della famiglia romana degli Anicii che probabilmente era proprietaria del vicino insediamento di Vilişàn (v.) i cui resti vennero scoperti appena agli inizi del secolo scorso per opera dello studioso isolano A. Degrassi. È dato sicuro, comunque, che la famiglia romana degli Anicii

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fosse presente in Istria, tanto che a Cittanova è stata trovata l’iscrizione: Petrone probi v.cet Anicie probea c.f. ÀGO, s.m.: Ago. Àgo de cuşìr. Àgo fin = ago per ricamare. Àgo gròso = per cucire le papùse (v.). Pòmola = ago a spillo con capocchia. Àgo de sicurèsa = ago di sicurezza, ago da balia. Àgo de càlsa = ago più grosso per fare le calze di lana. La paùra ghe gà strénto ‘l cùl, che no ghe pàsa gnànca un àgo. AGOSTÀNA, agg.: (v. Gostàna) Agostana. Che è matura in agosto. Si dice per un tipo di uva, che è matura in agosto, ma anche per l’erba che si falcia in quel mese per farne fieno che veniva conservato per l’inverno nelle mède (v). ÀGRO, agg.: Stufo. Stanco. Seccato. Esaurito. AGUÀI, escl.: Guai! Intesa come esclamazione, minaccia o avvertimento. Aguài se no te me scolti! AGUARÒN, s.m.: (v. Agueròn): Ruscello. Corso d’acqua torrentizio. Corsi d’acqua che si formano sulle strade di campagna o nei campi dopo gli acquazzoni estivi. AGUAVÌA, top.: (v. Aquavìa): Toponimo nel contado di Isola. La località si trova nei pressi della chiesetta della Madonna di Loreto. Il nome ha sicuramente origine dal fatto che a fondo valle - la vàle de Strugnàn (la valle di Strugnano) ci fossero in abbondanza ruscelli aguèr (v.) e vene acquifere. AGUÈR, s.m.: Ruscello. Corso d’acqua normalmente calmo, che s’ingrossa solo durante gli acquazzoni o le grandi piogge autunnali. Con lo stesso termine


veniva chiamato anche il solco che i contadini tracciavano nel terreno in primavera per seminarvi i piselli o altri ortaggi. Gò seminà in spicéra un per de aguéri de bişi per magnàrli co le patatine co i şé ancòra téneri. AGÙRI, s.m.pl.: Auguri. AGUERÒN, s.m.: (v. Aguaròn) Ruscello. AGUSÀR, v.: Aguzzare. Appuntire. AGUŞÈLA, s.f.: (v. Consàr) Ago di legno. Viene usato dai pescatori per rattoppare le reti. ÀIO, s.m.: Aglio. Tanti i modi di dire degli Isolani legati all’aglio. Va comunque rilevato, che il termine àio è subentrato ad àgio nella parlata isolana soltanto dopo gli anni Trenta, come sottolinea A. Vascotto. ÀLA, s.f.: Ala. Calàr le àle; Àle de galìna no impinìsi la pànsa. ÀLA, prep.: Alla. ÀLA, v.: Guardala! Osservala. Ma anche nel senso di Andiamo: àla sù! = suvvìa, muoviti! ALBEŞÀR, v.: Albeggiare. Fare giorno. ALBÒL, s.m.: Madia. Recipiente di legno con fondo concavo, nel quale si preparava l’impasto per il pane, ma anche – se più grande – serviva per preparare il maiale dopo l’uccisione, per togliergli il pelo con l’uso di acqua bollente e coltelli affilati, prima di tagliarlo e salarlo. Oppure, più piccolo, per il trasporto in spalla di arnesi o di vario materiale sfuso, come la farina, il sale, ecc. È presente anche a Capodistria, Pirano e in altre località istriane e a Trieste. ALBORÀDA, s.f.: (v Arboràda) Albero. Alberatura di una nave.

ALBUSÀN, top.: (v. Castelièr) Albuciano. Toponimo derivante dal latino Albucianum, situato nel comune censuario di Corte d’Isola. G.A. Gravisi rileva che è la denominazione di quel monte che ha i suoi principali declivi verso la Val di Sicciole e la Valderniga. La cima più elevata, chiamata generalmente M. Castellier (269 m.), albergò un villaggio murato e fortificato preistorico. Fu fortilizio romano e serviva ottimamente per segnali dall’Istria ad Aquileia e per tutelare e difendere la regione circostante. Secondo un’antica tradizione locale gli antichi abitatori di Isola si sarebbero rifugiati lassù per salvarsi da Attila. ALCIPRÈSO, s.m.: (v. Anciprèso) Cipresso. ÀLE, s.f.pl.: Ali (di volatili). Anche prep.art.: Alle; Oppure verbo: Guardale, osservale ed escl.: Suvvìa, Orsù! ALEÀNDRO, s.m.: Oleandro. ÀLEGA, s.f.: Alga. Pianta acquatica. ALIÀ, agg.: Alleato. Vicino. Allineato. D’accordo. D’intesa. ALMÀNCO, avv.: Almeno. ÀLO, escl.: (v. Àrilo) Vedilo. Guardalo. Àlo che şgàio – Vedi il furbo! ALSÀR, v.: Alzare. Stamattina se gà alsà un borìn, che taiàva le réce! ALTALÈNA, s.f.: (v. Şìtolo-şòtolo) Altalena. Il gioco da bambini che veniva sospeso tra due funi legate ad un ramo. Quella composta da un asse posta in bilico, alle cui estremità sedevano i bambini per dondolarsi si chiamava şitoloşòtolo, ma spesso viene usata anche la variante şintoloşòntolo. ALTRICIÒCO, s.m.: (v. Articiòco) Carciofo.

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ÀMEDA, s.f.: (v. Àmia): Zia materna. Termine d’importazione veneziana, poco usato, e derivante dal latino Amita. AMBASIATÒR, s.m.: Ambasciatore. AMBISIÒN, s.f.: Ambizione. AMÈNTE, avv.: (v. Inaménte) A memoria. Tignìr aménte = Tenere a memoria. AMISÌSIA, s.f.: Amicizia. AMOLÈR, s.m.: Albero che produce l’àmolo (v.). ÀMOLO, s.m.: Susina. Il frutto dall’amolèr, qualità di prugna giallastra, non molto pregiata. AMÒR, s.m.: Amore. Piòva e sòl le strìghe va in amòr, piòva e bòra, le strìghe và in malora. No şé sàbo sénsa sòl, no şé dòna sénsa amòr. Amòr vècio no ciàpa rùşine. AMPELÈA, n.pr.: Fabbrica per la conservazione del pesce. È la più vecchia delle fabbriche che diedero vita alla fortunata presenza dell’industria del pesce a Isola. Venne costruita nel 1879 dalla società francese Société Générale Française C.A. Vi si lavoravano sardine, anguille, carne bovina, ortaggi. Si produceva pure l’aceto e la conservazione del pesce veniva eseguita con il sale. Inizialmente impiegava soprattutto manodopera femminile, mogli e figlie dei pescatori, nonchè un ridotto numero di braccianti agricoli. Complessivamente, la fabbrica sorta dove prima esistevano le terme di acque sulfuree, dava lavoro ad un centinaio di donne ed una trentina di uomini. L’azienda cambiò denominazione nel 1886 in Usines de l’Ancienne Société Générale Française des Conserves Alimentaires. Nel periodo tra

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la prima e la seconda guerra mondiale la fabbrica, che nel 1886 era stata acquistata dalla Banca Anglo-Austriaca,venne rilevata dalla Società italiana S.A. Conservifici occupando circa 210 operaie - le fabrichìne (v.) - con una produzione di circa 4 milioni di conserve di pesce all’anno. Poco dopo, la S.A. Conservifici passa nelle mani della società triestina Alessia, la quale, dopo aver annesso anche la fallita Torregiani, nel 1930 assunse il nome di Ampelea S.A. Conservifici. Denominazione che mantenne fino al 1947, quando venne dapprima denominata in Ex Ampelea e poi in Delamaris. Con questo nome è presente ad Isola ancora oggi. ANÀDA, s.f.: Annata. Una bona anàda de angurie = una buona annata di cocomeri. ÀNCA, avv.: Anche. Ancora. Pure. ANCIÒI, s.m.pl.: Acciughe. Alici. Uno dei nomi con i quali venivano chiamate e che più direttamente provenivano dall’italiano o da uno dei dialetti italiani (Anciua, genovese, o Anciova, siciliano). Generalmente a Isola l’acciuga veniva chiamata Sardòn (v.) o Anciùga (v.) Più pregiato della sardina e, di conseguenza, anche più caro, per la sua carne più corposa. Veniva e viene usato anche per la conservazione, abbondantemente salato e stagionato sia nelle industrie conserviere, sia a livello casalingo: i famosi sardòni salài (v.). ANCIPRÈSO, s.m.: (v. Alciprèso) Cipresso. ANCIÙGA, s.f.: (v. Anciòi e Sardòn) Acciuga. ANCORÒN, s.m.: Piccola ancora. Ancorotto.


ANCÙŞINE, s.f.: (v. Incùşine) Incudine. ÀNDA, s.f.: Andatura. Abilità. Ingegno. Andamento. Tendenza. Modo di fare. A gà un’ ànda che no me piàşi = non mi piace come si comporta. Me gà ànda che farà piòva. ANDÀR, v.: (v. ‘ndàr): Andare. Ma anche Camminare. Partire. Morire. Andàr de mal. Andàr in frisòpa. Andàr par trèso. Andàr şbùşo (anche a şbùşa). Andàr soto paròn. Andàr a remèngo. Vàme fòra dei pìe. Andàr de còrpo.Và in mòna. El vìn şé ‘ndà de màl. Ghe sémo andà dùti de méşo. Chì vòl che vàdi, chi no vòl che màndi. A mì no me ne và e no me ne vién. ÀNDITO, s.m.: Corridoio. Andito. Lo spazio che rappresentava l’entrata in una casa subito dopo la porta e immediatamente prima delle scale che portavano al piano superiore, ANDÒVE, avv.: (v. Indòve e Dòve): Dove. In qual luogo. ANDRÒNA, s.f.: Androna. Calle. Vicolo cieco. Andito per passare dal cortile nell’interno della casa (A. Vascotto). Seguendo le norme dello statuto medievale di Isola del 1360, quando la segnaletica delle vie non era stata ancora codificata, i vari rioni, le vie, i corsi venivano indicati con il termine di Andròne che facevano capo ad uno degli abitanti più in vista e più stimati che venivano regolarmente eletti, se corrispondvano a determinati criteri. Così, il capitolo 91 del III Libro, parla “del modo, et forma di elleggier li Capi delle Contrade.” Il capitolo immediatamente successivo, il 92, parla ancora “del Sagramento di Capi delle Contrade”, dove si stabilisce che i Capi delle

Contrade del Comun de Isola, che per tempo saranno in Isola, giuraranno far, et esercitar tutte le cose pertinenti al suo, ò suoi officij, et non giovaranno all'Amico, nè noceranno al nemico per fraude. Premio, Don, ò servito non pigliaranno, nè faranno pigliar per se, nè da alcun'altro per loro in alcun modo, ò ingegno. Et se saveranno alcun per loro haver ricevuto Don, premio, ò servitio quello faccino restituir quanto prima lo saveranno, ò potranno. Le qual tutte cose i detti Capi osservaranno con bona fede senza fraude in pena di Sagramento, et più à volontà del Sig.r Podestà. ANDRONÈLA, s.f.: Piccola androna. Spazio tra due filari di viti. ANÈL, s.m.: Anello. Compàre de anél. ÀNEMA, s.f.: Anima. Spirito vitale. Persona. Parte interna di oggetto. Anche sostegno del lumino, di metallo e sughero. No ghe ièra un’ànema. A lavòra pà l’ànema del diàvolo (malvolentieri). Ànema lónga (spilungone). Magnàr l’ànema: tormentare, non dar requie. Che Dio ghe bràsi l’ànema. ANEMÀL, s.m.: Animale; l’asino per antonomasia, presso gli agricoltori. Anche come ingiuria, ma senza la forza, e l’intenzione offensiva di BESTIA! che è pure un sinonimo. ÀNERA, s.f.: Anitra. ANGARÌA, s.f.: Angheria. ANGHÌSO, s.m.: Movimento brusco, che provoca dolore. ANGONÌA, s.f.: Agonia. ANGUDÈLA, s.f.: Pesce di piccole proporzioni, fragile e

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semitrasparente, che viene preso con la trata e, mischiato con altri pesciolini, crostacei e molluschi, viene venduto per frittura come menodàia (v.). In italiano abbiamo anguella, latterino sardaro. Dialettalmente si ha anche acquadella o aquadela, in particolare nel Veneto, nella Romagna, nelle Marche. ANGURÌ, agg.: Cibo mal cucinato. Detto di cibo né crudo né cotto, senza gusto. ANGÙRIA, s.f.: Anguria. Cocomero. Il termine viene usato anche nella lingua italiana. La parola cocomero, alterata in cugùmero (v.), da noi significa: cetriolo. L’angùria şé una maravéa - un frùto del paradiso: - tè magni, tè bévi - e te te làvi ‘l vşio. ANGUŞIER, s.m.: (v. anguşigolo) Aguglia. Pesce azzurro, dal rostro allungato. ANGUŞÌGOLO, s.m.: Aguglia. Pesce azzurro dal corpo allungato, il cui muso si allunga in una specie di sottilissimo becco. Ha la caratteristica, che non ho avuto l’occasione di notare in altri pesci, di avere la lisca di color verde. Il che fa un po’ senso quando si mangia, al momento di diliscarlo. Il termine deriva, evidentemente, dalla voce dialettale veneta o veneziana di “Aguşéla”, che significa “ago”, e da qui il nome al pesce per la forma del suo becco che somiglia, appunto, ad un ago. ÀNI-ANÒRUM, loc.: Dal latino anni annorum, anni degli anni, nel senso di molto tempo fa, da molto tempo. ÀNIŞE, top.: (v. Àgnişi) Toponimo Isolano. ÀNO, s.m.: Anno.

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ANŞOLÈTO, s.m.: Capone. Pesce marino, carne bianca buona. ANŞOLÈTO, s.m.: Angioletto (dim. di ànşolo v.). Detto di bambino molto grazioso o d’aspetto delicato. ÀNŞOLO, s.m.: Angelo, persona buonissima. Anche nome proprio. ÀNTA, s.f.: Stipite. Battente. Porta. Şé un armeròn a dò ànte. ANTISIMÌTI, s.m.pl.: Antisemiti. Era uno dei tanti no­mignoli che gli avversari politici davano agli aderenti al Partito Popolare, donde il soprannome pipì. Altri erano: Bucalòni, Licapiatìni (erano accusati di essere austriacanti, per il fatto che l’Austria aveva una politica favorevole ai cattolici, mentre in Italia, oltre alla dolorosa pendenza tra Stato e Chiesa sollevata dalla presa di Roma, vi erano governanti di tendenza anticlericale. Si parla, ovvio, di ante 1918). APÀLTO, s.m.: (v. Tabachìn) Tabaccheria. Un tempo si trattava di concessioni, di licenze speciali date dallo Stato a pri­vati pensionati, o vedove, mogli di invalidi. APIÀN, avv.: Adagio. Piano. La A iniziale ha un ruolo rafforzativo. ÀPIS, s.m.: Lapis. Matita. Da lapis = l’apis = el apis. ÀQUA, s.f.: Acqua. Aqua de òvi, l’acqua oligominerale che sgorgava da una fonte vicina all’Ampelea, proprio dietro alla fabbrichetta dei Delise, sullo specchio d’acqua a sinistra del I. ponte. Aqua de buro, acqua di Burrow o acqua vegetominerale, a base di acetati di piombo, alluminio, utile per le contusioni. Aquasànta, l’acqua lustrale che un tempo era presente anche nelle


case. Aquasànta che me bagni, Gesù Cristo che me compagni.— Aqua, aqua, aqueta: segnali dati in un gioco nel quale si va alla ricerca di un oggetto nascosto, per dire al ricercatore che se ne allontana. Fògo, foghèto, falìsche (v.) indicavano l’esserne più o meno vicini. Gavémo dùti l’aqua ala gòla. Ognidùn tìra l’àqua al so mulìn. Me par che te gà fàto un bùşo in aqua. AQUADÌSO, agg.: Acquoso. Umido. Piovoso. Annacquato. AQUAVÌTA, s.f.: Acquavite. Grappa. ÀRA, v.: (v. Vàrda. Vàra) Guarda! Bada! Sta attento! Ara che tè dàgo ‘na piàda. Àra che ròba! ARÀDIO, s.f.: Radio. La radio = l’aràdio. ARBÈTA, s.f.: Barbabietola. Bietola. ARBORÀDA, s.f.: (v. Alboràda) Albero. Alberatura d’imbarcazione. ÀRBORO, s.m.: Albero. Di natante. Per quanto mi consta, in ogni altro senso si era affermato Albero, o al più Alboro). ARENÀRSE, v.: Incagliarsi. Arenarsi. ARÈNTE, avv.: (v. Rénte) anche staccato A rénte: Vicino, nei pressi, aderente, rasente. A me gà pasà cusì arente che squàşi a me tocàva. ÀRIA, s.f.: Aria. Boria. Ciapàr ària. Àra che àrie che a se dà. ARRIGONI, n.pr.: Fabbrica per la conservazione del pesce. La seconda fabbrica per la conservazione del pesce venne inaugurata a Isola nel 1881, quando un nuovo impianto per la lavorazione del pesce venne

costruito dalla società austriaca Warchanek di Vienna. La fabbrica continuò ad operare fino agli anni ‘80 del secolo scorso con il nome di Argo assunto negli anni ‘60 o poco dopo la fine del Territorio Libero di Trieste. Appena avviata, la società costruì nuovi impianti nei quali ampliò la propria produzione. Vennero costruiti un macello, una stalla, dei magazzini e, accanto alla conservazione del pesce, venne avviata anche la produzione di carne in scatola che, nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale, rappresentò sul mercato italiano un importante marchio di fabbrica. Già nei primi anni di lavoro, tuttavia, il proprietario Carlo Warchanek fece costruire accanto alla fabbrica anche un magazzino con dei serbatoi per la benzina e per altri prodotti chimici necessari alla fusione dello stagno, materia prima per la costruzione delle scatole in cui conservare i propri prodotti. Per i propri meriti nello sviluppo industriale della città, Warchanek venne insignito della cittadinanza onoraria di Isola. Nel 1925 la fabbrica venne rilevata dalla Arrigoni - Società Anonima Prodotti Alimentari G. Arrigoni e Co., che, nel periodo tra le due guerre divenne la fabbrica più importante di Isola e di tutta la zona. La società aveva sede a Trieste e, oltre a Isola disponeva di propri impianti di produzione anche a Umago, Rovigno, Fasana, Lussimpiccolo, Comisa, Grado e Duino. Complessivamente, nel periodo tra le due guerre, la fabbrica dava lavoro ad un migliaio di persone, in prevalenza donne, producendo quasi sei milioni di scatole di pesce, antipasti, verdure e marmellate. Oggi della

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fabbrica non è rimasto più quasi niente. Nel periodo di transizione succeduto all’indipendenza della Slovenia, tutta l’area venne ereditata dall’azienda che ne aveva rilevato gli impianti e, più tardi, ceduta ad una banca. Tutt’oggi, l’area è in aspettativa, e - come nei decenni precedenti rappresentava l’orgoglio degli Isolani - oggi ne rappresenta la pagina più degradata e avvilente. ÀRILO, escl.: (v. Àlo) Guardalo. Àrilo che superbo che a şè! ARIÒL, top.: Toponimo della campagna isolana. Anche questo ha probabilmente origine dalla presenza di una fonte d’acqua, cioè da “rio” o da “rivo”. Secondo alcuni, infatti, è conosciuto anche come Ariòl oppure Riòl. La località è situata tra Sètore (v.) e Nosèdo (v.). Va rilevato che nel settentrione italiano troviamo diverse località che portano questo nome o molto simile e che traggono origine dalla presenza di un corso d’acqua o di un canale. ÀRIŞE, s.m.: Larice. Albero delle conifere! (Anche qui la tendenza a considerare la L iniziale della parola come articolo). ARMÀ, agg.: Armato. A se gà armà de coràio. ARMADÙRA, s.f.: Armatura. Non quella dei soldati, ma quella dei muratori che innalzano un’impalcatura di sostegno per poter fare i muri o lavorare sulle facciate delle case. ARMELÌN, s.m.: (v. Ermelìn) Albicocca. A quanto scrive Antonio Vascotto sotto questa voce, pare che un tempo l’albicocca non fosse molto diffusa nel territorio isolano. Eppure, per quanto mi ricordi, fin da piccolo il dolce e morbido frutto era ben

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conosciuto, come pure l’albero. Oggi, praticamente, può essere riscontrato in quasi ogni orto o campo. ARMÈNTA, s.f.: Mucca, Vacca. ARMÈR, s.m.: Comò, cassettone. Armadio. ARMERÒN, s.m.: Armadio. Veniva usato anche per definire una persona grossa e tozza: A şè come un armeròn! ARMIŞÀR, v.: Armeggiare, ma anche darsi da fare per riparare qualcosa. AROPLÀN, s.m.: Aereo, aereoplano. ÀRPIŞE, s.m.: (v. Clànfa) Staffa di metallo, generalmente in ferro battuto, con le estremità ricurve e appuntite che usano i muratori per tener unite le pietre o per ancorare delle travi. ARSÀL, s.m.: (v. Asàl) Acciaio. ÀRŞENE, s.m.: (v. Àrşine) Argine. ARŞÈNTO, sm.: Argento ARŞÈNTO VÌVO, s.m.: Argento vivo, mercurio. Usato anche per indicare il carattere di persona molto vivace, soprattutto se bambino. A şè come l’arşènto vìvo, a no sta mai fermo. ÀRŞINE, s.f.: (v. Àrşene) Argine. ARŞÌR, v.: Essiccare, inaridire. Şe stà un bruto istà, vemo visto arşìrse, po’ bruşàrse duta la verdura e apian ànca le vìde. ÀRTE, s.m.: Arte, bravura, ingegno, furberia. Una persona che ne fosse sprovvista può essere intesa anche come viziosa, sprovveduta. A şè un omo sensa arte né parte: È un uomo senza mestiere, incapace. È usato anche come attrezzo da pesca, in particolare la rete, ma anche altri strumenti per la pesca.


ARTICIÒCO, s.m.: Carciofo. Mi ricordo, che l’articiòco nostrano era ed è ancor sempre molto gustoso, anche se è sempre più difficile trovarlo. Solitamente veniva cucinato in acqua bollente fino ad far ammorbidire le scaglie che avvolgevano il frutto. Poi, innaffiato di olio d’oliva e pepe, ogni scaglia veniva succhiata lentamente per poi gettare via quanto rimaneva. Una vera e propria delizia. Un'altra ricetta, ripresa dal Vocabolario di Rosamani, invece, suggerisce: L’articiòco peverìn vol oieto e vol ‘sai vin. Articiochi ben condidi tra le foie, con oio, aio, pan gratà (e bişi freschi de Capodistria), pèvere e sal şè un magnàr bon e san. Da chiedersi, per noi Isolani, che vantavamo due bellissime vallate di Pivol e de Aquavia, dove venivano coltivati gli ortaggi, bìsi compresi, il perchè di quel accenno ai bìsi de Capodistria. ARTIŞÀN, s.m.: Artigiano. ARTÌSTA, s.m.: Artista, ma anche Artigiano, operaio specializzato. ÀSA, s.f.: (v. Manèra) Ascia. Accetta. ASÀL, s.m.: (v. Arsàl) Asse, assale della ruota. Anche Acciaio. AŞARDÀR, v.: Azzardare. Rischiare. Tentare. AŞÀRDO, s.m.: Azzardo. Rischio. ASASÌN, s.m.: (v. Sasìn) Assassino. ÀSE, s.m.: Asse, tavola di legno. Anche il pezzo di filo usato per tagliare a quadri la polenta stesa sul tagliere (A.Vascotto). AŞEDÌNA, s.f.: Aceto molto leggero. Veniva ricavato da vino di bassa gradazione alcolica. Va rimarcato che il termine è stato segnalato da Luigi Morteani nella sua storia di Isola rilevando il significato di bevanda divenuta acida. Il

termine è usato anche per indicare una persona che fisicamente e mentalmente va indebolendosi: a và in aşedìna. AŞÈDO, s.m.: (v. Aşèo): Aceto. ÀŞENA, s.f.: Asina. Abitualmente detta Mùsa (v.). AŞENÈL, s.m.: Nasello. Pesce marino buono, detto anche Lòvo (v.). ÀŞÈNO, s.m.: Asino. Somaro. Fino agli anni Cinquanta di questo secolo era il mezzo di trasporto più comune dei contadini (campagnòi v.) di Isola. Più comunemente definito Mùs o Mùso (v.). ASÈNSA, s.f.: (v. Sénsa) Assenza. Anche mancamento, indebolimento, declino mentale e fisico: A và a l’asènsa! = Sta perdendo la memoria. Anche Ascensione di M.V.: Co piòvi per l’asènsa – par quaranta giorni no sèmo sènsa. AŞÈO, s.m.: (v. Aşèdo) Aceto. Usato anche per definire persona che va perdendo capacità mentale: A và in asèo. Usato, però, anche per definire persona non particolarmente robusta: a şè forte come l’aşèo. Isola aveva una grande tradizione nella produzione dell’aceto, essendo anche una gran produttrice di vino. Già nel ‘500 il vescovo Tommasini scriveva che Isola, grazie alla bontà delle sue sorgenti acquifere (v. Fontanòn o Fontana fòra), vendeva il proprio aceto alle navi straniere. Serviva anche da bevanda rinfrescante, per i contadini, durante i mesi caldi d’estate, naturalmente diluito con acqua (v. Intemperà). ASÈSO, s.m.: Ascesso. AŞIÀ, s.m.: Spinarolo, pesce di mare molto buono, appartenente alla famiglia degli squali, ma di dimensioni più ridotte.

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ÀSO, s.m.: Asso. ASPÀRAŞO, s.m.: (v. Spàreşo). Asparago. ASPRÈO, s.m.: Sfortuna. Iella. Disgrazia. ÀSTA, s.f.: Asta. Anche pezza di tela, spesso anche pezzo di iuta di sacco, che i contadini si legavano ai piedi, dalle ginocchia alle caviglie, per proteggere gambe e calzoni, mentre zappavano in profondità (v. pastenàr) i campi. ÀSTICO, s.m.: Elastico. In quanto aggettivo si usa il termine it. Elastico, oppure più semplicemente làstico (v.), abbandonando la E. ASTIGNÌR, v.: Astenere. ÀSTIŞE, s.m.: Astice. AŞÙR, s.m.: Tipo di ricamo. Conosciuto anche come “ricamo da giorno”, da cui aşùr. ATÈNTO, agg.: (v. Tènto) Attento. ATIRÀR, v.: Attirare. ATRÈSO, s.m.: Attrezzo. ÀUTO, s.m.: Automobile. In dialetto viene usato sempre come sostantivo maschile: un bel auto. AUTORIŞÀR, v.: Autorizzare. ÀVA, s.f.: Ape. Usato sempre al plurale Àve. AVÀNSO, s.m.: Avanzo. Resto. AVILÌ, agg.: Avvilito. AVENTÒR, s.m.: Avventore. Cliente. AVÈR, v.: (v. Gavèr) Avere. Piu frequentemente, però, si usava ‘vèr (v.). Gavèr (v.) molto usato soprattutto ultimamente, secondo A. Vascotto, sarebbe stato importato dal dialetto triestino. Ma è sicuramente presente anche nel dialetto di Capodistria e di Pirano. AVIŞÀR, v.: Avvisare. Òmo avişà méşo salvà.

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AVOLÌ, s.m.: (v. Avolìa) Olivo. Ulivo, pianta che produce le olive. AVOLÌA, s.f.: Oliva, il frutto dell’ulivo. Molte le qualità di olive, dalle quali si produceva l’olio d’oliva, pregiato e conosciuto, per secoli merce di scambio con Venezia e con l’Austria. Parecchi i torchi per la spremitura (v. tòrcio). AVÙ, v.: (v. Avùdo o gavù): Avuto, participio del verbo avere.


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Bb B, Seconda lettera dell’alfabeto italiano. Spesso, nella parlata isolana, la lettera B, soprattutto se posta all’inizio della parola, va a sostituire la lettera V: Bapòr = Vapor; bàmpa = vampa. BÀBA, s.f.: Donna vecchia. Anche persona usa a parlar troppo. Secondo il Vascotto avrebbe origini slave. In sloveno “babica” (pron.: bàbitza) significa levatrice, ma anche donna vecchia, o più affettuosamente, nonna. È probabile, quindi, che sia stata importata dal triestino. Ultimamente ha anche significato di bella ragazza: àra che tòco de bàba = guarda che pezzo di ragazza. BABÀ, s.m.: Sugo. Fatto con soffritto e aggiunta di carne lessa. Poco usato, comunque, in alternativa a şguasèto (v.). BABÀR, v.: Chiacchierare. Pettegolare. Parlare molto e a sproposito. Più malizioso che ciacolàr (v.). Altro modo di definire, più colorito: lavàrse la bòca cò le ciàcole. BABÀSA, s.f.: Donnaccia. Chiacchierona. Donna intrigante. Làsela pérder che la şé ‘na babàsa. BABÀU, s.m.: (v. Bobò) Mostro. Orco. Nei racconti per bambini per impaurirli. Vegnarà el babàu e te magnarà. Te portarà via el babàu. Te sòn néro come el babàu. BABÈSO, s.m.: Pettegolezzo. Chiacchiera. Malignità. Commento di donne. Deriva, evidentemente, da Bàba e Babàr.

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BABÈTA, s.f.: diminutivo di bàba: persona loquace e poco seria, ma riferita soprattutto agli uomini. A şè una babèta. BABÒRA, s.f.: Chiacchierona. Rafforzativo di bàba ed usato anche nella forma maschile. No parlàr de ste ròbe co’ quel babòro de òmo. BABÒŞO, agg.: Chiacchierone. Nino, più che a ven vècio, più a şè bavòşo e babòşo. BACALÀ, s.m.: Baccalà. Merluzzo essicato. Bacalà in bianco. Bacalà e polenta. A lo gà pestà come un bacalà. Oio de bacalà (Olio di fegato di merluzzo). Nei primi anni dopo la guerra si usava dare ai bambini, anche a scuola, un cucchiaino di òio de bacalà per recuparare parte di quelle vitamine che mancavano nella povera dieta quotidiana delle famiglie isolane. Termine usato anche per indicare persona particolarmente magra. A şè sòlo pèle e òsi, come un bacalà. BACÀN, s.m.: Baccano. Chiasso. BACANÀDA, s.f.: Baldoria. Festa. Divertimento. Gazzarra. BACANÀR, v.: Divertirsi. Far baccano. BACHÉTA, s.f.: Bacchetta. Anche quella che il maestro una volta aveva sempre a portata di mano per battere gli alunni sulle dita. Da bambino, quando frequentavo la piccola scuola italiana di Strugnano, l’ora di religione ci veniva impartita dal piccolo fra Paolino, che risiedeva nel convento presso il Santuario della Madonna di Strugnano. Di lui ricordo soprattutto le bacchettate sulle dita quando si accorgeva che, noi maschietti, gli avevamo portato via dall’armadio intere raccolte di santini che ci servivano


per giocare sostituendoli alle figurine dei giocatori di calcio. Queste ultime, purtroppo, era necessario contrabbandarle da Trieste assieme ai giornalini (v.). Anche fra Paolino, naturalmente, non rimase a lungo a Strugnano, visto che l’edificio del convento venne presto trasformato in carcere ad uso e consumo del potere popolare. In esso, purtroppo, trovarono “ospitalità” anche parecchi isolani. BACÌRO, s.m.: Popone. Melone tardivo di forma allungata che viene conservato per l’inverno. BACOLÈRA, s.f.: Nido di scarafaggi (bàcoli v.). BACOLÈRA, fig.: Testa matta. Usato in maniera figurativa per indicare persona che non ha il cervello a posto: te gira la bacolèra! - ti manca qualche rotella. BÀCOLO, s.m.: Scarafaggio. Ma anche di persona non sempre savia di mente: Te gìra i bàcoli = ti gira la testa. BACÙCO, s.m.: Uomo molto anziano che non ha padronanza di sé. A raşòna come un vecio bacùco. BÀDA, s.f.: Retta. Attenzione. No sta dàrghe bàda = Non dargli retta! No ghe dàgo bàda = Non mi curo di lui, non gli presto attenzione. Tignìr de bàda i fioi = avere cura dei figli.

BÀFO, s.m.: (v. Mustàcio) Baffo. BAGNÀ, agg.: Bagnato. Se a no şè sùto, a şè bagnà – se non è asciutto è bagnato. BAGNÀDA, s.f.: Bagnatura. Lavata. Va dàrghe ‘na bagnàda a la vanèşa (v.) de radìcio – vai a bagnare (annaffiare) il campetto di radicchio. BAGNADÌSO, s.m.: Umido. Bagnato. BAGNÀR, v.: Bagnare. Co stò sòl bişognarà bagnàr le piànte. BÀGNO, s.m.: Bagno. BAGOLÀR, v.: Divertire. Godere. BAGOLÀRSE, v.: Spassarsela. Divertirsi. Bagolè fin che podè = Divertitevi finchè potete. BAGOLÈR, s.m.: Gaudente. In senso figurativo veniva usato per persona che amava divertirsi in maniera eccessiva. Anche albero delle moracee. Secondo il Vascotto pare ce ne fosse un intero filare in Vier verso le Porte e che per i suoi rami robusti e flessibili venisse usato per costruire le fruste (v. scuria) per i cavalli e gli asini. BÀGOLO, s.m.: Svago. Divertimento. Bighellone. BAGOLÒN, s.m.: Bighellone. Di persona cui piace divertirsi e andare in giro senza lavorare. BAIÀR, v.: Abbaiare. Càn che bàia no mòrsiga.

BADÀR, v.: Badare. Fare attenzione.

BAIÀDA, s.f.: Abbaiata. Latrato di cane.

BADÌL, s.m.: Badile. Vanga. Pala.

BAIÒCO, s.m.: Baiocco. Monete veneziana. Denaro.

BÀFA, s.f.: Pezzo di lardo di maiale. La parte grassa del prosciutto. O la me càva via quela bàfa, o la se tégni el parsùto. BAFÀDA, s.f.: Faccia baffuta e barbuta.

BÀLA, s.f.: Palla. Proiettile. Bàla de s’ciopo. Bàla de canòn. BÀLA, s.f.: Sbronza. A gà becà ‘na bàla che a no stava in pìe. Ma anche: Me son becà ‘na bàla de

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fredo = Ho preso tanto freddo. Viene usato anche per indicare l’umore e lo stato d’animo di una persona. A şè şò de bàla = È giù di corda. BÀLA, s.f.: Bugia. Menzogna. Le bàle che a cònta no le stà né in siél né in téra. BALADÒR, s.m.: Ballatoio. Balcone in legno. Poggiolo. Pianerottolo. Solitamente era situato prima della porta d’entrata in casa ed era raggiungibile tramite una scalinata in pietra. BALÀNSA, s.f.: Bilancia. Pesa. In riferimento a quest’ultima da ricordare la pesa pubblica di Isola che era situata alle Porte e che serviva ai contadini per pesare, prima della vendita, il raccolto della campagna. In primavera, estate ed autunno, proprio in prossimità della pesa pubblica si svolgeva anche una specie di asta con cui si trattava il prezzo degli ortaggi del miglior offerente. A. Vascotto riporta anche il proverbio, secondo cui Pàn de balànsa no impinìsi la pànsa: come dire che chi sta a pesare il cibo non deve passarsela proprio bene. BALANSÌN, s.m.: Bilancino. In particolare la traversina di legno che i contadini attaccavano al carro, munito di tirelle e di gancetti, che serviva per farlo trainare da cavalli o asini. BALÀR, v.: Ballare. Traballare: Fòra del fràsco i vèn dùti balàndo. Il frasco (v.) stava a indicare lo spaccio di vino. Chi şè in bàlo ghe tòca balàr. BALARÌN, agg.: Ballerino. Instabile. Incerto. Malfermo. Di persona di carattere instabile e della quale non c’era da fidarsi:

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No fidàrte de Gigi, a şè un pòco balarìn. BÀLE, s.f.pl.: (v. Coiòni) Palle. Testicoli. Coglioni. Gò le bàle piéne. BÀLEGO, s.m.: Tascapane di tela rozza o di tèrlis (v.). Veniva usato dai contadini per riporvi piccoli arnesi oppure la colazione (marènda, v.), oppure, tenuto legato sul petto, per la raccolta delle olive Col bàlego se coleşèva (v.) le olìve. BALÈTA, s.f.: Pallina. Piccola palla. Şà che te ghe sòn, te me pàsi una balèta de sùcaro che ‘l cafè me şè amàro.? BALÈSTRO, s.m.: (v. Cròco): Traversino di legno. Era legato con due cordicelle al basto dell’asino e veniva patto passare sotto la coda. Aveva la funzione di non far scivolare il basto in avanti o indietro durante le discese o le salite. BALÌN, s.m.: Pallino. Soprattutto il pallino nel gioco delle bocce, ma anche i pallini di piombo che venivano usati per riempire le cartucce (patrone, v.) per i fucili da caccia. Stava pure ad indicare, come del resto in italiano, avere il bernoccolo per qualcosa: el gavèva el balìn dei motori. De balìn: subito. A balìn: esattamente, con precisione. Cagabalìni: persona pedante e un po’ rompiscatole. A se gà taià i cavèi a balìn. BALIGNÈRA, s.f.: (v. Balinièra) Cuscinetto a sfere. BALINIÈRA, s.f.: (v. Balignèra) Cuscinetto a sfere. Chi non ricorda i monopattini che da ragazzi ci si costruiva da soli, arrangiandoci a montare le balinière come ruote.


BALÌSTA, s.m.: Bugiardo. Chi racconta bàle, ovvero frottole. Voce che è probabilmente di orgine triestina. Infatti, sembra subentrato nella parlata isolana appena dopo gli anni ’30. BÀLO, s.m.: Ballo. Ògni bèl bàlo stùfa. Àra de no tiràrme in bàlo ànca mi. BALÒN, s.m.: Pallone. Come in italiano, viene usato anche per persona grossa e gonfia: a şè ş’giònfo come un balòn – è gonfio come un pallone. Il termine viene usato anche per indicare sia il gioco del calcio, che lo stadio: ‘ndemo al campo de balòn per una partìda de balòn!” Per molti anni il Campo de balòn di Isola si trovava Alle porte (v.) affiancato al mare prima di Riva de Porta (v.). Lo spazio era sorto dopo che all’inizio del secolo scorso, l’amministrazione comunale aveva fatto bonificare la zona che, una volta chiuse le saline, si era trasformata in una palude fangosa. BALONÈR, s.m.: Di persona gonfia e grossa, ma in particolare indicandone il carattere semplicistico: Toni a şè un balonèr – Toni è un sempliciotto. BALÒTA, s.f.: Palla grossa. Quasi sempre indicante una palla di cibo. Gratàrse le balòte = grattarsi le palle, non far niente, oziare. BALSÀN, agg.: Balzano. Bizzarro. Strano. Strambo. Stravagante. Testa balsàna = Testa stravagante, strampalata. BALSÀNA, s.f.: Risvolto dei calzoni. Anche l’ornamento, solitamente di pizzo in fondo ai vestiti femminili. BÀLSO, s.m.: (v. Şbàlso) Covone di erba, fieno o grano. Prima che piòvi i gà méso insieme i bàlsi de frumento. Durante il periodo in cui

si falciava l’erba per le provviste invernali del fieno, i contadini che tagliavano l’erba sui pendii boscosi, lasciatala essiccare per un paio di giorni, legavano i bàlsi con doppia passata di corda. Poi se li caricavano sulla schiena per portarli fino al luogo dove avrebbero innalzato le mède (v.). BÀMPA, s.f.: Vampa. Fiamma viva. Va in bàmpa = géttati nel fuoco. Tipico esempio della lettera V che di fronte a vocale nella parlata isolana viene sostituita dalla B. BÀMPENO, s.m.: Pampino della vite. Pare che, tra i tanti soprannomi presenti tra gli Isolani, uno fosse anche quello di Magnabàmpeni: forse perché era stato visto mettere in bocca qualche tenero tralcio di vite che, per il gusto acidulo, poteva per un momento alleviare la sete. BÀNCO, s.m.: Banco. Quello di scuola o quello in chiesa. No se pòl mài deşmentegàr i banchi de scòla.Ai tempi in cui a Isola non esisteva ancora l’acqua corrente dell’acquedotto del Risano, in ogni casa esisteva anche un bànco de l’aqua. Come riporta A. Vascotto: “un tempo quasi tutte le famiglie isolane dovevano procurarsi l’acqua alle fontane o pozzi, e conservarla in recipienti, di solito mastèle (v.). Nelle cucine vi era un mobiletto formato, sotto, da una credenzina, e sopra da una panchetta per deporvi due mastèle e il pòto (v.)”. BANCÒN, s.m.: Bancone. Quello da lavoro del marangòn (v.) oppure in ostarìa (v.), ma anche quello della Farmacia. BANCONIÈR, s.m.: Barista. BÀNDA, s.f.: Banda musicale di strumenti a fiato. Banda di ragazzini o malfattori.

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BÀNDA, s.f.: Lato. Schiera. Parte: le bànde del càro. BANDÈR, s.m.: Bandaio. Stagnino. BANDIERÈTA, s.f.: (v. Falilèle) Banderuola. Persona volubile. BANDÌNA, s.f.: Le fiancate in legno del letto. Così pure le fiancate del carro (v. bànda) dei contadini, che venivano sostenute da due manici (v. rosìse) per parte per formare una specie di cassonetto nel quale stivare le verdure. BANDIŞÈLA, s.f.: Sottile tratto di terreno. Di solito affianca i pàsteni (v.). BÀNDO, s.m.: Lato. Disparte. Trascurato. I lo gà mèso da bando = è stato messo da parte. Non è stato preso in considerazione. BANDÒN, s.m.: Abbandono. La caşa de Gigi la şè in bandòn. BANDÒN, s.m.: Lamiera di ferro zincato o stagnato. BANDONÀR, v.: Abbandonare. Separare. BÀNPENO, s.m.: Pampino. Tralcio di vite. Co te pùdi le vìde, stà ‘tento de no rovinàr i bàmpeni. BAPÒR, s.m.: Vapore. Altro esempio della parlata isolana, dove la B viene a sostituire la V. Riferito soprattutto alle navi a vapore che facevano la spola tra Isola, Capodistria e Trieste. BARÀCA, s.f.: Baracca. Costruzione provvisoria in legno. Far baracca = fare baldoria, divertirsi. BARACÀDA, s.f.: Baldoria. Festa con schiamazzi. BARACÒN, s.m.: Baraccone. BÀRBA, s.f.: Mento. Barba. I peli, lunghi o corti e a diversa foggia, che qualcuno lascia crescere sul mento, quasi sempre in compagnia dei baffi.

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BÀRBA, s.m.: (v. Şìo) Zio. In senso affettuoso o come soprannome. Nel dialetto isolano è stato probabilmente importato dallo sloveno o dal croato. Infatti è molto usato nelle regioni interne dell’Istria e della Dalmazia. BARBACÀN, s.m.: Barbacane. Il barbacane (o barbacana) è una struttura difensiva medioevale che serviva come sostegno al muro di cinta. A Isola, ormai da tempo, il termine è completamente uscito dall’uso quotidiano, anche se simili strutture esistevano fino a quando esistevano anche le mura medievali che circondavano la città. Tale fortificazione era spesso solo un terrapieno addossato alle mura in vicinanza delle zone più vulnerabili di un castello o di una casa forte. Questo sistema difensivo si diffuse già nell’alto medioevo praticamente in tutta Europa anche per la sua relativa semplicità di costruzione. Barbacane è un termine francese che ha la stessa radice di barbacana (spagnolo), barbacao (portoghese) e barge-kenning (anglosassone), composto dal termine bergen (coprire, porre al sicuro) e kenning (scorgere, vedere). Infatti una forma molto arcaica di barbacane erano anche le feritoie verticali sulle mura dei castelli per poter colpire il nemico pur essendo al riparo. Per la natura stessa del terrapieno oggi alcune zone, spesso molto piccole, o vie di centri abitati, hanno preso il nome di barbacane. Solitamente questi microtoponimi sono ubicati là dove anticamente sorgeva un barbacane nelle sue forme o significati prima esposti. Credo che il toponimo a noi più vicino sia piazza Barbacan a Trieste. BARBASTÈL, s.m.: Pipistrello.


Molto conosciuto a Isola il detto Barbastél méşo sòrşo e mèşo uşèl = Pipistrello, mezzo sorcio e mezzo uccello. BARBATÈLA, s.f.: Barbatella. Per la verità, il termine è stato preso direttamente dalla lingua italiana e introdotto nell’uso della parlata soltanto negli ultimi decenni. Per quanto mi ricordo, da bambino, si usava vida salvadiga pàr incalmàr (v.). BARBERÌA, s.f.: Bottega del barbiere. BARBIÈR, s.m.: Barbiere. BARBÌN, s.m.: Barbetta. Pizzo. Ma soprattutto figura meschina. Te sòn come un càn barbìn = sei come un cane randagio (A. Vascotto). BARBÌŞO, s.m.: Bargiglio. Sia del gallo che del tacchino sono le appendici carnose rosse che pendono sotto il becco. BARBÒN, s.m.: Barbone. Triglia di fango. BARBÒN DE NÀSA, s.m.: Triglia di scoglio. Quindi catturata con l’aiuto della nassa (v. Nàsa). BÀRCA, s.f.: Barca. Essendo un paese di mare è logico che molti detti e allusioni popolari facciano riferimento alla barca: ’ndàr in bàrca = non aver le idee chiare; tiràr i rèmi in bàrca = disinteressarsi di qualcosa, ritirarsi da un affare o da una discussione; bàrca nèta no vadàgna (v. vadàgno) = barca pulita non porta guadagno; a şè nàto in bàrca si dice di chi dimentica dietro di sè la porta aperta, probabilmente perché in barca non ci sono porte. A şè un barcastràmba invece si dice di chi è persona trasandata. A gà ciapà ‘na bàrca de sòldi. Quél che şé in bàrca şé in bàrca.

BARCARIÒL, s.m.: Barcaiolo. Marittimo. Chi faceva trasporti via mare, a differenza dei pescatori nostrani. BARCÀSA, s.f.: Barcaccia. Barcone. BARCASTRÀMBA, s.f.: Scapestrato. Estroso. Persona sregolata. BARCHÈTA, s.f.: Barchetta. Piccola barca. BARCÒN: s.m.: Barcone. Grossa barca, soprattutto quelle per il trasporto di sabbia e di altri materiali, ma anche, trasformando la R in L, come spesso succede per alcune consonanti, anche Balcone o Terrazzo con finestra. BARÈ: s.m.: Terreno incolto. Campo non lavorato. BARÈ, top.: Toponimo isolano. Probabilmente deriva dalla presenza di molti campi incolti. Il toponimo Barè è conosciuto anche come Baredìne (oggi chiamato in sloveno Barèdi). Il toponimo s’incontra per la prima volta in un testamento di Isola del 1517. BARÈTA, s.f.: Berretto. Quasi tutti i campagnòi (v.) isolani usavano portare un berretto con la visiera anche d’estate per proteggersi dal sole. Infatti andavano in campagna prima che il sole si levasse e vi rimanevano fino al tramonto, anche perché gli appezzamenti di terreno di cui erano proprietari o che comunque lavoravano erano spesso distanti da Isola qualche chilometro. BÀRGO, s.m.: Passo. Fàr el bàrgo = Fare il passo. Di questa voce esiste soltanto la testimonianza raccolta alla fine del 1800 dallo storiografo Morteani, che dice di averla avuta da una certa signorina Delise, assieme ad una serie di altre voci

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presentate come documentazione del dialetto isolano nel volume sulla storia di Isola e dei suoi Statuti medievali. Da ricordare che il volume è stato pubblicato nel 1888 a Parenzo e rappresenta indubbiamente la più seria e completa ricerca storica sulla nostra città. BARÌGOLA, s.f.: Gnomo. Fata maliziosa. Personaggi di favola inventati dalla tradizione popolare che dovrebbero scendere dal caminetto per portare via i bambini cattivi: “Le barìgole de San Bastiàn / che le vèn còl fògo in màn, / le barìgole de Sant’Işèpo / le pòrta vìa un par lèto, / le barìgole de l’Epifanìa / dùti quànti le pòrta vìa!” (A. Vascotto). BARÌL, s.m.: Barile.

affumicato, perché doveva durare per tutto l’anno. BARTUÈLA, s.f.: Bandella. Cardine. Veniva usato anche per le giunture del corpo umano “Me s’ciòca le bartuèle - mi scricchiolano le giunture” (A. Vascotto) BARÙFA, s.f.: Baruffa. Litigio. Ògni vòlta che i se vèdi i fà barùfa. BARUFÀNTE, s.m.: (v. Şbarufòn) Litigioso. Attaccabrighe. Da barùfa = lite, alterco. BARUFÀR, v.: (v. Şbarufàr) Litigare. BARŞALÈTA, s.f.: Barzelletta. BAŞABÀNCHI, s.m. e f.: Bigotto. Baciapile. A şè un başabànchi, sempre tacà ale còtole del préte.

BARILÒTO, s.m.: Barilotto. Piccolo barile. Il termine viene a volte usato per indicare persona piccola e grassa.

BAŞÀR, v.: Baciare. Appoggiare. Basare. Fondare. Prìma o dòpo te dovrà başàrme i pìe. Vàrda se quéla piéra la bàşa bén.

BÀRO, s.m.: Cespuglio. Cespo. Àra che bàro de salàta = guarda che cespo d’insalata.

BAŞÈLEGO, s.m.: Basilico.

BARÒN, s.m.: Birbone. Truffatore. Millantatore. BARONÀDA, s.f.: Cattiveria. Arroganza. Fanfaronata. Atto di persona presuntuosa. BARŞIÒLA, s.f.: (v. Braşiòla o Brişiòla) Braciola. Particolarmente apprezzate dagli isolani le braşiolete de pòrco = braciole di maiale, che si arrostivano alla brace, o meglio, sùla plàca del spàcher, il giorno stesso in cui si uccideva il maiale. Era il giorno in cui non si pensava ad essere parsimoniosi con la carne ed era festa per tutta la famiglia e per i vicini. Tutto il resto della carne veniva preparato e conservato, spesso anche

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BASILÀR, v.: Preoccuparsi. Darsi da fare. Interessarsi. Mi no basìlo de lù = Non mi interesso di lui; Gò dovù basilàr pàr meter a pòsto le carte = Ho dovuto darmi da fare per metter a posto le carte. Gigi, cò le sò barùfe, a me fa basilàr = Gigi con le sue liti mi preoccupa. BÀŞO, s.m.: Bacio. Me bèca el nàşo, o un pùgno, o un bàşo, o una létara in viàşo = Mi prude il naso, o un pugno, o un bacio, o una lettera in viaggio. La me gà dà un bàşo col s’ciòco = Lei mi ha dato un bacio con lo schiocco (A. Vascotto). Un bàşo no fà bùşo (Manzini-Rocchi). BÀSO, agg.: Basso. BASTÀNSA, avv.: Abbastanza. BASTÀR, v.: Bastare. Esser sufficiente. Bàsta e vànsa.


BASTARDÀR, v.: Imbastardire. Valeva soprattutto per le sementi, quando i contadini erano obbligati a salvare le sementi del proprio raccolto. La semènsa se gà bastardà e i bişi no şè più quei (Manzini-Rocchi). BASTARDÌN, agg.: Bastardo. Solitamente usato nei confronti di bambino o animale non di razza pura. A şé un bastardìn, pàr la màma se sà, ma ‘l pàre chisà! BASTÀRDO, agg.: Bastardo. Solitamente non usata nell’accezione significativa della lingua italiana di razza non pura, ma di incrocio tra più razze, quanto piuttosto di tralcio o talea di alcune piante (viti, pomodori), che nella fase di crescita vanno tolte per permettere una crescita più rigogliosa e frutti più consistenti. BASTÈMIA, s.f.: (v. Bastièma) Bestemmia, quasi sempre rivolta come imprecazione contro aspetti della religione. Tuttavia, piuttosto che imprecare contro i Santi o il Padreterno, si preferiva storpiare il significato: Porco mondo, òrco tòcio, porca mişèria, ecc. BASTÈR, s.m.: Bastaio. Quasi tutti i contadini di Isola per il lavoro dei campi e per il trasporto dei prodotti della campagna, si servivano degli asini (musi v.) o dei cavalli (cavài v.). Oltre che per il trasporto venivano usati anche per trasportare il padrone e non fare il tragitto a piedi. Quando le cose da trasportare non erano in grande quantità e non necessitavano dell’uso del carro, i somari venivano sellati con i basti, ai quali venivano legati i sacchi o le brente (v.) riempiti con i prodotti della terra. Visto il numero dei musi di cui erano proprietari gli isolani anche il

mestiere del bastaio doveva essere abbastanza redditizio, anche perché oltre ai basti costruiva anche altre suppellettili, come i comàti (v.), le redini o le briglie. BASTIÈMA, s.f.: (v. Bastèmia) Bestemmia, imprecazione. BASTIEMADÒR, s.m.: (anche Bastemiadòr) Bestemmiatore. BASTIEMÀR, v.: (anche Bastemiàr) Bestemmiare. BÀSTO, s.m.: Basto. Sella da soma. Sella che veniva posata e fissata con una cinghia sulla groppa dell’asino, del mulo o del cavallo per il trasporto di carichi pesanti, come sacchi di ortaggi, o per fissarvi sopra le brente (v.). BASTÒN, s.m.: Bastone. A Isola, ma pure nel resto dell’Istria, in voga il termine Vin de bastòn, a indicare vino non genuino, ma prodotto dal contadino con aggiunta di acqua e zucchero e poi mescolato, durante la fermentazione, appunto, con el bastòn. Uno dei colori delle carte da brìscola (v.): bastòni, spàde, danàri, còpe. BASTONÀ, agg.: Bastonato. Picchiato. Malmenato. A şè bèco e bastonà. BASTONÀR, v.: Bastonare. Picchiare. BASTONSÌN, s.m.: Bastoncino. BAŞUCIÀR, v.: (v. Şbaşuciàr) Baciucchiare. BATADÒR, s.m.: Pestello. Battente. Picchiotto. Fissato alla porta d’entrata delle case, al posto dell’odierno campanello o del citofono. BATAÌNI, agg.: Tipo di pesche. Qualità di pesche, piccole e gustose, prodotte da piante non innestate. Şè pèrseghi bataìni, parché i no şè incalmài = sono pesche non innestate.

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BATALIÒN, s.m.: Battaglione. Iéra un bataliòn de génte. BATÀNA, s.f.: Barca a fondo piatto. Usata soprattutto per la pesca con la lenza (v. togna). Imbarcazione presente lungo tutta la costa istriana, tanto che è diventata quasi simbolo del piccolo pescatore. A Rovigno le è stata dedicata addirittura un canto popolare: Sta viécia batàna, co’ quatro paiòi... BATARÈLA, s.f.: Battuta. Risposta pronta e pungente. Antonio Vascotto nel suo dizionario sulla parlata isolana, riporta che un tempo la Batarèla era la chiassosa serenata che gli amici di un vedovo, il quale convogliava a nuove nozze, andavano a fargli sotto la finestra battendo oggetti rumorosi come vecchie pentole, bidoni di latta e così via. Non sempre era gradita, talvolta suscitava reazioni adirate, talaltra terminava invece con un bonario invito ad un rebechìn (v.) con bevuta... BATÈL, s.m.: Battello. Natante. Barca. Senza distinzione di grandezza. BATÈLA, s.f.: Barca piccola a fondo piatto. Provvista solitamente di due remi, ma qualche volta anche di una piccola vela. BÀTER, v.: Battere. Vincere. Andarsene. Svignarsela. A la te bàti bèn = ti sta andando bene; A no ghè şè restà altro che bàtersela = non gli rimase altro che svignarsela; Me pàr che te piàşe bàter fiàca = mi sembra che tu preferisca oziare. BÀTERSELA, v.: Svignarsela. Fuggire. Scappare. BATÈŞIMO, s.m.: Battesimo. La prima Chiesa isolana alla

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quale venne concesso il diritto battesimale fu la chiesetta di Santa Maria d’Alieto, che è anche la più antica della città. Tuttavia, nei primi secoli dello scorso millennio, gli Isolani per battezzare i propri figli dovevano recarsi al Duomo di Capodistria. Il viaggio veniva compiuto in barca e all’uopo, nella zona settentrionale di Capodistria, era stato costruito un piccolo porticciolo che, proprio perchè usato prevalentemente dagli Isolani, venne chiamato Porta Isolana (v.). Tutt’oggi la via che dal porticciolo conduceva alla chiesa porta il nome di Porta Isolana. BATIBRÒCHE, s.m.: Ribattitore. Usato il termine anche per indicare persona che soffre il freddo: Ièrimo dùti là fòra sùla bòra che batèvimo bròche. BATIGIÀRA, s.m.: Battipietra. Da battere la giàra. Il lavoro di chi era chiamato a battere le pietre riducendole in ghiaia (v. giàra, giarìna) che veniva stesa a coprire i buchi delle strade di campagna, in particolare quelle sulle quali dovevano passare i carri dei contadini. Subito dopo la fine della Seconda guerra, con l’avvento del Potere popolare, era stata introdotta la prassi del “lavoro volontario”, cui erano chiamati tutti gli uomini dei villaggi, per riparare le strade che erano state rovinate dalle piogge d’inverno. Oltre al “volontariato” era stato importato anche il termine con il quale veniva definito, rabòta (v.) di origine - credo - russa. BATIRÀME, s.m.: Battirame. Calderaio. BATIŞÀR, v.: Battezzare. Nelle osterie, oppure tra contadini, si provocava l’oste o il padrone di casa, accusandolo ironicamente di


aver allungato il vino con l’acqua. Te sòn sicuro, Gigi, de no gavèr batişà el vin? = Sei sicuro, Gigi, di non aver messo acqua (diluito) nel vino? BATÌŞO, s.m.: Battesimo. Il battesimo era per le famiglie isolane occasione per una grande festa, alla quale, oltre ai padrini (v. sàntolo) venivano invitati i parenti delle due famiglie dei genitori. Tignìr a batìşo. BATISÒPE, s.m.: Contadino. Zappatore. Evidentemente un modo scherzoso di definire il contadino abbinando al verbo bàter (v) il sostantivo sòpe (v.) con il significato di zolle: quindi di colui che batte le zolle. BATÒCIO, s.m.: Battaglio della campana. Usato anche, in termini più volgari, per indicare il membro dell’uomo. BATOCIÀR, v.: (v. Şbatociàr) Sbatacchiare. Sbattere di qua e di là. BATÒSCA, s.f.: Batosta. Rissa. Zuffa. BATÙ, v.: Battuto. Da bàter = battere. Spesso usato anche nella versione batùdo (v.). Sta a significare anche Pieno: a şè batù de fliche = è pieno di soldi. A ièra batù de vin come un comàto (v.) = Era ubriaco fradicio. El portòn a şè dùto in fèro batù. BATÙDA, s.f.: Battuta. Ma anche ricerca affannosa di qualcosa. ’Ndàr in batùda de soldi = essere alla ricerca di denaro (Vascotto). Pecà che la càşa la şè in batùda de bòra. BATÙDO, v.: (v. Batù): Battuto. Usato anche per definire persona un po’ scema: A şé batùdo in sùca. BAÙCO, s.m.: Stupidino. Sciocco: A şè pròpio un baùco.

BAÙL, s.m.: Baule. In senso figurativo anche persona sciocca. Tipico il detto: à şè ‘ndà baùl e a şè tornà casòn = a indicare una persona che non ha capito niente, o che non ha saputo portare a termine un compito affidatogli. BÀVA, s.f.: Bava. Saliva biancastra che si forma sulle labbra di chi sta male, oppure di chi parla molto, ma anche degli animali dopo un grosso sforzo. BÀVA, s.f.: Acquolina. A vèder quel parsùto me vèn le bàve. BÀVA, s.f.: Brezza. D’istà, prima de l’imbrunìr, se àlsa una bàva de vènto. BAVÀR, v.: Sbavare. BAVARIÒL, s.m.: Bavagliolo. BAVIŞÈLA, s.f.: Brezza marina. Alito di vento. BAVOŞA, s.m.: Razza. Tipo di pesce così chiamato perché ricoperto di un abbondante strato viscoso. BAVÒŞO, s.m.: Bavoso. Spocchioso. Si usa di persona con le bave o che si dà aria d’importanza. BEÀTO, agg.: Beato. Beàta l’òra. Beàti i òci che i te védi. Beàto chi che pòl. BEBÈ, s.f.pl.: Tonchio. Insetto presente nei semi dei fagioli secchi. A volte usato per indicare anche i pidocchi, che un tempo certo non mancavano: a gà la testa piena de bebèi. BECÀ, v.: Beccato. Preso. A lo ga becà ‘n te la sùca. Becà de le strighe. BECÀDA, s.f.: (v. Becòn) Beccata. BECAFÌGO, s.m.: (v. Papafìgo) Beccafico. Uccello che si nutre di fichi, abbastanza comune. A Isola presente anche come soprannome di famiglia.

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BECÀR, v.: Beccare. Prudere. Punzecchiare. Acchiappare. Prendere. Sorprendere. Me bèca i dèdi: flìche in viaşo = Mi prudono le dita, segno che devo ricevere del denaro. Se la gà becàda de brùto e a ghè gà sigà de dùto = se l’è presa e gli gridò di tutto. A lo gà becà propio còl ghè pasàva rènte = lo sorprese proprio mentre gli passava vicino. Toni, a gà becà un bransìn de vènti dèca = Toni è riuscito ad acchiappare un branzino di venti decagrammi. A se gà becà un fràco de legnàde = ne ha buscate tante. A se gà becà dò ani = è stato condannato a due anni. No te me béchi = Non mi prendi. A lo gà becà = Lo hanno preso. BECARÌA, s.f.: Macelleria. Interessa forse sapere che già lo Statuto di Isola del 1360 dedicava alcuni capitoli alla macelleria ed alla vendita della carne macellata. Così troviamo, nella versione in lingua volgare il capitolo 17 del Libro III, che già nel titolo stabilisce “Che li Beccari non ardiscano vender de due sorte carne insieme, nè levar alcuna grassa dalli animali se non doppo che saranno stimati.” Più precisi nel prosieguo del capitolo, in cui si recita: “Statuimo, et ordinamo, che cascuna persona, che ammazzarà alcun animale nella Beccaria di Comun per occasione de venderlo debba pagar il Datio a quello, che l’haverà per tempo il Datio della Beccaria; Et che ciascuno Beccaro, ovvero quello, che ammazzarà debba ess Carne per gli Iustitieri di Comun far estimar secondo la forma de suoi Capitoli, et siano tenuti vender la Carne secondo la Stima fatta per li detti Iustitieri, nè ardiscano portarle à Casa in alcun modo, ò ingegno per occasion di venderle.

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Et ancora niun Beccaro ardisca, nè in alcun modo presuma vender, nè far vender carne mescolata, cioè de due anemali in alcun modo, ò ingegno in pena de soldi quaranta de piccoli, la mettà della qual pena pervenga al Comun, et l’altra Mettà al Denonciante. Item che niun Beccaro ardisca in alcun modo levar alcuna grassa de alcun anemale doppo, che sarà iustitiato, ò stimato sotto la pena predetta.” BECÀSA, s.f.: Beccaccia. BECHÉR, s.m.: Macellaio. BECHÌN, s.m.: Becchino. BÈCO, s.m.: Capròne. No gò ‘l béco de un sòldo. BÈCO, s.m.: Becco. Rostro. Anche nel senso di bocca: a no gà verto bèco = non ha aperto bocca. BÈCO, agg.: Cornuto. Uomo tradito dalla donna. A şè bèco ogni vòlta che a gira cantòn = la moglie (fidanzata o ragazza) lo tradisce appena non è presente. Bèco e bastonà. La bàba a lo gà fàto béco. BECOINCRÒŞE, s.m.: Crociere. Uccello con le punte del becco incrociate per rompere meglio i semi più duri. BECOLÀR, v.: Mangiucchiare. Piluccare. BECÒN, s.m.: (v. Becàda) Beccata. Quella d’uccello o di un insetto, sempre dolorosa. BEFÈL, s.m.: Comando. Ordine. Romanzina. Accompagnato magari da una strigliata (dal tedesco Befehl). BÈL, agg.: Bello. Usato anche per indicare denaro: a no gà un bèl = è senza un soldo. Questa la şé béla. No şé bél quél che şé bél, ma şè bèl quél che piàşi. Adèso vèn el bèl.


BÈLA, s.f.: Spareggio. Ingraziarsi qualcuno. Nel gioco delle carte o del pallone, quando il risultato è pari, si concorda la partita di spareggio: fàr la bèla. Fèmo la bèla e finìmo de şogàr = facciamo lo spareggio e finiamo la partita. A ghè fa le bèle per portàrghe via dùti i schéi = cerca di ingraziarselo per portargli via tutti i soldi. BELÈSA, s.f.: Bellezza. BÈN, avv.: Bene. I se vòl un bén de màti. Per bén che la vàdi. No ghe şé un bén sénsa un màl. Ciòte vìa ànca questo che a te pòl vignìr bèn. BENDÈMA, s.f.: (v. Vendèma) Vendemmia. BENDEMÀR, v.: (v. Vendemàr o Vendemiàr) Vendemmiare. BENEDÌDA, s.f.: Benedizione. Bisogna ciamàr el préte che a végni dàrghe ‘na benedìda ala càşa. BENEDÌR, v.: Benedire. Màndelo a fàrse benedìr. BENEDISIÒN, s.f.: Benedizione. BENEFÌSIO, s.m.: Beneficio. BENVIGNÙ, avv.: Benvenuto. BÈPI, n.pr.: Nome proprio diminutivo di Giuseppe. BÈSO, s.m.: Soldo. Denaro. A şè pièn de bèsi = è pieno di soldi. BESTÈMA, s.f.: Bestemmia. BESTEMÀR, v.: Bestemmiare. A bestéma come un tùrco. A ghe gà bestemà la màre co’ dùti i parénti. BÈSTIA, s.f.: Bestia. Animale. Pàr finìr el lavòr gò sfadigà come ‘na béstia. BESTIÀL, agg.: Bestiale. Andàr fòra con sto témpo şé bestiàl. BESTIÀSA, s.f.: Bestiaccia.

BETÒN, s.m.: Cemento. BEVADÒR, s.m.: (v. Bevidòr) Bevitore. Abbeveratoio per volatili. BEVÀNDA, s.f.: Bevanda. Dissetante fatto con acqua e vino o aceto. Per non consumare il vino che si preferiva conservarlo per la vendita, i contadini facevano fermentare le vinacce due volte. Dalla prima fermentazione ricavavano il vino buono per la vendita. Dalla seconda ottenevano una bevanda annacquata e molto leggera che si portavano in campagna durante i lavori. Dalle vinacce nere, invece, con lo stesso sistema, ottenevano la Ribòla (v.). BEVANDÈLA, s.m.: Ubriacone. Di persona dedita al vino. BÈVER, v.: Bere. Annaffiare. Raccontar frottole o crederci Dàghe de bèver àle piànte. A ghè le dàva de bèver e lù a gà credù dùto. A se gà bevù ànca el servél. BEVERÀR, v.: (v. Inbeveràr) Abbeverare. BEVERÌN, s.m.: Beverino. Recipiente per l’acqua degli uccelli in gabbia. BEVERÒN, s.m.: Il mangime, più o meno denso, che si preparava per dar da mangiare ai maiali e che era frammisto di vari ortaggi e semolino bolliti assieme. BEVIDÒR, s.m.: (v. Bevadòr) Bevitore. Abbeveratoio per volatili. BEVÙ, agg.: Bevuto. Alticcio. Ubriaco. No dàrghe reta ch’a şè bevù. BEVÙDA, s.f.: Bevuta. Me şé sempre piaşù fàr na bevùda in companìa. BÌA, avv.: Bisogna. No bìa dàrghe bàda. No bìa mai còrerghe drìo.

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BIANCADÌSO, agg.: Bianchiccio. Pallido.

BIECÀR, v.: Rappezzare. Rattoppare.

BIANCARÌA, s.f.: Biancheria. Mèter sugàr la biancarìa = stendere la biancheria.

BIÈCO, s.m.: Toppa. Rattoppo. Pezzo di stoffa. No gò monéda, gò sòlo un biéco de sénto. A gà le bràghe piéne de biéchi.

BIÀNCO, agg.: Bianco. Dèmoghe una màn de biànco = verniciare di bianco. Me şè costà un biànco e un nèro = mi è costato quattro soldi. Stavòlta son andà in bianco. Se te gà problémi de stòmigo fàte far ‘na pignàta de rişi in bianco. BIÀVA, s.f.: Biada. Avena. Dàrghe biàva = pestare o sgridare qualcuno. BÌBE, s.f.: (v. Bùbe) Male. Dolore. Indisposizione. Rivolto soprattutto ai bambini più piccoli. Te se gà fato bìbe, ma no şè gnènte = ti sei fatto male, ma non è niente. Te gà bìbe = Sei ammalato. BIBIÈSO, s.f.: Indugio. Pigrizia. BIBIÒŞO, agg.: Pigro. Lento. Fastidioso. BICÈR, s.m.: Bicchiere. Un bicèr de quel bòn. A finirà col negàrse int’un bicér de acqua. Co se şé in companìa el bicér a no dévi éser mài pién e mài şvòdo. BICERÀDA, s.f.: Bicchierata. BICERÌN, s.m.: Bicchierino. Un bicerìn de tràpa. BICI, s.m.: Bicicletta. BIDÒN, s.m.: Recipiente di metallo. Fregatura. A me gà tira un bidòn che no lo deşmetegarò mai. BIDONÀDA, s.f.: Fregatura. Imbroglio. BIDONÀR, v.: Imbrogliare. Fregare.

BIFLÀR, v.: Sgobbare. Impegnarsi. BIFLÒN, s.m.: Secchione. Sgobbone. BÌGA, s.f.: Pane. Una particolare forma circolare di pane (v. strùsa). Andàr a ciapàse la biga = andar a guadagnarsi il pane. Se lavòra e se fadìga pàr la bìga e pàr la fìga. BIGODINI, s.m.pl.: Avvolgicapelli. Usati dalle donne per la messa in piega dei capelli. BÌGOLO, s.m.: Spaghetto. Vermicello. Pasta lunga e sottile. Noto il ritornello della canzone Parensàna: Me piàşi i bìgoli co le lugànighe... BIGÒTO, agg.: Bigotto. BÌLE, s.f.: Bile. Rabbia. A me fà ‘na bìle! = mi fa una rabbia! BÌLFA, s.f.: Pollone selvatico. (v. bùto) Rametto selvatico su cui si innesta la vite. El cavo (v.) dela vida. BÌLFO, agg.: Strambo. Obliquo. Bieco. Astuto. Òcio bìlfo = occhio strambo, bieco. (Vascotto) BILIÈTO, s.m.: Biglietto. El biliéto del cìne. BINBÌN, s.m.: Pisellino. Pene dei bambini. Se no te sòn bravo vegnarà babàu e te magnarà el binbìn. BÌNDA, s.f.: Benda. Fascia.

BIDONÈR, s.m.: Imbroglione. Truffatore.

BIONDODÌO, avv.: Abbondante. Molto. Ciapàle a biondodìo = prenderne tante.

BIECÀ, agg.: Rattoppato. A và in gìro dùto biecà.

BÌPERA, s.f.: Vipera. Molte delle parole che iniziano con la lettera

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V e sono seguite da vocale, si trasformano in B. BÌNDOLÀR, v.: Abbindolare. BÌRA, s.f.: Birra. Per la verità, a Isola, pur non disdegnando la birra, si preferiva il vino. BIRARÌA, s.f.: Birreria. A Isola, le trattorie vendevano la birra solitamente sfusa. Secondo alcune testimonianze c’era una sola birreria che si trovava di fronte al fontanon (v.) e dove di solito si fermavano i contadini dopo aver venduto il carico degli ortaggi alle Porte (v.). Naturalmente lo spazio era attrezzato per ospitare anche i carri e gli asini. BIRÒCIO, s.m.: Barroccio. Calesse a due ruote. Trainato da un cavallo o a mano. BÌSA, s.f.: Biscia. Serpe. BIŞARÌA, s.f.: Bizzarria. Stravaganza. BIŞÀSA, s.f.: Bisaccia. BIŞÀTO, s.m.: Anguilla. Capitone. Si catturavano nei fossati della valle di Strugnano, che, come si sa, durante le alte maree facevano fluire l’acqua salata del mare. Ricordo, che la famiglia dei Sanguetéra (v.), che avevano il podere proprio nel mezzo della vallata, a qualche centinaio di metri dal mulino ad acqua, una volta l’anno si dedicavano alla pesca dei bişàti. Dapprima con un’idrofora si vuotavano i fossati dell’acqua (serviva per annaffiare le colture di prima estate: fagiolini (v. faşoleti), piselli (v. bişi)o altre primizie. Poi, muniti di stivaloni si entrava nei fossati pestando il fango. I bisàti uscivano fuori e venivano catturati con le mani, stando bene attenti a prenderli tra indice e medio con il pollice che fungeva da fermaglio, perché

altrimenti, viscidi com’erano, scivolavano via. Per toglier loro la pelle, troppo dura per esser commestibile, si fissavano ad una tavola conficcando un chiodo a livello della testa. Poi si tirava la pelle come fosse una guaina. La testa dell’anguilla, pur tagliata dal resto del corpo, rimaneva in vita ancora per qualche tempo. Ricordo, che durante una pulitura, uno dei tanti gatti presenti in casa, si volle addentarne un pezzo. Purtroppo, con la lingua si avvicinò alla bocca del bişàto e questo chiudendola lo prese con tanto di miagolii doloranti. Bastò toccarlo con un dito che mollò la presa. BISCÒTO, s.m.: Biscotto. Ancora nei primi anni ’50 del secolo scorso, i biscotti si facevano in casa e si cuocevano nel spàcher (v.), magari usando lo stesso impasto che rimaneva dalle pìnse (v.) e che si distendeva a sfoglia. Poi, ed era un lavoro che veniva lasciato ai bambini, gli stampi rotondi venivano tagliati con l’orlo di un bicchiere. BIŞÈSTO, agg.: Bisestile (anno). Ano bişèsto, ano sensa sèsto = anno bisestile, anno scombinato. Usato anche per indicare una persona disordinata: a şè un poco bişesto. BIŞÈRA, s.f.: Campo coltivato a piselli. BISÌGA, s.f.: Vescica. Gran parte degli Isolani dediti all’agricoltura tenevano anche uno o più maiali che, con l’arrivo dell’inverno, uccidevano e poi conservavano le carni che dovevano durare tutto l’anno. Di solito questo avveniva attorno le feste di Natale o di capodanno. Grande festa, quindi, anche per i ragazzi, che aspettavano il momento quando

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dal maiale veniva tolta la vescica, subito svuotata e lavata: serviva, gonfiata, per giocare al pallone. Più tardi, assieme alle budella (con le quali si facevano le lugànighe), veniva lavata con acqua di mare e, nei giorni seguenti, riempita di strutto da conservare per tutto l’anno. Prima dei càli int’ele man vèn le bisighe = prima dei calli sulle mani vengono le vesciche. (Manzini-Rocchi) BIŞIGÀR, v.: (v. Şbişigàr) Frugare. Rovistare. Anche darsi da fare. BIŞÌN, s.m.: Pisellino. L’attributo sessuale maschile. BIŞÌNA, s.f.: L’organo sessuale delle donne. BISÌNSIO, s.m.: (v. Abisìnsio) Assenzio. BIŞLÀCO, agg.: Stravagante. BÌŞO, s.m.: Pisello. Bìşo de fràsca = Pianta di pisello che cresce in altezza e che per esser sostenuta ha bisogno di un frasco. Secabìşi (v.) = Seccatore, importunatore. A şè un secabìşi! Filastrocca sconcia che da bambini si ripeteva, spesso anche senza conoscerne il significato: Rìşi e bişi, pàn gratà - mòna e càso se gà incontrà càso dìşi còsa fèmo, mòna dìşi taconèmo, càso dìşi màsa scuro, mòna dìşi più sicùro! BIŞOGNÀR, v.: Abbisognare. Necessitare. Avere bisogno. BIŞÒGNO, s.m.: Bisogno. Necessità. Anche nel senso di doversi liberare di un bisogno corporale: A şè ‘ndà a fàr i sò bişògni. BISÒNI, s.m.pl.: Riccioli. Boccoli. BIŞÒNTO, agg.: Sporco. Sudicio. Bisunto. A şè ònto e bişònto. BITINÈL, s.m.: Gilet. Lo riporta il prof. Morteani nel suo vocabolarietto di termini dialettali

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isolani, pubblicato nell’ambito della storia di Isola verso la fine del XIX secolo. BITUÀ, agg.: Abituato. BITUÀR, v.: (v. Abituàr) Abituare. BITUÀRSE, v.: Abituarsi. BLÀC, s.m.: Catrame. Bitume. Dall’inglese black = nero. BLÀSIO, n.pr.: Biagio. BLÈDA, s.f.: (v. Erbèta) Barbabietola. BLOCÀR, v.: Bloccare. Fermare. BLÒCO, s.m.: Blocco. Condominio. Oltre al significato identico a quello della lingua italiana, per molti decenni il termine veniva identificato con il valico di frontiera che divideva l’Istria da Trieste. Sémo rivài fina al blòco e dopo i ne gà fàto tornàr indrìo. A ga ciapà el quartiér in quel blòco nòvo dopo la stasiòn. BLÙŞA, s.f.: Camiciotto. Giacca leggera. Conosciute a Isola le blùşe de terlìs (v.) indossate come indumento da lavoro dai contadini e dagli operai. Il termine blùşa, però era usato anche per le camicette femminili: Còtola e blùşa şè tornàde de mòda (Rosamani). BLUŞÈTA, s.f.: Camicietta. BÒBA, s.f.: Tipo di pesce di mare. Cibo. A rìva si e no a guadagnàse la bòba = arriva appena a guadagnare per il cibo. BOBÀNA, s.f.: Abbondanza. Pacchia. A ièra un ano de bobàna. La bobàna no podèva durar tropo (Rosamani). BOBÌCI, s.m.pl.: (v. Fromentòn. Formentòn) Granoturco fresco e tenero. Minèstra de bobìci: con faşòi, patate, fromentòn e qualche cròdiga de porco che


se condìsi con un fià de pesto (Rosamani). Anche se la minestra di bobici avrebbe dovuto essere caratteristica del periodo tardoprimaverile, quando le pannocchie (v. panòce) sono ancora verdi e tenere, è anche vero che veniva cucinata anche durante il periodo autunnale. Non esistendo un tempo i congelatori per mantenere freschi i bobìci, i grani del mais venivano battuti e pilati per renderli più teneri e quindi cucinati. Sempre minestra de bobìci era. BÒBOLO, s.m.: Chiocciola. Poco usato a Isola, dove si usava il termine di cagòia (v.). Importato probabilmente da altre località istriane. Secondo il Vascotto, che esprime qualche dubbio in merito, a Isola per bòbolo si intendeva pure un ciottolo da fiume, di solito tondeggiante, anche perché nelle vicinanze della cittadina non esistono fiumi degni di questo nome. BÒCA, s.f.: Bocca. Ma anche foce o ingresso. Stòrşer la bòca. Chi gà la lingua vòl parlar, chi gà la bòca vòl parlar. Me şè scampà de bòca. Cavàrse el pàn de bòca. Bòca domànda, pànsa comanda. A şè de bòca bòna. Bòca del porto. Bòca de lòvo = bocca di leone (fiore). BOCÀDA, s.f.: Boccata. I şé ‘ndài a ciapàr ‘na bocàda de ària. BOCÀL, s.m.: Boccale. Recipiente per vino, solitamente di terracotta e adornato con colori e scritte. Bocàl de vin bianco o nero. BOCALÈTA, s.f.: (v. Bucalèta) Boccaletta. A Isola veniva usata anche al posto del Bocàl. Bocalèta de vin. BOCÀSA, s.f.: Boccaccia. Invèse de dìr monàde, te farìa ben a seràr quèla bocàsa.

BOCÀTO, s.m.: Abboccato. Sapore. Sto vin a gà un bòn bocàto. BOCHÌN, s.m.: Bocchino. Quello che si usava per infilare le sigarette, solitamente senza filtro, spesso spezzate a metà, per far durare di più la razione quotidiana di sigarette. Anche la parte finale del collo della bottiglia. BOCHIŞÀR, v.: Sbadigliare. BÒCIA, s.f.: Boccia. La domènega dopo prànsà no ghe şè gnènte de mèio che fàr una partìda de bòce. BOCÌN, s.m.: Boccino. Nel gioco delle bocce la più piccola che si lancia all’inizio della partita. BÒCOLO, s.m.: Bocciolo. Gemma delle piante. Ciocca di capelli. Ricciolo. A şè capità come un bòcolo = è arrivato al momento giusto. Vàrda che bòcoli che la gà = guarda che bei riccioli ha. BOCÒN, s.m.: Boccone. A se gà cavà el bocòn de boca. A lo gà ciapà pàr un bocòn de pàn. A lo gà distrigà int’un bocòn.Vascotto cita una filastrocca che non sembra fatta per i bambini: Late de galìna, siròpo de cantìna, un tòco de capòn, che şè un bel bocòn. BOCONÀDA, s.f.: Prendere un boccone. Assaggiare. Dare un morso ad un frutto o, per esempio, una boconàda alla strùsa de pan per calmàr la fame. BOCONSÌN, s.m.: Bocconcino. BOGÌSTRO, s.m.: (v. Boìstro. Lìsia) Bucato. La biancheria messa a cuocere in un grande paiolo (v. Caldièra) di rame, prima di essere risciacquata (v. reşentàr). BOIÀDA, s.f.: Stupidaggine. Cosa mal fatta o mal detta. A gà fàto (o a gà dìto) ‘na boiàda. BOÌDA, s.f.: Bollitura. A la làte basta dàrghe una boìda.

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BÒIO, s.m.: Bollore. A şè de bòio = è bollente.

Işola? Almeno fin al 1930 pòche ièra le scarpe in giro...”

BOÌR, v.: Bollire. Cuocere. Anche fermentare quando si parla di vino: El mosto a bòi ancora = la fermentazione del mosto non è ancora finita.

BOMBÀŞO, s.m.: Ovatta. Bambagia. Cotone in fiocco. A vivi int’el bombàşo = vive nella ricchezza.

BOÌSTRO, s.m.: (v. Bogìstro. Lìsia) Acqua bollente per il bucato con cenere. Veniva preparata per fare il bucato. Nel libro “Isola in 200 cartoline” scrive che dopo averle lavate con acqua calda e sapone, le lenzuola (i linsiòi – v.) si stendevano in una tinozza (v. mastèl) che coperta con un telo robusto serviva per contenere ceneri di sarmenti (v. saramènte). Sulla lavanderia (v. lisiéra) si faceva bollire l’acqua che si versava bollente sulla cenere e che con il calore liberava i sali detergenti che conteneva e con i quali veniva inondata la biancheria sottostante. BÒLA, s.f.: Bolla. Vescica. Pustola. Chi de mùlo no gà fato le bòle de savon? Gò le scarpe che me strénşi e me se gà fato le bòle (v. bisìga) sul calcàgno. BOLÀŞO, s.m.: Pozza di acqua sorgiva. BOLIDÒR, s.m.: Fornello. Quello a gas, quando venne introdotto a Isola. BOMARCÀ, agg.: (anche A bon marcà) A buon mercato. A basso prezzo. Conveniente. BOMBAŞÈLA, s.f.: Filo di cotone grosso e robusto (anche Spàgo de cuşìr). Riporto l’esempio portato da A. Vascotto, che mi sembra esemplare per gli Isolani della prima metà del secolo precedente: “Quante papùse (v.) con la siòla cuşìda cò la bombaşèla no gà strasà i màmi e le màmole de

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BOMBÌ, agg.: (v. Imbombì) Intriso. Madido. BOMBÌR, v.: (v. Imbombìr) Inzuppare. BOMBOLONI, s.m.pl.: Dolci di zucchero caramellato. BOMBÒN, s.m.: (v. Silèle) Caramella. BÒN, agg.: Buono. Capace. Abile. Pàr bòn = davvero; Sà de bòn = sembra buono; A şè in bona = ha buoni rapporti; Ciapàlo cò le bòne = prenderlo con le buone; Bòna de Dio = per fortuna; Àla bòna = modesto; Bònalàna = furbastro, furbacchione. Bondegnènte = buona a nulla, incapace. Che Dio ne la màndi bòna. Sempre alégri e mai pasiòn, viva là e po bòn. Un gòto de quel bòn. BONAGRÀSIA, s.f.: Sostegno per tendaggi e tende. BONAMÀN, s.m.: Augurio di Capodanno. Piccolo regalo di Capodanno, soprattutto per i bambini, fatto per lo più con qualche mela, noce o mandorla. Forse, per i più fortunati, qualche dolce. BONÀSA, s.f.: Bonaccia. Calma di vento. Anche soprannome di una famiglia Isolana di pescatori. BONAVÌA, n.pr.: Albergo e ristorante isolano in Grìşa. BONDÀNSA, s.f.: (v. Abondànsia) Abbondanza. La bondànsa no fa vignìr mal de pànsa. BONDÀNTE, agg.: (v. Abondànte) Abbondante.


BONDÌ, s.m.: Buongiorno. BONMERCÀ, agg.: Basso prezzo. Şè dùto ròba a bonmercà. BONÒRA, avv.: Buonora. Di buon mattino. Presto. BONORÌVO, agg.: Precoce. Mattiniero. Arrivato in anticipo. BÒRA, s.f.: Bora. Vento freddo invernale, anche impetuoso, che secondo la tradizione soffia tre giorni e spazza via le nuvole ed il tempo grigio. Co şé la bòra che vién e che và, i dìşi ch’el mondo se gà ribaltà = vecchia canzone popolare triestina, nata quando un colpo di bora ha fatto deragliare il tram di Opicina, ma conosciutissima anche nelle osterie isolane e istriane. Co şè sòl e bòra le strìghe se inamòra. BORA SCÙRA, s.f.: Bora con pioggia. BÒRCOLA, s.f.: Insenatura. Avallamento fra due alture. La bòrcola de Ricòrvo (v.). BORDÈL, s.m.: (v. Brodèl) Baccano. Chiasso. Confusione. Prima de fàrse ciapàr a ga fato un gràn bordèl = prima di esser preso ha fatto un gran baccano. Probabilmente deriva dall’italiano bordello, ma in senso più figurativo. Più o meno come oggi si usa il termine casìno per dire la stessa cosa. BORDIŞÀDA, s.f.: Bordeggiata. Bordeggiare per divertimento in barca a vela. BORDIŞÀR, v.: Bordeggiare. Veleggiare contro vento. BÒRDO, avv.: Imbarcato. A bordo. BÒRDO, s.m.: Orlo. Orlatura. La se gà fàto fàr la camişéta coi bordi de òro. BORDONÀL, s.m.: Trave di

sostegno. Impalcatura in un cantiere navale (v. squèro) per sostenere una barca. In senso figurato anche il didietro di una donna: àra che bordonàl che gà Pina = guarda che bel sedere ha la Pina. BORÈLA, s.f.: (v. Burèla) Boccia. Palla di legno usata per il gioco delle bocce. Co la borèla te devi ciapàr el balìn. BORÈSO, s.m.: (v. Morbìn) Brio. Vivacità. Allegria. BÒRGOLA, s.f.: Borgo ombroso. Così venivano definiti certi spazi e piccole radure ai limiti di un bosco, dove di solito i campagnòi, si mettevano all’ombra per riposare o fare merenda. BORÌNA, s.f.: (v. Burìna) Scotta della vela. BORÌN, s.m.: Borino. Vento di bora non forte. BÒRO, s.m.: Soldo. Denaro. A no vàl un bòro. Bòri sarà che noi no sarémo. Salùte e bòri e tempo de godèrli. A no capìsi un bòro. BÒRO, s.m.: (v. Verdòn) Ramarro. BOSCARÌN, s.m.: Bue istriano. Possente manzo dalle grandi corna presente soprattutto all’interno della penisola. Per quanto mi ricordo e per quanto ne ho sentito parlare, nella zona di Isola erano praticamente inesistenti. Il motivo va cercato probabilmente nelle grandi dimensioni dell’animale. Come è noto, anche per il lavoro dei campi a Isola si usavano gli asini, i mùsi (v.). BOSCARIÒL, s.m.: Boscaiolo. BÒŞEGA, s.f.: (v. Sièvolo) Muggine. Tipo di pesce simile al cefalo. BÒSOLO, s.m.: Bozzolo. Cerchio. Bòsolo tondo, come descrive A. Vascotto, era un gioco per bambini

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che si giocava in girotondo cantando una filastrocca: Bòsolo, bòsolo tòndo, quanti bèsi şè a sto mondo, la panàda sensa sàl, pìcolo pìcolo carnevàl. Carnevàl şè ‘ndà ala guèra, duti col cùl par tèra. BOŞUMÈ, top.: Toponimo alla periferia di Isola, nelle campagne sotto Montecàlvo (v.). Non esistono dati certi sulla sua origine. Gli abitanti del luogo la pronunciavano anche Buşumè. Qualcuno fa derivare il toponimo da avallamento, chissà perché. BÒTA, s.f.: Botta. Colpo. Botte. In dò meşi a se gà ciucià do bòte de vin = in due mesi si è bevuto due botti di vino. Per San Martin, de ogni bòta se pròva el vin. Dàrghe un còlpo al sèrcio (v.) e un còlpo a la bòta. BOTASÈL, s.m.: Botticella. Anche soprannome isolano. BOTÀSO, s.m.: Botticella. Piccola botticella portatile, che i contadini usavano portarsi appresso riempita di acqua o bevanda (v. Intemperà, aşedìna) per dissetarsi durante il lavoro dei campi che, quasi sempre si protraeva per tutto il giorno. BÒTE, s.f.pl.: Bastonate. Dàrse bòte = pestarsi, bastonarsi. BOTÈGA, s.f.: Bottega. Negozio. No şè gnènte ròba de càşa, şè dùta ròba de botèga. Con il termine veniva definita anche l’abbottonatura anteriore dei calzoni: Àra Gigi co’ la botèga verta = guarda Gigi con i calzoni sbottonati. BOTEGHÈR, s.m.: Bottegaio. Negoziante. BOTEGHÌN, s.m.: Negozietto. Piccola bottega. Quasi sempre usato per indicare il negozio di frutta e verdura.

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BOTÈR, s.m.: Bottaio. BOTIŞÈLA, s.f.: Botticella. Piccola botte per il vino. Ma anche persona piccola e grassoccia, soprattutto se femminile. BÒTO, s.m.: Botto. Colpo. De bòto = improvvisamente. BOTÒN, s.m.: Bottone. Tacàr botòn = Attaccarsi a qualcuno con discorsi noiosi. Strùca botòn, sàlta macàco. BOTONÀDA, s.f.: Sarcasmo. Ironia. Colpire qualcuno sarcasticamente su una sua debolezza. BOTONADÙRA, s.f.: Abbottonatura. BOTONÀR, v.: Abbottonare. BÒVA, s.f.: Boa. BOVÀSA, s.f.: (v. Şbovàsa) Escremento bovino. BOVÌSA, s.f.: (v. Tìtola) Dolce pasquale. Solitamente si faceva in casa con la stessa pasta con cui si confezionavano anche le pìnse (v.). Con un rotolo di pasta un po’ più lungo si faceva una specie di treccia e al centro, a mò di testa, si infilava un uovo. BRÀGA, s.f.: Calzone al singolare. Staffa. BRAGÀGNA, s.f.: Rete a strascico. Calzoni di taglio largo somiglianti a quelli alla zuava. BRÀGHE, s.f.pl.: Brache. Calzoni. In bràghe de tèla = poveri, senza un soldo, in miseria. Se sà chi che in caşa pòrta le bràghe = si sa chi comanda in casa. A no sa gnànca ligàrse le bràghe = è un incapace. Cagainbràghe = pauroso, pusillanime. BRAGHÈTE, s.f.pl.: Calzoncini. Abitualmente usato per indicare le mutandine da bagno maschili.


BRAGÒGNA, s.f.: (v. Bregògna) Borgogna. Qualità di uva nera. BRAGÒSO, s.m.: Bragozzo. A Isola erano noti i bragozzi che trasportavano sabbia, ma anche altre merci. BRAMÀR, v.: Bramare. Augurare. Chi non ricorda il gioco del togliere i petali delle margherite declamando: Me ama, me bràma no me vòl bèn! per vedere su quale dei tre auspici sarebbe arrivato l’ultimo petalo. BRANCÀR, v.: Prendere. Afferrare. Stringere. Acciuffare. A lo gà brancà e a no lo gà molà più = Lo prese e non lo volle più lasciare. BRANTÈLA, s.f.: (v. Brentèl) Bigoncino. Piòvi, che la vèn şò a brèntele. BRANSÌN, s.m.: Branzino. Spigola. Prelibato pesce di mare. BRASACÒLO, loc.: Abbracciare. Gettare le braccia al collo. BRASÀL, s.m.: Bracciale. Bracciolo delle scale. Bracciata. Un brasàl de legne o de fièn. BRASALÈTO, s.m.: Braccialetto. BRASÀR, v.: Abbracciare. Che Dio ghe bràsi l’anima! BRÀŞDA, s.m.: Persona trasandata. Solco dell’aratro: dallo sloveno “Brazda”. BRASÈRA, s.f.: Barca da trasporto. Il nome deriva probabilmente dal fatto che inizialmente era spinta a remi: da bràso (v.) = braccio.

BRAÙRA, s.f.: Bravura. Bèla braùra, àra, mostràrse in giro cò ela! BRÈDINE, s.f.pl.: Briglie. Redini. (anche Brèdene). BREGÒGNA, s.f.: (v. Bragògna) Borgogna. Qualità di una nera. Col tempo, per innesto, l’uva nera è sparita quasi del tutto lasciando il posto ad una qualità di uva bianca, simile alla Malvasia, ma dall’acino più grosso e gonfio Che derivi da Uva di Borgogna? BRÈNTA, s.f.: Bigoncia. Recipiente di legno lavorato a doghe. Usato solitamente in cantina durante le operazioni di travaso del vino, oppure come mezzo da carico legato sopra il bàsto dell’asino. Utile per il trasporto di arnesi o delle verdure dalla campagna. BRENTÈL, s.m.: (v. Brantèla) Bigoncino. Piccola bigoncia. Piccola brenta. Usato soprattutto per la vendemmia e per travasare il vino. BRIBÀNTE, s.m.: Brigante. Birbante. Antonio Vascotto presume che il termine sia il risultato di un incrocio tra le due parole italiane. BRÌGA, s.f.: Impegno. Problema. Ciòrse la brìga. BRIGÀDA, s.f.: Brigata, branco, gruppo (v. ciàpo). BRINCÀR, v.: Acchiappare, prendere. Pòvero ti, se te brìnco! = Guai a te, se ti prendo.

BRÀSO, s.m.: Braccio. Te me fa cascàr i bràsi = mi demoralizzi.

BRÌSCOLA, s.f.: Briscola, gioco delle carte. La briscola era ed è ancora, assieme al tressette, il gioco delle carte più diffuso ad Isola e, crediamo, in tutta l’Istria. Si gioca in casa, ma soprattutto in osteria.

BRASOLÀR, v.: (v. Sbrasolàr) Cullare. Tenere in braccio.

BRISCOLA SCOVÈRTA, s.f.: Briscola scoperta. Si gioca con

BRASÈTO, s.m.: Braccetto. Tegnìrse a brasèto = tenersi sottobraccio. BRAŞIÒLA, s.f.: (v. Barşiòla) Braciola.

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le carte degli avversari scoperte, e scoperta è pure la prima carta del mazzo. BRISCOLÒN, s.m.: Variante della Briscola. Gioco a carte. BRIŞIÒLA, s.f.: (v. Barşiòla) Braciola. Molto gustose le brişiòle de porco, che a maiale ucciso e appena aperto, si mettevano a rostire sulla piastra (v. plàca) dello spàcher (v.) con pepe e sale. Si mangiavano con fette di pane fatto in casa. Brişiòle de pòrco e un gòto de refòsco (Manzini-Rocchi). BRÌTOLA, s.f.: Coltellino tascabile a serramanico. Temperino. Brìtola de incalmàr = Temperino molto affilato a lama larga per eseguire gli innesti delle piante. Secondo Giulio Manzini e Luciano Rocchi, la parola deriva probabilmente dallo sloveno Britva = coltello, rasoio. BRITOLÌN, s.m.: Temperino serramanico. Serviva anche per fare le punte alle matite. Ricordo che quando frequentavo le elementari soltanto pochi fortunati disponevano di un temperamatite, mentre tutti disponevamo di un Britolìn che, naturalmente, serviva anche per altro. BRITOLÀDA, s.f.: Coltellata. BRÌVA, s.f.: Slancio. Rincorsa. Co a ciàpa la brìva, a fìla come un lèvro = Quando prende la rincorsa fila come una lepre (A. Vascotto). BRÒCA, s.f.: Brocca (recipiente). Spetàvo un gòto de nèro, e invèse quel fiòl d’un can, a me gà portà una bròca de acqua. Una volta no ghe ièra i bagni de ogi, ma in ogni camera ghe ièra el cadìn co’ la bròca. Bròca era anche uno dei tanti soprannomi di famiglie isolane. Uno degli ultimi rimasti,

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personaggio alquanto burbero e trasandato, abitava a pochi metri dalla chiesetta di Loreto, proprio di fronte alla casa in cui abitavano ed ancora abitano i “Bòmba”. BRÒCA, s.f.: Bulletta. Borchia. Chiodo a testa grossa per scarponi. Venivano messe sotto le suole degli scarponi da lavoro dei contadini per non scivolare sul terreno durante il lavoro in campagna. Scarpe co le bròche = Scarpe chiodate. Bròche de dişègno = puntine da disegno. Bàter bròche = Soffrire il freddo. Şè la una in bròca = È l’una in punto. Bròche de garòfolo (v.) = Chiodi di garofano. BRÒCOLO, s.m.: Broccolo. Anche persona modesta, che conta poco. BRODÈL, s.m.: (v. Bordèl) Bordello. Confusione. Casino BRÒDO, s.m.: Brodo. Galìna vècia fa bòn bròdo. Chi se loda se imbròda. BRÒDO BRUSTOLÀ, s.m. Brodo abbrustolito. Un tipo di brodo che di solito si preparava quando non c’era altro da mettere in pignatta, a base di farina abbrustolita, acqua, pepe, sale e qualche goccia di olio (v. brustolàr). Indicato anche per alleviare i problemi provocati dalla diarrea. Enrico Rosamani, nel suo “Vocabolario Giuliano”, riporta la seguente ricetta del brodo brustolà: “Se meti in una farsora un poco de oio e co scominsia a frişer, se ghe buta drento do spighi de aio, e se lo lasa diventar roso. Quando l’aio cambia de color, sempre misiando el fior de farina, badando che nol se imbalonisi, dopo se buta drento un poco a la volta l’acqua freda. Dopo una meşa ora, gavendo sempre misià, se cava dal fogo e se lo şvòda in t‘el piato.”


BRÒMBO, s.m.: Lavaggio delle botti. Di solito veniva eseguito con acqua bollente in cui erano stati messi a cuocere rametti e foglie di viti, di pesche e qualche mela cotogna per darle un odore gradevole e togliere così eventuali residui maleodoranti nelle botti dopo che erano rimaste a secco di vino. A volte si usava anche acqua e soda caustica. Per togliere eventuali muffe e disinfettare le botti, invece, si usava bruciarvi dentro degli stoppini di zolfo (v. pavèr de sòlfare). BROMBOLÀR, v.: Borbottare. Quello tipico del mosto in fermentazione nelle botti. Secondo alcuni deriva dalla voce precedente “Brombo”, che pure, per effetto dell’acqua bollente e del vapore acqueo. BRÒNSA, s.f.: (v. Brònso) Tizzone. Brace. Quela putèla la şè ‘na brònsa covèrta. BRONSÈRA, s.f.: Braciere, mucchio di braci. BRONŞÌN, s.m.: Pentola di rame con manico. Forse deriva dal fatto che una volta queste pentole erano di bronzo (v. brònşo). BRÒNSO, s.m.: (v. Brònsa) Tizzone. Pezzo di brace. Chi che şòga col fogo, dopo a se pìsa in lèto = chi gioca con il fuoco, poi fa la pipì a letto. Era una specie di minaccia dei genitori per quei bambini che giocavano con dei tizzoni facendoli girare velocemente nell’aria e provocando così dei ghirigori rossastri che, per effetto ottico, persistevano per qualche frazione di secondo. BRONTOLÀR, v.: Brontolare. Senti come che me bròntola la pànsa. BRÒŞA, s.f.: Crosta formata da coagulo di sangue sulla ferita.

Oramai, sul tàio se gà fato la bròşa. BROVÈTO, s.m.: Brodetto. Cacciucco. Piatto a base di pesce. Riportiamo la ricetta, così come testimoniò nel suo volume Antonio Vascotto: “Si pone dell’olio in tegame, con cipolla che si lascia scurire assai quindi si toglie. Si unisce all’olio insaporito pepe e sale, sopra si distende il pesce, lo si rosola a fuoco vivo senza toccarlo, ma maneggiando con destrezza la teglia. Si aggiunge un po’ d’aceto, lo si fa assorbire, indi si versa della conserva di pomodoro diluita in una tazza d’acqua; si fa bollire restringendo il sugo. Sta nell’abilità della cuoca dosare il tutto, compresa la cottura. Se il pesce è fresco il successo è assicurato, se poi è di qualità eccellente e varia c’è da leccarsi le dita... Da noi però c’era anche il Brovèto pòvro: stessa ricetta, ma senza il pesce. E con esso si preparava la manèstra col gàrbo (v.) del venerdì, giorno di magro. Più magro di così!” BRÙFOLO, s.m.: Foruncolo. La mùla la sarìa còcola se no la gavési el mùşo pién de brùfoli. BRUFOLÒŞO, s.m.: Foruncoloso. BRÙLA, s.f.: Pula. Buccia dei cereali che un tempo si toglieva facendo cadere il grano in un recipiente in posto ventoso. Dopo due o tre passaggi, il vento portava via la “brula” e il grano, ma anche i fagioli, poteva essere conservato o portato al mulino. BRULÈ, s.m.: Vino cotto con zucchero e con aromi. Si dice faccia bene per il raffreddore o il mal di gola, probabilmente perché va bevuto caldissimo. BRÙMA, s.f.: Brina. Lo stesso termine veniva usato anche dai

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pescatori per indicare foschia o leggera nebbia sul mare. BRUŞÀDA, s.f.: (v. Bruşadùra) Bruciatura. Scottatura. La solàna şè una bruşàda de sòl. BRUŞÀ, agg./v.: Bruciato. BRUŞADÙRA, s.f.: (v. Bruşàda) Bruciatura. BRUŞÀR, v.: Bruciare. Ardere. Me brùşa i òci; Questa la me brùşa ‘sài. BRUSCÀNDOLO, s.m.: Asparago selvatico. Pungitopo. BRUSCHÌN, s.m.: (v. Scartàsa) Spazzola. Quella per pulire e pettinare i cavalli, ma anche quella per lavare con acqua e detergente i pavimenti o per pulire le botti. A şè cussì sporco che per netàrlo dovarò ciòr el bruschìn. BRÙSCO, s.m.: Postema. Pustola. Foruncolo di grosse dimensioni. Fin che no me s’ciòpa el brùsco sul cùl, no pòso gnànca mòverme. BRUŞÈRA, s.f.: Canicola. Giornata torrida. BRUŞÒR, s.m.: Bruciore. Bruşòr de stòmigo. BRUSTOLÀDA, s.f.: Abbrustolatura. Abbronzatura. Me son ciapà ‘na bona brustolàda sui scòi. BRUSTOLÀR, v.: Abbrustolire. BRÙTO, agg.: Brutto. A şè bruto come la fame! A gà un bruto màl, si diceva di chi soffriva di epilessia. BUBÀNA, s.f.: Pacchia. A gà trovà un lavòr che şè una bubàna. BÙBE, s.f.: (v. Bìbe) Male. Indisposizione. Termine usato per indicare ai bambini che qualcuno stava o si era fatto male. BUCÀL, s.m.: Boccale. (di vino)

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Pitale. Vaso da notte. A şè pien come un bucàl. A càga fòra del bucàl. BUCALÈTA, s.f.: (v. Bocaléta) Boccale di vino in terracotta. Solitamente da un litro o da ½ litro, vivacemente colorato e con scritte spiritose: Bianco o nero, purché sincero. Bèvi e tàşi. BUDÈL, s.m.: Budello. Intestino (al plurale: Budèi o Budèle). Coi budèi del pòrco se fà le lugànighe. A me fa voltàr i budèi. BUGÀNSA, s.f.: Gelone. Sto ano iera màsa fredo, gò i pìe ancora pieni de bugànse. Ruşàda de maio guarisi le bugànse = Le rugiade di maggio guariscono i geloni. BUIÒL, s.m.: Bugliolo. Serve per togliere l’acqua dal fondo barca. Anche, con tanto di spago, per attingere acqua di mare dalla barca. BUIÒTA, s.f.: Recipiente. Costruito in metallo e di grosse dimensioni che serviva per far bollire l’acqua. Veniva usato dai pescatori per le reti e, pure, dai conservifici per cuocere i pesci o per sterilizzare le scatole. BULIGAMÈNTO, s.m.: Brulichio. BULIGÀR, v.: Brulicare. Muoversi. Trafficare. Buligàr de pansa. No şè de fidarse de lù, a bùliga sempre. BULÌGO, s.m.: Ombellico. Işolani sensa bulìgo. BÙMBA, s.f.: Bere. Bevanda. Usato come vezzeggiativo per i bambini più piccoli. BÙMBARO, s.m.: Goffo. Testone. BURÀTO, s.m.: (v. Tamìşo) Setaccio. Di dimensioni più grandi, usato solitamente dai mulini per separare la crusca dalla farina. Fin nei primi anni Cinquanta, anche la macchina


che girava per il contado per macinare il frumento e separare il grano dal resto. BURÈLA, s.f.: (v. Borèla) Boccia. Palla. BURÌNA, s.f.: (v. Bòrina) Scotta della vela. BÙŞA, s.f.: (v. Bùşo) Buca. Piccolo avallamento. Pozza d’acqua. La bùşa de ludàme. La buşa de Canè (A. Vascotto).

Lanciare. A se gà butà in vàca = s’è lasciato andare, non si cura più di niente. Le angùrie le gà butà mal = la raccolta delle angurie è stata scarsa. BUTÀR FÒRA, v.: (v. Gomitàr) Vomitare. Rimettere. Estromettere. Butàr fòra de pignàta. BÙTO, s.m.: Germoglio. Gemma di pianta.

BUŞARÀR, v.: Beffare. Prendere in giro. A me gà buşarà = Me l’ha fatta. Probabilmente deriva dall’italiano “buggerare”. BUŞARÒN, agg.: (v. Buşiaròn) Bugiardo. Imbroglione. Da buşìa = bugia. BUSÈTO, s.m.: Piccolo buco. BUŞÌA, s.f.: Bugia. Menzogna. BUŞIÀRO, agg.: Bugiardo. Falso. Chi şè buşiaro, şè anca ladro. BUŞIARÒN, agg.: (v. Buşaròn) Bugiardo. Imbroglione. BUŞIGÀTOLO, s.m.: Bugigattolo. BÙŞO, s.m.: (v. Bùşa) Buco. Foro. Pèşo el tacòn del buşo = il rimedio è peggiore del male. A gà una camera che la şè un buşo = ha una piccola cameretta che sembra un buco. Se la gà cavàda pàl bùşo de la ciàve. BUSOLÀ, s.m.: Ciambella. Chi no gà sàntoli, no gà busolài. BUŞÒN, s.m.: (v. Aguaròn) Canalone. Prodotto dall’erosione delle acque nel terreno. BUŞUMÈ, top.: Toponimo di Isola. BUTACÀRTE, s.f.: Cartomante. Ce n’erano ieri e ce ne sono anche oggi: pure a Isola. Diverso da stròliga (v.) che significa Indovina, fattucchiera. BUTÀR, v.: Buttare. Gettare.

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Cc

C, Terza lettera dell’alfabeto italiano. CÀCA, s.f.: Cacca. Sterco. CACÀU, s.m.: Cacao. In senso dispregiativo, per definire che qualcosa è al di sotto di una qualità accettabile, si dice che a şè de marca cacàu. CÀCHE, s.f.pl.: Escrementi. Feci. Sterco. Ma anche sporcizia, sudiciume. In genere ai bambini più piccoli per non far toccare qualcosa, magari per paura che la rompa, si usava ammonirlo dicendo: no tòcar, şè càche. CACHÉTA, s.f.: Escremento di piccole dimensioni. Per dire degli escrementi di un bambino: a gà fato la cachéta. Ma viene usato in senso spregiativo per indicare persona senza carattere: a şè una cachéta. CÀCHI, s.m.pl.: (v. Pomocàco) Cachi. Frutto proveniente dal Giappone che, a quanto pare, ha attecchito anche dalle nostre parti, tanto che quasi ogni giardino o orto ne possiede qualcuno. Nella valle di Strugnano negli ultimi anni se ne coltivano intere piantagioni e, anzi, nella stagione quando maturano si organizza una vera e propria sagra dei cachi. CÀCO, s.m.: Caco. Singolare di cachi, usato per indicare un solo frutto. Assieme al nome Marco (Marco Càco) si usa per indicare un tempo lontanissimo: Ghe gò imprestà i soldi ai tempi de Marco Càco, e lù gnente! CACÙCIO, s.m.: Persona minuta di bassa statura e non grassa. Secondo Antonio Vascotto il

termine sembra derivare dal soprannome di una famiglia isolana, i cui componenti maschili erano tutti di piccola corporatura. CADÈNA, s.f.: Catena. A şè màto de cadèna = È matto da legare. CADENÀSO, s.m.: Catenaccio. CADENÈLA, s.f.: Catenella. Catenina. Di solito catenelle d’oro provviste di pendoli (v. ciòndoli) si regalavano in varie occasioni: alla nascita di un bambino, alla Prima Comunione o alla Cresima. Cadenèla de còlo. CADÌA, s.f.: Caduta. Decadere. Quando i frutti o le foglie cadono per malattia dall’albero. Ma si dice anche di persona ammalata che deperisce: A va in cadìa. CADÌN, s.m.: Catino. CAFÈ, s.m.: Caffè. Cafè brustolà; cafè nero; cafè de sicòria; café maşinà.. CAGÀ, agg.: Cacato. Sudicio. Sporco. No me vèndo per dò schéi cagài. A şè cagà de paura. CAGABÀLE, s.m.: Scarabeo. Il nome è più che evidente, tanto che a Parenzo – così dicono - lo chiamano magnamèrda. CAGABALÌNI, s.m.: Inefficace nonostante lo sforzo. A se gà dà de fàr, ma a şè un cagabalìni. Pare, secondo alcune testimonianze, sia stato pure uno dei tanti soprannomi di famiglie isolane. CAGABRÌTOLE, s.m.: Piccolo di statura. Termine presente soprattutto nel Grande dizionario del dialetto triestino di Mario Doria, ma sentito anche a Isola e in altre località dell’Istria. Abbinato probabilmente all’altro modo di dire per indicare persona di bassa statura: A şè alto una

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brìtola (v.) e mèşa = È alto un temperino e mezzo, quindi al di sotto della statura normale, se il temperino equivale ad un metro. CAGÀDA, s.f.: Cacata (oggi si direbbe Stronzata). Şè dùto ‘na cagàda. CAGADÒR, s.m.: Sedere. Deretano. Culo. Gabinetto. Cesso. A şè bàso de cagadòr = ha il sedere basso, è di gamba corta. Tonina no la sarìa mal, se no la gavèsi el cagadòr che rùsa par tèra = Tonina non sarebbe male, se non avesse il sedere troppo basso. CAGADÙRA, s.f.: Escremento. Sterco. Cacata. CÀGA E MÀGNA, s.m.: Inetto. Disinteressato. Di persona che pensa soltanto a sè stessa. A şè un càga e màgna. CAGAINBRÀGHE, s.m.: Vigliacco. Pauroso. Usato anche per indicare scherzosamente il piccolo bambino che non ha ancora imparato a far uso del vasetto, el bucalìn (v.). CAGAMIRÀCOLI, s.m.: Sbruffone. Esagerato. CAGANÌDO, s.m.: Debole. Stentino. Usato per indicare l’ultimo figlio di una prole numerosa, solitamente ritenuto anche il più debole: Cos’ te vòl tì che te son un caganìdo. CAGÀR, v.: Cacare. Andar di corpo. Chi càga duro e pìsa forte, no gà paura de la morte (Rosamani). Cagàr in portòn = danneggiarsi da soli. Cagà e spudà = uguale, identico. Cagàr fòra del bucàl. Co se gà el cùl pièn şe fàsile cagàr. A vòl fàr cagàr el mùs pàr fòrsa. CAGARÈLA, s.f.: (v. Scagarèla) Diarrea. Dissenteria. CAGARIÒLA, s.f.: Diarrea.

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Dissenteria. Gigi no pòl vignìr, a ga la cagariòla. CAGHÈTA, s.f.: Smorfioso/a, superbo/a. La se vèsti come una siòra, ma la şè sempre una caghèta. CÀGNA, s.f.: Cagna. Femminile di cane. Usato anche con un significato spregiativo o, almeno, compassionevole: Nina la se remèna come una cagna. CAGNÀRA, s.f.: Cagnara. Baldoria. Baccano. Chiasso. CAGNÀSO, s.m.: Cagnaccio. CAGNÈTO, s.m.: Cagnolino (piccolo cane). Palumbo, Pesce marino, degli squali. CAGNÌGA, s.f.: (v. Canìga) Pescecane. CAGNOLÌN, s.m.: (v. Pesecàn) Anciolo. Pesce di mare. CAGÒIA, s.f.: (v. Còghia) Chiocciola. A và piàn come le cagòie. CÀGOLA, s.f.: Escremento d’insetto. Caccolo. Moccio. Dolce. Quest’ultimo, di solito, si preparava quando il pane s’impastava in casa e si toglievano alcuni pezzetti dell’impasto per friggerli sull’olio. Infine vi si spargeva sopra lo zucchero. Ricordo che le càgole rappresentavano molto spesso la merenda che si portava a scuola. Con questo termine veniva usato anche il muco viscoso che si forma rassodando all’angolo degli occhi e nel naso. A se şbìşiga sempre int’el naşo per cavàrse fòra le càgole. CAGOLÒŞO, s.m.: (v. Mòcolo) Moccioso. Moccoloso. CAGÒN, s.m.: Spaccone. Sbruffone. Esagerato. Nina la gà trovà un marì che a şè bravo, pecà che a şè un poco cagòn.


CAÌCIO, s.m.: Barca. Scialuppa. Serviva da scialuppa da salvataggio a rimorchio dei pescherecci (v. sacalève) quando uscivano in mare. Erano forniti delle lampare nelle notti di luna scura. Ogni trabàcolo gà el suo caìcio. Drìo la barca va anca el caìcio. In senso figurato anche di persona che segue sempre qualcuno: A ghe và drìo come un caìcio. CÀIŞER, s.m.: (dal tedesco Kaiser) Di poco valore. Termine derivato sicuramente in seguito alla grande inflazione che colpì la moneta austroungarica durante la prima Guerra mondiale quando, raccontano, si andava a comperare il pane portandosi dietro un sacco di banconote. Quéla ròba che te me gà dà no la vàl un càiser. CALABRÀGHE, s.m.: Pauroso. Pusillanime. CALÀDA, s.f.: Calata. Discesa. La calata delle reti in acqua. La calàda de stanòte gà impinì la barca. Ogni matìna le dòne del làte le se càla a Isola dai monti. CALAFATÀR, v.: Calafatare. Rendere stagna un’imbarcazione di legno pregnando gli spazi con stoppa catramata. Operazione che veniva eseguita tirando in secco l’imbarcazione e richiedeva tempo, pazienza e, soprattutto, mestiere. CALAFATÀDA, s.f.: Calafatura. A ga tirà fòra el caìcio e a ghe ga dà una calafatàda. CALAMÀIO, s.m.: Calamaio. Boccetta d’inchiostro. Una volta i bànchi de scòla i vèva dùti el bùşo pàl calamàio. CALANDRÒN, s.m.: Ozioso. Pigro. Persona alta e grossa, ma di poco impegno.

CALÀR, v.: Calare. Abbassare. Scendere. In do méşi sòn calà de tre chìli. Calàr le àle. Calàr la rède. Co càla el sòl càla anca el caldo. Calàr le bràghe, nel senso di arrendersi o accettare la supremazia altrui senza combattere. CÀLCA, s.f.: Folla. Molta gente. Al bàgno iéra ‘na càlca che no te podévi mòverte. CALCÀDA, s.f.: Calcata. L’atto del calcare. Premuta. L’atto del premere. CALCADÌSA, s.f.: Erba. Tipo di erba dei campi isolani. CALCÀGNO, s.m.: Calcagno. Tallone. A me şè rivà fin sùi calcàgni. CALCÀR, v.: Calcare. Premere. Pigiare. No sté calcàr tròpo la màn. CALCHIÈRA, s.f.: (v. Calcòn) Folla di gente. Cumulo di materiale. CALCÒN, s.m.: (v. Calcòn) Folla. Accumulare. Far calcòn = accumulare, magari con sforzo. Şè de quei che i màgna a calcòn. CALCÒSA, pr.: (v. Qualcòsa) Qualcosa. Poco usato poiché da tempo si preferisce la forma italiana. CÀLDA, agg.: Calda. Ciapàrsela càlda = prendersela con qualcuno. Fàrse una càlda = assumere un pasto caldo. CALDÀNA, s.f.: Calura. Àfa. Canicola. CALDARÒN, s.m.: (v. Stagnàda) Recipiente. Grande paiolo. Vi veniva messa a cuocere la biancheria per il bucato (v. Bogìstro). CALDIÈRA, s. f.: Paiolo. Caldaia. Solitamente di rame, usato per cuocere la polenta.

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CÀLDO, agg.: Caldo. Sta bìra şè calda come ‘l pìs (v.). Şé càldo sòfigo.Tì ciàcola, che a mì no me fà nè càldo nè frèsco. CALDÙSO, s.m./agg.: Calduccio. CALEGHÈR, s.m.: Calzolaio. Un tempo erano pochi coloro che potevano permettersi di comperare le scarpe nuove al negozio, per cui molto spesso le scarpe venivano rappezzate dai calzolai. In particolare gli scarponi con le bròche (v.) dei contadini (v. porsiàni de coràme), adatte per il lavoro nei campi, venivano quasi sempre prodotti dai calaghèri in pelle di manzo ruvida che poi si provvedeva a proteggere ungendole con grasso di maiale. Chissà perché a Isola, ma non solo, un lavoro mal fatto veniva ricondotto al caleghèr: A gà fato un lavor de caleghèr. CALELÀRGA, top.: Callelarga. Toponimo di una frazione del territorio isolano situato tra la stazione ferroviaria ed il primo ponte. Nella zona nel 1883 venne trasferito il cimitero di Isola. Evidentemente deriva da spazio largo o ampio. Nel corso del secolo scorso, dopo che sulla strada che dal centro di Isola portava verso la nuova stazione ferroviaria vennero costruiti nuovi insediamenti abitativi, la via per gli abitanti assunse il toponimo della zona. CALIGÀDA, s.f.: Temporale improvviso. Şè rivàda una caligàda, che no te dìgo = è arrivato un temporale improvviso, che non ti dico. CALÌGO, s.m.: Nebbia. Se a no trova i schéi sarà calìgo = se non trova i soldi sarà un problema. Tre calìghi fa una piòva (proverbio). Şè un calìgo che se pol taiàrlo col

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cortèl. Piòva e calìgo, şe un bèl castìgo. CALIPÀR, v.: Fumare (sigarette). In do ore a se gà calipà méşa scàtola de spagnolèti. CALÌŞINE, s.f.: Fuliggine. CÀLMA, s.f.: Calma. Bonaccia di tempo o di mare. CÀLO, s.m.: Calo. Abbassamento. Diminuzione. Secondo A.V. il termine veniva usato anche dai pescatori per indicare il punto di raccolta dei pesci provocato gettando in mare scarti di pesce salato. Per questa ragione, nel periodo in cui si lavoravano i filetti di acciughe, molti pescatori si recavano alle locali fabbriche conserviere per ottenere qualche barile di “spòrco”. CÀLO, s.m.: Callo. A mi i càli no me li pèsta nisùn. Usato anche nel senso di farci l’abitudine: Dàghe ògi e dàghe domàni, oramai ghe gò fàto el càlo. CALÒTA, s.f.: Calotta. Cuffia. In senso figurativo anche cranio: A gà la calòta dùra = ha la testa dura. CÀLSA, s.f.: Calza. CALSÌN, s.m.: Calzino. Te gà visto Toni, a gà i calsìni pièni de bùşi. CALSÌNA, s.f.: Calce. Calcina. Sia spenta (calsìna distudàda) che viva, era molto usata dai contadini. Preferivano quella viva, che poi in buche scavate nel terreno provvedevano a spegnere con l’acqua e conservarla, debitamente protetta, per qualche anno. Noi ragazzi, da lontano, perché pericolosa, si stava a guardare il ribollire provocato dal contatto dell’acqua con la calce. Una volta spenta veniva usata per produrre, assieme al solfato di rame, il verderame (v.), per


disinfettare gli alberi e il terreno (era frequente vedere i fusti degli alberi imbiancati fino a metà), ma anche per imbiancare e disinfettare le pareti di casa. oppure, come de resto ancora oggi, per preparare la malta. CÀLTO, s.m.: Cassetto. Comparto. Scansia. CALUMÀR, v.: Andare. Fuggire. Svignarsela. Pèna che a lo gà visto, a se gà calumà. CALÙŞA, s.f.: Pozzanghera. La strada şè piena de calùşe = la strada è piena di pozzanghere. Termine preso sicuramente dallo sloveno Kaluža. CAMADÒDIŞE, inter.: (anche Camadò) Porca miseria. Maledizione. Evidente abbreviazione di una ben più consistente bestemmia. CAMAMÌLA, s.f.: Camomilla. La Camamìla la şè bòna pàr i nérvi e pàr la pànsa. CÀMARA, s.f.: (v. Càmbra) Camera. CAMARÈTA, s.f.: Cameretta. CAMARIÈR, s.m.: Cameriere. CAMARÒN, s.m.: Camerone. Stanzone. CAMASTÈLA, inter.: Porca miseria. Accidenti. Abbreviazione di Pòrca mastèla, anche in questa versione, però usata per non profferire bestemmie più pesanti. Probabilmente, il termine mastèla è entrato in uso perchè inizia con la stessa sillaba di madòna. Gli Isolani, infatti, pur essendo un popolo profondamente radicato alle tradizioni religiose, erano pure - forse proprio per questo - dei grandi bestemmiatori. CAMBIÀR, v.: (v. Gambiàr) Cambiare. Mutare. De quando

che son ‘ndà via, a Işola şè cambià duto, anca la gènte. Cambiàrghe àqua a l’uşél = Orinare. CÀMBRA, s.f.: Camera. Esiste la testimonianza del Morteani, per cui alla fine del’800 la voce era in uso. Anche questo a documentare che già nel giro di pochi decenni il dialetto ha subito notevoli e importanti modifiche. CAMÈLA, s.f.: Gavetta. Gamella. I contadini la usavano magari per portarsi in campagna il pasto. CAMÌN, s.m.: Camino. Ciminiera. Isola era nota nel suo circondario per i due altissimi camini delle fabbriche conserviere dell’Arrigoni e dell’Amplea. Nonostante la loro altezza, però, durante le giornate di bassa pressione il fumo che ne usciva fino ai primi anni sessanta del secolo scorso riusciva a spandersi su tutto l’abitato e, ancor più, sulle colline circostanti, con un pregnante odore asprigno. Con l’introduzione di nuove tecnologie, anche per ridurre l’impatto sull’ambiente, le ciminiere andarono in pensione. Purtroppo, architetti e amministratori comunali negli anni settanta provvidero ad abbattere il camino dell’Ampelea, mentre quello dell’Arrigoni, per fortuna, è stato dichiarato monumento nazionale e, come tale, tutelato.Gigi a fùma come un camìn. Ben se stà, dişi l’Işolan, quando şè fògo int’el camìn e şè el stòmego pièn de vìn. CAMINÀDA, s.f.: Passeggiata. CAMINÀR, v.: Camminare. Procedere. Sto lavòr no camìna mìga. CAMÌŞA, s.f.: Camicia. Le camicie bianche si usavano poco e da pochi. Più usate, perché più

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resistenti erano quelle di flanèlà (v.), cotòn, fustàgno. Chi lavora gà una camìşa, chi no lavora ne gà dò. Quei dò i şè cùl e camìşa. Te sòn nato co la camìşa. A şè un tòco de pàn, a te dàsi anca la camìşa. La camìşa sporca se lava in caşa. Òvi in camìşa. Quel a şè màto, ghe vòl méterghe la camìşa de fòrsa. CAMIŞÈTA, s.f.: Camicietta. Solitamente quella da donna. CAMIŞÒTO, s.m.: Camiciotto. Giacca di tela. Blusa. Veniva usato per il lavoro in fabbrica o nei campi. Me son fàto un camişòto de terlìs (v). CAMPÀGNA, s.f.: Campagna. CAMPAGNÒL, s.m.: Agricoltore. Contadino. Campagnolo. Anche se qualcuno continua a sottolineare che Isola è stata una cittadina di pescatori e operai, la verità è che il numero maggiore dei suoi abitanti era di campagnòi, agricoltori. Riportiamo in merito una valutazione che ci sembra molto appropriata e testimoniata da A. Vascotto nel suo Voci della parlata isolana: “I campagnòi erano il gruppo sociale più numeroso del nostro paesino, ed avevano un grosso peso politico, religioso, sociale. Il gruppo aveva, come accade un po’ dappertutto, un difetto/virtù, il conservatorismo, che se salvaguardò e difese molti elementi positivi della comunità, la tenne alquanto arretrata, chiudendo gli occhi al progresso di cui gli si facevan vedere soprattutto gli aspetti moralmente e religiosamente deteriori.” CAMPÀNA, s.f.: (v. Canpàna) Campana. Ancora durante la prima metà del secolo scorso, le campane, oltre alla loro funzione tipicamente religiosa, svolgevano

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pure un ruolo di pubblica utilità, in particolare quelle della Cièşa granda o dòmo, come veniva chiamata semplicemente, che avevano il compito di chiamare a raccolta i fedeli, ma anche di scandire le diverse fascie orarie della giornata. La prima sonata, infatti, avveniva già alle cinque del mattino per dare la sveglia ai campagnòi. Alle otto, invece, c’era il richiamo per le operaie le fabrichìne - e gli operai delle fabbriche del pesce e per i ragazzi che per quell’ora dovevano trovarsi a scuola. Suonavano ancora a mezzogiorno per indicare che era arrivata l’ora del pranzo. Poi alle quattrodici e alle sedici per il Vespro. Alle diciotto o alle diciannove (ma si diceva sempre le sìe o le sète de sèra), a seconda della stagione, per segnalare la fine della giornata di lavoro e invitare i contadini che stavano lavorando in campagna a prepararsi al ritorno a casa in città. Naturalmente, le campane segnalavano anche altri importanti avvenimenti di cui si voleva metter a conoscenza tutta la cittadinanza. Così, i rintocchi per i casi di lutto che, così raccontano i più longèvi, a Isola erano tre per la dipartita di un uomo e due per quella di una donna. A şè sòrdo come ‘na campàna. CAMPANÈL, s.m.: Campanello. CAMPANÈLA, s.f.: Campanello. Campanula (bot.). CAMPANÈR, s.m.: Campanaro. Campanèra rispondeva anche ad un soprannome isolano. CAMPANÌL, s.m.: Campanile. Mentre l’inizio della costruzione della Chiesa di Isola nella sua forma attuale (evidentemente sorta dove prima esisteva un altro edificio religioso) risale al 1547, il campanile venne eretto quasi mezzo secolo più tardi, nel 1585.


CAMPANÒN, s.m.: Campana grande. Campanone. (El campanòn). CAMPANÒTO, s.m.: Sordo. A şé sòrdo còme ‘na campàna. CÀMPI LÒNGHI, top.: Toponimo ormai scomparso dall’uso, perché già alla fine dell’Ottocento, i campi che certamente occupavano l’area non esistono più. Infatti, proprio in quella zona, in seguito all’allargamento urbano di Isola, sono sorte tante piccole case. Nei primi anni del Novecento, infatti, sui Càmpi Lònghi, dei quali si ha notizia già nel sedicesimo secolo, sono sorte le prime case operaie (v.) di Isola. CAMPIÒN, s.m.: Campione. Isola può vantare una lunga tradizione sportiva che le portò anche importanti risultati a livello di competizioni internazionali. Nel 1925, su iniziativa di un gruppo di cittadini venne fondata la Società Nautica Giacinto Pullino. Nel 1927 nacque la Società CalcioIsola. Di particolare importanza e prestigio, comunque il titolo di “campioni olimpionici” conquistato dalla Pullino alle Olimpiadi del 1928 di Amsterdam con il “quattro con”, composto da Giovanni Delise, Nicolò Vittori, Giliante Deste, Valerio Parentin e Renato Petronio (timoniere ed allenatore). CAMPIŞÈL, s.m.: Campicello. CÀMPO, s.m.: Campo. Pezzo di terreno lavorato. In senso figurativo anche Spazio: a ghe dà càmpo ale monàde. CAMÙFO, s.m.: Pizzo. Trina. La se gà vestì come se la dovèsi andar a nòse, la şè piena de camùfi. CÀN, s.m.: Cane. Càn no màgna càn. Tipica l’imprecazione

Fiòl d’un càn, sempre rivolta scherzosamente a persona. Sembra importata da Trieste e immortalata da una canzone di Luttazzi. Şé pròpio ‘na ròba fata àla càso de càn. Càn che bàia no mòrsiga. No còri mìga fermàrse a ogni pisàda de càn. CÀN BIÀNCO, s.m.: Palumbo (pesce). CÀNA, s.f.: Canna. Dalla presenza di canneti a Isola alcune località di periferia hanno dato origine ad alcuni toponimi, come Canè (v,), Canèdo (v.), Cànola (v.). Làsa pèrder quèl mùlo, pìcia, che a şè una càna şbuşàda. CANÀ, agg.: Schiacciato. Accucciato. CANADÌNDIA, s.f.: Canna d’India. Bambù. CANÀIA, s.f.: Canaglia. Briccone. Pìcio òmo, granda canàia. El siòr co le bràghe ònte e col capèl de paia, a şè un siòr canàia. CANAIÀDA, s.f.: Canagliata. CANÀL, s.m.: Canale. Se a no şè bòn bùtelo in canàl. CANÀR, v.: Schiacciare. Per persona schiacciata a terra perché costretta o perché colta da malore. CANARÌN, s.m.: Canarino. CÀNAVA, s.f.: (v. Càneva. Cànova) Cantina. Scantinato. CANBIAMÈNTO, s.m.: Cambiamento. Modifica. CANBIÀR, v.: Cambiare. Modificare. CÀNBIO, s.m.: Cambio. CANCARÈNA, s.f.: Gangrena. CANCÀN, s.m.: Chiasso. Gazzarra. CÀNCARO, s.m.: (v. Cànchero) Cancro. Tumore. Carcinoma. Che te vignìsi un càncaro.

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Comunque, chi era affetto da questo male incurabile si diceva che a gà un brùto màl. A gà un màl che no se dìşi. A gà màl catìvo. CÀNCHERO, s.m.: (v. Càncaro) Cancro. Tumore. Carcinoma. CANDÈLA, s.f.: Candela. Ma anche il moccio che cola dal naso (v. Mòcoli). A gà le candèle che ghe riva fin in bòca. CANDELÒRA, s.f.: Madonna Candelora. Festa della purificazione della Madonna. Ricordo che in molte famiglie il giorno della Candelora si provvedeva a purificare anche le persone in segno di buon auspicio accendendo una candela benedetta e facendo lambire con la fiamma il corpo dei familiari. La Madòna Candelòra, se la vén con sòl e bòra de l’invérno sémo fòra, se la vén con piòva e vénto, de l’invérno sémo drénto. CANÈ, top.: Toponimo di Isola. Località lungo la costa, dopo l’insenatura di San Simòn (v.). Il nome probabilmente ha origine dal fatto che l’area deve esser stata caratterizzata da un canneto presente – pur se soltanto minimamente – ancor oggi ai limiti dei singoli campi. Il toponimo è presente già nei testi dei primi Statuti comunali di Isola del 1300. Comunque è un termine presente in forma similare anche in altre località della penisola italiana caratteristiche per la presenza di canneti. La zona, secondo gli ultimi progetti, è destinata definitivamente ad area turistica. CANÈDO, top.: Vedi Canè. CANÈLA, s.f.: Cannella. Spina (quella dell’acqua o della botte di vino).

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CANÈPA, s.f.: Canapa. Semi di canapa. CANÈR, s.m.: Canneto. CANESTRÈL, s.m.: Vongola. Mollusco marino. CANÈTA, s.f.: (v. Paièta. Tavolèta) Cappello di paglia. Paglietta. CÀNEVA, s.f.: (v. Cànava. Cànova) Cantina. Scantinato. CANÌGA, s.f.: (v. Cagnìga). Pescecane CANIŞÈLA, s.f.: (v. Stradişéla) Calle. Vicolo. Sentiero. Viottolo. CANÒCIA, s.f.: Canocchia. Cicala di mare. Crostaceo marino. CANOCIÀL, s.m.: Cannocchiale. CÀNOLA, top.: Toponimo di Isola. Anche questo, come già Canè (v.) o Canèdo (v.) deriverebbe dalla presenza di un canneto. Altri, invece, propendono dalla presenza di uno o più canali, vista anche la conformazione del terreno. Da ricordare che agli inizi del secolo scorso il famoso trenino della Parensàna (v.) che collegava Trieste a Parenzo e che toccava anche Isola, nella sua corsa verso Strugnano e S. Lucia, subito dopo lasciata la nostra cittadina, incominciava la salita verso la galleria di Saleto (v.) proprio a Cànola. Il toponimo fa la sua prima comparsa scritta nel XVI secolo. CANÒN, s.m.: Cannone. Ma anche Galera, prigione: A gà fregà dò Lire e a se gà fato do méşi de canòn. CANONÀDA, s.f.: Cannonata. Persona eccezionale. A ga trovà ‘na moròşa che şè ‘na canonàda. CANOTIÈRA, s.f.: Canottiera. CANOTIÈRI, top.: Sede della Società Canottieri. Venne


fondata nel 1925 e prende il nome di “Società Nautica Giacinto Pullino”, in ricordo del sommergibile italiano che durante la prima guerra mondiale si incagliò sulla secca di Galiola, tra Cherso e Promontore, e causò la cattura del capodistriano Nazario Sauro. Già nel 1928, dopo i successi ottenuti in campo italiano, il “quattro con”, composto da Giovanni Delise, Nicolò Vittori, Gillante Deste, Valerio Perentin e Renato Petronio, timoniere e allenatore, vinse la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Amsterdam. Dopo la seconda guerra mondiale la Pullino cambiò nome, poi - in seguito all’esodo della popolazione isolana - la società venne ricostituita a Trieste. Oggi ha la sua sede a Muggia. Il canotto olimpionico si trova esposto al Museo del Mare di Trieste. CANÒTO, s.m.: Canotto. CÀNOVA, s.f.: (v. Cànava. Càneva) Canova. Cantina. Scantinato. Un tempo il pianoterra delle case dei contadini, che seriva anche da cantina-magazzino. Oggi, con la ristrutturazione delle case di città vecchia che, almeno nelle vie principali, ha trasformato le cànove in accoglienti negozi, il termine viene usato soprattutto per indicare alcune trattorie che vantano una cucina casalinga a base di pesce. Succede, però, che a volte il termine venga storpiato nella sua grafia diventando kanova o come quella frequentatissima alla fàbrica de còto, oggi più conosciuta come Ruda (v.), che nell’insegna vede scritto Kanava e viene pronunciata Kanàva. CANPÀNA, s.f.: (v. Campàna) Campana. CANSÒN, s.f.: Canzone. CANSONÈTA, s.f.: Canzonetta

CANTÀDA, s.f.: Cantata. Canto. CANTÀR, v.: Cantare. La prìma galìna che cànta, la gà fàto l’òvo. Ghe le gò cantàde ciàre e néte. CANTIÈR, s.m.: (v. Squèro) Cantiere navale. Fino agli anni settanta del secolo scorso a Isola non esisteva un cantiere, ma, dopo la pescheria soltanto uno squero (v.). Il cantiere odierno è stato trasferito da San Bernardino, tra Portorose e Pirano, per far posto all’imponente omonimo complesso alberghiero. CANTÒN, s.m.: Cantone. Angolo. Tina şè una de quele che bàti cantòn. La dòna, se la şè come che se devi, la tièn sù tre cantòni e la ghe iùta al marì anca col quarto. CANTONÀDA, s.f.: Cantonata. Sbaglio. Bidonata. Fregatura. Con quel afàr a gà ciapà ‘na cantonàda. CANTONÀL, s.m.: Pietra d’angolo. CANTONSÌN, s.m.: Cantuccio. Angolino. CANTUSÀR, v.: Canticchiare. CÀPA, s.f.: Vongola. Rişòto co le càpe. CÀPA LÒNGA, s.f.: (v. Sèlega) Cannolicchio. (mollusco marino) CAPÀRA, s.f.: Caparra. Pagamento in anticipo. CAPARÀR, v.: Accaparrare. Aggiudicare. Procurare. Far incetta. CAPARÒSOLO, s.m.: Dondolo. Vongola. (mollusco bivalve, in italiano Cappa verrucosa) CAPASÀNTA, s.f.: Cappa di San Giacomo. (mollusco bivalve) CAPÀSE, agg.: Capace. CAPÈL, s.m.: Cappello. Che bel capèl ch’ a gà. Bisogna fàrghe tànto de capél.

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CAPÈLA, s.f.: Cappella. Chiesetta. Capocchia (p.es. di fiammifero). CAPÈLA, s.f.: Errore. Sbaglio. A gà fàto ‘na capèla. CAPELÀR, v.: Sbagliare. Rovesciare. CAPÌR, v.: Capire. Comprendere. Dopo dò ore che ghe spiegavo, a no gà capì gnente. Te gà capì che òra che fà CAPITÀR, v.: Capitare. Succedere. Accadere. No te conto cos’ che me gà capità ieri! Le me càpita dùte a mì. CAPITÈL, s.m.: Capitello. Tabernacolo. I capitèi di Isola, come di tutte le cittadine istriane, meriterebbero uno studio vero e proprio. Numerosi in città e nelle campagne. In buona parte essi sono scomparsi vuoi per l’incuria dell’uomo, vuoi per certa ideologia che alla cittadinanza aveva imposto di non prenderne cura, vuoi perché la stragrande maggioranza della popolazione dopo gli anni cinquanta aveva abbandonato le proprie case nelle quali subentrarono altre persone con diverse abitudini e altre tradizioni, vuoi, infine, per opera del tempo e delle intemperie. Ne rimane ancora qualcuno, soprattutto in città, perché incavati nel muro esterno di alcuni edifici. I capitèi, tabernacoli, capellette o nicchie con immagini sacre, che un tempo erano sempre illuminate da candele accese e ingentilite dalla presenza di fiori, tuttavia non avevano l’importanza che rivestivano quelli costruiti in campagna, anche perché non potevano far concorrenza alle numerose chiese disseminate un po’ in tutti i rioni della cittadina. Tra i più noti, certo quello posto sull’angolo dell’edificio

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della Scuola dei battuti e quello all’inizio della via Madonnina. I tabernacoli di campagna, di regola, si incontravano lungo le strade e, in particolare, agli incroci. CAPITÈL, top.: Toponimo in periferia di Isola che certamente prese il nome dal capitèl più grande e solidamente costruito posto alla fine della salita di Salèto (v.) prima che la strada, raggiunta la cima della collinetta, prosegua in discesa verso Lavorè (v.). Il capitello era rivolto verso la Chiesa della madonna di Loreto (v.) che intendeva onorare. Co se rìva a Capitèl, l’òcio se şlònga fin sul màr si diceva per la bella veduta che da quell’altura si aveva del panorama di Isola e del Golfo di Trieste. Dopo la guerra, al suo posto venne inaugurato un monumento ai partigiani caduti della zona. Successivamente, per consentire la costruzione della nuova rete stradale, anche questo venne spostato nei pressi della Chiesetta di Loreto. Altri capitelli, che seguivano più o meno la stessa struttura erano presenti in altre località di campagna, come quello - da tempo distrutto - di Vilisàn (v.) o di Servignàn. Uno era situato anche alle Porte (v.) di Isola, nei pressi della Villa Ravasini, edificio che fino all’inizio di questo ventunesimo secolo ospitava la Farmacia. CÀPO, s.m.: Capo. El càpo me ga dìto che se finìso el lavor, domàni no còri che vègno. CAPOMÌSTRO, s.m.: Capomastro. CAPÒN, s.m.: Cappone. Polènta me stènta, capòn me sà de bòn, galìna me contènta, parché şè un bòn bocòn. CAPONÈRA, s.f.: Pollaio. Pòvara mi, şè morto me marì, de tanto bòn che a iéra, a şè morto in caponèra.


CAPOPILÒTO, s.m.: (v. Pilota) Capopilota. Con questo termine veniva definito il responsabile dei movimenti nel porto. CAPORÀL, s.m.: Caporale. Sèmo òmini o caporài? CAPÒTO, s.m.: Cappotto. Anche Completamente, del tutto. Şogàndo a briscola a ga fàto càpoto. I ghe gà méso el capòto de tòla = gli hanno messo il cappotto di legno, per dire che l’hanno messo nella cassa da morto. CAPRÌSIO, s.m.: Capriccio. CAPÙCIO, s.m.: (v. Capùso) Cappuccio. Copricapo. CAPUSÈRA, s.f.: Cavolo cappuccio. Orto di cappucci. In senso figurativo e scherzoso viene usato anche per indicare la testa: Te gira la capusèra. CAPÙSI GÀRBI, s.m.: Cappuccio acido. Crauto. Nella cucina isolana si preparavano con un paio di ricette, come i capùsi in tècia, oppure in minestra, come la Iòta o, come la chiamavano mèşalàna (v.). Comunque e sempre accompagnati da porsìna (v.). CAPÙSO, s.m.: Cavolo cappuccio. Cappuccio. CARABÀTOLA, s.f.: Oggetto malandato. CARADÒR, s.m.: Carrettiere. Prima delle automobili e dei trattori era uno dei mestieri. CARAMÀL, s.m.: Calamaro. Buoni i caramài friti e quei ripièni. Ricordo che da bambino, dopo qualche brutta mareggiata invernale, con mio padre si andava lungo la riva sotto Ronco a raccogliere calamari, folpi e seppie che la furia delle onde sbattevano contro le rocce. Si riempivano alcuni secchi che poi servivano a

sfamarci per più di qualche giorno. Dévi éser stàda ‘na nòte de fògo, àra che caramài che la gà sòto i òci. CARAMÈL, s.m.: Caramello. Zucchero o frutta caramellati. Solitamente sostituivano i gelati durante la stagione invernale. CARAMÈLA, s.f.: (v. Bonbòn) Caramella CARAMPÀNA, s.f.: Vecchia. Malandata: A gà una moglie che la şè una carampàna. Secondo A. Vascotto la parola sarebbe stata importata da Venezia, dove un tempo esisteva una Cà Rampani, frequentata soprattutto da donne di malaffare. La stessa derivazione è presente anche nel Grande Dizionario del dialetto triestino del Doria. CARANTÀN, s.m.pl.: Soldo. Denaro. Moneta antica austriaca, probabilmente derivante dalla Carantania, oggi comprendente approssimativamente la Carinzia, regione interna della Slovenia. CARATÈL, s.m.: Caratello. Piccola botte. Botticella. A şè càrego come un caratèl. CARBÒGNA, agg.: Scura. Nera. Così chiamato un tipo di oliva per il suo colore molto scuro: avolìa carbògna praticamente scomparsa dalle nostre campagne. CARBONÈR, s.m.: Carbonaio. Fuochista, per esempio quello che alimentava con il carbone la locomotiva della Parensàna (v.). CARÈGA, s.f.: Sedia. A vòl stàr sentà su do caréghe. CAREGÀ, agg.: Superbo. Presuntuoso. CAREGHÈTA, s.f.: Seggiolino. Anche soprannome di una famiglia isolana.

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CAREGÀDA, s.f.: Seggiolata. A ghe gà dà una caregàda in testa, che a şè cascà par tèra come un sàco. CAREGADÒR, s.m.: Posto più elevato o rialzato rispetto al terreno circostante adatto per caricare i carri o gli animali da soma. CAREGÀR, v.: Caricare. CÀREGO, s.m.: Pieno. Carico. Nel gioco della briscola è la carta che vale dieci o undici punti, cioè un tre o un asso. In senso figurativo sta ad indicare anche persona ubriaca fradicia. A şè càrego come un comàto. Secondo A.V. il termine deriva dai minatori che con un martello spingono la carica di esplosivo fino in fondo al buco perforato precedentemente. CAREGÒN, s.m.: Seggiolone. Anche un gioco delle carte. CARÈR, s.m.: Carraio. Mestiere solitamente abbinato a quello del fabbro o del maniscalco. A Isola ce n’erano almeno un paio, visto che i carri erano i principali mezzi di trasporto, soprattutto dei contadini. Ciòdi de carér = chiodi per carraio. CARÈSA, s.f.: Carezza. CAREŞÀDA, s.f.: Strada. Strada di campagna in terra battuta usata soprattutto dai carri dei campagnòi. CARESÀR, v.: Accarezzare. CARÈTO, s.m.: Carretto. Trabiccolo. El carèto del gùa. CARIÈGHI, top.: (v. Carièga) Toponimo isolano. Sembra derivare dal termine Carèga (v.) non perché sul luogo ci fosse nei secoli scorsi un fabbricante di sedie, quanto piuttosto per la configurazione a terrazze del terreno che potrebbe far pensare ad una carèga.

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CARIÒL, s.m.: Tarlo. CARIÒLA, s.f.: Carriola. Erano di legno e alquanto pesanti. Di legno pure le ruote con i raggi e rivestite con un cerchione di ferro battuto. Tu’ sàntola (o tu’ màre) in cariòla. CÀRNE, s.f.: Carne. No şé né càrne né pése. Càrne màta. CARNEVÀL, s.m.: Carnevale. L’ultimo de carnevàl. Carnevàl no sta ‘ndàr via,/ te faremo una iachéta,/ ogni pàso ‘na saeta, / ogni pàso un bel piadòn. Era tradizione per carnevale preparare i crostoli (v.). Una tradizione che si è mantenuta soprattutto nelle campagne, invece, è quella delle maschere che, in gruppi e con tanto di musica, giravano per le case del contado raccogliendo uova, salsicce e vino, che poi si mangiavano in gran festa. In senso figurativo: la se gà vestì che la pàr un carnevàl. A şè un carnevàl de òmo. CÀRO, s.m.: Caro. Càro ti! CÀRO, s.m.: Carro. Fino ai primi anni cinquanta del secolo scorso, quando la motorizzazione era alquanto scarsa, il carro era a Isola il mezzo di trasporto più comune, soprattutto per i contadini che si servivano del mezzo per il trasporto dei prodotti della campagna, sia a casa, sia al mercato, e che solitamente lo facevano trainare dal mùs (v.). Tiràr el càro. Te sòn l’ùltima ròda del càro. CARÒBA, s.f.: Carruba. Ricordo da bambino che si vendevano in tutti i negozi di commestibili e anche se si diceva che con esse si nutrivano i cavalli, ne mangiavamo spesso perché croccanti e dolci. CÀROL, s.m.: Tarlo. El légno el şé dùto carolà.


CARÒSA, s.f.: Carrozza. Fine Ottocento e inizio Novecento le caròse de piàsa svolgevano servizio pubblico con corse fino a Capodistria. Da qui anche il toponimo, purtroppo ormai scomparso, del Giro caròse, subito dopo el primo ponte e la fabrica de còto. Sono state sostituite dai taxi e dai pulman. CAROSÈLA, s.m.: Carrozzino per bambini. Passeggino. Al plurale: le carosèle anche per la giostra. CAROSÈTA, s.f.: Giostra. Sedile volante della giostra. Arrivava a Isola con il circo che piantava le tende in Vier (v.). Famoso il Circo Zavatta, del quale ormai pochi ricordano anche il nome. CAROSIÈR, s.m.: Carrozziere. CARPENTIÈR, s.m.: Carpentiere. Il termine era presente a Isola soprattutto nella prima metà del secolo scorso, non tanto perché ce ne fossero tanti che lavoravano al locale squero, quanto perché veniva usato dagli isolani che lavoravano ai cantieri navali di Monfalcone. CARSOLÌN, agg.: Carsolino. Abitante del Carso. CÀRTA, s.f.: Carta. Butàr le càrte: farsi leggere le carte dalla chiromante o dalla stròliga (v.). Fàr le càrte: preparare i documenti. Indrìo con le càrte: persona un po’ tonta. Ciamàr càrta: in certi giochi delle carte chiamare una carta. Mèter le càrte in tòla: Metter le carte in tavola, parlar chiaro. Carta oliata; Carta de impàco; Carta de vèro; Carta smerìglia. Carta cànta, vilàn dòrmi. Carta carbòn. Carta stràsa. CARTAFÌNA, s.f.: Cartina da sigarette. Carta bianca sottilissima

per avvolgere il tabacco da parte di chi si preparava le sigarette da solo. Anche se il tabacco era monopolio di stato, ricordo che molti coltivavano piantine di tabacco per assicurarsi el spagnoleto (v.) quotidiano. C’era e c’è ancora qualcuno che, fra le tante cose, fa anche collezione di cartafine, sia per la marca che per i disegni che coloravano i pacchetti. CÀRTA SUGÀNTE, s.f.: (v. Sugarìn) Carta assorbente. Quando andavo a scuola era necessario avere sempre con sè un pezzo di carta assorbente inserita tra le pagine di ogni quaderno per asciugare quanto scritto con pennino e inchiostro prima di voltare pagina. CÀŞA, s.f.: Casa. Stàr de càşa; Pàn e vìn de càşa; Şé dùti şénte de càşa. Ciàpa e pòrta a càşa. CÀŞA DEL PÒPOLO, top.: Ritrovo popolare. La prima casa del popolo a Isola è stata inaugurata il 26 agosto 1906 per opera della classe operaia isolana. L’edificio, oltre che ospitare la direzione del Partito Socialista, divenne presto anche la sede di tutta una serie di enti ed associazioni dei lavoratori, tra cui anche la Biblioteca Circolante (fondata nel 1895) ed alcune società di mutuo soccorso. Già nel 1914, a ridosso dell’inizio della Prima guerra mondiale, per far fronte alle nuove esigenze del proletariato isolano, proprio nel centro di Isola, venne costruita la seconda Casa del popolo. Nel 1921 l’edificio venne incendiato da una squadra di fascisti giunti da Muggia. Più tardi ospitò la sede del PNF. Nel dopoguerra nell’edificio venne collocata tutta una serie di servizi pubblici e privati. Fino al 1948, al suo interno operò anche il

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primo Circolo Operaio Italiano di Cultura, chiuso dal potere perchè ritrovo degli isolani legati al PCI contrario all’annessione alla Jugoslavia di Tito. Al pianterreno operava pure il bar “Il Lavoratore” e la biblioteca italiana, pure smantellata. Oggi, lo stabile, oltre ad alcuni uffici pubblici, ospita pure la sala del Consiglio Comunale. La storia della prima Casa del Popolo è raccontata nell’opuscolo “Per la solenne inaugurazione della nuova Casa del Popolo in Isola - Breve storia del movimento socialista isolano narrata al popolo dal compagno G.V” pubblicato il 31 maggio 1914 a Capodistria dallo Stabilimento Tipografico Carlo Priora e ristampato dalla nostra Comunità nel 1997 come allegato al volumetto “La nostra storia”. CASABÀLE, s.m.: Fanfarone. Presuntuoso. CASABÒBOLO, s.m.: Fannullone, incapace, buono a nulla. Me domàndo parchè la Nina se ga spoşà con quel casabòbolo: a no varà mai do còpi su la cràpa. CASÀDA, s.f.: Cazzata. Stupidaggine. Şè dùto ‘na casàda. CAŞAGLIÈVOLO, top.: (v. Caşadièvolo) Toponimo che appare piuttosto spesso nei documenti scritti riguardanti Isola. Molti lo fanno derivare dall’espressione “Casa del diavolo”, ma sembra congettura alquanto azzardata in quanto solitamente toponimi del genere venivano affibiati a località impervie o comunque scostanti. Cosa che non è possibile affermare per Caşaglièvolo in quanto situata vicino a Isola e confinante con Pregàvor (v.). Secondo qualcuno potrebbe anche esser possibile che il toponimo derivi dal dialetto

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veneto e significhi Casa della lepre, vista la vicinanza fonetica tra il veneto lievoro e l’isolano lèvero (v.), da qui il succitato glievolo, che alcuni hanno ancora trasformato in dievolo. Tra l’altro, da ricordare che una Casa del diavolo esisteva ed esiste ancora in cima a Salèto (v.) ed il cui nome le venne probabilmente dal fatto di essere completamente isolata tra le campagne, senza nulla aver a che fare con il diavolo. Ma si sa, la fantasia popolare... CAŞANÒVA, top.: Toponimo isolano presente già in documenti del sedicesimo secolo. La località confinante con la vicina Salèto (v.) è probabilmente tra le poche che non hanno bisogno di particolari spiegazioni sulle sue origini. Oggi sarebbe interessante sapere eventualmente dove era situata questa casa costruita tanto tempo fa e, soprattutto, se esiste ancora. Ma su questo nutro seri dubbi. CASANOVA GIACOMO, n.pr.: Riportiamo all’interno del dizionario anche il nome del famoso avventuriero veneziano, poichè nella sua autobiografia dedicò un bel brano dei suoi trascorsi nel carcere dei Piombi ad un Isolano ed alle forniture del buon vino di Isola Refosco. Dal che, ancor oggi, nel decantare le virtù del vino, oltre a quanto fece già il poeta Pasquale Besenghi degli Ughi, qualcuno va a sostenere che le capacità amatorie del Casanova dipendessero dalle miracolose doti del vino. CASAVÌDE, s.m.: Cacciavite. CASCÀR, v.: Cadere. Cascare. A şè una làgna che te fa cascàr i bràsi. A ne contàva che a ièra cascà da la finestra, sensa dìr però che la finestra ièra a pianterén. I gàti i càsca sempre in pìe. Cascà de


pìcio. Me şé cascà l’òcio sù de quéla. Lù, a şé un de quéi che i şbrìsa, ma no i càsca mài. Pasqua càsca sempre de Domenica. CAŞÈL, s.m.: Casello. A Isola con questo termine veniva definito soprattutto il Casello posto prima del giardino pubblico (oggi intitolato a Pietro Coppo), e che era adibito al dazio, successivamente all’addetto alla pesa pubblica, a ufficio del pescatore, a centro di compravendita di derrate agricole e, dopo gli anni cinquanta, anche a rivendita tabacchi, cioè al tabachìn (v.). Credo verso gli anni sessanta è stato demolito. CÀŞE OPERÀIE, s.f.pl.: Case Operaie. Serie di case costruite all’inizio del secolo scorso con l’ausilio ed il concorso delle Società di mutuo soccorso fra i lavoratori sorte in seguito allo sviluppo dell’industria conserviera. La costruzione delle case operaie, in zona Càmpi Lònghi (v.), diede vita a ben due nuove vie cittadine, esistenti ancora oggi. L’inaugurazione del primo nucleo di case popolari, consistente complessivamente in tre gruppi di 17 case ciascuno, per un totale di 50 unità abitative, ebbe lupogo il 19 maggio 1910. La storia è raccontata nel fascicolo pubblicato nel 1914 in occasione dell’inaugurazione della seconda Casa del Popolo dal Partito Socialista isolano (v. Càşa del Pòpolo). CAŞÈTA, s.f.: Casetta. Le casette, di cui erano cosparse le campagne isolane, perchè servivano da riparo per i contadini in caso di maltempo, ma anche per custodire gli arnesi da lavoro. Purtroppo, di quelle originali in pietra e costruite a secco, ormai quasi non se ne

trovano più. Quelle che nella campagna isolana si costruiscono oggi, invece, sono delle vere e proprie villette che gli abitanti di città usano per trascorrere il finesettimana. Ma ce ne sono sempre più anche di quelli che si son fatti la seconda casetta abitando nelle città dell’interno. CASÈTA, s.f.: Cassetta. Piccola cassa. Solitamente quella usata per gli ortaggi o per il pesce. CASETÌN, s.m.: Cassetto. CÀSIA, s.f.: (v. Casièr) Acacia. Albero abbondante alla periferia di Isola, soprattutto nelle zone più umide, per la particolare robustezza e durata del suo legno, veniva usato soprattutto per i pali di sostegno ai filari delle viti. Si dice che per durare più a lungo (anche oltre i vent’anni) il taglio deve essere effettuato in fase di luna calante. CÀSIA, s.f.: Caccia. CASIADÒR, s.m.: Cacciatore. Prima della seconda guerra mondiale i cacciatori si potevano contare sulle dita. Poca anche la selvaggina, qualche lepre, quaglie e pernici. In genere si preferiva “cacciare” con trappole poste nei boschi o, per gli uccelli più piccoli, con le visc’iade (v.). CASIÀR, v.: Cacciare. CASIÈR. s.m.: (v. Càsia) Acacia. Cassiere. CAŞÌN, s.m.: Casino. Bordello. Postribolo. Chiasso. Baccano. Co’ i şè insieme i sa fàr solo caşìn. CASIÒL, s.m.: Mestolo. CASIÒLA, s.f.: Cazzuola. CAŞINÌSTA, agg.: Confusionario. CÀSO, s.m.: Cazzo. CASOMARÌN, s.m.: Oloturia. Cocomero di mare.

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CASÒN, s.m.: Cassone. Cassapanca. A şè andà baùl e a şè tornà casòn. Bàlo casòn = pista da ballo, balera di modeste pretese. CAŞÒN, s.m.: Casone. Grande casa. CASOTÀR, v.: Cazzottare. Prendere a pugni. CASÒTO, s.m.: Cazzotto. Pugno. CAŞÒTO, s.m.: Casotto. Stamberga. Baccano. Co’ i gà bevù do’ bicièri i gà fàto un bel caşòto (v. Casìn). CASTÀGNA, s.f.: Castagna. Da parecchi anni ormai a Isola non si vedono più i caratteristici venditori di castagne arroste che ogni inverno si vedevano in alcuni punti attenti ai fornelli mobili dove arrostivano le castagne per la gioia di grandi e piccini. I boschi circostanti la città ospitavano numerosi castagni che in autunno inoltrato si andavano a raccogliere e, anche a casa, si preparavano arroste o lesse. Becàr in castàgna = cogliere in flagrante. CASTAGNÀDA, s.f.: Punizione. Bastonata. Castigo. A gà ciapà una castagnàda coi fiòchi. CASTAGNÈR, s.m.: Castagno. L’albero delle castagne. Castagnèr salvàdigo = Ippocastano, castagno selvatico. CASTELÀNA, s.f.: Botte. Fissata su un carro per il trasporto di acqua o di fognatura. Ancora nella prima metà del secolo scorso molte abitazioni a Isola non disponevano degli attuali servizi igienici e, soprattutto, non tutte le case erano collegate alla canalizzazione, per cui periodicamente era necessario vuotare le fosse igieniche. Con l’uso di secchi veniva riempita la Castelàna e la maleodorante massa liquosa veniva trasportata in campagna per concimare le viti o gli ortaggi.

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CASTELIÈR, top.: (v. Albusàn) Castelliere. Zona nei pressi di Corte d’Isola, dove esistono ancora rovine di un antico castelliere. I castellieri, presenti in tutta l’Istria, erano antichi fortilizi e oppidi dell’età preromana, dei quali rimangono ancora tracce più o meno importanti. CASTIGÀR, v.: Castigare. Punire. CASTRÀR, v.: (v. Incastràr) Castrare. Imbrogliare. CASTRÀ, s.m.: Castrato. A mi, la carne de castrà no la me piàşi. CASTRÒN, s.m.: Caprone castrato. Balordo. Figurativamente in uso per indicare persona non degna di rispetto. A şè proprio un castròn. CASTRONÀDA, s.f.: Errore, balordaggine, cantonata. A ga fàto una castronàda spoşàndose. CASTRONERÌA, s.f.: Scorrettezza. Volgarità. Stupidaggine. Me racomàndo, no ste fàr castronerìe. CATARACIÀR, v.: (v. Scataraciàr) Sputare. Scatarrare. CATARACIÒN, s.m.: (v. Spudaciòn) Sputo pieno di catarro. Tipico dei fumatori. Ricordo, che ancora alcuni anni del dopoguerra nei locali pubblici esistevano per terra le sputacchiere, dove gli uomini sputavano le loro Cataràcie, per non insudiciare il pavimento. Sui muri erano affissi anche degli avvisi “Vietato sputare per terra!” CATIVÈRIA, s.f.: Cattiveria. CATÌVO, agg.: Cattivo. CATRAMÀR, v.: Incatramare. Ungere qualcosa con il catrame. CATÙRA, s.f.: Arresto, prigione. A şè in catùra = È agli arresti, ma anche è in difficoltà. CÀVA, s.f.: Cava. CAVADÈNTI, s.m.: Dentista, ma


più in tono scherzoso. Prima o dopo anca mì dovarò ‘ndar dal cavadènti. CAVADÒR, s.m.: Lavoratore nella cava di pietra. CAVÀL, s.m.: Cavallo. Per quanto ricordi io e pure alcuni amici, a Isola non ci sono mai stati molti cavalli. Venivano usati soprattutto dai trasportatori di grossi carichi, come legname, carbone, botti ecc. Per un certo periodo, durante l’amministrazione militare jugoslava della Zona B, presso gli stabilimenti dell’ex Torreggiani era stazionato pure un drappello di cavalli, gestiti dai militari, che noi ragazzini si passava il tempo a guardare con curiosità durante gli esercizi. In senso figurativo si usa anche per indicare una persona che ha sembianze cavalline: Sarìa una bèla màmola se no la gavèsi quèl mùşo e quèi dènti de cavàl. Spéta cavàl che l’érba crési. CAVALARÌA, s.m.: Cavalleria. Scherzo, non dare importanza: Làsa perder e bùta dùto in cavalarìa. CAVAFÀNGHI, s.m.: Draga. Era posto su grosse imbarcazioni, le cosiddette maòne (v.), che provvedevano a dragare il fondo del mandracchio o delle rive per togliere il fango accumulatosi e approfondire il pescaggio delle barche. CAVALÈTA, s.f.: Cavalletta, locusta. Fàrghe la cavalèta a qualchedùn = portare via un posto o un privilegio a qualcuno con mezzi scorretti. CAVALÈTO, s.m.: Cavalletto. Sostegno di legno a gambe incrociate. CAVALIÈR, s.m.: Cavaliere. Baco da seta. Nell’800 a Isola, ma

anche in altre località vicine il baco da seta veniva allevato e dai suoi bozzoli si produceva la seta. Proprio per questo nelle campagne erano numerose le piante di gelso le cui foglie, come si sa, rappresentano l’alimento fondamentale dei bachi da seta. Proprio dalle piante del gelso, che in dialetto veniva definite morèr (v.), deriva anche il toponimo alla periferia della città. Col tempo, la produzione della seta venne abbondonata, sparirono anche i bachi, compreso il loro nome locale di cavalièr. CAVALIÈR, top.: Toponimo di territorio adiacente Boşumè (v.) che probabilmente ha preso il nome dal fatto che in quella zona c’erano molti gelsi e allevamenti di bachi da seta. CAVALÒN, s.m.: Cavallone. Grossa ondata. Anche Scavezzacollo, come attesta F. Semi nel suo “Parlar s’ceto e neto”: Ara che cavalòn de mùla che la şè divèntada. CAVALÒTO, s.m.: Cavallo dei calzoni. Cavalcioni. A sè bàso de cavalòto. Co ièro pìcio, me pàre a me portava sempre a cavalòto. CAVAMÀCE, s.m.: Smacchiatore. CAVÀNA, s.f.: Fondale marino. Solitamente quello vicino alla riva, che spesso doveva essere dragato e ripulito dalla melma e dal fango. Fino ai primi anni Cinquanta del secolo scorso, tuttavia, a Isola era conosciuta anche la via Cavana di Trieste perché, come si diceva, ospitava numerose case chiuse, i famosi casìni (v.) e, per gli uomini, era spesso motivo di vanto e di mascolinità averli frequentati. A quanto mi consta una vera e propria presenza di donne allegre a Isola non risulta,

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anche se nelle località vicine di Capodistria e Pirano si raccontava che era preferibile venire al ballo a Isola, perché la disponibilità delle ragazze - le màmole (v.) - era di gran lunga superiore. Probabilmente dipendeva dal fatto che la stragrande maggioranza della manodopera delle locali industrie conserviere era rappresentata da donne giovani. CAVÀR, v.: Togliere. levare. A şè ‘nda a cavàrse i denti. Se pàr caşo te incòntri siòra Nìna, vàrda de cavàrte el capèl. Gìgi a se gà cavà el vìsio de fumàr. Càvite la vòia. Cavàrse el capél. CAVARÌE, top.: Toponimo della zona di Strugnano, dove si coltivavano frutta e verdura che, poi, le strugnanòte (v.) portavano a vendere a Isola. Deriva, evidentemente da Càvra = capra, tanto che ancor oggi qualcuno definisce la zona Cavrìe (v.). CAVARÌO, s.m.: (v. Piròn. Ficòn) Tuffo in acqua. Si eseguiva a testa e braccia in avanti. CAVÀRSELA, avv.: Arrangiarsi, cavarsela. Vàrda de cavàrtela come che te sà. A se la gà cavàda, che gnànca lu no sà come. CAVASÀL, s.m.: Capezzale. CAVASÀNGUE, s.f.: Sanguisuga. Strozzino. Sta ‘tènto de quèl che a şè un cavasàngue, a me gà imprestà dieşe lire e a ghe ne vòl indrìo trenta. CAVATÀPI, s.m.: Cavatappi. Cavaturaccioli. CAVÈCIO, s.m.: Tino. Erano di legno e vi si pigiava l’uva per poi lasciarla fermentare. Erano rari coloro che disponevano di una graspatrice, per cui la pigiatura si effettuava entrando nel tino a piedi scalzi. Una gioia per i

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bambini. Anche la produzione del vino, per quanto Isola fosse da secoli rinomata produttrice, seguiva regole alquanto diverse e meno sofisticate rispetto a quelle odierne. Il vino bianco si lasciava fermentare tre o quattro giorni, prima di travasarlo, il nero anche sei o sette, cioè finché acini e raspe rimanevano a galla. Proprio da questo anche la fama dei vini nostrani di essere forti e pesanti. CAVEDÀGNA, s.f.: La parte terminale del campo. Il pezzetto di terra dove solitamente non si piantava niente per lasciar spazio all’aratro di fare manovra. Probabilmente da càvo (v.) che in questo caso sta a significare “da capo”. CAVEDÈL, s.m.: Capezzolo. CAVEDÌN, s.m.: Cavedino. Termine usato nelle saline per indicare il reattangolo dove veniva fatta affluire l’acqua di mare che, fatta evaporare, formava il sale. CAVÈL, s.m.: Capello. Toni, a ghe ne sà una per cavèl. CAVELÀDA, s.f.: Capigliatura, folta chioma. CÀVERA, s.f.: (v. Càvra) Capra. CAVÈSA, s.f.: Cavezza. Un tempo usata sia per gli asini che per i cavalli. Sui due lati venivano attaccate le briglie per poter comandare e orientare gli animali. CAVESÀL, s.m.: Capezzale. CÀVO, s.m.: Capo, inizio, fine, principio. Cavo. Filo. El càvo dela luce. Tralcio della vite. Co le vide le crési tròpo, bisogna taiàrghe i càvi. Per pudàr ben le vìde bişògna savèr dove se tàia i càvi. In càvo al mondo = In capo al mondo. CÀVO DEI FÒSI, top.: Toponimo di Isola. In esso la parola càvo sta


ad indicare il capo, cioè l’inizio dell’area dove si trovano dei fossi, cioè dei canali. La zona, ormai completamente dimenticata è situata vicino all’attuale cimitero e, probabilmente, comprendeva anche lo spazio dove si trova lo stesso Camposanto. La zona è comunque attraversata dal torrente (v.) Ricòrvo. CÀVOLO, s.m.: Cavolfiore. Còl càvolo che te me ciàpi. Ciapàr càvoli par capùsi. No te capìsi un cavolo. CÀVRA, s.f.: (v. Càvera) Capra. I dişi che el late de càvra şè meio de quel de vàca. Lo storico istriano Pietro Kandler trovò presso Pinguente una lapide con sopra scolpita una capra. Ritenendola un simbolo dell’Istria venne adottata come stemma istriano, valido tutt’oggi. In senso figurativo viene usato anche per indicare una persona infida e cattiveriosa: che càvra de òmo (Manzini-Rocchi). CAVRÀDA, s.f.: Cattiveria. Oggi si direbbe carognata. CAVRESÀN, s.m.: Capodistriano. Veniva usato soprattutto in tono canzonatorio per indicare gli abitanti di Capodistria, ma probabilmente era stato preso dal fatto che la capra era il simbolo dell’Istria e la vicina città ne rappresentava la porta d’entrata. CAVRÈTA, s.f.: Capretta. CAVRÒN, s.m.: Caprone. Anche di persona non benvoluta, maleducata o poco pulita. A spùsa come un cavròn. CAVRONÀDA, s.f.: Stupidaggine, vigliaccheria, atto spregevole. A gà fato ‘na cavronàda. CÈL, s.m.: (v. Sièl) Cielo. CENTÌMETRO, s.m.: Centimetro. Con questo termine veniva usato

anche il metro di tela che veniva usato dai sarti per prendere le misure dei vestiti. In ogni casa doveva essercene almeno uno. CÈPA, s.f.: Cheppia. Pesce di mare. CÈREGA, s.f.: Chierica. CERULÒIDE, s.f.: Celluloide. CÈŞA, s.f.: Chiesa. La costruzione del Duomo di Isola, comunemente chiamato Cèşa Grànda, è iniziata nel 1547. La sua consacrazione avvenne il 10 Agosto del 1553 quando venne dedicata a S. Mauro Martire, che diventò, assieme a San Donato, anche il patrono della cittadina. Il campanile, invece, venne eretto nel 1585. Oltre al Duomo, a Isola c’erano tante altre chiese. La seconda per importanza, certamente quella dedicata a S. Maria d’Alieto, situata in Piàsa Pìcia (poi Piazza Alieto, in seguito dopo gli anni ‘50 del secolo scorso Piazza 22 luglio, oggi Piazza Manzioli). CEŞÈTA, s.m.: Chiesetta. CÈSO, s.m.: (v. Condòto) Cesso. Latrina. Sto lògo şé pròpio un céso. CEŞÒTO, s.m.: Bigotto. Uomo di chiesa. Da non confondere con Cioşòto (v.) che sta ad indicare abitante di Chioggia. CEŞUÒLA, s.f.: Obitorio. La saletta al cimitero dove vengono esposti i defunti per l’ultimo saluto prima di essere sepolti. CÈVEDO, agg.: Livido. Brutta cera. CHÉBA, s.f.: Gabbia. In gergo viene usato anche per galèra (v.), carcere per dire che è finito dietro le sbarre. A şè finì in chéba. Ròba de chèbe. CHEBÀTOLO, s.m.: Trappola per uccelli.

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CHÈCA, s.f.: Gazza. Usato anche per indicare donna presuntuosa e chiacchierona: La şé una chéca. A Isola, il termine veniva adoperato anche per indicare persona di tendenze omosessuali (v. Finòcio). Vàrda come che a mòvi el cùl, e dìme se a no şè una chèca. CHÈCO, n.pr.: Francesco. Diminutivo di Francesco che molti usavano anche per riferirsi all’Imperatore d’Austria, Francesco Giuseppe = Chéco Bépe. CHÌBLA, s.f.: Bugliolo. Vaso da notte. Şvodàr la chìbla. CHÌLA, s.f.: Ernia. Dallo sloveno (kila). CHIT (o KIT?), s.m.: Mastice, colla. Ancora oggi viene definito così il mastice usato per rappezzare le gomme della bicicletta. CIÀCOLA, s.f.: Chiacchiera. Fàr ciàcole. Ciàcole no fa frìtole. CIACOLÀDA, s.f.: Chiacchierata. CIACOLÀR, v.: Chiacchierare. Pettegolare CIACOLÒN, s.m.: Chiacchierone CIAMÀDA, s.f.: Chiamata. CIAMÀR, v.: Chiamare. Dichiarare. Fòra me ciàmo. Questa sì che se ciàma pégola. I lo gà ciamà drento. No te gà gnànca un pòco de quél che se ciàma. CIAPÀ, agg.: Preso. A şé ciapà déle strìghe. CIAPAMÒSCHE, s.f.pl.: Carta moschicida. Chi non si ricorda, ancora nei primi anni Sessanta del secolo scorso, quando per fronteggiare la presenza delle mosche, si usava il flìt (v.) spruzzato per gli ambienti da salvaguardare (soprattutto la cucina) chiudendo ermeticamente

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porte e finestre per un certo periodo. Oppure i rotoli di carta moschicida che si appendevano al soffitto in attesa che le mosche vi si posassero e rimanessero attaccate. CIAPÀR, v.: Prendere. Acchiappare. Raggiungere. Ricevere. Arrestare. Me ga ciapà la piòva per strada. I me vòl ciapàr per mòna. Ciàpa, mèti in carta e pòrta a càşa. A se gà ciapà e a şè ‘ndà via. Ciapàr la bàla. Ciapà de fùmo. Me gà ciapà sòno. Con lù no şé de parlàr parché el se la ciàpa subito. Ghe le gavémo dìte, ma le gavémo ciapàde. Ciapàr sotogàmba. CIAPÀRSELA, v.: Arrabbiarsi. Risentirsi. CIAPÌN, s.m.: Molletta. Fermaglio. Quella usata per fissare la biancheria stesa ad asciugare, ma anche la forcina usata dalle donne per tener fermi i capelli. CIÀPO, s.m.: Gruppo (di persone). Branco (di animali). Stormo (di uccelli). CIÀRA, s.f.: Chiara. Albume dell’uovo. CIÀRO, s.m.: Chiaro. Raro. Rado. Diluito. Luce. Con sti ciàri de luna, anca la manestra la şè ciàra. Il termine veniva usato anche nel senso di far luce, far chiaro, accendere o spegnere la lampada: una vecchia canzone istriana, infatti recita Distùda el ciàro, che restaremo in scùro. Co sti ciàri de luna anca el pan bianco a şè ciàro. CIARÒR, s.m.: Chiarore. CIÀSO, s.m.: Chiasso. Baccano. CIAVÀ, s.m.: Fregato. Bidonato. A se dàva tante arie e dopo a se gà ciavà come duti.


CIAVÀDA, s.f.: Amplesso. Coito. Fregatura. Bidonata. Chiavata. Mi ghe credevo, invese lù a me ciavà. Quel afàr iera una ciavàda.

CICHERÈTA, s.f.: Tazzina. Scodellina.

CIAVADÒR, s.m.: Donnaiolo. Ghe pàr de èse el più grando ciavadòr de Isola.

CICÌN, s.m.: Piccolo pene dei bambini.

CIAVÀR, v.: (v. Taconàr. Guàr) Chiavare. Fottere. Imbrogliare. Fregare. Va fàrte ciavàr. Che a se ciàvi. CIÀVE, s.f.: Chiave. CÌCA, s.f: Cicca. Mozzicone di sigaretta. Gonfiore della guancia. Solitamente dovuto a mal di denti.

CICIARÌA, top.: Regione dell’Istria interna, vicino al Monte Maggiore.

CICÌNA, s.f.: Vagina. È il femminile di “Cicìn”, ma usato anche per ragazze e donne. CÌCIO, s.m.: Abitante della Ciciaria. Erano, e quelli che sono rimasti lo sono ancora, Rumeni slavizzati. Cìcio no şè pàr bàrca. CICOLÀTA, s.f.: Cioccolata CICOLATÌN, s.m.: Cioccolatino.

CÌCA, s.f.: Dispetto. Invidia. Stizza. No val una cìca = non vale niente. Fàrghe cìca = far invidia. Anche soprannome di una famiglia isolana.

CÌCOLE-CIÀCOLE, s.f.pl.: Chiacchiere.

CICÀR, v.: Ciccare. Masticare tabacco, ma anche masticare amaro. Invidiare

CINCINÀR, v.: (v. Pindolàr) Dubitare. Essere indeciso. A şè sempre a cincinàrse, sensa mai una drìta.

CÌCARA, s.f.: (v. Cìchera) Scodella. Chicchera. Tazza. Parlàr in cìcara = parlare facendo esibizionismo. CICARIÒL, s.m.: Posacenere. In particolare quelli, di diversa forma e capienza, con cui erano attrezzati luoghi pubblici, come sale d’attesa, corridoi, sale per riunioni. Per fortuna, sono scomparsi e, chissà, forse domani spariranno del tutto anche le sigarette. Ve lo dice con speranza uno che ha fumato per oltre quarant’anni e poi, all’improvviso, ha deciso di smettere, e non è stato poi tanto difficile. CÌCHERA, s.f.: (v. Cìcara) Scodella. Da ricordare i versi della canzone popolare: Gò dà un pùgno àla tavola e gò ròto el biciér e la cìchera…

CÌMBERLE, agg.: Ubriaco. Brillo. Euforico. Toni a şè sempre in cìmberle.

CÌNE, s.m.: Cinema. Ancora fino ai primi anni cinquanta a Isola si poteva scegliere tra due cinema: Cinema Aliéto, su de Sàco, ed il cine Odeon, in Méşa Grìşa. Dalla metà degli anni cinquanta, sempre del secolo scorso, il cine Odeon è stato trasformato in palestra, mentre la sala cinematografica aveva trovato sede nel salone dell’Arrigoni. Sempre all’Arrigoni aveva sede anche il cinema estivo. A partire dagli anni ottanta, invece, la sala dell’Arrigoni è stata votata allo sport, mentre il cinema è tornato nella sede dove un tempo c’era l’Odeon, ma ridotto di oltre la metà. CIÒ, escl.: Ehi! Esclamazione usata per chiamare qualcuno. Ma anche in funzione rafforzativa per sottolineare qualcosa o qualcuno:

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Ara che òci che la gà, ciò. Sta atento, ciò. Ciò ti e ciò mi. CIÒCA, s.f.: Ciocca. Ciuffo di capelli. Chioccia. Gallina che sta covando le uova o accudendo i pulcini appena nati. Forse proprio per questo, per la sua forma, lo stesso termine veniva usato anche per indicare un lampadario a più bracci e lampade, come il lampione che un tempo era situato nella più grande piazza di Isola e che veniva definito come la ciòca de Piasa Grànda. CIOCÀR, v.: (v. Ciosìr) Chiocciare. CIÒDO, s.m.: Chiodo. Ciòdo scàsa ciòdo. Màgro come un ciòdo. CIÒMPO, s.m.: Zoppo. Storpio. A şè ciòmpo. CIÒR, v.: Prendere. Togliere. Ricevere. A se la gà ciòlta pàr màl = si è offeso. Se la ga ciòlta comoda = se l’è presa comoda. Ciòr pàl cùl = prendere in giro. A la gà ciòlta in mòlie che şè do meşi e a se gà şà pentì. Ciòrse el pàn fòra de bòca. Chi te vòl che la ciòghi. CIOSÌR, v.: Chiocciare (v. Ciocàr). Quando le galline si sentono pronte a covare le uova, emettono un suono particolare, oltre a farlo capire anche con altri comportamenti, come mettersi seduta sulle uova o cercar di prepararsi il nido. CIOŞÒTO, s.m.: Chioggiotto. Abitante di Chioggia. CIÒTEGO, s.m.: Trappola, tagliola. CIRCOLO, s.m.: Circolo. CÌŞBO, agg.: Miope. Debole di vista. A şè cìşbo come un sòrşo. CÌSTO, agg.: Pulito. Termine preso sicuramente dalla parola slovena čisto, per indicare in maniera ironica che le tasche sono vuote,

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pulite. Son cìsto come un sòrşo de cèşa. CIÙC, s.m.: Civetta (uccello rapace notturno). Anche questo termine è stato preso dallo sloveno čuk. A Isola veniva usato soprattutto per indicare persona un po’ stupidina e tarda di comprendonio. CIÙCA, s.f.: Sbronza. Sbornia. Col vìn la ciùca dura un giorno, con la bìra almeno tre. CIUCIÀDA, s.f.: Bevuta. Sorso. Succhiata. CIUCIANÈNE, s.m.: Poppante. Voce usata soprattutto in senso scherzoso per i bambini sempre attaccati alle mammelle della mamma. CIUCIÀR, v.: (v. Susàr) Succhiare. Usato, oltre che per i bambini che succhiano dalla mammella della mamma, anche per chi ama in maniera smisurata il vino: ghe piàşi ciuciàr, ma a se imbriàga subito. CIÙCIO, s.m.: (v. Ciuciòto) Succhiotto, tettarella. CIUCIÒLO, s.m.: (v. Ciùcio). Succhiotto. CIÙCO, agg.: Ubriaco. Brillo. A şè ciùco come un comàto. CIÙFOLO, s.m.: Ciuffo, ciocca di capelli. CIÙŞO, agg.: (v. Serà) Chiuso. CLÀNFA, s.f.: Staffa, spranga. Così veniva chiamato il pezzo di ferro con due punte ricurve agli estremi che si ficcavano nei muri per rafforzarne la stabilità, oppure per tener assieme due travi. Lo stesso termine veniva usato anche dagli elettricisti per gli arnesi ricurvi e dentellati che fissavano ai piedi per poter salire sui pali della luce o del telefono. Dìndio co le clànfe. CLANFÈR, s.m.: Fabbro. Maniscalco. Probabilmente


perché erano i fabbri a produrre le clànfe (v.). CLÀPA, s.f.: Gruppo di persone. Comitiva. Co se gà spoşà Toni ièrimo una bèla clàpa, e gavèmo magnà, bevù e cantà. La parola deriva dallo sloveno o più probabilmente dal croato dell’Istria interna, tanto è vero che ancor oggi un gruppo corale maschile non troppo numeroso viene denominato “Klapa”. CLÙCA, s.f.: Maniglia. Termine preso letteralmente dallo sloveno “kljuka”, con lo stesso significato, il quale a sua volta deriva dall’altro termine sloveno “ključ”, che significa chiave. Mi pare che il termine non fosse particolarmente presente a Isola, e che si sia manifestato soltanto dopo la seconda guerra mondiale trasportato da Trieste, dove, invece, era di uso quotidiano. CO, cong.: Come. Quando. Cosa. Con. Co te vègni; co te gà? El vìn se lo fà anca co’ l’uva; co te dìgo mì. CÒCA, s.f.: Buca. Terreno concavo. COCÀL, s.m.: (v. Cucàl. Cocalèta. Cucalèta) Gabbiano. In senso figurativo anche sciocco, stupidino: Toni a şè propio un cocàl. COCALÈTA, s.f.: (v. Cucalèta. Cocàl. Cucàl) Gabbiano, ma di dimensioni più piccole. CÒCIA, s.f.: Rete a strascico. Per il danno che provoca trascinandola sul fondo marino ormai viene usata molto poco, e quasi sempre di nascosto. CÒCOLA, s.f./agg.: Graziosa. Gesto affettuoso. Carezza. Me fà le còcole. COCOLÀR, v.: Coccolare. Vezzeggiare. Viziare.

COCOLÈSO, s.m.: Carezza. Moina. CÒCOLO, s.m.: Simpatico. Carino. A şè un mùlo sai còcolo. COCÒN, s.m.: Tappo della botte. Cocchiume. Anche di persona alquanto disordinata: A ciàpa par la spìna e a pèrdi pàr el cocòn (Vascotto). COCONÀR, v.: Riempire la botte prima di mettere il tappo. Ingozzare. Si faceva con i tacchini e le oche, che si facevano mangiare a forza qualche giorno prima di tirare il collo per ingrassarle. (v. incoconàr). CÒDA, s.f.: Coda. Gavér la còda de pàia. Véder co’ la còda de l’òcio. Métighe un pòco de sàl sùla còda. Còda de cavéi. Còda de cavàl. CÒDA, s.f.: Pietra di forma allungata per affilare la falce. CODÀRO, s.m.: Recipiente allungato. Fatto da un corno di bue o di altro materiale, nel quale si metteva la coda (v.) o pietra per affilare la falce. I contadini lo portavano usualmente agganciato alla cintura sulla schiena o sul fianco e riempito per metà con aceto. CODOGNÈR, s.m.: Albero cotogno. CODÒGNO, s.m.: Mela cotogna. CÒFA, s.f.: Cesta. CÒFE, agg.: Scemo. Matto. Squilibrato. Fuori di testa. Pierin a şè dùto còfe. CÒGA, s.m.: Cuoca. CÒGHIA, s.f.: (v. Cagòia) Chiocciola. ‘Ndàr in còghia = Sparire. COGNÀ, s.m.: Cognato. COGNÀDA, s.f.: Cognata. CÒGNO, s.m.: (v. Cùgno) Cuneo. CÒGO, s.m.: Cuoco.

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CÒGOMA, s.f.: Cuccuma. Caffettiera. Bricco per il caffè. COGOMÈTA, s.f.: Bricchetto. Piccola cuccuma. COGÙMERO, s.m.: (v. Cugùmero) Cetriolo. COIÒN, s.m.: Coglione. Anche a Isola, come del resto in tutta Italia, il termine si usa per indicare persona non troppo retta. A şè propio un coiòn. Probabilmente per la forma allungata degli acini un tipo di uva da tavola viene definita Coiòni de gàlo. Ròmper i coiòni. COIONÀDA, s.f.: Coglionata. Stupidata. Burla. CÒLA, s.f.: Colla. Mastice. Adesivo. Ricordo che quando si andava a scuola e la colla non sempre si trovava nei comodi tubetti di oggi, e anche se c’era mancavano i soldi, allora per attaccare assieme delle carte si usava farina bianca mescolata con acqua. Ricordo, però, che anche per fissare certi manifesti sui muri si usava lo stesso sistema. COLÈŞER, v.: (v. Coliéşer) Raccogliere dall’albero. Nella sua “Parlata isolana” il Vascotto sottolinea che per le derrate alimentari venivano usati termini diversi: Colèşer le sarieşe, i bìşi e i faşòi, ma vendemàr l’ùa, tiràr şò le panòcie de formentòn, taiàr el formento. COLÈTA, s.f.: Il raccolto. Raccolta di denaro. COLÈTO, s.m.: Colletto. Bavero. Del cappotto, della giacca o della camicia. COLIÈŞER, v.: (v. Coléşer) Raccogliere i frutti. CÒLMA, s.f.: (v. Colmèra) Alta marea. Còl siròco rìva ànca la còlma.

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CÒLMO, s.m.: Pieno. Limite. Culmine. La parte alta del tetto. Il tetto. In mesa orèta se vèmo magnà una terìna colma de sarièşe. Sèmo rivài al còlmo. Co piòvi ghe spandi el còlmo. El vàşo şé còlmo. COLMÈRA, s.f.: Alta marea. Ha più o meno lo stesso significato di còlma, con la differenza che viene usata quando l’acqua raggiunge livelli più alti e riesce a inondare anche superifici vicine al mare, come parte di Riva de Porta (v.). CÒLO, s.m.: Collo. In senso figurativo, il termine viene usato anche per indicare un furbastro: A şè un còlo. Tiràr el còlo. Ciapàr pàl còlo. COLÒMBA, s.f.: (v. Colònba) Colomba. Chiglia di un natante. COLOMBÈRA, s.f.: (v. Colonbèra) Colombaia, piccionaia. COLÒMBO, s.m.: Colombo. Razza, pesce marino (v. Ràşa). (anche Colònbo). COLÒNA, s.f.: Colonna. Colona (la moglie del colono). COLÒNBA, s.f.: (v. Colòmba) Colomba. Chiglia di un natante. COLONBÈRA, s.f.: (v. Colombèra) Colombaia. Piccionaia. COLÒNO, s.m.: Colono. Mezzadro. Contadino che ha un podere in mezzadria o in colonia. COLÒR, s.m.: Colore. A gà cambià dùti i colòri. Ghe le gà dìte de dùti i colòri. CÒLPA, s.f.: Colpa. I vòl butàr la còlpa sòra de mì = vogliono dar la colpa a me. Nè ài nè bài, me so ciapà dùta la còlpa. CÒLPO, s.m.: Colpo. Botta. Usato anche nel senso di Volta: ‘sto còlpo vado via = questa volta


vado via. ‘Sto còlpo no i me frèga = questa volta non mi fregano. Che te vignìsi un còlpo. Còlpo de aria. CÒLTO, s.m.: Cassetto. CÒLTRA, s.f.: Coltre. Còltra imbotìda = coperta imbottita COLTRÌNA, s.f.: Tendina. Cortina. COMÀNDI, avv.: Comandi. Prego. Favorisca. Valeva soprattutto per i più giovani: se qualcuno ti chiamava per dirti o chiederti qualcosa, era buona creanza e segno di rispetto rispondere con un Comandi. COMÀRE, s.f.: Comare. Madrina. Levatrice. Se dùto va come che devi ‘ndar, stanote bisognarà ciamàr la comàre. In senso figurativo usato pure per indicare una donna chiacchierona: Nina la şè propio una comàre de piàsa. COMÀSA, s.f.: (v. Gomàsa) Fascia. Gambale. Mollettiera. Fascia di panno che un tempo i soldati avvolgevano attorno alle caviglie. Anche i panni che i contadini avvolgevano nella parte inferiore delle gambe, al di sotto del ginocchio, quando zappavano la terra per proteggere i calzoni dalla terra e dal fango. COMÀTO, s.m.: Collare degli asini e dei cavalli. Ad esso venivano attaccate le funi tiranti dei carri. Chissà perché è rimasto il detto “a şè duro come un comàto” per indicare una persona completamente ubriaca. COMBINÀR, v.: Combinare. Provocare. Cos’ te gà combinà? COMBINASIÒN, s.m.: Combinazione. Caso. A se la gà cavàda pàr combinasiòn = se l’è cavata per caso. COMBINÈ, s.m.: Sottoveste

femminile. Un tempo nelle osterie, con un misto di lingua e di dialetto, il tutto proveniente probabilmente dalla vicina Trieste, si cantava: Se vuoi fare l’amore con mé, şò le mutande, sù ‘l combinè. COMBRÌCOLA, s.f.: Combriccola. Gruppo di persone allegre. COMIÀDA, s.f.: Gomitata. Ghe la gà fàta a forsa de comiàde = Ce l’ha fatta a forza di gomitate. COMINSIÀR, v.: (v. Scominsiàr) Cominciare. Chi comìnsia (scomìnsia) mal, no finìsi mai. CÒMIO, s.m.: Gomito. Dar de còmio = pari all’italiano olio di gomito. Ciapàrla in còmio = rimetterci. COMODÀR, v.: Convenire. Accomodare. No şè che me còmodi tanto. La se còmodi = Si accomodi. COMODÀRSE, v.: Accomodarsi. COMODO, agg.: Comodo. Agiato. Tranquillo. Me la sòn ciòlta comoda. COMPAGNÀR, v.: Accompagnare. Dio li fa e po’ li compagna. COMPAGNÌA, s.f.: (v. Conpanìa) Compagnia. Chi no bevi in compagnìa, o şè un ladro o şè una spia. COMPÀGNO, agg.: (v. Conpàgno) Uguale. Preciso. Identico. Làsili pérder, i şè dùti compàgni = Lasciali perdere, sono tutti uguali. COMPANÀDEGO, s.m.: Companatico. COMPÀRE, s.m.: (v. Conpàre) Compare. Padrino. Compàre de anèl = Testimone di matrimonio. Compàre de batìşo = Padrino di battesimo. COMPARÌR, v.: Comparire. Far bella figura.

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COMPASIÒN, s.f.: Compassione. Pòvaro fìo, a me fa pròpio compasiòn. COMPÈNA, avv.: Appena. Proprio. Compèna che ciàpo i sòldi me còmpro le scarpe. COMPERMÈSO, s.m.: Permesso. Domàndighe compermèso prima de ‘ndar drénto. COMPIÀNŞER, v.: Compiangere. Con quel che ve şè capità, ve compatìso e ve compiànşo. COMÙN, s.m.: Comune. Municipio. A şè ‘ndà in Comùn a far le carte. COMUNÈLA, s.f.: Intesa. Accordo sottobanco. Combutta. I gà fàto comunéla pàr fregàrme. COMUNIÒN, s.f.: Comunione. Santa Comunione. COMUNÌŞMO, s.m.: Comunismo. Par i comunisti a Isola se dişéva che i se comportava secondo el moto: quel che şè mio şè mio, e quel che şè tuo şè nostro. CONBINÀR, v.: Combinare. CÒNCIME, s.m.: Concime. Quello artificiale. CONDÀNA, s.f.: Condanna. CONDANÀ, agg.: Condannato. CONDIMÈNTO, s.m.: Condimento. CONDÌR, v.: Condire (v. Consàr). Anche se, almeno fino al grande freddo del 1929, Isola era una gran produttrice di olio d’oliva, come testimoniano i suoi commerci con Venezia prima e con Vienna dopo, i più poveri dovevano stare molto attenti al consumo dei condimenti (olio e strutto). Per cui si poteva ben usare il detto: Chi che gà denti no gà pàn, chi gà pàn no gà denti. CONDONÀR, v.: (v. Abonàr) Condonare. Abbuonare. Perdonare. In cambio de una scatola de spagnolèti (v.) te condòno le dò lire che te me devi.

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CONDÒTO, s.m.: Gabinetto. Latrina. Cesso. Usato per definire un luogo sudicio e mal tenuto: şè propio un condòto. CONFERÌR, v.: Conferire. Giovare. A Nina l’aria de paéşe no ghe conferìsi propio, la şè nata par star in campàgna. CONFESÀR, v.: Confessare. CONFÈSO, s.m.: Confessionale. CONFÈTO, s.m.: Confetto. Alòra Toni, quando se màgna i confèti? CONFIDÈNSA, s.f.: Confidenza. Mi, par dir el vero, son in confidènsa con duti lori = A dire il vero, sono in buoni rapporti con tutti. CONFÌN, s.m.: Confine. Frontiera. Soto Venèsia el confin de Isola iera con Piran sòto Rònco, con Francesco Giuseppe rivàvimo fìna Fiume, Trieste e Viena. Con l’Italia se podèva ‘ndar fina Zara. Co’ la Jugo se fermàvimo a Scofìe, ma se ‘ndava squasi fina in Turchia. Oggi, semo tornài squasi ai tempi de Marco Càco: un confìn lo vèmo a Scofìe e l’altro a Sisiòle. CONFÒRME, avv.: Dipende. A seconda. Gigi, quando te te trovi con Nina? Confòrme, se la şè de bona o de catìva vòia. Cos’ te farà stasèra? Confòrme quel che me sàlta in testa. CONFRATÈRNITA, s.f.: Confraternita religiosa. A Isola, come in tutte le località istriane, la vita religiosa che accomunava le diverse categorie di cittadini era notevolmente radicata. Oltre al numero cospicuo delle chiese presenti soprattutto nella zona urbana, anche il numero delle Confraternite era considerevole, tenendo conto della ridotta consistenza numerica della popolazione. Alla fine del


XIX secolo erano registrate ed operanti ad Isola addirittura sei Confraternite: del SS. Sacramento, della B. V. del Carmine, di S. Andrea, dell’Oratorio della Chiesa di Santa Caterina, di S. Rocco e di San Mauro. CONFUŞIÒN, s.m.: Confusione. CONFUŞIONÀ, agg.: Confuso. CONÌCIO, s.m.: Coniglio. (v. Cunìcio) CONOMÌA, s.f.: Economia. CONOMIŞÀR, v.: Economizzare. CONOSÈNTE, s.m.: Conoscente. Sèmo conosènti de so pàre. CONÒSER, v.: Conoscere. Sapere. A lo conòso de vìsta. Conosarò = conoscerò. CONPAGNÀR, v.: Accompagnare. Abbinare. CONPÀGNO, agg.: (v. Compàgno) Uguale. Simile. I şè dùti conpàgni. CONPANÌA, s.f: Compagnia. CONPÀRE, s.m.: (v. Compàre) Compare. CONPÈNA, avv.: Appena. Conpèna che lo gò vìsto...

Pestare. Bastonare: Consàr par le feste = dare una lezione a bastonate. Condire: consàr la salàta. CONSÈRVA, s.f.: Serra. Per custodire le piante dai geli invernali, oppure per le semine primaverili degli ortaggi, le cui piantine venivano poi trapiantate in campo aperto. Concentrato di pomodoro. Si comperava in tubetti al negozio, oppure si preparava a casa durante la stagione dei pomodori maturi con un procedimento che richiedeva abbastanza tempo e che ormai è completamente in disuso. Il concentrato, in pratica, era il risultato dell’eliminazione di buona parte dell’acqua presente nel frutto maturo fino al conseguimento di una determinata densità e pastosità. I pomodoro ben tagliato e sprovvisto di semi veniva ben mescolato e messo in un sacchetto di tela che si appendeva all’aperto lasciando che in qualche giorno quasi tutto il liquido scolasse via. Poi si provvedeva a speziarlo con sale e pepe e qualche foglia di lauro o rosmarino e conservarlo in barattoli di vetro.

CONSAPIGNÀTE, s.m.: (v. Ligapignàte) Aggiustatutto ambulante. Personaggio caratteristico che a intervalli più o meno costanti di tempo faceva la sua comparsa nelle vie di Isola pronto a riparare e ad aggiustare tutto, dall’ombrello alle foribici, alle pignàte (v.), appunto.

CONSOLASIÒN, s.f.: Consolazione.

CÒNSA, s.f.: Condimento.

CONTABÀLE, s.m.: Bugiardo. Fanfarone.

CONSÀR, v.: (v. Condìr) Conciare. Acconciare. (per esempio il cuoio: coràme consà = cuoio conciato, che veniva usato per fabbricare gli scarponi alti da campagna dei contadini). Rattoppare (le reti).

CONSÒRSIO, s.m.: Consorzio. A Isola veniva così chiamato il Consorzio agrario, dove i contadini fino ai primi anni dopo la Seconda guerra mondiale, anche durante il TLT, portavano a vendere gli ortaggi. Era situato in Riva le Porte.

CONTADÌN, s.m.: Contadino. Agricoltore. Termine che a Isola veniva poco usato, perchè di uso comune era quello di campagnòl (v.).

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CONTAFLÒCE, s.m.: Bugiardo. Letteralmente Raccontafrottole. CONTÀR, v.: Contare. Raccontare. No so scriver, ma so far i conti. No star a contàrme storie = non raccontarmi frottole. No te me la cònti giùsta = Non mi stai dicendo la verità. Contàr come ‘l do de còpe = Non contare niente. CONTEGNÌR, v.: Contenere. Comportare. Regolare. Co se şè in compagnìa bişògna savèrse contegnìr = Quando si è in compagnia bisogna darsi contegno. CONTÈGNO, s.m.: Contegno. Cura. Atteggiamento. Controllo: A no gà ni règno ni contègno (A. Vascotto). CONTENTÀR, v.: Accontentare. Chi se contènta gòdi. Chi no se conténta de l’onésto, pérdi el mànigo còn dùto el sésto = chi troppo vuole nulla stringe. CONTENTÌN, s.m.: Contentino. Premio di consolazione. Dàr un contentìn. CÒNTO, s.m.: Conto. Cura. Tignìr de cònto = Avere cura. Calcolo. Cònto de finìr ‘sto àno = ritengo di finire entro quest’anno. CONTRA, prep.: Contro. Chi pìsa còntra vénto se bàgna le bràghe.

colpo tra la nuca e il collo. COPÀR, v.: Accoppare, ammazzare, assassinare, uccidere. Anche Suicidarsi. I dìşi che Toni se gà copà. Sto ràto de Saléto me còpa. CÒPE, s.f.pl.: Coppa. Plurale di Coppa. Seme delle carte (briscola e tresette). COPERATÌVA, s.f.: Cooperativa. COPÌN, s.m.: (v. Cupìn. Còpa) Collottola. Ciapàr pal copìn. Ricordo che da ragazzo usavamo giocare allo Stukas (era il nome dei famigerati aerei tedeschi della II guerra mondiale). Il gioco consisteva nell’indovinare quante monetine si tenevano nascoste nei pugni chiusi (una specie di mora giapponese). Chi perdeva era costretto a subire uno stùkas sul copìn: un colpo di striscio dato con gran forza con il palmo della mano sulla collottola. Faceva un male indiavolato, quando non ti lasciava mezzo tramortito. CÒPO, s.m.: Coppo. Tegola. Andàr su pài còpi. Magàri no vèmo sempre el piàto de manestra in tòla, ma vèmo quatro còpi sula testa. Ièra una bòra che fasèva şvolàr anca i còpi. Ghe spàndi i còpi. CÒR, s.m.: (v. Cuòr) Cuore.

CONTRÀDA, s.f.: Contrada. Strada. Rione. Quartiere. La contràda de sòto, per modo de dir, iera la via del Vècio Ospedàl che ògi se ciàma via Lubiana. La contràda de sòra, invese, ièra la via paralela, che ogi se ciàma via Capodistria.

CORADÈLA, s.f.: Coratella. I polmoni del maiale macellato. Appena pulito e aperto il maiale, la coratella veniva estratta assieme al fegato e appesa ad un ramo per farla colare. Veniva usata per preparare dei sughi da gustare con la polenta.

CONVIGNÌR, v.: Convenire.

CORÀIO, s.m.: Coraggio. El coràio sta in bòta. Coràio, che paura no mànca.

CONVÌNSER, v.: Convincere. CÒPA, s.f.: (v. Copìn) Nuca. Collottola. A ga ciapà un colpo tra còpa e còlo = ha preso un

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CORÀME, s.m.: Cuoio. Chi gà fame che màgni coràme.


CORAMÈLA, s.f.: Coramella, striscia di cuoio per rifinire l’affilatura di rasoi o altre lame che debbano essere molto taglienti, in uso soprattutto dai barbieri. Sono praticamente sparite con l’introduzione delle “lamette” e dei rasoi elettrici. CÒRBA, s.f.: Costata di legno. Costituisce l’ossatura delle barche che viene rivestita dal fasciame. Son fissate a un pesante rinforzo sul fondo, la chiglia. CORBÀTO, top.: Punta Corbato. Toponimo isolano situato sulla piccola punta dove si trova il sito archeologico romano di San Simone. Denominazione quasi in disuso e sostituita spesso da Cané (v.), anche se questo più distante. CORBÈL, s.m.: (v. Ombrìna) Ottimo pesce di mare (it. Corvo, Corvina). CORCÀNTE, s.m.: (v. Crocànte) Croccante. Dolce per denti buoni. CÒRDA, s.f.: Corda. Fune. Èser şò de còrda. Taiàr la còrda. CORDÈLA, s.f.: Cordicella. Fettuccia. Nastro. Incordelàr = bordare con una fettuccia. A ga ligà el sàco co ‘na cordèla che se gà spacà sùbito. CORDIŞÈLA, s.f.: Cordicella. CORDÓN, s.m.: Cordone. Grossa corda. Cintura dei frati. Filastrocca di bambini: Cordòn, cordòn de San Francesco, la béla stéla in méşo, la fa un sàlto, la fa un altro, la fa la riverénsa, la fa la peniténsa, la bàşa chi che la vòl. CORDONSÌN, v.: Cordoncino. CÒRER, v.: (v. Ocòrer) Correre, accorrere; occorrere, bisognare. Un, do, tre, fin che còro no me ciapè. Scioglilingua: Còsa còri che te còri se no cori che te cori.

Cori solo se cori che te cori. Còrerse drìo, assieme a scònderse (v.), era uno dei giochi preferiti dai bambini isolani. CORGNÀCA, s.f.: Cornacchia, uccello dei corvidi dal piumaggio azzurrastro, bigio o nero; vive in gruppi rumorosi e si ciba di insetti e cereali. A Casanòva (v.) ve ne erano parecchie e un tale ne prese un paio con questo trucco: fece dei cartocci a cono di carta forte, all’interno pose dei semi, e spalmò la faccia interna dell’arnese di vischio. La cornacchia ficcava dentro testa e collo, e non poteva più liberarsi, perdeva l’equilibrio e non poteva volare via. Così toccò a due uccelli, ma gli altri intelligenti non si fecero ingannare, e girarono al largo dai cartocci benché allettati dal mangime... CORGNÀL, s.m.: Corniòlo, albero dal legno duro che produce le corniole, drupe rosse e acidule. Pensa che maravéia che şé el corgnàl: te sa chi che ga imanegà ‘sta séşola? Me nòno, 60 ani fa, e vàrda el mànego, liso e sénsa un şgràfo o una s’ciopadùra. CORGNOLÈDA, top.: Toponimo isolano. Zona campestre alla periferia di Isola, nella valle di Strugnano tra Cavarìe (v.) e Costerlago (v.). CORÌA, s.f.: Stringa, legaccio di cuoio per le scarpe grosse, di cuoio grezzo, usate dai contadini (lat. CORIUM, cuoio) (anche Curìa?). CORIDÒR, s.m.: Corridore. Corridoio. CORIÈRA, s.f.: Corriera. Autobus. Pullman. Chi si ricorda l’arrivo della prima corriera a Isola, che attraversava e faceva sosta nella nostra città, collegando Pirano e Capodistria. Era, se ben ricordo,

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una vecchia Mercedes-Benz con il muso lungo, ma che sembrava una meraviglia, soprattutto dopo che aveva sostituito i mezzi di trasporto precedenti: i primi anni dopo la fine della guerra i collegamenti venivano assicurati da alcuni autocarri malamente attrezzati per far fronte alla bisogna. CORNÀCIA, s.f.: (v. Corgnàca) Cornacchia. La cornàcia şè l’uşèl de le disgràsie. CORNÈTO, s.m.: Cornetto. Tipo di pane a quattro punte. Sù de Ràlsa ièro ciòr do cornéti. (Ralza era un buon fornaio, ma a Isola c’erano anche altri ottimi fornai, che furono apprezzati sempre più a mano a mano che le famiglie smettevano di fare il pane in casa, e lo acquistavano già sfornato). CORNETÙSO, s.m.: diminutivo di cornéto: Tipo di pane avente la forma di due corna appaiate (era uno dei più apprezzati perché croccante). CORNÌŞA, s.f.: Cornice. Per la cornice del quadro in particolare v. Sfàsa o Squàsa. CORNIŞÒN, s.m.: Cornicione. Grondaia. CÒRNO, s.m.: Corno. No şé véro un còrno. Far i còrni: molti superstiziosi per scongiuro fanno le corna con le dita. Usanza importata soprattutto dall’Italia meridionale. La mòlie ghe gà fàto i còrni. CORÒNA, s.f.: Argine di zolle: Zolle erbose poste attorno al pàsteno (v.), o ad un appezzamento in collina in genere. Le zolle erbose rivestivano tutte le pareti dei campetti formati a specchiera sulle colline. Corona del Rosario: filo con molti “grani”

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per pregare il Rosario. Ghirlanda funebre; corona di fiori intrecciata (anche per motivi lieti). Moneta austriaca: equivalente a mezzo fiorino. CORONÀSO, s.m.: Accrescitivo di Coròna. CORONÈLA, s.f.: Diminutivo di Coròna. CÒRPO, s.m.: Corpo. Forza del vino. Delle ore da dedicare al sonno: Séte par ogni còrpo, òto par ógni pòrco. Andar de còrpo = defecare. Sto àno el vin a gà còrpo. CÒRTE, s.f.: Corte, cortile aia. Breve tratto di vicolo cieco, frequente nel nostro paese che non aveva conosciuto - per fortuna! - piani regolatori. Spiazzo davanti a una casa, attraverso il quale si accedeva alla via. Şò par le córte. Vicolo alle Còrti, così chiamato per i numerosi cortili che sfociavano in esso. CORTE D’ISOLA, top.: Corte d’Isola (oggi Korte). Comune censorio di Isola d’Istria, il cui toponimo deriva da Curia, cioè gruppo di case. È presente nella storia di Isola fin dai primi secoli del millennio e, sotto alcuni aspetti, godeva anche di una certa autonomia. Situata su un promontorio di 220 metri d’altitudine gode di una visuale a ridosso dell’anfiteatro isolano di tutta la zona sottostante. Assieme alle vicine località di Albuciano, di Saredo e di Malìo sono servite nei secoli da punto di osservazione e di difesa delle vie marittime e terrestri, sia in direzione di Isola che delle località situate sull’altro versante della valle di Sicciole. In prossimità del centro abitato, sulla strada che lo collega a Isola, si trovano i resti


dell’antico castelliere fortificato, entro il quale trovavano rifugio dai nemici non soltanto gli abitanti della zona, ma anche buona parte della popolazione isolana. Oggi, assieme a Saredo, Nosedo e Malio, Corte d’Isola rappresenta una Comunità d’abitato (Comunità locale). All’indomani della seconda guerra mondiale le venne cambiato il nome in quello di Dvori (traduzione letterale slovena di Corte) che fu ripristinato all’originale con la K per volontà popolare negli anni Ottanta. Importante nella zona la chiesetta di San Giacomo che si rifà da un’altra chiesa omonima risalente ai primi secoli del millennio scorso. CORTÈL, s.m.: Coltello. ‘Sto cortèl a tàia dùto quel che a vedi. Fradèi, cortèi, cognàde spàde. CORTELÀDA, s.f.: Coltellata. CORTELÀSO, s.m.: Coltellaccio. Utensile dalla lama larga quasi quanto lunga usato specialmente per “Tasàr le canéle”, ma anche per altri usi agricoli. CÒSA, s.f.: Cosa. La cosa. Che cosa. Cos’ te vól? Parcòsa? COSÈTO, s.m.: Cosciotto. Coscia di animale macellato (anche di pollo). COSIÈNSA, s.f.: Coscienza. CÒŞO, s.m.: Quello. Codesto. Parola impiegata per indicare persona o cosa della quale, sul momento, non si ricorda il nome esatto. Per la verità, nel volume “Gli Statuti di Isola” del prof. Luigi Morteani, pubblicati a Parenzo nel 1888, nell’ampia introduzione che rappresenta una dettagliata storia della nostra città, tra gli esempi del dialetto isolano è presente anche la voce “la del cosso” che equivarrebbe in italiano a

“da quel tal”. A nostro parere, il “cosso” che sembra pronunciato con una “s” sorda invece che sonora, è dovuto alla parlata sicuramente rozza e dura degli isolani, ancorché pronunciata da una delicata signorina Delise, come testimonia il Morteani. È certo, che oggi, ma anche qualche decennio più tardi, all’inizio del secolo scorso, era già diventato “còşo”, preso direttamente dalla lingua italiana. COSÒN, s.m.: Coscia, grossa coscia (di essere umano in particolare). CÒSTA, s.f.: Costa. Riva. Costola Son cascà de brùto e me sòn rote dò còste. I faşòi in tècia i şè bòni se drénto ghe şè anca dò còste de pòrco. COSTÀR, v.: Costare. Accostare. Approdare. Avvicinare. COSTERLÀGO, top.: Territorio collinare di Isola. Il toponimo probabilmente ha origine romana da Castrum. CÒSTO, s.m.: Costo. Valore. Prezzo. A lù no ghe dimando gnànca a còsto de crepàr. COSTÒN, s.m.: Costone. Pendìo. Salita. Semo ‘ndài su pal costòn de Rònco. COSTUMÀ, agg.: Accostumato, educato, allevato. Mal costumà = educato male. COSTÙME, s.m.: Costume. Indumento per occasioni particolari. Ogi vàdo al bagno col costume novo. Nel ‘39 vèmo fato un bàlo in costume, in sàla de “Sàco”. Tanta gènte, vemo fato un vadàgno sai grande. I soldi li ga vosùi el segretàrio del fasio pàr méter su una bibliotèca. Chi la gà mai vista? (A.Vascotto) CÒTA, s.f.: Sfornata di pane. Stanote vèmo fàto tre còte de pàn.

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CÒTA, s.f.: Innamoramento. A gà ciapà ‘na còta de Gişela che a no’l se rèfa più.

CRÀGNA, s.f.: Sporcizia. Sudiciume. A no se làva mai e a şè pièn de cràgna.

CÒTIMO, s.m.: Cottimo. Contratto di lavoro, secondo cui il pagamento viene effettuato in base alla quantità del lavoro svolto.

CRÀGNO, s.m.: Cranio. Che cràgno che a gà = Che intelligenza.

CÒTO, agg.: Cotto; cucinato. Chi lo vòl còto, e chi lo vòl crùdo. Ma andava detto anche per i laterizi: mattoni, tegole. Infatti, la fabbrica di mattoni di Isola, situata subito prima del Giro Caròse veniva comunemente definita Fabrica de còto. Anzi, fino a qualche anno fa, e ancora oggi presso gli Isolani autoctoni, la zona viene definita proprio con questo nome. CÒTO, agg.: Innamorato: A şè proprio còto de Gişela. CÒTOLA, s.f.: Gonna. Se sà che in càşa şè lù che porta le còtole, e ela le bràghe. Se sà che Gigi iera sempre tacà a le còtole de su’ mama. COTOLÈR, s.m.: Donnaiolo. Gigi, a şè un cotolèr de la madòna = è un donnaiolo impenitente. COVÀDA, s.f.: Covata. COVÀR, v.: Covare. COVÈRCIO, s.m.: Coperchio. COVERCÈTO, s.m.: Coperchietto. COVÈRŞER, v.: Coprire. COVÈRTA, s.f.: Coperta. COVÈRTO, agg./s.m.: Coperto. Brònso covèrto = malizia nascosta. COVERTÒR, s.m.: Copriletto. Coltre. COVÒN, s.m.: Covone. CRÀCHI, s.m.pl.: Giunture. Arti. Dopo do méşi de lèto a ga tirà i cràchi = Dopo due mesi di malattia ha tirato le cuoia. Dopo do ore che son sentà şè ora che me distìro i cràchi.

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CRÀGNO, top.: Carniola. Kranj. Zona e città all’interno della Slovenia. Si usa ancora per definire una persona giunta da quelle zone.: A şè un de Cràgno. Conosciute ancor oggi le lugànighe de Cragno = salsicce di Kranj o della Carniola. CRAGNÒŞO, agg.: Sporco, sudicio. CRÀNSO, s.m.: Abitante della Carniola. Spesso usata in tono spregiativo: A şè un crànso. CREÀNSA, s.f.: Creanza, educazione, gentilezza. La gà i fiòi sénsa creànsa = Ha i figli maleducati. CREATÙRA, s.f.: Creatura. Figlio. Bambino. Şé la mia creatura. CRÈDA, s.f.: Creta, argilla. CREDA, top.: Territorio di Isola. Il nome La Creda deriva probabilmente dal terreno argilloso. CREDÈNSA, s.f.: Credenza. Armadio da cucina per stoviglie e provviste. Chi şè primo no va sènsa, chi şè ultimo va in credènsa (A.Vascotto). CRÈDER, v.: Credere. CRÈN, s.m.: Cren. Barbaforte. Pianta dalla radice forte e molto piccante, grattuggiata viene usata per condire la carne lessa. CRÈNA, s.f.: Crine. Filamento sottilissmimo di origine vegetale che veniva usato per imbottire materassi e poltrone. CRÈPA, s.f.: Spaccatura. Crepa. Mùro pién de crépe. CREPÀ, agg.: Morto. Il termine,


usato solitamente per gli animali, diventa oltraggioso nei confronti di persone. CREPÀR, v.: Crepare. Morire. Qua no sérvi dotori, crepèmo dùti de salùte. CREPALÌNA, s.f.: Gracile. Delicato. Persona di salute malferma. CRÈPI, s.m.pl.: Stoviglie. Dopo prànso magàri no, parchè se pèrdi tròpo tempo, ma dopo sèna i crèpi bişògna lavàrli. CRÈSER, v.: Crescere. Spèta mùs che l’erba crèsi = Aspetta asino che l’erba cresca. Erba màta crèsi presto. El préso a şé cresùdo. CREŞIMÀR, v.: Cresimare. In senso figurativo anche picchiare, bastonare: A lo gà creşimà, che gnanca su sàntolo lo varìa conosù. CRESIMÈNTO, s.m.: Crescita. Aumento. Lievitazione. CRÌCA, s.f.: Cricca. Combriccola. Gruppo di persone. A şè un bravo mùlo, ma a şè in una crìca de muloni che sarìa mèio pèrdeli che trovàli. CRICÀR, v.: Scricchiolare. Me crìca dùti i òsi. Usato anche per far intendere che qualcosa non funziona: A ghe crìca el servèl. CRÌCO, s.m.: Cricco. Verricello. Martinetto. Secondo Francesco Semi, con questo termine veniva definito in senso spregiativo anche il contadino dell’entroterra capodistriano. CRÌDA, s.f.: Annuncio pubblico per mezzo del banditore comunale. CRIDÀR, v.: Annunciare pubblicamente. CRÌGNE, s.f.pl.: Crina (di cavallo). CRISTIÀN, s.m.: Cristiano. Persona. Essere umano. Certo,

nei decenni e nei secoli scorsi tra la popolazione isolana era difficile differenziare il credente dall’ateo, per cui il termine di cristiano veniva usato semplicemente anche per definire un essere umano. CRITÀR, v.: Crepitare. Scricchiolare. Rombare. Scoppiare. CRISTO, s.m.: Cristo. Ognidùn gà la sua cròşe, come Cristo. No şé Cristo che tégni. CRÌTO, s.m.: Scoppio. Rombo. Tuono. Esplosione. Rumore. CROCÀNTE, s.m.: Croccante. Mandorlato. CROCÀR, v.: Scrocchiare. CRÒCO, s.m.: Balestro. Codone. Pezzo di legno i cui estremi venivano legati ad una corda e veniva fatto passare sotto la coda del cavallo o dell’asino per bloccare il basto. A volte, invece del legno, si usava far passare la corda attraverso un tubo di gomma che, sembra, fosse più gradito dal quadrupede. CRÒDEGA, s.f.: Cotica. La pelle essicata del maiale dalla quale ormai era stata tolta tutta la carne o il lardo. Minestra co le cròdeghe. Vècia cròdega si dice di donna anziana, rinsecchita, rugosa e piena di cattiveria. CRODEGHÌN, s.m.: Cotechino. Salsiccia preparata con gli scarti del maiale macellato che, anche di volume, è più grossa delle salsiccie (v. lugàniga). Mentre le salsiccie si preparano con carne di maiale fresca, il Crodeghìn si prepara con pezzi di carne precedentemente bolliti per renderli meno duri. CRODEGÒŞO, s.m.: Sporco. Sudicio. Di persona non pulita.

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CRÒŞE, s.f.: Croce. A me ga mèso in cròşe. Ognidùn gà la sua cròşe. Su quei soldi te pòl fàrghe la cròşe = quel denaro te lo puoi dimenticare. CROŞÈRA, s.f.: Incrocio. Bivio. Crocevia. CROSOLÀR, v.: Camminare con rumore. Con scarpe pesanti o zoccoli. Ma viene usato anche nel senso di una solenne bastonatura: crosolàr per le feste. CRÒSOLE, s.f.pl.: Bastoni. CRÒSOLI, s.m.pl.: Zoccoli. CROSTOLÌNI, s.m.pl.: Ciccioli. Quello che rimane dei pezzetti di lardo liquefatti per produre lo strutto. Chiamati così perchè privati del grasso masticando sembrano far rumore come i cròstoli (v.). CROSTOLÀDA, s.f.: Bastonatura. CROSTOLÀR, v.: Sgranocchiare. Masticare cibo croccante. Bastonare: A se gà becà una bela crostolàda. CRÒSTOLO, s.m.: Dolce di carnevale. Frappe. Crespello. Cenci. (Toscana). Fatti con ritagli di pastafrolla, fritti e cosparsi di zucchero velato. Con lo stesso termine veniva chiamata anche la crosta che una volta cucinata la polenta si formava sul paiolo e che noi bambini ci divertivamo a staccare ed a rosicchiare come si trattasse di un dolce. Altri tempi. CRÒTA, s.f.: Grotta. Roccia. CRÙCO, s.m.: Austriaco. Ma dopo l’avvento del nazismo anche in regione indicato pure in senso spregiativo per i tedeschi. CRÙDO, agg.: Crudo. Aria crùda = aria pungente. CRÙSCA, s.f.: (v. Fragnòcola) Colpo sulla testa con le nocche della mano.

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CRUSIÀR, v.: Crucciare. Tormentare. Non darsi pace. CRÙSIO, s.m.: Cruccio. Tormento. Pensiero. Dispiacere. CÙBIA, s.f.: Coppia. Paio. Pariglia. Far cùbia = far coppia. Gigi e Nina i va sempre in cùbia. CUCÀDA, s.f.: Occhiata. Sbirciatina. Prima de ‘ndàr via gò dà ‘na cucàda pàr véder còsa che i stàva combinàndo. CUCÀL, s.m.: Gabbiano (v. Cocàl. Cocalèta. Cucalèta) CUCALÈTA, s.f.: Gabbiano (v. Cocalèta. Cocàl. Cucal) CUCÀR, v.: Sbirciare. Cuccare. Spiare. Osservare di nascosto. Comportamento poco onesto: A me gà cucà una vòlta, ma a no me cùca più = me l’ha fatta una volta, ma non ci casco più. (A.Vascotto) CUCÈR, s.m.: Cocchiere. CUCÈTA, s.f.: Lettino, cuccetta. CÙCHERLE, s.m.: Spioncino. CÙCIA, s.f.: Cuccia, canile. La cùcia del càn. CUCIÀR, s.m.: Cucchiaio. Pèrderse in t’un cuciàr de aqua. CUCIARÀDA, s.f.: Cucchiaiata. CUCIARÌN, s.m.: Cucchiaino. CUCIÀRSE, v.: Accucciarsi, accovacciarsi, rannicchiarsi. CÙCIO, agg.: Accovacciato. Quieto. A stèva cùcio come un càn bastonà. CÙCO, agg.: Stupido, scemo. Usato anche per indicare persona molto anziana: A şè vècio come el cùco. CUGÌN, s.m.: (v. Şermàn) Cugino. CÙGNO, s.m.: Cuneo. Secondo il “Nuovo vocabolario della lingua italiana” di Devoto-Oli, cuneo rappresenta un “prisma a sezione


triangolare per lo più isoscele, di materiale duro, usato per fendere o spaccare, oppure, inserito fra due superfici, per bloccarne o contrastarne le spinte reciproche”. I contadini isolani, ma anche i falegnami, i muratori e quant’altri, mettevano il cugno sul manico delle zappe, dei picconi, dei martelli per impedire che a forza di battere uscissero dall’arnese. CUGÙMERO, s.m.: Cetriolo. CÙL, s.m.: Culo. Sedere. Deretano. Ciòr pàl cùl = prendere in giro, prendere per i fondelli. Cùl e camìşa = Culo e camicia. Cùl de galìna, bocòn de prète. A gà dormì col cùl scoverto, par questo a gà la luna pàr travèrso. Toni a ragiòna sempre col cùl. A no sa gnànca dove ch’ a gà el cùl.

CUŞIDÙRA, s.f.: Cucitura. CUSÌN, s.m.: Cuscino. CUŞÌNA, s.f.: Cucina. Fino ai primi anni del dopoguerra la cucina era l’ambiente principale di ogni abitazione, dove - quando non si era in campagna, al mare, o nella via a chiacchierare - si trascorreva quasi tutta la giornata: certo non erano alloggi, a parte qualche villa, che disponessero di soggiorni, salotti e così via. CUŞINÀR, v.: Cucinare. CUŞÌR, v.: Cucire.

CULÀTA, s.f.: Natica. A ga şbatù le culàte par tèra. CULATÀDA, s.f.: Cadere sbattendo il sedere. CULATÌNA, s.f.: (v. Culatòn) Omosessuale. Pederasta. Oggi sarebbe più corretto dire gay. CULATÒN, s.m.: (v. Culatìna) Omosessuale. CULÒN, s.m.: Sederone. Grosso sedere. CUNÌCIO, s.m.: (v. Cunìgio) Coniglio. CUNÌGIO, s.m.: (v. Cunìcio) Coniglio. CUÒR, s.m.: (v. Còr) Cuore. Me pianşi el cuor a vède sto pìcio che no vòl magnàr. Méterse ‘l cuòr in pàşe. CUPÌN, s.m.: (v. Copìn) Nuca. Collottola. CURIÒŞO, agg.: Curioso. CÙRTO, agg.: Corto. CUSÌ, avv.: Così. Mèio cusì che pèşo.

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Dd

D, Quarta lettera dell’alfabeto italiano. DABÀSO, avv.: Giù. In basso. DAFÀR, v.: Daffare. Lavorare. Impegnare. Gavémo un bél dafàr. DÀGHE, v.: Dagli. Dalle. DÀI, escl.: Avanti. Muoviti. Forza. Spicciati. Smettila. Dài, che fèmo tardi! Dài, finìsila! DALÌN, s.m.: (v. Vàga) Pallino. Pallina di vetro di vari colori che, secondo A. Vascotto veniva usata per il gioco delle “vàghe”. Non ho idea se fosse la stessa pallina, ma mi vien da credere che si trattasse della pallina con la quale io da bambino giocavo a s’cìnche ( v.) oppure di una sua antenata. DALÒN, s.m.: (v. Vàga) Pallino. Sempre per il gioco delle vàghe, a colori e di vetro, ma più grossa. Anche per questo termine riportiamo la testimonianza di A. Vascotto secondo il quale la parola veniva usata per definire gli occhi di una persona con i globi oculari grossi e sporgenti: A gà i òci de dalòn. DAMIÀNA, s.f.: Damigiana. DANÀ, agg.: Dannato. Vivace. Danà de mùlo. DANÀR, v.: Dannare. Arrabbiare. Esasperare. Ti te me farà danàr co’ le tue sempiàde. DÀNO, s.m.: Danno. DÀR, v.: Dare. Mi dàgo. Ti te dàghi. Lù a dà. Noi dèmo. Voi dè. Lòri i dà. S’ciàfo che se gà dà no torna indrìo. Màn dàda, pàto fàto. Dàr indrìo = restituire. Dàrghela de béver = infinocchiare.

DÀSIO, s.m.: Dazio. Fàr el mòna pàr no pagàr el dàsio. DÀTOLO, s.m.: Dattero. Il dolce frutto esotico, DÀTOLO DE MÀR, s.m.: Dattero marino. Mollusco bivalve che vive e si sviluppa nella pietra in fondo al mare lungo la costa. DAÙR, s.m.: Didietro. Deretano. Solitamente usato in tono scherzoso. Secondo alcuni sarebbe di derivazione furlana. DE, prep.: Di. Da. Con. Per. De bòto = Improvvisamente. O de rìfa, o de ràfa = a torto o a ragione, in un modo o in un altro. De bòn = davvero, sul serio. Sà de bon = sembra buono. De qua a là = da qui a lì. DEBÀNDO, s.m.: A ufo. Senza meritare. A stà magnàndo la manéstra debàndo. DEBÒN, avv.: Davvero. Sul serio. Te lo dìgo pàr debòn. DEBÒTO, avv.: Quasi. Per poco. Improvvisamente. Subito. DÈCA, s.m.: Decagrammo. Dopo il chilogrammo (chìlo), il dèca era la misura di peso più frequente. Praticamente sconosciuto il grammo o l’etto. Per indicare pesi inferiori al dèca, per esempio, si chiedeva mezzo decagrammo (mèşo dèca) equivalente a cinque grammi, oppure un dèca e mèşo per indicare quindici grammi. DECIMÀL, s.m.: Bilancia decimale. Molto usata dai contadini per pesare il raccolto (l’entrada, v.) da vendere al mercato o al Consorzio (dopo la guerra alla Cooperativa). DECÒNTO, avv.: Curare. Risparmiare. Custodire. Salvare. Tignìr decònto. DÈDO, s.m.: (v. Déo) Dito.

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DEDRÌO, s.m.: Deretano. Fondoschiena. La gà un dedrìo che mérita rispéto. DEFÒRA, avv.: Fuori. Dal di fuori. DEFÒNTO, s.m.: Defunto. Subito dopo la prima guerra mondiale, con il termine la defònta veniva definita la monarchia asburgica dell’Austra-Ungheria. DÈGHE, v.: Date a lui o a loro. Dategli. Voce del verbo dare. DEGNÀRSE, v.: Degnarsi. Tòio, de quando a và co’ la Pina, a no se dégna de vignìr co’ noi = Da quando si é messo con la Pina, Vittorio non si degna più di venire con noi. DEGNÈVOLE, agg.: Degno. Affabile. Bonario. A sé ‘na persona degnévole = È una persona degna di rispetto. DELIBERÀR, v.: Liberare. Sciogliere. El càn a se gà deliberà). DEMÀL, avv.: Smunto. Sofferente. Ammalato. Avariato. Se védi subito che a şé demàl. Sta làte şè ‘ndàda demàl. DEMÈNO, avv.: A meno. Non dimenticare. Non mancare. Prìma de ‘ndàr via, no fàr deméno de dàrghe de magnàr ale galìne. DEMOGHÈLA, avv.: (anche Dèmoghela) Andarsene di soppiatto. Filarsela. Tagliare la corda. Con questo termine, subito dopo la prima guerra mondiale, veniva definito il 97.esimo Reggimento di fanteria dell’esercito austroungarico (K.u.K. Infanterieregiment nr.97), nelle cui file erano stati coscritti quasi esclusivamente soldati di nazionalità italiana, inviati a combattere in Galizia. La decisione era stata presa, dicono, dopo che tra la popolazione

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italiana di Trieste e dell’Istria, furono registrati numerosi casi di persone che preferirono disertare ed arruolarsi nell’esercito italiano. In pratica, con la denominazione di Demoghéla si volle dare al 97.simo Reggimento austriaco una connotazione negativa, mentre in realtà, almeno stando alle vicende di guerra narrate dagli storici, si comportò con onore. In effetti, quasi tutti furono recuperati dalla Missione militare italiana in Siberia e inquadrati, dopo il giuramento di fedeltà, nel Regio esercito italiano - Legione Redenta di Siberia. Oltretutto, mentre la Grande guerra finì alla fine del 1918, questi soldati che attraversarono tutta la Russia e la Siberia, fino a Vladivostok, mantennero la divisa fino alla fine del 1919 e solo nei primi mesi dell’anno successivo finalmente riuscirono a ritornare a Trieste. Essi partirono all’inizio della guerra con le insegne di Francesco Giuseppe e rientrarono a casa con quelle del re d’Italia. DENTÀL, s.m.: Dentice. Pregiato pesce di mare. DÈNTE, s.m.: Dente. Denti de cògna = denti cavallini; il termine per indicare denti smisuratamente grandi deriva probabilmente dal fatto che cavallo in sloveno si dice konj. A me stà sui denti = si dice di persona che per il suo modo di fare é alquanto antipatica e indigesta, magari per aver provocato qualche sgarbo. Fòra ‘l dénte, fòra l’ dolòr. A gà trovà pàn pàr i so dénti. A gà ancòra i dènti de làte. DENÙNSIA, s.f.: Denuncia. DENUNSIÀR, v.: Denunciare. DÈO, s.m.: (v. Dédo) Dito. Un déo de vìn, ma in pìe, no pàr tréso; Se te


ghe dàghi un déo, a te ciòl la man; Me sòn taià el déo groso = mi son tagliato il police. Ciuciàrse i déi. La classificazione delle dita: Pìcio, picéo = mignolo; dédo de anél = anulare; el più gràndo de dùti = medio; sfrégola òci = indice; còpa pùlişi = pollice. DEOGRÀSIA, loc.: Menomale. Rendere grazia a Dio. Antonio Vascotto: A quelà te vol dimandàrghe se a te dà dò lire? Deogràsia se a te darà el bondì. DEPÒNER, v.: Deporre. Posare. Depositare. DERÌTO, s.m.: (v. Dirìto) Diritto. Ragione. DERIMPÈTO, avv.: Dirimpetto. Di fronte. DEŞBOTONÀR, v.: (v. Dişbotonàr) Sbottonare. Giustamente, Antonio Vascotto nella sua raccolta di termini della parlata isolana si ferma al periodo antecedente il secondo conflitto mondiale, poiché da allora in poi molteplici sono state le influenze che contribuirono a modificare, a volte anche sostanzialmente, il dialetto isolano: una maggiore presenza della lingua italiana con la diffusione della radio e, più tardi, della televisione, la vicinanza e il sempre più frequente contatto con i dialetti parlati nelle altre località istriane, ma soprattutto a Trieste reso gradevole, tra l’altro, anche per ragioni culturali ed economiche, soprattutto nel periodo degli anni sessanta-ottanta, quando andar a far la spesa nella vicina città era diventato elemento di necessità. Di conseguenza, se prima era frequentemente usato come prefisso verbale (spesso peggiorativo) “Des…” pur se usato in alternativa con il più

corretto e italiano “Dis…”, oggi il primo è quasi del tutto scomparso in favore del secondo. DEŞBRATÀR, v.: (v. Dişbratàr) Pulire. Riassettare. Prima de méter sù la polenta gò deşbratà duta la caşa. DESBREGÀR, v.: (v. Dişbregàr – anche Distrigàr o Destrigàr) Sbrigare. Risolvere. A se gà desbregà in do minuti. DESCALSO, agg.: (v. Discalso) Scalzo. A piedi nudi. In màrso chi no gà scarpe che vàdi descàlso. DES’CIODÀR, v.: (v. Dis’ciodar) Schiodare. Togliere i chiodi. Antonio Vascotto: Quel, co’ a inciòda un, a no lo des’ciòda nisùn. DESCOMPARÌR, v: Scomparire. Far brutta figura. Non esser all’altezza. Nino, a şé vignù solo co’ le savate e a ne gà fato scomparir duti!. DESCORDÀRSE, v.: (v. Scordàrse, anche, Smentigàrse o Desmentegàrse) Dimenticare. Scordare. DESCOVÈRŞER, v.: (v. Discovèrşer. Scovérşer) Scoprire. DESCOVÈRTO, agg.: (v. Discovérto o Scovérto) Scoperto. Non coperto. Te giòsa el naşo, parché te gà dormì col cùl scoverto! DESCOVÈRŞE, v.: (v. Scovérşer o Discovérşe) Scoprire. DESCRÈTO, agg.: Discreto. Modesto. Riguardoso. Secondo il Vascotto, però, ancora mezzo secolo fa, il termine veniva usato in senso nettamente contrario, cioé di Indiscreto, senza ritegno, senza riguardo spiegando che l’incameramento “nel patrimonio dialettale di una voce di cui si conosce male il

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senso era avvenuto per mancanza di adeguata istruzione, per cui veniva usata nel senso inverso”. A. Vascotto: Voci della Parlata Isolana: Te credevo educà, e invése te son stà descréto! DESFANTÀR, v.: Distruggere. Demolire. Oggi completamente scomparso dall’uso. DESFÀR, v.: Disfare, demolire, Tra fàr e disfàr, şé dùto un lavoràr. DESFRÌTO, s.m.: (v. Disfrìto) Soffritto. Molto in uso per sughi, minestre e minestroni, che costituivano il piatto forte della cucina isolana. DEŞGRANÀR, v.: (v. Dişgranàr. Şgranàr) Sgranare. Lavoro molto frequente in cucina nel periodo primaverile, al tempo dei fagioli e dei piselli per pareparare sia faşiòi in técia che rişi e bişi (v.) piatti tipici della cucina isolana. In autunno, invece, quando si sgranavano le pannocchie di granoturno (v. panòcie de formentòn), il lavoro impegnava di sera tutta la famiglia, anche i più piccoli. DESÌDER, v.: Decidere. DESÌO, s.m.: Rovina. Desolazione. Disordine. Baccano. Chissà per quale arcano mistero, la parola non ha niente a che fare con la trasformazione poetica del termine “desiderio”. A gà fato un desìo, co’ a şé vegnù a caşa duro come un comàto. DEŞMENTEGÀR, v.: (v. Dismentegàr, anche Dismentigàr) Dimenticare. Scordare. DÈSO, avv.: (v. Adéso) Adesso. Ora. DESÒRA, avv.: Sopra. Di sopra. DESORAVÌA, avv. Per di sopra. DESÒTO, avv.: Sotto. Di sotto.

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DESOTOVÌA, avv.: Per di sotto. DESPARÀR, v.: Disimparare. Déso che a no va più a scòla, a dişi che a gà desparà duto. DESPÀRTE, avv.: Staccato. Disparte. Distante. A tèn i soldi in dispàrte, cusì a no se acòrşi co’ i manca. DESPERÀ, agg.: (v. Disperà) Disperato. DESPERÀR, v.: (v. Disperàr) Disperare. DESPETENÀR, v.: (v. Dispetenàr) Spettinare. DESPETENÀ, agg.: (v. Dispetenà) Spettinato. DESPOSÈNTE, s.m.: (v. Disposénte) Disabile. Andicappato. Menomato fisicamente. Spesso usato anche per indicare qualcuno al quale manca qualche rotella o menomato mentalmente: làsilo star, che a şè un desposénte. A gà un modo de far che a pàr un desposénte. DESTRIGÀR, v.: (v. Deşbregàr – anche Distrigàr o Dişbrigàr) Sbrigare. Finire un lavoro. Affrettarsi. A lo gà distrigà in dò e dò quatro. DESTRUŞADÒR, s.m.: Distruttore. A sé un distruşador, sensa regno né contégno. A. Vascotto, dove regno sta per desiderio di costruire e contégno sta per volontà di curare qualcosa. DESTRÙŞER, v.: (v. Distrùşer) Distruggere. A no sa fàr gnente, a sa solo destrùşe. Anche in questo caso, come per tanti altri, l’odierna vicinanza della lingua italiana ha portato sempre più all’uso di una parola dialettale che prende spunto da quella grammaticale. DESTRÙTO, s.m.: (v. Distrùto) Strutto. Grasso ottenuto


dalla cottura della carne più grassa del maiale che non si poteva usare altrimenti. Veniva usato per alcune fritture, per condire sughi e minestre, per conservare fino ai mesi estivi le salsicce immerse in barattoli di vetro riempite di strutto, ma anche per venire spalmato sul pane: una vera e propria fonte di energia, soprattutto per i contadini. Ricordo, però, che qualche ragazzo delle prime classi delle elementari, prima che incominciassero a distribuire gratuitamente le merende con pane nero e formaggio americano (quello arancione) dei pacchi UNRRA, per merenda sgranocchiava pane spalmato con lo strutto. DESTUDÀR, v.: (v. Distudàr) Spegnere. Ormai sono in pochi a cantare la vecchia e bellissima canzone istriana (ma chissà che sull’onda del revival qualcuno non la reinterpreti in versione folk) che recitava “Nina, destùda ‘l ciàro…”) e che era ritornata in voga negli anni Sessanta da quell’intramontabile interprete polesana di canti istriani che è stata Lidia Percan. Ricordo, che veniva suonata ogni giorno da un juke-box che il gerente della trattoria “Taverna” di Isola (quella di fronte alla stazione delle corriere) aveva installato e del quale godevamo noi, ragazzi che aspettavamo il trasporto mattutino verso Pirano, dove avevamo incominciato a frequentare il Liceo scientifico. Ricordo anche, però, che non riuscivo a capacitarmi chiedendomi come si poteva destùdar ‘l ciàro, spegnere il chiaro: incanto e magìa delle parole e della poesia, ancorché popolare!

DEŞVOLTÒR, s.m.: Arcolaio. Serviva per disfare le matasse e usato sia per le reti da pesca, ma anche dalle magliaie. Voce ormai completamente uscita dall’uso, anche perché si tratta di arnesi e lavori che da tempo, ormai, non si fanno più. Il Vascotto la riporta nel suo libro, specificando che il termine veniva metaforicamente usato per indicare persona molto veloce nel suo lavoro. DIAVOLO, s.m.: Diavolo. Demonio. Satana. È lo stesso significato dell’italiano, ma lo riportiamo – proprio come fece A. Vascotto – per far riferimento a due toponimi isolani: Da una parte Casaglievolo (v.) che originariamente doveva esser stato Casadiévolo poi trasformato in modo da non far riferimento al demonio, tant’è vero, come riferisce nuovamente il Vascotto, il diavolo a Isola si aveva paura anche a nominarlo. L’altro toponimo, che resiste ancor oggi, è rappresentato da una modesta casa posta a pochi metri dall’imboccatura del tunnel della Parenzana (v.) a Saleto (v.), che , a parte il nome, con il diavolo non c’entrava per niente. Si diceva, infatti, In caşa del diavolo per dire di località lontana e difficile da raggiungere. DIÈŞE, num.: Dieci. Primi dieci numeri facevano: Un, do, tre, quatro, sìnque, sìe, séte, òto, nove, diésé. Un tempo, fra i più piccoli, conosciuta la filastrocca: Ùnero,dònero, ténero, quàro, Quarto, màrco, marchéto, milàn, milanéşe, e ùn che fa diéşe. DÌGA, s.f.: (v. Gìga) Diga foranea. Venne costruita negli anni ‘20 a difesa del mandracchio e di Riva de Porta (v.) . Il 22 aprile 1945 venne fatta saltare in aria dai tedeschi prima di ritirarsi

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dalla città. L’esplosione distrusse o danneggiò una ventina di imbarcazioni e oltre un centinaio di edifici in Piazza Grande. DIMÀN, avv.: (v. Domàn) Domani. DIMÈNEGA, s.f.: (v. Doménega) Domenica. DIMÒNIO, s.m.: Demonio. Diavolo. DÌNDIO, s.m.: Tacchino. Spesso usato con significato peggiorativo o canzonatorio per indicare una persona poco furba. A şé un dindio come pochi! DINDOLÀR, v.: Dondolare. Oscillare. Vacillare. El pìcio, a gà i dénti de làte che ghe dìndola. DINDOLÀRSE, v.: Dondolarsi. Barcamenarsi. Oziare. (V. anche Şinşolàrse. Pìndolàrse. Remenàrse). Nino, a se gà dìndolà duto el şòrno (v.) sénsa ciapàr un Kaiser. DIÒGA, s.f.: (v. Doga) Doga, quella delle botti. Anche le assicelle per il pavimento in legno. A Isola, ancora fino a mezzo secolo fa, c’erano alcuni bottai che, prima della vendemmia, si davano da fare per costruire botti, ma anche – e forse soprattutto – per riparare quelle che erano malandate e che perdevano. Il mestiere è praticamente scomparso prima con le botti già pronte che si trovavano al mercato o si andavano a comperare all’Agraria d’oltre confine, poi con l’arrivo delle botti in acciaio inossidabile. DIOLÌR, v.: Dolere. A vedèrlo cusì palidùso me diòl el cuor. DÌR, v.: Dire. Interessante ed alquanto anomala la coniugazione di questo verbo che ancora oggi, già al tempo presente vede in uso due forme, tra dì-go (mi dìgo) e dì-şo (mi dìşo). Così anche per le altre persone e per gli altri tempi,

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come da qualche esempio che riportiamo: Mì dìşo (dìgo), tì te dìşi (ti te dìghi), lù a dìşi (non si usa il dìghi), noi dişémo, voi dişé, lori i dìşì, dişévo (anche dighévo, ma da tempo abbandonato), mi dişarò, mi varò dìto (io avrò detto), mi vévo dito (io avevo detto), mì disarìa (io direi), tì te disarìa, lù a disarìa, noi disarìimo. DIRÈA, s.f.: Diarrea. DIRITÙRA, avv.: Addirittura. DIŞBARCÀR, v.: Sbarcare. Co ‘l bapòr rivàva al mòlo, iéra dùto un şburtàrse pàr disbarcàrse prima. DIŞBOTONÀR, v.: (v. Deşbotonàr. Şbotonàr) Sbottonare. DIŞBRATÀR, v.: (v. Deşbratàr) Rassettare. Sparecchiare. Riordinare. Finì de magnàr, bişogna anca dişbratàr. DIŞBRIGÀR, v.: (v. Deşbregàr – anche Distrigàr o Dişbrigàr) Sbrigare. DISCÀLSO, agg.: (v. Descàlso. Scàlso) Scalzo. In màrso, chi che no gà scàrpe che vàdi discàlso. DISCANCELÀR, v.: Cancellare. DISCARIGÀR, v.: Scaricare. Discarigàr el mùs. DISCÀRIGO, agg.: Scarico. DISCARTÀR, v.: Scartare. Togliere la carta. DIS’CIODÀR, v.: Schiodare. Togliere i chiodi. DIS’CIÒR, v.: Distogliere. Sviare. Distrarre. Allontanare da luogo o persona. A iéra cascà in t’una bruta gànga, ma sémo rivài a dis’ciorlo. Un termine che ormai è del tutto scomparso sia dalla parlata isolana che dai vari dialetti istro-veneti che stanno sempre più introducendo vocaboli presi dalla lingua italiana, anche se


spesso trasformati nella cadenza dialettale.

c’al se fermi. A se gà cavà la montùra co’l gà dişmontà el lavòr.

DISCONTENTÀR, v.: Scontentare.

DIŞNÀR, v.: Desinare. Mangiare.

DISCOVÈRŞER, v.: (v. Descovèrşer. Scovèrşer) Scoprire.

DIŞNOTÀR, v.: Cancellare.

DISCOVÈRTO, agg.: Scoperto. Cos’ te gà dormì col cùl discovérto?

DIŞOCUPÀ, agg.: Disoccupato.

DISCUŞÌR, v.: Scucire. DIŞDÒTO, num.: Diciotto. Tré par sìe fa dişdòto. DISFÀ, agg.: Disfatto. Esausto. Dopo quéla sfachinàda sòn proprio disfà. DIŞGRANÀR, v.: Sgranare. Prima de portarlo in mulìn el formentòn bisogna dişgranàrlo. DIŞGRÀSIA, s.f.: Disgrazia. Ma va là, dişgràsia in tòco! DIŞGRASIÀ, agg.: Disgraziato. DIŞGROPÀR, v.: Slegare. Sciogliere un nodo. DISIPÀR, v.: Dissipare. Sciupare. Rovinare. DIŞISÈTE, num.: Diciassette. Il Vascotto lo riporta, anche se ammetto di non averlo mai sentito. DIŞLIGÀR, v.: Slegare. Snodare. Sciogliere un nodo o un impegno. A. Vascotto: ‘Tenti fiòi prima de spoşàve! Şé un ligàmo (v.) che no se dişliga mai più! DIŞMENTEGÀR, v.: (v. Deşmentegàr) Dimenticare. DIŞMISIÀR, v.: (anche Dişminsiàr) Svegliare. Destare. Me son dismisià (dişminsià) che no iéra gnànca la sìe e gò un sòno de la malòra. DIŞMOLÀR, v.: Allentare. Sciogliere. DIŞMONTÀR, v.: Smontare. Scendere. Terminare. Per trovar el guàsto, a gà dişmontà meşa bici. Prima de dişmontàr spéta

DIŞNÒVE, num.: Diciannove. DISPACÀR, v.: Spacchettare. Aprire un pacco. DISPERÀ, agg.: (v. Desperà) Disperato. DISPERÀR, v.: (v. Desperàr) Disperare. DISPERASIÒN, s.f.: Disperazione. DISPETENÀ, agg.: (v. Despetenà) Spettinato. DISPETENÀR, v.: (v. Despetenàr) Spettinare. DISPIANTÀR, v.: Sradicare. Trapiantare. DISPIÀŞER, v.: Dispiacere. A mì me dispiàşi ‘sai, ma no podévo far altro. Co gò sentì, me şé dispiaşù tanto = Quando lo venni a sapere mi dispiacque molto. DISPIAŞÈR, s.m.: Dispiacere. Afflizione. Şé sta un gran dispiaşér gavér savù che a iera partì sensa saludàrne. DISPOSÈNTE, agg.: Invalido. DISTIRÀ, agg.: Disteso. Sdraiato. DISTIRÀR, v.: Stendere. Sdraiare. Sgranchire. Distiràr i cràchi = Tirar le cuoia = morire. DISTÒRŞER, v.: Torcere. DISTRIGÀR, v.: (v. Destrigàr) Sbrigare. Risolvere. DISTROPÀR, v.: Stappare. Disotturare. Il contrario di Stropàr (v.) che significa Tappare, otturare. DISTRÙTO, s.m.: (v. Destrùto) Strutto. Grasso animale. DISTUDÀR, v.: (v. Studàr)

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Spegnere. Bellissimi e dolci i versi di quella canzone popolare istriana che fanno: Distùda el ciàro, che restarémo in scùro… DISTURBÀR, v.: (v. Desturbàr) Disturbare. DISTUDÀR, v.: (v. Destudàr) Spegnere. Distùda ‘l fògo. Distùda la luce. DIŞÙN, s.m.: Digiuno DIŞVIDÀR, v.: (v. Şvidàr) Svitare. Mollare. DIŞVOLTISÀR, v.: Svolgere. Nel senso di togliere un involucro. Il contrario di voltisàr (v.) che significa avvolgere. DIVÈRSO, agg.: Parecchio, abbastanza. Il significato italiano di differente veniva usato nella stessa maniera anche in isolano. Negli ultimi decenni, il termine diverso nel senso di molto è uscito completamente dall’uso in favore della versione italiana. DO, num.: Due. Siòra Pina, la gà de imprestarme dò grani de sàl… dò giòse de òio ? DÒDEŞE, num.: (anche Dòdişe) Dodici. DÒGA, s.f.: (v. Diòga) Doga della botte. DOLFÌN, s.m.: Delfino. DÒLSE, agg.: Dolce. DOLSÌGO, s.m.: Sapore dolciastro. DOMÀN, avv.: (v. Dimàn) Domani. DOMANDÀR, v.: Domandare. Chiedere. DOMANDELÀ, avv.: Dopodomani. DOMÈNEGA, s.f.: (v. Diménega) Domenica.

sempre identificato come la Céşa Granda, a differenza della Céşa Pìcia, come veniva chiamata la Chiesa di Santa Maria d’Alieto. DÒNA, s.f.: Donna. Femmina. Moglie. Le dòne del làte che ogni matina le vignìva şò dei monti co’ le ramine (v.) de làte carigàde sui mùsi. DONÀSA, s.f.: Donnaccia. DÒNCA, avv.: Dunque. Allora. DONDOLÀR, v.: Cullare. Ciondolare. DÒNDOLO, s.m:. (v. Caparòsolo) Dondolo. Mollusco bivalve. DÒPIO, agg.: Doppio. Più frequentemente usato come fiasco di vino di due litri, come recita la famosa canzone popolare: Ancòra un lìtro de quel bòn... DOPODIMÀN, avv.: Dopodomani. DOPOLAVORO, s.m.: Dopolavoro. Organizzazione fascista istituita nel 1925 per provvedere alla ricreazione e all’istruzione dei lavoratori durante le ore libere. Le attività del dopolavoro erano molto incentivate a Isola grazie alla presenza delle fabbriche conserviere dell’Arrigoni e dell’Ampelea. Oltre a disporre di propri locali per svolgere attività teatrali, culturali, ecc, disponevano anche di una buona biblioteca tecnica. DOPRÀR, v.: Adoperare. Usare. DORMÌDA, s.f.: Dormita. DORMIÒTO, agg.: Dormiglione. DORMÌR, v.: Dormire. Stanòte gò dormì come un sòco. DOŞÈNA, s.f.: Dozzina.

DOMILE, num.: (anche Domìla) Duemila.

DOŞÈNTO, num.: (anche Dosénto) Duecento.

DÒMO, s.m.: Duomo. A Isola quasi

DÒSO, avv.: Addosso.

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DÒTA, s.f.: Dote. La dote, a Isola come in tutti i comuni istriani, veniva regolamentata, addirittura secoli addietro, attraverso precise clausole degli Statuti medievali. Infatti, spesso, in caso di morte di uno dei coniugi, la dote entrava a far parte delle eredità che spettavano ai rimasti. DOTÒR, m.: Dottore. DOVARÌA, v.: Dovrei. Voce del verbo dovere.

DROGHIÈR, s.m.: Droghiere. DURÀR, v.: Durare. DÙRO, agg.: Duro. Sodo. Secco. Spesso usato anche in senso comportamentale per indicare persona ostinata o dura di comprendonio. DUTINTUN, avv.(v. Tutintùn) Improvvisamente. D’un tratto. Di colpo. DÙTO, agg.: Tutto. Intero.

DOVÈR, v.: Dovere. DRÀPO, s.m.: Stoffa. Abito. Co’ quàtro fliche la se gà compra un bel dràpo. DRÈA, n.pr.: Andrea. DRÈNTO, avv.: (v. Indrénto) Dentro. DRÈSA, s.f.: Treccia di capelli. La treccia dell’aglio e della cipolla, invece, veniva chiamata Rèsta (v.). DRÌO, avv.: Dietro. Vedarèmo drìo ‘l tèmpo che farà. DRIOMÀN, avv.: Di seguito. Subito dopo. In continuazione. DRISÀDA, s.f.: Raddrizzata. Sistemata. Bisogna dàrghe ‘na drisàda. DRISÀR, v.: Raddrizzare. DRÌTA, s.f.: Destra. Consiglio. Atteggiamento. Parere. Ghe gò dà una drìta che no se la pòl dismentigàr. DRÌTO, agg.: Diritto. In senso direzionale, ma anche comportamentale. Dopo che a gà ciapà do svéntole par le récie, a şé filà drìto come un balìn. DROGARÌA, s.f.: Drogheria. Il droghiere veniva chiamato anche Spesiàl (v.). Solo in tempi più recenti le funzioni della drogheria si sono divise, tra farmacia e profumeria.

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Ee E, Quinta lettera dell’alfabeto italiano. ÈCO, avv.: Ecco. Èco fàto. Èco qua. ÈDREGA, s.f.: (v. Èlera) Edera. L’ho trovata soltanto nel volume di Antonio Vascotto. ÈL, art.: Il, lo. Pronome allocutivo: Lei – Se ghé dìgo che şé cusì, el me pòl creder. ÈLA, art.: Lei, terzo pronome personale femminile. È il femminile di Lù (Egli). Bisogna dìr che lù e éla i iera pròpio béi. ÈLERA, s.f.: (v. Èdrega) Edera. Quando uscì la canzone di Nilla Pizzi con lo stesso titolo, ricordo che alla rotonda del parco dell’Arigòni, dove ci si recava al sabato e alla domenica a ballare al suono di un’orchestrina, una cantante occasionale che cercava di imitare la “Regina” per parecchio tempo continuò a gorgheggiare pronunciando Elera. Pochi si accorsero che si trattava di un errore. ENTRÀDA, s.f.: Entrata. Ingresso. Raccolto agricolo. ‘Sto ano vémo gavù ‘na bòna entràda = quest’anno abbiamo avuto un buon raccolto. ÈRA, s.f.: (v. Soléra. Suléra) Aia. Cortile. ÈRBA IMBRIÀGA, s.f.: (v. Seşaròto) Loglio. Pianta delle graminacee che sovente infesta i campi di grano. ERBASPÀGNA, s.f.: Erba spagna. Erba medica. Probabilmente perché originariamente importata dalla Spagna.

ERBÈTA, s.f.: Barbabietola. Solitamente si coltivava per nutrire i maiali. Tuttavia venivano usate anche le foglie che una volta tagliate, cotte e condite servivano da contorno. La radice, invece, solitamente di color rossastro, veniva anche grattugiata e messa a inacidire, oppure – come si diceva a Isola - messa a garbìr (v.), pronta per l’inverno per preparare le rave in técia (v.) magari con qualche fettina di òmbolo (v.) o qualche pezzo di lugànega (v.), oppure per un piatto di minestra con fagioli, patate e porsìna (v.), insomma una specie di jòta de ràve (v.). ÈRI, escl.: Incitamento. Si gridava all’asino per farlo partire o per farlo accelerare di passo. Veniva, a seconda, alternato all’altro incitamento rappresentato da ìe (v.). ERMELÌN, s.m.: Albicocco. Albicocca. (v. anche Armelìn). ÈRTA, s.m.: Stipite. Solitamente in pietra. El portòn gà i gàngheri (v.) ficài in tel’erta. ÈSCA, s.f.: Esca (v. Lésca). ÈSER, v.: Essere. Mì sòn, ti te sòn, lù a şé, noi sémo, voi sé, lori i şé. ESTÀ, s.m.: Estate. ÈSTRO, s.m.: Umore. Capriccio. Attitudine. Comportamento. ESTRÒŞO, agg.: Estroso. Capriccioso. Imprevedibile. A şé estròşo come un mùlo (A. Vascotto). ÈSULE, s.m.: Esule. Persona che vive in terra lontana dalla terra natale. Ancora oggi si continua a far confusione tra chi sono gli esuli e chi sono i profughi. Le migliaia di Isolani che hanno abbandonato Isola continuano a definirsi èşuli, ma le organizzazioni, enti e

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associazioni costituite per aiutare il loro insediamento nella societĂ italiana si riconoscono nel termine pròfughi. ĂˆTICO, agg.: Tisico. Ammalato di tubercolosi.

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Ff FÀBRICA, s.f.: Fabbrica. Stabilimento. Fàbrica ai bàgni, fàbrica de còto. FABRICHÌNA, s.f.: Fabbrichina, operaia della fabbrica. Con questo termine venivano designate le migliaia di donne che giornalmente per anni a Isola si recavano alle fabbriche Arrigoni e Ampelea a pulire e inscatolare pesce. In fondo, proprio grazie a loro, Isola godeva della fama di essere il paese delle belle ragazze, anche se molte di loro venivano dai paesi del contado e, pure, dalle vicine Capodistria e Pirano. Tuttavia, è anche vero che sempre grazie a loro ed al loro impiego alquanto sicuro a Isola non si è sofferta la fame nemmeno durante le due guerre mondiali. FÀBRO, s.m.: (v. Fàvro) Fabbro. Fa parte della più recente storia isolana la vicenda dei quattro caduti sotto il piombo tedesco il 29 aprile 1945. Una colonna motorizzata tedesca in ritirata dall’Istria per raggiungere Trieste e ricongiungersi alle altre unità dell’esercito tedesco si stava avvicinando a Isola dalla collina di Loreto. Viene attaccata da un reparto del CLN Isolano presso il crocevia denominato “del fabbro”, all’inizio della salita per Saletto (v.).Vengono distrutti due autocarri e vengono uccisi otto nemici. Nello scontro perdono la vita quattro isolani, Mario Moro, Ferdinando Degrassi, Luigi Postogna e Mario Millo. I tedeschi riuscirono ad entrare in Isola e catturarono e deportarono

il prefetto Pertot, accusato di aver organizzato la resistenza a Isola. FACHÌN, s.m.: Facchino. FADÌGA, s.f.: Fatica. Antico proverbio delle nostre parti che non si usava pronunciare in presenza di donne e bambini: “se lavòra e se fadìga pàr el pàn e pàr la fìga”. Chi che ghe làva la tèsta al mùs, pèrdi la fadìga e anca ‘l savòn. FADIGÀDA, s.f.: (v. Sfadigàda) Sfaticata. FADIGÀR, v.: (v. Sfadigàr) Faticare. FADIGÀSA, s.f.: Faticaccia. Grande fatica. FAGANÈL, s.m.: (v. Fanganèl) Fanello. Piccolo uccello di colore bruno che, si dice, abbia preso il nome dal frequentare gli alberi di faggio. Spesso anche in compagnia di fringuelli. FÀGHER, s.m.: Faggio. Un termine che ormai è completamente scomparso dalla parlata isolana e, credo, anche di quella istroveneta in genere. FAGIÀN, s.m.: (v. Faşàn) Fagiano. FAGÒTO, s.m.: Fagotto. Se te pensi de no cambiàr, te pòl far fagòto sùbito. FALÀR, v.: Sbagliare. Mancare. Falàndo se impàra. A gà falà el tìro. FALILÈLE, s.f.: Spergiuro. Voltagabbana. Persona scorretta. Fidàrse de quel faliléle, şé come méter in conto che l’afàr no sé combina. FALÌR, v.: Fallire. FALÌSCA, s.f.: Scintilla. Favilla. Fàr falìsche. FÀLO, s.m.: Fallo. Errore. Sbaglio. Vegnarò sénsa fàlo. Gò méso ‘l pìe in fàlo.

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FALÒPA, s.f.: Fallo. Sbaglio. Falloppa. Sproposito. FALSÀR, v.: Falciare. Tagliare con la falce. FÀLSE, s.f.: (v. Séşola) Falce. Falcetto. Falce grande.) Fàlse e martél. FÀLSO, agg.: Falso. Bugiardo. FÀLSO, s.m.: Parte concava del piede. (Vascotto: Fàlso del pìe). FALSÒN, s.m.: Falce grande. Roncola. Bugiardone. Mentitore. FÀME, s.f.: Fame. A şé brùto come la fàme. Se te gà fàme gràta corame. FAMÈA, s.f.: (anche Faméia) Famiglia. Tòni şé un bòn pàre de faméa. FAMÈO, s.m.: Famiglio. Servo. Garzone. (A. Vascotto: Era uso che le famiglie più agiate di contadini avessero in casa qualche ragazzo orfano o di povera casata e lo facevano lavorare in cambio di vitto e alloggio e (forse) qualche soldo. Uso scomparso nei primi anni del secolo scorso: “La mòlie lo trata come un faméo”). FANÈLA, s.f.: Flanella. Tessuto.

FANTOLÌN, s.m.: Bambino. FAPÙNTE, s.m.: (v. Britolìn) Temperamatite. Un tempo le punte alle matite si facevano con il temperino, per cui ogni ragazzo ne possedeva uno a serramanico che usava per fare tante altre cose. FÀR, v.: Fare. Mi fàso = Io faccio. Ti te fàsi. Lù a fà; éla la fà. Noi fémo, ma anche fasémo. Voi fé, ma anche fasé. Lori i fà. Agli inizi del secolo scorso era in uso anche Mi fàgo invece di Mi fàso, ma ormai è completamente dimenticato. Per il tempo passato vengono usati ancor oggi il noi fasévimo ed il noi févimo. Meno usato il mi févo, invece del mi fasévo. Come sottolinea anche il Vascotto, è uno dei verbi più duttili. Forse proprio perché viene usato in tutte le maniere. FARÀL, s.m.: (v. Feràl) Fanale. Par trovàr una mùla cusì bisogna sercàrla còl faràl. FARDÈL, s.m.: (v. Fradél) Fratello. Il termine fardél probabilmente veniva usato per storpiatura di fradél, ma crediamo non fosse diventato di uso comune.

FANGANÈL, s.m.: (v. Faganèl) Fanello. Tipo di uccello.

FARGNÒCOLA, s.f.: Bernoccolo. Buffetto.

FANÒ, s.m.: Fanale. Tipo particolare di fanale in legno riccamente lavorato e dorato che sistemato e fissato in cima ad un palo veniva portato nelle processioni religiose.

FARÌNA, s.f.: Farina. Farìna şàla de formentòn. Fiòr de farìna. FARINÒŞO, agg.: Farinoso. Ste patàte le şè farinòşe, le şè bòne pàr i gnòchi.

FÀNTE, s.m.: Messo comunale. Fattorino del Comune. Addetto alla Crìda (v.). Secondo una testimonianza presente nel volume di Antonio Vascotto, l’ultimo fante di Isola, che fu anche l’ultimo a far la Crìda, si chiamava Nicolò Degrassi, dal che ha preso il soprannome anche la sua casata. Schérsa coi fànti e làsa stàr i sànti.

FARMÌGOLA, s.f.: (v. Farnìgola. Fornìgola. Formìgola. Formìga) Formica.

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FARNÌGOLA, s.f.: (v. Fornìgola. Farmìgola. Formìgola. Formìga) Formica. FÀRO, s.m.: Faro. Şà prima dela guèra Isola la gavèva tre fàri: sula gìga, sul mòl e a Pùnta Gàlo.


FARSÒRA, s.f.: (v. Frasòra) Padella. FÀSA, s.f.: Fascia, striscia, benda. FÀSA, s.f.: Faccia. Volto. Viso. Brùto in fàsa, bél in piàsa. FASÀDA, s.f.: Facciata. FASADÙRA, s.f.: Fasciatura. FAŞÀN, s.m.: (v. Fagiàn) Fagiano. FASÀR, v.: (v. Infasàr) Fasciare. FASEDÈL, s.m.: (v. Fasìna) Fastello. Fascina, fascio di legna (v. Fàso). Quando le case non erano ancora riscaldate con centrali a gas, stufe a cherosene o a corrente, e quando il pranzo e la cena si cucinavano con la legna, allora era abitudinario vedere donne e uomini che raccoglievano pezzi di legno, sarmenti e sterpi che venivano accatastati e salvati per l’inverno. Poi venivano legati con i vimini (v. Vénchi) e portati a casa per alimentare il fuoco. Le fasìne di legno rappresentavano anche prodotto di commercio, tanto è vero che durante la Serenissima, essendo Venezia povera di legno, si importavano dall’Istria per riscaldare le case. FASÈNDA, s.f.: Faccenda. Affare. FÀSILE, agg.: Facile. Fàsile come bèver un bicèr de aqua. FASÌNA, s.f.: Fascina. Fascio di legna.

e venivano raccolti quando ancora teneri non secchi che, dopo sgranati venivano lessati e preparati in salata con olio, aceto, cipolla tagliuzzata e pepe nero. A, Vascotto: la polénta coi faşiòi, la ghé piaşi ai vèci e ànca ai fiòi. FAŞÒL, s.m.: (v. Faşiòl) Fagiolo. A chi che no ghe piàşi el radìcio coi faşòi che àlsi la màn. Faşòi in tècia con porsìna. FAŞOLÀDA, s.f.: Fagiolata. Mangiata di fagioli. FAŞOLÈTO, s.m.: Fagiolino. Il bacello del fagiolo con il seme ancora non formato, verde e tenero che lessato si usava per prepararlo in salàta o in minestra di verdure. FASOLÈTO, s.m.: Fazzoletto. FASOLETÒN, s.m.: Scialle. Ampio scialle di colore scuro che le donne usavano portare per coprirsi dal freddo finché non prese piede il cappotto. FASTONÀR, v.: Frastornare. Confondere. FÀVRO, s.m.: (v. Fàbro) Fabbro. La parola, che seguiva l’abitudine di trasformare la b in v, venne completamente sostituita dalla seconda. FÈBRE, s.f.: Febbre. Anche per questa parola vale dire che ha preso il posto di Fèvre (v.) ormai completamente scomparso.

FÀSO, s.m.: (v. Fasedél. Fasìna) Fascio. Di legna, di fieno o di paglia. D’inverno, co’ scominsiàva a fàr frèsco, se ‘ndava in gìro per la campàgna a ingrumàr qualche fàso de lègni sùti pàr fàr fògo e scaldàrse visìn al fogolèr (v.).

FEGADÈL, s.m.: Fegatello. Il fegato delle galline e di altri animali domestici minuti.

FAŞIÒL, s.m.: (v. Faşòl) Fagiolo. Faşiòi bàsi, era una specie di fagioli a pianta bassa, che non avevano bisogno di sostegno

FELÒMENO, s.m.: Fenomeno. Più che altro si tratta di un malriuscito tentativo di scimiottare la lingua italiana.

FEGÀ, s.m.: (v. Figà) Fegato. FÈLE, s.f.: Ritardo di marea. Co şè fèle şè anca bonàsa.

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FÈMENA, s.f.: (v.Fèmina) Femmina. Donna. FÈMINA, s.f.: (v. Fèmena) Donna. Femmina. FÈN, s.m.: (v. Fièn) Fieno. Ricordo come si segava, rastrellava e raccoglieva in fàsi de fèn che si legavano con la fune e che poi i contadini si alzavano sulle spalle e portavano dal bosco sullo spiazzo dove, con arte, costruivano la méda (v.). FENÌL, s.m.: (v. Finìl) Fienile. FENÒCIO, s.m.: (v. Finòcio) Finocchio. Pianta aromatica che si teneva nei pressi dei campi e che si usa per aromatizzare i faşoi in tecia, oppure per dare maggior gusto alla frittata. Usato anche per definire la persona che oggi verrebbe identificata di tendenze gay ossia omosessuali. In questo secondo caso, almeno a Isola, era più frequente l’uso del termine chèca (v.). FERÀCIA, s.f.: Bottone metallico. Termine sparito con l’impero austro-ungarico. Secondo la testimonianza di A. Vascotto, feràcia era il bottone di ferro zincato che si trovava sulle uniformi da lavoro dei soldati austro-ungarici. FERÀL, s.m.: (v. Faràl) Fanale. Lampione. Filastrocca raccolta da A. Vascotto: La bànda la vén, la bànda la vén, - La bànda militàr! La banda militàr! – Soldài pòrta ferài, ferài pòrta soldai. – La bànda la vén, la bànda la vén. La bànda militàr! Prima dell’introduzione dell’illuminazione elettrica per le vie isolane, erano in vigore i lampioni del gas, per cui ogni sera, ad una certa ora, l’addetto comunale passava dall’uno all’altro per accenderli, ed era conosciuto come l’impìsaferài (v.).

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FERAMÈNTA, s.f.: Negozio di ferramenta. Negozio con materiali di metallo. FERÀTA, s.f.: Ferrovia. Riportata anche dalla canzone popolare nata all’indomani della Parensàna (v.): e adèso che gavèmo la stràda feràta in mèşa şornàda se vièn e se va... FERÌ, agg.: Ferito. FERÌDA, s.f.: Ferita. FERÌR, v.: Ferire. FERMÀDA, s.f.: Fermata. FERMÀR, v.: Fermare. Arrestare. FÈRMO, agg.: Fermo. Immobile. Cognome di una vecchia famiglia isolana. Un tempo conosciuti soprattutto per il sopranome di Papafìgo (v.). FÈRO, s.m.: Ferro. Metallo. Féro de sopresàr; féro de cavàl; féro pàr fàr i rìsi = ferro per arricciare i capelli. Bàter el féro fin che a şé càldo. Stòmigo de féro. Tocàr féro. Ferovècio. FEROVIÈR, s.m.: Ferroviere. FÈSA, s.f.: Feccia. Lievito. Fésa de vin = il deposito che si forma sul fondo delle botti. FÈTA, s.f.: Fetta. Pàsime ‘na fèta de pàn. FETÌNA, s.f.: Fettina. Piccola fetta. Dal macellaio il termine veniva usato per le bistecche. La me dàghi n’una fetìna de vidèl. FÈVA, v.: (v. Faséva) Faceva. Voce del verbo fàr = fare, che, evidentemente, ancora nei primi decenni del secolo scorso doveva essere consuetudinario a Isola, poi sostituito da faséva, probabilmente sotto la spinta della parlata triestina e italiana. Nella versione antica è presente anche nella testimonianza di fine Ottocento del prof. Morteani.


FÈVRE, s.f.: (v. Fèbre) Febbre. FÌA, s.f.: Figlia. Ragazza. Fìa de ànema = figlia adottiva. Schisàrghe de òcio àla màre pàr ciavàrghe la fia. FIÀ, s.m.: Fiato. Alito. Respiro. Un fià = un poco. Me mànca ‘l fià. Fin che şé fià şé sperànsa. Ghe spùsa el fià. No’l gà un fià de creànsa. FIÀCA, s.f.: Fiacca. Svogliatezza. Debolezza. Calma. Par fàrle bén, le robe bişogna fàrle co’ la fiàca. A no gà vù mai vòia de lavoràr, ghé piaşéva sempre bàter fiàca. Gò ‘na fiàca che no te dìgo.

FICÒN, s.m.: (v. Cavarìo. Piròn) Tuffo. A se gà butà in acqua de ficòn e a gà batù la sùca su ‘n scòio. FIDELÌNI, s.m.pl.: Pastine per il brodo. FIÈN, s.m.: (v. Fèn) Fieno. FIÈRA, s.f.: Fiera. Festa paesana. Solitamente legata a qualche Santo patrono: a Isola era particolarmente ricca e vivace la Fiera de San Donà, uno dei Santi protettori della città. L’altro è San Mauro, cui è intestato anche il Duomo.

FIACHÈR, s.m.: Conduttore di carozza pubblica.

FÌFA, s.f.: (v. Spàgo o Spaghéto) Paura. Fifa.

FIADÀR, v.: Fiatare. Respirare. De quél che te gò dìto no stà fiadàr con ànema vìva.

FIFÀR, v.: Piagnucolare. Frignare. FIFÌO, s.m.: Paura. Spavento. Fifa. Gavér fifìo.

FIANCONÀDA, s.f.: Fiancata. Facciata laterale.

FIFÒN, agg.: (v. Fifòto) Piagnone, piagnucoloso pauroso.

FIAPÌR, v.: Appassire. Afflosciare.

FIFÒTO, s.f.: Piagnone. In pratica è lo stesso significato di Fifòn (v.), ma lo riportiamo soltanto perché il termine è compreso nell’elenco di parole dialettali isolane pubblicato nel 1888 dal prof. Morteani nella sua Storia di Isola. Farebbe parte di una serie di voci riferite allo studioso da una signorina Delise, per la quale fiffotta = una che piange facilmente.

FIÀPO, agg.: Floscio. Appassito. Molle. Flaccido. Ànca éla la gà i sùi àni: oramài la gà le néne fiàpe. FIASCA, s.f.: Bottiglia. Fiasco. FIASCÒN, s.m.: Bottiglione. Damigiana. FIASCÙME, s.m.: Nero di seppia. Veniva usato per cucinare il Rişòto nero (v.). FIÀSTRO, s.m.: Figliastro. FIÀSTRA, s.f.: Figliastra.

FÌGA, s.f.: (v. Mòna) Vagina. Sesso femminile. Femmina. Şé pròpio ‘na béla fìga.

FICÀDA, s.f.: Inganno. Imbroglio. A gà ciapà ‘na ficàda che non se la dişmentegherà mai più. Stavolta te me la gà ficàda.

FIGÀ, s.m.: (v. Fegà) Fegato, ma anche coraggio, audacia. Pàr andàr con quela ghé vòl gavér figà.

FICÀR, v.: Ficcare. Infilare. Inserire con forza. Ficàrghela = ingannare qualcuno, farla a qualcuno. Şè un de quèi che a ghe piàşi ficàrse pardùto. No stà ficàr i dédi in tel nàşo. El se fìca pardùto.

FIGHÈRA, s.f.: Fico (la pianta del fico).

FIGÀDA, s.f.: Bravata. Impresa ben riuscita.

FIGHÌN, s.m.: Fichetta. Bella ragazza.

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FÌGO, s.m.: Fico (il frutto). I più bòni şé i fìghi con la giòsa. No me frèga un fìgo sèco. FIGÒN, s.f.: Accrescitivo di fica. Solitamente usato per indicare una bella ragazza. La şé un figòn de mùla. FÌGO SCUFIÒTO, s.m.: Tipo di fico. Dolce, grosso e oblungo. FIGURA, s.f.: Figura. Comportamento. Illustrazione. Figura pòrca. Fàr béla figùra. Figùra de mòna. Şé un libro pién de figure. FIGURÀSA, s.f.: Figuraccia. Brutta figura. No stà dìrme che con quel capél gò fàto ‘na figuràsa. FIGURÌN, s.m.: Figurino. A şè vestì come un figurìn. FIGURÒN, s.m.: Figurone. Bella figura. Iéri séra gò fàto un figuròn. FÌL, s.m.: Filo. Fìl de féro, fìl de spagna = filo per il parangàl (v.). Fìl de àse = filo per tagliare la polenta, Fìl de cuşìr. Molàrghe el fìl ch’el şvòli. FILÀ, agg.: Affilato. Persona magra. Persona patita. FILÀDA, s.f.: Lavata di capo. FILÀGNA, s.f.: Filari di viti o di alberi. FILÀR, v.: Filare. Correre. Andarsene. Fìla via. Co’ i gà finì de magnàr i şè filàdi vìa come un rèfolo de bòra. FILSPINÀ, s.m.: Filo spinato. FÌN, agg.: Fino, sottile, pregiato, di valore. Şé ròba de fìn. FÌN, avv.: Fino. Sino. Addirittura. Perfino. Persino. Fine. Tòio şé un tìpo de fìn. Bòna fìne e bòn prinsìpio. FÌNA, avv.: Finché. Fino a quando. Te speto fìna che finìsi.

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FINÌL, s.m.: (v. Fenìl) Fienile. FINÒCIO, s.m.: (v. Fenòcio) Finocchio. Termine usato anche per indicare persona di tendenze omosessuali. FÌNTA, s.f.: Finta. Scherzo. Finzione. Fémo fìnta che sia véro. Fàr fìnta de no capìr. FÌO, s.m.: (v. Fiòl) Figlio. Figliolo. Ragazzo. Bambino. FIÒCO, s.m.: Fiocco. Nastro. Scherzo. Ciòr pàl fiòco – Prendere in giro. FIÒL, s.m.: (v. Fìo) Figlio. Bambino. Fiòi e colòmbi sporca le càşe. FIÒLA, s.f.: Figlia. Figliola. Bambina. FIOLÙSO, s.m.: Figliòlo. FIOLDONCÀN: escl.: (v. Natodoncàn) Figlio d’un cane. Imprecazione che normalmente non aveva significato oltraggioso e non veniva nemmeno interpretata come tale. Più che altro era un modo di dire e di intercalare il discorso riguardante delle persone, anche in modo scherzoso. FIONDA, s.f.: (v. Flònda) Fionda. Chi non se la ricorda tra i giochi da ragazzi. Oggi se ne vedono ben poche e anche quelle poche comperate al supermercato. Una volta erano tutte selfmade, costruite con il solito britolìn (v.) scegliendo bene il ramoscello biforcuto e l’elastico ritagliato a strette strisce dalla camera d’aria di una bicicletta. FIÒR, s.m.: Fiore. Farina di frumento. Fiòr de forménto. Fiori de Màgio. Fiòr de vìn. FIORÈTO, s.m.: Fioretta. Lo strato che si forma sulla superficie del vino, quando sta per diventare acido e che è dovuto alla presenza di funghi.


FIORIN, s.m.: Fiorino. Moneta austriaca: un fiorino = 2 corone = 50 soldi = 100 centesimi. FIORÌR, v.: Fiorire. FIÒSO, s.m.: Figlioccio. FIÒSA, s.f.: Figlioccia. FISÀ, agg.: Fissato, maniaco. FISÀR, v.: Fissare. FIS’CIÀDA, s.f.: Fischiata. FIS’CIÀR, v.: Fischiare. Co’ te rìvi a Capitél sòra Saléto, te senti la bòra come che la fìs’cia! Indovina quàla récia me fìs’cia? FIS’CÈTO, s.m.: (v. Subiòto. Fis’ciòto) Fischietto FÌS’CIO, s.m.: Fischio. Co’ rìvo te màndo un fìs’cio! El fìs’cio del vapòr. FIS’CIÒTO, s.m.: (v. Subiòto. Fis’céto) Fischietto. FISÈTA, s.f.: (v. Patrona) Cartuccia. Quella di cartone per il fucile da caccia. FÌSO, agg.: Fitto. Fisso. Denso. A mì me piaşe la minéstra fìsa. A me gà vardà fìso int’ei òci. FIŞOLÈRA, s.f.: Fisoliera. Termine marittimo preso dal veneziano antico (XVI sec.) per tipo di barca stretta e allungata. “Barchetta lunga e stretta molto leggera e usata, soprattutto nella laguna veneta, per la pesca del fişòlo o colombo minore e spinta da 6 a 8 rematori” come descritto dal Vocabolario Giuliano del Rosamani. A quanto sembra, qualche esemplare è ancora in uso nella laguna veneta per la caccia ad alcune specie di uccelli acquatici. Il termine è presente anche nelle più recenti edizioni del Nuovo Dizionario della Lingua Italiana Oli-Devoto. Per quanto riguarda Isola, invece, più precisa la descrizione del Caprin che

testimonia: “molto in uso per i contrabbandi d’Isola con Trieste” e, più avanti “di autunno salivano con le fusoliere i fiumicelli friulani, per andar a vendere nei villaggi e paesetti le mastelle di anguille ammarinate, le sardelle poste sotto aceto brusco, e ritornavano, stupendo quadretto, coi cartocci del formentone che serviva ad empire i sacconi dei letti”. Inutile sottolineare che il termine è ormai da tempo scomparso dalla parlata isolana, come pure questo tipo di barche, praticamente da quando – con la fine della Serenissima (1797) – è finita anche l’impellenza di contrabbandare propri prodotti a Trieste e nel Friuli. FITUÀL, s.m.: (v. Afituàl) Affittuario. Locatario. FIUMÈRA, s.f.: Fiumana. Torrente impetuoso. Folla di persone. FLÀIDA, s.f.: Vestaglia. Grembiule. Soprabito da lavoro. FLÌCA, s.f.: Moneta. Soldino. Con questo nome era conosciuta la moneta da 20 centesimi del Regno d’Italia. A Isola venne introdotta con l’avvento dell’Italia dopo la I guerra mondiale. Successivamente la moneta venne cambiata, ma il nome rimase, anche per indicare il denaro in genere. Sòn restà sénsa una flìca. Quéla ròba no vàl una flìca. FLÒCIA, s.f.: Bugia. Menzogna. Fandonia. No stà contàr flòce. FLOCIÀR, v.: Mentire. FLOCIÒN, s.m.: Bugiardo. Mentitore. FLÒNDA, s.f.: (v. Fionda) Fionda. FLONFLÒN, s.f.: Grassona. Donna malvestita. Donna di facili costumi. Làsela stàr che la şé ‘na flonflòn.

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FOCÀTICO, s.m.: Focatico. Al tempo di Francesco Giuseppe era una specie di imposta di famiglia che rimase in vigore anche dopo il ’18 con la venuta dell’Italia. Poi, l’imposta rimase, ma cambiò nome. Secondo A. Vascotto il termine deriverebbe dal latino focus = focolare. FÒDRA, s.f.: Fodera (dei vestiti). Federa (dei cuscini). Sembra che significasse anche un vicolo stretto che collegava due vie più importanti, oppure piccole vie poco frequentate. FODRÀR, v.: Foderare. Rivestire. Gò fàto fodràr le vécie caréghe, e déso le şé come nòve. FÒDRO, s.m.: Fodero. Guaina. FÒFO, agg.: Floscio. Molle. Soffice. Grasso. FOGHÈRA, s.f.: Braciere. Forno. Stufa. Da qualche parte sono ancora visibili presso i rivenditori di caldarroste. Un tempo queste stufe venivano usate anche per cuocere lungo la strada i mùsoli (v). FÒGNA, s.f.: Fogna. Molto spesso, per antonomasia, con lo stesso termine veniva indicato anche il pozzo nero, ancor oggi presente in alcune zone del contado isolano, dove non sono arrivate le condutture della rete fognaria cittadina. FÒGO, s.m.: Fuoco. Falò. I fòghi de San Piero. I fòghi del primo de màio. Còro a càşa parchè gò i faşòi sul fògo. Pàr lù, mi no metarìa la màn sul fògo. FOGOLÈR, s.m.: (v. Spàcher) Focolare. Fogolér giasà, tardi se magnarà. Al contrario di oggi, il fogolér serviva per cucinare, per avere in casa acqua calda e per riscaldare l’ambiente: d’inverno

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si teneva acceso tutto il giorno proprio per avere caldo in cucina, che, poi, era l’unico posto dove donne e bambini passavano la giornata. FÒIA, s.f.: Foglia. Fòie de formentòn: quéle più sàne sérvi per fàr un bòn paiòn. FÒIBA, s.f.: Foiba. Voragine carsica. Per la verità è un termine che nella parlata isolana è comparso soprattutto verso la fine e all’indomani della Seconda Guerra mondiale, sulla scia delle tristemente famose notizie del periodo postbellico. Un termine che, comunque, dalle popolazioni locali veniva pronunciato sottovoce e con paura, proprio per i toni di tragedia che si portava appresso e sui quali parte delle politiche locali continuano a tessere le loro fortune partitiche. Con il termine di fòiba, tuttavia, era conosciuto da sempre il fenomeno carsico rappresentato dall’abisso sotto il castello di Pisino: la fòiba de Pişìn. FOÌNA, s.f. Faina. FÒLA, s.f.: Mantice del fabbro. FOLÀR, v. Follare. Pigiare l’uva. Fòlo è anche il soprannome di una famiglia isolana che probabilmente deriva da questo verbo. FÒLI, s.m.pl.: Mantici dell’organo in chiesa. Tiràr i fòli = ansimare. FÒLO, s.m.: Soffietto. Mantice. Quello a mano per polverizzare lo zolfo sull’uva. Il termine serviva anche da soprannome ad una antica famiglia di contadini e viticultori isolani che, per fortuna, con la loro attività e con il termine assegnato ai loro vini, sono ancora presenti sul nostro territorio. FÒLPO, s.m.: (v. Sèpa) Folpo. Mollusco comune nel nostro mare assieme alla seppia.


FONDÀCIO, s.m.: Fondo. Residuo del caffè. El caffè coi fondàci sèrvi ale vèce per stroligàr (v.). FONDÀL, s.m.: Fondale marino. FONDAMENTO, s.f.pl.: Fondamenta. Basamento. Base. FONDÀR, v.: Affondare. Fòra de Punta Vilişàn i gà fondà el Rex. FONDINA, s.f.: Scodella. Piatto fondo. FÒNDO, agg.: Profondo. Fòra de Ronco el màr a sé sài fòndo e là se pésca bén. FÒNDO, s.m.: Fondale. Fondo. Quéla càşa şé un bùşo sénsa fòndo. FONTÀNA FÒRA, top.: Conosciuta anche con il nome El Fontanòn (v.) ha rappresentato per secoli l’acqua madre per tutti gli Isolani. Della sua esistenza si ha notizia fin dal XIII secolo, tanto che secondo alcuni, molti naviganti venivano a far provviste d’acqua proprio qui. Negli anni anche il nome subiva qualche modifica, per cui era conosciuta anche come Fontana Granda. Era situata poco dopo la porta d’entrata a Isola, sulla via che portava verso San Simone, e che al tempo dei romani doveva far parte della strada verso Pirano. Addirittura nella prima carta geografica dell’Istria di Pietro Coppo, tra le altre cose di Isola, viene segnata anche questa fontana. Era comunque il punto di riferimento idrico per tutta la città. Ai tempi delle provincie illiriche lo spazio venne ristrutturato e ulteriormente ampliato, come si vede da alcuni cartoline d’epoca. L’acqua eccedente finiva in una grande vasca, detta appunto fontanòn, dalla quale usciva per riempire il lavatoio. Rimase in funzione fino all’inaugurazione

dell’Acquedotto Istriano negli anni Trenta del secolo scorso e l’amministrazione comunale provvedeva alla sua pulitura almeno una volta all’anno. Della bontà e della qualità della sorgente testimonia il vescovo Tommasini che, nel descrivere la produzione isolana del vino e dell’aceto, sottolineava come quest’ultimo “viene venduto ai marinai e serve ai vascelli con grandissimo utile degli abitanti e si dà la causa all’acqua di quella loro fontana, che sta vicino alla terra così abbondante”. FONTANÒN, s.m.: Fontanone. Grande cisterna. Con questo nome veniva indicata la grande vasca situata presso Fontana Fora (v.) nella quale l’acqua entrava da una parte e ne usciva dall’altra. Serviva sia per abbeverare gli animali, ma anche, dopo la ristrutturazione apportata dagli austriaci, per far la lisia (v.), ovvero il bucato. FÒNTEGO, s.m.: Fondaco. Magazzino delle riserve comunali. Il suo funzionamento si trova descritto in alcuni capitoli dello Statuto medievale di Isola. Così, il capitolo 90 che parla del “Fontegaro del Comun” e stabilisce perentoriamente “statuimo, che quello, che sarà eletto all’Officio della Fontegaria, et resterà in detto Officio compido il suo Officio non possi esser eletto in detto Officio in sei Mesi prossimi venturi, et se sarà eletto manchi di fermezza detta elettione”. La costruzione del Fondaco isolano venne portata a termine nel 1585 e, da allora, mantenne il suo ruolo di magazzino e riserva dei viveri per la popolazione fino all’arrivo dell’Austria.

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FÒRA, avv.: Fuori. Fontàna Fòra, perché era situata fuori dalle mura che recintavano Isola. Fòra el dente, fòra el dolòr. Fòra me ciàmo. No ghe végno mai fòra. FORAVÌA, avv.: Al di fuori. Fuorché. Eccetto. FORBÌDA, s.f.: Pulitura. Spolverata. Prima de ‘ndàr vìa, daghe una forbìda al nàşo. FORBÌR, v.: Forbire. Asciugare. Pulire. Ciò, mùlo, forbite el nàşo, no te védi che te sòn mocolòşò (v. Mòcolo)? FÒRCA, s.f.: Forca. Forcale. FORCÀDA, s.f.: Palo. Palo di legno, solitamente di acacia (v. càsia) che, provvisto di punta e conficcato nel terreno, serviva a sostenere i filari delle viti. FORCÀL, s.m.: Forca. Forcale. Con manico di legno e punte in legno o ferro per lavorare e raccogliere il fieno. FORCÀSO, s.m.: Forcone. FORCHÈTA, s.f.: Forcina per capelli. La forchetta della lingua italiana a Isola, ma anche in Istria, si chiamava piròn (v.). FORESTO, agg.: Forestiero. Straniero. Persona venuta da fuori. FÒRFE, s.f.pl.: Forbici. Cesoie. FORFIŞÈTA, s.f.: Forfecchia. Forbicina. Insetto che per la doppia coda assomiglia ad una forbice e che si trova solitamente sui frutti di pesche, mele e fichi. Si diceva ai bambini di stare attenti, perché sanno entrare nelle orecchie e poi non possono più uscire. FORMAIÈLA, s.f.: Forma di formaggio. FORMÀIO, s.m.: (v. Fromàio) Formaggio.

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FORMÈNTO, s.m.: (v. Froménto) Frumento. Grano. C’erano dei mulini a Isola, soprattutto dopo la prima guerra mondiale. Prima, però, per mancanza di fiumi e torrenti, non esistevano Mulini ad acqua. L’unico che mi ricordo ancora funzionante per qualche anno si trovava a Strugnano sulla riva destra del fiume che porta alla saline, prima del ponte. L’edificio, ristrutturato, esiste ancora, ma delle pale del mulino nemmeno l’ombra. Alcuni ben conservati, invece, si trovano lungo il Dragogna. FORMENTÒN, s.m.: Mais. Granoturco. FORMÌGA, s.f.: (v. Farnigola. Fornìgola. Farmìgola. Formìgola) Formica. FORMÌGOLA, s.f.: (v. Farnigola. Fornìgola. Farmìgola. Formìga) Formica. Gò el pìe informigolà. FORMINÀNTE, s.m.: (v. Furminànte) Fiammifero. Zolfanello. Zolfanelli erano quelli con la capocchia di zolfo, detto anche spetimeunpòco (v.) in commercio prima che arrivassero gli “svedesi”. FORNAŞÈTA, s.f.: Fornelletto. Braciere in terracotta. FORNÈR, s.m.: Fornaio, panettiere (v. Pek). Secondo il Vascotto, prima della guerra a Isola c’erano ben cinque forni, almeno come se li ricordava lui: “quel del Bacàn, vicino alle scuole, quel de Viola in via Besenghi, angolo con vicolo Egidio, quel dela Piranèsa, vicino alla chiesetta di San Giovanni, quel de Ràlsa, in vicolo Porta Ughi, e infine quel fora, tacà al campo de Balòn”. FORNÌGOLA, s.f.: (v. Farnigola. Formìgola. Farmìgola. Formìga) Formica.


FÒRNO, s.m.: Forno. FÒRSA, s.f.: Forza. Ròba fàta pàr fòrsa no vàl una scòrsa. FÒRSI, avv.: Forse. Fòrsi che si, fòrsi che no. FORTUNÀL, s.m.: Fortunale. Maltempo. Burrasca. FOSÀL, s.m.: Fossato. Canale. Come noto, Isola un tempo era circondata nella parte sud-orientale (quella prospiciente il mare aperto) da alte mura che avevano il compito di difendere la città da eventuali attacchi nemici. Le mura arrivavano quasi fino al mare, per cui la zona tra il mare e le mura veniva chiama Fosàl, termine in uso ancora alla fine del XIX secolo. Il fosàl, che probabilmente si estendeva anche su parte del terreno che nei decenni era stato sottratto al mare tra Le Porte e le Saline, era oggetto di attenzione anche da parte delle autorità municipali, tanto che nello Statuto del 1360, il capitolo 36 recita appunto “Del Bando del Fossato”, stabilendo “..che per l’avvenir dal primo giorno del Mese di April fin, à S. Pietro, tutti gli Anemali siano banditi dal Fossato di Comun in pena di pagar soldi quattro per ciascuno, et ogni volta che saranno ritrovati, cioè Bovi, Cavalli, et Asini, le pecore veramente siano in perpetuo bandite dal fossad; et se alcuno le ritroverà. ne pigli dui da un Quarnaro in sù, et una da un Quarnaro in giù di quelle, che saranno ritrovate in danno, et della pena dui parte pervenghino nel Comun, et la terza all’inventor. Per li porci veramente paghi soldi quattro per ciascuno, et in ogni tempo siano banditi dal fossado: Et se Bò, Cavallo, ò Asino sarà ritrovato di Notte pascolando in esso fossato fra li suoi termini paghi soldi diese per ciascuno.

FÒSENA, s.f.: Fiocina. Arpione. De séra, co’ la fòsena e la lampàra pìcia impisàda se andava a ciapàr fòlpi e sépe. FÒSO, s.m.: Fosso. Canale. Ròşiga stò òso o sàlta stò fòso. FÒTA, s.f.: Rabbia. Collera. Ira. FOTÌO, s.m.: Grande quantità. Ghe iéra un fotìo de génte. FRACÀDA, s.f.: Spinta. FRACAGNÀ, agg.: Sgualcito. Premuto. Pigiato. Pressato. Dopo che a gà ciapà quel pùgno, a gà ‘l nàşo dùto fracagnà. FRACÀR, v.: Pigiare. Spingere. Schiacciare. Stringere. FRACASÀR, v.: Fracassare. Schiacciare. FRÀCO, s.m.: Molto. Tanto. Peso. A gà ciapà un fràco de bòte. Il fràco era anche un grosso peso che si collocava sopra il coperchio dei recipienti dove si mettevano a conservare i sardoni oppure i cappucci acidi (capùsi garbi v.) per accelerare con la pressione l’uscita dell’acqua. Lo stesso sistema veniva usato anche per mettere sotto peso i prosciutti, una volta cosparsi di sale e di spezie. FRADÈL, s.m.: (v. Fardél) Fratello. Fradéi, cortéi. Fradéi e parénti, come màl de dénti. FRADELÀSTRO, s.m.: Fratellastro. FRAGNÒCOLA, s.f.: (v. Crùsca) Buffetto con le dita. Colpetto dato in testa con un dito teso, inarcato e poi lasciato di colpo distendersi con schiocco. FRAGOLÒN, s.m.: Fragola. Il termine accrescitivo veniva usato probabilmente perchè le nostre fragole, e in particolare quelle che venivano da Strugnano, erano molto grosse. Il termine fràgola,

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invece veniva usato per indicare le fragolette di bosco. FRÀIA, s.f.: Festa. Allegria. Abbuffata. FRAIÀR, v.: Far festa. Scialacquare. Forse intesa in senso eccessivo. FRAIÈLA, s.m.: Spendaccione. Persona di manica larga. FRÀIER, s.m.: Vanitoso. Persona piena di sè. Persona che ama mettersi in mostra. FRAIÒN, s.m.: Bontempone. Scialacquatore. FRÀNŞA, s.f.: Frangia. Di capelli, ma anche di tessuto. FRÀSCA, s.f.: Frasca. Fronda. Ramo di arbusto. FRASCHÈTA, s.f.: Donna di facili costumi. FRÀSCO, s.m.: Frasco. Fronda. Rametto. Con questo termine veniva indicata pure la vendita temporanea di vino direttamente dal contadino. Il frasco appeso sopra la porta indicava, appunto, che lì si poteva bere del vino. Il ramo d’ulivo stava a segnalare la mescita di vino bianco, il rametto di ginepro, invece, la presenza di vino rosso, che a Isola si diceva sempre vino nero. FRÀSENO, s.m.: Frassino. FRASÒRA, s.f.: (v. Farsòra) Padella. FRATÀSO, s.m.: Tavoletta con impugnatura per lisciare l’intonaco. Oggi lo strumento usato dai muratori è di plastica. FRATASÀR, v.: Lisciare l’intonaco. FRÀTE, s.m.: Frate. Monaco. Il gioco del Frate: El fràte gà pèrso le savàte, el nùmero dò le ga trovà. Chi mì? Ti sì. Mi no. Chi po? El numero sìe.. e così avanti passando per tutti i numeri.

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FRÈGA, s.f.: Fregola. Èser in fréga = essere in fregola, essere in amore. FREGÀDA, s.f.: Inganno. Imbroglio. Raggiro. Truffa. Fregatura. Strofinamento. Raschiatura. Ògi no poso vignìr che gò de fregàr el palmento dela cuşìna. FREGADÙRA, s.f.: Fregatura. Inganno. FREGÀR, v.: Imbrogliare. Raggirare. Ingannare. Strofinare. Raschiare. Rubare. A gà fregà duto quél che se podéva fregàr. A me gà fregà. FRÈGOLA, s.f.: Briciola. Frégola de pàn. Dàme una frégola che sérco = dammene una briciola che l’assaggio. FRÈN, s.m.: (v. Şlàif) Freno. FRESCHÌN, s.m.: Puzza di pesce andato a male. Olezzo. Il termine, probabilmente, è proprio in contrapposizione al valore del pesce fresco. ‘Sti sardòni i sà de freschìn. FRESCO, agg.: Fresco. No me fa né càldo né frésco. Ovi fréschi. El gà finì le scòle de frésco. FRESCOLÌN, s.m.: Aria fresca. FRÈVE, s.f.: Febbre. Vocabolo antico presente nel dizionario di A. Vascotto, ma ormai completamente dimenticato e sostituito dal più consono alla lingua italiana Fébre (v.). FRIGNÀR, v.: Frignare. Piagnucolare. FRÌSE, s.f.pl.: Ciccioli. Quanto rimane dopo aver fatto scaldare il lardo e tolto tutto il grasso. FRÌŞER, v.: Friggere. Viene usato anche per definire chi chiacchiera in continuazione o per donna o bambino piagnucoloso. La sé ‘na


tàsanime (v.) che no la finìsi mai de frìşer. FRISÒPA, s.f.: Briciola. Piccolo pezzo. ‘Ndàr in frisòpa = sbriciolare. Da qui anche il modo di dire far sòpa (v.) = immergere pezzettini di pane nella minestra o nel brodo per ammorbidirli e renderli meno acquosi. FRITÀIA, s.f.: Frittata. FRÌTOLA, s.f.: Frittella. Il dolce tipico, assieme alla pìnsa (v.) delle feste natalizie. Ciàcole no fa frìtole. FRITOLÌN, s.m.: Friggitoria. FRITÙRA, s.f.: Frittura. Fritùra mista; fritùra de pòrco, òio de fritùra. FROMÀIO, s.m.: (v. Formàio) Formaggio. FROMÈNTO, s.m.: (v. Forménto) Frumento. Grano. FRÒNŞOLI, s.m.pl.: Abito con ornamenti vistosi. La se gà méso una còtola piena de frònşoli. FRONTÌN, s.m.: Visiera di berretto. Abitudine di molti contadini (campagnòi v.) portare sempre in testa dei berretti piatti con visiera. Meno usati quelli più alti che, pur disponendo di una visiera, erano più ingombranti e, soprattutto, facevano somigliare al berretto che portavano i gendarmi austriaci assieme all’uniforme. FRUGÀR, v.: Consumare. Logorare. No sta frugàr tanto el mànigo che te lo frùghi dùto. A gà le bràghe e le scarpe dute frugàde. FRUSTÀGNO, s.m.: Fustagno. stoffa grossa e calda. Si usava per gli indumenti da indossare nei mesi invernali. FÙFIGNA, s.f.: Raggiro. Imbroglio. Atto disonesto.

FUFIGNÀR, v.: Sciupare. Sperperare. Imbrogliare. In do ore a se gà fufignà dùti i schéi dela pàga. FUFIGNÒN, s.m.: Persona scorretta. Imbroglione. Scialacquatore. No stà méterte con lù, che a şé un fufignòn. FUGOLÈR, s.m.: (v. Fogolér) Focolare. In uso fino all’arrivo delle cucine elettriche. FUMADÒR, s.m.: Fumatore. FUMÀR, v.: Fumare. FUMÈRA, s.f.: Locale pieno di fumo. Àra che fumèra gavè fato quà drento. FUMIGÀ, agg.: (anche Fumigàdo) Affumicato. Porsìna fumigàda. FUMIGÀR, v.: Affumicare. Succedeva spesso, soprattutto durante le giornate di bassa pressione quando i camini ”tirano” poco che per accendere il fuoco, magari con fraschi un po’ umidi, di avere la cucina piena di fumo e di essere ben fumigài. FÙMO, s.m.: Fumo. Così chiamato anche un gioco che da ragazzi si faceva spesso in strada e più si era più era interessante. (Anche él şògo dela cavaléta). I ragazzi si mettevano uno dietro l’altro a qualche metro di distanza, si piegavano in avanti poggiano le mani sulle ginocchia per mantenersi saldi. L’ultimo della fila prendeva la ricorsa e scavalcava poggiano le mani sulla schiena per spiccare il salto tutta la fila. Arrivato all’ultimo anche lui prendeva la stessa posizione lasciando che sia il successivo a fare lo stesso. Man mano che il gioco durava la fila di ragazzi si spostava lungo tutta la via, magari per tornare alla fine nuovamente al punto di partenza. Le ragazze

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non vi partecipavano: allora per le donne non erano ancora di moda i pantaloni e le gonne, ancorché larghe, non erano indicate per questo genere di gioco. FÙNTO, s.m.: Funto. Libbra (peso di circa 560 gr. introdotto al tempo degli austriaci). A Isola la voce rimase anche in seguito, ma non per indicare il peso. Solitamente era usata per indicare un bicchiere di vino. Me sòn fàto un fùnto de nero. FURLÀN, s.m./agg.: Friulano. inteso anche nel senso di persona scaltra. FURMINÀNTE, s.m.: (v. Forminànte) Fiammifero. Zolfanello. FUŞÌL, s.m.: Fucile. Schioppo (v. S’ciòpo). FUŞÌNA, s.f.: Fucina. Officina. FUSTÀGNO, s.m.: Fustagno. Tippo di tessuto caldo e robusto. FÙSTO, s.m.: Botte. Barile. Caratello. Tronco d’ albero. FUTISÀR, v.: Pasticciare. Lavorare male. Lavorare senza impegno. Se te me futìsi ‘sto lavòr te màndo via (G. Mancini-L.Rocchi). FUTISÒN, s.m.: Pasticcione. Persona non precisa e sicura nel lavoro.

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Gg G, settima lettera dell’alfabeto italiano. GÀ, v.: Ha. Voce del verbo avere (v. Gavér). Mi gò, ti te gà, lù a gà, noi gavèmo, voi gavè, lòri i gà. GABÀNA, s.f.: Gabbana. Cappotto. Usato anche come soprannome. GABÀR, v.: Ingannare. Imbrogliare. Frodare. GABÌNA, s.f.: Cabina. La gabìna de bàgno de Porto Apollo.

o la macchina dall’ambiente circostante. GALANTÒMO, s.m.: Galantuomo. A lù se pòl crèderghe parchè a şè un galantòmo. GALÈRA, s.f.: Prigione. Se a và ‘vanti cusì, prima o dopo a finirà in galèra. GALÈTA, s.f.: Bozzolo del baco da seta. GALÈTO, s.m.: Galletto. Bullone. Dotato di alette per facilitare l’avvitamento è usato soprattutto per le ruote delle biciclette. In senso figurativo persona che si pavoneggia o assume atteggiamenti provocanti.

GABINÈTO, s.m.: Stanzino, cesso. A. Vascotto che con il suo Dizionario della parlata isolana rappresenta anche una specie di memoria storica della nostra cittadina, racconta che con il nome di “Gabinetto” veniva chiamato un locale in un piccolo edificio nelle vicinanze di palazzo Besenghi, in cui aveva sede la “VIS” e successivamente l’ azione Cattolica Maschile. Il “Gabinéto” venne devastato dai fascisti nel 1931, anche se rimase sede dell’Azione Cattolica e di altre associazioni, come la Confraternita di S. Vincenzo e della Filodrammatica Maschile fino all’esodo del 1954-55. Il Vascotto non identifica l’edificio, ma abbiamo motivo di supporre che si trattasse dell’edificio della Scuola dei Battuti, uno dei più antichi di Isola.

GALÌA, s.f.: Centopiedi.

GABIÒTO, s.m.: Stanzino. Casotto. Baracchino. Sgabuzzino. Deriva da gabbia per le dimensioni ridotte e perché, solitamente, situato e costruito all’interno di stanzoni più grandi per isolare la persona

GAMBARIÒLA, s.f.: (v. Gambéta) Sgambetto.

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GALÌNA, s.f.: Gallina. Galìna vécia fa bòn bròdo. La galìna che cànta gà fàto l’òvo. Şé méio un òvo ògi che una galìna domani. GALIÒTO, s.m.: Galeotto. Lestofante. Pur derivando da un significato negativo, spesso veniva usato scherzosamente anche per definire una persona vivace, soprattutto con le donne. GÀLO, s.m.: Gallo. (v. punta de Gàlo - toponimo) GALOPÌN, s.m.: Fattorino. Galoppino. GALÒSE, s.f.pl.: Galosce. Soprascarpe di gomma. GÀMBA, s.f.: Gamba, gambo. Gàmba de sélino (v.). Le gàmbe me fa Iàcomo. A şé un mùlo in gàmba. Setantaséte, le gàmbe déle donéte. Chi no gà tésta gà gàmbe.

GÀMBERO, s.m.: (v. Grànso) Gambero. Granchio. GAMBÈTA, s.f.: (v. Gambariòla) Sgambetto.


GAMBIÀR, v.: (v. Cambiàr) Cambiare. GAMBÙSA, s.f.: Cambusa. GAMÈLA, s.f.: Gammella. Gavetta. GANÀSA, s.f.: Ganascia. Guancia. Gota. GÀNFO, s.m.: (v. Grànfo) Crampo. Succedeva ai ragazzi che, a forza di stare troppo tempo in mare per giocare, ad un certo momento sentissero al polpaccio della gamba la morsa del grànfo. Ricordo che ci si aiutava massaggiando la gamba colpita, mentre secondo altri sarebbe stato meglio legare attorno al polpaccio un elastico magari ritagliato dalla camera d’aria di una bicicletta. GÀNGA, s.f.: Banda. Gruppo di persone. Comitiva. Baldoria: Gavémo fàto gànga fin ala matìna. Una gànga de mulòni. Che derivi dall’inglese “Gang”? GÀNSO, s.m.: Gancio. uncino. Persona scaltra. Fidanzato. Amante Mùle, sté ‘ténte de Ménigo, che a şé un gànso. Iéra ora che la se tròvi un gànso anca éla. GARANSÌA, s.f.: Garanzia. GARANTÌR, v.: Garantire. Assicurare. GARBÌN, s.m.: Libeccio. Vento da Sud-Ovest, umido e sfavorevole. GARBINÀDA, s.f.: Libecciata. GÀRBO, agg.: Acido. Agro. Acerbo.‘Sto ano el vìn me şé andà gàrbo. L’aşédo a şé màsa gàrbo, te devi şontàrghe un poco de acqua.Còs’ te me tièn el mùşo gàrbo? GARDÈL, s.m.: Cardellino. Toni a şé bravo, a canta come un gardél. GARDÈLA, s.f.: (v. Gradéla) Graticola. Par séna rostìmo i pési in gradéla.

GARDONSÈL, s.m.: (v. Grandosèl) Dente di leone. Erbacea dai caratteristici fiori gialli che successivamente si trasformano in soffioni e viene particolarmente ricercata nei campi per prepararla in insalata sia cruda che lessa con olio e aceto. GARGARÌSO, s.m.: Gargarismo. GARGÀTO, s.m.: Gola. Gargarozzo. Prima a se gà impignì el gargàto e dopo a şé ‘ndà subito via. Ciapàr qualchedun pàl gargàto. GARIBALDÌN, s.m.: Garibaldino. A quanto ci consta, a Isola ci fu un solo garibaldino, il prof. Domenico Lovisato, che fu anche amico personale di Garibaldi, come testimonia la lapide sulla facciata della sua casa natale in piazza Manzioli. E, proprio per i suoi sentimenti italiani è stato cacciato da Isola dalle autorità austroungariche. Il termine, tuttavia, in quanto aggettivo, viene usato anche per definire un lavoro fatto male: gavè fàto un lavòr àla garibaldìna. GARÒFOLO, s.m.: Garofano (sia la pianta che il fiore) Bròche de garòfolo. GARÙSOLA, s.f.: Murice. Conchiglia, mollusco univalve. GARŞÒN, s.m.: Garzone. Apprendista. A gà trovà lavòr come garşòn del marangòn. GATAFÈRA, s.f.: Animale feroce di fantasia. Serviva soprattutto per spaventare i bambini. GATIŞÌN, s.m.: Gattino. GÀTO, s.m.: Gatto (felino). Gattuccio (pesce marino). Chi sparàgna la gàta la ghe màgna. Co mànca ‘l gàto, i sòrşi bàla. GÀTO DE MÀR, s.m.: Pesce marino detto Chimera.

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GAVÈR, v.: (v. Avèr) Avere. In uso anche la forma abbreviata ‘vér (v.) Mi gò, Ti te gà, lù a gà, noi gavémo, voi gavé, lori i gà. Gavémo gavùdo = abbiamo avuto (ma anche Vémo avùdo). Gavérsela a màl. Gavarìa piasér. GÀVERO, s.m.: Arnese di legno usato nelle saline. GAVINÈL, s.m.: Falco?, Poiana? Uccello rapace. GÈMO, s.m.: (v. Giòmo) Gomitolo. GÈNDENA, s.f.: Lendine. Uovo di pidocchio. Un tempo non erano tanto rari. Il sistema più efficace per elimninarli, almeno per i maschetti, era quello di raparli a zero, a balìn (v.) oppure strofinarli più volte con il petrolio.

GENÌA, s.f.: Gentaglia. Şè pròpio ‘na brùta genìa. GERÙCO, s.m.: Stupido. Scemo. GÈTO, s.m.: Smalto. GHÈ, pron.: Ci. Vi. A lui. A lei. A loro. Ghé mànca do grani de sàl. Ghé vòl pasiénsa. Ghé gavévo dìto de no fàr ‘l furbo. GHÌNGHERI, agg.: Abito della festa. A se gà méso in ghìngheri. GIÀGIA, s.f.: (v. Gnàgna) Zia. La voce è scomparsa dall’uso già dalla fine del XIX secolo, quando – come attesta il prof. Luigi Morteani – era ancora in vita, almeno secondo la testimonianza di una certa signorina Delise.

GELÀR, v.: Gelare.

GIAGÒ, s.m.: Arco. Volto. Caratteristica costruzione delle vie isolane che in alcuni casi serviva ad ottenere un vano in più allungando l’edificio da un lato all’altro della strada.

GELÀTO, s.m.: Gelato.

GIÀLO, agg.: (v. Şàlo) Giallo.

GELATIÈR, s.m.: Gelataio. Ricordo uno dei primi gelatai a Isola dopo l’esodo della popolazione, alla fine degli anni ‘50 del secolo scorso. Ho presente soprattutto un giovane mingherlino che trasportava i gelati in un vassoio a tracolla che vendeva durante le proiezioni del cinema all’aperto dell’Arrigoni. Mi sentivo fortunato se avevo i quattro dinari (v.) per aquistare il biglietto del cinema. Molti decenni più tardi seppi che il ragazzo era il figlio di un pasticcere di nazionalità turca, da poco trasferitosi a Isola, e che - dicono - oggi sia il proprietario delle pasticcerie e gelaterie presenti nella nostra città.

GIÀNDA, s.f.: Ghianda.

GENÌA, s.f.: Gente. Collettività o gruppo di persone intese in senso negativo, malvagio.

GELSOMÌN, s.m.: Gelsomino. GEMÈL, s.m.: (v. Şemèl) Gemello. GENÀIO, s.m.: (v. Şenàro) Gennaio

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GIANDÀRMO, s.m.: Gendarme. Anche usato per definire una persona autoritarie e prepotente. GIÀRA, s.f.: Ghiaia. GIARÌNA, s.f.: Ghiaia fine. Diminutivo di ghiaia. GIASÀ, agg.: (v. Ingiasà) Ghiacciato. Freddo. Infreddolito. GIASÀR, v.: Ghiacciare. Raffreddare. GIASÈRA, s.f.: Ghiacciaia. Al tempo quando non erano stati ancora inventati i frigoriferi, la giaséra l’avevano gli osti. Altrimenti, per tenere il vino o le bevande al fresco si usava calarle nel pozzo o tenerle in cantina. GIÀSO, s.m.: Ghiaccio.


GÌGA, s.f.: (v. Dìga) Diga. Sbarramento. GILÀTO, s.m.: Gelato. GILÈ, s.m.: Panciotto. Anche in maglia, con o senza maniche, aperto davanti o con i bottoni. GINGÌVA, s.f.: (v. Şenşìva) Gengiva. GIÒMO, s.m.: (v. Gémo) Gomitolo. GIORNÀDA, s.f.: (v. Şornàda) Giornata. Lavoràr a giornàda = i contadini più poveri guadagnavano qualche soldo andando a lavorare in campagna per quelli più benestanti quando il tempo premeva per finire il lavoro. Di solito venivano impiegati per i lavori più pesanti, come zappare o, addirittura, pastenàr (v.). GIORNALÌN, s.m.: Giornalino a fumetti. È così che da bambini, e anche non più bambini, chiamavamo i fumetti: chi non si ricorda le storie del Piccolo Sceriffo, di Tex Willer, di Pecos Bill, di Mandrake, dell’Uomo Mascherato, di Flash Gordon? GIÒSA, s.f.: (v. Schìsa. Iòsa) Goccia. Giusto ‘na giòsa per provar. GIOSÀR, v.: Gocciolare. Àra che te giòsa ‘l nàso. GIÒSO, s.m.: Goccio. Me basta un giòso. GIOSÈTO, s.m.: Goccetto. Sorsetto. GIRÀNIO, s.m.: Geranio. Sia il fiore che la pianta. GIRÀR, v.: (v. Şiràr) Girare. Va là che te gìra i bàcoli (v.). GÌRISI, s.m.pl.: Pesciolini somiglianti ai sardoni, ma più piccoli, che si mangiavano volentieri fritti, magari assieme alla polenta e alle vérşe (v.). Ancora oggi si trovano in qualche osteria o friggitoria, pur se con il nome slavizzato di gìrice (si

pronuncia ghìritze). GIRLÀNDA, s.f.: Ghirlanda. GIROCARÒSE, top.: Tratto di strada tra Isola e Capodistria in località Provè (v.), dopo Punta Vilişàn, probabilmente perché a capo di un promontorio, dove la strada fa una stretta curva. Secondo altri, però, il toponimo deriverebbe (Mancini-Rocchi: Dizionario storico…) dal fatto che in quel punto della strada le carrozze provenienti da Capodistria per la passeggiata giravano per tornare indietro. Sembra, infatti, che dopo il giro sia visibile il castello di Miramare, altrimenti coperto alla vista da Punta Grossa. GIRONSOLÀR, v.: Gironzolare. Girovagare. A ghe girònşola torno ma a no ghe và visìn. GIUDÌSIO, s.m.: Giudizio Tribunale. Quél mùlo a no metarà mai giudìsio. GIUNTÀR, v.: Raccordare. Congiungere. GIUSTÀR, v.: Aggiustare. Accordare. Giustàrse = mettersi d’accordo. El témpo a se gà giustà. Giùstite la camisa. GIUSTO, agg.: Giusto. Proprio. Appunto. Preciso. Iéra giusto quel che volevo. Giusto in ‘sto moménto. GIUTÀR, v.: Aiutare. GNÀGNA, s.f.: (v. Giàgia) Zia. Usato un tempo anche in senso affettuoso. Ormai è scomparso dall’uso da parecchi decenni. GNÀGNERA, s.f.: Debolezza. Malessere. Anche di questo termine ormai si è persa la conoscenza. GNÀMPOLO, agg.: Sciocco. Stupidello. Sempliciotto.

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Solitamente usato in senso benevolo senza cattiveria. Il termine, tuttavia, deve essere risultato di un’importazione dalla vicina Trieste. GNÀNCA, avv.: Neanche. Neppure. Nemmeno. GNANFÀR, v.: (v. Tartaiàr) Balbettare. Tartagliare. GNÀNFO, agg.: Balbuziente. GNÈNTE, s.m.: Niente. Nulla. Bòn de gnénte. No fa gnénte. Nisùn fa gnénte pàr gnénte. No vòl dìr gnénte. No iéra gnénte màl. GNÒCO, s.m.: Gnocco. Impasto di patate lesse schiacciate e farina. Gnòchi con sùgo de galìna. Oggi il termine viene usato anche per indicare persona poco sveglia o alla quale non bisogna dar retta: Ma va là, gnòco, cos’ te me cònti! GNÒLO, s.m.: Nuvolo. Scomparso da tempo dall’uso, il termine viene documentato dal prof. Morteani nel 1888. GNÒRA, s.f.: (v. Niòra) Nuora. La moglie del figlio. GÒBA, s.f.: Gobba. Gavèrlo gavù tanti àni sùla gòba. El più sàn de dùti a gà la gòba. GÒBO, agg./s.m.: Gobbo. GODÈR, v.: Godere. Vita gòdi, vita patìsi. GODÙRIA, s.f.: Godimento. Sollazzo. GÒLAS, s.m.: Goulasch. Una specie di sguazzetto di carne, a volte usato per condire sia la pasta che il risotto, ma che poco aveva a che fare con il più noto piatto ungherese, a parte il nome preso in prestito. GOLDÒN, s.m.: Preservativo. Termine che non ha niente a che fare con il commediografo

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veneziano Goldoni: più probabilmente si tratta di una storpiatura di condom, dal nome dell’inventore dei preservativi. GOLOŞÈSO, s.m.: Golosità. Ghiottoneria. Leccornia. GÒMA, s.f.: Gomma. Per i bambini rappresentava il sinonimo per la gòma mericàna (v.) ovvero per il chewing gum. GÒMA MERICANA, s.f.: Gomma americana. Chewing gum. Ricordo che a ridosso degli anni Cinquanta, noi bambini si andava a comperare le gomme in una villetta in Vier (esiste ancora oggi, abitata da nuovi inquilini)). Erano palline avvolte nella carta, come caramelle. Una vera e propria rarità erano le gomme a forma di sigaretta. Probabilmente, visto che siffatti commerci anche durante il Territorio Libero di Trieste non erano ammessi, arrivavano di contrabbando da Trieste che, allora, veniva considerata come il paese del bengodi. Ricordate il via-vai ed il traffico dei giornalini (v.)? GOMÀSA, s.f.: (v. Comàsa) Fascia. Gambale. Mollettiera. Fascia di panno che un tempo i soldati avvolgevano attorno alle caviglie. GOMITÀR, v.: Vomitare. Rimettere. Va comunque ribadito che nella quasi totalità veniva usato il butàr fòra (v.). A gà bevù tanto, ch’ el giorno drìo a gà butà fòra anca i budéi. GORDÒN, s.m.: Cordone. GÒRNA, s.f.: Grondaia. Tòni, co a şé de vòia, a bévi come ‘na gòrna. GOSTÀNA, agg.: Del mese di agosto. Erba gostàna. Ùva gostàna. Dal fatto che si falciava o maturava nel mese di agosto, quindi in anticipo sulle altre specie.


GÒTO, s.m.: Bicchiere. Un po’ più grande dell’ottavo, che era la misura standard per il bicchiere di vino. Dàme un gòto de bianco. GOTÒN, s.m.: Cotone, ovatta. GOVERNÀR, v.: Governare, guidare, riparare. Ieri sera iéro de Toio a governàrghe la ròda del càro. GRADÈLA, s.f.: (v. Gardéla) Graticola, oggi diremmo grill. Rostìr la càrne sùla gradéla. GRÀIA, s.f.: Rovo. Siepe spinosa. Cespuglio. Mérlo de gràia. Ièri sèra a şè ‘ndà in gràia con la mùla. GRAMÈGNA, s.f.: Gramigna. Créser còme la gramégna. GRÀMPA, s.f.: Manciata. Ghé gò dìto de ciòrse do noşéle, ma lù ghe ne gà ciòlte ‘na gràmpa. GRAMPÀR, v.: Aggrappare. Afferrare. Arraffare. A me gà grampà per la man e no iéra sànti che a me mòli. A gà grampà duto quél che a podéva. Gràmpa e scampa. GRAMPÌN, s.m.: (v. Rampìn) Arpione. Àncora, a quattro braccia usata dai pescatori. Con un solo uncino alla fine dell’asta il Rampin viene usato anche per tirare la barca verso la riva o verso un’altra imbarcazione. Ancora qualche decina di anni fa, veniva usato dai campagnòi (v.) per tirare il fieno fuori dalle méde (v.). GRÀN, s.m.: Grano. Frumento. Granello. A. Vascotto: Pìsiga più un gràn de pévere che un strònso (v.) de àşeno. Me son fàta imprestàr do gràni de sàl. GRANDÈTO, agg.: Grandicello. GRÀNDO, agg.m.: Grande. Alto. Adulto. A şé gràndo come ‘l

campanìl. Più te sòn gràndo più te sòn mòna. Far le ròbe in gràndo. GRANDOSÈL, s.m.: (v. Gardonsèl) Raperonzolo. Pianta erbacea delle campagne isolane che in primavera si raccoglie per farne una gustosa insalata assieme ai fagioli. GRÀNDA, agg.: Grande. Alta. Adulta. La céşa grànda. Piàsa grànda. GRANÈR, s.m.: Granaio. È comunque un termine poco usato, in quanto a Isola non ne esistevano di granai veri e propri, tenendo conto che di grano se ne produceva a malapena per le proprie modeste necessità da parte di ogni agricoltore, e che anche nel contado non esistevano grandi distese seminate a grano. Di solito, le derrate famigliari venivano conservate nei solai, nei fienili o nelle cantine. Le riserve delle derrate alimentari per conto del Comune, invece, a partire dal XV secolo, venivano custodite nel Fòntego (v.) in Piàsa Grànda a due passi dal Molo Sanità. GRÀNFO, s.m.: (v. Gànfo) Crampo. Contrazione dei muscoli. GRANSIÈVOLA, s.f.: (v. Grànso) Grancevola. GRANSIPÒRO, s.m.: Granchio marino. Favollo. Gustoso e cacciato tra gli scogli stando attenti alle chele. GRÀNSO, s.m.: Granchio. A Isola si usava piuttosto grànso che gransiévola. GRÀSA, s.f.: (v. Ludàme) Letame. GRÀSO, agg./s.m.: Grasso. Di persona o carne grassa, ma anche inteso nel senso di grasso, come il grasso di maiale. GRÀSPO, s.m.: (v. Ràspo) Grappolo.

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GRÀTA, s.f.: (v. Gratacàşa) Grattugia. Era preferita e più usata rispetto al termine Gratacàşa. GRATACÀŞA, s.f.: Grattugia. GRATÀR, v.: Grattare. Grattugiare. Rubare. Portare via senza chiedere. Ognidùn se gràta le sò rògne. Pàn gratà. Me gràta in gòla. I me gà gratà la bìci. GRATARIÒLA, s.f.: Prurito. GRAVÒN, s.m.: Calabrone. GRÈBANO, s.m.: (v. Grémbano) Rupe. Roccia. Scoglio. Zolla. Terra piena di sassi e poco fertile. Anche di persona poco affabile e poco sociale. A şé dùro come un grémbano. GRÈGO, s.m./agg.: Greco. Sia la persona di origine che il vento chiamato anche grecale. Il termine veniva usato anche come lieve ingiuria personale: Tu màre gréga! GRÈMBANO, s.m.: (v. Grébano) Rupe. Roccia. Scoglio. Zolla. GRÈŞO, agg.: Rozzo. Rude. Greggio. Incolto. GRÌGNE, s.f.pl.: Crine. Pelo lungo. GRIMANDÈL, s.m.: Grimaldello.

Fora (v.). Il nome era certamente derivato dalla pavimentazione in arenaria grigia, con cui erano pavimentate praticamente tutte le vie e piazze di Isola. Encomiabile così la decisione della Sovrintendenza ai beni culturali che a suo tempo aveva deciso di sostituire soltanto una parte della pavimentazione di Piazza Manzioli, ormai consumata, e di conservarne una parte con il materiale originario meglio conservato. Discutibile, invece, l’autorizzazione concessa di lastricare i vialetti del giardino pubblico oggi chiamato parco Pietro Coppo in pietra bianca delle cave di Pisino: proprio nella zona che dal grigio aveva attinto il nome della strada. GRÌŞO, agg.: Grigio. GRISOLÀR, v.: Fare il solletico. GRÌSOLO, s.m.: Solletico. GRÌSOLI, s.m.pl.: Solletico. Al plurale, usato comunemente senza particolari ragioni nelle due desinenze finali al maschile e al femminile. GRISOLÒŞO, agg.: Persona che soffre il solletico.

GRIMÈSO, s.m.: Grettezza.

GRONGÀDA, s.f.: Sorsata. Sorso. Bevuta.

GRÌMO, agg.: Gretto, tirchio, avaro.

GRÒNGO, s.m.: Grongo. Pesce di mare simile all’anguilla.

GRÌNGOLA, s.f.: Abito elegante. Lusso. Eleganza. Iéra la sua festa e a se gà méso in grìngola.

GRÒPEDA, s.f.: Sporcizia. Sedimento. Residuo che si forma a gròpi (v.) sulle pareti e sul fondo delle botti di vino.

GRÌPO, s.m.: Rete. Rete a strascico molto robusta che i pescatori passavano sul fondo marino per la raccolta dei crostacei. GRÌŞA, agg./s.f.: Grigia. Massicciata. La Grìşa veniva chiamato il tratto di strada che dalle Porte (v.) portava a Fontana

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GRÒPO, s.m.: Nodo. Groppo. Groviglio. Me şé vignù un gròpo sul stòmigo. Ste tavole le şé piéne de gròpi. Sùla còrda ricòrdite de fàr un gròpo ùgnolo. GROPOLÒŞO, agg.: Nodoso. Pieno di protuberanze.


GRÒTA, s.f.: Grotta. Caverna. Scoglio. Roccia. GRÒTOLO, s.m.: Trottola. GRÙA, s.f.: Gru. GRÙMO, s.m.: Grumo. Mucchio. Cumulo. Gran quantità. Quando a şé morto, Dio ghe bràsi l’anema, a gà lasà solo un grùmo de strafanìci (v.); El diàvolo càga sempre sul grùmo. GRÙPO, agg.: Macerato. Ammollato. Intenerito. Dopo tante ore sòto la piòva, iérimo dùti grùpi. GÙA, s.m.: Arrotino. Stmatina se pasà de qua Toni, el gùa. GUÀDA, s.f.: Affilatura. Raggiro. Amplesso. Coito. Sto cortél a no tàia gnénte, a gà bişogno de una guàda. Il termine, però, soprattutto tra la popolazione maschile veniva usato in senso ironico per definire l’accoppiarsi con una donna, in alternativa a ciavàda (v.) oppure a taconàr (v.). Una bòna cagàda şé come meşa guàda. Con quél dişgrasià me sòn becà ‘na béla guàda.

indicare i vigili comunali incaricati di controllare l’ordine pubblico e, un tempo, il comportamento delle vendarìgole (v.) e la vendita della frutta e verdura al mercato. GUATÈRA, s.f.: Rete, usata per prendere i guàti (v.) che poi sono i ghiozzi. GUATIŞÈL, s.m.: Ghiozzo di piccole dimensioni. GUÀTO, s.m.: Ghiozzo. Di solito si pesca con la lenza (v. tògna) dalla riva o dal molo. GÙCIA, s.f.: Lavoro con i ferri da calza. GUCIÀR, v.: Sferragliare, lavorare a calza o a maglia con gli aghi. GUŞÈLA, s.f.: (v. Aguşéla) Ago. Sia quello per cucire che quello usato per riparare le reti. Ormai viene usato esclusivamente il termine italiano. GUSTÀR, v.: Assaggiare. Gustare.

GUADÒR, agg.: Arrotino. Puttaniere. Donnaiolo. Anche se l’aggettivo deriva evidentemente dal mestiere del gùa (v.), tuttavia nella parlata isolana veniva usato quasi esclusivamente nell’accezione di grande donnaiolo. GUANTÀR, v.: Afferrare. GUANTIERA, s.f.: Vassoio. GUÀR, v.: Affilare. Chiavare (v. ciavàr o taconàr). GUARDIA, s.f.: (v. Vardia) Guardia, guardiano, vigile, poliziotto. GUARDIARADÌCIO, s.m.: Guardia municipale. Il termine è rimasto in uso ancora oggi per

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Ii

I, Nona lettera dell’alfabeto italiano. Poichè il dialetto isolano non riconosce la lettera H, almeno come inizio di parola, ne consegue che la I risulta essere l’ottava lettera dell’alfabeto della parlata isolana. I, art.: I. Gli. I gà fàto dùto sénsa dìrme gnénte. I, pron.: Essi. Loro. I màgna e i bévi come se i gavési fame. IACHÈTA, s.f.: Giacca. Giacchetta. IÀCOMO, n.pr.. Giacomo. Usato anche per definire uno spavento. Co me sòn vìsto davanti quel cagnàso, le gàmbe gà scominsià a farme iàcomo. IÀGODJE, top.: Jagodje. Toponimo isolano di nuova definizione che non dispone di una sua variante italiana. Comprende tutta una serie di antichi toponimi, da Valleggia (v.) a Saletto (v.), a Lavorè (v.) e Costerlàgo (v.). ÌE, escl.: Avanti. Corri. Incitazione usata dai contadini per far andar più veloce l’asino, spesso in alternativa con eri (v.). IÈRA, v.: C’era. Voce del verbo essere. Iéra ‘na vòlta, Piéro se vòlta. IMANEGÀR, v.: Mettere il manico. Se te vòl lavoràr co sto martél te devi imanegàrlo (v. mànego, oppure mànigo). IMATONÌ, agg.: Intontito. Confuso. Stordito. IMBACUCÀ, agg.: Vestito in maniera esagerata. Col frédo che iéra a se gà imbacucà che no se ghe vedéva gnànca i òci. A volte

usato anche per definire persona non del tutto in sé. IMBACUCÀR, v.: Vestire in modo esagerato. Istupidire con le chiacchiere. IMBALEGÀR, v.: Accalappiare. Da rinchiudere nel bàlego (v.) IMBAMBINÌ, agg.: Rimbambito. IMBAMBINÌR, v.: Rimbambire. IMBAMBOLÀ, agg.: Istupidito. Imbambolato. IMBAMBOLÀR, v.: Istupidire. Imbambolare. IMBARIAGÀR, v.: (v. Imbriagàr) Ubriacare IMBARIÀGO, agg.: (v. Imbriàgo) Ubriaco. A vòl gavér la bòta piena e la moiér imbriàga. IMBARCÀR, v.: Imbarcare. Salire a bordo di una nave. Entrare in un affare. A se gà imbarcà in un afàr che no finirà bén pàr lù. IMBASTIDÙRA, s.f.: Imbastitura. Cucitura provvisoria. IMBASTÌR, v.: Imbastire. Cucire provvisoriamente. Mettere in piedi rapidamente e approssimativamente un’attività. A şé rivà a imbastìr una pìcia rivendita de verdura, ma no ghe la fa a rivàrghe in càvo. IMBÈL, s.m.: (v. Limbél) Orlo. Stipite. Scanalatura nel legno con la quale dai falegnami si ornava la rifinitura di un mobile IMBERLÀ, agg.: Storto. Curvo. Scentrato. Sconcentrato. IMBERLÀR, v.: Storcere. Curvare. Deformare. Piegare. Termine usato soprattutto per indicare un legno che, dopo aver preso acqua, si deforma. La pòrta la se gà imberlà e no la se séra più. IMBEVERÀR, v.: (v. Beveràr) Abbeverare.

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IMBIANCÀR, v.: Verniciare di bianco. IMBIECÀ, agg.: Rattoppato. Rappezzato. IMBIECÀR, v.: (v. Biecàr) Rattoppare. Rappezzare. Mettere una toppa (v. Biéco) su un indumento. Pòvaro Toni, a gà anca la mòlie che la và in gìro dùta imbiecàda. IMBILÀDA, s.f.: Arrabbiatura. Collera. Probabilmente deriva dal termine italiano bile (collera, sdegno). IMBILÀR, v.: Arrabbiare. IMBOCONÀR, v.: Imboccare. Rimpinzare. IMBOMBÌ, agg.: (v. Bombì) Intriso. Pregno. Imbevuto. IMBOMBÌR, v.: (v. Bombìr) Impregnare. Inzuppare. Intridere. IMBORESÀ, agg.: (v. Boréso) Brioso. Eccitato. Vivace. IMBOSCÀR, v.: Imboscare. Nascondere. IMBOTÌ, agg.: (anche Imbotìdo) Imbottito. Strapieno. IMBOTÌDA, s.f.: Coperta imbottita. Trapunta. IMBOTIDÙRA, s.f.: Imbottitura. IMBOTONÀ, agg.: Abbottonato. Riservato. Inteso di persone dal carattere chiuso e poco socievole. IMBOTONÀR, v.: Abbottonare. IMBRAGÀR, v.: Legare un oggetto con corde o cinghie per trasporto o sollevamento. Evidentemente deriva da bràghe (v.). IMBRAGADÙRA, s.f.: Bardatura. Legatura. IMBRANÀ, agg.: Imbranato. Maldestro. Confuso. Poco socievole.

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IMBRANAR, v.: Arrabbiare. IMBRIAGÀR, v.: (v. Imbariagàr) Ubriacare. IMBRIAGHÈLA, agg.: Ubriacone. IMBRIÀGO, agg.: (v. Imbariàgo) Ubriaco. IMBRIAGÒN, s.m.: Ubriacone. IMBROCÀR, v.: Imbroccare. Azzeccare. Indovinare. Però anche mettere le bròche (v.) agli scarponi da lavoro. IMBRODÀRSE, v.: Lodarsi a sproposito. Chi se lòda se imbròda. IMBROIÀR, v.: Imbrogliare. Truffare. Ingannare. IMBRÒIO, s.m.: Imbroglio. Şé dùto un imbròio. IMBROIÒN, agg.: Imbroglione. Nàne a şé un imbroiòn nato. IMBRUNÌR, v.: Fare buio. Scurire. IMBUŞÀ, agg.: Smarrito. Nascosto. IMBUŞÀR, v.: Smarrire. Nascondere. Da bùşo (v.) che significa buco. Quindi nascondere o smarrire per averlo messo in un posto non facile da trovare. Per fòrsa che no te rìvi a trovarla, chisà dòve che te la gà imbuşàda! IMONÌ, agg.: Instupidito. IMONÌR, v.: Instupidire. Dopo do òre de circolo a se gà completamente imonì. IMORBIDÌR, v.: Ammorbidire. IMPACÀR, v.: Impaccare. Avvolgere. Confezionare. IMPACHETÀR, v.: Impacchettare. Ma anche, in senso figurativo, ammanettare. IMPAIÀR, v.: Impagliare. IMPAIADÒR, s.m.: Impagliatore. IMPALÀ, agg.: Ritto. Diritto in piedi come un palo.


IMPALTANÀ, agg.: Infangato. Sporco di fango. IMPALTANÀR, v.: Infangare. Impiastricciare. Sporcare. IMPANÀR, v.: Panare. Sardòni frìti impanài. IMPANTANÀ, agg.: Infangato. Sudicio. IMPANTANÀR, v.: Infangare. Insudiciare. IMPAPINÀRSE, v.: Confondersi.

IMPENTÌR, v.: Pentire. Ravvedere. IMPESTÀ, agg.: (anche Impestàdo, Impestàda) Appestato. Contagiato. IMPESTÀR, v.: (v. Inpestàr) Contagiare. Ammorbare. Appestare. IMPETOLÀ, agg.: Invischiato. Unto. Gonfio (v. Pétola). IMPETOLÀR, v.: Invischiare. Ungere. Insudiciare. Sporcare.

IMPARÀR, v.: Imparare. Insegnare. Nella parlata isolana il verbo imparàr viene usato anche con il significato di insegnare.

IMPEVERÀ, agg.: Pepato.

IMPARENTÀ, agg.: Parente. Che ha vincoli di parentela.

IMPIANTÒN, avv.: Abbandono.

IMPASTÀR, v.: Impastare. Fare la pasta. IMPASTROCIÀ, agg.: Sporco. Lurido. Da pastròcio (v.). IMPASTROCIÀR, v.: Sporcare. Insudiciare. Viene usato anche per definire un tentativo di confondere: Te me gà impastrocià duti i documenti cusì che no capìso più gnénte. IMPATACÀ, agg.: Macchiato. Istupidito. IMPATACÀR, v.: Macchiare. Sporcare. Istupidire. IMPATÀR, v.: Pareggiare. Impattare. Convincere. Adescare. IMPEGNÀR, v.: Impegnare. IMPEGOLÀ, agg.: (anche Impegolàdo) Sfortunato. Disgraziato (v. Pégola). IMPENSÀDA, s.f.: Trovata, invenzione, espediente, ripiego. IMPENSÀRSE, v.: Pensare. Ideare. Inventare. Ma vàra là, quel fiòldoncàn, cos’ che a se gà impensà!

IMPEVERÀR, v: Pepare. IMPIANTÀR, v.: Piantare. Smettere. Fermare. IMPIÀSTRO, s.m.: Impiastro. Cerotto (v. Tacamàco). Si dice anche di persona noiosa e seccante. IMPICÀR, v.: Impiccare. Appendere. Appiccare. IMPIEGÀR, v.: Piegare, avvolgere. Usato regolarmente anche per definire persona che ha trovato un impiego, un lavoro: Iéra meşi che a se dàva de fàr sénsa combinàr gnente, e proprio ieri a se gà impiegà in municipio. IMPINÌR, v.: (anche Impignìr o Impenìr) Riempire, colmare. Impinìrse la pònga (v.) = abbuffarsi, arraffare. IMPIOMBÀR, v.: Otturare. Quasi sicuramente dal termine usato per otturare i denti presi d’assalto dalla carie, ma ancora più certo che il termine derivi dal fatto che prima dell’invenzione delle diverse colle e cementi a presa rapida i pilastri in ferro che sostenevano i recinti venivano fissati nei buchi di pietra o di cemento con delle colate di piombo fuso. IMPIRÀ, agg.: Infilato. Infilzato.

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IMPIRÀDA, s.f.: Raggiro. Truffa. Imbroglio. Inganno. IMPIRÀR, v.: Infilare. Infilzare. Impiràr i òci = avere lo sguardo fisso e truce. IMPISAFARÀI, s.m.: (anche Impisaferài) Un tempo, all’epoca dell’illuminazione con lampade di petrolio o a gas, l’addetto ad accendere e spegnere i fanali (v. Faràl). IMPISÀR, v.: Accendere. Impìsa la lùce. IMPONGÀR, v.: Abbuffare. Rimpinzare. Arraffare. Da pònga. Prima de dùto a gà pensà de impignirse la pònga, dopo dùto el resto. IMPONTÀRSE, v.: Impuntarsi. Ostinarsi. IMPOSTÀR, v.: Imbucare (una lettera). Impostare (un lavoro, un’attività, un discorso). IMPOSTUMÀ, agg.: Offeso, Stizzito. Arrabbiato. Risentito. IMPOSTUMÀR, v.: Offendere. Arrabbiare. IMPRATICÀRSE, v.: Impratichire. IMPROMÈTER, v.: (anche Improméte) Promettere. IMPUNTÌ, agg.: Appuntito. IMUCIÀR, v.: Ammucchiare. Accumulare. Ammassare. IMUFÌR, v.: Ammuffire. IMUFÌ, agg. (anche Imufìdo) Ammuffito. IMUNÌR, v.: Riempire. Riempire di vario materiale un buco o una cavità. IMURÀR, v.: Murare. IMUSONÀ, agg.: (anche Imusonì o Imusonìdo) Immusonito. IN, prep.: In, dentro, su, a …

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INACÒRŞER, v.: Accorgere, vedere. Me sòn inacòrto de éla solo quando che son vignùdo là. INAMÈNTE, avv.: (v. Ineménte) A memoria. Tenere a mente. INAMORÀ, agg.: Innamorato. INAMORÀR, v.: Innamorare. INANEMÀ, agg.: Sdegnato. Adirato. Arrabbiato. INANEMÀR, v.: Adirare. Arrabbiare. INBORESÀ, agg.: Scompigliato. INCADENÀR, v.: Incatenare. INCALMÀR, v.: Innestare. Un lavoro di precisione per il quale, lo ricordo ancora, bisognava essere dei veri specialisti. Anche se non si piantavano tanti vitigni nuovi come in questi anni, tuttavia ogni anno si destinava qualche nuovo campo alle viti, per cui era necessario dapprima mettere a dimora le viti selvatiche, le barbatèle, che, uno o due anni più tardi, quando irrobustivano, venivano innestate con gli innesti della qualità che si voleva (Malvasia o Refosco). Un lavoro che non tutti se la sentivano di fare per proprio conto, per cui si chiamavano ad eseguirlo persone di affermata esperienza. Un lavoro che non era molto gradito, anche perché richiedeva dal contadino di stare inginocchiato per tutta la giornata, e a volte anche tutta la settimana. Certo, allora, i vitigni non venivano acquistati come oggi al negozio di agraria. INCALMÈLA, s.f.: Innesto Il ramoscello della vite che veniva innestato sulla pianta selvatica. INCÀLMO, s.m.: Innesto. L’innesto vero e proprio eseguito sulla pianta selvatica eseguendo due tagli con un temperino particolare,


la Brìtola de incalmàr (v.) ed entro i quali venivano inserite di norma due incalméle (v.), nel caso una delle due non attecchisse. INCANÀR, v.: Mettere le canne. Le canne venivano usate dai contadini quale sostegno sia per alcuni ortaggi (fagioli, piselli), sia per le viti, visto che non era molto in voga l’uso del filo di ferro. INCANCRENÌ, agg.: (anche Incancrenìdo) Incancrenito. Difficile da estirpare o togliere. Spesso, con lo stesso significato, viene usato anche il termine incarognìrse (v.). INCANDÌ, agg.: Bruciato. Stordito. INCANDÌR, v.: Bruciare. Aggredire. Stordire. INCANTÀ, agg.: (anche Incantàdo) Incantato. Fermo. Bloccato. INCANTÀR, v.: Incantare. Meravigliare. Bloccare. Fermare. Se te và fin a Loréto e te vàrdi şò al mar verso Isola, te resti incantà, tanto şé bel. INCANTONÀ, agg.: Accantonato. Messo da parte. Isolato. INCAPARÀR, v.: Accaparrare. Assicurare. Assegnare. INCAPONÀR, v.: Accapponare. Nonostante l’evidente modifica rispetto al termine italiano, a Isola si usava preferibilmente dire de gavèr el pél de galìna. Forse anche perché di oche nella città e nel contado ce n’erano poche. INCAREGÀRSE, v.: Riempirsi INCAROGNÌR, v.: (v. Incancrenìr). Incarognire. Difficile da estirpare o togliere. INCARTÀR, v.: Incartare. Avvolgere con la carta. INCASÀR, v.: Incassare. Riscuotere. Anche inserire in una cassa di legno o in un cassone.

INCASÀR, v.: Incazzare. Arrabbiare. Co a gà visto la mùla a braséto (v.) con Gigi, a se gà incasà come ‘na bestia! INCAŞINÀR, v.: Inguaiarsi. Impelagarsi. INCASTRÀR, v.: Incastrare. Intrappolare. INCAVOLÀ, agg.: Arrabbiato. Offeso. Irato. INCAVOLÀR, v.: Arrabbiare. INCICARÀR, v: Ubriacare. Difficile comprendere perché sia stato preso a prestito il termine cìcara (v.) per abbinarlo alla sbornia, sempre in tono scherzoso. INCIODÀ, agg.: Inchiodato. INCIODÀR, v.: Inchiodare. INCIOPÌ, agg.: Mogio. Mesto. Silenzioso. INCIUCHÌ, agg.: (anche Inciucà) Intontito. Stordito. A volte usato anche per ubriaco, poco sobrio. INCOCONÀ, agg.: Sazio. Abbuffato. Satollo. INCOCONÀDA, s.f.: Abbuffata. Scorpacciata. Grande mangiata. INCOCALÌRSE, v.: Innamorarsi. Istupidirsi. INCOCONÀR(SE), v.: Nutrire (Nutrirsi). Abbuffare. Mangiare esageratamente. A se gà incoconà come un dìndio. Prima della guerra, ma anche qualche anno dopo, praticamente non c’era famiglia isolana che non avesse nel proprio cortile o in campagna un tacchino = dìndio (v.). Era usanza che prima delle feste comandate, quando in tavola si soleva mettere il tacchino arrosto, si provvedeva ad ingrassarli forzatamente infilando loro in bocca palline di polenta ed altri bocconi sostanziosi.

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INCÒFO, s.m.: (v. Lincòfo e Licòfo) Cerimonia di conclusione del tetto. Era il momento quando il padrone, o chi per lui, in segno di apprezzamento, offriva da bere e da mangiare alle maestranze per il lavoro portato a termine. Tra l’altro si dice e si fa ancora oggi. INCUGNÀR, v.: Incuneare. Mettere di traverso per bloccare. Preso in prestito da cùgno (v.). INCOLÀR, v.: Incollare. Attaccare. INCOLÀ, agg.: Incollato. Attaccato. INCOMIÀDA, s.f.: Gomitata. Spintone. Fregatura. Danno. INCOMINSIÀR, v.: Incominciare. Avviare. INCORDELÀR, v.: Orlare, guarnire l’orlo di un tessuto. INCORNIŞÀR, v.: Incorniciare. INCRESPÀ, agg.: (v. Ingrespà) Arricciato. A gà i cavéi dùti increspài.

da A. Vascotto, anche se devo ammettere di non averne memoria o testimonianza diretta. INDOLSÌR, v.: Addolcire. INDORÀR, v.: Dorare. Impanare. (con pangrattato o farina bianca prima di mettere sull’olio bollente per friggere). INDORMENSÀ, agg.: Addormentato. Insonnolito. Di poca voglia. INDORMENSÀR, v.: Addormentare. INDORMENSÒN, agg.: Dormiglione. INDÒRMIO, s.f.: Anestesia totale. INDÒVE, avv.: (v. Andòve) Dove. Ma veniva e viene usato pure ‘ndòve. INDRÈNTO, avv.: (v. Drénto) Dentro.

INCROŞÀR, v.: Incrociare.

INDRÌO, avv. Indietro. Addietro. Nuovamente. Nàne, a şé indrìo co le carte. A se gà perso indrìo.

INCUCÀ, agg.: (anche Incucàdo) Fissato, imbambolato. Deriva da cùco (v.) termine con il quale venivano definiti più o meno tutti i rapaci notturni, dal cuculo al gufo, al barbagianni…

INDRIOMÀN, avv.: Continuamente. Subito. Co vén la staiòn dei bìşi, bisogna ingrumarli indriomàn. INDRISÀR, v.: Raddrizzare. Orientare.

INCULÀDA, s.f.: Fregatura. Inganno. Con quél afàr a gà ciapà ‘na béla inculàda.

INDURÌR, v.: Indurire. Rassodare. Solidificare.

INCULÀR, v.: Prenderlo nel di dietro. Metterlo a qualcuno nel didietro. Inculare. Ingannare.

INEMÈNTE, avv.: (v. Inaménte) In mente. Ricordare INFANGÀ, agg.: Infangato. Denigrato.

INCÙSINE, s.m.: (v. Ancùsine) Incudine.

INFANGÀR, v.: Infangare. Denigrare. Profanare.

INDERÌSO, s.m.: (anche Indirìso) Indirizzo.

INFARMIGOLÀ, agg.: Intorpidito.

INDISPÒNER, v.: Indisporre. Scontentare.

INFASÀR, v.: Fasciare. Avvolgere. Bendare.

INDOLESTRÀ, agg.: Indolenzito. Voce che ho preso direttamente

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INFASADÙRA, s.f.: Fasciatura.

INFASTONÀR, v.: Frastornare. Stordire.


INFENOCIÀR, v.: (v. Infinociàr) Infinocchiare. Ingannare. Imbrogliare. Col suo modo de fàr a ne gà infenocià dùti.

INGIASÀ, agg.: (anche Ingiasàdo) Agghiacciato. Gelato. Freddo.

INFERÀR, v.: Ferrare. Mettere i ferri di cavallo agli animali.

INGIOTÌ, agg.: Inghiottito. Ingoiato.

INFERIÀDA, s.f.: Inferriata. Recinto metallico. Cancello INFIAPÌR, v.: Appassire, sfiorire, afflosciare. INFINOCIÀR, v.: (v. Infenociàr) Infinocchiare. Ingannare. Imbrogliare. INFOGÀ, agg.: Infuocato. INFOGNÀR, v.: Inguaiato. INFOSCÀ, agg.: Assorto, preso da un lavoro. INGALÀ, agg.: Eccitato. Fecondato. Da gàlo (v.) = gallo. Per cui le uova che vengono messe sotto la chioccia devono essere prima ingalàde, cioè fecondate dal gallo. INGALÀR, v.: Fecondare. Visto l’uso specifico del termine, tuttavia, serviva soltanto quando si parlava di fecondazione del gallo sulle galline, non per gli altri esseri animali. INGAMBÀRSE, v.: Inciamparsi. INGANSÀR, v.: Agganciare. Anche ingannare. INGANSÌR, v.: Aggranchire. Rattrappire. Durante i freddi invernali, oppure causa forme di reumatismi, le dita delle mani non riescono più a distendersi e sembrano a forma di gancio: Col fredo de ‘sto inverno gavévo le màn sempre ingansìde. INGELÀ, agg.: Gelato. Agghiacciato. INGELÀR, v.: Gelare. Agghiacciare.

INGIASÀR, v.: Agghiacciare. Gelare.

INGIOTÌR, v.: Inghiottire. Ingoiare. INGOBÀ, agg.: Curvo. Ingobbito. INGOLFÀR, v.: Ingolfare. Intasare. INGOLOŞÌR, v.: Ingolosire. Allettare. Adescare. INGORDÌSIA, s.f.: Ingordigia. Avidità. Bramosìa. INGOSÀR, v.: Ingozzare. Mangiare molto e veloce. Abbuffare. A se gà ingosà come un dìndio. INGRANÀ, agg.: Granato. Pomo ingranà = melagrana. INGRASÀ, agg.: Ingrassato. Unto di grasso. INGRASÀR, v.: Ingrassare. Ungere. INGRASIÀR, v.: Ingraziare. INGRESPÀ, agg.: (v. Increspà) Arricciato. INGRESPÀR, v.: Increspare. Arricciare. Aggrottare (le onde, la stoffa, la fronte). INGROPÀR, v.: Annodare. Legare con nodi. Aggrovigliare. A gà i cavéi dùti ingropài; Co gò visto in che stato che a iéra, me se ga ingropà ‘l cuor. INGROPOLÀ, agg.: Bitorzoluto. Pieno di grumi. INGRUFOLÌ, agg.: Intirizzito. INGRUMÀR, v.: Raccogliere. Accumulare. Co vén l’estate, rìva anca el tempo de ingrumar i bìşi, i fragoloni, i faşoleti e dùta l’entràda, prima che se la magni ‘l sol o qualche tempesta. INGUÈNTO, s.m.: Unguento. Mastice. Linimento.

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INMATUNÌ, agg.: Stordito. Tramortito. INMATUNÌR, v.: Stordire. Tramortire. I se gà becà par gnente, e dopo a ghé gà molà un colpo che a lo gà inmatunì! INMUCIÀR, v.: Ammucchiare. Accatastare. INOIÀR, v.: Oliare. Un meccanismo, un motore, ma, in senso figurativo, anche una persona dalla quale ci si attende un favore. INOMBRÀR, v.: Adombrare. Imbizzarrire. Vale per i cavalli e per gli animali in genere, ma anche per gli uomini e le persone troppo suscettibili. INOSÈNTE, agg.: Innocente. Puro. INPAURÌR, v.: Impaurire. INPESTÀR, v.: (v. Impestàr) Contagiare. Appestare. INPINÌR, v.: Riempire. INQUILÌN, s.m.: Inquilino. Affittuario. Locatario. Tuttavia per l’affittuario o locatario è generalmente usato anche (v.) fituàl. INRANSIDÌ, agg.: Irrancidito. Avariato. Anche di persona di carattere pesante e acido. INRODOLÀR, v.: Arrotolare. Avvolgere. INRUŞINÌR, v.: Arrugginire. Ossidare. INŞALÌR, v.: Ingiallire. INSAVONÀR, v.: Insaponare. INŞEGNÀR(SE), v.: Ingegnar(si), adattar(si). INŞEGNÈR, s.m.: Ingegnere. INŞÈGNO, s.m.: Ingegno. INSEMENÌ, agg.: Istupidito. Scimunito. INSEMPIÀ, agg.: Scemo. Cretino.

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INSEMPIÀR, v.: Istupidire. I ciàcola solo par insempiàr la gente. INŞENOCIÀ, agg.: (anche Inşenociàdo) Inginocchiato. INŞENOCIÀR, v.: Inginocchiare. INSERÀDA, s.f.: Incerata. Tela cerata. INSEŞONÀ, agg.: Malcotto. Semicrudo. INSINGANÀR, v.: Convincere. Strappare un assenso. Irretire. Plagiare. Da sìngano (v.) = zingaro. Co le so ciàcole la me gà insinganà INSÌNI, s.m.pl: (v. Linsìni. Rensìni. Resìni. Rinsìni) Attrezzo di legno a doppia V che si metteva sul dorso dell’asino sopra il basto (v.) per il trasporto di pali, canne e altri oggetti lunghi. Deriva da orecìni (v.), poiché pendevano dal basto come degli orecchini. INSIOLÀR, v.: Risuolare. Mettere la suola alle scarpe. Ma anche alle papùse (v.) fatte in case, nel qual caso significava tagliare a forma di suola dei copertoni d’automobile o d’autocarro. INSOCHÌ, agg.: Allocchito. Allibito. Istupidito. (v.) Sòco = Tronco. Ciocco di legno. INSOGNÀR, v.: Sognare. No stà insognàrte che te ghe piàşi, la stà con ti parché la crédi che te gà ‘sai schéi. INSONOLÌ, agg.: Insonnolito. Addormentato. INSPINÀR(SE), v.: Punger(si) con delle spine. INSTRIGÀR, v.: (v. Strigàr) Stregare. Influenzare. Togliere la volontà. Dopo che a ga visto quela mùla, a şé come instrigà, a no capisi più gnente.


INSTUPIDÌ, agg.: Istupidito. Incretinito. INSUMBÀR, v.: (v. Insumbìr. Sumbìr) Assorbire. Inzuppare.

decenni il termine ha perso la sua accezione tipicamente isolana, per acquisire il significato del vocabolo italiano, quasi identico.

INSUMBÌR, v.: (v. Insumbàr. Sumbìr) Assorbire. Inzuppare.

INTIERO, agg.: Intero.

INTABACÀ, agg.: Sporco. Sudicio. Maleodorante di fumo e tabacco.

INTIMÈLA, s.f.: Federa di cuscino.

INTACÀ, agg.: Attaccato. Incollato. Affisso. Costretto. INTACÀR, v.: Attaccare. Incollare. INTARDEGÀR, v.: (v. Tardegàr) Ritardare. Indugiare. INTÈL, avv.: Nel. Dentro INTEMPERÀ, s.m./agg.: (v. Temperà) Temperato. Vino annacquato. Con lo stesso termine si usava anche la mistura di aceto e acqua, che solitamente era la bevanda che i contadini si portavano in campagna per dissetarsi. INTÈNTA, s.f.: Bollitura e tinteggiatura delle reti nuove. L’operazione consisteva nel bollire le reti nuove, ancora bianche, in acqua nella quale veniva immessa corteccia di pino polverizzata. Poiché questa sostanza contiene tannino, rinforzava le reti e le colorava in maniera indelebile di rosso scuro. INTÈNTO, Non ha alcun significato concreto. La riportiamo presa di sana pianta dal libro di Vascotto che, sotto questa voce, descrive un’antica filastrocca isolana: La fiàba de siòr Intento, che la dùra tanto tempo, che mai no la se distrìga, volé che ve la dìga? A risposta positiva o negativa, la filastrocca ricominciava da capo. INTERESÀ, agg.: Interessato. INTERVEGNÌR, v.: Succedere. Accadere. Avvenire. Negli ultimi

INTIMA, s.f.: Stoffa per lenzuola. INTIVÀR, v.: Indovinare. Azzeccare. Intuire. INTOLÀR, v.: (v. Ontolàr) Ungere. Grassare. Viene usato anche per definire opera di prezzolamento. INTONDÌR, v.: Intontire. Istupidire. INTORTISÀR, v.: Attorcigliare. Avvolgere. INTRÀ, avv.: Tra. Inoltre. Pàr esse là i iéra, ma i parlava solo intrà de lori. INTRAMEŞÀR(SE), v.: Intromettere(si). Inserire(si). INTRIGÀ, agg.: Impacciato. Difficile da sciogliere. Arruffato. INTRIGÀR, v.: Arruffare. Essere d’ostacolo. INTRÌGO, s.m.: Ostacolo. Impedimento. Impaccio. INTRIGÒN, s.m.: Intrigante. Rompiscatole. INTRIGÒŞO, agg.: Impacciato. Arruffato. Persona di indole difficile e intrigante. INTÙN, avv.: Insieme. Contemporaneamente. Dutintùn = improvvisamente INUVOLÀ, agg.: Annuvolato. INUVOLÀR, v.: Annuvolare. INVECIÀR, v.: Invecchiare. INVELENÀR, v.: Avvelenare. INVERIGOLÀR, v.: Attorcigliare. Ingarbugliare. (v. Verìgola). Anche di persona tortuosa e

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ingarbugliata nel comportarsi e nell’esprimersi. INVÈSE, avv.: Invece. INVIDÀR, v.: Avvitare. INVIPERÌR, v.: Arrabbiare, inviperire. INVIS’CIÀ, agg.: Coinvolto. Preso di mezzo. Sul più bel, co a pensava de gavérsela cavàda, a şé restà invis’cià. INVOIÀR, v.: Invogliare, allettare. INVOLTISÀR, v.: Avvolgere. IÒSA, s.f.: (v. Giòsa. Schìsa) Goccia. IOSÀR, v.: (v. Giosàr) Gocciolare. IÒTA, s.f.: Minestra con cappucci acidi. Minestra presente a Isola, anche se il termine è di derivazione dalla vicina Trieste e anche qui portata dalle località del Carso. A Isola, prima dell’affermazione della voce triestina la minestra era conosciuta come meşalàna (v.). ISÀR, v.: Alzare. Issare. Levare. IŞOLÀNA, agg./s.f.: Donna di Isola, ma anche Uva da vino locale. ISPAŞEMÀ, agg.: Confuso. Impressionato. Impaurito. ISPAŞEMÀR, v.: (v. Spaşemàr) Spaventare. Impaurire. ISTÀ, s.f.: Estate. ISTREMÌ, agg.: (v. Stremì) Stremato. Spossato. IUDÌSIO, s.m.: Giudizio. Maturità mentale. IÙSA, s.f.: Donna. Per indicare donna del contado di lingua slovena. IÙSTO, agg.: Giusto. IUTÀR, v.: (v. Giutàr) Aiutare. Iùtete che Dio te iùta! IÙTO, s.m.: Aiuto.

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Ll L, Decima lettera dell’alfabeto italiano. LA, art.: La. La scòva. La càşa. LA, pron.: La. Lei. Essa. La şé véra. La me dìşi. Pàr stà vòlta la là gà scampàda. Va là che la và ben. LÀ, avv.: Là. Laggiù. Lassù. Più de là che de quà. LÀCO, s.m.: Lago. Pozzanghera. Stagno. Secondo alcuni anche serbatoio di acqua piovana. LADRARÌA, s.f.: Ladreria. Ladroneria. Ladrocinio. Ladrarìe ghe ne şé sempre stade e sempre ghe ne sarà. (ManziniRocchi) LÀDRO, s.m.: Ladro. Làdro no şè solo chi che rùba, ma ànca chi ghe tèn la màn. LADRÒN, s.m.: Ladrone. Malfattore. Lazzarone. LÀGNA, s.f.: (v. Làina) Lagna. Lamento. Piagnisteo. Co’ ste tùe ciàcole, te şé proprio ‘na làgna. LAGNÀRSE, v.: Lagnarsi. Lamentarsi. LÀGREMA, s.f.: (v. Làgrima) Lacrima. In senso figurativo si usa anche per indicare una piccola quantità, soprattutto quando si parla di sostanze liquide. La salàta la condìso solo con ‘na làgrema de òio. Làgrema de madòna (bot.) pianta erbacea, mughetto (Convallaria majalis). LAGREMÀR, v.: Lacrimare. Piangere. LÀGRIMA, s.f.: (v. Làgrema) Lacrima.

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LÀGRIME DE MADÒNA, s.f.: Mughetto. LÀINA, s.f.: (v. Làgna) Lamento. Piagnisteo. LAMARÌN, s.m.: Lamiera. Lamierino. Per discùter còi Gréghi ghe vòl méterse mudànde de lamarìn. LAMBICÀR, v.: Penare. Impegnare. Darsi da fare. LAMBÌCO, s.m.: (v. Stagnàda) Alambicco. Quello per distillare la grappa. Ancora oggi, pur se in misura molto minore, chi possiede qualche vitigno e produce del vino in proprio preferisce distillare la grappa per le proprie necessità. Un tempo, sia ai tempi dell’Austria che dell’Italia, l’alambìco doveva essere denunciato perchè la produzione degli alcoolici era fortemente tassato. Ora anche il nuovo potere ha introdotto una tassa sulla produzione del vino e della grappa, a meno che non serva esclusivamente per uso domestico. LAMÈTA, s.f.: Lametta. Quella per farsi la barba, anche se fino agli anni ’50 del secolo scorso erano pochi gli uomini che si rasavano con la lametta, preferendo quasi sempre il rasoio, meno pratico, ma più conveniente e sicuro. A differenza di oggi, quando anche le lamette, quelle classiche, sono quasi scomparse sostituite da quelle a due lame o a tre lame e, soprattutto, dai rasoi elettrici. LAMPÀR, v.: (v. Lanpàr. Lampişàr) Lampeggiare. LAMPÀRA, s.f.: Lampara. Lampada per la pesca con la sacaleva (v.). LAMPIÒN, s.m.: Lampione. Fanale. Se dùti i béchi i gavési el lampiòn, màma mìa che luminsiòn: canzone popolare.


LAMPIŞÀR, v.: (v. Lanpàr. Lampişàr) Lampeggiare. LÀMPO, s.m.: Lampo. Baleno. Veloce. A şé scampà come un làmpo. Rivarò fàr dùto in un làmpo. LANPÀR, v.: (v. Lampàr. Lampişàr) Lampeggiare. LÀNSA, s.f.: Lancia. Asta appuntita. Palo di legno che sostiene la pergola. LANSÀRDO, s.m.: Lanzardo. Sgombro macchiato. (Scomber japonicus) Pesce molto simile allo sgombro, ma di dimensioni leggermente superiori e dalla carne meno saporita. LÀNTA, s.f.: Anta. Imposta. Battente. LÀPIDA, s.f.: Lapide. Pietra tombale. Tabella commemorativa. LÀPIS, s.m.: Matita. LARGÀR, v.: (v. Şlargàr) Allargare. Ampliare. LÀRGO, agg.: Largo. Ampio. Abbondante. A şé de màniga làrga. Ciàpilo ala làrga. Maria me ga contà dùto, in lòngo e in làrgo. LÀRISE, s.m.: Larice. Albero delle conifere. LAŞAGNA, s.f.: (v. Taiadéle) Lasagna. Pasta alimentare che solitamente veniva fatta in casa e si usava soprattutto come pastasciutta condita molto spesso anche con sugo di carne di maiale (v. porsìna) e pomodoro. LAŞAGNÒL, s.m.: Matterello. Ròdolo de la pasta. (Capodistria) LAŞAGNÒN, s.m.: Stupidone. Persona sciocca. Fanfarone. Bugiardo. LASÀR, v.: Lasciare. Abbandonare. Permettere. Acconsentire.

Tollerare. Concedere. I me gà lasà de bàndo = mi hanno lasciato fuori dal gioco. I me gà lasà dìr la mìa = Mi hanno concesso di parlare. Vìvi e làsa vìver. Chi mòri el mòndo làsa, chi vìvi se la spàsa. LAŞARÒN, s.m.: Lazzarone. Manigoldo. LASCÀR, v.: Allentare. Mollare. Con lòri gavé lascà màsa, cusì i se gà profità. LÀSCO, agg.: Allentato. Mollo. Lasco. Strenşi più fòrte stò gròpo, se no a sarà tròpo làsco. LÀSIDO, s.m.: Lascito. Eredità. LÀ ŞÒ – LAŞÒ: avv.: Laggiù. LÀSO, s.m.: Laccio. Il solo làso che mi ricordo dagli anni della mia infanzia è quello che preparavo assieme a mio padre con del fil di ferro con cui allestire delle tagliole per catturare di frodo le lepri nel bosco sopra Aguavìa (v.). A volte era l’unica tipo di carne fresca che ci si poteva permettere di portare in tavola, oltre a qualche gallina per le feste comandate. Il làso si usava anche per metterlo al collo dell’asino mentre pascolava. Solo più tardi, con la lettura dei giornalini (v.) del “Piccolo Sceriffo” e di “Pecos Bill” ho scoperto le avventure legate ai film western. LÀSTICO, s.m.: Elastico. LÀSTRA, s.f.: Lastra. Làstra de giàso. Quel fiòldoncàn de mùlo, a me gà ròto le làstre dela finéstra co la flònda. LASTRÒN, s.m.: Lastra di pietra. Veniva usata sin dai tempi più lontani per lastricare vie e piazze di Isola. Preferita, anche perché più facilmente reperibile, la pietra arenaria grigia, tanto che alcune contrade hanno preso il nome di Grìşa (v.) proprio dal colore dei lastròni.

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LÀ SÙ - LASÙ, avv.: Lassù. LATÀ, agg.: Allattato. LATÀR, v.: Allattare. LÀTE, s.f.: Latte. Mentre la lingua italiana conosce il latte, come sostantivo maschile, la parlata isolana lo identificava come sostantivo femminile, dicendo la làte: la làte de l’armenta e de la càvra. Come sostantivo maschile, invece, pur sempre con la stessa dicitura, si usava per definire il lattice: El làte dei fìghi a şé tacadìso. Un tempo, ancora fino ai primi anni Settanta, c’erano ancora le dòne del làte che ogni mattina bussavano alla porta di casa per consegnare il latte fresco e cremoso. Fino agli anni ‘50 del secolo arrivavano coi somarelli carichi di ramìne (v.) piene di latte che parcheggiavano dove c’era il Fontanone, poi divenne più comodo portare il latte caricando le ramìne sulla corriera che faceva la spola con Isola. LÀTE DE GALÌNA, s.m.: (v. Satò) Rosso d’uovo sbattuto con aggiunto zucchero e latte caldo. LAVÀ, agg.: Lavato. LAVÀDA, s.f.: Lavata. Dàrse una lavàda ala şvelta; Toni, a se gà ciapà‘na lavàda de testa. LAVAMÀN, s.m.: Lavello. Lavabo. Catino. LAVANDÈRA, s.f.: Lavandaia. LAVÀR, v.: Lavare. Detergere. Una màn làva l’altra, el vişo dùte dò. Lavàrse le màn. Lavàrghe la tésta al mùs, se pérdi la lìsia e anche el savòn. LÀVERNO, s.m.: (v. Şlàverno) Lauro. Alloro. Si dice che da questa pianta abbia preso origine il toponimo di Lavorè (v.). Ancora oggi, infatti, nella zona sono molto

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frequenti le piante di alloro, in particolare lungo il tracciato di quella che un tempo era la ferrovia della Parensàna (v.) e che oggi è trasformata in pista ciclabile e pedonale. LAVÈŞO, s.m.: Pentola di terracotta per cuocere. LAVÒR, s.m.: Lavoro. Méter in lavòr = Incominciare un lavoro. LAVORÈ, top.: Zona alla periferia di Isola che inizia subito dopo la salita di Salèto e oltrepassato Capitèl. La strada, una volta raggiunto il fondo valle , ricominciava una salita abbastanza ripida per raggiungere Costerlago e, fino a qualche decennio fa, anche Malìo. Il toponimo, anche se potrebbe indurre ad una derivazione che abbia a che fare con il lavoro, sembra che le sue origini più autentiche vadano ricercate già al tempo dei romani nella presenza in zona di molte piante di lauro, o, come conosciute nel dialetto isolano, làverno (v.). LÀVRA, s.f.: Scaglia di pietra. Sasso piatto e sottile. In alcune campagne dell’Istria, ma anche del contado isolano, alcune casette dei contadini venivano coperte, in mancanza di tegole (v. Còpi), con le làvre. Nei villaggi dell’interno, ma a volte ne veniva fatto uso anche da chi parlava il dialetto isolano, la làvra veniva definita anche come scrìla, di provenienza slovena (skril). Le làvre venivano usate per costruire trappole per gli uccelli: sostenute da una parte con un ramoscello venivano innalzate sull’esca e cadevano sul volatile imprigionandolo nella buca sottostante. LÀVRO, s.m.: Labbro. LAVRÒTI, s.m.pl.: Labbra grosse, sporgenti, grossolane.


LÈGER, v.: (v. Léşer.) Leggere.

LIÀNDRO, s.m.: Oleandro.

LEGNÀDA, s.f.: Legnata. Bastonata.

LIBEŞÀDA, s.f.: Libecciata. Forte vento di libeccio.

LÈGNE, s.f.pl.: Legna.

LICÀDA, s.f.: Leccata.

LEGNÈRA, s.f.: Legnaia.

LICACÙL, agg.: Persona untuosa, asservita per opportunismo.

LEGNÈTO, s.m.: Legnetto. Diminutivo di legno (v. şbìsa).

LICADÌNA, s.f.: Leccatina.

LÈMA, s.f.: Lamento. Lagna. Piagnucolio.

LICAPIÀTI, agg.: Leccapiatti. Goloso. Mangione.

LEMÀR, v.: Lamentare. Piagnucolare.

LICAPIATÌNI, s.m.: Adulatore. Servile.

LEMÒŞINA, s.f.: Elemosina. LÈNGUA, s.f.: (v. Lìngua) Lingua. LENSIÒL, s.m.: (v. Linsiòl. Nisiòl) Lenzuolo. LENGUÀSA, s.f.: (v. Linguàsa) Linguaccia. Lenguàsa de bàba. LÈPO, s.m.: Leppo. Lampuga. Tordo. Specie di pesce non molto apprezzato. LESÀR, v.: Lessare. Bollire. cucinare. LÈSCA, s.f.: (v. Èsca) Esca. LÈŞER, v.: (v. Léşe) Leggere. LEŞÈR, agg.: Leggero. LÈŞIDO, agg.: Liso. Vecchio. Consumato LÈSO, agg./s.m.: Lesso. Bollito. Carne o verdura lési; òvi lési. LÈTO, s.m.: Letto. Gavèmo comprà el lèto co’ le sùste e còi stramàsi. LÈTRICO, agg.: Elettrico. LÈVA, s.f.: Leva. Servizio militare. Mi gò pasà la lèva sòto l’Austria e, dopo, ànca sòto l’Italia, sòlo i drùşi i me gà lasà in pàşe. LEVADÙRA, s.f.: Lievitazione. LEVANTÈRA, s.f.: Forte vento di Levante. Bora scura. LEVÀRSE, v.: Lievitare. Alzarsi. LÈVRO, s.m.: Lepre. A şé şvélto come un lévro.

LICAPÌE, s.m.: Leccapiedi. Adulatore. LICÀR, v.: Leccare. In senso figurativo anche Adulare: I lo lìca, parché a şé pién de bòri. LICHIGNÀR, v.: mangiucchiare. Piluccare. LICHIGNÒŞO, agg.: Delicato. Di palato difficile. LICÒFO, s.m.: (v. Lincòfo e Incòfo) Inaugurazione di un edificio. Quando la costruzione di un edificio arriva al tetto. LIGADÙRA, s.f.: (v. Spiròn) Legatura. Nodo. Grappolo d’uva. I grappoli venivano tagliati assieme al ramo e alle foglie per far bella figura, oppure per appenderli in casa e farli durare (certe qualità di uva) anche dopo la vendemmia. LIGÀMO, s.m.: Legame. Vincolo. LIGAPIGNÀTE, s.m.: Antico mestiere girovago. Consisteva nel legare con filo di ferro pentole e tegami di terracotta affinché non si rompessero. Solitamente era un lavoro eseguito, assieme a tanti altri, dalla stessa persona che saltuariamente faceva il giro del paese e delle contrade: el consapignàte (v.) = lo stagnino, l’ombrelàro (v.) = riparaombrelli, el gùa (v.) = arrotino.

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LIGÀR, v.: Legare. No podèvimo fàr gnènte, parchè gavèvimo le màn ligàde. Chi bèn lìga, bèn dişlìga (v.). De lù no me fìdo, parchè dopo l’ultima volta me pàr che a se la gà ligàda al dèo. Provè a magnàr nèspole e sòrboli şèrvi, e vedarè come che i lìga. LIGÀSO, s.m.: Legaccio. LIMÀGA, s.f.: Lumaca. Quella senza guscio. Con il termine a volte si definiva anche persona lenta e limacciosa. LIMBÈL, s.m.: Orlo. Stipite. Ornamento. Scanalatura nel legno con la quale i falegnami orlavano la rifinitura di un mobile. LIMIGNÀN, top.: Limignano. Il toponimo fa parte del territorio del comune di Pirano, tuttavia viene spesso citato anche dagli Isolani, in quanto segna il limite confinario tra il comune di Pirano e quello di Isola. (dal latino “Liminianum”, come descritto dal De Franceschi: “De’ contrata àiutem Liminiani diffinierunt”) È probabile che proprio questo territorio sia stato causa di dispute confinarie tra i due Comuni che, nel medio evo avevano portato addirittura alla stesura di alcuni capitoli dello Statuto di Isola del 1360, con i quali si vietava agli Isolani qualsiasi rapporto con i Piranesi. LIMÒN, s.m.: Limone. Nìno a şé malàdo, a gà ‘na siéra de limòn. LIMONÀDA, s.m.: Limonata. Spesso viene usato per indicare evento artistico di poco valore: Iérimo in cìne, ma iéra pròpio ‘na limonàda. LIMÒSA, s.f.: Bavosa. Pesce marino viscido e immangiabile. In dialetto chiamato anche Strìga o Vécia. LÌN, s.m.: Lino. Tessuto di lino. LINCÒFO, s.m.: (v. Licòfo e Incòfo)

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Edificio portato a termine con la posa delle tegole sul tetto. LÌNDO, agg.: Liso. Consunto. In base a quale logica linguistica, il significato del termine in lingua italiana abbia assunto nel dialetto isolano un’identità quasi opposta, è difficile constatarlo. LÌNDA, s.f.: Cornicione. LÌNGUA, s.f.: Lingua. Staséra pàr séna gavémo pàn e lìngua. La şé ‘na lìngua lònga. No me ricòrdo, ma gò el so nòme pròpio sula pònta dela lìngua. La lìngua ònşi e el dènte spònşi. LINGUÀSA, s.f.: Linguaccia. Maldicente. Sboccato. La şé una linguàsa. LINGUÈLA, s.f.: Linguetta. La lingua delle scarpe. LÌNIA, s.f.: (v. Lìgna) Linea. Binario. Strada ferrata. A parte il significato letterale di linea, il termine stava, almeno fino ai primi anni Cinquanta, a significare la strada ferrata, quella che portava da Trieste a Parenzo (v. Parensàna) e in particolare il tratto che collegava Isola al Primo ponte. Spesso usato, soprattutto perché i ragazzi si davano appuntamento a la lìnia per fare il bagno. Ma, a quanto ho potuto constatare, il termine veniva usato anche per tutto il tratto che portava fino a Strugnano dagli stessi agricoltori, che avevano i campi lungo il tragitto. Come noto, la linea ferroviaria venne smantellata il primo settembre del 1935. LINSÌNI, s.m.pl: (v. Insani. Rensìni. Resìn. Rinsìni) Attrezzo di legno a doppia V che si metteva sul dorso dell’asino sopra il basto (v.) per il trasporto di pali, canne e altri oggetti lunghi. Deriva da orecìni (v.), poiché pendevano dal basto come degli orecchini.


LINSIÒL, s.m.: (v. Lensiòl. Nisiòl) Lenzuolo. Fiòi e linsiòi no şé mai màsa. Mèio consumàr le scàrpe che i linsiòi. LIÒGO, s.m.: (v. Lògo) Luogo. Posto. Sito. Spazio. Da rilevare che durante il secolo scorso, soprattutto nella seconda metà il termine venne quasi completamente sostituito da lògo. LÌRA, s.f.: Lira. Nome della moneta italiana prima dell’introduzione dell’Euro. Nel primo dopoguerra, fino agli anni ‘50, durante la zona B del Territorio Libero di Trieste, la popolazione isolana ha conosciuto anche la metrolira introdotta dalle forze alleate - cui fece seguito la jugolira con la quale il potere popolare nel 1950 sostituì quella americana finchè, nel 1952, non sostituì anche questa con la moneta ufficiale jugoslava, il dinaro. LÌSA, s.f.: Leccia. Pesce gallo. Pesce di mare, carne bianca buona, di notevoli dimensioni fino a 40 cm. LISÀDA, s.f./agg.: Lisciata. Levigata. Usata pure nel senso di adulazione per ottenere un favore. Se te vòl gavér qualcosa de lù, te devi dàrghe una béla lisàda. LISADÌNA, s.f.: Lisciatina. Darghe ‘na lisadìna ai cavéi. LISÀR, v.: Lisciare. Accarezzare. Adulare. LÌŞEDO, agg.: Liso. Consunto. Consumato. LIŞÈRDA, s.f.: Lucertola. LÌSIA, s.f.: Il bucato. Naturalmente, il bucato all’antica, quello fatto a mano, magari presso Fontana Fora. LISIÀSO, s.m.: Acqua del bucato. Non so a cosa potesse servire, visto il sistema usato un tempo

per fare il bucato. Era acqua che conteneva ancora il sapone e, se si trattava di lenzuola, anche rimasugli della cenere adoperata. Acqua de lisiàso si usava per un brodo o una minestra poco saporiti e molto diluiti. LIŞIÈR, agg.: Leggero. Esile. A şé lişiér come ‘na piùma. LISIÈRA, s.f.: Lavanderia. LISÌVA, s.f.: Liscivia. Soluzione di sostanze detergenti e sbiancanti, un tempo ottenuta anche con l’impiego della cenere sciolta in acqua bollente (v. Lìsia) usata per il bucato. LÌSO, agg.: Liscio. Stasera el màr a şé lìso come l’òio. Nel gioco della briscola (v.) andar lìso significa non superare la carta che è stata giocata. Nìno la gà pasàda lìsa, anca se ne gà combinàde de dùti i colori. LISTÒN, s.m.: Passeggio cittadino. Come testimonia ancora una volta A. Vascotto, seppur con qualche punto di domanda, Listòn rappresentava la passeggiata serale con sfoggio di eleganza nel vestire. Se altre cittadine e città usavano il Corso per la passeggiata serale, a Isola era d’abitudine incontrarsi sul molo in attesa che arrivi il piroscafo (v. Bapòr. Vapòr) proveniente da Trieste. LIVÈL, s.m.: Livello. Livella. LIVIŞÀN, top.: Livizzano. Il territorio è situtato nelle vicinanze della Valderniga ed è conosciuto fin dal 1500. Anche questo toponimo è di origine romana e dovrebbe derivare da Laevidius o Laevinius. LOCÀL, s.m.: Locale. Soprattutto come locale pubblico, tipo bar, osteria, ritrovo.

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LÒDOLA, s.f.: (v. Òdola) Allodola. Chissà perché ho l’impressione che oggigiorno vi siano nel nostro territorio meno allodole, pernici e, se volete, anche cornacchie, di una volta. In compenso, ma forse è una valutazione avventata, ci sono molte più gazze che si spingono fin negli orti delle case e nei giardini di Isola. Quand’ero molto più giovane, cinquanta e più anni fa, ricordo che pasti arricchiti con petto e cosciottine di allodola o di pernice succedevano almeno un paio di volte all’anno. Ma anche di uccelleti più piccoli che si andavano a intrappolare con le vis’ciàde (v.) presso qualche sorgente d’acqua. Le lodole, invece si catturavano con l’inganno nei campi di uva o appena mietuto il grano, quando arrivavano a ciàpi (v.). La trappola consisteva in un lastrone di pietra tenuto alto da una parte con un piccolo ed sottile stecchetto di legno. Sotto si spargevano dei semi di frumento o di altro. Quando arrivavano gli uccelli, bastava un piccolo urto per far cadere la lastra di pietra. Ed il companatico per la cena era assicurato. LOGÀR, v.: Allogare. Collocare. Trovar posto. Accasare. Deriva evidentemente da Lògo (v.). LÒGO, s.m.: Luogo. Posto. Sito. LÒICA, s.f.: Nenia. Filastrocca. Discorso lungo e inconcludente. LONBRÈLA, s.f.: (v. Ombrèla) Ombrella. LONGHÈSA, s.f.: Lunghezza. LÒNGO, agg.: Lungo. Lento. Ma te sòn lòngo, mai una fìn che te rivàsi. Te sòn lòngo come la quarésima. Te la sa lònga. Mùşo lòngo. Iéra ‘na minestra un pochetìn lònga pàr sasiàrse. No

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fàr mai el pàso più lòngo dela gàmba. LÒNŞA, s.f.: Lonza. Lombata. Filetto di maiale. LONSÈRNA, s.f.: (v. Anşoléto e Pesce préte) Capone. Pesce di mare dalla carne bianca e buona. LONTÀN, avv./agg.: Lontano. Distante. Chi va piàn va sàn e va lontàn. LÒRDA, s.f.: Fame. Appetito. Gò ‘na lòrda che magnarìa un mànşo con dùta la pele. LORÈŞE, s.m.: Orefice. Orafo. Interessante la ricostruzione del termine che ne da Antonio Vascotto: lo riportiamo testualmente. “Un altro di quei casi strani in cui l’articolo si salda al nome formando una parola unica. In veneziano l’orafo di diceva oréşe, quindi: l’oréşe, da cui a Isola loréşe.” LORÈTO, top.: Loreto. Toponimo isolano sulla collina antistante Isola prima di scendere verso Strugnano. Il nome viene dalla piccola chiesetta innalzata nel XVII secolo e intitolata alla Beata Vergine in segno di ringraziamento dopo un’epidemia di peste. LÒRI, pr.: Essi. Loro. Al femminile Lòre. LORÒGIO, s.m.: (v. Rològio) Orologio. Soltanto negli ultimi decenni si usa la forma italiana di orologio. C’è ancora qualcuno, però, che per semplificare, pronuncia semplicemente rològio. LÒŞA, s.f.: Loggia. Veranda. Balcone. Anche Isola, come quasi tutte le cittadine che hanno conosciuto i tempi della Serenissima, aveva un suo Palazzo Pretorio, un palazzo Municipale e, naturalmente, una sua loggia.


LÒSTRO, s.m.: Ostro. Vento che soffia da sud. LÒVO, s.m./agg.: Lupo. Mangione. Ingordo. LÒVO, s.m.: (v. Aşenél) Nasello. Pesce marino. LÙ, pr.: Lui. Egli. Mi con lù no vòio gavér gnénte da fàr. A no pàr più lù. LUCHÈTO, s.m.: Lucchetto. LUDAMÀR, v.: Letamare. Concimare. LUDÀME, s.m.: Letame. Si raccontava tra gli agricoltori del prete che andava in giro per le campagne predicando: Ludàm fa pàn, no la mia sànta màn. LÙDRO, s.m.: Birbante. Furfante. Canaglia. LUGÀNEGA, s.f.: (V. Lugàniga) Salsiccia. Şè più şorni che lugàneghe. LUGÀNIGA, s.f.: (V. Lugànega) Salsiccia. Lugàniga de Cragno. Lugàniga de Vièna. LÙGARO, s.m.: (v. Lùgro. Lùghero) Lucherino. Una volta catturato per le sue belle piume e per la voce canterina si usava tenerlo in gabbia. Il termine veniva usato anche per indicare persona sveglia e furbastra. Te me şe proprio un bél lùgaro.

stanze di sopra, senza portarsi dietro il lume. LUMÌN, s.f.: Lumino, lumicino. LUMINAL, s.m.: Abbaino. Lucernario. LUMÌNIO, s.m.: Alluminio. Fino agli anni sessanta del secolo scorso il metallo era molto presente in cucina per la resistenza e perché molto leggero. LÙNA, s.f.: Luna. Cattivo umore. Ògi a gà la lùna stòrta. LÙNI, s.m.: Lunedì. Lùni, màrti, mérco, şiòba, véne, sàbo, doménega. LÙPA, s.f.: Baracca. Rimessa. Gò mèso ‘l càro sòto la lùpa che a no se bàgni. LÙŞE, s.f.: Luce. LÙŞER, v.: Luccicare. Splendere. LUŞÈRDA, s.f.: Lucertola. LUŞÈRNA, s.f.: Lucerna. Lampada. Lume ad olio. LUŞIGNÒL, v.: Usignolo. LUSTRÀR, v.: Lucidare. Lustrare. LUSTRO, agg.: Lucido. Chiaro. Pulito. LUSTROFÌN, s.m.: Lacca. Lucido. Lustrino. Materiale che luccica o che fa luccicare, splendere.

LÙGHERO, s.m.: (v. Lùgaro. Lùgro) Lucherino. LÙGRO, s.m.: (v. Lùgaro. Lùghero) Lucherino. LÙIO, s.m.: Luglio. LÙME, s.m.: Il lume (quello a petrolio). Luce. LÙME DE SAN GIOVANNI, s.f.: Lucciola. LUMÈTA, s.f.: Piccola lampada a petrolio. Serviva per andare nelle

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Mm

M, Undicesima lettera dell’alfabeto italiano. MA, cong.: Ma, però. Mà e mò – i iéra in dò. MACÀ, agg.: (anche Macàdo) Ammaccato. MÀCA (A..), avv.: Gratis. A sbafo. A ufo. A scrocco. Gavémo magnà e bevù a màca. MACACÀDA, s.f.: Stupidaggine. Stranezza. Scherzo. In fondo no iéra gnente de serio, iéra solo ‘na macacàda de mularìa. MACÀCO, agg.: Stupidino. Sciocco. MACÀDA, s.f.: Ammaccatura. Contusione. MACADÌSO, agg.: Uggioso. Pesante. Noioso. Umidiccio. MACADÙRA, s.f.: Ammaccatura. Contusione. MACÀR, v.: Ammaccare. Pestare. Far sentire la propria forza. Vin che màca per caratterizzare un vino forte e poderoso che lascia il segno. MACARÒN, s.m.: Maccherone. Pasta che a volte si portava in tavola condita con il sugo, in sostituzione delle lasagne. Però, mentre le lasagne si facevano in casa, i macaròni bisognava comperarli in bottega, per cui erano pochi coloro che se lo potevano permettere. A volte venivano usati anche per arricchire la minestra, in sostituzione dei bìgoli (v.), del riso, dell’orzo o dei bobìci (v.). MACÈTA, s.m.: Macchietta. Usato per definire persona spassosa e comunque poco seria..

MÀCHINA, s.f.: Macchina. Màchina de cuşìr. Màchina de scrìver. MÀCIA, s.f.: Macchia. Viene usato anche per indicare persona sveglia, pronta nella battuta e furbastra. Sta ‘ténto de Nino, che a şé ‘na màcia. MACIÀ, agg.: (v. Maciàdo) Macchiato. Strano. Tarato. Persona poco seria. MACIÀR, v.: Macchiare. Sporcare. MÀCOLA, s.f.: Macchia. Devo dire di non aver mai sentito pronunciare questo vocabolo, ma lo riporto come curiosità, ripreso dalle Voci della parlata isolana di A. Vascotto, secondo il quale la parola era caduta in disuso a mano a mano che scomparivano gli anziani – intendendo i nati nella II. Metà del secolo XIX - i quali avevano gelosamente conservato tante pittoresche espressioni come questa derivante dal latino Macula che significa immacolato. Un’altra dimostrazione, se ce ne fosse ancora bisogno, del fatto che il dialetto isolano si era formato adeguando alle proprie necessità e abitudini l’antico italiano volgare, a sua volta derivato dal latino. MACÒN, s.m.: Colpo. Urto. Contusione. MADÀSA, s.f.: Matassa. MADIÈR, s.m.: Lo scheletro della barca sul quale viene fissata la chiglia. MADÒDIŞE, escl.: Imprecazione. Versione ingentilita di un’imprecazione religiosa. MADÒNA, s.f.: Madonna. Un tempo, fino agli inizi del secolo scorso, anche suocera, come testimonia il prof. Morteani nella sua storia isolana del 1888. MADÒNA GRANDA, s.f.: A Isola

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si è sempre celebrata la Madonna, tanto è vero che una parte degli edifici religiosi sono di carattere mariano. Così il 15 agosto, ricorrenza dell’Ascensione di Maria Vergine, presso il Santuario Mariano di Strugnano, si celebra la Madòna Gronda. Narra la leggenda che il 14 agosto del 1512 la Madonna sarebbe apparsa a due popolani, di professione guardie campestri, indicando quel posto come terra degna di accogliere un suo tempio. Tuttavia, storicamente, è accertato che la costruzione del Santuario risale a ben tre secoli prima. Se ne ha traccia già nel 1200, ed è noto che anche nel 1400 la chiesetta venne restaurata.

considerato il maestro della navigazione nel Mediterraneo. MAÈSTRO, s.m.: (v. Mèstro) Maestro. El bişògno şè un gràn maèstro. Nisùn no nàsi maèstro. MÀFIA, s.f.: Lusso, eleganza, sfoggio. Anche se lontano dal termine che indica il sistema malavitoso siciliano, tuttavia credo che lo spunto venisse proprio da quello, nel senso di ostentato sfoggio di lusso. MAGAŞÌN, s.m.: Magazzino. MAGAŞINIÈR, s.m.: magazziniere. Addetto al magazzino. MÀGIO, s.m.: (v. Màio) Maggio. Fiori de màgio.

MADÒNA PÌCIA, s.f.: La festività della Madòna Pìcia ricorre l’8 settembre, ed è legata alla piccola Chiesetta di Loreto. La chiesetta consacrata nel 1633 dal vescovo di Capodistria Pietro Morari è situata sul colle di Marzanè, oggi Belvedere, a sinistra della strada che da Strugnan porta a Isola, dopo la salita conosciuta con il nome di ràto del podestà (v.).

MAGNABALÌNI, s.m.: Anatra selvatica. Tuffetto.

MADRÀSO, s.m.: Vipera cornuta.

MAGNADÒRA, s.f.: Mangiatoia. Trugolo o greppia dove mangiano gli animali. In senso figurativo il termine viene usato anche per indicare possibilità oppure occasione dove una o più persone possono approfittarne a proprio vantaggio e a danno di altri: Sé méio no méterse con quela gente che şé dùti ‘na magnadòra.

MADRÈGNA, s.f.: Matrigna. La màre dà, la madrègna ciòl. MADREVÌDA, s.f.: Madrevite. Dado. MADRÌŞA, s.f.: Matrice. La massa gelatinosa, chiamata anche (v.) la mare, che si forma nell’aceto. MADRÒN, s.m.: Magone. Incubo. Oppressione. MADURÌR, v.: Maturare. Tèmpo e pàia madurìsi anca le néspole. MADÙRO, agg.: Maturo. MAESTRÀL, s.m.: (v. Maìstro) Maestrale. Vento di maestrale. Dicono che il vento venne chiamato così perchè veniva

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MAGNABÌGOLI, s.m.: Persona senza carattere. Persona debole. Era anche uno dei soprannomi presenti a Isola, ma, a quanto mi dicono, almeno negli ultimi decenni, il soprannome non dipendeva dal carattere dei componenti la famiglia. MAGNÀDA, s.f.: Mangiata.

MAGNAMÈRDA, s.m.: Persona vile, untuosa e viscida. MAGNAMÒCOLI, s.m.: Bambino che non si pulisce il naso dal moccio (v. Mòcolo). MAGNAPRÈTI, s.m.: Persona non amante della chiesa. Persona anticlericale.


MAGNÀR, v.: Mangiare. Magnàr àio = inghiottire amaro;Chi màgna sòlo, crèpa sòlo. L’apetìto vièn magnàndo. Me pàr che a gà magnà la fòia. Magnàrse el fègato. MAGNARÈSCO, agg.: Mangereccio.

malà el béco sàn; màl de sùchero; màl de réce; màl şàlo; màl sotìl; màl del mişerére = così definita la peritonite perché inguaribile; màl de dénti come i parénti; andar de màl = la làte şé ‘ndàda de màl; no ghe şé màl che non sìa un bén; màl de morìr; Dio vàrdi un màl de nòte; ghe gà ciapà màl; Chi màl scomìnsia màl finìsi.

MAGNARÌA, s.f.: Truffa. Ruberia. Probabilmente da magnadòra (v.) intesa come occasione per appropriarsi di beni altrui.

MALÀ, agg./s.m.: Ammalato

MAGNATÌVO, agg.: Alimentare. Mangereccio. Botéga magnatìva, fùngo magnatìvo.

MALAGNÀSO, agg.: (v. Malegnaşo. Malignàşo) Cattiverioso. Malizioso.

MAGNÒN, s.m.: Mangione. Ingordo.

MALAÌDA, s.f.: Rete per la pesca dei sardoni (v.) e delle sardèle (v.). Dopo gli anni Trenta venne sostituita dall’introduzione della sacaléva (v.).

MAGOLÀR, v.: Malmenare. Maltrattare. Pestare. MÀGRO, agg.: Magro. Magnàr de màgro. A şè màgro come un bacalà.

MALADÌS, agg.: Malaticcio.

MALAMENTE, avv.: Malamente. Male. In maniera sbagliata.

MÀIA, s.f.: Maglia. Usualmente si adopera il termine anche per la canottiera.

MALÀN, s.m.: Malanno.

MÀIO, s.m.: (v. Màgio) Maggio.

MALÀR, v.: Ammalare.

MÀIO, s.m.: Maglio. Grosso martello.

MALATÌA, s.f.: Malattia. Malatìa lònga, mòrte sicùra. In càşa strènşi, in viàşo spèndi, in malatìa spàndi. Malatìa de pèle, salùte de budèle.

MAIÒN, s.m.: Maglione. Maiòn de lana MAÌSTRO, s.m.: (v. Maestràl) Vento di maestrale. MÀL, s.m.: Male. Malattia. Màl catìvo = tubercolosi, cancro, in poche parole i mali che un tempo risultavano essere incurabili; Màl de San Valentin = epilessia; mal de péle, salùte de budéle = le malattie della pelle secondo le usanze di un tempo erano condizionate dalla digestione; mal de la lùpa = bulimia; no sarìa miga màl; par màl che la vàdi; de màl in péşo; savér de che màl se devi morìr; màl no fàr paùra no gavér; màl del cortişàn, el cùl

MALANDÀ, agg.: Malmesso. Malandato.

MALDRÀPO, s.m.: Manigoldo. Poco di buono. MALDUCÀ, agg.: Maleducato. MALEDISIÒN, s.f.: Maledizione. MALEGNÀŞO, agg.: (v. Malagnaşo. Malignàşo) Maleducato. MALIGNÀŞO, agg.: (v. Malagnaşo. Malegnàşo) Maleducato. Furbastro. No fidàrte de lù, a şè un malegnàşo. MALÌSIA, s.f.: Malizia. MALMÈSO, agg.: Disordinato. Trascurato. Ammalato. di aspetto dimesso.

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MALORA, s.f.: Malora. Rovina. ‘Ndàr in malòra; và in malora; se và vanti cusì, ‘ndarémo dùti in malòra. MALÒRSEGA, inter.: Malanno. Attenuativo di malòra (v.). Ma và in malòrsega. MALVASIA, s.f.: Malvasia. Vitigno e vino istriano. Accanto al vino rosso Refòsco (v.), la Malvasìa è il vino bianco per eccellenza di Isola. Già il “Dizionario del dialetto veneziano” di Giuseppe Boerio riferiva che a Venezia era conosciuta anche come “Malvagia”, ma anche come Greco o Grechetto, e - come poneva in rilievo - “era vino navigato, assai conosciuto, che ci viene dalle Isole del Levante. Il testo del Dizionario veneto continuava ancora dicendo che Greco chiamasi anche il luogo o la bottega dove il detto vino si vende. E ancora, che Malvasiòta è la moglie o Femmina di colui che vende la Malvàgia e che Malvasiòto è il venditore della Malvàgia. MÀMA, s.f.: (v. Màre ) Mamma. Madre. Chi vòl la fìa che bàşi la màma. MAMALÙCO, s.m..: Scemo. Sciocco. Poco sveglio. MÀMO, s.m.: Ragazzo. Giovanotto. MÀMOLA, s.f.: Bambina. Ragazza. Signorina. MÀMOLO, s.m.: Ragazzo. Giovane. Una definizione, purtroppo, che è completamente scomparsa nell’uso quotidiano e che, invece, stava a significare un’indicazione simpatica e affettuosa dei giovani. Il Vocabolario Giuliano del Rosamani stabilisce che il termine è di origine Capodistriana o Piranese del XV secolo. Riporta

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anche i versi di G. Marin: Quante màmole nòve che şè in fiòr, e mì son vècio e inamoràdo. Nei secoli scorsi il lemma veniva usato anche per indicare giovane in genere. Così, a Venezia, il mozzo veniva chiamato el màmolo del batèlo. Per quanto sono riuscito a raccogliere dalle nostre parti, il termine è oggi conosciuto anche a Isola, a Capodistria ed a Muggia, ma essenzialmente domiciliato a Pirano e Strugnano. MÀN, s.m.: Mano. Una màn làva l’altra e ‘l vişo dùte do; la bònamàn¸ gavér dùto sòtomàn; dàrghe ai muri ‘na màn de bianco; dàrghe ‘na màn a chi gà bisogno; a gà le màn şbuşàde; drìo màn. MANARÌN, s.m.: Piccola ascia. Piccola mannaia. MANÀŞA, s.f.: Rancio. Vitto militare. MANÀURA, s.f.: Manovra. Esercitazione militare. MÀNCO, avv.: Neanche. Nemmeno. Mànco màl; mànco a dìr. MÀNCOLO, s.m.: Presa per reggere il remo sulle barche. MÀNDOLA, s.f.: Mandorla. Con questo termine venivano chiamati anche i semi della pesca e dell’albicocca. In senso figurativo anche bustarella. Par rivàr a méter la fìa in fabbrica a gà dovù dàrghe ‘na mandola al capo. MANDOLÀTO, s.m.: Mandorlato. Croccante. MANDOLÈR, s.m.: Mandorlo. MANDOLÌN, s.m.: Mandolino. Per quello che ne so, i gruppi mandolinistici erano particolarmente presenti nelle località istriane soprattutto nel dopoguerra quando quasi ogni Circolo Italiano di Cultura ne


aveva uno. Dalle nostre parti era conosciuta soprattutto la “Mandolinistica” di Capodistria, diretta da Matteo Scocir, al cui impegno molti connazionali non più ventenni devono riconoscenza per aver imparato a strimpellare e a riconoscere qualche nota musicale. Non mi risulta che in questo periodo ci fosse una mandolinistica presso il Circolo di Isola, mentre era in voga un’orchestrina che al sabato organizzava dei balli per i più giovani. A. Vascotto, invece, racconta che verso il ’30 un gruppo mandolinistico venne creato anche a Isola, in via Ettoreo, ma le sue fortune furono brevi e passeggere. MANDRÀCIO, s.m.: Mandracchio. Darsena. La parte interna del porto. È quella parte del porto che a Isola protegge le imbarcazioni dei pescatori assieme alla Diga (v.) e al Molo Sanità (v.). Secondo i dati d’archivio il molo ed il mandracchio sono stati riparati ed ampliati nel 1536. MÀNDRIA, s.f.: Mandria. Gruppo di grossi animali. MANDRIÈR, s.m.: Mandriano. Custode di mandrie. I mandriéri era anche il soprannome di una famiglia di contadini che abitava a Marzané (v.) e che, per quanto mi ricordo, erano venuti dall’interno dell’agro capodistriano e quasi sicuramente prima di dedicarsi all’agricoltura erano dediti al pascolo o, comunque, all’allevamento del bestiame. MANDRIÒL, s.m.: Maggiolino. Insetto dei coleotteri. MÀNEGA, s.f.: Manica. Anche gruppo di persone balorde. Şé méio lasàrli pérde, parché i şé duti ‘na brùta mànega.

MÀNEGO, s.m.: Manico. El mànego de l’ombrèla. Dopo tànti àni ànca ‘l mànego dèla sàpa a vèn lìso. MANEGHÈTO, s.m.: Piccolo manico. Anche bicchiere da un quarto di litro: perché era provviso del manico. MANÈLA, s.f.: Mannella. Covone. Fascio. Manéla de vénchi = Fascio di vimini. I contadini tenevano legate le manéle de vénchi ai fianchi per avere a portata di mano i vimini durante il lavoro di legatura delle viti al filo di ferro o alle canne e che seguiva quello della potatura. MANÈRA, s.f.: Mannaia. Accetta. Scure. Şé ‘ndà in malòra el mànego, che vàdi ànca la manéra. MANERÌN, s.m.: Piccola scure. MANÈŞIA, s.f.: Magnesia. MANÈSTRA, s.f.: (v. Minèstra) Minestra. Un tempo il piatto forte di quasi tutte le famiglie isolane. Pàsta e faşòi. MANÈTA, s.f.: Gioco per ragazze. MANGÒN, s.m.: Angoscia. Dispiacere. Magone. MANÌLIA, s.f.: Maniglia. Manovella. Sotto l’influsso sempre più presente dell’italiano e, soprattutto, del vocabolario triestino, il termine manìlia ha lentamente preso il posto del precedente clùca (v.) certamente portato a Isola dagli abitanti slavi del contado. MANÌSA, s.f.: Manovella. Impugnatura. Maniglia. MANIŞÀR, v.: Maneggiare. Usare. MANÌŞO, s.m.: Maneggio. Operatività. Disponibilità. MÀNŞO, s.m.: Manzo. Bue. A Isola e dintorni il bue era quasi sconosciuto. Anche i

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contadini per i lavori nei campi preferivano sostituirlo con l’asino o, al massimo, chi se lo poteva permettere, con il cavallo. Più frequenti, soprattutto nei villaggi e in campagna, le vacche (arménte v.) per il latte. Chì còpa el mànşo a màgna un mèşe, chi còpa ‘l pòrco màgna un àno. MANTÈCA, s.f.: Burro. Crema. Pomata. Sembra che il termine sia stato portato a Isola da qualche spagnolo. MANTEGNÌR, v.: Mantenere. MANTEGNÙDA, s.f.: Mantenuta. Amante. MANTÌL, s.m.: Tovaglia. Termine completamente in disuso, ma riportato alla fine del secolo XIX dal prof. Morteani. MANUÀL, s.m.: Manovale. Bracciante. Dìr che a şé un manuàl, şé come dìr che a şé un pàla e picòn. MAÒNA, s.f.: Maona. Chiatta. Anche pontone e aleggio per trasbordi. MÀR, s.f.: Mare. Fàr un bùşo in màr. Dàrghe sòldi a lù, şè còme butàr àqua in màr. MARANGÒN, s.m.: Falegname. Ricordo che per mia madre, buonanima, el marangòn era il più bel mestiere del mondo. Sempre drénto, sempre sùto e sempre qualche schéo in scarséla. MARASCHÌN, s.m.: Maraschino. Liquore dolce prodotto dalle marasche. MARAVÈA, s.f.: Meraviglia. MARCÀ, s.m.: Mercato. A bòn marcà = a buon prezzo. MARCIÀR, v.: Marciare. MÀRCO CÀCO, n.pr.: Lontano nel tempo. Viene usato per cosa o

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persona ormai vecchissima e fuori moda. È probabile, almeno per l’area veneta, che il modo di dire abbia origine da persona realmente esistita: si dice nel 1348. Còsa te gà comprà ‘sto vestìto sòto Marco Càco? MÀRE, s.f.: Madre. Matrice. Una màre mantén diéşe fiòi, diéşe fiòi non şé bòni da mantegnìr una màre. Magnàr la màre e bèver el fìo = mangiare l’uva e bere il vino. MARÈNDA, s.f.: Merenda. Colazione. MAREŞÀDA, s.f.: Mareggiata. MARÈTA, s.f.: Mare mosso. Termine usato anche per definire situazioni di conflittualità o di eventuali complicazioni. Pèna che li gò vìsti insième gò capì subito che ièra marèta. MARGARÌTA, s.f.: Margherita. MARÌ, s.m.: Marito. In şùgno, le sariéşe le gà ‘l marì. MARÌDA, s.f.: Ghiso. Menola. Pesce marino alquanto scadente. MARIDÀR, v.: Maritare. Sposare. MARINAVÌA, s.f.: Il lungomare. La riva del mare. La marina. La riva del mare non ancora urbanizzata, quella che dal giro caròse andava al primo ponte e quella che da San Simon portava fino a sotto Ronco. MARINÈR, s.m.: Marinaio. MARMÀIA, s.f.: Marmaglia. Gruppo di bambini. Una vecchia canzone popolare triestina, ma conosciuta anche in Istria, recitava metarèmo ‘sta marmàia ne l’otàva divisiòn, con riferimento all’ospedale dei matti di San Giacomo a Trieste. La canzone, però, venne diffusa anche a Isola nel corso della prima Guerra Mondiale quando venne riscritta


dai soldati inviati dall’esercito austriaco in Galizia con le strofe cantarèmo Demoghèla finchè l’ultimo sarà. Il riferimento riguardava l’ottavo Reggimento della fanteria austriaca ironicamente definito, appunto, “Demoghela”. MÀRMORO, s.m.: Marmo. Ancora negli anni ’50 del secolo scorso era possibile sentire qualche uomo più avanti negli anni pronunciare màrmoro. Negli ultimi decenni, però, il termine è completamente scomparso e sostituito dall’italiano marmo. MÀRO, agg.: Amaro. MARÒCA, s.f.: Scarto. Residuo. Dùti gà ciapà qualcosa, solo a mì che son rivà ultimo i me gà lasà la maròca. Anche rovo, arbusto spinoso, che non da frutta commestibile. MARÒIDE, s.f.pl.: Emorroidi. MARÒN, s.m./agg.: Castagna grossa. Difetto. Marrone (il colore). MARŞANÈ, loc.: Marzané toponimo sulla strada tra Isola e Strugnano, in discesa dopo Loréto (v.). MARSÌR, v.: Marcire. MÀRSO, agg.: Marcio. Putrido. Andato a male. A me gà vendù pòmi mèşi màrsi, quel fioldoncàn. MÀRSO, s.m.: Marzo (il mese). In màrso chi no gà scàrpe che vàdi discàlso. MARTÈL, s.m.: Martello. MARTELÀDA, s.f.: Martellata. MÀRTI, s.m.: Martedì. MÀSA, avv.: Troppo. Eccessivo. Te gà fàto ‘na càşa màsa granda. MASAMÈNTO, s.m.: Massacro. Strage. Uccisione.

MAŞANÈTA, s.f.: (anche Maşenéta) Granchio femmina. La Maseneta si riconosceva per la turgidezza dovuta alle uova. MASAPÒRCHI, s.m.: Macellaio. Addetto specialmente all’uccisione e macellazione dei maiali. Di solito erano in due, dotati di un carretto su cui portavano un cassone della forma di una grande madia, costruito in legno robusto e provvisto di una grande e spessa asse. Poi erano fortniti di coltelli taglienti e appuntiti, nonchè di raschietti per togliere le setole. Andavano su chiamata di casa in casa dalla fine di novembre fino a febbraio. MASÀR, v.: Ammazzare. Uccidere. Spegnere. Co’ te finìsi de rostir, masa i bronsi! El carbon şe caro! MASARÌA, s.f.: Massacro. Strage. Eccidio. MASCARÒTO, s.m.: Mascherone. Viso deturpato da malattia, o rabbia. MAS’CIÀR, v.: (anche Imas’ciàr): Filettare. Formare la spirale della vite. MÀS’CIO, s.m./agg.: Maschio. Maschile. Mascolino. Virile. Màs’cio e fémina: certe abbottonature nel vestiario, nella filettatura delle viti, ecc. Nel linguaggio più grezzo si diceva Màstio (come stiòpo per schioppo, fistiàr per fis’ciàr, ecc). MÀS’CIA, s.f./agg.: Femmina. Bepi a gà una béla mas’cia de cunìgi col pel lòngo! MAŞÈGNO, s.m.: Arenaria. Macigno. Pietra comune di colore grigio-azzurro, che in lastre veniva usata per lastricare piazze e strade e per costruire edifici. Buona parte delle case di Isola, infatti sono costruite con questa pietra e molte

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vie ne hanno addirittura assunto il nome: Grìşa (v.). MASÈLA, s.f.: Mascella. Mandibola. MASÈLO, s.m.: Macello. Mattatoio. MÀŞENA, s.f.: Macina. Frantoio. MAŞENÀR, v.: Macinare. Parlare senza interruzione. La Tìna, co’ la tàca maşenàr, no la finìsi più. MAŞINÌN, s.m.: Macinino. Termine con il quale veniva genericamente definito il macinacaffè. MASÈTO, s.m.: Mazzetto. Piccolo mazzo. Maséto de fiori. Così è chiamato anche un gioco d’azzardo con le carte in cui tra i vari mazzetti coperti vince la carta più alta. MASIÈRA, s.f.: Catasta di pietre. Mucchio di pietre. Muricciolo a secco. MÀSIMA, avv.: Soprattutto. Specialmente. MASIÒLA, s.f.: Mazzuola. Martello di legno usato per non lasciare il segno su materiali come il legno. MÀSO, s.m.: Mazzo. MASÒCA, s.f.: Bulbo. Tubero. Grossa radice. MAŞORÀNA, s.f.: Maggiorana. Erba aromatica, spezia. MASTÈL, s.m.: Mastello. Tinozza. MASTÈLA, s.f.: Mastella. Recipiente nel quale un tempo si portava l’acqua da bere dalla fontana e poi si teneva in casa. MASTIGÀR, v.: Masticare. Usato anche per definire persona che parla male una lingua. A màstiga si e no dò parole de şlàvo. MASTRUSÀ, agg.: (anche Mastrusàdo) Schiacciato. Premuto. Pigiato. MASTRUSÀDA, s.f.: Schiacciamento. Pigiatura.

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MASTRUSÀR, v.: Schiacciare. Premere. Pigiare. Strizzare. MATÀDA, s.f.: Pazzia. Scherzo pesante. Burla. No còreva che i se la ciàpi tànto, no iéra che ‘na matàda de muli. MATALÒNA, s.f.: Tipo di uva da tavola, grossa e poco dolce. Veniva usata anche come uva da taglio per aumentare la quantità del vino prodotto. MATÀN, s.m.: Matto. Squilibrato. distratto. MATARÀN, s.m.: Buontempone. Allegrone. Mattoide. Scherzoso. MATAVÌLS, s.m.: Valeriana. Erba commestibile molto apprezzata in insalata durante i mesi invernali perché resiste anche a temperature più rigide. Il nome è preso direttamente, anche come pronuncia, dallo sloveno: motovilc – pronuncia motoviltz). MATÈSO, s.m.: Follia. Stravaganza. Àra de no far matési co’ semo drénto. MATÌNA, s.m.: Mattino. MATÌO, s.m.: Pazzia. Scatto improvviso. Atto inconsulto. MATIŞÀR, v.: Impazzire. Avere dei problemi da affrontare. MÀTO, agg.: Matto. Folle. Pazzo. A volte si usa anche per definire terza persona, ma senza connotazioni negative o ingiuriose. Dùte ‘ste ròbe me le gà dìte el màto ieri sera co iérimo insieme. Chi che no fà ‘l màto de şòvine, lo fà co a şè vècio. MATÒN, s.m.: Mattone. In senso figurativo indica persona o cosa pesante e noiosa. MATÙRLO, agg.: Stravagante. Bizzarro. MÀUCO, s.m.: Amante. Importato


negli ultimi decenni probabilmente dal dialetto triestino. I la ga vìsta che la se strucàva col màuco. MÈDA, s.f.: Fienile. Così veniva chiamato il fienile all’aperto che si innalzava attorno ad un palo conficcato nel terreno. A forma di cono serviva per proteggere il fieno durante l’inverno. Nei mesi freddi si usava per foraggiare l’asino e dalla méda il fieno si tirava fuori con l’aiuto di un rampìn (v.). Solitamente la méda veniva innalzata ai limiti di qualche radura in prossimità della stalla, in modo da essere facilmente raggiungibile. Ormai, è da qualche decennio che non se ne vedono più, praticamente da quando el mùs (v.) è stato sostituito dal trattore o dalla motozappa. Sembra, tuttavia, che qualche secolo fa, i contadini che abitavano nel centro urbano usavano tenere il fieno anche in casa per foraggiare gli asini, per cui nel III Libro degli Statuti di Isola del 1360 in lingua volgare, si riporta nel capitolo 30 “Del far le Mede de Fen” e si stabilisce: “È decretato, et provvidamente affermado. che niuno sia ardito far miede di fieno in Isola frà le Case, nè nelle Case, che haverano pariete, nè in Solaro, nel qual si faccia fuoco di sotto, ò di sopra in pena de soldi quaranta, et restituir il danno dato al patiente, et le dette Mede, che vorrà far sia tenuto farle nel fossato di Comun, o nel Viero, ò nelli luochi predetti, dove gli parerà megli di farle, et non in altri luochi nella pena predetta; Resti ancora in discrettion del Sig.r Podestà che si possi far dette Mede in altri luochi dove non sia pericolo.” MEDÀIA, s.f.: Medaglia. MEDÌL, s.m.: Tronco d’albero

molto lungo che veniva conficcato nel terreno che costruirvi attorno la mèda (v.). MEDIŞÌNA, s.f.: Medicina. MEDÒLA, s.f.: Midollo. MÈIO, agg.: (v. Mèo) Meglio. El méio = il migliore; el méio tòco. Méio che vànsi che nò che mànchi; Méio pòrco che pése salà. MÈLA, s.f.: Mozzicone. Cicca. MELÀIDA, s.f.: (v. Milàida) Rete per la pesca di sardelle e acciughe. MELANSÀNA, s.f.: Melanzana. MELÒN, s.m.: (v. Rampighìn) Melone. Popone. MÈMELE, s.f.: Merda. Usato al posto della parola mèrda, altrimenti ritenuta offensiva. Mùşo de mèmele. MENÀR, v.: Menare. Condurre. No sta sercàr de menàr el mùs pàl giàso. MÈNEGO, n.pr.: Domenico. MENODÀIA, s.f.: Minutaglia: piccoli pesci misti usati per la frittura. MÈNOLA, s.f.: Menola. Pesce marino molto frequente nell’Adriatico, ma non di grande pregio. Ultimamente a Isola, costituita da un gruppo di giovani, esiste un’associazione così denominata che, una volta all’anno, solitamente durante la festa del pescatore o del pesce, organizzano una gara di pesca. Per curiosità riportiamo – preso dal volume di A. Vascotto - anche il significato del termine mènola s’ciàva un tempo usata, ma di cui – almeno personalmente - non ho mai avuto occasione di sentirlo: “piatto formato da fette di polenta su cui si appoggiavano una o

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più fette di prosciutto o spalletta stagionati, previamente riscaldate in padella con del grasso; il grasso disciolto si versava pure sulla polenta. Era un piatto invernale, accompagnato di solito con verze in tegame (v. verşe in tècia), adatto, viste le calorie, per le fredde serate invernali. Il nome di mènola s’ciàva deriva dal fatto che i contadini del retroterra isolano, in gran parte di origine slava, avevano, particolarmente d’inverno, poche possibilità di venire a prendere il pesce a Isola (tra cui le mènole), e ripiegavano su questo piatto.” MENOLÒTO, s.m.: Cheppia. Pesce marino simile alla menola, non pregiato. MÈO, agg./s.m.: (v. Mèio) Meglio. Miglio. Mangime per uccelli. MERCÀ, s.m.: Mercato. Commercio. MÈRCO, s.m.: Mercoledì. MÈRDA, s.f.: Merda. Sterco. De sòra dùto lìso, de sòto mèrda e pìso. Co la mèrda mònta in scàgno, o la spùsa o la fa dàno. MERICÀN, s.m./agg.: Americano. Gòma mericàna. MÈRLO, s.m.: Merlo. Te sòn pròpio un bel mèrlo. Va là che te sòn un mèrlo de gràia. MEŞÀDA, s.f.: Mese. Stipendio mensile. Affitto mensile. MEŞALÀNA, s.f.: (v. Iòta) Minestra: cucinata con cappucci acidi (v. capùsi gàrbi), fagioli e carne suina, non frequente sulla tavola isolana, di provenienza triestina e carsolina. Non sono riuscito a trovare l’origine della definizione presente a Isola, che, comunque, già nella prima metà del secolo scorso era stato

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sostituito da iòta. In osteria anche mezzo vino bianco e mezzo vino rosso. MEŞÀN, agg.: Mezzano. Intermedio. MEŞANÒŞA, s.f.: Bombetta. Il tipico cappello presente anche a Isola agli inizi del secolo scorso tra gli uomini notabili. Veniva così chiamato evidentemente per la sua forma somigliante a mezza noce. MEŞARÌA, s.f.: Mezzaria. Un punto posto esattamente alla metà di un luogo, un tragitto o una linea. MEŞANÒTE, s.f.: Mezzanotte. MÈSCOLA, s.f.: Mestolo. Méscola dela polénta. MESCOLÀR, v.: (v. Misiàr) Mescolare. Rigirare. Rimestare. MEŞÌN, s.m.: Moggio. Misurino per il grano. MÈŞO, s.m./agg.: Mezzo. Metà. Mediano. Un quintal e méşo; méşocrùdo e méşo còto; méşo drìto e méşo stòrto; ciapàr de méşo; méşo sòrşo e méşo uşél. MEŞODÌ, s.m.: Mezzogiorno. MESTIÈR, s.m.: Mestiere. MÈSTRO, s.m.: (v. Maèstro) Maestro. Méstro de muşica, méstro de canto, méstra de tàio, méstra de merlati, méstra de aşìlo. MÈTER, v.: Mettere. Porre. Méter a màn = cominciare a usare, consumare. Méter le màn avànti; méter sù; méter sòto i pìe; méterse in cìcara. Un bicèr de vìn mèti morbìn. MICÈL, n.pr.: Michele. MIÈL, s.m.: Miele. Se piòvi de agòsto, piòvi mièl e mòsto. MIÈR, s.m.: Migliaio MÌGA, avv.: Mica. Affatto. Mìga mòna = Non sono scemo.


MIGNÒGNOLE, s.f.pl.: Carezze. Moine.

MÌO, s.m.: Miglio (misura di distanza).

MILÀIDA, s.f.: (v. Melàida) Rete per la pesca di sardelle e acciughe.

MISIÀDA, s.f.: Mescolata. Ammucchiata. Stà ‘ténta al fògo, ogni tanto te dévi dàrghe ‘na misiàda ai faşòi che i no se brùşi.

MÌLE, agg.num.: Mille. Mìle, do mìla, tre mìla… MINÈSTRA, s.f.: (v. Manèstra) Minestra. Già nella seconda metà del scolo scorso il termine sostituì del tutto il termine precedentemente usato di manéstra. Secondo alcuni etimologi, il termine deriva dall’antico italiano, che poi non è altro che il latino Minestrare, e che sta a significare servire, e ancora più in particolare porgere, versare i cibi a tavola. Parola che a sua volta ha origine nel latino Minister, ovvero servo che prepara le vivande. Ancora ieri l’altro, per minestra – come spiega qualcuno – s’intendeva vivanda servita o da servirsi a tavola. Ieri – siamo agli inizi del secolo scorso – rappresenta vivanda cotta in brodo o in acqua condita, che si mesce in principio del desinare. Per gli Isolani di un tempo quasi ogni giorno, rappresentava il piatto unico che, magari, si mangiava anche per cena assieme ad un pezzo di pane e ad un bicchiere di vino. Se poi nel piatto finiva anche un pezzo di porsìna, allora il pasto era veramente completo. MINSIONÀR, v.: Nominare. Menzionare. MINUDÀIA, s.f.: Minutaglia. Usato soprattutto per indicare vari tipi di pesce di piccole proporzioni che le massaie isolane di solito (anche per il basso prezzo) preparavano fritto per cena. MINÙDO, agg.: Minuto. Tritato. Finemente spezzato. Giarìna minùda.

MISIÀ, agg.: (anche Misiàdo) Mescolato. Miscelato. MISIAMÈNTO, s.m.: Rimescolamento. MISIAMÈRDA, s.m.: Maneggione. Trafficone. Co’ lù no me mìsio, parché a şé un grando misiamérda. MISIÀNSA, s.f.: Miscela. Mescolanza. Mistura. A Isola oramài ghé şé ‘na misiànsa de şente, che non se capìsi più gnénte. MISIÀR, v.: (v. Mescolàr) Mescolare. Mischiare. Rimestare. In ròbe che no te tòca, şé méio no misiàrse. MISIÈR, s.m.: Suocero. MISIÒTO, s.m.: Miscuglio. Guazzabuglio. Imbroglio. MISMÀS, s.m.: Miscuglio. Caos. Un bicér de mismàs = un bicchiere di vino bianco mescolato con il vino nero (Mancini-Rocchi). MISTIÈR, s.m.: Mestiere. Professione. Arte. MÌSTRO, s.m.: Mastro. Artigiano. MIŞURÀR, v.: Misurare. MIŞURADÒR, s.m.: Misuratore. Termine presente anche degli Statuti medievali di Isola per indicare la persona addetta da parte del Comune per misurare pesi e quantità: di frumento, olio o vino. Interessante il capitolo 21 del III Libro dello Statuto isolano in lingua volgare del 1360, intitolato “Del mesurar il Vino”, in cui si stabilisce “... che alcuna persona

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non ardisca mesurar Vino venale se non con le Orme di Mesuradori, nè alcuno ardisca cambiar Orna, ò Orne per mesurar Vin sotto pena de soldi cento de piccoli Venetiani.” MITÌNA, s.f.: Mattina. Pur non avendo avuto alcuna dimostrazione sull’uso di questo termine nella parlata isolana, lo segnaliamo poiché è stato segnalato dal prof. Morteani nella sua piccolissima raccolta di termini dialettali isolani pubblicata nel 1888 assieme agli Statuti medievali della città. MOCÀRSELA, v.: (v. Squaiàrsela) Andarsene. Tagliar la corda. Squagliarsela. MÒCOLO, s.m.: (v. Mòso) Moccio. Muco. Candela. MOCOLÒSO, agg.: Moccioso. Sarà soltanto un’impressione, ma è probabile che i bambini di oggi siano molto meno mocolòsi di una volta: forse è questione di un’aumentata attenzione per l’igene. MOIÀR, v.: (v. Şmoiàr) Mettere in ammollo. MÒIO, agg.: Molle, ammollato. MÒL, s.m.: Molo. MÒLA, s.f.: Pietra per affilare. La ruota dell’arrotino. MOLÀR, v.: Sciogliere. Liberare. Lasciar andare. Districare un nodo. Molàrghe ‘l spàgo. Molàr la còrda. Dopo do mèşi de galéra i lo gà molà. Molàr la sìma. MOLÈCA, s.f.: Granchio. Con il termine viene chiamato il granchio nella fase della muta, quando il vecchio carapace cade ed il nuovo è ancora tenero. La stessa parola si usava anche per definire persona di carattere debole.

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MOLÈNA, s.f.: Mollica di pane. Però anche persona debole e molle. MOLÈTE, s.f.pl.: Molle del focolare. A şé un tipo de ciapàr co’ le moléte. MÒLIE, s.f.: (v. Muièr. Mugèr) Moglie. MOLÌN, s.m.: (v. Mulìn) Mulino. MOLIŞÌN, agg.: Molle. Morbido. Tenero. MÒLO, s.m.: Merlano. Nasello. Pesce di mare dal color grigio chiaro e dalla carne bianca, tenera e delicata. Si prepara soprattutto per i bambini e le persone deboli. Difficilmente reperibile in ristorante. MÒLO, agg.: Molle. Tenero. Allentato. MOLÒTI, s.m.pl.: Zoccoli. Erano di legno con tomaia di cuoio e venivano usati dai pescatori. MOLTÒN, s.m.: Montone. Figurativamente per indicare una persona che fa le cose senza pensarci. Màl de moltòn = parotite, orecchioni. MÒNA, agg.: Stupido. Cretino. Idiota. Far el mòna par no pagàr el dàsio. Te son più mòna dela mòna. Viene usato senza distinzione al maschile e al femminile. MÒNA, s.f.: (v. Fìga) Vagina. Vulva. Organo genitale femminile. La mòna de tu’ màre. A şè ‘ndà in mòna. MONÀDA, s.f.: Stupidaggine. Sciocchezza. cretineria. Cosa da poco. Piccolezza. Bagattella. No stè fàr monàde. MONADÌNA, s.f.: Diminutivo di (v.) monàda. MONÈDA, sf.: Moneta. Valuta. Spiccioli.


MÒNEGA, s.f.: (v. Mòniga) Monaca. Isola, nei secoli che furono, ebbe un rapporto lungo e alquanto difficile con le monache. Ceduta in dono al Monastero di Santa Maria d’Aquileia fuori le Mura, è certo che in fatto di riscossione di tributi e di decime mantennero Isola ed i suoi cittadini in una vera e propria condizione di servi della gleba, cui non osò contrapporsi nemmeno la Serenissima. Di particolare curiosità, inoltre, il comportamento di queste monache, quasi tutte provenienti da nobiliari famiglie tedesche. Recentemente sono stati pubblicati alcuni incartamenti che le caratterizzano in maniera alquanto poco ortodossa. Così, nella relazione svolta dopo la visita apostolica compiuta al Monastero di Aquileia dal vescovo di Parenzo, Cesare de Nores, nel 1584, si ribadisce che “queste monache, signor mio, sono di malissimo esempio, massimamente alle altre monache, che vorrebbono vivere lecentiosamente siccome vivono esse; non è anno che non s’impregni qualche una di esse...” MÒNEGA, agg.: Stupidino. Sciocco. Sia maschile che femminile e deriva da una modifica eufemistica del termine mòna (v.). MÒNGHI, s.m.pl.: Cibo immaginario, inesistente. Cosa gavé magnà par prànso? Mònghi! MÒNIGA, s.f.: (v. Mònega) Monaca. Molto spesso il termine veniva usato in tono bonario per definire persona stupidina e un po’ credulona. Ma va là, mòniga, che no’ te capìsi un bòro. MONIGHÈLA, s.f.: (v. Pisatìra) Gioco di carte. Il termine viene

usato, però, anche come buffetto simpatico nei comfronti di persona amica. Va là monighèla, che no te crèdo. MONTÀN, s.m.: Fringuello. MONTÀNA, s.f.: Acqua alluvionale. L’acqua che dopo un temporale o un alluvione si raccoglie nei canali, nelle strade e negli avvallamenti e che dalle colline e dalle alture in maniera impetuosa scendono a valle. Con lo stesso nome, a detta di A. Vascotto, veniva chiamata anche l’acqua che dopo un temporale scendeva copiosa, come fossero piccoli torrenti, lungo le vie che dal Duomo e da Palazzo Besenghi portavano a Piazza Grande. È noto che, prima di esser stata lastricata e poi asfaltata, Piazza Grande, era pavimentata con terra e ghiaia e, ai lati, era percorsa da alcune scanalature che avevano il compito di portare l’acqua piovana nel mandracchio. Frequenti, di conseguenza, le richieste delle autorità municipali al Capitanato del porto di Trieste per scavi del fondo del porto che si riempiva in continuazione dei materiali provenienti dalle vie isolane. MONTÀR, v.: Montare. Salire. Usato anche per persona che si insuperbisce: A se gà montà un pòco, ma ghè pasarà prèsto. Più te mònti sù, più te càschi şò. MONTECÀLVO, top.: Territorio alla periferia di Isola, situato subito dopo Saleto e Lavorè, ai piedi della collina che porta a Saredo. Segnalato nel sedicesimo secolo deriva dal latino Calvus, quindi Monte spoglio da vegetazione, anche se oggi la situazione è ben diversa. MONTI BIANCHI, top.: (v. Rivàso) Dirupo calcareo.

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Scoscendimento. Con questo nome venivano indicati i dirupi e gli scoscendimenti, ma soprattutto i macigni marnacei, che tra Cané (v.) e Rònco (v.) da lontano sembravano assumere un colore quasi bianco. Oggi, anche se limitatamente al primo avvallamento di Cané dopo la spiaggia di San Simone, viene chiamato in sloveno Bele Skale, che significa Bianca Scoliera, oppure Scogli Bianchi. Diciamo che l’anno preso in prestito traducendolo, ma senza usare anche l’originale, come invece sarebbe giusto. MONTIŞÈL, s.m.: Monticello. Collina. Altura. Rilievo. MONTÙRA, s.f.: Uniforme. Divisa militare. Òmo in montùra fa béla figura. Ma è comunque un detto che risale alla bélle époque, al periodo della sudditanza austroungarica, quando le uniformi degli ufficiali e degli sottufficiali oltre a far bella figura, potevano significare anche un tenore di vita migliore della media. MONTURÀ, s.m./agg.: Uomo in uniforme. Soldato. Poliziotto. Marinaio. MÒRA, agg.: Ragazza dai capelli scuri. MÒRA, s.f.: Mora. Il frutto di rovo (mòra de spìn) e, anche, il frutto del gelso e del moro. MÒRA, s.f.: Morra. Gioco abituale delle osterie isolane, spesso vietato per le grida e le polemiche ad alta voce che provocavano tra i giocatori. Sembra che un grande giocatore di mora (mora cantàda) fosse stato Bruno Deste, detto Tuboli, noto politico del PCI, secondo qualcuno politicante, del periodo prima, durante e immediatamente successivo alla II guerra mondiale.

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MORÀL, s.m.: Morale. MÒRBIDO, agg.: Morbido. MORBIDÌR, v.: Ammorbidire. MORBÌN, s.m.: Brio. Vivacità. Euforia. Secondo Giuseppe Boerio, la voce deriverebbe da Morbio = rigoglio delle piante. Un bicér de bon vin / fa coràio e fa morbìn. MORBINÒŞO, agg.: Molto vivace. Pieno di brio. MÒRCIA, s.f.: Morchia. Sedimento (dell’olio d’oliva o del vino). MORÈL, s.m.: Rocchio. Porzione di salsiccia. La salsiccia formata da un lungo budello pieno di carni tagliuzzate finemente si divideva con dello spago in tante porzioni pronte per essere usate. Inoltre, rendeva più rapido anche il processo di essiccazione e di affumicazione. MORÈR, s.m.: Gelso. L’albero delle more, il gelso. MORÈR, top.: Morer. Toponimo dell’agro isolano. Località conosciuta già nei secoli precedenti che ha preso certamente il nome dalla pianta del gelso, morer per l’appunto. MÒRGAN, s.m.: Uomo di campagna. La voce con questo significato è stata inserita nel dizionario perché presente nella storia di Isola del prof. Luigi Morteani con questa dicitura, raccolta alla fine del secolo XIX da una certa signorina Delise. È probabile, tuttavia, che il termine fosse stato documentato perché si riferiva ad una qualche famiglia di contadini e non in alternativa o in sostituzione del ben più noto ed usato campagnòl (v.). MORÌR, v.: Morire. Chi bèn vìvi bèn ànca a mòri. Chi vìvi speràndo, mòri cantàndo.


MÒRMORO, s.m.: Mormora. Pagello. Pesce di mare dalla carne bianca e saporita. MOROŞÈSO, s.m.: Innamoramento. Amoreggiamento. Le putéle, co le se tròva insiéme, no le fa che parlàr de moroşési. MORÒŞO, s.m.: Amoroso. Fidanzato. Devo ammettere che oggi, al tempo delle feste di San Valentino e delle fidanzate strombazzate a destra e manca, il termine, quando usato, mi fa ricordare i tempi quando gavèr el moròşo o la moròşa rappresentava veramente un atto di privacy perchè annunciava il primo passo verso il fidanzamento vero e proprio. MORSEGÀDA, s.f.: Morso. Morsicatura. MORSEGÒN, s.m.: Morso. Morsicatura. MORSEGÀR, v.: Mordere. Morsicare. No stà parlàr co’ te màgni, che te se morsegherà la lìngua. MORSÙRA, s.f.: Torsolo. Quanto rimane di una mela o di una pesca dopo che si è mangiata tutta la polpa. MORTÈR, s.m.: Mortaio. (Quello presente in farmacia, non quello dell’artiglieria militare).

MOSCHÈA, s.f.: Sciame di mosche. Va ricordato che a Isola nei primi decenni del secolo scorso le mosche rappresentavano un fenomeno alquanto invadente e quotidiano causa la presenza in città di stalle che ospitavano asini e cavalli. Le stalle e la carenza di servizi igienici favorivano il proliferare degli insetti che si raggruppavano in vere e proprie moschée, sciami che niente avevano a che fare con la religione islamica. MOSCHIÈRA, s.f.: Credenza con rete per cibi. Aiutava le casalinghe ad evitare o limitare la presenza delle mosche sui cibi che pur avevano bisogno di essere all’aria e non rinchiusi. MOSCOLÌN, s.m.: Moscerino. MÒSO, s.m.: (v. Mòcolo) Moccio del naso. MOSÒŞO, agg.: (v. Mocolòşo) Moccioso. MOSTÀCIO, s.m.: (v. Mustàcio) Baffo. Mustacchio. MÒSTO, s.m.: Mosto. Per San Martìn de ògni mòsto se fà vìn. MOSTRÌCIO, s.m.: Dispettoso. Birichino. Mostriciattolo (in senso affettuoso). MOSTRÀR, v.: Mostrare. Indicare.

MOSCARDÌN, s.m.: Bellimbusto. Persona sveglia.

MOTIŞÀR, v.: Deridere. Beffeggiare. Termine usato soprattutto per i giocatori di (v. Brìscola), dove le coppie si comunicano le proprie carte con dei motti e segnali, ma stando bene attenti a non farsi vedere dall’altra coppia.

MOSCÀTO, s.m.: Tipo di vino. Ha un gusto ed un profumo molto gradevoli. Apprezzato sia dolce che secco. Molto indicato per gli spumanti.

MÒVER, v.: Muovere. Spostare. Oramài no se se pòl più gnànca

MORTÒRIO, s.m.: Funerale. Cerimonia funebre. Usato come termine anche per indicare un’atmosfera tetra, gelida, lugubre, senza vita.

MÒTO, s.m.: Segno. Cenno. Gesto. Fàr de mòto. Drìo el mòto. Là del mòto.

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mòver. Gnànca el càn no mòvi la còda pàr gnènte. MUCÈTO, s.m.: Mucchietto. MUCIÀR, v.: Ammucchiare. Accumulare. MÙCIO, s.m.: Mucchio. Tanto. A gà un mùcio de flìche = ha molto denaro. El diàvolo a càga sempre sùl mùcio. MUDÀNDA, s.f.: Mutanda. MÙFA, s.f.: Muffa. Ciapàr de mùfa. MUFADÌSO, agg.: Ammuffito. Che sa di muffa. MUFÌ, agg.: (anche Mufìdo) Ammuffito. MÙFO, agg.: Mesto. Malinconico. Triste. Abbacchiato. MUIÈR, s.f.: (v. Mòlie. Mugèr) Moglie. MUGÈR, s.f.: (v. Mòlie. Muièr). Moglie. Dizione d’origine tipica veneziana, che però già agli inizi del secolo scorso venne sostituita con mòlie. MÙLA, s.m.: Ragazza. Niente a che fare con gli incroci fra quadrupedi diversi (asini e cavalli), in quanto il mulo non è né maschio né femmina. MULARÌA, s.f.: Gruppo di bambini. Ragazzi. MULÈTO, s.m.: Ragazzino. Una delle variazione di (v.) mùlo. MULÌN, s.m.: (v. Molìn) Mulino. Ognidùn tìra l’aqua al sò mulìn. MULINÈR, s.m.: Mugnaio. MÙLISA, s.f.: Sanguinaccio. MÙLO, s.m.: Mulo. Incrocio tra asino e cavalla. Con lo stesso nome veniva chiamato anche il bardotto, cioè l’incrocio tra cavallo e asina.

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MÙLO, s.m.: Ragazzo. Voce arrivata probabilmente dalla vicina Trieste ad arricchire la già ricca serie di definizioni dei ragazzi e delle ragazze: puto (v.), màmolo (v.), pìcio (v.). MULÒN, s.m.: Ragazzaccio. Discolo. Mulòn de stràda. MUNICÌPIO, s.m.: Municipio. Palazzo comunale. MURADÒR, s.m.: Muratore. MURÀL, s.m.: Asse di legno. Travicello. Così chiamato perché probabilmente erano assi usati in edilizia. MÙRO, s.m.: Muro. Così veniva chiamato anche un gioco di strada molto frequente tra i ragazzi isolani. Di solito il più robusto veniva chiamato a fare da muro. Si disponeva a gambe divaricate davanti ad un muro al quale si appoggiava con le mani. Gli altri, almeno all’inizio, ripetevano il gioco della cavaléta (v.) prendendo la ricorsa e saltando in groppa al precedente. Così, via via, finché si formava un bel grappolo alquanto instabile che cercava di non cadere per terra. L’ultimo, che alla fine non ce la faceva più a rimanere in groppa e finiva con lo scivolare a terra era costretto a sostenere la parte del muro. MÙS, s.m.: (v. Mùsa. Mùso) Asino. Quadrupede della famiglia degli Equidi (Equus asinus), con testa grande, orecchie lunghe, mantello grigio e lunghi crini all’estremità della coda. Lavoràr come un mùs = Lavorare come un asino, duramente e con poca soddisfazione. Lavàrghe la testa al mùs = Sprecare cure e fatiche per chi non ne merita. Ligàr el mùs dove che vòl el paròn = eseguire passivamente gli ordini dei


superiori. Figurativamente la voce veniva usata anche per indicare persona ignorante e testarda. A şé più mùs de dùti. MUŞÀDA, s.f.: Lo sbattere del viso o della faccia contro qualcosa. A şé finì drìto in muşàda. MUŞARIÒLA, s.f.: Museruola. MUSÀTO, s.m.: Zanzara. Termine usato anche per definire persona fastidiosa e appiccicosa. MÙS’CIO, s.m.: Muschio. In tempi di vigilia di Natale, ricordo che, bambini, si andava in campagna a raccogliere il muscio per costruire poi il presepe. Oggi, probabilmente, comprese le figure dei pastorelli e degli animali, è tutto in plastica. Peccato. MUSÌN, s.m.: Sornione. Diffidente e da non fidarsi. Deriva sicuramente come diminutivo di mùs (v.) e mùso (v.). MUŞÌNA, s.f.: Salvadanaio. Come ci insegna A. Vascotto, la voce è una contrazione di Elemosina. MÙŞO, s.m.: Muso. Faccia. Mùşo roto; muşo duro. MÙSA, s.f.: Asina. MÙSO, s.m.: (v. Mùs) Asino. MUSOLÈRA, s.f.: Rete robusta. Usata a tratta per raccogliere dal fondo marino i musòli (v.). MÙSOLO, s.m.: Muscolo. Arca di Noé. Mollusco bivalve un tempo molto diffuso nelle nostre acque e poi improvvisamente scomparso. Si mangiava scaldato. MUŞÒN, s.m.: Musone. Tipo poco socievole. MUSTÀCIO, s.m.: (v. Mostàcio) Mustacchio. Baffo.

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Nn N, dodicesima lettera dell’alfabeto italiano. ‘NA, agg.: Una. Esiste solo al femminile in quanto forma riduttiva di una. Al maschile fa sempre un. NADÀL, s.m.: Natale. De Nadàl a Pasquetta, el dì crési de méş’oréta. NÀFO, s.m.: (v. Baréta) Berretto di stoffa a visiera e a spicchi. Voce comunque raramente adoperata. Per quanto mi ricordo era ed è di uso comune il termine baréta. NÀINA, s.f.: Nenia. Tiritera. Lagna. NÀLVA, s.f.: Malva. Pianta medicinale. NÀNE, n.pr.: Giovanni. Nino. NÀNE, s.m.: Sciocco. Stupidino. La voce deve avere origine nel comportamento concreto di qualche persona, poiché Nàne è anche il diminutivo dialettale di Giovanni. NÀPA, s.f.: Cappa del camino. Che differenza tra le nàpe odierne, elettriche con tanto di ventilatore sopra le cucine economiche e quelle di una volta in legno, con tanto di ornamenti, sopra gli spàcher (v.) di una volta. Usato in tono scherzoso anche per indicare un naso troppo accentuato o aquilino. La putèla la sarìa bèla se no la gavèsi quela nàpa. NAPOLITÀNA, s.f.: Gioco del treséte (v.) La napoletàna era composta da Asso, Due e Tre dello stesso seme. Se dichiarata in tempo dava diritto a ben tre punti.

NARANSÌN, s.m.: (v. Rampighìn) Melone. Meloni che a Isola si coltivavano assieme alle angurie nelle valli di Aguavia (v.) e Pivòl (v.). Di qualità rotonda e la buccia disegnata a spicchi. NARÀNSO, s.m.: Arancia. NARÌDOLA, s.f.: Chiocciola di mare. Commestibile. NARÌŞE, s.f.: Narice. NÀSA, s.f.: Nassa. Trappola per pesci che ancor oggi usano i pescatori. NAŞÀDA, s.f.: Annusata. Fiutata. Colpo al naso. Me sòn becà una naşàda che no gò vìsto più gnènte. NAŞÀR, v.: Annusare. Fiutare. Odorare. Anche Intuire. Capire. Mangiar la foglia. NÀSER, v.: Nascere. Succedere. A şè nàto co’ la camìşa. Còsa nàsi? NÀŞO, s.m.: Naso. Fiuto. Par capìr qualcosa bisogna gavér nàşo. NATODONCÀN, escl.: (v. Fiòldoncàn) Figlio d’un cane! Esclamazione molto frequente tra gli Isolani, ma usato senza malizia, anche se con una certa animosità. Veniva usato in alternativa, se così si può dire, con Fioldoncàn (v.). NÀTOLA, s.f.: Buco della scalmiera (v.) per inserire il remo. In molte località dell’Istria e anche del Veneto il termine veniva usato anche per indicare le tegole (v. Còpo). NATURA, s.f.: Natura. A volte, il termine veniva usato per indicare gli organi genitali maschili. A iéra duto nùdo e a mostrava la natura. NAVÈTA, s.f.: Navetta. Spola delle macchine da cucire Singer. NAVIGÀR, v.: Navigare. ‘NDÀR, v.: Andare, partire, Mi vàgo, ti te vàdi, lù a và, noi ‘ndémo, voi ‘ndé, lori i và.

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‘NDÒVE, avv.: (v. Andòve, e ‘dòve) Dove. NE, pr.: Ci. Dùta sta ròba no ne sèrvi più. NEGÀ, agg.: Annegato. Bagnato fradicio. NEGÀR, v.: Annegare. Affogare. NEGRATÈNERA, s.f.: Qualità di uva locale. Veniva usata come uva da tavola per il gusto dolce e pastoso, ma anche per produrre un vino rosato amabile e frizzante. Dopo l’esodo era praticamente scomparso sia il vino che la vite. Soltanto negli ultimi anni l’isolano Zaro ha ripristinato alcuni vigneti e ripreso la produzione del vino intitolato alla Negratenera. NÈGRO, agg.: Nero. Scuro. NÈMBO, s.m.: Nube da temporale. Temporale. Anche l’essere di umore nero.

NETÀR, v.: Pulire. Nettare. Tergere. Mondare. Prima de lavarla bişogna netàr la verdùra. NÈTO, agg.: Pulito. Schietto. Preciso. Parlàr néto e s’céto; Copiàr in néto; Restàr néto. NEVARÌN, s.m.: (v. Neverìn) Tempesta con forte vento, freddo e pioggia. NEVÈRA, s.f.: Nevicata. Tempo di neve. NEVERÌN, s.m.: (v. Nevarìn) Tempesta con forte vento e pioggia NEVIGÀR, v.: Nevicare. NEVÒDA, s.f.: Nipote femmina. NEVÒDO, s.m. Nipote maschio. NIÀLTRI, pr.: Noi. Noialtri. Per quanto ricordo, negli ultimi decenni si usa esclusivamente la forma italiana di noialtri.

NÈNA, s.f.: (v. Téta) Mammella. Tetta. La voce veniva usata solo nella sua funzione di allattamento. Ciucianéne. (v.).

NINÀR, v.: Cullare. Trastullare.

NENÈ, s.m.: Maiale. Porco. Vezzeggiativo per indicare il maiale ai bambini.

NIÒRA, s.f.: (v. Gnòra) Nuora. La moglie del figlio.

NÈSA, s.f.: (v. Nevòda) Nipote femmina. NÈSPOLA, s.f.: Nespola. Il frutto. Tra ragazzi si usava la voce anche per indicare in termini di apprezzamento mascolino una bella ragazza. Àra ciò che néspola de mùla! Col tèmpo e co la pàia madurìsi anca le nèspole. NESPOLÈR, s.m.: Nespolo. L’albero che produce le nespole. NETÀ, agg. (anche Netàdo) Pulito. Ripulito. NETÀDA, s.f.: Pulita. Pulizia. Prima de mèterte ‘ste braghe, dàghe una netàda.

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NINÌN, s.m.: Piccola quantità. In tel cafè bàsta mèter un ninìn de sùcaro.

NINSIÒL, s.m.: (v. Linsiòl) Lenzuolo. NISÙN, pr.: Nessuno. NO, avv.: No. Non. No voio; no me piàsi. NOGHÈRA, s.f.: Noce. Albero delle noci. NÒMA, avv.: Soltanto. Appena. Nient’altro. De lù no pòso parlàr nòma che bén. NONÀNTA, num.: Novanta. Credo che ormai nessuno lo usi più da almeno un secolo. NÒNA, s.f.: Nonna. NÒNO, s.m.: Nonno. In segno di stima e di rispetto veniva usato


anche per indicare persona molto vecchia. NÒNSOLO, s.m.: Sagrestano. NÒŞA, s.f.: Noce. Il frutto della noghéra. Pàn e nòse – magnàr de spòşe. Méşa nòşa = cappello a forma di bombetta. NÒSE, s.f.pl.: Nozze. Matrimonio. NOŞÈLA, s.f.: Nocciola. NOŞELÈR, s.m.: Nocciolo. L’albero della nocciola. NOTÀR, v.: Annotare. Segnare. Registrare. Ma anche Osservare. NÒTE, s.f.: Notte. Dio vàrdi un màl de nòte. NOTOLÀDA, s.f.: Nottata. Passare la notte in bianco. NÒVA, s.f.: Novità. Notizia. NOVESÈNTO, num.: Novecento. NOVÌSA, s.f.: Sposa novella. NOVÌSO, s.m.: Sposo novello. NÒVO, agg.: Nuovo. Àno nòvo. Vìn nòvo. Stràda nòva. Fino a qualche decina di anni fa, il tratto di strada che dalla Rùda andava verso Pirano ed era (lo è ancora) affiancata da bei pini, veniva chiamata la stràda nòva. NUDÀR, v.: Nuotare. NUGOLÀR, v.: Annuvolare. NÙGOLO, s.m.: Nuvolo. Nube.

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Oo

O, tredicesima lettera dell’alfabeto italiano. OBEDÌR, v.: Obbedire. OBLIGÀ, agg.: Obbligato. OBLIGÀR, v.: Obbligare. Costringere. ÒBLIGO, s.m.: Obbligo. ÒCA, s.f.: Oca. Per la verità, dalle nostre parti non era molto presente l’abitudine di tenere a casa qualche oca, nemmeno in campagna. Si preferivano le galline, per le uova, ed i tacchini per la carne. OCÀR, v.: Zappare leggermente. Zappettare. Leggero zappare dei campi per rompere la crosta della terra e, soprattutto, per eliminare l’erbaccia. OCAŞIÒN, s.f.: Occasione. OCIÀDA, s.f.: Occhiata. Sguardo. OCIÀDA, s.f.: (v. Vardàda) Occhiata. Oblata. Pesce marino molto simile all’orata, ma meno pregiato. OCIADÌNA, s.f.: Occhiatina. Sbirciatina. OCIÀL, s.m.: Occhiale. OCIALÌN, s.m./agg.: Occhialino. Persona che porta occhiali. OCIÀR, v.: Adocchiare. Guardare. Sbirciare.

no védi, còr no sénti. Còlpo de òcio. Òcio che no te càschi pàr le scàle. OCÒRER, v.: Occorrere. Bisognare. Necessitare. ÒDIO, s.m.: Odio. Astio. ÒDIO, s.m.: Iodio. Tintùra de òdio. ÒDOLA, s.f.: (v. Lodola) Allodola. OFÈNDER, v.: Offendere. OFRÌR, v.: Offrire. Dare. Donare. ÒGI, avv.: Oggi. Ògi òto. Ògi sémo, domàni no sémo. Méio un òvo ògi che ‘na galìna domàni. OGNIDÙN, s.m./pr.: Ognuno. Ogni. Ciascuno. Visto che şé cusì, şé méio che ognidùn pensi pàr sé. ÒIO, s.m.: Olio. No ‘vér paùra, ‘ndarà dùto lìso còme l’òio. Bisogna dàrghe un pòco de òio de gòmito. OLIÀDA, agg.: Oleata. Chi non si ricorda della càrta oliàda in cui il negoziante soleva avvolgere il pezzo di formaggio o, più raramente, qualche bella fetta di salame o mortadella. Tenendo presente, comunque, che – almeno fino agli anni sessanta – la mortadella si comperava a Trieste. Quella che si vendeva a Isola e che si fabbricava in qualche fabbrica slovena o jugoslava, allora, era completamente inodore e senza sapore. OLIÀR, v.: Ungere. Oliare.

OCÈTO, s.m.: Occhiolino. Strizzata d’occhio.

ÒLTRA, avv.: Oltre. Attraverso. Di là. Lo gà şbusà òltra pàr òltra. Me sòn cambiàda la còtola parché se vedéva dùto òltra.

ÒCIO, s.m.: Occhio. Schisàr de òcio. Òci fodrài de parsùto. Vàrda che te tégno de òcio. Te gà i òci de sépa. Te me védi còme ‘l fùmo in téi òci. A me védi de bòn òcio. Ànca l’òcio vòl la sua pàrte. Òcio

ÒMBOLO, s.m.: Lombata. Filetto di maiale. Certo, anche quello di manzo o di vitello era ombolo, ma credo che a Isola fosse sempre e comunque privilegiato l’ombolo di maiale che, di solito, dopo aver

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ucciso il maiale, si metteva ad asciugare e si affumicava assieme al resto della porsìna (v.) per poi tagliarlo a fette e friggerlo sull’olio durante l’inverno. Serviva soprattutto per condire le patate, con le quali i contadini usavano far merenda. OMBRÈLA, s.f.: Ombrello. Parapioggia. OMBRELÌN, s.m.: Ombrellino. Parasole. OMBRELÒN, s.m.: Ombrellone. OMBRÌNA, s.f.: (v. Corbél) Ombrina. Pesce di mare dalla carne pregiata. A volte conosciuto anche come corvo o corvina, ma soprattutto in lingua italiana e fuori dalla nostra regione. ÒMO, s.m.: Uomo. Usato anche con il significato di marito. Luigi Morteani, nella sua storia di Isola del 1888, riporta el me òmo = il mio marito. ÒMINI, s.m.pl.: (anche Òmi) Uomini. Il plurale di òmo. ÒNDA, s.f.: Onda. Confusione. No sté fàr ònde. ONDÀDA, s.f.: Ondata. Grossa onda. ONDEŞÀR, v.: Ondeggiare. ONDIŞÈLA, s.f.: Piccola onda. ONÈSTO, agg.: Onesto. Chi no se conténta de l’onésto, pérdi el mànigo con dùto ‘l sésto. ÒNGIA, s.f.: Unghia. A gà le ònge lònghe e spòrche. ONGIÀDA, s.f.: Unghiata. Graffio. ÒNI, agg.: (v. Ogni) Ogni. Ciascuno. Ognuno. ÒNSA, s.f.: Oncia. Misura di peso che una volta veniva usata soprattutto in farmacia e drogheria. Oggi, il peso si misura a suon di grammi.

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ÒNŞER, v.: Ungere. Oliare. Grassare. Corrompere. Par ciapàr quel lavòr gò dovù ònşer se sa chi. ÒNTA, s.f.: Unzione. Bastonata. Adulazione. A se gà becà un’ònta, che a no se gà fato véder dùta la settimana. ÒNTO, s.m./agg.: Unto. Grassato. Grasso. ONTOLÀR, v.: Ungere. Grassare. Adulare. ONTOLÒŞO, agg.: Untuoso. Sporco di grasso. OPERÀ, agg.: Operato. OPERASIÒN, s.m.: Operazione. OPERÀR, v.: Operare. OPÒNER, v.: Opporre. ÒRA, s.f.: Ora. Iéra òra che te végni. Che òra şé? L’òra de iéri a ‘sta òra, né più tardì né più bonòra. ORÀDA, s.f.: Orata. Pesce di mare dalla carne molto pregiata. ORADÈLA, s.f.: Piccola orata. ORBÀR, v.: Orbare. Acceccare. ORBIŞÌN, s.m.: Orbettino. ÒRBO, agg.: Cieco. Orbo. ÒRCA, escl.: Esclamazione. Riduzione di pòrca o pòrco, soprattutto quando l’esclamazione diventa bestemmia. In uso anche numerose voci innocue. Òrca mastéla. Orca mişéria. Òrco càn. ORDÈGNO, s.m.: Arnese. Attrezzo. Ordigno. Auguri e ordègni dùri = modo di dire augurale a doppio senso. ÒRDENO, s.m.: Prima zappata. Termine ormai completamente scomparso dalla parlata isolana, anche perché sono scomparsi del tutto ormai da qualche decennio i campagnòi isolani. E con la loro scomparsa, naturalmente, sono


scomparse dall’uso quotidiano tutte le voci che si riferivano al lavoro nei campi. Chissà quando è stato visto l’ultimo contadino con la zappa in mano intento a pastenàr (v.) un campo. Vérşer l’òrdeno = iniziar a zappare. ÒRDENO, s.m.: Forte vento. Tempesta di mare. ORDINÀRIO, agg.: Volgare. Grezzo. Termine per indicare persona non raffinata: şé ‘na persòna ordinaria. ORINÀL, s.m.: Orinale. Pitale. Vaso da notte. ORMEŞÀR, v.: Ormeggiare. ORMÈŞO, s.m.: Ormeggio. ÒRNA, s.f.: Orna. Unità di misura per il vino e l’olio. Era costituito da un recipiente di terracotta che veniva portato a spalla con una stanga di legno o di ferro. Soprattutto ai tempi della Serenissima, ma anche dell’Austria, quando i recipienti non erano calibrati su misure molto precise, esistevano a disposizione del Comune dei veri e propri misuratori di mestiere, che avevano il compito, appunto, di misurare i liquidi che venivano venduti. ORNÈLA, s.f.: Piccolo tino. Durante la vendemmia, veniva fissato sul carro dei contadini e si usava per il trasporto dell’uva dalla campagna alla cantina. ÒRPO, escl.: Perbacco. Òrpo de bàco. ORŞAIÒL, s.m.: Orzaiolo. Foruncolo sotto la palpebra. ÒRŞO, s.m.: Orzo. ORTÌGA, s.f.: Ortica. ORTIŞÈL, s.m.: Orticello. Diminutivo di orto.

ÒSO, s.m.: Osso. Nocciolo. Ròşiga stò òso o sàlta stò fòso. Gò dùti i òsi macài. OSOCÒLO, s.m.: Ossocollo. Lombo. Parte del maiale che veniva salata, affumicata e conservata. OSPEDÀL, s.m.: Ospedale. Contrada de l’ospedàl (v.). OSPÌSIO, s.m.: Ospizio. Un ospizio del quale ormai non esiste più memoria, fuorchè in qualche documento, era compreso nell’ambito del convento dei Frati dell’Ordine dei Servi di Maria, situato in via Santa Caterina, dietro l’omonima chiesa. Quest’ultima, verso l’ultima metà del secolo XIX, venne spostata per far posto alla vecchia scuola Dante Alighieri, inaugurata nel 1889. L’Ospizio, invece, ospitò la prima scuola laica di Isola istituita dal Comune nel 1419. A quanto si sa, un ospizio aveva sede in Contràda de l’ospedàl (oggi via Lubiana) e, ancora, in Vièr nell’ex via Zamarin, dove ancora oggi esiste la Casa del Pensionato. OSTARÌA, s.f.: Osteria. ÒSTIA, s.m.: (v. Partìcola) Ostia. Più che per indicare la voce che si riferisce al compimento della Santa Comunione, dove veniva usato il termine particola, serviva da esclamazione generica. No védo un’òstia. ÒSTO, s.m.: Oste. ÒSTREGA, s.f.: Ostrica. Esclamazione di meraviglia. Usato anche come eufemismo al posto di òstia, ritenuto troppo irriverente, se non blasfemo. OTÀVO, agg./s.m.: Ottavo. Bicchiere. Conteneva l’ottava parte di un litro e veniva usato

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per mescere il vino nelle osterie. Mario, pàsime un otàvo de bianco. ÒTO, num.: Otto. OTÒN, s.m.: Ottone. OTOSÈNTO, num.: Ottocento. ÒVO, s.m.: Uovo. Aqua de òvi. Òvi de Trùman. Òvi de gàlo. Galìna che cànta gà fàto l’òvo. Fritàia de òvi. Sercàr el pél in tel òvo.

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Pp P, quattordicesima lettera dell’alfabeto. In posizione iniziale spesso si sonorizza: bàla per palla. In posizione mediana spesso si tramuta in v: àva per ape, càvara per capra. Il nesso ‘pr’ generalmente diventa ‘vr’: avrìl per aprile, làvro per labbro, cavréto per capretto. Sostituisce la lettera v se all’inizio di parola è seguita dalla vocale a: vapòr = bapòr. PA’, prep.: (v. Pàr) Per. A me gà pestà pa’ ‘na ròba de gnénte. PÀCA, s.f.: Pacca. Colpo. Botta. Màma, àra che Mario me dà pàche. PACAGNÒŞO, s.m.: Fringuello. Piccolo uccello della campagna isolana. PACÀTO, s.m.: (v. Rebechìn) Festino. Piccola mangiata. PACHÈA, s.f.: Fiacca. Torpore. La sonnolenza che viene dopo mangiato. PACIÀNCA, s..m.: Pacioccone. Ciabatta. A Pirano, nelle saline, con questo termine si definiva il salìn, arnese per il trasporto del sale in magazzino. PACIÒCO, s.m.: Persona tranquilla. Pacifica. PACIÙGO, s.m.: (v. Plòch) Melma. Fanghiglia. Pozzanghera. PÀCO, s.m.: Pacco. Carico. Preoccupazione. Me şé capità un bél pàco. PADRÈGNO, s.m.: Patrigno. PADRENÒSTRI, s.m.pl.: Bucatini.

Una specie di pasta corta e bucata che veniva usata per i minestroni. PAEŞÀN, s.m.: Compaesano. Concittadino. PAÈŞE, s.m.: Paese. Paèşe che se và, uşànsa che se tròva. PÀGA, s.f.: Paga. Salario. Retribuzione. Una vòlta i operài i ciapàva la pàga ògni sàbo. Ànca stò méşe ‘vémo ciapà ‘na pàga de fàme. PAGADÈBITI, s.f.: Varietà di uva isolana. I contadini isolani non avrebbero mai ammesso di tenerne qualche esemplare nascosto nel mezzo dei filari di viti. Nota perché produceva grappoli grandi e di gran resa che veniva mescolata alla malvasia per aumentare così la quantità di vino, riducendone però la qualità. Da qui anche il nome di pagadébiti. Si tratta, tuttavia, di una qualità che è nota anche in altre regioni italiane. Così in Emilia-Romagna, l’uva pagadébiti non solo è presente, ma viene coltivata per produrne un vino DOC. Forse sarebbe il caso di imitarli anche a Isola, sulla scia dell’adagio quèl che şè vècio şè bòn. PAGADÒR, s.m.: Pagatore. Persona che paga. PAGÀNA, s.f.: Tosse pagana. Pertosse. Tosse canina. PAGÀR, v.: Pagare. Pàr pagàr e pàr morìr şé sémpre témpo. Pagàr salà. El fa el mòna pàr no pagàr el dàsio. PAGNÒCA, s.f.: Pagnotta. Di solito quella rotonda, che un tempo veniva data ai militari, ma che oggi sembra essere prelibatezza dei maestri fornai per indicare il pane casalingo e genuino. PÀIA, s.f.: Paglia. Tempo e pàia madurìsi anca le néspole.

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PAIASÀDA, s.f.: Pagliacciata. PAIÀSO, s.m.: Pagliaccio. PAIÈTA, s.f.: (v. Canèta. Tavolèta) Paglietta. Copricapo estivo che prende il nome dal materiale con cui è costruito. PAIÒL, s.m.: Pagliolo. Una parte del pavimento in legno di una barca che serviva a coprirne e renderne diritto il fondo. Si poteva anche togliere quando bisognava togliere dell’acqua che si era infiltrata nell’imbarcazione. Molto conosciuta, anche fuori dal suo luogo d’origine che è Rovigno, la canzone dedicata alla batàna (v.): ‘Sta vécia batàna co quatro paiòi… PAIÒLA, s.m.: Forfora. PAIÒN, s.m.: Pagliericcio. Un tempo, anche fino agli anni ‘50, erano tanti gli Isolani che dormivano sul paiòn, cioè sul materasso riempito con foglie secche di granoturco. Mariéta bùta şò ‘l paiòn, che dòrmo in stràda… PÀIS, s.m.: Colore in polvere per muri. Serviva per dare la prima mano, poi vi si passava sopra il rullo con vari motivi floreali per abbellire le pareti di casa, soprattutto della cucina e dell’àndito (v.). PAIÙSA, s.f.: Pagliuzza. PÀL, s.m.: Palo. Durante l’inverno, i contadini erano intenti, oltre a zappare le vigne e preparare la campagna per la semina primaverile, anche a far le punte ai pali (v. Forcàda) di acacia e di rovere per assestare i filari delle viti. El pàl dela lùce. PÀL, prep.: Per il. Preposizione articolata per indicare, semplificando ad un tempo, il termine pàr assieme all’articolo èl.

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PÀLA, s.f.: Pala. Badile. Te gà vòia stàr dièşe ore sòto el sòl e lavoràr de pàla e picòn. PALÀDA, s.f.: Palata. Quantità di materiale raccolto con la pala. Parchè el mùro a tègni, in tèla màlta bişògna butàrghe una pàlada de cemènto. PALADÌNA, s.f.: Palatite. Stomatite. Malattia frequente nei quadrupedi, soprattutto se giovani. A Isola, dove erano numerosi soprattutto gli asini (v.) mùs, la paladina era piuttosto frequente ed i contadini si arrangiavano a curarla da soli, soffregando con forza sul palato del sale grosso, fino a far sanguinare. La voce, evidentemente, deriva da palato, dove la malattia si presenta come una violenta e dolorosa infiammazione che impedisce all’animale di mangiare. PALAMÌDA, s.f.: Palamita. Tonnetto. Pesce della famiglia dei tonni, ma di dimensioni più ridotte. PALAMÌDA, s.f.: Piramide. Sistema a piramide per legare i filari delle viti. Per resistere ai refoli di bora, le canne di due file di viti venivano legate assieme a quattro a quattro in modo da sostenersi vicendevolmente, a piramide. Lo stesso sistema veniva usato anche per le file dei pomodori. Naturalmente si trattava di una deformazione dell’italiano “Piramide”. PALÀNCA, s.f.: Palanca. Soldo. Denaro. Vecchia moneta di rame da 10 centesimi. PALASÈTO, s.m.: Palazzetto. PALÀSO, s.m.: Palazzo. A se gà fàto una càşa che la pàr un palàso. Pur vantando alcuni edifici di tutto rispetto, costruiti


soprattutto all’inizio del secolo scorso, Isola può vantare la presenza di soltanto due edifici che possono corrispondere ai criteri architettonici per rientrare nella categoria dei palazzi: Palazzo Manzioli (1470) e Palazzo Besenghi (1775). PALCHÈTO, s.m.: Parquét. Rivestimento del pavimento in listelle. PÀLCO, s.m.: Palco. Anche nel senso di mettersi in mostra o di venir meno a qualche promessa: dòpo tànte ciàcole ghè şè cascà ‘l pàlco. PALEŞÀR, v.: Fare la spia.

PALÙ, s.m.: Palude. Acquitrino. PAMPALÙCO, s.m.: Sciocco. Stupidino. Di solito proferito in senso bonario e affettuoso. PÀN, s.m.: Pane. Magnàr pàn de bàndo. Cavàrse ‘l pàn fòra de bòca. A şé bòn come ‘n tòco de pàn. Se no şé sòpa şé pàn bagnà; No şé pan par i so’ dénti. Pàn gratà. Bìga de pàn. Strùsa de pàn. Pàn de caşa. Pàn de fìghi. Gà trovà pàn par i so’ denti. Magnàr pàn e lìngua. PÀNA, s.f.: Panna. Co iéro mùlo, me ricordo che el làte ne lo portava le savrìne ògni matìna e te vedesi che làte che ièra, co un deo de pàna.

PÀLIDO, agg.: Pallido. ...e se sòn pàlido come ‘na stràsa bévo vinasa e fiàschi de vìn... ritornello di una vecchia canzone popolare triestina, ma molto presente anche in Istria.

PÀNA, s.f.: (v. Panòcia) Pannocchia. Pàna de formentòn.

PÀLMA, s.f.: Palma. Rametto d’ulivo che, in sostituzione delle palme, veniva benedetto la Domenica delle Palme. Se no piòvi sule Pàlme, piòvi sùi òvi.

PANADÈLA, s.f.: Minestrina di pane bollito (diminutivo di panàda). Cibo che si dava ai bambini oppure ai malati invece del solito brodino di gallina.

PÀLMA, s.f.: Palma della mano. PALMÈNTO, s.m.: Pavimento. Àra che te gà spànto el làte sùl palménto. PALPÀDA, s.f.: Palpeggiata. Toccata. Co la me şé pasàda rénte ghe go dà ‘na béla palpàda. PALPADÌNA, s.f.: Palpeggiatina. Se pòl dìr che no la gò gnànca tocàda, ghe gò dà sòlo una palpadìna. PALPÀR, v.: Toccare. Palpare. Tastare. PALPOLÀR, v.: Palpeggiare. Più che palpare, palpare con insistenza. PALTÀN, s.m.: Pantano. Fango.

PANÀDA, s.f.: Minestra di pane a pezzi bollito. In mancanza di carne si usava condire con un po’ di olio di oliva.

PANÀR, v.: Impanare. Sardòni panài. PANARÌSO, s.m.: Patereccio. Infiammazione acuta delle dita. Che te végni ‘l panarìso sùi déi che cusì no te se pòl gratàr co te béca. PANCÒGOLA, s.f.: Fornaia. Il termine, ormai in disuso è presente addirittura nella versione volgare degli Statuti di Isola del XV secolo. Venivano stabilite le regole per la cottura e la vendita del pane. Così, per esempio, il capitolo 25 del Libro II dello Statuto in lingua volgare del 1360, intitolato “Della Pancogolaria” stabiliva che “Ciascuno, che incantarà, et comprarà le raggioni della

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Pancogolaria habbia, e guadagni otto soldi per ogni quarta di formento, che vendarà al far del pan per vender in Isola, et debba haver, et tegna cinque, over sei pancogole, et non meno in pena de soldi quaranta; Et niuno fazza pan dà vender se non quelli, à quali sarà concesso, et ciascuno, che haverà del detto Dacio sia tenuto a pagar il Dacio in tre termini, sicome si pagano gli Dacij sotto pena del Doppio.” Soltanto due capitoli più avanti, al No. 27 dello Stesso Libro II, intitolato “Che li Pancogoli debbano far il pan di vender, et non altre persone” lo Statuto recitava “Statuimo, che niuna persona debba far pan dà vender se non li pancogoli, à quali è concesso per il Comun, et se il detti pancogoli non potranno far del pan à sufficientia sia in arbitrio del Sig.r Podestà à far far del pan come meglio li parrerà.” PÀNDOL, s.m.: Gioco del pandolo. Si giocava anche a Isola fra squadre di diverse andròne (v.) con un’asticella di legno che, posata a terra, si cercava di colpire con un bastone in modo da farla saltare. Il gioco era praticamente scomparso verso gli anni ’20-’30. Ora si tenta di ripristinarlo come curiosità turistica. PÀNDOLO, s.m.: Stupidino. Sciocchino. Ma làsilo stàr che a şé un pàndolo. PANEGARIÒL, s.m.: (v. Penegariòl) Passero. PANGRATÀ, s.m.: Pane grattugiato. PÀNO, s.m.: Panno. Stoffa. Tessuto. Gàmbe de pàno = gambe deboli. PANÒCIA, s.f.: Pannocchia. PÀNOLA, s.f.: Lenza. Canna fissata alla barca alla quale venivano

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attaccate le togne (v.). La barca si muoveva lentamente attirando i pesci, sgombri (v. Scòmbri) in particolare. PÀNPENO, s.m.: Pampino. Tralcio della vite. PÀNSA, s.f.: Pancia. Ventre. Addome. Muro vécio fa pànsa. Co te védo me vén el mal de pànsa. PANSÀDA, s.f.: Scorpacciata. Gran mangiata. Panciata. A se gà butà in acqua in pansàda. PAN ŞÀLO, s.m.: Pane giallo. Pane fatto con farina gialla di mais. PANSÈRA, s.f.: Pancera. PANSÈTA, s.f.: Pancetta. Quella di maiale. Fritta o cucinata serviva da condimento per molti piatti dei contadini isolani. Per merenda con la pancetta fritta venivano condite le patate messe a cuocere nel pentolone della minestra. Ma veniva usata anche per i faşòi in técia, o per i minestroni. PANSÒN, s.m.: Pancione. PANTALÒN, s.m.: Sempliciotto. Credulone. PANTÀN, s.m.: Pantano. Fango. PANTEGÀNA, s.f.: Ratto. PANÙSO, s.m.: Pannolino. Certamente non i pannolini odierni preconfezionati che ormai si comperano presso tutti i supermercati. Ancora qualche decina di anni fa rappresentavano un lusso che pochi si potevano permettere. I pannolini che si usavano prima erano di stoffa morbida che dovevano essere lavati e stirati in continuazione. PÀPA, s.m.: Il Papa. Il Pontefice. PÀPA, s.f.: La pappa. Impacco. Impiastro. Un modo di preparare degli impacchi era costituito da semolino riscaldato e introdotto


in una calza e messo sulla parte dolorante del corpo. PAPÀ, s.m.: (v. Pàre) Papà. Babbo. Vi è comunque una sostanziale differenza affettiva nell’uso dell’uno o dell’altro termine, come del resto anche in lingua italiana tra papà, babbo e padre. Quest’ultimo usato con più distacco e mai direttamente rivolgendosi al genitore. La stessa differenza, del resto, che è presente anche nell’uso dell’altro termine di mamma e madre (v. Màma e Màre). PAPAFÌGO, s.m.: (v. Becafìgo) Beccafico. Rigogolo. Uccello ghiotto di fichi. La voce era usata anche come soprannome per una numerosa famiglia isolana: i Papafìgo. PAPAGÀL, s.m.: Pappagallo. Persona che ripete sempre la stessa cosa. Te sòn còme un papagàl. PAPALÌNA, s.f.: Papalina. Pesce di mare molto simile alla sardina, ma non molto apprezzata. PAPÀR, v.: Pappare. Mangiar con gusto. Prendere con ingordigia. Col suo mòdo de fàr a se gà papà duto e a şé restà in bràghe de téla. PAPARDÈLA, s.f.: Cosa o discorso lungo e noioso. Per la lingua italiana, invece, ma scritto con due elle, è un tipo di pasta asciutta tagliata a strisce larghe, una specie di lasagna. PAPARÈLA, s.f.: Cibo o sostanza spappolata. PAPARÒTOLO, s.m.: Letame. Sudiciume. Mucchio di fango. In senso figurativo e dispregiativo, però, anche persona di poco conto. PAPATÀŞI, s.m.: Pappataci o flebotomi. Sono insetti di piccola taglia (2-3 mm), somiglianti a

zanzare miniaturizzate. Come le zanzare, infatti, sono ditteri ematofagi di vertebrati e dell’uomo, ma contrariamente a queste la loro attività notturna si svolge nel più completo silenzio (da pappatacio = pappare in silenzio). PAPÌN, s.m.: Schiaffo. Sberla. Manrovescio. PAPÌNA, s.f.: Schiaffo. Manrovescio. Quasi sempre usato al femminile, forse perché il peso della mano schiaffeggiante si fa sentir meno. PAPOLÀR, v.: Pappare. Mangiare con ingordigia. Va bén che iérimo sòto Nadàl, ma a se ga papolà méşo dìndio in dò e dò quatro! PÀPRICA, s.f.: Peperone. Erroneamente con questa voce veniva definito il peperone grosso verde o giallo, sempre carnoso, mentre il peperoncino quello rosso, piccolo e piccante, viene chiamato (v.) pevaròn. La trasformazione probabilmente è avvenuta per praticità, anche perché la polvere piccante ottenuta con la triturazione del peperoncino essiccato a Isola non è mai stata di casa. Per rendere piccante il cibo o, molto più spesso, la carne di maiale, si usava il pepe nero macinato fino, grosso o a grani interi, come nella preparazione delle salsicce. PAPÙSA, s.f.: Babbuccia. Pantofola. Ciabatta. Calzatura che i contadini ed i meno abbienti preparavano a casa: tela resistente cucita con lo spago a dei pezzi di copertone di autocarro, di cui si disegnavano e tagliavano le sagome poggiandovi sopra direttamente i piedi. Il Vascotto nel suo libro “Voci della parlata isolana” ribadisce che era una

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pratica in voga fino al ’35 del secolo scorso, quando lo sviluppo delle fabbriche cominciò a risollevare l’economia del paese. Ricordo, però, di aver portato le papùse a scuola anche negli anni del dopoguerra, durante il T.L.T. E non credo di esser stato il solo. La voce papùsa, usata per definire la pantofola negli intendimenti odierni, cioè di ciabatta da usare in casa, praticamente non esisteva, anche perché erano poche le famiglie che si potevano permettere alloggi ai quali era consigliabile non entrare con le scarpe usate fuori. Di solito i pavimenti erano di tavole che, almeno una volta al mese, venivano lavate con ramazza (v. Scartàssa. Bruschìn) e olio di gomito. PAPUSÀR, v.: Ciabattare. Andarsene. Svignarsela.

PARÀRIA, avv.: Sconvolto. Confuso. È composta da due parole: pàr e aria. A gà la tésta parària. PARARÌA, v.: Sembrerebbe. Parrebbe. Voce del verbo parér. PARBÒN, avv.: (v. Pardebòn) Davvero. Sul serio. PARCÒSA, avv.: Perché. Parcòsa no te me rispòndi? PARDEBÒN, avv.: (v. Parbòn) Davvero. Sul serio. PÀRE, s.m.: Padre. Genitore. Anche il Vascotto sottolinea che la voce viene usata soprattutto per definire la parentela o parlando di persona terza: mé pàre, su pàre… A şé fìo de su’ pàre. Pàre de faméa. PARÈ, s.m.: Muro divisorio. Filare di viti. Divisione di un campo con canne o frasche.

PÀR, prep.: Per. A causa di. Màgna piàn che te ‘ndarà pàr tréso. A se gà vendù par un tòco de pàn. Pàr vìa de lù, gò pérso la coriéra.

PARECIÀR, v.: Apparecchiare. Nel senso di preparare la tavola per il pranzo o la cena con posate e stoviglie: parécio (v.). Pareciàr la tòla.

PÀR, v.: Voce del verbo parér: Cos’ te pàr?

PARÈCIO, s.m.: Servizio da tavola. Stoviglie e posate.

PARACÒLO, s.m.: Sciarpa.

PAREDÀNA, s.f.: Siepe. Recinto di canne o frasche divisorio tra appezzamenti di diverse colture.

PARAMÌDA, s.f.: (v. Palamìda) Canne o pali disposti a piramide. PARÀNCO, s.m.: Argano. Carrucola. PARANGÀL, s.m.: Lenza. Tipo particolare di lenza formata da un filo lungo e robusto al quale è attaccata tutta una serie di altri piccoli fili forniti di ami. È diffuso in tutto l’alto Adriatico, ma anche lungo la costa dalmata. In italiano palamita, palangaro, filagna. PARÀR, v.: Parare. Spingere. Respingere. Allontanare. Co i tòrna del càmpo, i campagnòi i se pàra davanti ‘l mùs.

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PARÈR, v.: Sembrare. Parere. PARENSÀNA, s.f.: Parenzana. La ferrovia a scartamento ridotto inaugurata nel 1902 sulla linea Trieste - Parenzo, da cui il nome conservato fino ad oggi di Parenzana. Nel suo tragitto, toccava anche Isola che, assieme a Santa Lucia, Buie, ne rappresentava una delle stazioni principali. Venne smantellata dal regime fascista nel 1933. Un piccolo, anche se interessante museo della ferrovia è allestito nel centro di Isola su iniziativa


della locale associazione turistica. Buona parte del tratto su cui correvano i binari, invece, grazie ad un cospicuo contributo europeo e con la collaborazione dei comuni di Muggia, Capodistria, Isola, Pirano, ed altre località istriane è stato trasformato in pista ciclabile denominata “Strada della salute”. Da ricordare, legati alla storia della Parenzana, i refoli di bora, il capovolgimento presso Muggia, ma pure l’eccidio di bambini a Strugnano per opera di uno squadrone fascista nel 1925, che, di ritorno da una manifestazione a Parenzo proprio in questa località incominciarono a sparare dal treno in corsa provocando una vera e propria tragedia. È indubbio, comunque, che fu proprio l’arrivo della ferrovia che comportò un importante miglioramento delle strutture viarie e di trasporto, grazie alle quali riprese fiato anche l’economia regionale e, in particolare, quella isolana già in forte ripresa con la presenza delle industrie per la conservazione del pesce. PARÈNTE, s.m.: Parente. Congiunto. Parènti - serpenti. Parènti - mal de dènti. PARÈR, v.: Sembrare. Credere. Parere. Ghe pàr de éser chìsachi. PÀRICO, s.m.: (v. Pàroco) Parroco. PARÌDOLA, s.f.: (v. Sìsiola) Pietra che rimbalza sull’acqua. Da bambini era, e probabilmente lo è ancora, un passatempo in riva al mare. Gettare raso terra delle pietre per vedere quanti rimbalzi si riusciva a fare sulla superficie del mare. PARLÀDA, s.f.: Parlata. Modo di parlare. Modo di esprimersi. El nostro a şé un dialéto istro-veneto, i dìşi, ma la parlàda işolana no la şé uguale a nisun’altra.

PARLÀR, v.: Parlare. Òmo de poche paròle. Co pàrla a se màgna méşe paròle. Dìr brùte paròle. Una paròla şé pòco, do’ şé tròpo. Parlàr pàr şacài. PARLÈO, s.m.: Gran parlare. Vociferio. De come e parché Nino a se ga butà in vàca dopo che la mùla a lo gà molà, in contrada şé sta un parléo che no finiva mai. PARÒLA, s.f.: Parola. Àra che te ciògo in paròla. Òmo de paròla. Co lo védo ghé méto ‘na bòna paròla. I putéi i no dévi dìr brute paròle. PAROLÀSA, s.f.: Parolaccia. Bestemmia. Volgarità. PARÒN, s.m.: Padrone. Chi non conosce la canzone di tutte le nostre osterie. Vìva là e po bòn, crépa la mùsa e résta el paròn. PARSÈMOLO, s.m.: (v. Persèmolo. Presèmolo) Prezzemolo. PARŞÒN, s.f.: (v. Preşòn. Prìşon) Prigione. Carcere. Gattabuia. Galera. Come testimonia il Vascotto, anche il dialetto era ed è una lingua viva e in continua evoluzione. A dimostrazione proprio della voce che, evidentemente, deriva dal termine “Prigione”, che col tempo si è dapprima adeguata nella parlata locale in prişòn, poi in preşòn, successivamente in p’rşòn e infine in parşòn, dove la a dell’ultima versione ha un valore eufonico. Anche questa, però, non è stata la versione ultima e definitiva, tant’è vero che oggi la voce parşòn non viene più usata da decenni essendo stata sostituita nuovamente da preşòn o prişòn, sotto l’influsso sempre più presente e pressante della lingua italiana divulgata da radio e tv. PARSÒNA, s.f.: Persona.

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PARSÒRA, avv.: In più. In aggiunta. E parsòra, come se no bastàsi, se le gà ànca becàde. PARSÙTO, s.m.: (v. Persùto) Prosciutto. Fino alla seconda guerra mondiale praticamente ogni nucleo familiare isolano aveva in casa almeno un prosciutto, o prodotto in proprio – visto che una buona parte di isolani si occupava di agricoltura ed allevava almeno un maiale – oppure avuto in cambio di qualche altro bene, raramente pagato con moneta sonante, vista la poca disponibilità. Veniva conservato per le ricorrenze importanti, come i battesimi, le cresime, i matrimoni, ma anche per le visite durante le più grosse festività. Altrimenti, invece del prosciutto, si preferivano le fette della meno pregiata, seppur gustosissima, spaletta (v.), ricavata con lo stesso sistema e la stessa procedura dalla spalla del maiale e non dalla coscia come il prosciutto. Va rimarcato, inoltre, che nella preparazione del prosciutto a Isola si preferiva il prosciutto cosiddetto “Istriano”, meno grasso e più piccante, rispetto a quello praticato da alcuni contadini dell’interno che adottavano la pratica del prosciutto oggi conosciuto come “carsico”, quindi non ripulito del lardo e – grazie alla potenza della bora più persistente, con meno necessità di spezie piccanti che ne conservassero la durata anche nei mesi estivi. Molto spesso, i prosciutti venivano conservati anche per due o tre anni e, di tanto in tanto, controllati con il solito stecchino di legno, se l’odore ed il gusto erano rimasti inalterati e profumati, anzi migliorati. Il pericolo, come si sa, era rappresentato dalle mosche nel periodo estivo, che a volte,

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nonostante la meticolosità del procedimento di conservazione e delle spezie usate, riuscivano a trovare il buco dove deporre le uova e mandare a monte tutto quel ben di Dio. PÀRTE, s.f.: Parte. Porzione. Direzione. Ognidùn gavarà la sua pàrte. La pàrte sànca. Mètite de pàrte. Noi no stémo de quéla pàrte. PARTÈRA, avv.: Per terra. Col cùl partéra. PARTICOLA, s.f.: Particola. Ostia consacrata. PARTICOLÀR, agg.: Particolare. Il termine, nell’attuale accezione di “specifico” o “particolare” era praticamente sconosciuto fino agli inizi del secolo scorso. In quanto aggettivo veniva usato soltanto assieme alla parola Ostarìa (v.). Ostarìa particolar (v.), infatti, veniva chiamata un’osteria temporanea aperta dal contadino che aveva pagato il dazio per la vendita di una determinata quantità di vino. Durante il periodo in cui durava la vendita al minuto del vino, le altre botti venivano sigillate. Queste osterie, con altro termine, venivano pure definite Osterìa de fràsco (v.), perché davanti alla porta del venditore era uso appendere dei rametti d’ulivo a mo’ di segnalazione. Più o meno lo stesso sistema veniva usato anche nei paesetti del Carso con le osmìtze, e che oggi si incontrano anche nei dintorni di Isola, e che prendevano il nome sloveno da osem = otto, quanti erano i giorni durante i quali potevano smerciare la loro produzione di vino. PARTÌDA, s.f.: Partita. Partìda de balòn. PARTIGNÌR, v.: Appartenere.


Spettare. Dùti gà pagà el suo, ‘déso me partién a mì.

che si tratta bene: Drìo che se védi a se pàscola bén.

PARTÌR, v.: Partire.

PÀŞE, s.f.: Pace.

PARÙCA, s.f.: Parrucca.

PASEIÀDA, s.f.: Passeggiata.

PARUCHIÈRA, s.f.: Parrucchiera.

PASEIÀR, v.: Passeggiare. I şè come dò colombì, i pasèia sempre insieme.

PARÙSOLA, s.f.: Cinciallegra. L’uccellino frequente anche dalle parti nostre. In senso figurativo, la voce veniva usata anche per definire l’organo genitale femminile, ma più in tono scherzoso e demistificante (v. Mòna). Cos’ te béca la parùsola? PARVÌA, avv.: Perché. Poiché. Per il fatto che. A causa di… No sòn vignù parvìa che con voi a iéra anca lù. PÀSA, agg.: Passita. Secca. Ùa pàssa. PASÀ, agg.: Passato. Trascorso. L’àno pasà. PASABRÒDO, s.m.: Colabrodo. PASÀDA, s.f.: Passata. PASALÈRA, s.f.: (v. Paseléra) Rete per la pesca delle passere e delle sogliole. PASAMÀN, s.m.: Passamano. Corrimano. Ringhiera. PASÀR, v.: Passare. Superare. Colare. Sto méşe a şé pasà in do e do quatro. Per fortuna me fìo a gà pasà la clase. Pàsime el pasabròdo. Pàr sta volta pasémoghe sòra. Basta véder quel che ne pàsa el convénto. Chìsa còsa che te pàsa par la tésta. PÀSARA, s.f.: (v. Pàsera) Passera. Pesce di mare. Anche tipo di barca. PASARÈTA, s.f.: (v. Paserèta) Bevanda zuccherata. Gazzosa. PASCOLÀR, v.: Pascolare. A volte usato anche per indicare persona

PASELÈRA, s.f.: (v. Pasaléra) Rete per la pesca delle passere e delle sogliole. PÀSERA, s.f.: Passera. Pesce di mare simile alla sogliola, ma più piccolo e meno pregiato. PÀSERA, s.f.: Passera. Barca per la pesca con fondo a chiglia. PASERÈTA, s.f.: (v. Pasarèta) Bevanda gassata. Gazosa. Subito dopo la seconda guerra mondiale, a produrre le gazose un certo Giorgio Saltzmann, venuto a Isola probabilmente prima del conflitto e, anche dopo la ritirata dei tedeschi preferì rimanere nella nostra città, dove si sposò ed ebbe delle belle figliole che frequentarono la scuola italiana. Era facilmente riconoscibile perchè pur parlando correttamente l’italiano ed anche il nostro dialetto non era mai riuscito a liberarsi del forte accento tedesco. PASÈTO, s.m.: Passetto. Piccolo passo. PASÈTO, s.m.: Metro. Come attrezzo per misurare il termine è praticamente scomparso: così veniva chiamato il metro dei falegnami ancor oggi in uso e composto da asticelle di legno unite fra loro e pieghevoli. PASÌ, agg.: Passito. Il vino dolce ottenuto con uva lasciata passire sulla pianta. Trattamento riservato spesso soprattutto al moscato, ma anche tagliato con altre uve bianche, compresa la malvasia.

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PASIÈNSA, s.f.: Pazienza. PASIÒN, s.m.: Passione. Compassione. Tristezza. Canto di osteria: Sempre ‘légri e mai pasiòn, vìva là e po’ bòn. PASIONÀ, agg.: Appassionato. PASÌR, v.: Appassire. PÀSO, s.m.: Passo. PASQÙETA, s.f.: Pasquetta. Da Nadàl a Pasquéta el giorno crési de meş’oréta. PÀSTA, s.f.: Pasta. Tutto quanto era composto da un impasto di farina e acqua aveva questo nome. Sia che si trattasse dei vari tipi di pasta per le minestre, per la paste asciutte oppure per i brodi. In ogni caso, tuttavia, non si andava quasi mai a comperare la pasta al negozio, ma la si faceva a casa. PÀSTA BUTÀDA, s.f.: (v. Sansaréla) Stracciatella. Pasta molto tenera gettata a cuocere nel brodo a piccole cucchiaiate. Per quanto mi ricordi, a Isola era buona abitudine mettere a cucinare nel brodo anche il riso oppure i fidelini (v.). PÀSTA GRATÀDA, s.f.: Pasta grattugiata. Impasto di una consistenza più solida che si grattugiava nel brodo. PASTASÙTA, s.f.: Pasta asciutta. La pasta asciutta, intesa come primo piatto, non era molto frequente nelle cucine isolane. Per comperarla non c’erano i denari, per farla in casa non c’era abbastanza farina, eppoi ci voleva anche la carne. Quando c’era, ed era di solito qualche domenica, allora arrivava la pastasùta che veniva condita con della carne di maiale stagionata e affumicata e del pomodoro. In occasione di feste comandate anche con qualche pezzo di pollo.

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PASTÈLA, s.f.: Impasto semiliquido di farina per impanare la carne. PASTENÀL, s.m.: Campo di angurie. Oppure di meloni, cetrioli (v. Cugùmeri), zucche. PASTENÀR, v.: Zappare profondo. Di solito il terreno che si era lasciato riposare per qualche anno aveva bisogno di una zappatura profonda per ribaltare e dare aria alla terra. Tenendo conto che ancora qualche decennio fa, il terreno veniva zappato esclusivamente a mano, questo era uno dei lavori più pesanti che impegnava gli agricoltori per una buona parte dell’inverno. Siccome per pastenàr il solco doveva arrivare almeno a mezzo metro di profondità, per non insudiciarsi i calzoni e non far entrare terra negli scarponi, attorno alle caviglie si avvolgevano e legavano delle pezze di tela o sacco, chiamate àste (v.). PÀSTENO, s.m.: Appezzamento di terreno coltivato a terrazza. Appezzamento di bosco dissodato. Il termine veniva usato per un campo ottenuto da un appezzamento di terreno in zona inclinata. Probabilmente la voce era stata presa dal modo di zappare profondo necessario per costruire il campo. Infatti, la terra che veniva presa nella parte superiore veniva spinta verso il basso per rendere il terreno più livellato. In pratica, a lavoro finito, la terrazza esposta al sole serviva da vera e propria (v.) specèra. PASTÒN, s.m.: Impasto di farina, acqua e lievito per fare il pane. La voce, tuttavia, aveva anche altri significati: per esempio così veniva definita la malta con l’impasto di calce e sabbia, oppure il cibo preparato per i maiali dove si metteva un po’ di tutto assieme ad abbondante acqua.


PASTÒR, s.m.: Pastore. Ha la stessa valenza della lingua italiana e lo riportiamo soltanto per accertare la presenza del termine anche a Isola, pur se di pastori, credo, ce ne fossero pochi. La pastorizia e l’allevamento del bestiame non facevano parte delle attitudini di vita isolane. PASTROCIÀR, v.: Imbrattare. Scarabocchiare. Pasticciare. Combinare guai. A me ga pastrocià dùto el quaderno. PASTRÒCIO, s.m.: Pastrocchio. Pasticcio. Intruglio. Co le tùe monàde te me gà combinà un bèl pastròcio. PASTROCIÒN, s.m.: Pasticcione. Imbranato. PÀTA, s.f.: Pari. Patta. Pareggio. Sémo finìdi pàri e pàta. PATÀCA, s.f.: Patacca. Moneta falsa. Medaglia di nessun valore. PATACÒN, s.m.: Moneta da 10 centesimi. Dicono essere arrivata a Isola con l’amministrazione militare italiana del 1918: grossa, pesante e grezza tenne banco qualche anno per essere poi sostituita. Il termine probabilmente le venne affibbiato proprio per la sua mole e il valore minimo. La voce viene usata anche per indicare persona o oggetto di poco valore: a no vàl gnànca un patacòn. Vecchia canzone popolare: Àra che càna piéna de bùşi, chi me la cùşi per un patacòn? PATÀTA, s.f.: Patata. Uno dei principali mezzi di sostentamento della cucina isolana. Venivano preparate in tutti i modi: lesse, in minestra, in técia, fritte. Volgarmente la voce veniva usata anche per definire l’organo genitale femminile (v. Fìga).

PATÌ, agg.: (anche Patìdo) Patito. Sofferente. Smunto. PÀTINA, s.f.: Lucido per scarpe. PATINÀR, v.: Lucidare. Levigare. PATÌR, v.: Patire. Soffrire. Dopo tanto témpo a gà finì de patìr. No’ gò mai patì tanto frédo come ‘sto inverno. D’està, se no te ghe dàghi aqua, le piante le patìsi séco. PÀTO, s.m.: Pianerottolo. Patto. Accordo. El pàto dele scàle. Pàti ciàri, amisìsia lònga. PATÒCO, s.m.: Genuino. Puro. Verace. Autoctono. Locale. Işolàn patòco. PATRÒN, s.m.: Patrono. Padrone. PATRONA, s.f.: Cartuccia. Munizione. Pallottola. Bossolo. PATRONO, s.m.: Patrono. Protettore. San Mauro e San Donà i Santi patròni de Isola. PATUFÀR, v.: Litigare. Azzuffare. Bisticciare. PAÙRA, s.f.: Paura. Màl no fàr, paùra no’ gavér! A iéra mòrto de paùra. PAVÈR, s.m.: Stoppino. Quello che si usava per le vecchie lampade a petrolio. Anche lo stoppino delle candele. PAVÒN, s.m.: Pavone. PÈA, s.f.: Granchio (Maia verrucosa). PEÀTA, s.f.: Chiatta. Maona. Barcone piatto. PÈC, s.m.: Fornaio. Termine preso direttamente dallo sloveno Pek. PÈCA, s.f.: Pecca. Vizio. Difetto. No şé màl de òmo, sòlo che a gà la péca de béver. PECÀ, s.m.: Peccato. Pietà. Compassione. Pecà de Dio. A şé cusì malà, che a fa pròpio pecà.

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PÈDEGA, s.f.: Orma. Impronta del piede. PEDEGÀR, v.: Camminare lasciando le proprie impronte. PEDESÌN, s.m.: Pedatina. Piccola pedata. “E a mì che iéro là, i me gà dà un pedesìn e sòn vignù fin qua”. Voce usata in una delle favole della raccolta di Giuseppe Radole “Settanta nuove fiabe istriane”, pubblicate dalla Svevo di Trieste nel 1977. PEDOCÈRA, s.f.: Nido di pidocchi. PEDÒCIO, s.m.: (v. Pidòcio) Pidocchio. Insetto parassita che si annida tra i capelli ed è difficile da eliminare, soprattutto quando riesce a depositare le uova. In senso figurativo viene usato anche per indicare persona di non alta moralità oppure eccessivamente gretta ed avara: pedòcio refà. PEDÒCIO, s.m.: Cozza. Mitilo. Mollusco bivalve nero molto comune in molte zone della costa isolana. Cresceva attaccato sulle grotte che affioravano dal mare, oggi praticamente scomparso in natura causa l’acqua non sempre pulita. È diventato comunque comune grazie ai vivai presenti sia a Strugnano che a Sicciole. Devo ammettere che, a differenza del mùsolo (v.), non era molto frequente nelle cucine isolane. PEDOCIÒŞO, agg.: Pidocchioso. Di persona gretta e avara. PÈGNO, s.m.: Pegno. Oggetto o denaro dato in garanzia. PÈGOLA, s.f.: Catrame. Bitume. Pece. PÈGOLA, s.f.: Sfortuna. El còlmo dela pégola şé gavér la rògna e panarìso sui déi e non podérse gratàr. PÈL, s.m.: Pelo. Ròso de pél, un

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diavolo per cavél. Me la son cavàda per un pél. A şé de prìmo pél. PÈLE, s.f.: Pelle. Cute. Màl de péle, salùte de budéle. (Vascotto) PELÌGO, s.m.: Peluria. Lanugine. PELÌN, s.m.: Assenzio. A gà ‘na mùla che la şé dolse come ‘l pelìn. PELÌSA, s.f.: Pelliccia. PELIŞÌNA, s.f.: Pellicina. PELÒŞO, s.m.: Peloso. No gò mai visto un òmo cusì pelòşo. PELÒTO, s.m.: Calvo. Senza capelli. PELÙSO, s.m.: Pelo piccolo e corto. PÉNA, top.: Rione Isolano. Quartiere della vecchia Isola che comprende la zona di edifici e vie che va dal mandracchio verso Palazzo Manzioli e si spingono verso Punta Gallo. Un’area che per molti decenni è stata la più povera e malandata della città. Soltanto ultimamente si sta portando avanti un programma di risanamento che sta ridando calore e vitalità al pari degli altri quartieri isolani. Il nome, forse, potrebbe derivare proprio dal degrado che per tanto tempo aveva colpito il territorio. Sù pàr la Péna. PÈNA, s.f.: Penna. PÈNA, s.f.: Pena (condanna). PÈNA, avv.: Appena. Sémo péna ‘rivài. PENÀL, s.m.: Pennaiolo. Astuccio portapenne. Chi se lo ricorda più dagli anni di scuola, quando per scrivere si usava ancora il pennino ed il calamaio? PENÀR, v.: Penare. Soffrire. A gà finì de penàr. PÈNDER, v.: Pendere. Durare. La causa de l’avocàto, più la péndi più la réndi.


PÈNEGARIÒL, s.m.: (v. Panegariòl) Passero.

PÈRGOLA, s.f.: Pergola.

PENÈL, s.m.: Pennello. Ma così si chiamava anche lo stendardo con bandiera o arazzo che si portava a braccia nelle processioni religiose.

PERICOLÀR, v.: Essere in pericolo.

PENELÀDA, s.f.: Pennellata. PENELÀR, v.: Dipingere. Pitturare. Pennellare. PÈNGO, agg.: Fitto. Denso. PENGÒŞO, agg.: Denso. PENÌN, s.m.: Pennino. PÈNOLA, s.f.: Cuneo di legno. Si metteva e si mette sotto un angolo di mobile per dargli equilibrio. PENÒN, s.m.: Pennone. Asta. Bompresso delle barche o navi a vela. PENSÀDA, s.f.: Pensata. Idea. Trovata. PENSÀR, v.: Pensare. Chi che ghe pénsa prìma, no se pentìsi dòpo. PENSIÈR, s.m.: Pensiero. Preoccupazione. De ‘sti témpi gò più pensiéri che cavéi in tésta. PENŞIÒN, s.m.: Pensione. PENŞIONÀ, s.m.: Pensionato. PÈO, s.m.: Cipiglio. Faccia seria. Co lù no se pol parlar che a tién subito el péo. PÈR, s.m.: Paio. Coppia. Co şé fésta me méto sempre un pér de bràghe néte. PÈRDER, v.: Perdere. Smarrire. Spandere. Ti te gà ‘l biciér che pérdi parché a şé sempre şvòdo. Pérderse int’un bicér de acqua. A se pérdi in monàde. PERÈR, s.m.: Pero. L’albero delle pere. PERFÌNA, avv.: Perfino. Persino. Addirittura. Dòpo dùto, a ghe şé rivà perfìna lù.

PÈRGOLO, s.m.: Terrazzino.

PERLÌN, s.f.: Polvere usata per risciacquare e imbiancare il bucato. Credo si usi anche oggi qualcosa di simile. PERNÌŞA, s.f.: Pernice. PÈRO, s.m.: Pera. Il frutto dell’albero delle pere. PERÒMO, avv.: Ciascuno. A testa. Ognuno. Un pòmo e un tòco de pàn peròmo. PERSEGHÈR, s.m.: (v. Persighèr) Pesco. L’albero delle pesche. PÈRSEGO, s.m.: (v. Pèrsigo) Pesca. Il frutto del pesco. Dicono che il nome derivi dalla sua lontana origine territoriale, cioè dalla Persia. PERSÈMOLO, s.m.: (v. Parsèmolo. Presèmolo) Prezzemolo. Nino a şé pardùto, come ‘l persémolo. PERSIGHÈR, s.m.: (v. Perseghèr) Pesco. L’albero delle pesche. PÈRSIGO, s.m.: (v. Pèrsego) Pesca. Il frutto del pesco. PERSÙTO, s.m.: (v. Parsùto) Prosciutto. PÈRTEGA, s.f.: Pertica. Lòngo come ‘na pértega. PÈSA, s.f.: Toppa. Pezza. Rattoppo. PÈŞA, s.f.: Pesa. Per antonomasia veniva così definita la pesa pubblica che a Isola si trovava alle Porte, all’inizio del giardino pubblico. PEŞÀR, v.: Pesare. Come sémpre, a şé bituà peşàr le paròle. A vàl tànto quànto che a péşa. PESCADÌSO, agg.: Che sa di pesce, di mare, di pesca. Odòr de pescadìso gavéva anche le

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fabrichìne dopo ése stàde par òto ore a netàr sardine. Era, comunque, un odore sano e sopportabile, rispetto a quell’altro (v. Freschìn) tipico del pesce non più fresco. PESCADÒR, s.m.: Pescatore. È vero che i pescatori erano tra i più numerosi di Isola, ma venivano dopo il numero dei contadini. In particolare la loro consistenza numerica aumentò dopo la nascita delle industrie conserviere che attinsero le maestranze soprattutto tra i pescatori, trasformandoli in operai. In ogni caso furono proprio loro a segnare nei primi decenni del secolo scorso la svolta sociale e culturale della cittadina all’insegna della solidarietà e del mutuo soccorso. E pure del progresso. PESCÀR, v.: Pescare. PESCARÌA, s.f.: Pescheria. Anche la pesca, come tutti gli altri prodotti che nel medioevo rappresentavano un alimento vitale per la popolazione, veniva regolamentata dallo Statuto Comunale, in particolare per quanto riguarda la vendita. Così, nel capitolo 29 del Libro III dello Statuto di Isola del 1360, già nel titolo spiegava il contenuto: “Della pena di Pescatori, che non vendaranno il pesce nella piazza de Alieto appresso la Beccaria, overo Gradata.” Merita - tuttavia, conoscere tutto il contenuto che fornisce tutta una serie di informazioni utili per la conoscenza della vita di allora e della stessa città: “È constatato, et ordinato, che tutti gli Pescatori de Isola debbano vender il pesce secco, ò recevente nella piazza di Comun, et non in Casa sotto pena de soldi quaranta de piccoli, et più, et meno in arbitrio del

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Sig.r Podestà, et ognuno di nostri vicini siano tenuti manifestar li contrafacienti, et debbano chi manifesterà, haver soldi vinti. Et la pescaria debba esser in piazza de Alieto appresso la Beccaria, ò gradata, et niun pescator possa di pesci, che vorrà vender portarli à Casa sotto pena predetta. Et dapoi che haveranno portato il pesce à Casa, non debbano più portar detto pesce in pescaria à vender nella pena sopradetta. Et ciascun pescator sia tenuto vender dà per se tutto il pesce, che haverà incominciato, et tutto il pesce cavar di Barca, et ponerlo in Terra. Et li detti Pescatori siano tenuti portar esso pesce al palazzo del Sig.r Podestà overo dimandarli licentia di venderlo, ò alla sua famiglia avanti che incomincino a venderlo in pena de soldi quaranta per ogni volta.” PÈSE, s.m.: Pesce. Credo che dopo le patate fossero i pesci la pietanza più frequente nelle cucine isolane, anche perché il loro prezzo era di molto inferiore rispetto alla carne, soprattutto il pesce azzurro. Si preparava léso, frìto, in savòr, in seşàme, in brovéto, sùla gradéla, ròsto e come filèti de sardòni. Frequente era soprattutto per cena fritto con polenta (v.) e contorno di radìcio e faşòi (v.). Lo Satuto Comunale del 1360 dedicava un capitolo a parte anche alla qualità del pesce messo in vendita. Il capitolo 30 del III libro, infatti, ribadisce nel titolo “Che li Venditori di pesce putrido paghi al Comun soldi vinti”. Specificando poi: “Statuimo et ordinamo, che niun pescator ardisca vender ad alcuno pesce fracido, ò putrido sotto pena de soldi vinti de piccoli da esser pagata ogni volta, che contrafarà et che tali pesci siano gettati in mar per li Iustitieri di


Comun dapoi il Sig.r Podestà sarà fatto chiaro di questa cosa; Et lo accusator habbia la mettà della detta pena, et il Comun l’altra Mettà.” PESECÀN, s.m.: Pescecane. Squalo. I piccoli erano chiamati cagnolìn (v.), mentre i più grandi e pericolosi, anche se rari, canìga (v.) o cagnìga (v.). PESÈTA, s.f.: Lingua. Nò méter pesèta dove no şé afàri tùi. PESÈTO, s.m.: Pesciolino. PESINÈVOLO, s.m.: Pescivendolo. Chi vendeva pesce direttamente dalla barca. Evidentemente si tratta di una storpiatura del termine italiano, cosa che succede spesso con il dialetto, soprattutto tra la popolazione meno istruita. PÉŞO, s.m.: Peso. PÈŞO, agg.: Peggiore. Peggio. Peşo el tacòn che el bùşo. Dòpo dùto no sémo gnànca pèşo de àltri. PEŞORÀR, v.: Peggiorare. PESTÀCIO, s.m.: (v. Pistàcio) Pistacchio. Arachide. Durante il ventennio fascista con questo termine veniva indicato a Isola, ma forse anche altrove, il distintivo del PNF (Partito nazionale fascista). Probabilmente un modo eufemistico per indicare le tendenze fasciste al pestaggio e alla violenza. PESTAFÙMO, s.m.: Persona senza carattere. Inconcludente. Un de quéi che i gà tànte ciàcole ma pòche frìtole. PESTÀR, v.: Pestare. Battere. Sbattere. Bastonare. Malmenare. Simpatico l’esempio riportato in merito dal Vascotto: La lo gà pestà come un fòlpo. Come si sa i folpi hanno la carne un po’ dura e per ammorbidirla è utile dargli una sbattuta.

PÈSTERNA, s.f.: Bambinaia. Secondo alcuni la voce sarebbe stata importata nei primi decenni prima del secolo scorso da Trieste, dove sarebbe stato preso direttamente dalla voce slovena pestovati = accudire. PESTERNÀR, v.: Cullare. Accudire bambini. Leggi sotto il verbo Pésterna. PÈSTO, s.m.: Pesto. Veniva preparato con un pezzo di lardo o pancetta tagliato e battuto finissimo assieme all’aglio, al prezzemolo e alla cipolla. Spesso veniva aggiunto crudo alla minestra bollente sul fuoco, mentre per altre pietanze più consistenti come il brodetto o il risotto veniva prima soffritto. PESTOLÀR, v.: Pestare i piedi a qualcuno. PESTÒN, s.m.: Pestello del mortaio. PÈTA, v.: Untume. La materia untuosa che si raccoglie fra i denti del pettine e che deve essere pulita e sgrassata. Secondo la testimonianza del Vascotto, la voce serviva anche a indicare la crosta che a volte si forma sulla testa dei neonati e che – tra i meno abbienti – poteva esser mista a sporcizia. Va vìa che te gà la péta. Evidentemente erano altri tempi, e anche nell’igiene per i neonati non si era scrupolosi come oggi. PETÀDA, s.f.: Stoccata. Urto. Bén petàda. PETADÌSO, agg.: Attaccaticcio. Termine usato per indicare persona della quale è difficile liberarsi. PETÀR, v.: Contagiare. Affibbiare. Aderire. Attaccare. Me la gà petàda che no me sòn gnànca inacòrto. PETARÒSO, s.m.: Pettirosso. Grazie alla sempre più frequente presenza

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della lingua italiana, anche questa voce negli ultimi decenni si è adeguata. Praticamente sarà qualche decennio che non sento più dire petaròso. Francamente non so se è un bene o meno. Da una parte sta a significare un inserimento sempre più capillare della lingua italiana anche all’interno della nostra comunità, in secondo luogo, però, sta anche a significare un continuo e costante impoverimento nell’uso della nostra lingua dialettale. PETECIÀR, v.: (v. Şbrodegàr) Impiastricciare. Pasticciare. Mescolare intrugli. PETÈL, agg.: Petulante. Invadente. Saccente. Che non derivi anche questa voce dallo sloveno Petelìn = Gallo, galletto. PETINÀ, agg.: Pettinato. PETINÀDA, s.f.: Pattinata. Strigliata. Dàte ‘na petenàda che te sòn come una strìga (Vascotto). PETINADÙRA, s.f.: Pettinatura. Acconciatura. PETINÀR, v.: Pettinare. PÈTINE, s.m.: (v. Péteno) Pettine. PETIŞÌN, s.m.: Petticino. Piccolo petto. PETENÈL, s.m.: Panciotto, gilé. PÈTENO, s.m.: (v. Pétine) Pettine. Voce che ormai appartiene ai secoli scorsi, oggi completamente soppiantata dall’italiano pétine = pettine. PETÈS, s.m.: Grappa. Termine importato a Isola dalla vicina Trieste, tuttavia di uso molto modesto PETESERÌA, s.f.: Rivendita liquori. PETESÒN, s.m.: Ubriacone. Alcolizzato. Anche questo termine, al pari del precedente,

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importato da Trieste e non molto usato. PÈTO, s.m.: Petto. Torace. Se la gà ciòlta al péto. Métite la màn sul péto. PÈTOLA, s.f.: Cispa. Difficoltà. Grana. Problema. Residuo del secreto lacrimale che si forma sulle palpebre o in un angolo dell’occhio. A şé ‘ndà vìa e a me gà lasà solo pétole. PETÒN, s.m.: Calcestruzzo. Oggi si usa il francesismo betòn, oppure più semplicemente cemento. PETORÀL, s.m.: Frutta secca caramellata. Il nome, pare, non derivasse dal portarli al collo durante l’inverno a guisa di collana, anche se la frutta composta da fichi secchi, prugne, noci ed altro veniva infilzata per esser tenuta assieme, quanto piuttosto dal ritenere avesse effetto terapeutico contro la tosse e di alleggerimento del petto, da cui petoràl. PEVARÒN, s.m.: (v. Peveròn) Peperoncino. Quello verde, conservato sotto aceto, ma anche quello piccolo e rosso, molto piccante che, però, si usava – non frequentemente – tritato finissimo. PEVERÀSA, s.f.: Cappa. Mollusco bivalve. PÈVERE, s.m.: Pepe. A se gà trovà ‘na mùla che la şé dùta pévere. PEVERÌN, agg.: Carattere vivace. A şé pròpio un tipo peverìn. PEVERÒN, s.m.: (v. Pevaròn) Peperoncino. PIÀDA, s.f.: Pedata. Ogni piàda fa ‘ndàr avànti. PIÀDENA, s.f.: Terrina. Zuppiera. PIÀGNA, s.f.: Trave. Una delle due travi che disposte in parallelo


a circa mezzo metro da terra in cantina sostengono le botti del vino. Le travi erano sostenute da un muricciolo di pietra (v. Sènto). PIÀN, s.m.: Piano. Di un edificio. PIÀN, avv.: Piano. Adagio. Chi và piàn, và sàn e và lontàn. PIANÈR, s.m.: Paniere. Un tempo praticamente non esisteva casa a Isola che non disponesse di almeno un pianér che serviva sia in casa che in campagna. Immagine quotidiana, per esempio, quella delle donne che lo portavano in bilico sulla testa pieno di fichì, fragole e altro. In casa serviva pure per tener la biancheria. PIANŞÀDA, s.f.: Pianto. Frignata.

Piazza dell’Annessione e prima ancora semplicemente Viér (v.) perché ancora campagna. PIASÀL, s.m.: Piazzale, Largo, Piazzetta, Campo (inteso come voce presa dal veneziano per indicare appunto uno spiazzo circondato da case). PIASÈTA, s.f.: Piazzetta. Piccola Piazza. Così veniva definita con simpatia dagli Isolani Piàsa Pìcia anche nei periodi in cui le veniva cambiato il nome (Piazza Alieto, Piazza Lovisato, Piazza Manzioli). PIASÈR, s.m.: Piacere. Favore. A me gà fàto un grando piasér che a me ga imprestà i soldi del débito. PIÀŞER, v.: Piacere. Gradire. La mùla la me piàşi tanto, ma…

PIÀNŞER, v.: Piangere. Ànca se l’entràda ghe şé andàda ben che mai, no’l fa che piànşer el morto.

PIÀTO, s.m.: Piatto. Spudàr int’el piàto dòve che se màgna.

PIANŞÒTO, agg.: (v. Fifòn) Piagnucoloso. Piagnucolone. Frignone. Pianşòto pestapévere co l’òio de bacalà che mìsia la polénta del povero soldà (filastrocca per bambini).

PIÀTOLA, s.f.: Piattola. Zecca. Parassita. Di solito si attacca tra i capelli ed i peli dei genitali e si nutre succhiando il sangue. Anche di persona attaccaticcia, appiccicosa e lamentosa della quale non ci si riesce a liberare.

PIANTÀR, v.: Piantare. Seminare. Interrompere. Smettere. A se gà rabià e a gà piantà dùto e dùti. PIANTERÈN, s.m.: Pianterreno. PIANTÒN, s.m.: (v. Impiantòn) Piantone. A Isola la voce veniva usata soprattutto per dire di persona abbandonata improvvisamente. PIÀSA, s.f.: Piazza. Due le antiche piazze isolane: Piàsa Grànda (anche oggi Piazza Grande) e Piàsa Pìcia (oggi Piazza Manzioli). Le altre due piazze importanti di Isola sono Piazza della Repubblica (un tempo Le Porte) e Piazza dei Caduti (durante la presenza dell’Italia

PIATÈL, s.m.: Piattino.

PIATOLÀR, v.: Lamentare. Lagnare. Brontolare. PIATOLÈSO, s.m.: Lamentela. Lagna. PÌCA, s.f.: Avercela con qualcuno. A me gà ciapà in pìca. PICÀR, v.: (v. Impicàr) Appendere. Pendere. Penzolare. Àra che te pìca la còtola. PICARÌN, s.m.: Attaccapanni. Appendiabiti. In senso figurativo la voce viene usata anche per indicare persona smaccatamente servizievole, pronta, appunto, a fare da attaccapanni. PICATABÀRI, s.m.: Attaccapanni. Non credo sia né in uso né

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conosciuto in quanto sostituito appunto dall’attaccapanni. PÌCHE, s.f.pl.: Bastonate. Busse. Il termine viene usato soprattutto con i bambini più piccoli, probabilmente in sostituzione di pàche (v.). PICINÌN, s.m.: Piccino. Bambinello. Bimbo. PÌCIO, s.m.: Bambino. Ragazzino. PÌCIO, agg.: Piccolo. Pìcio òmo grànda canàia. PICIRÌCI, s.m.: Nanerottolo. Uomo di bassa statura. PICOLÀR, v.: Penzolare, pendere. PICOLÈSA, s.f.: Piccolezza. Cosa di poco conto. PICOLÒN, avv.: (v. Pindolòn) Penzoloni. Pendente. PICÒN, s.m.: Piccone. Lavoràr de pàla e picòn. PICONÀDA, s.f.: Picconata. PICONÀR, v.: Picconare. PIDÒCIO, s.m.: (v. Pedòcio) Pidocchio. In senso figurativo anche persona gretta e miserevole. A şé un pidòcio. PÌE, s.m.: Piede. Son restà a pìe. Me sòn fàto dùta la stràda a pìe. Làselo pérder che a dòrmi in pìe. A ghe gà pestà i pìe. No’ lasàrte méter sòto i pìe. Va’ fòra dei pìe. A se gà dà la sàpa sui pìe. No te gà ancora capì de che pìe ch’el sòta? A se la gà cavàda in pìe. PIÈGORA, s.f.: Pecora. PIEGORÌN, agg.: Pecorino. Formàio piegorìn. PIÈN, agg.: Pieno. Colmo. Pién come un òvo. Pién batù. PIÈRA, s.f.: Pietra. Sasso. PIERÀDA, s.f.: Sassata. Sassaiola. PIERÈTA, s.f.: Pietrina. Piccola pietra. Sassolino.

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PIERINSÈLA, s.f.: Pietrina. Pietruzza. Sassolino. PIÈRO, n.pr.: Pietro. San Pièro gà dìto ‘l véro. PIÈSA, s.f.: Campicello. PIÈTA, s.f.: Piega. De doménega me metévo sempre le bràghe nòve, stiràte e lìse co la piéta. PIETÀ, s.f.: Pietà. Compassione. PIETÀNSA, s.f.: Pietanza. PIFANÌA, s.f.: Epifania. PIGNÀTA, s.f.: Pentola. Le pentole erano di alluminio, smaltate, di ghisa e anche di terracotta. Avevano sempre due manici. Oramài a şé fòra dela pignàta. PIGNATÌN, s.m.: (v. Pignatùso) Pentolino. Simile al pignàto, ma di dimensioni più piccole. Di alluminio o smaltato. Serviva anche per bere. PIGNÀTO, s.m.: Recipiente di alluminio o smaltato. Era un recipiente profondo più o meno come una pentola, ma con un manico solo e lungo per poter esser maneggiato con una mano soltanto. PIGNATÙSO, s.m.: (v. Pignatìn) Piccolo recipiente. PIGNÒL, s.m.: Pinolo. Il seme della pigna. PÌLA, s.f.: Pila. Recipiente di pietra nel quale si conservava l’olio d’oliva. Ricordo che di pìle ne avevamo tre di dimensioni diverse nelle quali versavamo l’olio appena uscito dal torchio e poi conservato nell’angolo più fresco della cantina fino alla successiva raccolta delle olive. Naturalmente, le nostre pìle non erano grandi come quelle delle Confraternite o degli agricoltori più abbienti, però l’olio prodotto doveva bastare


fino all’anno dopo. L’olio di semi era praticamente sconosciuto. Le pietanze si condivano sempre con l’olio d’oliva o con lo strutto, quando non con il lardo o la pancetta fritti o messi a cucinare nella minestra e nei faşòi in técia (v.). PÌLA, s.f.: Brillatoio. Brilla. Strumento di legno con il quale nelle campagne ancora nella prima metà del secolo scorso si brillava il riso, il miglio e simili dalla scorza (Boerio: Dizionario del dialetto veneziano). Per motivi ben più tristi, dopo la seconda guerra mondiale, è diventato famoso l’edificio per la pilatura del riso di San Sabba a Trieste, più conosciuto come “Risiera” e trasformato durante l’occupazione nazista in forno crematorio. PILÀR, v.: Pilare. L’atto della pilatura con la quale si toglieva la pula dai cereali. PILÈLA, s.f.: Piccolo recipiente di pietra, vetro o porcellana. Acquasantiera. PILÈLA, s.f.: Isolanti in ceramica. Con il termine venivano chiamati i piattini rotondi in ceramiche che fungevano da isolatori sui pali della corrente elettrica o del telegrafo. I ragazzini si divertivano a prenderli di mira con le pietre e romperli: non tanto per il gusto di fare un danno, quanto perché le pietre a contatto con la porcellana provocavano delle scintille. PILÒN, s.m.: Pilastro. Palo per il telegrafo o per la corrente elettrica. PILÒTO, s.m.: Ghiacciolo. Pezzo di ghiaccio lungo e stretto che si forma con il gocciolio dell’acqua. PILÒTO, s.m.: (v. Capopilòto) Pilota. Veniva definito il

responsabile dei movimenti nel porto. PIMPINÀR, v.: (v. Pindolàr) Oziare. Dilungare. PIMPINÈLA, s.m.: (v. Povarél) Farfallina. Quella piccola e giallognola che, credo, si formasse dai vermicelli che si trovano nella farina non proprio fresca. Sulla voce esiste anche una vecchia filastrocca per bambini: Pimpinéla gavéva una gàta che dùta la nòte faséva la màta e la sonava la campanéla, viva, viva la pimpinéla. Secondo una testimonianza di A. Vascotto con il termine Pimpinéla si era usi indicare un trisavolo, anche se non ho trovato riscontri che lo confermassero. PIMPINÈSO, s.m.: Piccolezza. Oggetto di scarso valore. PINDOLÀR, v.: Pendere. Penzolare. In senso figurativo anche oziare, tirare per le lunghe, girare senza scopo. A no gà vòia de far gnente de bòn, şé dùto el şòrno che a se pìndola torno come un disgrasià. PÌNDOLO, s.m.: Pendolo. Orolòio a pìndolo. PINDOLÒN, avv.: Penzoloni. Pendente. PÌNSA, s.f.: Panettone pasquale. Focaccia. Tipico dolce istriano del periodo pasquale. PIÒMBA, s.f.: Ubriacatura forte. A se gà becà ‘na piomba che a no stava in pìe. PIÒVA, s.f.: Pioggia. Piòva de agosto rinfrésca el bòsco. Piòva e sòl le strighe şé in amòr, piòva e vénto le strighe va in convénto. PIÒVER, v.: Piovere. Pendere. Quela pàrte dei còpi che piòvi davanti. PIOVIŞÌNA, s.f.: Pioggerellina.

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PIPIGNÀR, v.: Perder tempo. Dilungarsi. PIPIGNÈSO, s.m.: Pignoleria. Meticolosità. PIPÌO, s.f.: Paura. Co lo gò vìsto go ciapà un pipìo…! PIPISTRÈL, s.m.: Pipistrello. Pipistrèl, mèşo sòrşo e mèşo uşèl. PIRÀN, top.: Pirano. PÌRIA, s.f.: Imbuto. Solitamente di dimensioni più robuste, per travasare da botti in bottiglie, oppure da una botte all’altra. Figurativamente anche per indicare persona dedita all’alcool, ubriacone. Radio pìria (v.): il megafono e gli altoparlanti che a Isola venivano usati dai regimi che si sono succeduti prima e dopo la guerra per avvisare o imbonire la popolazione. PÌROLA, s.f.: Pillola. Filastrocca: Gigi, Gigi Pìrola, ga ròto la pignàta, su’ mama come màta… Pìrole de galìna e siròpo de cantina. Che sia veramente esistito un Gìgi Pìrola? PIRÒN, s.m.: Forchetta. Secondo A. Vascotto la noce dialettale deriverebbe addirittura dal greco Peiro = infilzare, trafiggere. Il termine veniva usato anche per definire il tuffo in acqua che si eseguiva a testa e braccia in avanti (v. Cavarìo. Ficòn). PIRONÀDA, s.f.: Forchettata. Par séna go magnà solo do pironàde de radìcio e faşòi. PIRULÌN, s.m.: Berretto di forma circolare. Basco. Veniva usato soprattutto da alcuni manovali perché sprovvisto della visiera che avrebbe potuto limitare l’orizzonte della vista. PÌS, s.m.: (v. Pìso) Piscio. Orina. PISÀ, agg.: Sporco di orina. Pisciato.

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PISACÀN, s.m.: Soffione. Il fiore molto presente nelle campagne isolane ed anche soprannome di alcune famiglie. Il motivo per cui nella parlata isolana al soffione venne appioppata quella voce rimangono un mistero. PISADÌNA, s.f.: Pisciatina. Diminutivo di pisciata. PISADÒR, s.m.: Pisciatoio. Orinatoio. Vespasiano. Se ben ricordo, ancora negli anni ’50 del secolo scorso a Isola c’erano tre Vespasiani situati in riva al mare. PISAMÙSA, s.f.: Varietà d’uva dagli acini gialli e leggermente rossicci. Veniva poco usata sia come uva da tavola che per vinificare. Anche per questa voce difficile stabilirne l’origine. PISÀR, v.: Pisciare. Orinare. Chi pìsa controvénto se bàgna le bràghe. PISARIÒLA, s.f.: Incontinenza urinaria. PISATÌRA, s.f.: (v. Monighéla) Gioco di carte. Probabilmente deriva da pisàr che in questo caso sta a significare il gesto del pagare, e tiràr con il significato di ritirare i soldi. Francamente, un gioco che è ormai completamente scomparso e di cui non rimane memoria, ma che si giocava, come racconta A. Vascotto, in gruppi numerosi probabilmente all’osteria. Sempre secondo il V. si giocava con ogni giocatore che posava nel centro un soldo. Poi si distribuiva una carta a testa. Se veniva una figura si ritirava dal mucchio un soldino, se arrivava un asso il soldino andava pagato. A chi toccava la Pisatìra (da altri la carta veniva chiamata anche Monighéla) poteva ritirare tutte le monetine del banco. Non è chiaro, quale fosse la carta che veniva identificata come Pisatìra.


PIŞDRÙL, s.m.: Ragazzetto. Persona insignificante. Sciocco. No dàrghe abàdo, a şé un pişdrùl. L’origine della parola è presa dalla lingua slovena e deriva dal diminutivo della voce pizda che sta a significare volgarmente l’organo genitale femminile. PISIGAMÒRTI, s.m.: Becchino. La voce, anche se presente praticamente in tutta la regione istriana, a Isola veniva usato soprattutto per indicare la persona che a pagamento si incaricava di sistemare e vestire i cadaveri prima del funerale. Sembra, tuttavia, che l’origine sia di data più lontana, quando, a quanto si dice, con il termine veniva definita la persona incaricata di verificare il reale trapasso del defunto con un sonoro pizzicotto. PISIGÀR, v.: Pizzicare. Beccare. I lo gà pisigà co a tentava de filàrsela.

PISTÒN, s.m.: Pistone. Stantuffo. PISTRÌN, s.m.: Mulino antico. Mortaio in pietra per sbucciare il mais. Solitamente era rappresentato da un vaso di pietra conca dentro il quale si mettevano i grani di mais e poi con un legno si pestava fino a romperli e sbucciarli. Per quanto mi ricordo, con i grani di granoturco così frammentati e sbucciati si cucinavano le minestre chiamate bobìci (v.) durante i mesi invernali. Altrimenti, il mais veniva usato per le minestre quando le pannocchie non erano ancora mature e, proprio per questo, molto tenere e facili da cucinare. PITÈR, s.m.: Vaso per fiori. PÌTIMA, s.f.: Persona noiosa. Seccatura. PITOCÀR, v.: Elemosinare. Mendicare.

PISIGHÌN, agg.: Aria fredda che pizzica le orecchie.

PITÒCO, s.m.: Accattone. Mendicante.

PISIGHÌN, s.m.: Vino frizzante, spumante.

PITÒR, s.m.: Pittore. Imbianchino. PITÒSTO, avv.: Piuttosto.

PÌSIGO, s.m.: Pizzico, piccola quantità.

PITÙRA, s.f.: Pittura. Vernice. Stùco e pitùra fa béla figura.

PISIGÒN, s.m.: Pizzicotto.

PITURÀDA, s.f.: Atto del dipingere. A ‘sti mùri bisogna dàrhe ‘na pituràda.

PISIÒL, s.m.: Cece. Legume non molto frequente nelle campagne e nelle cucine isolane. PISÌN, s.m.: L’orinare dei bambini. PÌSO, s.m.: (v. Pìs) Piscio. Urina. PISÒN, s.m.: Telo impermeabile che veniva messo sotto i neonati perché non bagnino il materassino. Anche Piscione, in senso bonario e scherzoso ai bambini. PISÒTO, sm.: Piscione. PISTÀCIO, s.m.: (v. Pestàcio) Pistacchio.

PITURÀR, v.: Pitturare. Dipingere. PITÙSO, agg.: Piccolo. Minuto. Usato soprattutto nel confronto dei bambini per indicarne l’incongruente petulanza. PIUMÌN, s.m.: Piumino. PIVÌDA, s.f.: (anche Pivìdola) Pipita. Malattia delle galline che presentano un’escrescenza della lingua. PLÀCA, s.f.: Piastra. In particolare la piastra del fogolér (v.) sulla quale spesso si metteva ad

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abbrustolire qualche fetta di pane vecchio, oppure qualche braciola di maiale. PLACÀR, v.: Calmare. Distendere. PLACÀTO, s.m.: Manifesto. Avviso pubblico. Locandina. PLAFÒN, s.m.: Soffitto. PLANCIA, s.f.: Bacheca. Vetrina per manifesti. ‘Ndemo a vedér le plance pàr savér còsa şé staséra in cìne. PLÒC’, s.m.: (v. Paciùgo) Melma. Fanghiglia. Pozzanghera. PODÀR, v.: Potare. Le viti, gli alberi. PODADÒR, s.m.: Vitigno giovane. Potatore, l’addetto alla potatura delle piante. PODEGÀNA, s.f.: (v. Polegàna) Furbastro. Finto tonto. Persona sveglia e ingannevole. PÒDENA, s.f.: Scodella. Tazza. Ciotola. PODÈR, v.: Potere. El mòndo a şé cusì: chì pòl e chì no pòl. Vòio ma no pòso. PODESTÀ, s.m.: Capo del Comune posto da autorità superiori e non eletto dai cittadini. Il primo cittadino del Comune, liberamente eletto dai cittadini è il Sindaco. Così la lunga serie dei podestà inviati a reggere le sorti di Isola durante il dominio della Serenissima. Podestà erano anche quelli nominati durante i venticinque anni dell’amministrazione italiana e, prima ancora, da quella ausburgica. Come curiosità, merita ricordare che l’ultimo podestà veneto, Nicolò Pizzamano, è stato ucciso durante la rivolta popolare del 1797, accusato di aver aiutato assieme ai nobili capodistriani la venuta degli austriaci tradendo il Leone di San Marco.

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PODESTARÈSA, s.f.: La moglie del Podestà. POIÀNA, s.f.: Astore. Poiana. Uccello rapace. POÌNA, s.f.: (v. Puìna) Ricotta. Secondo il “Dizionario del dialetto veneziano” di Giuseppe Boerio, la voce deriva dal latino Pruina, che vuol dire Brina, quindi “storpiatamente sia stata detta puìna per imitazione del colore bianco”. PÒL, v.: Può. Voce del verbo podér (v.). Lù sì che a pòl = Lui si che può. PÒLA, s.f.: Sorgente, polla. POLÀSTRO, s.f.: Pollastro. In senso figurato serviva anche per indicare persona furbastra, ma non troppo sveglia. Sta ‘tenta che a şé un polàstro. POLEGÀNA, s.f.: (v. Podegàna) Persona furba e ingannevole. POLÈNTA, s.f.: Polenta. Solitamente rappresentava l’alternativa al pane, soprattutto con i sughi. Probabilmente perché veniva a costare molto meno del pane ed era abbastanza facile e rapida da preparare, anche se non esistevano ancora le polente a preparazione rapida, né quelle già pronte in negozio sotto cellophan. POLENTÀR, s.m.: Paiolo. Evidentemente quello in rame battuto usato per cucinare la polenta. PÒLPA, s.f.: Carne, senza l’osso. A ne gà dà do tòchi de carne, ma iera solo pòlpa. POLPÀME, s.m.: Sansa. Residuo. Un tempo quello che rimaneva delle olive dopo il processo di torchiatura. Veniva usato come combustibile. Oggi, dicono, serve anche per la concimazione del terreno.


POLPÀSO, s.m.: Polpaccio. PÒLVARE, s.m.: polvere. POMEGÀR, v.: (v. Pomigàr) Batter fiacca. POMÈLA, s.f.: Bacca. Frutto. POMÈR, s.m.: Melo. Albero delle mele. PÒMO, s.m.: Mela. POMIDORO, s.m.: Pomodoro. POMIGÀR, v.: (v. Pomegàr) Tirar fiacca. POMOCÀCO, s.f.: Caco. Frutto proveniente dal Giappone che, a quanto pare, ha attecchito anche dalle nostre parti, tanto che quasi ogni giardino o orto ne possiede qualcuno. Nella valle di Strugnano se ne coltivano un’intera piantagione. POMOGRANÀ, s.f.: Melograno. PÒMOLA, s.f.: Capocchia. Spillo. Testina a forma di pomo. PÒMOLO, s.m.: Pomolo. Pomello. PÒMPA, s.f.: Pompa. Pòmpa de verderame. Pòmpa de sòlfare. POMPÀR, v.: Pompare. Andarsene. Pòmpa via che no te védo. POMPIÈR, s.m.: Pompiere. Vigile del fuoco. POMPÌN, s.m.: Coito orale. PÒNGA, s.f.: Gozzo. Inpignìrse la pònga = mangiare a sazietà. PÒNŞER, v.: (v. Spònşer) Pungere. PÒNTA, s.f.: Punta. Scarpe in pònta; Lasàr la pònta = Acquistare a credito, senza pagare. Per i toponimi, però, si usava sempre il termine Punta: Punta de Gàlo, Punta de Rònco, Punta Corbàto, Punta Gròsa. PÒNTA DE CANA, loc.: La punta della canna. Alle canne venivano fatte le punte per facilitarne

l’entrata nella terra a sostegno delle viti o dei pomodori. PONTÀL, s.m.: La punta di qualcosa. PONTAPÈTO, s.m.: Fermaglio. Ago di siurezza. PONTÀR, v.: Puntare. Fissare con un chiodo o con altro: Le bràghe le gà un sbrégo e bişogna pontàrle un poco. PONTARIÒL, s.m.: Punteruolo. PÒNTE, s.m.: Ponte. Asse di legno da muratore. Tavole lunghe circa quattro metri e di cinque o più centimetri di spessore, di varia larghezza, che si usavano e si usano ancora nell’edilizia per costruire i ponteggi che servono ai muratori per lavorare ad altezze superiori. PONTÈR, s.m.: Promontorio. Rupe. (v. Rivàso). Termine ormai in completo disuso e per spiegarne il significato riportiamo la spiegazione di A. Vascotto: Il “primo pontér”per gli Isolani sarebbe la prima rupe subito dopo la “fàbrica del còto” e, poco più avanti, il secondo, detto “giracaròse”. PÒNTO, s.m.: Punto. ‘Ndàr a pònto: nel gioco delle bocce il termine veniva usato quando si cercava di accostare il pallino con la boccia. Oggidì il termine è stato completamente sostituito dall’italiano “punto”. PÒPE, s.m.: La morte. Morire. Accennando al modo di dire isolano di una volta, quando “andàr de Pòpe” voleva dire morire, qualcuno fece derivare la parola dal nome di un presunto becchino, come era successo più tardi con l’ “andàr de Vérşa” preso di sana pianta dal soprannome di uno “scavabùşi”

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(v.). A nostro avviso, però, la parola è stata presa in prestito dalla liturgia cristiano ortodossa, dove il Pòpe rappresenta l’omologo del nostro prete, per cui aver bisogno di un prete per l’estrema unzione. POPÒCI, s.m.: Culetto. Deretano. Riferito soprattutto al culetto dei bambini. PORCACIÒN, agg.: Porcaccione. PORCÀDA, s.f.: (v. Scrovàda) Porcata. Azione biasimevole. Con lù no pàrlo dopo che a me gà fàto quèla porcàda. PORCARÌA, s.f.: (v. Sporcarìa) Porcheria. Sudiciume. Porcata. Azione deprecabile. PÒRCO, s.m.: Porco. Maiale. Il termine sembra derivi dal latino “porcus” e, prima ancora, dal greco “porkos”. Il “Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana” di Ottorino Pianigiani, suggerisce anche la proposta di un certo Delatre, il quale sosterrebbe che derivi dalla particella greca “por” che ha il significato di traversare: ond’anche - come sostiene – “porikòs” nel senso che “fa buchi, fori”, perocché il porco sia solito scavare la terra col grifo. Sempre allo stesso lemma, il simpatico Dizionario pubblicato nel 1907, specifica ancora che si tratta di “mammifero domestico, setoloso, a unghia fessa, che s’ingrassa per l’alimentazione, detto altrimenti Maiale. Figurativamente, il termine viene usato anche per Uomo sudicio di persona e di costumi. Si usa familiarmente anche come adietivo nel senso di Cattivo, Malfatto, Disgustoso.” Il capitolo 35 del III Libro degli Statuti Comunali di Isola in lingua volgare del 1360 era intitolato “Che porci et capre non siano

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tenuti in Isola” e in prosieguo stabiliva che “Si proibisce il tenir in questa terra porchi grandi, ò piccoli oltra otto giorni, sotto pena de soldi quaranta al Comun, et chi quelli ritroverà à darli danno, et li amazzarà non patisca alcuna pena, et che alcuna persona non debba tenir alcuna Capra, se non in Casa sua serrada, sotto pena de soldi quaranta, se sarà ritrovata fuori di Casa, della qual pena dui parte pervenghino nel Comun, et la terza sia del’accusator, se per la sua accusatione si potrà haver la verità. PÒRCO DE SANT’ANTONIO, agg.: La definizione completamente sparita anche dalla memoria locale probabilmente si riferiva ai maiali che, secoli fa, venivano allevati nel convento di S.Antonio Abate di Venezia e che venivano lasciati di girare liberi per le calli fangose del rione, senza che nessuno osasse prenderli. A Isola, pare, veniva usato per definire persona scapestrata senza fissa dimora. PORCOSPÌN, s.m.: Riccio. Porcospino. Istrice. PÒRO, s.m.: Porro. Ortaggio simile all’aglio, e che un tempo si usava selvatico sia per le frittate che per le minestre. Oggi si usa il porro coltivato, molto meno aromatico. A titolo di curiosità dei tempi andati, riportiamo la filastrocca per bambini segnalata da A. Vascotto: Su pal monte la vécia la còri – co la còtola piéna de pòri. – Pòri in còtola, in còtola pòri, - su pal monte la vécia la còri. PÒRO, s.m.: Verruca. Escrescenza della pelle. PORSÈL, s.m.: Porcello. Porcellino. Solitamente rivolto a qualche bambino particolarmente sudicio.


PORSELÀNA, s.f.: Porcellana. PORSIÀNI, s.m.pl.: Pezzi di tela che venivano avvolti e legati attorno alle caviglie. Erano usati dai contadini isolani quando zappavano la terra e servivano per salvaguardare le bràghe (v.) e le scarpe. PORSÌNA, s.f.: Porcina. Carne di maiale. Con il termine porsìna, si usava definire la carne di maiale appena macellata, bollita e servita ancora calda assieme a qualche spezia come la senape o il crén. Veniva servita anche come piatto del giorno in qualche trattoria isolana d’anteguerra e, a quanto serve a testimoniare l’esperienza diretta, è ancora presente in qualche vecchia osteria di Trieste, dove la porsìna viene servita assieme a capùsi gàrbi (v.). PORSIÒN, s.m.: Porzione. PÒRTA, s.f.: Porta. Uscio. Soglia. Il lemma merita attenzione anche in questo dizionario del dialetto isolano non perché rappresenti un termine diverso rispetto a quello della lingua italiana, ma perché le porte fanno parte della lunga storia Isolana che merita ricordare: dal fatto che ancor oggi gli isolani autoctoni, ma anche gli abitanti più anziani del circondario definiscono con “Le Porte” (v.) la piazza centrale della città, oggi chiamata Piazza della Repubblica. Qualche anno fa l’Associazione culturale e di ricerca “Mediterraneum”, che ora fa parte della Comunità “Pasquale Besenghi degli Ughi”, ha pubblicato un bel volume intitolato “Di porta in porta per le contrade di Isola” che racconta la storia e gli stili dei diversi portoni d’entrata nelle case isolane. PORTACIÀVE, s.f.: Portachiavi.

PORTACÌCHE, s.f.: Portacicche. Posacenere. PORTAFÒIO, s.m.: Portafoglio. Portamonete. PÒRTA IŞOLANA, top.: Toponimo di Capodistria. Una delle vie di Capodistria che un tempo serviva agli Isolani quando portavano i propri figli al battesimo in Duomo. Non disponendo Isola della fonte battesimale, erano costretti a recarsi nella vicina città in barca. Per questo motivo, nella parte settentrionale era stato costruito un porticciolo chiamato Porta Isolana. PORTÀR, v.: Portare. Essere incline a qualcosa. A şé portà pàr la mùşica. Ciàpa su e pòrta a càşa. PÒRTE (LE), top.: Le porte fanno parte della lunga storia di Isola in quanto definiscono in maniera inequivocabile che proprio qui si ergeva la principale porta d’entrata nella città circondata dalle mura difensive. Dopo la scomparsa delle mura ed il congiungimento dell’isolotto con la terraferma, questo spiazzo continua a mantenere il suo nome originario assieme a tutta l’area circostante. Oggi “Le Porte” rappresentano la piazza centrale della città, chiamata Piazza della Repubblica. Al tempo delle mura, però, esistevano anche altre porte che, se non altro, consentivano alla popolazione che abitava all’interno, di avere accesso al mare: così Porta Puiese (v.), Porta Ughi (v.), Riva de Porta (v.) Secondo alcuni etimologisti, sembra che il termine derivi dalla parola latina “portare”, cioè sollevare, poiché – come sottolineano – nel tracciare, come fece Romolo per Roma, le mura della città con un aratro, questo

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veniva sollevato nel luogo dove dovevano trovarsi le porte, cioè il passaggio per entrare in città. Altri, invece, sostengono che si tratta dello stesso etimo di “Poro” e “Porto” nel senso di Passaggio, ma è anche probabile – come accenna il Pianigiani - che si tratti di qualche antico verbo andato ormai in disuso e derivante dal greco: Peràò, che significa “attraverso”, da cui Porita, Por’ta, Poro, Pòrta. PORTÈLA, s.f.: Sportello. PÒRTEGO, s.m.: Portico. Il portico (dal latino porticus, da porta) è generalmente una galleria aperta, collocata per lo più all’esterno e al piano terreno di un edificio; può avere funzione di riparo o anche solo decorativa. A Isola, però, dove sia le vie che le case erano tutte di dimensioni più modeste, con il termine veniva indicato lo spazio tra la fine delle scale al primo piano e l’inizio di quelle che portavano al secondo piano. Lo spazio, invece, situato subito a ridosso della porta d’entrata e che, solitamente portava anche all’inizio delle scale per i piani superiori, veniva definito come àndito (v.). Va ricordato, che quasi tutte le città e paesi veneti dispongono di pittoreschi portici che accompagnano le principali vie e oggi rappresentano anche importanti luoghi d’incontro e di commercio. Basta digitare in internet il termine Portego per poter navigare tra decine di ristoranti, pizzerie, wine-bar e negozi, intitolati al portego, cioè situati sotto i portici delle diverse località. PORTIÈR, s.m.: Portiere. PORTIERA, s.f.: Porta a vetri. PORTOLÀTA, s.f.: Barcone.

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Grossa barca da trasporto. Barca destinata a raccogliere e portare al mercato o, come nel caso di Isola, in fabbrica, la pesca giornaliera. Quando tutta la flotta peschereccia delle fabbriche Ampelea (v.) o Arrigoni (v.) si recavano anche per qualche giorno in acque più lontane e profonde, allora il pescato quotidiano veniva portato a terra dalla Portolàta. PORTÒN, s.m.: Portone. Ritornello di una vecchia canzone popolare: No gò le ciàve del portòn, Ninéta bùta şò ‘l paiòn che dòrmo in stràda… POŞÀDA, s.f.: Posata. Ciascuno dei tre strumenti che servono per mangiare: cucchiaio – cuciàr (v.), forchetta – piròn (v.), coltello – cortél (v.). La parola deriva indubbiamente dal verbo posare, nel senso di adagiare in un determinato posto. Come abbiamo letto nell’interessante Vocabolario Etimologico Pianigiani, la posàta, rappresentata da ciascuno dei tre utensili viene così definita “perché segnano il posto in cui deve posarsi ciascun commensale”. Co me son sposà, gò ciapà un bel servìsio de poşàde. POŞAPIÀN, s.m./agg.: Persona molto calma. Persona molto lenta. No créder, che Toni rivarà a fàrte ‘l lavòr. A lù ghé vòl almeno do setimane, parché a şé un poşapiàn! POŞÀR, v.: Posare. Appoggiare. PÒSO, s.m.: Pozzo. La parola deriva dal latino Puteus, che ha lo stesso significato. Secondo altri, invece, potrebbe essere un assemblaggio tra Putus e Purus: quindi una specie di serbatoio di acqua pura. In ogni caso, la parola italiana Pozzo sembra non avere origini chiare, mentre è molto più chiaro


l’origine dell’isolano pòso che indubbiamente deriva dal pozzo dopo aver trasformato le due zeta in una “s” impura. Sempre a titolo di curiosità, ecco come lo descrive nel 1907 il Pianigiani: Luogo verticale e profondo, naturale od artificiale, che ha acque perpetue sorgive o di vena, che però non prorompono fuori a guisa delle fonti. Differisce da Cisterna (v.), che si alimenta di acqua piovana. PÒSO, v.: Posso. Voce del verbo Podèr. Pòso ma no vòio – Vòio ma no pòso. PÒSTA, avv.: Apposta. Appositamente. Àra, che lo gà fàto pòsta. Può sembrare strano, oggi, quando siamo ormai pienamente abituati a pronunciare il termine in lingua apposta, anche con le due p regolamentari, che ancora non molto tempo fa si usasse normalmente il termine abbreviato e monco della a: il dialetto che, spesso, diventava anche rozzo, non ci pensava due volte a scegliere il percorso più breve e più facile. Naturalmente, era dal contesto del discorso che, poi, si capiva se il termine pòsta aveva il significato di proposito, oppure si riferiva all’ufficio postale. PÒSTA, s.f.: Posta. Ufficio postale. Probabilmente deriva dal significato di luogo determinato, luogo di appuntamento da dove partiva e dove arrivavano le comunicazioni scritte. POSTÈMA, s.m.: Postema. Apostema. Ascesso. (v. Brusco) Il termine, anche in lingua italiana, sembra derivi da “cosa che sta separata” composta da “apo” dal latino ab che significa “da”, indicante separazione, e da “istemi” nel senso di “sto, mi fermo”. Quindi, come spiegano

gli etimologi Ammasso di pus tra i tessuti del corpo, separato dalle parti adiacenti per mezzo di una ciste. POSTIÈR, s.m.: Postino. POSTIŞÌN, s.m.: Posticino. POSTÌSO, agg.: Posticcio. Finto. PÒTO, s.m.: Piccolo recipiente. Veniva usato quasi esclusivamente per bere l’acqua dalla mastéla, cioè dal recipiente che si trovava in ogni casa, in cuşìna o nell’àndito, quando ancora non esisteva il rubinetto dell’acqua corrente. Di solito era smaltato – perché dava l’impressione di maggiore pulizia – ed aveva un piccolo manico per poter esser preso comodamente con le dita e, dopo aver attinto l’acqua, portato alla bocca. Evidentemente il termine deriva dal latino “pot” che significa bere. POVARÈL, s.m.: (v. Pimpinéla) Piccola farfallina bianca o giallognola che di solito, quando le derrate alimentari si tenevano in casa per tutto l’anno, si vedevano svolazzare fuori dai recipienti dove veniva custodito il grano oppure anche alcuni cibi prodotti con i cereali, come la pasta. Stava a significare che all’interno del grano si erano sviluppate delle larve dalle quali poi si erano sviluppate le farfalle e che, se non si fosse trovato presto un rimedio, semi o farina o che altro sarebbero andati perduti. PÒVRO, agg.: (v. Pòvaro) Povero. Misero. PRÀNSÀR, v.: Pranzare. PRÀNSO, s.m.: Pranzo. PRÈMER, v.: Premere. Far premura. Avere urgenza. Avere fretta. Me prémi par no far tardi.

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PREMURA, s.f.: Premura. Fretta. Urgenza. PRESÈMOLO, s.m.: (v. Persèmolo) Prezzemolo. PREŞÒN, s.f.: (v. Parşòn. Prişòn) Prigione. Carcere. PRÌMO PÒNTE, top.: Il toponimo si riferisce evidentemente al luogo dove esisteva uno dei ponti che un tempo permettevano agli Isolani di raggiungere la terraferma. Era situato prima del Camposanto e, a quanto si racconta, per costruirlo sono stati usati anche i massi di pietra presi dalle mura che circondavano Isola. PRINSÌPIO, s.m.: Principio. PRIŞÒN, s.f.: (v. Parşòn. Preşòn) Prigione. Carcere. PROFITÀR, v.: Approfittare. Sfruttare. PROMÈTER, v.: Promettere. PRONTÀR, v.: Preparare. PROPÈLA, s.f.: Elica di imbarcazione. Trattandosi di termine meccanico di recente scoperta, evidentemente anche nella parlata isolana è pervenuto grazie al termine sloveno, o al limite inglese, propeler. Anzi, pare che la sua scoperta, o almeno il suo perfezionamento, sia dovuta ad uno scienziato triestino Josef Ressel di origine slovena. PRÒPIO, avv.: Proprio. PROPÒNER, v.: Proporre. PROTÈGER, v.: Proteggere. PRÒVA, s.f.: Prua. Prova. PROVÈ, top.: Toponimo isolano. Zona a cavallo tra il Comune di Capodistria e quello di Isola. È situata sul versante settentrionale del Monte San Marco, verso Isola. PROVEDÈR, v.: Provvedere.

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PROVÈNA, s.f.: Sistema riproduttivo di una pianta. Un ramo della pianta viene interrato e lasciato sepolto fino ad emissione di radici, dopo di che viene diviso dalla pianta madre. PROVÈNSA, s.f.: (v. Maestràl) Provenza. Maestrale (vento). Che il lemma derivi dalla nota regione francese è evidente. A Isola, comunque, un tempo si supponeva che il vento di Nordovest, altrimenti più comunemente conosciuto come “maestràl”, o “vento di maestro” provenisse proprio dalla Provenza, e da qui il termine Vento di Provénsa che, pare, fino a circa un secolo fa, era ancora presente a Isola. Al giorno d’oggi, non solo il termine è completamente scomparso dalla parlata, ma – dicono – anche il vento è sempre più raro. PROVIÀNDE, s.f.: Provvista di viveri. Il lemma sembra risalire agli anni della Prima guerra mondiale 1914-1918 quando – come ci insegna l’inesauribile Antonio Vascotto, su iniziativa dell’autorità austroungarica nelle singole cittadine dell’Impero asburgico vennero creati dei magazzini per generi alimentari. A Isola, si dice, il più importante magaşìn dele proviànde si trovava ale Pòrte, vicino alla chiesetta di Santo Domenico in un locale che, in precedenza, pare ospitasse addirittura un torchio delle olive. PROVÌN, s.m.: Misurino. Strumento per misurare. Solitamente con il termine si pensava al misurino per verificare il tasso alcoolico della grappa o del vino. PROVÌŞO, s.m.: Vento in faccia. Era il vento che colpiva il volto dei pescatori quando si trovavano ritti in prua: vénto de provìşo.


PÙF, avv.: Debito, credito. Acquistare qualcosa a credito: termine oggi molto più in voga di una volta. Molto usato soprattutto dalle popolazioni slave, per cui è probabile che anche nel dialetto isolano d’anteguerra sia arrivato dalle aree slovene dei villaggi circostanti. PÙIA, top.: Rione Isolano. Comprende la zona che oggi fa riferimento alla Via Tartini e che dal piazzale del Duomo si snoda verso il porto e verso Punta Gallo. ‘Ndàr şò pàr la Pùia. Poichè nei secoli addietro a Isola esisteva anche una Pòrta Puièşe (v.), a memoria della quale esisteva fino a pochi decenni fa una via Pòrta Puièşe (v.), situata all’interno di Riva de Pòrta (v.), quindi porta situata all’interno delle mura che circondavano la città, difficile constatare se la Pùia avesse qualche collegamento con le mura di cinta. PUÌNA, s.f.: Ricotta. PULIŞÌN, s.m.: Pulcino. PÙLIŞO, s.m.: Pulce. PULISÒN, s.m.: Insetto parassita delle galline. PULÌTO, avv.: Bene. Giusto. Benìto, Benìto, te ne gà fregà pulito – te ne gà calà le pàghe, te ne gà cresù l’afìto! PÙLTO, s.m.: Pulpito. Mobile, solitamente più alto di una normale scrivania, che in ufficio, ma soprattutto in chiesa, serve per poggiarvi sopra qualche registro o libro. Il termine, però, come in italiano, veniva usato anche per leggio usato dal prete in chiesa per i suoi sermoni. PÙNTA CORBÀTO, top.: Piccolo promontorio all’inizio della baia di San Simone che finisce in mare con alcuni scogli frastagliati. È

la zona dove un tempo, a pochi metri dal mare si ergeva l’antica villa rustica, o marittima, romana e dove, ancor oggi è possibile trovare qualche tassello dell’antico mosaico che decorava l’edificio. Purtroppo, gli scavi archeologici, che dovrebbero comprendere buona parte del comprensorio, dopo un promettente inizio di qualche decina di anni fa, non sono mai stati ripresi ed oggi figurano in un vero e proprio stato di abbandono. Un ultimo tentativo di attirare l’attenzione è stato compiuto dalla giovane artista Megi Uršič Calzi che, con finanziamenti europei e per conto della Sovrintendenza ai beni culturali, ha ricostruito ex novo una parte del mosaico depositandolo nel sito originale, in attesa di una ripresa dei lavori di scavo. PÙNTA GÀLLO, top.: Penisola estrema dell’isola con cui il centro urbano confluisce in uno splendido parco e nella spiaggia cittadina. Ignota l’origine del toponimo che, secondo alcuni, deriverebbe dalla presenza in zona di una famiglia ma senza alcun riscontro documentabile. La zona, per la sua amenità, è da tempo di interessi speculativi, tra chi vorrebbe costruirci una serie di alberghi e condomini e chi, invece, preferisce mantenerla integra sotto forma di polmone verde della città situato proprio dirimpetto alla baia di San Simone. PUNTINA, s.f.: Puntina. Piccolo chiodo. Puntìna de dişègno. PÙPA, s.f.: Poppa delle barche. Bambola. Oggi è frequente sentire il termine in senso figurativo rivolto a qualche bella ragazza. POPOLA, s.f.: Polpastrello delle dita.

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PUPOLÒTO, s.m.: Fantoccio, pupazzo. In senso figurativo il termine si riferisce a persona priva di carattere, senza dignità. PURGÀR, v.: Purgare, spurgare. Fare una purga. PUŞÀR, v.: (v. Poşàr) Posare, appoggiare. PÙS’CIA, s.f.: Amo grosso a più punte per la cattura dei polipi (calamari, seppie). PÙTA, s.f.: Ragazza. Donna nubile. Oggi completamente fuori uso, perché troppo somigliante al termine di putàna = prostituta. PUTAGNÈR, s.m.: Puttaniere. PUTÀNA, s.f.: Puttana. Prostituta. PUTANÒN, s.f.: Bagascia. Donna di malaffare. Meretrice. PUTÈLA, s.f.: Ragazza. La parola ha praticamente sostituito il lemma pùta e viene (o veniva) spesso usato rivolgendosi a ragazze giovani o parlando di esse. PÙTO, s.m.: Ragazzo. Uomo non sposato. Anche questa parola, praticamente non viene più usata. Si preferisce l’inglese “single”. Anche il termine putèl, riferito ai maschi, viene usato soltanto nell’ambito di discorsi che fanno riferimento a qualche ragazzo, non direttamente. Maria, la gà do fiòi che i şé propio bravi putèi. La parola, però deve essere arrivata a Isola portata probabilmente da Trieste, poiché, come testimonia il Vascotto, il putèl a Isola non era mai usato, almeno fino alla prima metà del secolo scorso.

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Qq Q, quindicesima lettera dell’alfabeto italiano QUÀ, avv.: Qua. Qui. In questo luogo. A şé più de qua che de là. Şé şà do àni che a no stà più qua. A rìva de quà un pòco. QUÀCIO, agg.: Calmo. Quieto. Zitto. QUADERNA, s.f.: Quaterna. Durante il gioco della tombola una combinazione di quattro numeri. QUÀIA, s.f.: Quaglia. QUÀL, agg.: Quale. Rispetto al termine in lingua italiana, in dialetto si adeguava al soggetto maschile o femminile, singolare o plurale: quàla, quài, quàle. QUALCHEDÙN, agg.: Qualcuno. QUALCHECÒSA, agg.: Qualcosa. QUALCÒSA, pr.: Qualcosa. QUARTA, s.f.: Un quarto di metro. Si usava soprattutto in sartoria. Figurativamente si usava in maniera scherzosa per indicare la bassa statura di qualcuno. A gà un fradél che a no rìva più de ‘na quàrta. QUARTÀL, s.m.: Un quarto. Un quadrimestre. QUARTIÈR, s.m.: Alloggio. Appartamento. Abitazione. QUARTÌN, s.m.: Un quarto di litro. Di vino, naturalmente. Era abitudine che, durante il gioco delle carte, le bevute andassero avanti a suon di quartini. Si trattava di un piccolo boccale di vetro contenente, appunto, un quarto di litro, ma credo che

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in qualche cantina di qualche campagnòl se ne trovino ancora per l’assaggio da offrire all’ospite. QUARTIŞÀR, v.: Sorseggiare. Degustare. Bere lentamente. L’abitudine, assolutamente individuale, di bere il solito quartino molto lentamente, in modo da gustarne il piacere quanto più a lungo. QUATÒRDIŞE, num.: Quattordici. QUÀTRO, num.: Quattro. QUÈL, avv.: Quello. Ànca él vìn a no şé più quél de ‘na vòlta. QUETÀR, v.: Calmare. Pacificare. Quietare. QUÈTO, agg.: Quieto. Calmo. QUÌNDIŞE, num.: Quindici.


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Rr

primo tàio. Quello che quasi tutte le famiglie coltivavano durante tutto l’anno su un pezzetto di terreno era il “sucherìn de Trieste”.

R, sedicesima lettera dell’alfabeto italiano.

RÀDIO, s.f.: Radio. Apparecchio radiofonico.

RÀBIA, s.f.: Rabbia. Ira. La ràbia bìa mèterla sòto el cusìn.

RÀDIO PÌRIA, s.f.: Voce ed eventi diffusi con altoparlanti. È così che gli Isolani chiamavano gli altoparlanti che prima e dopo la guerra diffondevano nelle piazze la voce dei potenti. Con questo termine venivano definiti i discorsi di Mussolini che, alla gente accorsa in piazza, venivano diffusi tramite altoparlanti. Nello stesso venivano definiti gli altoparlanti che a Isola, dalla Casa del Popolo, diffondevano i discorsi dei politici di turno nell’immediato dopoguerra, soprattutto quando invitavano la popolazione isolana ad scegliere la “yugoslav way of life”. Tristemente famosa è la Radio pìria installata dal regime in piazza del Brolo a Capodistria nel 1948, per far sentire alla popolazione il decorso del processo alla cosiddetta “Banda Drioli”. Indubbiamente, le motivazioni, ma soprattutto le condanne al gruppo di giovani isolani, accusati addirittura di terrorismo e spionaggio a favore del CLN dell’Istria con sede a Trieste, rappresentò uno dei motivi, pur se non l’unico, a convincere la popolazione italiana di Isola ad andarsene dopo la fine del Territorio Libero di Trieste nel 1954.

RABIÀ, agg.: Arrabbiato. Irato. RABIÀDA, s.f.: (v. Imbilàda) Arrabbiatura. Collera. RABIÀR, v.: Arrabbiare. Adirare. RABIÒŞO, agg.: Arrabbiato. Incollerito. Irritato. RABONÌR, v.: Calmare. RABÒTA, s.m.: Lavoro volontario. Termine di origine slava (forse russo), con il quale subito dopo la guerra si definiva il lavoro volontario di riparazione di strade di campagna dissestate cui si dovevano impegnare i contadini che le usavano. RACÒLŞER, v.: (v. Ingrumàr) Raccogliere. RACOMANDÀR, v.: Raccomandare. RÀDA, s.f.: Rada. Ormeggio fuori dal porto. In tel mandràcio no ghe ièra posto, cusì gò lasà la bàrca in ràda. RADÀSA, s.f.: Grande scopa. Serviva per pulire e lavare la coperta delle grosse imbarcazioni. RADEGÀR, v.: Litigare, discutere, altercare. RADÈGO, s.m.: Barruffa. Lite. Guaio. RADEGÒŞO, agg.: Litigioso. Mai visto un più radegòşo de lù. RADÌCIO, s.m.: Radicchio. Chi non si ricorda di aver sentito almeno una volta parlare di radìcio de

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RADÌŞA, s.f.: Radice. RADIŞÀR, v.: Mettere radici. RADIŞÈL, s.m.: Reticella. Reticolo. In particolare il reticolo che avvolge le budella del maiale e che si usava per avvolgere


della carne, sempre del maiale, e conservarla per periodi successivi. Vascotto testimonia che un piatto particolarmente apprezzato per gli isolani fosse il Fegà de pòrco col radişél. RÀFA, s.f.: Sporcizia. Sudiciume. In particolare la sporcizia evidente di chi non è abituato a lavarsi ogni giorno. Toni, a gà un déo de ràfa sul còlo. Il lemma viene usato anche nel modo di dire presente pure a Isola come in tutta l’Istria: de rìfa o de ràfa = con le buone o con le cattive, in un modo o in un altro. RAFÀR, v.: (v. Grampàr) Arraffare. Portàr via. Rubare. Ràfa de qua, ràfa de là, a se gà fato el conto in banca. RAFASONÀR, v.: Raffazzonare. RÀFICA, s.f.: Raffica. RAFIÒL, s.m.: Raviolo. Dolce che niente aveva a che fare con il raviolo emiliano. Durante le feste veniva fatto in casa con della pasta frolla dolce tagliata a quadratini e riempita – come il raviolo emiliano – ma con della marmellata, quindi messo a friggere e infine spolverato di zucchero fine. RAFREDÀR, v.: Raffreddare. RAFREDÒR, s.m.: Raffreddore. RAGÀSO, s.m.: Ragazzo. RAGIÒN, s.f. (v. Raşòn. Rigiòn) Ragione. RAGIONÀR, v.: (v. Raionàr. Raşonàr. Rigionàr) Ragionare. RÀGNO, s.m.: Ragno. Ràgno pòrta vadàgno. RAGNÒLA, s.f.: Ragno di mare. Pesce marino buono, ma dalle spine velenose. RAGÒSTA, s.f.: Aragosta.

RAIÀR, v.: Ragliare. Anche il compilatore di questo elenco di parole del dialetto isolano non ricorda il termine Raiàr, anche se per tutta l’infanzia nella stalla adiacente alla casa avevamo un’asina, una mùsa, che ad ore determinate cantàva, gridava. Era il segnale che bisognava fare qualcosa: portarle del fieno, un secchio d’acqua o semplicemente, se si trovava all’aperto, portarla in stalla per la notte. Tuttavia, poiché il termine è presente nella parlata dialettale capodistriana, è probabile che a suo tempo fosse presente anche nella parlata isolana. A proposito, la nostra mùsa si chiamava Linda ed era un bel pezzo di somara. RÀIO, s.m.: Raggio. Ràio de sòl. RAIÒN, s.f.: (v. Raşon. Ragion. Rigiòn) Ragione. RAIONÀR, v.: (v. Raşonàr. Ragionàr. Rigionàr) Ragionare. RAMÀDA, s.f.: Rete di fil di ferro. Reticolato. Veniva usata, se zincata, per recintare pollai. Chissà perché il termine ramàda che farebbe pensare al rame? Forse nel passato era così. RAMÌNA, s.f.: Recipiente per il latte. Anche se, per quanto ricordo, la ramìna era fatta di zinco o di lamiera zincata, mi assicurano che all’inizio era fatta con lamiera di rame, dal ché il nome che le è rimasto. Ancora a metà degli anni Settanta del secolo scorso le donne del latte, che venivano dai monti attorno ad Isola, portavano alle famiglie in città la quantità giornaliera di questo prezioso cibo. Ricordo che anche i miei figli, almeno nei primi anni, crescevano a forti dosi di latte casereccio, con una panna - una volta bollito – tanto spessa

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che non si poteva spezzare con il dito. Certo, rispetto alle donne del latte di qualche decennio prima, il bravo mùs co le ramìne, era stato sostituito dal più agevole autobus. RÀMPA, s.f.: (v. Ràto) Salita. Erta. Barra di confine. Negli ultimi cinquant’anni del secolo scorso, il termine veniva usato soprattutto per definire le barre che ai valichi di frontiera delimitavano il passaggio dei mezzi e delle persone. Probabilmente era stato preso in prestito direttamente dallo sloveno. RAMPIGÀDA, s.f.: Arrampicata. Salita. RAMPIGÀR, v.: Arrampicare. Arrancare su per una salita. Rampigàrse sui spéci. Il verbo è probabilmente in diretta parentela con la parola ràmpa (v.). RAMPIGHÌN, s.m.: Melone. È probabile che il termine dialettale del melone derivi proprio dalla tendenza della pianta ad attaccarsi a qualsiasi sostegno e puntare verso l’alto. Per quanto ricordo, intere piantagioni di rampighìni venivano messe a dimora nella valle di Strugnano, ricca d’acqua, ma la loro coltivazione era sempre raso terra. Come del resto pure le angurie (v.). RAMPIGÒN, s.m.: Persona dal carattere difficile. RAMPÌN, s.m.: Arpione. Uncino. RAMPINÀR, v.: Arpionare. Uncinare. RAMPINÈLA, s.f.: Piccolo arpione. Ancoretta. Serve sia per agganciare l’imbarcazione alla riva durante le operazioni di imbarco o sbarco. RANÈLA, s.f.: Raganella. Crepitacolo. Battola. Strumento di legno provvisto di una ruota

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dentata sulla quale scorre un’asticella. Girando la ruota fa sbattere l’asticella sui denti e provoca un rumore secco e duraturo. Di solito i bambini la usavano durante le festività per fare baccano, al posto degli odierni petardi. La ranéla, provvista di un meccanismo ad elica che fa girare la ruota con il vento si può vedere (e sentire) negli ultimi anni ai lati di qualche bella vigna per spaventare gli uccelli quando l’uva diventa dolce. RANGÀDA, s.f.: Rialzo di terra effettuato per arginare un fosso o un solco (v. Aguér). Un rialzo simile i contadini usavano farlo anche per delimitare dei piccoli appezzamenti di terreno (v. Vanéşe) dove seminavano il radìcio (v.) o la salàta (v.) per evitare la fuoriuscita dell’acqua mentre si provvedeva all’inaffiamento. RANGIÀDA, s.f.: Aggiustamento. Accomodatura. Arrangiamento. Intesa anche nel senso di una sgridata: A scòla a gà fàto ‘l mòna e a se gà becà ‘na béla rangiàda de su’ pàre. RANGIÀR, v.: Arrangiare. Aggiustare. Correggere. Rangiàrse = arrangiarsi. A vedérlo pararìa de no, ma a se sa rangiàr anca solo. RANGIATÈLA, s.f.: Ragnatela. Nell’assorbire la terminologia presente nella lingua italiana, l’Isolano che certamente nella stragrande maggioranza non era un intellettuale, diventava alquanto approssimativo. L’importante era il suono della parola che, per quanto possibile, somigliava all’originale. Poi, a forza di ripeterlo, diventava parte della parlata comune. RANGLÒ, s.m.: (v. Ronglò) Tipo di prugna.


RANSIDÌR, v.: Irrancidire. Diventare rancido.

RASCÀDA, s.f.: Acquazzone improvviso.

RÀNSIDO, agg.: Rancido. Se te sparàgni tròpo la panséta, la te vegnarà rànsida.

RASCHÈTA, s.f.: (v. Ràsca) Berrettino con visiera.

RANSIDÙME, s.m.: Gusto di rancido. Odore e gusto di stantio.

RAS’CÌN, s.m.: (v. Raschìn) Utensile per raschiare. Raschietto.

RÀNTEGO, s.m.: Brontolio. Rantolo. RANTEGÒŞO, agg.: Brontolone. RAPESADÙRA, s.f.: Rattoppo. Rammendo. RÀPO, s.m.: (v. Ràspo o Ricéla) Grappolo. Era sempre preferito il termine di ràpo, anche perché con i ràspi venivano definiti i grappoli ormai privi di acini, soprattutto quanto erano passati attraverso la macchina raspatrice che, appunto, faceva cadere gli acini nel tino ed eliminava i ràspi. RÀSA, s.f.: Razza. Genere. Tipo. RÀŞA, s.f.: Razza. Pesce di mare. Pochi ormai i bambini che conoscono la tiritera (ma è anche un indovinello) molto frequente durante la mia infanzia: La rìşa, la ràşa – la còri par la càşa – dùti la sénti – nisùn no la védi: cosa şé? – La scoréşa. RAŞÀDA, s.f.: (v. Rascàda) Scroscio di pioggia. Acquazzone. Se védi che sémo in aprìl: te gà visto che raşàda de piova stamatìna? Il termine deriva forse dal fatto che durante gli improvvisi acquazzoni estivi, magari con forte vento di scirocco, la pioggia sembra essere obliqua quasi rasente al suolo. RAŞÀDA, s.f.: Raschiata. Rasatura. RAŞADÒR, s.m.: Rasoio. RAŞÀR, v.: Rasare. Radere. RÀSCA, s.f.: (v. Raschéta) Berretto a visiera.

RAS’CIÀR, v.: Raschiare. Grattare.

RASCHÌN, s.m.: (v. Ras’cìn) Raschietto. RÀSCO, s.m.: Raspo d’uva. Quello che rimane una volta tolti gli acini. RAŞÈNTE, agg.: Aderente. Molto vicino. RASIÒN, s.f.: Razione. RÀŞO, agg.: Colmo. Pieno fino all’orlo. RÀŞO, avv.: Aderente. Co i uşéi şvòla ràşo téra, ghe vòl dìr che pioverà. RÀŞO, s.m.: Scroscio di pioggia. Fermémose un moménto, che pàsi ‘sto ràşo de piòva. RASOMILIÀR, v.: Assomigliare. RAŞÒN, s.f. (v. Ragiòn. Rigiòn. Raiòn) Ragione. RAŞONÀR, v.: (v. Raionàr. Raşonàr. Ragionàr) Ragionare. RÀSPA, s.f.: Raspa. Anche il Graticcio di legno munìto di rete metallica che appoggiato sul cavécio (v.) serviva per separare gli acini d’uva dai raspi (v. Ràsche). RÀSPO, s.m.: (v. Ràpo. Ricéla) Grappolo. RASPOLÀR, v.: Togliere gli acini dal raspo. Un tempo l’operazione veniva eseguita con l’ausilio di una rete metallica, attraverso la quale gli acini cadevano nel tino mentre il raspo veniva eliminato. Oggi si fa uso della raspatrice, magari a trazione elettrica, che

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non soltanto divide, ma anche frantuma l’acino. Secondo alcuni, il termine raspolàr stava ad indicare anche l’ultimo controllo, a vendemmia finita, dei filari per vedere se vi era rimasto qualche grappolo. RASTÈL, s.m.: Rastrello. RASTELÀR, v.: Rastrellare. RASTÙRA, s.f.: Pinna di mare. Mollusco. RÀTA, s.f.: Rata. Razione. Figurativamente il termine viene usato anche per indicare una bastonatura a qualcuno. A se gà becà ‘na béla ràta = è stato bastonato a dovere. RÀTO, s.m.: Strada in salita. Erta. El ràto de Saléto (v.). El ràto del podestà (v.). RÀTO DEL PODESTÀ, top.: Salita che da Strugnano portava a Isola. Naturalmente riguarda la vecchia strada che dalla valle di Strugnano attraverso una serie di curve attraversa Marzanè per raggiungere la chiesetta di Loreto. Non siamo riusciti a scoprire l’origine del riferimento al podestà, anche se ormai il toponimo è completamente scomparso dall’uso e anche dalla memoria degli Isolani. RÀVA, s.f.: Rapa. Barbabietola. In senso figurativo anche per indicare persona dura a comprendere, uno zuccone. A şé propio ‘na testa de ràva. RAVANÈL, s.m.: Ravanello. REBALTÀR, v.: (v. Ribaltàr) Ribaltare. Abbattere. Rovesciare. REBALTÒN, s.m.: (v. Ribaltòn. Revoltòn) Caduta. Capitombolo. Sovvertimento. REBATÌN, s.m.: (v. Ribatìn) Ribattino.

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REBECÀR, v.: Rimbeccare. Ribattere. REBECHÌN, s.m.: Spuntino. Merendina. Pasto improvvisato. Oggi si direbbe un piccolo rinfresco. REBÒTA, s.f.: Assestamento di una strada di campagna. Ricordo ancora che negli anni Cinquanta del secolo scorso, una o due volte all’anno gli abitanti di alcuni abitati di campagna, oppure coloro che in quella zona avevano i propri campi, erano chiamati a dedicare una giornata alla riparazione dei tratti più dissestati della strada. Il lavoro veniva suddiviso in modo che alcuni, seduti per terra, provvedevano a battere e frantumare con il martello delle pietre formando così della giarìna (v.), che altri sparpagliavano coprendo le buche più accentuate. Il termine deriva dalla radice slava di rabota che vuol dire lavoro. Quindi una specie di lavoro volontario obbligatorio per il bene della collettività. REBÒTO, s.m.: Rinforzo della scarpa. RÈCIA, s.f.: Orecchio. No sénto de quéla récia. Parlàr in récia no vàl una técia. Te gà le réce de mùs. A şé dùro de récia. RÈCIA DE SAN PIÈRO, s.f.: Mollusco di mare. Commestibile. Il termine, però, non ha niente a che fare con la chiesetta o gli scogli di San Pietro. RECÌN, s.m.: (v. Orecìn) Orecchino. Fino a poco tempo fa, ed in prevalenza ancora oggi, tipico ornamento femminile da portare attaccato ai lobi delle orecchie. Negli ultimi tempi, però, sono sempre più frequenti anche gli uomini che usano adornarne uno degli orecchi. Si dice, però, che


non si tratti di una moda maschile originale degli ultimi anni, poiché – come racconta A. Vascotto “al principio del secolo scorso, ma anche prima, ovviamente, alcuni uomini anziani, in genere pùti véci, cioè celibi, usavano portare un orecchino, non so se per civetteria o per ostentata distinzione – e ci si rivolgeva loro anteponendo al nome: Barba, Barba Toni, Barba Nane, Bara Chéco. Tenendo conto che agli anziani gli orecchi si allungano e afflosciano, il peso dell’orecchino rendeva talora impressionante l’ampiezza e lunghezza del lobo portante”. RÈDE, s.f.: Rete. REDÌNA, s.f.: Retina. Reticella. RÈDINI, s.f.pl.: Redini. È noto che ancora fino agli anni ’50 del secolo scorso a Isola c’erano più asini che cavalli e, comunque, anche più cavalli che automobili. Di conseguenza, tra gli artigiani non mancavano quelli che fabbricavano le rédini, i bàsti, ed i comàti che erano parte obbligatoria di ogni corredo per i quadrupedi da traino. RÈDO, s.m.: Pendenza. Inclinazione. REFÀ, s.m.: Rifatto. Recuperato. Ristabilito. Riscattato. In senso figurativo persona che si è fatta dal nulla, oppure il benestante dell’ultimo momento. Stà ‘ténto de lù, che a şé un pedòcio refà. REFÀDO, agg.: Rifatto. Raddrizzato. REFÀR, v.: Rifare. Ricostruire. Aggiustare. Rimediare. REFÀRSE, v.: Rifarsi (riflessivo). Rifarsi una posizione. Rimettersi in sesto, finanziariamente oppure dopo una malattia. Un réfa l’àltro

= Si perde da una parte, ma si guadagna dall’altra. REFOLÀDA, s.f.: Raffica di vento. Ventata. RÈFOLO, s.m.: Raffica di vento. Folata improvvisa di vento. Co iéra bòra, ‘ndàr su par Saléto, se sentiva qualche réfolo, che a te şbùrtàva indrìo. REFÒSCO, s.m.: Uva nera da vino. Vino rosso. Vitigno caratteristico delle campagne isolane, dal quale si produce un vino rosso di ottima qualità. Conosciuto già nei secoli scorsi, il Refòsco è diventato, assieme al vino bianco Malvasia,il vino isolano per eccellenza, a tal punto che lo stesso poeta Pasquale Besenghi degli Ughi non disdegnò dedicargli alcuni versi. Lo stesso Giacomo Casanova, imprigionato ai Piombi veneziani assieme ad un isolano, non smise mai di decantare le qualità miracolose di questo vino anche nelle arti amatorie. REGADÌN, s.m.: (v. Rigadìn) Tessuto a righe. RÈGIO, agg.: Reale. Regio. Dopo la Prima guerra mondiale, con l’avvento dell’Italia, anche a Isola incominciò a diventare frequente il termine Regio: vuoi per definire l’esercito, i carabinieri, la capitaneria del porto, l’amministrazione publica, e – addirittura – le strade. Così venivano chiamate le strade che collegavano le città e che erano meglio accudite, se non addirittura asfaltate. Così era chiamata anche la strada che collegava (e in parte collega ancora) Capodistria, Isola e Pirano. REGIPÈTO, s.m.: Reggiseno. REGNÌCOLO, s.m.: Regnicolo. Con questo appellativo venivano

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definiti gli Italiani appartenenti al Regno d’Italia fino al 1918, cioè quando l’Istria e Isola facevano parte dell’impero Austro Ungarico. RÈGOLA, s.f.: Regola. A gà dùte le càrte in régola. REGOLADÒR, s.m.: Regolatore. Orologio a pendolo murale. Così chiamato perché le ore venivano aggiustate spostando a mano le lancette. RELEVÀR, v.: Rilevare. Ma anche Allevare. Educare. Nisùn varìa podù rilevàr i fiòi méio de éla, sìnque, ma ognidùn co’l so mestiér. REMADÒR, s.m.: Rematore. Vogatore. REMÀR, v.: Remare. Vogare. REMENÀDA, s.f.: Presa in giro. REMENÀR, v.: (v. Sfòter) Prendere in giro. Anca i remenài màgna pàn. REMENÀRSE, v.: Oziare. Bighellonare. Perder tempo. Trascinarsi. Fin che te se reméni cusì, ghe vòl dir che no te gà voia de far del ben. Lasilo pérder, che a no fa altro che remenàrse duto ‘l giorno. REMENÈLA, s.m.: Persona cui piace prendere in giro gli altri. Burlone. REMÈNGO, s.m.: Ramingo. Vagabondo. In malora. A Isola, ma anche in altre località istriane, usato come imprecazione o come malaugurio. Ma và a reméngo! A şé ‘ndà a reméngo per dire che è andato a finir male. REMISIÒN, s.f.: Indulgenza. Perdono. Chi ricorda i versi di quella vecchia canzone popolare che una volta si cantava nelle osterie e durante le feste: Chi no gà bòri, no gà remisiòn! Nel senso che chi è povero non ha scuse.

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RÈNDER, v.: Rendere. Restituire. Arrendere. RENEGÀR, v.: Rinnegare. Tradire. RÈNGA, s.f.: Aringa. RÈNGO, s.m.: Baccano. Confusione. Secondo alcuni sembra derivare direttamente da aréngo, voce medievale con la quale si definiva riunione o assemblea di popolo in piazza. RENSÌNI, s.m.pl: (v. Insìni. Resìni. Rinsìni) Attrezzo di legno a doppia V che si metteva sul dorso dell’asino sopra il basto (v.) per il trasporto di pali, canne e altri oggetti lunghi. Deriva da recìni (v.), poiché pendevano dal basto come degli orecchini. RÈNTE, avv.: (v. Arénte) Vicino. Accanto. Appresso. Aderente. Rasente. RÈO, s.m.: Rete. Il termine veniva usato dai pescatori soltanto per le reti di mare. Che poi erano diverse in base al tipo di pesca: milàida o melàida (v.) per le sardelle, la pasaléra (v.) per le passere e le sogliole, gli angonéri, sempre per sardelle. Poi c’erano le reti da strascico: il grìpo (v.), la tartàna (v.), la còcia (v.), la musoléra (v.), particolarmente adatta per i mùsoli (v.), la tràta (v.), ciascuna di queste con la sua funzione, anche se la più importante, quella che portò ad una vera e propria rivoluzione nel sistema della pesca, era la sacaléva (v.). REPARÀR, v.: Riparare. REPESÀR, v.: Rattoppare. Rappezzare. Rammendare. A gà le bràghe dùte repesàde. REPÈSO, s.f.: Rammendo. Rattoppo. REŞENTÀDA, s.f.: Risciacquata. Risciacquatura. In senso


figurativo inteso anche come lavata di capo. Toni a gà bevù do gòti de tròpo e, co a şé rivà a càşa, a se gà becà ‘na bela reşentàda. REŞENTÀR, v.: Risciacquare. RESÌNI, s.m.pl: (v. Insìni. Rensìni. Rinsìni) Attrezzo di legno a doppia V che si metteva sul dorso dell’asino sopra il basto (v.) per il trasporto di pali, canne e altri oggetti lunghi. Deriva da recìni (v.), poiché pendevano dal basto come degli orecchini. REŞÌSTER, v.: Resistere. RENSÌNI, s.m.pl: (v. Insìni. Resìni. Rinsìni) Attrezzo di legno a doppia V che si metteva sul dorso dell’asino sopra il basto (v.) per il trasporto di pali, canne e altri oggetti lunghi. Deriva da recìni (v.), poiché pendevano dal basto come degli orecchini. RÈSTA, s.f.: Sfilza. Intreccio. Quando quasi tutte le famiglie isolane accudivano ad un pezzo di terra e ciascuno produceva per le proprie necessità quasi tutti gli ortaggi necessari, era uso salvare l’aglio, le cipolle, ed altri ortaggi, ma anche frutta secca (fichi, albicocche, peperoni), intrecciando i gambi ormai secchi e formando delle sfilze che veniva appena ad asciugare per i mesi a venire. RÈSTA, s.f.: La corda da traino delle reti a strascico. RÈTA, s.f.: Retta. Attenzione. Bada. Ascolto. No dàrghe réta, şé ròbe de ciòdi. REVOLTÀR, v.: (v. Rivoltàr) Ribaltare. Rivoltare. Vuotare. Şé ora de revoltàr la polénta sùl taiér (v.) racconta A. Vascotto. REVOLTÒN, s.m.: (v. Ribaltòn) Ribaltone. Sconvolgimento.

RIBALTÀR, v.: (v. Rebaltàr) Ribaltare. Rovesciare. RIBALTÒN, s.m.: (v. Revoltòn. Rebaltòn) Ribaltone. Sconvolgimento. Sommossa. Rovesciamento. RIBATÌN, s.m.: (v. Rebatìn) Ribattino. Chiodo a testa piana usato per la giunzione di elementi metallici. Evidentemente, deriva di ribattere. RIBÒLA, s.f.: Vino leggero. Solitamente un vino rosso, dolciastro e un po’ frizzante ottenuto annacquando le vinacce già usate e facendole fermentare ancora una volta. Veniva prodotto per uso domestico dai contadini che se se ne portavano dietro una bottiglia quando erano costretti a stare tutto il giorno in campagna. Nella storia più antica di Isola, però, il Ribolla era un vino di qualità che, assieme al vino bianco ottenuto dalla Malvasia (v.), era largamente conosciuto in tutta la regione. Lo testimoniano antichi documenti sulla bontà dei prodotti agricoli di Isola. Solo negli ultimi due secoli il Ribolla venne completamente sostituito dal vitigno del Refosco (v.). Lo stesso sistema usato per l’ottenimento della ribòla nera veniva usato anche per l’uva bianca, e si chiamava bevànda (v.). RIBOMBÀR, v.: Rimbombare. RIBÒN, s.m.: Pagello. Pesce marino di ottima carne bianca. RICAMÀR, v.: Ricamare. RICÈLA, s.f.: (v. Gràpo. Ràspo) Grappolo d’uva. RICÈLA, s.f.: Asola. Occhiello. RICIÀMO, s.m.: Richiamo. Il termine veniva usato in particolare per definire gli uccelli che venivano scelti per l’uccellagione

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e chiusi in gabbia per attirare con il loro canto gli altri uccelli. RICONÒSER, v.: Riconoscere. RICORDÀR, v.: Ricordare. RICORDO, s.m.: Ricordo. RIDÀDA, s.f.: Risata. Quando ghe gò contà la mia storia, iéro sicùro che a se varìa méso a piànser, invése quel fiolduncàn (v.) a se gà fàto ‘na ridàda de gusto. RIDARIÒLA, s.f.: Risatina. Impulso a ridere. Quéi do i se gavéva becà la ridariòla e i non rivàva a fermàrse. RÌDER, v.: Ridere. Co te vàdi in ciéşa àra de no fàrte rìder drìo. Rìder fa bòn sangue. Và ‘vànti tì, che a mì me vién de rìder. Şé de s’ciopàr de rìder.

RIGÒLA, s.f.: Barra. Leva del timone. RIGUÀRDO, s.m.: Riguardo. Rispetto. Lo vardàvimo con ‘sài riguàrdo. RIMANDÈL, s.m.: Grimaldello. Evidentemente il termine è stato preso direttamente dalla lingua italiana e poi storpiato a proprio uso e consumo. Probabilmente anche perché una vera e propria terminologia criminale a Isola, praticamente, non esisteva. D’altronde, anche i furti si limitavano a poche e povere cose, che non avevano bisogno di – per quel tempo – arnesi complicati come un rimandél. RIMBAMBÌ, agg.: (anche Rimbambinì) Rimbambito.

RIDUSÀR, v.: Ridacchiare. Ridere sottovoce.

RIMBOMBÀR, v.: Risuonare.

RIDÙŞER, v.: Ridurre. Diminuire. Restringere.

RIMÈSO, s.m.: Intarsio. Compensato. Da rimescolare o mescolare, in questo caso, del legno.

RÌFA, s.f.: Vendita sottobanco. Contrabbando. Gioco clandestino. Oramài, se te vòl gavér vin a bon marcà, te devi contentàrte de vìn de rìfa. RIFILÀR, v.: Rifinire. Assottigliare. Togliere ad un oggetto i margini. Solo ultimamente, durante la seconda metà del secolo scorso, sotto l’influenza dell’italiano, il termine acquisì anche il significato di “affibbiare qualcosa a qualcuno”. RIGADÌN, s.m.: (v. Regadìn) Tessuto a righe. RIGETÀR, v.: Rimettere. Rigettare. Vomitare. A stàva cusì màl, ch’a gà rigetà anca l’ànema. RIGIÒN, s.f.: (v. Raşòn. Ragion) Ragione. RIGIONÀR, v.: (v. Raionàr. Raşonàr. Ragionàr) Ragionare.

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RIMBÒMBO, s.m.: Risonanza.

RIMÈTER, v.: Rimettere. Rigettare. Vomitare. RIMÒNICA, s.f.: Armonica. RIMONTA, s.f.: Tomaia della scarpa. RIMONTÀR, v.: Rifare la tomaia della scarpa. RIMPIÀNŞER, v.: Rimpiangere. RIMURCIADÒR, s.m.: Rimorchiatore. RIMURCIÀR, v.: Rimorchiare. RIMÙRCIO, s.m.: Rimorchio. RINÀSER, v.: Rinascere. RINCRÈSER, v.: Rincrescere. Dispiacere. RINFORSÀR, v.: Rinforzare. RINFÒRSO, s.m.: Rinforzo. Aiuto.


RINFRESCÀR, v.: Rinfrescare. RINSÌNI, s.m.pl: (v. Insìni. Resìni. Rensìni) Attrezzo di legno a doppia V che si metteva sul dorso dell’asino sopra il basto (v.). RÌNSINO, s.m.: Ricino. RINUNSIÀR, v.: Rinunciare. RISÀR, v.: Rizzare. Elevare. Alzare. Arricciare. RISCÀLDO, s.m.: Infiammazione. Irritazione di una parte del corpo. RIS’CIÀR, v.: Rischiare. Azzardare. RIS’CIARÀR, v.: Rischiarare. Èl témpo se gà ris’ciarà. RÌS’CIO, s.m.: Rischio. Repentaglio. Şé sòlo rìs’cio mìo. RIS’CIÒŞO, agg.: Rischioso. Avventato. RISÈVER, v.: Ricevere. Accogliere. Prendere. RIŞIGÀR, v.: Risicare. Rischiare. Chi no rìşiga, no ròsega. RÌSINO, s.m.: Ricino. RÌŞO, s.m.: Riso. Rìşi e bìşi. RIŞÒLIO, s.m.: Rosolio. Liquore abbastanza diffuso nelle famiglie isolane prima della guerra e si usava in cucina (Şavaiòn col rosolio), ed era il preferito dalle signore per il suo basso tenore alcolico, nettamente in contrasto con la tràpa (v.), da sempre dominio degli uomini. RIŞÒNŞER, v.: Aggiungere. Diluire. El mùlo in sti ultimi méşi a se gà şlongà ‘sài e le bràghe le ghe şé cùrte, ghé volarà rìşonşerghe almeno una spàna. RÌSPIO, s.m.: Odore di muffa, di rancido. RISPÒNDER, v.: Rispondere. RITÀIO, s.m.: Ritaglio. Scampolo.

Ritaglio di stoffa. Con lo stesso nome venivano definiti anche i ritagli del formaggio, del salame o del prosciutto, che poi, in bottega venivano venduti a prezzi popolari. RÌVA, s.f.: Riva del mare. Ma anche Salita. Rìva in su, Rìva in şò. Varìa volù véderte far la rìva de Salèto fin a Capitél in bìci. RÌVA DE PÒRTA, top.: La riva di Isola. Oggi chiamata Rìva del Sole. Di fatto, ancora fino agli inizi del secolo scorso, non esisteva un lungomare vero e proprio. In effetti il mare riusciva quasi a lambire gli edifici oppure, prima, il muro di cinta che da questa parte circondava il centro urbano. L’attuale riva è stata progettata agli inizi del secolo scorso per far fronte alle esigenze del traffico merci e di persone in continuo aumento tra le industrie conserviere ed il porto. RIVÀR, v.: Arrivare. Giungere. Riuscire. Raggiungere. Venire. Sté ‘ténti quando che rìva el batél. Se vé alsé in punta de pìe, forsi ghe rivé anca voi. Chi rìva prima non va vìa sensa, chi rìva ultimo a và drìto in credénsa. RIVÀSO, top.: Dirupo calcareo, scoscendimento. Con questo nome venivano indicati i dirupi e gli scoscendimenti, ma soprattutto i macigni marnacei, che tra Cané (v.) e Rònco (v.) da lontano sembrano assumere un colore quasi bianco, splendente, soprattutto quando si trovano in battuta del sole. Fra gli Isolani erano comune la denominazione di Monti Bianchi (v.). Oggi, anche se limitatamente al primo avvallamento di Cané dopo la spiaggia di San Simone, viene chiamato in sloveno Bele Skale, che significa Bianca Scoliera,

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oppure Scogli Bianchi. Diciamo che è stato preso in prestito traducendolo, ma senza usare anche l’originale, come invece sarebbe giusto. RIVÈRSA, agg.: Opposto. Rovescia. Me và dùto la rivérsa.

ROLÀR, v.: Rollare. Barcollare. ROLÈ, s.m.: Saracinesca. Tapparella. Deriva dal fatto che alcune saracinesce si arrotolano. ROLÒGIO, s.m.: Orologio. ROMATÌŞMO, s.m.: Reumatismo.

RIVÈRSO, agg.: Rovescio. Rivoltato. Opposto.

RÒMBO, s.m.: Rombo. Pesce di mare, molto buono.

RIVOLTÀR, v.: Rivoltare. Co te pàrli cusì, te me fa rivoltàr el stòmigo.

RÒMPER, v.: (v. Rònper) Rompere. No stà ròmper le bàle.

RIVOLTÈLA, s.f.: Rivoltella. Revolver. Pistola. RÒBA, s.f.: Roba. Cosa. Materiale. Stoffa. Ròba de no créder. ROBAGALÌNE, s.m.: Ladruncolo. ROBÀR, v.: (v. Rubàr) Rubare. ROBÀSA, s.f.: Robaccia. ROCHÈL, s.m.: Rocchetto di filo da cucire. RÒDA, s.f.: Ruota. Te sòn l’ùltima ròda del càro. RODÈLA, s.f.: Ruotino. Rotella. Piccola ruota. A quel là ghe mànca sicuro ‘na rodéla in sùca. RODELÀR, v.: Parlare a getto continuo e sconnesso. RODOLÀR, v.: Rotolare. Ruotare. Cadere. RÒDOLO, s.m.: Rotolo. RODOLÒN, s.m.: Ruota di legno. RÒGNA, s.f.: Scabbia. Rogna. In senso figurativo anche grattacapo, difficoltà, problema. Con dùto quel che te me combìni, te me sòn diventà pròpio ‘na rògna. ROGNÒN, s.m.: Rene. Rognone (quello del maiale). ROGNOSO, agg.: Rognoso. Malato di scabbia. Il termine viene usato anche per indicare persona noiosa e scostante. RÒIA, s.f.: Roggia. Torrente.

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RONCADÈLA, s.f.: (v. Ronconéla) Roncola. Grossa falce usata per potare gli alberi oppure per fare la punta alle canne. RONCHIŞÀR, v.: Russare nel sonno. RÒNCO, loc.: Toponimo isolano. La collina che divide Isola da Strugnano e s’innalza sul mare fino alla Chiesetta della Madona Granda (v.). RONCOLA, s.f.: Grossa falce. RONCONÈLA, s.f.: (v. Roncadéla) Roncola. Grossa falce. RÒNDOLA, s.f.: Rondine. RONGLÒ, s.m.: (v. Ranglò) Tipo di prugna. RÒNPER, v.: (v. Ròmper) Rompere. ROŞÀDA, s.f.: (v. Ruşàda) Rugiada. ROŞEGÀDA, s.f.: Rosicatura. Morsicatura. ROŞEGÀR, v.: Rodere. Mordere. Rosicchiare. Rosicare. ROŞEGHÌN, s.m.: Assaggino. Stò parsùto a devi eser pròpio bòn, àrda che colòr ch’ el gà. No te farìa provàrme un roşeghìn? ROŞEGÒN, s.m.: Morso. ROŞÈR, s.m.: Roseto. Rosaio. ROSÌSA, s.f.: Manico. Con questo nome venivano chiamati i quattro sostegni del carro che, infilati


nel pianale, avevano il compito di sostenere le bandine, ovvero le fiancate di legno del carro. Evidentemente il termine è stato preso in prestito dallo sloveno Ročica, che vuol dire, appunto, manico. ROŞMARÌN, s.m.: Rosmarino. RÒSO, agg.: Rosso. Ròso malpél – sénto diavoli pàr cavél. RÒSO, s.m.: Cerchio fatto di vimini o tortiglioni (v. Vilisòn. Tortisòn), che veniva usato per prendere, sollevare o sostenere le brente (v.). Erano particolarmente utili quando le brente venivano appoggiate ai due lati del basto sull’asino. Il ròso impediva alla corda di slittare e far cadere le brente. RÒSPO, s.m.: Rospo. Anfibio simile ad una grossa rana. Anche gustoso pesce di mare, apprezzato soprattutto per la sua coda (còda de ròspo). ROSTÌDO, agg.: Arrostito. ROSTÌR, v.: Arrostire. RÒSTO, s.m.: Arrosto. ROTONDÀR, v.: Arrotondare. ROVÀN, agg.: Bastardo. Che derivi dall’italiano “roano”, nel senso di colore non puro, mescolato da colori diversi, per cui, appunto, bastardo. RÒVERO, s.m.: (v. Ròvo) Rovere. Quercia ROVINÀR, v.: Rovinare. Guastare. RÒVO, s.m.: (v. Ròvero) Rovere. Quercia.

al radìcio (v.), oppure per assaggiarla cruda assieme alle braciole di carne. Quest’ultima, però, è un’usanza venuta negli ultimi decenni dalla cucina più tipicamente italiana, assieme a quella di usare sempre più spesso la rucola acquistata, quindi più dolce, rispetto a quella salvàdiga (v.) che si raccoglieva e si raccoglie ancora nei campi. RUBÀR, v.: (v. Robàr) Rubare. In càşa de làdri no se rùba. RUBARÌA, s.f.: Ruberia. RÙDA, s.f.: Ruta. La piantina medicinale che ogni contadino coltivava vicino a casa ed i cui ramoscelli verdi venivano immersi nella grappa, dandole un particolare colore verde chiaro e, si dice, presa come digestivo favorirebbe la digestione: tràpa co la rùda. RÙDA, top.: Toponimo isolano. Prese il nome dall’azienda che nel dopoguerra sostituì l’antica Fàbrica de Còto e deriva direttamente dal termine sloveno “Ruda”, che significa “minerale”, visto che anche negli anni immediatamente successivi all’esodo si continuava a fabbricare mattoni. RUDINÀSO, s.m.: Calcinaccio. Intonaco caduto. RUFIÀN, s.m.: Ruffiano. RÙGA, s.f.: Ruga. Bruco. RÙGNÀDA, s.m.: Grugnito. Ringhio. Brontolio. Mugugno.

RUCÀR, v.: Spingere.

RUGNÀR, v.: Mugugnare. Grugnire. Ringhiare. Brontolare. No te va mai bén una, te gà sempre de rugnàr.

RÙCOLA, s.f.: Rucola. Ruchetta. Chi non la conosce dalle nostre parti? Per mescolarla assieme

RÙLO, s.m.: Rullo. Certamente il rullo per passare sopra l’asfalto ancora caldo: un tempo, qualche

RUC, s.m.: Spinta. Colpo. Dal tedesco “Ruck” = scossa?

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decina di anni fa, rappresentavano un vero e proprio spettacolo per i bambini che osservavano quella strana macchina che andava avanti a forza di palate di carbone. Il rùlo però era anche quello piccolo degli imbianchini e che venivano usati per stampare vari disegni colorati sulle pareti della cucina e delle camere. RUMEGÀR, v.: Ruminare. RÙSAC, s.m.: Zaino. Dal tedesco “Rucksack”. RUSÀDA, s.f.: Graffio. RUŞÀDA, s.f.: (v. Roşàda) Rugiada. RUSÀR, v.: Strusciare con forza. Strofinare. Sfregare. RUŞINÌR, v.: Arrugginire. RÙŞINO, s.m.: Ruggine. RÙŞINO, agg.: Arrugginito RÙSO, agg.: Russo. RUSOLÀR, v.: Ruzzolare. Cadere. RUSÒN, s.m.: Graffio. Escoriazione. Abrasione. RÙSPIDO, agg.: Ruvido. Aspro. RÙSTEGO, agg.: Rustico. Rozzo. Brusco. Di modi contadineschi. RUTÀR, v.: Ruttare. RÙTO, s.m.: Rutto.

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Ss

S, diciassettesima lettera dell’alfabeto italiano. Come nell’Italiano, la “S“ ha il suono aspro e quello dolce. In questo Vocabolario la S sonora o dolce viene graficamente indicata con il segno “Ş” (la lettera Ş con una piccola virgola, o segno, sotto, come si vede nei migliori Dizionari italiani per descrivere pronuncia e dizione di una parola). La lettera S viene sempre usata per indicare il suono della S aspra o sorda. Da notare, ancora, che il dialetto isolano non conoscendo la lettera Z, nè nel suono dolce, nè in quello sordo, viene sostituita dalla lettera S in una delle due varianti ŞÀ, avv.: Già. Ormai. Certamente. SÀBIA, s.f.: Sabbia. SABIÒN, s.m.: Sabbione. Sabbia. Rena. SABIONÈL, s.m.: Duna sabbiosa. Le piccole dune che si formano sulla spiaggia quando, durante la bassa marea, l’acqua si ritira. SÀBO, s.m.: Sabato. SACAGNÀ, agg.: Malconcio. Strapazzato. Ste scarpe le şé pròpio sacagnàde. SACAGNÀR, v.: Strapazzare. Malmenare. Rendere malconcio. ŞACÀI, s.m.: Lingua slava. Il termine preso di peso dallo sloveno zakaj = perché, veniva usato per indicare una persona che si esprimeva in sloveno, ma senza toni e intenzioni offensive, da parte di una popolazione che non ha mai avuto dimestichezza con la conoscenza delle lingue vicine. Parlàr pàr şacài.

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SACALÈVA, s.f.: Saccaleva. Grande rete per la pesca delle sardelle con le lampare. La rete è a forma d’imbuto che, trainata da pescherecci di dimensioni più grandi, riuscivano ad imbrigliare grosse quantità di pesce. Per i pescatori isolani la saccaleva ha rappresentato una vera e propria rivoluzione. La pesca avveniva di solito di notte, affiancati da imbarcazioni più piccole, i caìci (v.), le quali erano provviste di fortissime lampade, le lampàre (v.), per attirare le sardelle. Quando il numero dei pesci diventava notevole, venivano calate le reti. L’introduzione della Sacalèva a Isola venne importata dai pescatori Giacomo e Angelo Troian - conosciuti col soprannome di Segadìsi (v.) coadiuvati da un aiuto economico del Ministero italiano della Marina. Un evento che suscitò non poche reazioni da parte degli altri pescatori, visto che il nuovo sistema consentiva catture di pesce azzurro molto più consistenti. Come racconta Albino Troian, nel suo libro Il mio mare: “si trattò di un’autentica sollevazione: i pescatori si rivolsero anche alle autorità senza tuttavia ottenere nulla. Fecero entrar in campo addirittura le confraternite religiose, le quali acconsentirono ad estromettere i fratelli Troian dalla processione con barche, che accompagnavano la statuta della Madonna di Isola al Santuario di Strugnano. Vi furono insulti, minacce e, addirittura, si dedicò loro una canzonetta dal titolo “I rovinamondo”: Anche Segadissi, / con Nicoletto Spanghe, / i se gà trovà puşài / sulle stanghe e ciacolando / la sacaleva i la vòl far / questi rovinamondo, / i no se rendi conto / che de sardele e


de sardoni / la distrusion i la vòl far. / Alla sacaleva, con i farai a carburo / con batel e batelini, quatro parte i ghe vòl dàr. / Questi rovinamondo i no se rendi conto, che dùti i pescadori / in miseria i farà ‘ndàr! SACHETÀR, v.: Agitare. Scuotere. Sbattere. Deriva da Sàco (v.) = Sacco per indicare i colpi di assestamento per ottenere tutto lo spazio disponibile. La stessa voce, però, veniva usata anche per indicare lo sbattimento che si provocava sull’acqua di un secchio trasportandolo a mano. Le donne isolane, quando erano costrette a fornirsi d’acqua a Fontana Fora (v.) trasportandola in bilico sulla testa nelle mastéle (v.), per evitare che parte dell’acqua andasse perduta durante il tragitto, usavano metterci dentro un galleggiante di legno affinché tenesse più fermo il liquido. Anche i campagnòi (v.), quando dovevano trasportare delle brente piene d’acqua a dorso del mùs (v.) usavano mettere nelle brente (v.) dei rami frondosi. SACHÈTO, s.m.: Giacca. Giacchetta. SACHÈTO, s.m.: (v. Bàlego) Piccolo sacco. Sacchetto. SÀCO, s.m.: Sacco. De ‘sti tempi bişògna éser svéi, no tignìr la tésta in tel sàco. Sàco şvòdo no sta in pìe. Sù de Sàco veniva definito il cinema Alieto d’anteguerra, gestito da Vascotto, nella sala dell’attuale teatro della Casa di cultura. Lo stesso edificio che ospitava, sempre prima della guerra, anche il Caffè alla Stazione. SÀCOLA, s.f.: Asola. Occhiello. Forse dall’italiano sagola? SACRAMENTÀR, v.: Bestemmiare. A stà sacramentando come un tùrco.

SACRAMÒN, inter.: Esclamazione bonaria. Eufemismo che potrebbe rifarsi alla parola Sacramento, ma anche al concetto di Sacro Nome. SACRESTÀN, s.m.: (v. Nònsolo) Sagrestano. SACRESTÌA, s.f.: Sagrestia. SACÙSO, s.m.: Sacchetto. Anche pesce di mare non molto pregiato. SAÈTA, s.f.: Saetta. Fulmine. SAFÈR, s.m.: Autista. Dal francese Chauffeur. SAGIÀR, v.: Assaggiare. Provare. SÀGOLA, s.f.: Cordicella. SÀGOMA, s.f.: Figura. Forma. Il termine è usato anche per indicare una persona strana o diversa. A şè pròpio una sàgoma. SAGOMÀR, v.: Dare forma. Sagomare. Prendere le misure. Secondo il Dizionario di A. Vascotto, era un termine usato dai bottai quando dovevano prendere le misure delle botti per sagomare le doghe (v. Diòga). SÀGRA, s.f.: Sagra. Festa Paesana. Le sagre hanno luogo di solito in occasione di festività religiose e vengono organizzate soprattutto nei villaggi. La sàgra de Malìo chiamata anche la sàgra de l’otàva. SÀI, s.m.: Molto. Assai. L’amòr pòl sài, l’òro pòl dùto. ŞÀIA, s.f.: Grande recipiente di vimini intrecciati. Veniva usato per il trasporto di vari materiali con il carro. Per la sua grande mole, veniva usato figurativamente anche per indicare una grande quantità: una şàia de ròba. SÀIBA, s.f.: Rondella. Dal tedesco Scheibe. SÀINA, s.f.: Cesta di vimini. Gli Isolani non le comperavano mai,

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in quanto le facevano a casa durante i mesi invernali. SÀL, s.f.: Sale. Gavér sàl in sùca. Butàr sàl in màr. SÀLA, s.f.: Sala. Nonostante la differenza di disponibilità materiali nel tempo, Isola nel passato aveva a disposizione quasi più locali, nei quali organizzare manifestazioni pubbliche, di quanti ne possa contare oggi. Andando a ritroso negli anni del primo cinquantennio del secolo scorso bisogna accennare la Sala Marchetti, che poi, proprio per l’ampio spazio a disposizione, è stata trasformata in Consorzio Agrario (v. Consòrsio). La più importante era comunque la Sala Verdi, dove aveva sede il teatro, il cinema Odeon, i balli e le serate di gala: venne distrutta da un incendio e poi ricostruita. Nel dopoguerra, oltre che fungere per un periodo da cinematografo, fu successivamente adibita a palestra. La sala della Casa del Popolo (v.), poi Casa del Fascio, poi nuovamente Casa del Popolo e, attualmente, ospita la sala del Consiglio Comunale. Da non dimenticare il grande salone del parco Arrigoni (v.) che prima della guerra ospitò l’omonimo dopolavoro (v.), successivamente venne adibito a cinematografo (anche per la vicinanza del cinema estivo, situato subito dietro l’edificio), ma anche a salone delle feste, delle grandi riunioni di popolo e, infine, anche palestra. Tra le sale in cui si svolgevano occasionalmente delle manifestazioni, ancora il salone, sia pianterreno che al piano nobile, di Palazzo Besenghi (v. Palàso Besénghi), e – più indietro nel tempo - anche il salone al pianoterra del vecchio edificio

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principale dove aveva sede l’Asilo Infantile, molto adatto per recite dilettantistiche. SALÀ, agg.: Salato. SALADÌSO, agg.: Che sa di sale. Leggermente salato. SALAMÀRO, s.m.: Sale amaro. Chiamato anche “Sale Inglese”, altrimenti conosciuto in chimica come “Solfato d’idrato di Magnesia”. Un tempo se ne faceva uso come purgante. SALAMÒRA, s.f.: Salamoia. (Soluzione di acqua e sale). Un buon sistema per verificare il punto giusto di salatura dell’acqua, era costituito dall’immersione nel liquido di una patata cruda. Se andava a fondo, bisognava aggiungere sale fino a che non galleggiava. Se invece galleggiava era necessario sciogliere altro sale, fino alla sua immersione completa. Veniva usata almeno due volte all’anno: per conservare le olive (soprattutto quelle storte (v.) e per mettere sotto sale i sardòni (v. sardòni salài). Per i sardòni salài, però la salamòra serve soltanto per tenere umidi i pesci già stivati sotto sale, altrimenti si possono asciugare, perdere la morbidezza e diventare rancidi. SALÀR, v.: Salare. SALÀTA, s.f: Insalata. Lattuga. Tutte le insalate, crude e cotte, condite con olio, aceto e sale. Par séna un tòco de formàio e do fòie de salàta. Patàte in salàta. Faşòi in salàta, Carne in salàta.. Poi c’erano i vari tipi di insalata verde, che – come frequenza – venivano dopo i vari tipi di radicchio (v. Radìcio). Salàta indivia. Salàta romàna. Salàta rìsa. Il termine veniva spesso usato anche per esprimere figurativamente una romanzina o una lavata di testa: gà


becà una de quele salàte, che se la ricordarà par sempre. SALATIÈRA, s.f.: Insalatiera. SALDADÒR, s.m.: (v. Stagnìn) Saldatore. Sia l’attrezzo per saldare, sia l’operaio incaricato di saldare i metalli. Era un mestiere abbastanza ben considerato all’interno delle industrie conserviere isolane, soprattutto per le saldature in rame e stagno e per l’inscatolamento delle sardine. SALDÀR, v.: Saldare. SALDÌN, s.m.: Fermacapelli. Forcina. SÀLDO, agg.: Saldo. Fermo. Solido. ‘Sta sèdia no la şè sàlda. SÀLDOLA, s.f.: Arnica. Erba medicinale. SALÈTO, top.: Saletto. Toponimo alla periferia di Isola oggi rinominato in Jagodje (v.) facendovi confluire buona parte dei toponimi circostanti. SALÌNE, s.f.: Saline. Le saline di Isola non erano mai importanti come quelle di Capodistria o di Pirano, anche se alcuni capitoli dell’antico statuto cittadino ne parla. Erano situate tra Fontana Fòra (v.) e le Porte (v.). Sono rimaste attive fino al 1740. Avevano 24 cavedini e producevano cca 28 t. di sale. SALINÈR, s.m.: Salinaro. Persona che lavora nelle saline. SALIŞÀDA, s.f.: Strada lastricata. Selciato. SALIŞÀR, v.: Lastricare. Pavimentare. SALÌŞO, s.m.: Selciato. SALMASTRÀ, agg.: Messo in salamoia. SALMÀSTRO, agg.: Che sa di acqua di mare. A sà de salmàstro.

ŞÀLO, agg.: Giallo. SALÒN, s.m.: (v. Sàla) Salone. SÀLPA, s.f.: Salpa. Pesce di mare dalla carne poco apprezzata anche se buona. Nutrendosi quasi esclusivamente di alghe il pesce diventa apprezzabile solo se pulito delle interiora immediatamente dopo pescato, prima che la carne acquisisca il sapore delle erbe di mare. SÀLSA, s.f.: Salsa. Chi non ricorda le salse che si preparavano, pur nella modestia della cucina isolana, sempre a base di pomodoro. Evidentemente, come riportano i più importanti dizionari italiani, la parola deriva dal latino salus = sale. La domanda è come un termine che indica un tipico condimento culinario abbia avuto origine dal sale, senza averne poco o niente in comune, a parte qualche grano di sale, appunto. SÀLSO, s.m.: Salsedine. L’odore che viene dalla vicinanza del mare. SALTAMARTÌN, s.m.: Cavalletta. SALTÀR, v.: Saltare. Saltàr a piròn. Vòia de lavoràr sàltime dòso. Còs’ te sàlta in tésta? Iéri gavémo saltà el prànso. SALTARÈL, s.m.: Rete da pesca. Appesa a una fila di pali finisce in mare a forma di chiocciola dove restano intrappolati i pesci. SALTARÈL, s.m.: Chiavistello a scatto. Serratura a scatto. SALTINPÀNSA, s.f.: Tipo di pane dolce. SÀLTO, s.m.: Salto. Scappata. Fàr un sàlto; ròba de sàlto = merce di contrabbando. SALTUSÀR, v.: Saltellare. SALUDÀR, v.: Salutare. SALÙDO, s.m.: Saluto.

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SALUMÈR, s.m.: Salumiere. SALVÀDEGO, agg.: Selvatico. SALVÀR, v.: Salvare. Conservare. Custodire. Se sàlvi chi che pòl. SÀMPA, s.f.: (v. Sàta) Zampa. SAMPIÈRO, s.m.: Pesce di mare. Carne pregiata. SAMPÌN, s.m.: Zampino. I sampìni de pòrco i şé bòni lési in minéstra e magnàdi ancora caldi. SAMÈR, s.m.: (v. Mùs) Asino. A Isola il termine era conosciuto ma poco usato. Più frequente, credo, a Capodistria. SÀN, agg.: Sano. El dotòr a ghé gà dìto de no pensàrghe più parché a sarìa sàn come un pése. ŞANAPRÒN, s.m.: Gineprone. Uccello somigliante al merlo che prende il nome dal fatto di nutrirsi con bacche di ginepro. Figurativamente usato anche per definire persona superba ed altezzosa. SANCANÈR, s.m.: (v. Sanchìn) Mancino. SANCHÈTO PELÒŞO, s.m.: Sogliola pelosa. Pesce di mare, simile alla sogliola e dalla carne buona. SANCHÌN, s.m.: (v. Sancanèr) Mancino. SÀNCA, s.f.: Sinistra. Vignìndo de la piàsa, la casa de Toni şé sula sànca. SANDOLÌN, s.m.: Piccola imbarcazione. Piccolo natante monoposto da spiaggia che si usa con una specie di pagaia. SÀNDOLO, s.m.: Sandalo. SANGIÒSO, s.m.: Singhiozzo. SÀNGUE, s.m.: Sangue. Sàngue no şè àqua. A şè un tìpo càldo: el sàngue a ghe bòi sùbito. Àra che te vèn sàngue de nàşo.

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SANGUÈTA, s.f.: Sanguisuga. Fino ai primi decenni del secolo scorso, anche la farmacia di Isola era regolarmente provvista di sanguète che venivano usate per i salassi. Come racconta A. Vascotto nel suo “Dizionario della parlata isolana”, agli inizi del ‘900 pare esistesse un vero e proprio allevamento di sanguisughe nella valle di Strugnano, i cui proprietari venivano chiamati quei dela sanguetèra. Il soprannome dei Sanguetèra (v.) è rimasto fino ad oggi, quando nella valle, a parte la loro casa, non sono rimasti né i padroni, né le sanguète. In senso figurativo il termine viene usato per indicare persona usuraia o sfruttatrice. SANGUETÈRA, top.: Toponimo. Area nella valle di Strugnano che un tempo era circoscritta al podere di una famiglia che allevava sanguisughe (v. Sanguète) e da cui avevano preso il soprannome. Oggi, a questa zona è rimasto il toponimo anche se, credo, pochissimi ne conoscono l’origine. La zona, ricca di canali che disponevano di acqua anche nel periodo estivo, grazie a numerose piccole sorgenti, oltre che rappresentare un vero e proprio sistema di irrigazione per la coltivazione di ortaggi e primizie, almeno una volta all’anno rappresentavano l’occasione per dedicarsi alla cattura delle anguille (v. Bişàto). SÀNGUIS, s.m.: Panino imbottito. Deformazione della parola inglese Sandwich. SANPIÈRO, s.m.: San Pietro. Pesce di mare. Brutto da vedere, ma molto buono. SANPIÈRO, top.: Toponimo isolano. Zona chiamata così ancor oggi nella zona a nord, dove fino


agli anni Sessanta esisteva una piccola chiesetta dedicata a San Pietro. Venne dapprima ridotta a magazzino della locale industria del pesce e poi distrutta. SANSÀL, s.m.: (v. Sensàl) Sensale. Mediatore. SANSARÈLA, f.: Braciolina. Pezzetto di carne sminuzzata. Adatta per esser cucinata nello spezzatino (v. Şguasèto). Il termine è attestato anche in altre località istriane, ma con significato diverso: da stracciatella, a grumi di latte rappreso. Sansarèle, per esempio, venivano definiti nelle zone d’influenza veneziana, i raggrumi di uova strapazzate cotte nel brodo, più comunemente chiamata pàsta butàda (v.). SANSÈNA, s.f.: Arbusto. I suoi rami hanno il midollo interno tenero, simili a quelli del sambuco, che può esser estratto con un filo di ferro. Ridotto in asticelle cave, veniva usato per costruire gabbie per uccelli (v. Chéba). SANSINÀR, v.: (v. Sasinàr) Assassinare. Uccidere. Sciupare. Rovinare. SAN SIMÒN, top.: San Simone. Località e spiaggia isolana. Ha preso il nome da un’antica chiesetta che ormai non esiste più. La zona, anticamente conosciuta come Haliaetum = Alieto, rappresenta un importante sito archeologico, poichè a poca distanza dal mare vi sono i resti di una villa rustica romana e di un porto, pure romano, visibile durante le basse maree. SANTÌN, s.m.: Santino. Piccola cartolina con riprodotta l’immagine di un santo. Ricordo che un tempo erano molto più in voga di oggi. Ricordo pure che, noi bambini, si faceva addirittura

la raccolta dei più diversi santini. Non era un atto di fede religiosa, anzi, raccoglievamo i santìni, alla stessa maniera con cui si faceva la raccolta dei giocatori di calcio, oppure delle automobili. SÀNTO, s.m.: Santo. Schérsa coi fànti e làsa stàr i sànti. El préte ghe gà dà l’òio sànto = gli è stata data l’estrema unzione. SÀNTOLA, s.f.: Madrina. SÀNTOLO, s.m.: Padrino. Si poteva essere sàntolo di battesimo o di cresima e indubbiamente rappresentava un vincolo di amicizia e di rispetto che a volte superava anche quello di parentela. SANTÒNEGO, s.m.: Santonina. Erba medicinale usata contro i vermi intestinali. SANTORÌN (Tera de…), sm.: Terra di Santorino. Era una specie di cemento naturale proveniente dalle isole greche di Santorino, Teresia e Aspronisi che veniva usata anche nelle nostre zone all’inizio del secolo scorso come cemento per costruzioni subacquee. In grosse quantità venne usata a Isola, e da qui la sua presenza nella parlata locale, per le costruzioni del molo, della diga e di Riva de Porta (v.), oggi “Riva del Sole”. SÀPA, v.: Zappa. Era lo strumento di lavoro più importante per la maggior parte degli isolani, che lavoravano la terra. Tutti i campi erano praticamente lavorati a mano e, ciononostante, sembravano dei veri e propri giardini ben curati e ordinati. A se gà dà la sàpa sui pìe. SAPADÒR, s.m.: Zappatore. Agricoltore. Contadino. A volte il termine veniva usto anche con tono spregiativo, rispetto a

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quello più dignitoso di campagnòl (v.). Sapadòr era in particolare colui che, avendo poca terra per soddisfare tutte le proprie necessità, si vedeva costretto ad andare a zappare per gli altri contadini, in cambio di qualche soldo e, naturalmente, un piatto di minestra. Non erano pochi, in fondo, coloro che per sbarcare il lunario, andavano a şornàda (v.) – letteralmente, giornate di lavoro – cioè andavano a zappare la terra per conto terzi. SAPÀR, v.: Zappare. SAPÈTA, s.f.: Zappetta. Piccola zappa. SAPUSÀR, v.: (v. Ocàr) Zappettare. Smuovere la terra soltanto in superficie, tanto per togliere l’erba e rendere il terreno più morbido e friabile. SAQUÀDA, s.f.: Sciacquata. SAQUÀR, v.: (v. Reşentàr) Risciacquare. Lavare alla svelta. SARÀCA, s.f.: Sarago. Papalina. Pesce di mare un tempo molto frequente sulla tavola degli isolani per il basso prezzo. In senso figurato il termine veniva usato anche per indicare una bestemmia. SARDACÒN, top.: Toponimo. Zona che comprende un’area di bosco nella conca tra Malìo, Saredo e Costerlago. SARDÈLA, s.f.: Sarda. Sardina. Pesce azzurro da sempre molto frequente nelle cucine isolane. In qualche maniera, questo piccolo pesce, ha dato vita anche alle fortune dell’industria conserviera di Isola contribuendo al suo progresso e sviluppo per oltre un secolo e mezzo. SARDELÈRA, s.f.: Sardellera. Rete per la pesca delle sardelle composta da parecchi pezzi con i

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quali si circuiva il pesce azzurro che poi si tirava a bordo. Era usata a Isola prima dell’introduzione della sacalèva (v.). SARDÒN, s.m.: Acciuga. Pesce azzurro più piccolo della sardella, ma anche dalla carne più pregiata e compatta. Veniva consumato fritto, in savòr (v.) oppure messo sotto sale per produrre i sardòni salài (v.). SARDÒN SALÀ, s.m.: Acciuga sotto sale. Filetti di acciuga. SARÈŞA, s.f.: (v. Sariéşa) Ciliegia. SAREŞÈR, s.m.: Ciliegio. L’albero delle ciliegie. SAREŞÈTA, s.f.: Ciliegina. Bacca. SAREŞÌN, s.m.: Granoturco. Grano Saraceno. Pianta simile al mais, i cui grani, una volta macinati, producono una farina di color grigio. Oggi, in pratica, i termini di granoturco e mais si equivalgono senza distinzione, anche perché quasi tutti sono passati al mais, e del sareşìn non è rimasta nemmeno la memoria. SARGÈNTE, s.m. Sergente. Grado militare. SARIÀNDOLA, s.f.: Lucertola. SARIÈŞA, s.f.: (v. Saréşa) Ciliegia. SARIÈŞE IN ŞGUÀSO, s.f.pl.: Ciliegie in composta o guàzzo. SARIEŞÈR, s.m.: (v. Sareşér) Ciliegio. SARLATÀN, s.m.: Ciarlatano. Fanfarone. SARMÈNTA, s.f.: Sarmenta. Rami tagliati potando le viti. Le sarménte una volta tagliate venivano raccolte e fate essiccare per accendere il fuoco nel fogolér (v.). SASÌN, s.f.: (v. Asasìn) Assassino. Molto conosciuto dalle parti nostre


il detto che non qualifica molto simpaticamente i triestini: Triestìn, méşo ladro, méşo sasìn. SASINÀR, v.: Assassinare. Uccidere. Rovinare. Sciupare. Quel sàrto a no me védi mai più: a me gà sasinà la còtola che gò péna comprà. SÀSIO, agg.: Sazio. SAŞLÀ, s.f.: Uva bianca da tavola. Chiamata anche gostàna (v.) perché maturava qualche settimana prima dell’altra, verso la metà di agosto. Pare sia ormai completamente scomparsa dalle nostre parti, ma ne rimane il ricordo per la sua buccia consistente che si sentiva quasi croccante e perché i suoi acini erano costellati da punti scuri, come quelli del moscato nostrano. SÀTA, s.f.: (v. Sàmpa) Zampa. In senso figurativo e scherzoso anche la mano, specie se di dimensioni superiori al normale. Usato anche per definire chi ha la mano abilitata a fare determinati lavori: No şé che dìr: a gà pròprio sàta. Pòvaro lu’ se a me càpita sòto le sàte. SATÀDA, s.f.: Zampata. SATÌNA, s.f.: Zampetta. Anche manina, se piccola e graziosa. SATÒ, s.m.: (v. Làte de Galìna) Rosso d’uovo sbattuto con aggiunto zucchero e latte caldo. Una specie di zabaione (v. Şavaiòn) che invece del vino dolce o del Marsàla (v.) usava il latte caldo. SATÙL, s.m.: Bomboniera per confetti. Scrigno.

indicare persona inconcludente e pasticciona. SAVÀRIO, s.m.: Imbroglio. SAVÀTA, s.f.: Ciabatta. Fa parte della memoria storica degli Isolani le visite ed i divertimenti del Sìrco Savàta (v.), il Circo equestre che come nessun altro è rimasto impresso nel ricordo della popolazione, nome che poi si è tramandato fino a diventare un modo di dire. SAVATÀR, v.: Ciabattare. SAVATÒN, s.m.: Ciabattone. Anche persona imprecisa e pasticciona. SAVÈR, v.: Sapere. Mi sò, ti te sà, lù sà, noi savémo, voi savé, lòri sà. No stà parlàrme: gò savù o gò savésto. Fin a la mòrte no se sà la sòrte. Savér de freschìn. A no vòl savér né par chì, né pàr cosa. SÀVIA, s.f.: Salvia. SAVÒN, s.m.: Sapone. Lavarghe la tésta al mùs, se pérdi la lìsia e ànca ‘l savòn. SAVONÀDA, s.f.: Saponata. SAVÒR, s.m.: Sapore. Noto a Isola, ma soprattutto a Venezia, il piatto di pési in savòr: sardelle preparate secondo antica ricetta…. Altrettanto conosciuto, anche se meno frequente nelle cucine isolane il savòr in bianco, con la differenza che al posto delle sardelle si usavano i sardoni, cioè le acciughe, e non si usava la conserva di pomodoro. SAVRÌN, s.m.: Abitante del contado isolano. Usato anche per indicare persona slovena dell’entroterra isolano e capodistriano.

SAVÀIO, s.m.: Disordine. Confusione.

ŞBABASÀR, v.: Sparlare. Parlar male di qualcuno.

ŞAVAIÒN, s.m.: Zabaglione. Figurativamente usato anche per

ŞBADÈIO, s.m.: Sbadiglio.

ŞBADEIÀR, v.: Sbadigliare.

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ŞBAFÀDA, s.f.: Abbuffata. Gran Mangiata.

ŞBARCÀR, v.: Sbarcare.

ŞBAFÀR, v.: Abbuffare. Mangiare con voracità.

ŞBARLÈFO, s.m.: Sberleffo. Smorfia.

ŞBÀFO (a…), s.m.: A spese altrui. Gratuitamente. Magnàr a şbàfo; vìver a şbàfo. ŞBAGASÀR, v.: Liberarsi di qualcosa. Sbarazzarsi. Dare via pur di liberarsi di un oggetto. ŞBALIÀ, agg.: Sbagliato. ŞBALIÀR, v.: Sbagliare. Ànca ‘l préte şbàlia. ŞBÀLIO, s.m.: Sbaglio. Errore. Gnànca pàr şbàlio. ŞBALANSÀR, v.: Sbilanciare. Essere parziale nei confronti di qualcosa o di qualcuno. SBALOTÀR, v.: Sbattere. Scuotere. I me gà şbalotà un poco de quà e un poco de là. SBÀLSO, s.m.: Covone di frumento. SBAMPÌ, agg.: (v. Svampì) Evaporato. L’aggettivo viene usato anche per una persona che dimentica facilmente: làselo perder, ch’ a şé svampì, a no se ricorda gnànca dove che a iéra dò ore fa. Il termine fa parte di quelle regole, non sempre precise e non sempre usate, dove la lettera B è chiamata a sostituire la lettera V, come, per esempio in Bapòr (v.) al posto di Vapòr (v.). SBAMPÌR, v.: (v. Şvampìr) Evaporare. Tàpa bén la fiasca, che ‘l vìn no svampìsi. ŞBANDÀR, v.: Sbandare. Inclinare. ŞBANDÀDA, s.f.: Sbandata. La mùla la gà ciapà una şbandàda pàr el fìo de Tòni. ŞBARACÀR, v.: Sgomberare. Andar via. ŞBARÀR, v.: Sparare. Iéri te le gà şbaràde gròse.

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SBÀRO, s.m.: Sparo.

ŞBARUFÀNTE, s.m.: (v. Barufante) Attaccabrighe. ŞBARUFÀR, v.: (v. Barufàr) Litigare. ŞBARUFÒN, s.m.: (v. Barufòn) Attaccabrighe. Litigioso. ŞBASÀR, v.: Abbassare. Chinare. Ribassare. Ridurre. Chi se şbàsa se àlsa, chi se àlsa se şbàsa. ŞBASUCIÀR, v.: (v. Başuciàr) Sbaciucchiare. ŞBÀTER, v.: Battere. Sbattere. Scuotere. Me ne sbàto = Me ne infischio. Şbàter i òvi in tela rasòra. ŞBATOCIÀR, v.: (v. Batociàr) Sbattere. Scuotere. Sbatacchiare. In senso figurativo e spregiativo anche far sesso con qualcuno. La ‘ndava con Bepi fin che la se lasàva şbatociàr, ma adéso che lù la gà molàda no la vòl più nisùn. SBÀTOLA, s.f.: Parlantina. Loquacità. Facilità di parola. ŞBATÙ, agg.: Abbattuto. Depresso. Ògi te vèdo un pòco sbatù. ŞBAVASÀR, v.: Sbavare. Sbrodolare. ŞBEGOLÀR, v.: Piluccare. Mangiucchiare. Becchettare. ŞBÈRLA, s.f.: Sberla. Schiaffo. Ceffone. ŞBERLÒTO, s.m. Schiaffo. Ceffone. ŞBÈŞOLA, s.f.: Mento pronunciato. ŞBEVASÀR, v.: Bere in maniera smodata. ŞBIÀCA, s.f.: Biacca. Crema sbiancante. Si usava soprattutto per pulire le scarpe quando erano ancora di moda di colore bianco.


ŞBIADÌ, agg.: (v. Şmarì) Scolorito. Stinto. Sbiadito. SBIADÌR, v.: (v. Şmarìr) Scolorire. Sbiadire. ŞBIANCÀR, v.: Impallidire. ŞBIANCHIŞÀR, v.: Imbiancare. Prima di dàrghe i fiori col rùlo (v.), bişognarà sbianchişàr i muri. ŞBIÈGO, agg.: Traverso. Obliquo. Storto. Bepi, co a me védi a me vàrda sempre par şbiégo. ŞBÌGOLA, s.m.: Paura. Fifa. A gavéva ‘na şbìgola che a şé diventà dùto bianco. ŞBÌRO, s.m.: Sbirro. Poliziotto. SBÌSA, s.f.: Legnetto. Pezzo di ramoscello. ŞBIŞIGÀR, v.: Frugare. Rovistare. Còsa te stàghi faséndo? Gnénte, şbìşigo qualcòsa pàr la càşa. ŞBIŞIGHÌN, v.: Persona irrequieta. Persona curiosa. ŞBITARÀR, v.: Evacuare feci liquide. Coliche per dissenteria. Diarrea. ŞBITARÈLA, s.f.: Diarrea. ŞBOCADÌSO, agg.: Volgare. Sboccato. Parlare sconveniente. ŞBÒGO, s.m.: Contrabbando. Sottobanco. Una volta, se te volévi gavér qualcosa de bòn, te te lo dovévi procuràr de şbògo. ŞBORADÙRA, s.f.: (v. Şbòro) Sperma. Il termine, più che nell’ambito di un discorso sessuale, veniva usato in senso figurativo per indicare una persona piccola, malfatta, insignificante. A şé ‘na şboradùra de mùlo ŞBORÀR, v.: Eiaculare. ŞBÒRO, s.m.: (v. Şboradùra) Sperma. ŞBOTONÀR, v.: Sbottonare. Confidarsi. Dòpo qualche méşe a se gà şbotonà ànca con mì.

ŞBOVÀR, v.: Sradicare. ŞBOVÀSA, s.f.: (v. Bovàsa) Escremento bovino. ŞBRANÀ, agg.: Sfrenato. Vivace. ŞBRAITÀR, v.: Gridare. Urlare. Sbraitare. ŞBRASOLÀR, v.: (v. Brasolàr) Cullare in braccio. SBREGÀ, agg.: Stracciato. Còme che sòn cascà, me sòn sbregà le bràghe. ŞBREGÀR, v.: Strappare. Stracciare. Rompere. Lacerare. ŞBRÈGO, s.m.: Strappo. Viene usato anche per indicare un grande successo di pubblico. Volutamente, a titolo di documentazione storica di un determinato periodo della vita isolana, riportiamo l’esempio suggerito da Antonio Vascotto: “Cechelìn, su de Sàco, ieri séra a gà fàto pròpio sbrégo. No te dìgo che ridàde co a ga fàto la macéta de Carléto…” ŞBREGÒN, s.m.: Grosso strappo. ŞBRINDOLÀ, agg.: Malridotto. Ridotto a brandelli. Lacero. No varìa mai credù se no lo gavési visto, a şé vignù dùto şbrindolà… ŞBRINDOLÒN, agg.: Lacero. Con vestiti laceri. Abito ridotto male. A şé sempre a şbrindolòn… ŞBRÌS, s.m.: (v. Şbrìso) Striscio. Lo gò visto de şbrìs = l’ho visto di sfuggita. A me gà ciapà de şbrìs = mi prese di striscio. ŞBRÌŞA, s.f.: Grandine dai chicchi molto piccoli. ŞBRIŞÀDA, s.f.: Grandinata. Pioggia gelata. ŞBRISÀDA, s.f.: Scivolone. ŞBRISÀR, v.: Scivolare. Sdrucciolare. A şbrìsa, ma a no càsca. Ghe şé şbrisà de dìr.

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ŞBRÌŞO, s.m.: Frizzo. Vin de şbrìşo = vino frizzante. ŞBRÌŞO, agg.: Logoro. Liso. A se gà méso un vestito dùto lìşo. ŞBRÌSO, avv.: (v. Şbrìs) Striscio. ŞBRISÒN, s.m.: Scivolone. Scivolata. Ruzzolone. ŞBROCÀR, v.: Sbottare. Scattare a parole. ŞBRODÀUS, s.m.: Brodaglia. Minestra mal riuscita. ŞBRODEGÀR, v.: Pasticciare. Evidentemente anche questa parola deriva da bròdo, ovv. Minestra nel senso che va mescolata tanto e con tante cose fin a diventare una brodaglia. Figurativamente anche per definire un lavoro mal fatto. ŞBRODEGHÈSO, s.m.: Intruglio. Pasticcio. Brodaglia. Lavoro eseguito male. ŞBRODEGÒN, s.m.: Pasticcione. Persona confusionaria. ŞBRODOLÀR, v.: Sporcarsi mangiando. Sta ‘ténto come che te màgni, che te se şbròdoli dùto. ŞBRODOLÒN, s.m.: Persona sudicia. Diretto soprattutto ai bambini che portano sui vestitini le macchie delle pappe. ŞBROVÀ, agg.: Scottato. Il termine viene usato anche per definire persona in atteggiamento colpevole dopo aver combinato qualche guaio: A se gà cucià in t’un cantòn come un gàto sbrovà. ŞBROVÀDA, s.f.: Scottatura. Ustione. Leggera cottura. ŞBROVÀR, v.: Scottare. Ustionare. Dare una leggera cottura. Il verbo veniva usato soprattutto per le scottature da acqua bollente. Per le scottature da oggetti di ferro o dalle fiamme del fuoco,

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si preferiva usare il verbo scotàr (v.). Co fasévo la polénta me son şbròvada la màn co l’acqua de bòio, poco dopo, meténdo un tòco (v.) de legno in fògo, me son scotàda anca el pòlso. ŞBROVÈNTE, agg.: Scottante. Bollente. Bruciante. ŞBRUFADÒR, s.m.: Annaffiatoio. Figurativamente il termine viene a volte usato per indicare persona che si vanta a sproposito ed esageratamente. Bisogna sempre bagnàr el radìcio col şbrufadòr de sera, quando che ‘l sòl no bàti più. ŞBRUFÀR, v.: Spruzzare cibi con la bocca. ŞBRUFÀDA, s.f.: Notizia esagerata. ŞBRUFÒN, s.m.: Spruzzo di cibo dalla bocca. Solo raramente e negli ultimi decenni, il termine veniva usato anche per indicare – come in italiano – uno sbruffone. ŞBUDELÀR, v.: Sbudellare. Togliere le budella. ŞBUDELÀ, agg.: Persona trascurata. Con parte della biancheria che fuoriesce dai calzoni. ŞBÙFO, s.m.: Merletto. Ricamo. ŞBURTÀDA, s.f.: Spinta. ŞBURTÀR, v.: Spingere. Urtare. Spintonare. Sospingere. Şburtàr el càro. ŞBURTÒN, s.m.: Spintone. Urto. ŞBÙŞA, s.f.: Mancare. Fallire. Andare a vuoto. Ghe şé ‘ndàda a şbùşa. ŞBUŞÀR, v.: Bucare. Forare. Perforare. Àra che te gà le ròde şbuşàde. Şè come se a gavèsi le scarsèle şbuşàde. SCABÈL, s.m.: Sgabello. Comodino.


SCABUSÌN, s.m.: Sgabuzzino. SCADENÀ, agg.: Scatenato. Senza freni. SCADENÀR, v.: Scatenare. Sfogare. SCADÀN, s.m. Fienile. SCÀFA, s.f.: Acquaio. Vasca. Fino ai primi decenni del secolo scorso, i lavandini, gli acquai e simili, anche all’interno delle case, dove era comunque presente l’acqua corrente d’acquedotto, erano in buona parte fatti di pietra scavata e lavorata dal scalpellino. Oggi queste testimonianze del tempo passato vanno a ruba tra i nuovi residenti delle ville di periferia che le usano per l’abbellimento dei cortili e dei giardini. Il termine, secondo gli esperti deriva dalla parola greca “Skaphos”, ma altri, meno propensi alla ricerca nobile dell’antichità, sono propensi a farla derivare più prosaicamente dalla radice di “scavare”, visto che, inizialmente, la scàfa era costituita da una lastra di pietra scavata dallo scalpellino. Il sostantivo viene usato anche per definire la bocca di persona abituata a sproloquiare. Invése de ciacolàr tànto, séra quela scàfa. SCAFÀL, s.m.: Scaffale. Mensola. SCAFÈTO, s.m.: Cassetto. Scomparto. Piccolo armadio. Ripostiglio. SCAGARÈLA, s.f.: Dissenteria. Diarrea. SCAGÀS, s.f.: Chiasso. Confusione. ‘Stà mularìa sta faséndo un scagàs del diavolo. SCAGASÀR, v.: Sporcare. Defecare. Esagerare. No stà scagasàr fòra del bucàl. SCAGNÈL, s.m.: Tessera di mosaico. Tassello di pietra per mosaici. Ancora oggi è possibile

trovare a San Simone frammisto fra la ghiaia del bagnasciuga qualche esemplare di scagnèl rimasto dell’antico mosaico che un paio di millenni fa decorava la villa rustica romana. Ricordo che da ragazzo, durante le ore trascorse al bagno a San Simon, che era ancora una spiaggia selvaggia, si faceva a gara per vedere chi raccoglieva più scagnèi. Molti Isolani, soprattutto tra gli esuli, con questi tasselli si sono inventati delle scritte sui muri delle proprie case, come segno di discendenza e di appartenenza alla nostra città. SCAGNÈTO, s.m.: Piccola panca. SCÀGNO, s.m.: Panca. Scanno. Erano di diverse dimensioni, da quelli alti come una sedia, a quelli piccolini, facili da spostare da un posto all’altro, a secondo del luogo dove ci si sedeva per un determinato lavoro. Alcuni venivano realizzati addirittura con un’apertura al centro per rendere più facile e sicura la presa. Era indispensabile anche per le anziane che, soprattutto sul far della sera, scendevano in strada a prendere una boccata d’aria ed a far quattro chiacchiere con le vicine. Mérda che mònta in scagno, o la spùsa o la fa dàno. Stà ‘ténto che quel là, a vòl stàr col cùl su do scàgni. SCÀIA, s.f.: (v. Scaiòla) Scagliola. Mangime per gli uccelli. SCÀIA, s.f.: Scheggia di pietra. Piccolo sasso piatto. SCÀIO, s.m.: Ascella. (v. Sòtoscàio) SCAIÒLA, s.f.: (v. Scàia) Scagliola. Semi che si usano come mangime per gli uccelli. SCALCAGNÀ, agg.: Malmesso. SCALDÀDA, s.f.: Riscaldata.

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Dàrghe una scaldàda ala minéstra. SCALDÀR, v.: Riscaldare. Pàr sìnque àni a şé ‘ndà a scòla sòlo pàr scaldàr el scagno. SCALÈLE, s.f.pl.: Scale. Scalinata. Gradinata. SCALÌN, s.m.: Gradino. SCALINÀDA, s.f.: Scalinata. SCALMÀNA, s.f.: Vampata di calore. SCALMANÀ, s.f.: Scalmanato. Irrequieto. Eccitato. Accaldato. SCALÒGNA, s.f.: Scalogno. Ortaggio simile alla cipolla, molto frequente nella cucina isolana, anche perché più aromatica e meno bruciante della cipolla. SCALOGNA, s.f.: Sfortuna. Iella. Disgrazia. SCALOGNÀ, agg.: Sfortunato. Iellato. Disgraziato. SCALÒN, s.m.: Scala a pioli triangolare. Usualmente veniva costruita dagli stessi contadini per il lavoro in campagna e veniva usata, anche perché più ferma e stabile, per la raccolta delle olive. SCALÒN, s.m.: Traverse parallele unite da due traverse. Servivano ai carri da trasporto trainati dai cavalli, al posto delle bandine dei normali carri più piccoli dei contadini. SCALSACÀN, agg.: Cialtrone. Buono a nulla. SCALSINÀ, agg.: Scalcinato. Trasandato. Dimesso. Trascurato. Sudicio. Sporco. SCÀLSO, agg.: (v. Discàlso. Descàlso) Scalzo. Senza scarpe. SCAMPÀR, v.: Scappare. Fuggire. Pàr sta vòlta la gavémo scampàda béla. Ghe şé scampà de dìr dùte quéle monàde.

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SCAMPÒN, s.m.: Capatina. Scappata. Visita breve. Visita affrettata. Visita o assenza fatta senza preavviso e velocemente. De matìna se gavémo parlà, ma dopo prànso gò fàto lo şteso un scampòn a càşa sua. SCANÀRSE, v.: Affannarsi. Impegnarsi. Azzuffarsi. SCANCELÀR, v.: Cancellare. SCANDÀL, s.m.: Baccano. Chiasso. Soltanto ultimamente chi parla in dialetto usa il termine con il significato di scandalo, ma lo fa esclusivamente per adeguamento alla lingua italiana. Per definire lo scandalo, invece, si usava il termine scàndolo (v.). SCÀNDOLO, s.m.: Scandalo. Vergogna. Şé un scàndolo véder come che la va per stràda. Te gà mai visto un scandàl de mùla come quéla? SCANSAFADÌGHE, s.m.: Scansafatiche. Fannullone. SCANSÀR, v.: Scansare. Evitare. Ridurre. Scemare. Smettere. Gà scansà de piòver. SCANSÌA, s.f.: Mensola. Scaffale. SCANTINÀR, v.: Tentennare. Vacillare. Cedere. Essere insicuro. Essere inaffidabile. A Ninéto ghe scantìna un dénte. De Tòio no şé de fidàrse, oramài a gà scominsià a scantinàr. SCAPASÒN, s.m.: Sculacciata. A differenza che in italiano, dove il termine significa letteralmente una sberla o un ceffone, nel dialetto isolano ha il significato di sculacciata. Difficile identificare il tragitto della parola che, indubbiamente, è stata presa dal vocabolario della lingua di Dante. SCAPELÒTO, s.m.: Scappellotto. Scapaccione, SCAPINÀR, v.: Rammendare calze


e maglie di lana. Lavoro che un tempo si faceva regolarmente a casa, sia il rammendo, ma anche le stesse calze che poi si portavano durante l’inverno. Un lavoro, naturalmente, in cui quasi tutte le donne isolane erano maestre. SCÀPOLA, s.f.: Scappatoia. Via d’uscita. Fàr scàpola = marinare la scuola. SCAPOLÀR, v.: Sfuggire. Evitare. Farla franca. Stavolta se la gà scapolàda. SCAPUSÀR, v.: Inciampare. Comportarsi fuori delle regole. SCARABOCIÀR, v.: Scarabocchiare. SCARABÒCIO, s.m.: Scarabocchio. SCARBONSÀR, v.: Smuovere la brace per ravvivare il fuoco. SCARDIÈL, agg.: Sconnesso. Debole. Poco resistente. A şé cusì scardiél, che a no stà gnanca in pìe. Vàrda de no travaşàr el vìn in quela bòta, che la şé dùta scardielàda. SCÀRIGA, s.f.: Scarica. Raffica. A se gà ciapà ‘na scàriga de bòti. SCARIGADÒR, s.m.: Scaricatore. Operaio del porto. Scarigadòr de pòrto. SCARIGÀR, v.: Scaricare. Me sòn scarigà de stò strùsio. SCARPA, s.f.: Scarpa. Calzatura. Tra mì e tì şé còme tra ‘na scarpa e un sòcolo (v.). SCARPÈL, s.m.: Scalpello. SCARPELÀR, v.: Scalpellare. Lavorare di scalpello. SCARPELÌN, s.m.: Scalpellino. Tagliapietre. Vanno distinte due figure di scarpelìni: da una parte quelli che, pochi, scolpivano la pietra ed il marmo per preparare lapidi e monumenti tombali.

Tra quelli che sono rimasti nella memoria i Pustetta, che si sono tramandati il mestiere di padre in figlio. Dall’altra alcuni dipendenti comunali che svolgevano il lavoro dei batigiàra (v.) ed erano addetti alla manutenzione delle strade comunali non ancora asfaltate. Un lavoro, che era in vigore almeno fino a quando non entrò in funzione la cava con il frantoio nella zona di San Simone. Oggi nell’area sta sorgendo una zona residenziale ed è prevista pure la costruzione di piscine sfruttando le voragini provocate dagli scavi. Ultimamente, pare, durante i lavori edili sono venute alla luce una serie di profonde grotte, ancora inesplorate. SCARPÈNA, s.f.: Scorpena. Scorfano. Pesce di mare di colore rosso e fornito di spine velenose, ma dalle carne prelibata. SCARPIÒN, s.m.: Scorpione. SCARPINÀR, v.: Camminare a lungo. Scarpinare. Marciare. SCARSÈLA, s.f.: Tasca. De dùta sta stòria a mi no me vién gnénte in scarséla. Gavér le scarséle sbuşàde. Gavér le scarséle şvòde. SCARSELÌN, s.m.: Taschino. SCARSEŞÀR, v.: Scarseggiare. SCARTÀR, v.: Scartare. Evitare. Metter da parte. SCARTÀSA, s.f.: (v. Bruschìn). Spazzola. Fra le massaie isolane erano conosciute soprattutto le scartàse de sòrego, cioè quelle di legno con la saggina, ideali per lavare i pavimenti (v. palménto) e le scale, quasi sempre fatti di assi di legno. SCARTASÀDA, s.f.: Spazzolata. Anche Rimprovero o Romanzina.

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SCARTASÀR, v.: Spazzolare. Pulire. SCARTASÌN, s.m.: Spazzolino. SCARTOSÈTO, s.m.: Il cono del gelato. Anche persona vanesia e piena di arie. A se reména come un scartoséto. SCARTÒSO, s.m.: Cartoccio. SCARTÙME, s.m.: Cosa di poco valore. Persona di poco conto. SCARUSÀDA, s.f.: Graffio.

travasato il vino. Lo si consumava al posto del vino che, invece si risparmiava per venderlo. Ne troviamo testimonianza anche nel libro sugli Statuti isolani di Luigi Morteani, dove alla voce scavèso riporta il significato di vino secondo. Va rimarcato, che il Morteani ha riportato la voce scrivendola el scavezo, che però non riteniamo pronunciata neanche allora con la “z”, sia sorda che sonora.

SCARUSÀR, v.: Graffiarsi. Escoriarsi.

S’CÈNŞA, s.f.: Scheggia di legno.

SCASÀ, agg.: Traballante. Scassato. Rovinato. Scosso. Affranto.

S’CÈTO, agg.: Schietto. Genuino. Sincero. Ma anche Rozzo, grezzo, scadente. Te dèvi contàrmela nèta e s’cèta.

SCASÀR, v.: Scuotere. Agitare. A se gà scasà un bòn litro de bianco. SCASÀR, v.: Cacciare via. Allontanare. Co şè rivàda òra de magnàr i ne gà scasà vìa. SCASÒN, s.m.: Scossone. Urto. SCASÒN, s.m.: Violento acquazzone: Şé vignù şò un scasòn de piova, che Dio la mandàva.

S’CENŞÀR, v.: Scheggiare.

SCHÈO, s.m.: Denaro. Spicciolo. Soldo. Monetina. SCHÈNA, s.f.: Schiena. Dorso. Co càmbia el tèmpo me diòl la schèna. SCHENÀDA, s.f.: Schienata. Caduta sulla schiena. SCHENÀL, s.f.: Schienale. Spalliera. El schenàl de la caréga.

SCATARACIÀR, v.: (v. Cataraciàr) Sputare.

SCHÈO, s.m.: Soldo. Monetina.

SCATARÀCIO, s.m.: Scataracchio. Sputo.

SCHERSÀR, v.: Scherzare. Schèrsa coi fànti e làsa stàr i sànti.

SCAVABÙŞI, s.m.: Becchino.

SCHÈRSO, s.m.: Scherzo. Burla. Schèrso de màn, schèrso de vilàn.

SCAVAFÀNGO, s.m.: Benna per scavare il fondale marino.

SCHIFO, s.m.: Schifo.

SCAVÀR, v.: Scavare.

SCHIFÈSO, s.m.: Schifezza.

SCAVASÀR, v.: Torcere. Rompere. Spezzare. Slogare. A fòrsa de còrer şò par el ràto, gò montà mal su una piéra e me sòn scavasà el pìe.

SCHIFOSO, agg.: Schifoso. Ributtante.

SCAVÈSO, s.m.: (v. Bevanda). Vinello. Vino che si faceva gettando acqua e un po’ di zucchero sulle raspe ormai fermentate e dalle quali era stato

SCHÌNCO, s.m.: Stinco. Schìnco de galìna. Schìnco de pòrco.

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SCHÌLA, s.f.: Minuscolo gamberetto di mare. A şé màgro come ‘na schìla.

SCHÌSA, s.f.: (v. Giòsa e Iòsa) Goccia. Do schìse de piòva.


SCHISÀDA, s.f.: Spruzzata. Con dùto quel tonàr, dopo no gà fato che una schisàda. SCHISÀR, v.: Schizzare. Spruzzare. Stà ‘ténto che no te me schìsi. Schisàr de òcio. SCHISÈTO, s.m.: Schizzetto. Lo si costruiva da bambini per giocare e per fare a gara su chi spruzzava l’acqua più lontano. Composto da un pezzo di canna più grossa preso tra due nodi. Da una parte la canna era aperta, mentre sull’altro nodo si praticava un piccolo foro che serviva per spruzzare l’acqua. Vi si introduceva una specie di stantuffo o pompa, costruita con un bastoncino avvolto in straccetti che serviva per spingere fuori l’acqua introdotta con forza. SCHÌSO, agg.: Schiacciato. SCHISOLÀR, v.: Piovigginare. S’CIÀFO, s.f.: Schiaffo. Ceffone. Sberla. A şé pròpio un mùşo de s’ciafi. S’CIAFÒN, s.m.: Schiaffone. Ceffone. S’CIÀMA, s.f.: Squama, Scaglia di pesce. Proprio perché le squame sono molto piccole e sottili, il termine viene usato anche per definire una piccola quantità: Va bén, ma dàme solo una s’ciàma de formàio. S’CIAMÀR, v.: Squamare. S’CIAMÀSO, s.m.: Schiamazzo. Baccano. Confusione. In pratica, la parola è stata presa di sana pianta dall’italiano e riportata alle regole del dialetto. S’CIÀPA, s.f.: Schiappa. Persona inetta. Inabile. Secondo una delle regole del dialetto isolano, la “s’c…” a volte viene trasformata in “st…”per cui da s’ciàpa in stiàpa. Lo stesso come per s’ciòpo

(v.) che a volte diventa stiòpo. Cos’ te vòl che te dìgo? Come şogadòr a şé ‘na s’ciàpa. S’CIARÌDA, s.f.: Schiarita. Dòpo dò şòrni de piòva, el sièl se gà s’ciarì. S’CIARÌR, v.: Schiarire. Diradare. Sfoltire. Béh, la salàta co te la sémini la şé ‘sài fìsa, par questo dopo bişogna s’ciarìrla, se te vòl che la fàsi bàro. Prima de s’ciarìrse la vòşe ghe vòl s’ciarìrse la tésta. S’CIATÌNA, s.f.: Setola. Quella di maiale. S’CIÀVO, s.m.: Schiavo. Già a partire da quando a Isola e in tutta l’Istria prese piede il volgare, che andò a sostituire del tutto il latino, la parola venne trasformata, per la vicinanza del suono e della pronuncia, e chiamata a sostituire il termine slàvo. Lo stesso succedeva anche con la lingua latina, dove slavorum si trasformò in sclavorum. Va tuttavia ribadito che il termine non aveva intento spregiativo oppure offensivo e denigratorio. Diversa la situazione a partire dal XIX secolo, quando, con il risveglio delle nazioni, prese piede anche il nazionalismo. In particolare nelle nostre regioni, dove l’elemento slavo, soprattutto nell’ambito dell’irredentismo antiaustriaco, veniva visto in contrapposizione con quello italiano. S’CÌNCA, s.f.: (v. Vàga) Biglia. Pallina di vetro. In senso figurativo il termine viene usato anche per indicare una persona che ha bevuto oltremodo. A fòrsa de bicerìni de tràpa, a se ga ciapà ‘na s’cìnca che a no se gà riméso in sésto dùta la setimana. S’CINCÀR, v.: Scheggiare. Sbreccare. Colpire la biglia nel gioco. Àra che biciéri, che me gà

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regalà la Lişa, i şé dùti s’cincài. Secondo il Vascotto, sia s’cìnca che s’cincàr sarebbero stati portati nelle località istriane da Trieste. Secondo Mancini e Rocchi, nel trattare il dialetto di Capodistria, il termine s’cìnca deriva dal tedesco Klicker = sklinki = sclinca = s’cìnca. S’CIOCÀR, v.: Schioccare. Nàndo a sa s’ciòcar co la lìngua, come se a gavési una scùria in bòca. S’CIÒCO, s.m.: Schiocco. S’CIOPÀ, agg.: Scoppiato. S’CIOPADÙRA, s.f.: Screpolatura. Crepa. Fenditura. Spaccatura. S’CIOPÀR, v.: Scoppiare. Esplodere. Anche in questo caso la s’c… a volte si trasforma in st…, per cui s’ciopàr diventa stiopàr. Lo go vìsto e a s’ciòpa de salùte. Ògi şè un càldo de s’ciopàr. S’CIOPETÀDA, s.f.: Sciopettata. Fucilata. S’CIÒPO, s.m.: Schioppo. Fucile. S’CIPOLÀR, v.: Piluccare. Dare pizzicotti. SCOCONÀR, v.: Stappare. Togliere il tappo. Togliere il cocon (v.) dalle botti. SCODÈLA, s.f.: Tazza. SCODELÈTA, s.f.: Tazzina. SCÒDENO, s.m.: Scotano. Fiori a pennacchio frequenti nella campagna isolana. Si dice, che una volta venivano usati per l’estrazione del tannino presente sia nei fiori che nei rami. SCÒDER, v.: Incassare. Riscuotere. SCODIDÒR, s.m.: Esattore. Cassiere. Riscuotitore. SCOIÈRA, s.f.: Scogliera. SCÒIO, top.: Scoglio. Parlando di Scòio, a Isola viene immediata

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l’immagine degli scogli di Pùnta de gàlo. Un tempo la zona era la spiaggia preferita degli abitanti e dei ragazzi. Oggi, degli scogli è rimasto poco, vista la quasi totale cementificazione, compreso tutto lo Scòio de San Piéro (v.) dopo che, negli anni Sessanta del secolo scorso, venne abbattuta anche l’omonima chiesetta e tutta l’area adibita in parte a zona residenziale, in parte usata per le necessità della vicina fabbrica del pesce. SCOIONÀ, agg.: Seccato. Infastidito. Annoiato SCOIONADÙRA, s.f.: Seccatura. SCOIONÀR, v.: Infastidire. Seccare. Annoiare. SCÒLA, s.f.: Scuola. SCOLAPASTA, s.f.: Colapasta. SCOLAPIÀTI, s.m.: Colapiatti. SCOLABICÈRI, s.m.: Scolabicchieri. SCOLÀR, v.: Colare. Filtrare. Bere. A se gà scolà un lìtro de néro come gnénte. SCOLÀRO, s.m.: Scolaro. Alunno. Per definire chi andava a scuola esisteva soltanto il termine di scolàro. A nessuno sarebbe venuto in mente di definirlo “alunno”. SCOLASALÀTA, s.f.: Colo. Di dimensioni più grandi per far colare l’insalata, ma veniva usato anche per la pasta. SCÒLO, s.m.: Colo. Veniva usato per per il brodo. Era più piccolo e fornito di manico lungo. Uno ancora più piccolo veniva usato per il thé, che quella volta non veniva venduto nelle bustine, ma sciolto. SCÒLO, s.m.: Gonorrea. Blenorragia. Malattia venerea


per infezione da gonococco di Neisser, così chiamata anche dalla categoria medica, per la fuoriuscita di liquido sieroso e purulento da un orifizio naturale.

anche per definire persona di poco conto: A şé ‘na méşa scoréşa.

SCOLTÀR, v.: Ascoltare. Ubbidire. Adeguarsi.

SCOREŞÀR, v.: Scoreggiare. Flatare. Gò vìsto Mario ieri sera. A devi gavér magnà polénta e faşòi par séna. A caminàva e a scoreşàva come un tréno.

SCÒMBRO, s.m.: Sgombro. Pesce di mare.

SCOREŞÒN, agg.: Persona usa a scoreggiare.

SCOMÈSA, s.f.: Scommessa.

SCORLÀR, v.: (v. Scurlàr) Scrollare. Scuotere. Agitare.

SCOMÈTER, v.: Scommettere. SCOMINSIÀR, v.: (v. Cominsiàr) Cominciare. Iniziare. Sarìa ora de scominsiàr. SCOMPÒNERSE, v.: Scomodarsi. Reagire. SCONDARIÒLA, s.f.: Di nascosto. Nascondiglio. Sotterfugio. SCÒNDER, v.: Nascondere. SCÒNDERSE, s.m.: Nascondino. Rimpiattino. Gioco quasi quotidiano dei bambini isolani, assieme a Còrerse drìo (v.). SCONDÌ, agg.: Non condito. SCONDÒN, avv.: Di nascosto. SCONFASÀR, v.: Sfasciare. Rompere. Sconquassare. SCÒNTO, s.m.: Nascosto. Pàr vignìr qua, a şé ‘ndà pàr le scònte. SCONTRÀR, v.: Scontrare. Urtare. SCÒPA, s.f.: Scopa. Il gioco delle carte. SCOPASÒN, s.m.: Scapaccione. SCOPÈLA, s.f.: Scappellotto. Scapaccione. SCOPELÒTO, s.m.: Scappellotto. Scapaccione. SCORDÀR, v.: Scordare. Dimenticare. A se gà scordà de ‘ndàr a lavoràr. SCORÈŞA, s.f.: Scoreggia. Flato. Peto. In senso spregiativo usato

SCORLÒN, s.m.: Scrollata. Benedéto fìo, àra de dàrte un scorlòn se te vòl fàr qualcosa: no şé témpi pàr dormìr in pìe. SCÒRSA, s.f.: Scorza. Buccia. Roba ciapàda par fòrsa no vàl ‘na scòrsa. SCORSÀ, agg.: Sbucciato. SCORSÀR, v.: Sbucciare. SCORSÌN, s.m.: Fune sottile. Per la sua sottigliezza e per la robustezza veniva usata dai pescatori per le barche a vela. SCOSÒN, s.m.: Scossone. Urto. SCORTIGÀR, v.: Scorticare. SCÒTA, s.f.: Scotta. Cavo usato dai pescatori per distendere le vele al vento. SCOTÀ, agg.: Scottato. SCOTADÈO, avv.: Scottato. Àla scotadéo… Modo di preparazione del pesce e della carne sul grill, a fuoco vivo. Doménega iérimo ‘na bela compagnìa e se sémo fàti ‘na béla magnàda de pési a la scotadéo. SCOTADÌNA, s.f.: Scottatina. Scottata. Se te vòl che la càrne la sìa tènera bàsta dàrghe una scotadìna. SCOTÀR, v.: Scottare. Vedere la differenza con il termine (v.) şbrovàr che viene usato per

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scottature e ustioni provocate da acqua bollente. Il verbo viene usato anche in senso figurativo per significare una spiacevole esperienza: A pensava de far falìsche, e invése a gà ciapà ‘na brùta scotàda. SCÒVA, v.: Scopa. L’arnese di ogni massaia per pulire la casa. Scòva nòva scòva bén. La scòva pàrla màl del mànigo. A stà sempre cusì drìto come se a gavèsi ingiotì el mànigo dela scòva. SCOVÀDA, s.f.: Spazzata. Scopata. Ramazzata. Indòve che pàsa el prète basta dàrghe una scovàda ala svèlta. Molto conosciuta la canzone popolare: Ciòla Bèpi che la şè belìna, la scòva la cuşìna, la nèta ‘l fogolèr...

SCREANSÀ, agg.: Screanzato. Maleducato. Villano. SCREMENÀ, agg.: Spettinato. Scarmigliato. SCRIBACIÀR, v.: Scribacchiare. Scarabocchiare. SCRIBACÌN, s.m.: Scribacchino. Scrivano. SCRICÀR, v.: Scricchiolare. Crepitare. SCRÌLA, s.f.: Lastra di pietra. Entrata nel dialetto locale solo negli ultimi decenni e importata dai dialetti slavi dell’interno dell’Istria, come testimoniato dal Rosamani nel suo “Vocabolario Giuliano”. SCRIVÀN, s.m.: Scrivano.

SCOVÀR, v.: Scopare. Ramazzare. Pulire.

SCRÌVER, v.: Scrivere. A scrìvi àla bòna, come che càpita.

SCOVÀSA, s.f.: Spazzatura. Pattume. Gìgi oramai a şé ‘na scovàsa.

SCROCÀR, v.: Scroccare. Approfittare.

SCOVASÈRA, s.f.: Pattumiera.

SCRODIGÀR, v.: Scorticare. Togliere la pelle. Nel senso di togliere la cròdiga (v.).

SCOVASÌN, s.m.: Spazzino. Oggi si direbbe “addetto alla nettezza urbana”, oppure politicamente ancora più corretto “operatore ecologico”. SCOVASÒN, s.m.: Immondezzaio. Scarica rifiuti. SCOVÈRŞER, v.: Scoprire. Scoperchiare. SCOVÈRTO, agg.: Scoperto. Te gà ciapà frèdo parchè te dormìvi còl cùl scovèrto. SCOVOLÌN, s.m.: Scopino. Piccola scopa. SCÒVOLO, s.m.: Scopino. El scòvolo del céso.

SCROCÒN, s.m.: Scroccone.

SCRÒVA, s.f.: Scrofa. Porca. La femmina del maiale. A Isola, ma crediamo anche in tutta l’Istria, veniva usato per donna di malaffare., ma anche come ingiuria: tu’ màre scròva. SCROVÀDA, s.f.: (v. Porcàda) Azione riprovevole. SCROVÒN, s.m.: Donna di malaffare. Prostituta. SCÙBIA, s.f.: Succhiello. Sgorbia. Scalpello concavo per intagli nel legno.

SCOVOLÒN, s.m.: Scopone. Grande scopa.

SCÙFIA, s.f.: Cuffia. Sbornia. A gà ciapà ‘na scùfia che a no stàva in pìe.

SCRAVÀSO, s.m.: Scroscio d’acqua. Rovescio di pioggia.

SCUFIÒTO, s.m.: Scappellotto. Fìgo scufiòto (v.).

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SCULASÀDA, s.f.: Sculacciata. SCULASÀR, v.: Sculacciare. SCUOLA, s.f.: Congregazione. Mentre per la scuola vera e propria l’Isolano pronunciava Scòla (v.), il termine di Scuola serviva soltanto per identificare le diverse congregazioni religiose, che a Isola non erano poche. Come la Scuola dei Battuti, la Scuola di S. Andrea, la Scuola della Madonna del Carmine. Forse in segno di rispetto. SCURÈTA, s.f.: Asse di legno. In base a vecchie testimonianze le assi di legno un tempo avevano lo spessore di 13 mm. La tavole, invece, erano di 20 o 25 mm, con una lunghezza standard di 4 metri. I ponti (v.) andavano dai 30 mm in su. Il termine serviva anche per indicare persona dalla figura esile e mingherlina. SCÙRIA, s.f.: Frusta. Veniva usata soprattutto dai carradori (v.) e dai cocchieri per incitare i cavalli.

SCUŞIÈR, s.m. Cucchiaio. Antico termine preso direttamente dal veneto, ma da tempo ormai completamente sostituito da cuciàr (v.). In alcune località dell’Istria la parola era in voga fino a pochi decenni fa, anche se con qualche piccola variante: secondo il Rosamani, infatti, il termine sarebbe stato presente nella versione di scuşéra oppure scuşér. SCUSÌR, v.: Scucire. ŞDENTÀ, agg.: Sdentato. Senza denti. SÈ, cong.: Se. Se pàr ti và bèn, và bèn anca pàr mi. SÈ, pr.: Sè stesso. Se stessi. No i sà fàr altro che parlàr de sè. SÈA, s.f.: (v. Sìlia) Ciglio e Sopracciglio. Al plurale Sée. SÈA, s.f.: Setola. I peli del maiale. SEBOÌ, agg.: Cibo riscaldato più volte.

SCURIÀDA, s.f.: Frustata. Sferzata.

SÈCA, s.f.: Bassa Marea. Marea tanto bassa da far toccare il fondo delle imbarcazioni.

SCURÌR, v.: Diventare scuro. El siél se gà scurì e ris’cia de vignìr piòva.

SECABÌŞI, s.m.: Persona molesta. Scocciatore. Rompiscatole. SECÀDA, s.f.: Seccatura. Fastidio.

SCURLÀR, v.: (v. Scorlàr) Scrollare. Scuotere. Agitare.

SECÀR, v.: Seccare. Importunare. Disturbare. Infastidire.

SCÙRO, s.m.: Buio. Scuro.

SECÀR, v.: Essiccare. Disidratare.

SCÙRO, s.m.: Persiana. Anta di finestra. Imposta esterna di finestra. Il nome probabilmente deriva dal fatto che essendo costruiti di tavole di legno compatte e senza fessure, gli scùri una volta chiusi immergevano la stanza nel buio più completo.

SECÈL, s.m.: Secchiello.

SCURTÀR, v.: Abbreviare. Accorciare.

SECÙME, s.m.: Siccità. Vàrda ‘l secùme déle fòie: se no piòvi presto, sto àno l’ùa va a fàrse frìşer.

SCURTARIÒLA, s.f.: Scorciatoia. Se te vòl podémo ciapàr la scurtariòla par rivàr prìma.

SECHÌN, s.m.: Zecchino. SÈCIO, s.m.: (v. Stagnàco) Secchio. Piòver a séci. SÈCO, s.m.: Siccità. SÈCO, agg.: Secco. Arido.

SÈDA, s.f.: Seta.

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SÈDE, s.f.: Sete. Te gà séde? Gràta caréghe. Te gà fàme? Gràta coràme!

SEMPIÀDA, s.f.: Stupidaggine.

SÈDIŞE, num.: Sedici.

SÈMPIO, agg.: Stupido. Sciocco.

SEGADÙRA, s.m.: Segatura. SEGÀR, v.: Segare. Falciare. SEGÀSO, s.m.: Segaccio. Grossa sega. Sega a lama larga con manico che veniva usata con una sola mano. SEGHÉTO, s.m.: Seghetto. Piccola sega ad arco. Seghéto de trafòro. SEGHÌN, s.m.: Piccola sega. Serve per tagliare i rami degli alberi. SEGNÀR, v.: Segnare. Annotare. A gà segnà dùto còl làpis. SEGÒN, s.m.: Grande sega a lama larga. Con dei manici alle due estremità veniva usata per tagliare grossi tronchi d’albero. SÈLEGA, s.f.: (v. Càpa lònga) Cappalunga. Mollusco di mare commestibile. SÈLIER, v.: (v. Siélşer) Scegliere.

SEMPIÈSO, s.m.: Sciocchezza. Stupidaggine. SEMPIÒLDO, agg.: Stupidino. Ma va là sempiòldo, che no te capìsi gnénte. SÈN, s.m.: Senno. Giudizio. SÈN, s.m.: Seno. Grembo. Petto. ŞÈNA, s.f.: Scanalatura nella doga dentro la quale prende posto il coperchio della botte. SÈNA, s.f.: Senna. Pianta erbacea medicinale usata per il suo effetto purgante. SÈNA, s.f.: Cena. Chi che và a dormìr sènsa sèna, dùta la nòte se remèna. SENÀR, v.: Cenare. ŞENÀRO, s.m.: (v. Genàio) Gennaio. SÈNERA, s.f.: Cenere. ŞÈNERO, s.m.: Genero.

ŞEMÈL, s.m.: (v. Gemèl) Gemello.

SÈNGIA, s.f.: Cinghia. Cintura. Il termine indicava la cinghia che passando sotto la pancia del somaro teneva fermo e stabile il bàsto (v.) dell’asino.

SEMENÀ, agg.: Seminato.

ŞENÒCIO, s.m.: Ginocchio.

SEMENÀR, v.: Seminare.

SÈNSA, prep.: Senza.

SEMÈNSA, s.f.: Semenza. Seme.

SÈNSA, s.f.: Festa dell’Ascensione di M.V. Se piòvi per la Sènsa quaranta şòrni no sèmo sènsa. Pàr la Sènsa el formènto và in semènsa.

SÈLINO, s.m.: Sedano. SEMÀR, v.: Scemare. Diminuire. Smorzare. Calare.

SEMENSÌNA, s.f.: Chiodino per calzolaio. SEMÈNTO, s.m.: Cemento. SÈMOLA, s.f.: Crusca. Efelidi. La mùla la gà el mùşo pién de sémola. SEMOLÌN, s.m.: Cruschéllo. Farina integrale. Mentre oggi il pane integrale è addirittura più costoso del pane bianco. Un tempo, il semolìn veniva usato per preparare il mangime delle galline.

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SENSÀL, s.m.: (v. Sansàl) Sensale. Mediatore. SENSARÌA, s.f.: Il costo stabilito per la mediazione. ŞENŞÌVA, s.f.: (v. Gingìva) Gengiva. SÈNSO, s.m.: Impressione. Disgusto. Co védo ‘ste ròbe, ma fa sempre sénso.


SENTÀ, v.: Seduto. SENTÀR, v.: Sedere. ŞÈNTE, s.f.: Gente. SENTENÈR, s.m.: Centinaio. Termine ormai completamento scomparso dall’uso quotidiano e, credo, anche dal ricordo degli Isolani. ŞENTÌL, agg.: Gentile. Cortese. SENTÌNA, s.f.: Sentina. Il fondo interno della barca, dove si raccoglie l’acqua ed è coperto dal (v.) paiòl. SENTÌR, v.: Sentire. Udire. Se te gavèsi sentì quèl che a dişèva, te se varìa impirà i cavèi. SÈNTO, s.m.: Piccolo muro. La parola apparteneva ai due muretti che nelle cantine dei contadini, in parallelo, avevano il compito di sostenere le botti del vino che, a loro volta, poggiavano su dei travicelli. Ricordo, che nella cantina di mio padre, al posto del sénto, i travicelli di sostegno alle botti poggiavano su delle pietre trovate lungo la ferrovia della Parensàna (v.) con su segnati i chilometri di distanza da Trieste. SÈNTO, num.: Cento. SENTOPÌE, s.m.: Millepiedi. SENTÒN, agg.: Seduto. Posizione da seduto. SÈPA, s.f.: Seppia. La sépa si trovava spesso sul tavolo degli Isolani, fritta o in umido, sia per la bontà della sua carne, sia per il prezzo contenuto, dovuto ad un’abbondante presenza nel nostro mare. No vardàrme co quéi òci de sépa. SEPELÌR, v.: Seppellire. Sotterrare. Co a şè mòrto, i lo gà sepelì sènsa el prète. SEPETÒN, s.m.: Rammendo fatto

male. Anche taglio di capelli irregolare. SEPOLÌNA, s.f.: Seppiolina. Piccola seppia. SÈRA, s.f.: Serra. Conserva. Costone roccioso. SÈRA, s.f.: Cera. SÈRA, s.f.: Sera. Il tardo pomeriggio prima della notte. SERÀ, agg.: Chiuso. SERADÙRA, s.f.: Serratura. SERAMÈNTI, s.m.pl.: Persiane. Imposte. SERÀR, v.: Chiudere. Serrare. Dòve che el ràto scomìnsia a ‘ndàr pàr in şò bìa seràr el şlàif. SERCANTÌN, s.m.: Accattone. Mendicante. SÈRCA (La), s.f.: Elemosina. L’elemosinare dei frati. SERCÀR, v.: Cercare. Assaggiare. Tentare. Gustare. Chi sérca tròva. Sérca la minéstra se la şé salda. No şé fàsile, ma sercarémo de fàrghela. SÈRCIO, s.m.: Cerchio. Stasèra la lùna la gà el sèrcio.Bişògna dàrghe un còlpo al sèrcio e un còlpo ala bòta. SERCIÒN, s.m.: Cerchione. El serciòn dela ròda. ŞÈRGO, s.m.: Gergo. Dialetto. Parlata locale. A pàrla in un şèrgo che a no şè işolàn. ŞERMÀN, s.m.: (v. Şòrmàn. Cugìn) Cugino. Germano. ŞERMÀNA, s.f.: Cugina. SÈRPA, s.f.: Serpe. Biscia. SERPENTINA, s.f.: Coriandolo. Rotolino di carta colorata usata nelle feste e soprattutto per carnevale per gettarla addosso alle persone.

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SÈRTO, avv.: Certo. Certamente. SERVÈL, s.m.: Cervello. SERVÌR, v.: Servire. Che comàndi chi che pòl e che sèrvi chi che dèvi. SERVISIÀL, s.m.: (v. Sotratìvo) Clistere. Léto e servisiàl guarìsi ogni màl. SERVÌSIO, s.m.: Servizio. ŞÈRVO, agg.: Acerbo. Aspro. Non maturo. SÈRVO, s.m.: Servo. Merita trascrivere dal suo volume sulla parlata isolana la testimonianza di A. Vascotto: “Da noi non esisteva la figura del servo, tutt’al più quella del “famèo” (v.), che ad esso era inferiore o superiore, a seconda dei punti di vista: il servo contava su uno stipendio, mentre il “famèo” aveva solo “l’argent de poche” oltre al vitto e alloggio e vestierio, ma era moralmente trattato come uno di famiglia, infatti i figli di casa non avevano di più, salvi rari casi. Più usata la “sèrva”, anche se erano pochissime le famiglie che ne avessero una. Essa veniva trattata sempre con urbanità, senza spocchia.” SÈRVO DE MARÌA, n.pr.: Ordine religioso. Vi appartenevano i frati dell’Ordine dei Servi di Maria, arrivati a Isola nel XII secolo e che si insediarono nel Convento situato presso la Chiesetta di Santa Caterina, dove diedero vita anche ad un ospizio per i poveri. A partire dal 1419, alcuni locali del convento e dell’ospizio vennero dedicati alla scuola pubblica. I frati dell’Ordine del Servi di Maria furono presenti a Isola fino agli inizi del XVIII secolo. ŞÈŞA, s.f.: Gioco di bambini. Anche questo gioco, ormai scomparso da giochi dei bambini isolani,

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merita descriverlo con le parole di A. Vascotto: “Il bambino che comincia si suppone che abbia la şèşa, qualcosa di indefinibile, invisibile ma indesiderabile, di cui ci si debba sbarazzare alla svelta, passandola ad un compagno. il gioco trova l’ambiente ideale in un cortile, che dà spazio per corse ma è delimitato, sennò uno che non vuol prendere la şèşa può involarsi. Il passaggio della şèşa avviene con un rapido tocco del possessore ad un altro. E si continua a passare lo sgradito fantasma, finchè si è stufi o stanchi. Si può adottare la ragionevole norma che uno che riceve la şèşa non può ridarla subito a chi gliel’ha rifilata, altrimenti il gioco diverrebbe uno scambio monotono, senza le corse e scalmanate, gioia dei bambini.” SEŞÀME, s.m.: Piatto a base di pesce. Veniva preparato con pesce azzurro come sardelle, acciughe o sgombri. Dopo fritto il pesce veniva rimesso nuovamente nell’olio in cui era stato fritto, dopo che questo era stato arricchito con concentrato di pomodoro diluito, alloro, sale e pepe. Il tegame con il sugo così ottenuto veniva rimesso per qualche minuto sul fuoco e servito poi caldo assieme a qualche fetta di polenta. SEŞARÒTO, s.m.: (v. Èrba imbriàga) Loglio. Pianta delle graminacee che infesta i campi seminati a cereali. SEŞENDÈL, s.m.: Incensiere. Lumino. SÈŞOLA, s.f.: Falce grande. Serve per mietere il grano o falciare l’erba sotto i cespugli, dove non è raggiungibile con la sega. SÈSOLA, s.f.: Sassola. Grosso cucchiaio di legno usato dai


pescatori per vuotare l’acqua entrata nella barca. Con lo stesso nome veniva indicato anche il grosso cucchiaione che si usava per prendere il grano dal sacco dove era conservato. SEŞOLÀR, v.: Mietere o tagliare l’erba con la seşola (v.). SÈSTA, s.f.: Cerchio di panno imbottito. Le donne isolane lo mettevano in testa sotto il paniere (v. Pianér) o sotto la mastéla (v.) dell’acqua per due motivi: primo perché avendo una base più larga del cranio potevano mantenere il fardello in equilibrio con più facilità; in secondo luogo perché, essendo imbottiti, non premevano direttamente sul cranio. Da immaginare la fatica di chi portava in testa un recipiente con 20-30 litri di acqua anche per mezz’ora: per esempio da Fontana Fora (v.) a Piàsa Grànda. Ancora più lungo e pesante il percorso delle contadine che da Costerlàgo (v.) oppure da Lavoré (v.) portavano in testa panieri pieni di fragole fino a Isola. SÈSTO, s.m.: (v. Pianèr) Cesto. Paniere. Chi no se conténta del’onésto, a pérdi el mànigo con dùto ‘l sésto. SÈSTO, s.m.: Mettere in ordine. Modo di fare o di essere. Co te gà témpo méti in sésto sta ròba. Ògi non me sénto in sésto. SETÀNTA, num.: Settanta. SETÀNTADÒ, num.: Settantadue. SÈTE, num.: Sette. SETÈMBRE, s.m.: Settembre. SETESÈNTO, num.: Settecento. ŞÈTO, s.m.: Germoglio. Gemma. L’attacco con il quale i molluschi bivalve sono attaccati alla roccia. SÈVO, s.m.: Sego. Grasso.

SFACHINÀDA, s.f.: Faticaccia. SFACHINÀR, v.: Sfacchinare. Lavorare sodo. SFADEGÒŞO, agg.: Faticoso. Gravoso. Stancante. SFADIGÀR, v.: Faticare. SFADIGÀDA, s.m.: Stancata. Sfaticata. SFADIGÒN, s.m.: Sgobbone. SFÀŞA, s.f.: Cornice. SFAŞÀ, agg.: Fuori fase. Sfasato. Fuori norma. Usato anche per indicare persona che non ragiona: a şé pròpio sfaşà. SFASÀR, v.: Sfasciare. Distruggere. A gà sfasà la màchina. SFÀŞO, s.m.: Pesce di mare. Assomiglia al rombo, altrettanto prelibato. SFÀTO, agg.: Disfatto. Stanco. Confuso. In disordine. SFEGATÀ, agg.: Sfegatato. Senza paura. SFÈRA, s.f.: Lancetta dell’orologio. SFÈSA, s.f.: Fessura. Pertugio. SFÌGA, s.f.: Sfortuna. SFIGÀ, agg.: Sfortunato. SFILASÀR, v.: Sfilacciare. SFIORÌ, agg.: Sfiorito. SFIORÌR, v.: Sfiorire. SFÌSIO, s.m.: Sfizio. Capriccio. SFODRÀR, v.: Sfoderare. SFOGÀR, v.: Sfogare. Scaricare. SFOGÒŞO, agg.: Focoso. Esuberante. Irritato. SFÒIA, s.f.: Sogliola. Pregiato pesce di mare. SFÒIA, s.f.: Sfoglia. Pasta stesa in strato molto sottile. SFOIÀR, v.: Sfogliare.

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SFÒIA TÙRCA, s.f.: Sogliola turca. Buona, ma meno pregiata. SFONDRÀ, agg.: Disonesto. SFONDRÒN, s.f.: Baldracca. Donna di facili costumi. Pròpio co quèl sfondròn te sòn ‘ndà a mèterse. SFORSÀR, v.: Forzare. Costringere. SFORSÌN, s.m.: Cordicella robusta. Usata dai pescatori , ma anche da altri, per la sua robustezza. SFÒRSO, s.m.: Sforzo. SFORTUNÀ, agg.: Sfortunato. SFÒTER, v.: (v. Remenàr) Sfottere. Prendere in giro. SFRACASÀR, v.: Fracassare. Rompere. SFREDÀR, v.: (v. Sfredìr) Raffreddare. SFREDÌR, v.: (v. Sfredàr) Raffreddare. SFREGÀR, v.: Sfregare. Grattare. Strofinare.

con un tòco de pàn. El gràso, invése, lo metévimo in tei biciéri fina che el diventava distrùto (v.) bianco e duro. ŞGABUSÌN, s.m.: Sgabuzzino. Piccola stanza. ŞGÀIO, agg.: (v. Şgaiòto) Vivace. Sveglio. Brioso. Furbo. El mùlo me gà ànda de şgàio. ŞGAIÒTO, agg.: (v. Şgaiò) Vivace. Sveglio. Brioso. Furbo. ŞGAMBÈTA, s.f.: Sgambetto. ŞGANASÀR, v.: Ridere forte. Ridere a crepapelle. Ièra de sganasàrse de rìder. ŞGANASÒN, s.m.: Schiaffone. Sberla. ŞGANSÀR, v.: Sganciare. Mollare. Ş’GIONFÀR, v.: Gonfiare. ŞGANGHERÀ, agg.: Malmesso. Sgangherato. ŞGANSÀR, v.: Sganciare. Mollare. ŞGARÀR, v.: Sbagliare. Sgarrare.

SFREGOLÀR, v.: Sbriciolare. Co se màgna i biscòti fàti in càşa bişogna stàr ‘tènti che i no se sfrègoli.

Ş’GIÒNFO, agg.: Gonfio. Sazio. Persona grassa.

SFRIŞÀR, v.: Sfregare. Sfregiare. Graffiare un superficie liscia.

Ş’GIONFÀRSE, v.: Abbuffarsi.

SFRÌŞER, v.: Friggere. Soffriggere.

Ş’GIONFÀDA, s.f.: Scorpacciata. Gran mangiata. Ş’GIONFÀR, v.: Gonfiare. Riempire.

SFRÌŞO, s.m.: Sfregio. Logorio. Graffio. Segno lasciato su una superficie liscia.

ŞGNACÀR, v.: (v. Şmacàr) Buttar via. Gettare addosso. Gettare per terra. Usato anche per dire qualcosa a qualcuno con violenza.

SFRÌŞOLO, s.m.: Cicciolo. Quanto resta di un pezzetto di lardo dopo che con il calore gli è stato tolto tutto il grasso. Un pér de setimàne dopo che gavévimo copà el pòrco, taiàvimo a tochéti el làrdo e lo metévimo a frişer in una gròsa pignàta. Quando dùto el gràso iéra vognù fòra, strucàvimo ancora i sfrìşoli fìna che i ìéra squasi sùti. Alòra li magnavìmo

ŞGNÀPA, s.f.: (v. Tràpa) Grappa. Il termine poco in uso a Isola perché sostituito da tràpa. È stato preso dal friulano e dalla vicina Trieste di origine tedesca: Schnaps.

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ŞGNÀCHETE, avv.: Subito. Improvvisamente. Iéra do setimane che no lo se vedéva in gìro, e invése ieri séra, şgnàchete, éco ch’el te capita davanti come se nol fùsi mai ‘ndà via.


ŞGNÈSOLA, s.f.: Piccolezza, Cosa piccola. Anche persona piccola o da poco. ŞGOBÀR, v.: Sgobbare. Lavorare sodo. ŞGOBÒN, s.m.: Sgobbone. Gran lavoratore. ŞGOLÀRSE, v.: Urlare. Sgolarsi. ŞGRAFÀ, agg.: Graffiato. ŞGRAFADÙRA, s.f.: Graffio. Graffiatura. ŞGRAFÀR, v.: Graffiare. ŞGRAFIGNÀR, v.: Rubare. Rubacchiare. Sottrarre. A gà sgrafignà dùto quèl che a podèva. ŞGRÀFO, s.m.: Graffio. ŞGRANÀR, v.: (v. Deşgranàr. Dişgranar) Sgranare. Sgranàr i faşòi, i bìşi, le panòce de formentòn. ŞGROSÌN, s.m.: Pialla per rifiniture. Usato dai falegnami.

SIADÒR, s.m.: Sciatore. SIÀL, s.m.: Scialle. SIÀR, v.: Sciare. Il verbo forse era conosciuto anche a Isola, ma non credo che – almeno fino agli anni Sessanta del secolo scorso un Isolano sia mai andato in vacanza a sciare. Il termine però veniva usato tra i canottieri, come ci insegna il Vascotto: Siàr rappresentava un movimento relativo alle imbarcazioni. Vòga e sìa sta ad indicare una maniera di dimenare il remo in modo da spingere la barca senza deviarne di molto la direzione. Siàndo, infatti, si correggeva la direzione del natante dando una spinta in avanti. Più tardi, con l’introduzione delle barche a motore, il termine vòga veniva usato sia per andare “avanti” che “indietro”. SIÀRPA, s.f.: Sciarpa. SIARPÈTA, s.f.: Cravatta.

ŞGUÀITA, v.: Spiare. Fare la guardia. Sorvegliare.

SICÒRIA, s.f.: Cicoria.

ŞGUÀNSE, s.f.pl.: Branchie. Quelle che i pesci usano per respirare.

SICURA, s.f.: Siccità. Aridità. Gran secco.

ŞGUASÈTO, s.m.: (v. Sguàso) Sugo. Intingolo. Guazzetto. Sugo preparato con soffritto, carne bollita e spezie a piacimento.

SÌE, num.: Sei.

ŞGUASÀR, v.: Guazzare. Vivere nell’abbondanza. ŞGUÀSO, s.m.: (v. Şguasèto) Sugo di carne o altro. Spreco. (v. Sariéşe in sguàso) ŞGUATARÀR, v.: Sciacquare. Risciacquare. Giocare con l’acqua. SÌ, avv.: Si. SI, cong.: Se. La me dàghi diéşe lire, si no… Si no, cosa?… Si no, vago via… SÌA, s.f.: Scia.

SICÙME, s.m.: ( v. Sicùra) Siccità.

SIÈL, s.m.: Cielo. Già a partire dagli anni 40-50 del secolo scorso, la parola abbandonò l’influsso veneto e si avvicinò alla lingua italiana, diventando Cél (v.), che viene usato anche nel dialetto odierno. SIÈLŞER, v.: (v. Sélier) Scegliere. Mi siélşo. Ti te siélşi. Lù siélşi. Noi sielşémo. Voi sielşé. Lòri i sielşi. SIÈLTA, s.f.: Scelta. Nei decenni che seguirono il secondo conflitto mondiale, quando la Comunità Italiana venne ridotta nella condizione di esigua minoranza nazionale, tra i suoi funzionari imposti dal regime, ce n’era uno (aveva raggiunto anche livelli

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importanti nella graduatoria sociale), il quale, per far piacere al Potere Popolare, amava ripetere che i pochi Italiani rimasti dopo l’esodo, lo avevano fatto per una precisa siélta. In bocca sua, con il passare degli anni, il termine assunse una caratteristica ed un significato che, oltre ad indicare il personaggio, facevano capire che si era trattato di tutto fuorché di una vera e propria scelta. SIÈNSA, s.f.: Scienza.

memoria, viene sempre usata la forma italiana, soprattutto quando si tratta di maglia aperta davanti e con dei bottoni. SILÈLA, s.f.: (v. Bonbòn) Caramella. Dolcetto. Sempre non avvolti nelle tipiche carte dei bonbòni. SILÈNSIO, s.m.: Silenzio. SÌLIA, s.f.: Ciglia e anche Sopracciglia.

SIESÈNTO, num.: Seicento.

SILÒSTRO, s.m.: Cero con il manico lungo. Usato specialmente nelle processioni religiose. In senso figurativo, il termine veniva usato anche per indicare persona lunga e allampanata, oppure individuo irritante e noioso.

SIÈVOLO, s.m.: (v. Volpìna) Cefalo. Pesce marino.

SÌMA, s.f.: Cima. Estremità. Bùta la sìma.

SIFÒN, s.m.: Sifone. Selz.

SIMÀR, v.: Cimare. Troncare. Accorciare. Ridurre.

SIÈRA, s.f.: Cera. Aspetto. Colorito. Bàsta vedérghe la siéra per capìr che a stà màl. SIÈRO, s.f.: Tentacolo. Cirro.

SIGÀDA, s.f.: Sgridata. Rimprovero. Urlo. SIGÀLA, s.f.: Cicala. SIGÀLA DE MÀR, s.f.: Cicala di mare. Magnosa. Crostaceo di mare. Commestibile. SIGALÒN, s.m.: Strillone. Persona che parla ad alta voce. SIGÀR, v.: Gridare. No stà sigàr tànto che me fa màl le réce. SÌGO, .s.m.: Grido. Urlo. Strillo. ŞIGÒTO, s.m.: Gambo lungo dell’aglio, della cipolla, del porro o dello scalogno. Per intenderci, soltanto la parte tenera e polposa del gambo, prima che questo si schiuda per dar origine al fiore. Veniva usato sia lesso nelle insalate, oppure fritto assieme alle uova o, ancora, aggiunto ai diversi soffritti per qualche sugo di carne. ŞILÈ, s.m.: Gilé. Panciotto. Per la verità poco usato e, per quanto riesca ad andare indietro con la

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SÌMBERLE, s.f.pl.: Prugna selvatica. Poco diffusa. SÌMIA, s.f.: Scimmia. SIMIÒTO, s.m.: Scimmiotto. Inteso anche come termine simpatico per i bambini cui piace imitare i grandi. Te sòn pròpio un simiòto. SÌMIŞO, s.m.: Cimice. Pare che oggi si sia persa la memoria di questo insetto fastidioso e ripugnante che un tempo invadeva le case, i mobili, indumenti e persone. Il termine veniva indicato figurativamente anche per indicare persona taccagna e non piacevole. SIMITÈRIO, s.m.: Cimitero. Camposanto. L’attuale sito del cimitero in zona Calelarga (v.) venne istituito nel 1883, dopo che il vecchio cimitero che si trovava a Punta Gallo rischiava durante le mareggiate di veder scoperta qualche tomba. La cappella di San Michele, invece,


è stata eretta nel 1886. A quella data risalgono ancora alcune tombe presenti nel cimitero e che andrebbero certamente tutelate e adeguatamente custodite. SÌMO, s.m.: Ramo. Fronda d’albero. SÌNA, s.f.: Rotaia. Probabilmente deriva dal tedesco “Schiene”. Le sìne del tréno. ŞINCÀ, agg.: Zincato. Nel tempo, quando a Isola non esisteva ancora l’acqua corrente dell’acquedotto che, come si ricorderà, è stata portata in città con la costruzione dell’Acquedotto del Risano (v.) le casalinghe isolane erano costrette a portare l’acqua nelle mastéle (v.) e nei stagnàchi (v.) attingendola addirittura alla sorgente di Fontàna Fòra (v.). I recipienti erano quasi sempre fabbricati dai bandai isolani con lamiere di ferro şincàde, zincate appunto. SINGANÀR, v.: Allettare. Chiedere con insistenza. Elemosinare. SÌNGANO, s.m.: Zingaro. ŞÌNCO, s.m.: Zinco. SINISTRÀR, v.: Fare male. SINQUÀNTA, num.: Cinquanta. SINQUANTÌN, s.m.: Cinquantino. Moneta da 50 centesimi. Così viene chiamata anche una specie di mais, perché dalla semina al raccolto ci vogliono più o meno due mesi di tempo e viene seminato, appunto dopo aver portato a termine il raccolto primaverile. SÌNQUE, num.: Cinque. SINQUEMÌLA, num.: Cinquemila. SINQUESÈNTO, num.: Cinquecento. SINSIÈRO, agg.: Sincero. Schietto. Leale. Non ubriaco.

SINSINCÒDOLA, s.f.: Cingiallegra. Piccolo uccello simile al passero. ŞÌNŞOLA, s.f.: Donna volubile, e leggera. Deriva da şinşolàr (v.). ŞINŞOLÀR, v.: Tentennare, vacillare. Essere insicuro. Ciondolare. Me şìnşola un dénte. SÌNTER, s.m.: Accalappiacani. Evidentemente non di origine italiana o istroveneta, quanto piuttosto tedesca. Veniva usato anche per spaventare i più piccoli, pur se non sapevano il significato della parola. Àra che se no te stàghi bòn, vàdo a ciamàr ‘l sìnter. SINTÙRA, s.f.: Cintura. SINTURÌN, s.m.: Cinturino. ŞÌO, s.m.: Zio. Se dùto quél che védo sarìa mio e quel che no védo de mio şìo, alòra morto mio şìo sarìa dùto mio! ŞIÒBA, s.m.: Giovedì. Probabilmente il termine era ancora usato agli inizi del secolo scorso. Per quanto mi ricordo, almeno a partire dagli anni ’40 non mi sovviene di averlo sentito. Anche nel volume del Vascotto non c’è alcuna indicazione sulla sua provenienza, ma è presente anche nel Dizionario Storico del Dialetto di Capodistria di Giulio Mancini e Luciano Rocchi. ŞIODÀR, v.: (v. Şvodàr) Vuotare. ŞIÒDO, agg.: (v. Şvòdo) Vuoto. Fa parte di quelle regole, quando la U che segue la Ş dolce e anticipa una vocale si trasforma in I. ŞIOGÀR, v.: (v. Şogàr) Giocare. SIÒLA, s.f.: Suola. Vàrda che pàr quel me me riguarda lo gò sòto le siòle. SIOLÀR, v.: Suolare. Mettere la suola. Dopo pransà dovarò ‘ndàr dal caleghér parché a me siòli le scarpe.

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ŞIOLÀR, v.: (v. Şvolàr) Volare. SIOLÈTA, s.f.: Piccola e sottile suola. Si metteva all’interno delle scarpe per renderle più comode, soprattutto quando si comperavano calzature per bambini maggiorate di un numero perché potessero durare anche l’anno successivo, quando il piede sarebbe certamente cresciuto. SIÒN, s.m.: Vortice. Tromba d’aria. Bufera. SIÒR, s.m.: Signore. A şé pròpio un siòr! SIÒRA, s.f.: Signora. SIÒRE, s.f.pl.: Popcorn. Per pura curiosità merita accennare al fatto che con termine di siòre venivano chiamati i grani del mais che, messi sul fuoco, scoppiavano. Oggi li chiamano popcorn. ŞIRÀR, v.: (v. Giràr) Girare. Voltare. Anche di questo verbo ormai si è persa la memoria in quanto viene usato sempre Giràr. SIROCÀL, s.m.: (v. Siròco) Scirocco. Vento caldo da SE, più forte del normale siròco e portatore di nubi e pioggia. SIRÒCO, s.m.: (v. Sirocàl) Scirocco. SIRÒTO, s.m.: (v. Tacamàco) Cerotto. Cataplasmo. In senso figurativo usato anche per indicare persona attaccaticcia della quale era difficile liberarsi: a sé péşo de un siròto. ŞIŞIÀL, s.m.: Ditale. Quello che le donne quando cucivano si mettevano sul dito per non pungersi con l’ago, oppure per spingere l’ago dove la stoffa era troppo pura per essere perforata soltanto con l’uso delle dita. Faceva parte dell’arredo obbligatorio di ogni donna isolana che, solitamente si teneva in

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una bella scatola colorata, che originariamente magari conteneva caramelle o biscotti. Ricordo che mia mamma ne aveva una, che durò una vita, e che mi incuriosiva la scritta “Mellin”: solo molto più tardi scoprii che era una scatola di biscotti della rinomata fabbrica. SISIÒLA, s.f.: (v. Parìdola) Rimbalzo sull’acqua. Far le sisiòle voleva dire far rimbalzare più volte una pietra piatta sull’acqua. Era un gioco che da ragazzi facevamo spesso in riva al mare, naturalmente quando il mare era tranquillo e, in particolare, quando non c’erano bagnanti in acqua. ŞÌŞOLA, s.f.: Giuggiola. ŞIŞOLÈR, s.m.: Albero delle giuggiole. SITÀ, s.f.: Città. Voce registrata da qualche dizionario di dialetti istroveneti, ma che, probabilmente, veniva usata molto tempo addietro. SÌTO, agg.: Zitto. ŞÌTOLO-ŞÒTOLO, s.m.: Altalena. Quella costituita da un’asse in bilico. Quella invece costituita da due funi legate in parallelo su un ramo chiamavamo altalèna (v.). SIVÈTA, s.f.: Civetta. SIVIÈRA, s.f.: Portantina. Barella. Usata per trasportare oggetti in campagna o in cantiere. SIVÌL, agg.: Civile. A şé militàr e a dovarìa vignìr con la montùra (v.), ma ‘sta vòlta i lo gà lasà vignìr in sivìl. SIVÒLA, s.f.: Cipolla. Con il termine di sivòla venivano chiamati anche i grossi orologi da taschino. SIVOLÌN, s.m.: Cipollino. I cipollini venivano usati come sementi che si piantavano in lunghi filari, uno


ad uno, fino a diventare grosse cipolle.

ŞLUCÀDA, s.f.: Sorsata.

ŞLARGÀR, v.: Allargare. Dilatare.

ŞLUCÀR, v.: Sorseggiare. Bere gustosamente. Deriva dal tedesco Schlucken = Inghiottire, sorseggiare.

ŞLATÀR, v.: Svezzare. Togliere il latte al neonato.

ŞLUCÒN, s.m.: Sorsata forte. ŞLÙŞER, v.: (v. Şluşigàr) Luccicare.

ŞLAVÀ, agg.: Sbiadito.

ŞLUŞIGÀR, v.: (v. Şlùşer) Luccicare. No şé dùto òro quel che şlùşiga.

ŞLÀIF, s.m.: (v. Frén) Il freno del carro. Che derivi dal tedesco?

ŞLAVÀR, v.: Lavare. Bagnare. ŞLAVASÀ, agg.: Fradicio. Bagnato. ŞLAVASÀR, v.: Sciacquare. Lavare più volte. ŞLAVASÀDA, s.f.: Inzaccherata. Da un’acquazzone, o da getto d’acqua, ma anche da una pozzanghera.

ŞMACÀR, v.: (v. Şgnacàr) Sbattere. Gettare a terra con forza. Buttare via. ŞMACIÀR, v.: Smacchiare. ŞMÀCO, s.m.: Affronto. Smacco. ŞMACÒN, s.m.: Spintone.

ŞLAVASÒN, s.m.: Acquazzone. Rovescio d’acqua.

ŞMÀFERO, s.m.: Persona di dubbia fama. Imbroglione.

ŞLÈPA, s.f.: Sberla. Schiaffo. In senso figurativo anche una grossa fetta di pane o di carne. A me gà dà ‘na şlépa de parsùto, che no te dìgo.

ŞMÀGNA, s.f.: Smania. Ansia.

ŞLICÀR, v.: Mangiare con gusto. Leccare il piatto.

ŞMAGNÀR, v.: Corrodere. Consumare. Preoccupare. Şé la rùşine che şmàgna ‘l féro.

ŞLICHIGNÀR, v.: Delicato nel mangiare. Schizzinoso a tavola. ŞLIGÀR, v.: Slegare. Poco usato, in quanto gli si preferiva il termine dişligàr (v.) oppure dişmolàr (v.). SLÌNGA, s.f.: (v. Spighéta) Laccio. Stringa delle scarpe. Legaccio. ŞLITÀR, v.: Slittare. Scivolare.

ŞMAGNÀ, agg.: Corroso. Consumato. A finirà pàr şmagnàrse el fègato pàr vìa de quèla mùla.

ŞMAGNÀRSE, v.: Preoccuparsi. No vòio più şmagnàrme l’ànema pàr còlpa sùa. ŞMAGNASÀR, v.: Mangiare sregolato. Ingurgitare. Divorare. ŞMAGNASÒN, s.m.: Mangione. Ingordo.

ŞLONDRÀRSE, v.: Abbuffarsi. Ingozzarsi.

ŞMAGRÌ, agg.: Dimagrito.

ŞLONGÀ, agg.: Allungato. Prolungato.

ŞMALMENÀR, v.: Sparlare. Diffamare. Parlar male.

ŞLONGÀR, v.: Allungare. Prolungare. Protrarre. Nàne şé un tìpo che a ghe piaşì şlongàr le man. Şlongàr le réce. Te gà vìsto come che se ga şlongà el ciàro? ŞLÙC, s.m.: Sorso.

ŞMAGRÌR, v.: Dimagrire.

ŞMALMÌ, agg.: Pallido. Smunto. Si uso anche per definire un vino poco consistente, oppure per un cibo poco gustoso. ŞMALTÀ, agg.: Smaltato. Un tempo

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si ritenevano di qualità le pentole da cucina smaltàde. ŞMALTÀR, v.: Dare la malta. Stendere la malta. ŞMARÌ, agg.: (v. Şbiadì) Scolorito. Stinto. Sbiadito. SMARÌR, v.: (v. Şbiadìr) Scolorire. Sbiadire. ŞMERDÀ, agg.: Smerdato. Inzaccherato.. ŞMERDÀR, v.: Coprire di merda. Smerdare. ŞMERDARIÒL, s.m.: Scarabeo. Un tempo frequente soprattutto nelle stalle, dove si trovava a suo agio tra gli escrementi degli animali, dal ché il nome. ŞMÌLSA, s.f.: (v. Spiénşa) Milza. ŞMÌR, s.m.: Grasso sintetico. Serviva per ungere le ruote dei carri dei contadini per diminuire l’attrito. ŞMOCOLÀR, v.: (v. Mòcolo) Mocciare. Avere il naso pieno di moccio. ŞMOIÀR, v.: Mettere ammollo. Inzuppare. ŞMÒIO, avv.: In ammollo. ŞMÒLŞER, v.: Mungere. ŞMONTÀR, v.: Smontare. Scendere. Sèmo şmontài del càmion. ŞMORSÀR, v.: Smorzare. Ridurre. Spegnere. ŞMORTÌ, agg.: Mitigato. Smorzato. Ridotto. ŞMORTÌR, v.: Mitigare, Smorzare, Ridurre. ŞNERVÀR, v.: Snervare. Sfibrare. ŞNUDÀR, v.: Denudare. ŞÒ, avv.: Giù. SÒ, agg.: Suo.

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SÒCO, s.m.: Ceppo. Ciocco. Tronco d’albero. A şé dùro come un sòco. A dormi come un sòco. Sòco del venchér. Sòco dela vìda. SÒCOLO, s.m.: Zoccolo. Il piede del cavallo, ma anche la calzatura con la suola di legno. SÒDA, s.f.: Soda. Carbonato di sodio. Un tempo molto usata come detergente, anche perché costava poco. SOFEGÀR, v.: (v. Sofigàr) Soffocare. Strozzare. Reprimere. SÒFEGO, s.m.: (v. Sòfigo) Afa. Caldo soffocante. SOFÈSA, s.f.: Pezzo di tela usata per avvolgere i piedi invece della calza. La usavano certamente i soldati austriaci e tedeschi durante la prima guerra mondiale. Venivano usate anche dai contadini isolani, soprattutto quando dovevano zappare a fondo o pastenàr (v.) per non sporcare le calze, visto che le zolle di terra coprivano piedi e scarpe. Dei pezzi di tela, chiamati porsiàni (v.) venivano usati anche avvolti e legati attorno alle caviglie, per salvaguardare le bràghe (v.) e le stesse scarpe. Il termine Sofésa deriva dal tedesco Zu Füsse e certamente gli Isolani le conoscevano anche nel loro uso militare, ai tempi di Francesco Giuseppe. SOFIGÀR, v.: (v. Sofegàr) Soffocare. Strozzare. Reprimere. SÒFIGO, s.m.: (v. Sòfego) Afa. Caldo soffocante. SOFÌTA, s.f.: Soffitta. Solaio. Me pàr che a quél ghe spàndi la sofìta = Mi pare che quello sia uno debole di testa. SOFÌTA MÒRTA, s.f.: Soffitta morta. Le case di una volta venivano costruite con il sottotetto


praticamente inutilizzabile, perché di difficile accesso (solitamente attraverso una botola) e perché non sufficientemente alto. Da qui il termine di sofìta mòrta, cioè inutilizzabile. SOFITÀR, v.: Intonacare il soffitto. Soprattutto a partire dalla seconda metà del XIX secolo, gli isolani incominciarono ad abbandonare la tradizione dei soffitti con travi e tavole per chiuderli con intonaco. SOFRÌR, v.: Soffrire. Sopportare. No lo pòso più sofrìr. ŞOGADÒR, s.m.: Giocatore. ŞOGÀR, v.: (v. Şiogàr) Giocare. Scherzare. ŞOGATOLÀR, v.: Giocherellare. Trastullarsi. ŞOGÀTOLO, s.m.: Giocattolo. Balocco. ŞOGATOLÒN, s.m.: Giocherellone. SOGNÀR, v.: Sognare. No stà gnànca sognàrte una ròba cusì. ŞÒGO, s.m.: Gioco. Svago. Divertimento. SÒGOLO, s.m.: Richiamo. Zimbello. Erano pochi gli Isolani che non avessero almeno qualche gabbia = chéba (v.) con qualche gardelìn (v.) che veniva usato come richiamo per gli altri uccelli. Subito dopo la seconda guerra mondiale, ma anche nei decenni precedenti, l’uccellagione non era severamente vietata come oggi. Anzi, quando tempo e stagione permettevano, erano in molti che andavano a uşelàr (v.), in particolare coloro che – comunque – lavorando la campagna rimanevano fuori casa tutto il giorno. Di solito, l’uccello che serviva da richiamo, perché cantava bene, veniva legato con una cordicella lasciandolo volare

all’interno di una rete, oppure in vicinanza delle vis’ciàde (v.). ŞOIÈR, s.m. Soglia. La parte inferiore della porta d’entrata. Per quanto ne so, ormai fuori uso dall’inizio del secolo precedente, e forse anche da prima. SOLÀNA, s.f.: Insolazione. Colpo di sole. Quando eravamo giovanotti, tanti decenni fa, ricordo che pochi erano coloro che riuscivano ad affrontare l’estate ed i bagni senza soffrire prima le pene di una bella e buona solàna. Non mi ricordo di creme abbronzanti che, forse, esistevano, ma a nessuno veniva in mente di comperarle: anche perché i soldi erano quelli che erano. SOLÀRO, s.m.: (v. Sofìta) Solaio. Soffitta. Per la verità molto poco usato, anche se è presente in qualche dizionario di dialetto istroveneto. SOLDÀ, s.m.: Soldato. Militare. SÒLDO, s.m.: Soldo. Denaro. Dicono che un Soldo corrispondeva in Italia a 5 centesimi. Nelle zone austriache a 2 centesimi di fiorino. Poi venne abolito: rimase solo il detto: andàr in reméngo come el sòldo. SOLÈRA, s.f.: (v. Èra. Suléra) Aia. Cortile. Spazio, soprattutto nelle case di campagna. Che d’estate veniva usato per trebbiare il grano. È possibile che il nome prenda spunto dal fatto che lo spazio era esposto al sole, anche se il Vascotto ne dà un’interpretazione diversa, facendolo derivare da Suléra (v.), cioè dalla composizione di due parole su l’éra, quindi sull’aia. SOLÈRA, top.: Rione tra il Vièr e San Piero. un tempo, la zona era meno edificata di questi ultimi decenni. Riscontrò un notevole

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sviluppo dopo che nella zona venne costruito l’ospizio Besenghi e dove ancora oggi è situata la Casa del Pensionato. Il Vascotto, riferendosi evidentemente al passato, argomenta lo spazio con le battute: Papà şé a soléra a bàter i bìşi. SOLEVÀR, v.: Sollevare. Recar sollievo. SÒLFARE, s.m.: Zolfo. SÒLITO, agg.: Abituato. Abitudine. Normalmente. De sòlito. Sémo ale sòlite. De sòlito ste ròbe no me càpita mài. SÒLO, s.m.: Legaccio. Cordicella. In particolare i legacci che servivano a sostituire i bottoni negli indomenti ultimi. Ricordate le mutande lunghe di un tempo che finivano con due cordicelle da stringere e legare alla caviglia? SÒMA, s.f.: Somma. Addizione. Conclusione. In sòma déle sòme. SOMÀR, v.: Sommare. Addizionare. ŞOMÈL, s.m.: Gemello. SÒN, s.m.: Suono. SONÀ, agg.: Suonato. Incretinito. Bastonato. SONÀDA, s.f.: Suonata. SONADÒR, s.m.: Suonatore. E ala fìn, bòna nòte sonadòri! SONÀR, v.: Suonare. Indovina che récia me sòna? SÒNCA, s.f.: Roncola. SONCÀR, v.: Troncare. Tagliare. ŞONÈSTRA, s.f.: Ginestra. SÒNFO, agg.: Maldestro. Monco. SÒNO, s.m.: Sonno. Mi sòn come le galìne: co va vìa ‘l sòl me ciàpa sòno. SÒNŞA, s.f.: Sugna. Il grasso del maiale che a Isola serviva soltanto

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per esser cotto e per ricavarne lo strutto. Già il “Nuovo Dizionario Illustrato della lingua italiana” di Devoto-Oli, la descrive come “grasso non commestibile dell’intestino del maiale usato per ungere i mozzi delle ruote e per rendere impermeabili scarponi e altri oggetti di pelle o di cuoio.” A pensarci bene, anche se non mi ricordo che la sònşa servisse anche per grassare le ruote del carro, ricordo molto bene che i contadini la usavano per dare grasso agli scarponi con le bròche per renderli impermeabili. Sembra comunque accertato che il termine dialettale derivi dall’italiano sugna e ancor prima dal latino (a)xungia, composta dei temi di axis = asse delle ruote e ungere: per cui, almeno prima che gli Isolani si ricordassero di usare la sònşa per fare lo strutto e poi per mangiare i ciccioli, nei secoli veniva certamente usata per ungere l’asse ed i mozzi delle ruote. Almeno finché non fu inventato il grasso sintetico. ŞÒNTA, s.f.: Aggiunta. Allungamento. Vino diluito. Quando i campagnòi (v.) isolani si recavano al lavoro in campagna alla periferia di Isola, a volte distante anche un paio d’ore di cammino, per afrontare la sete si portavano dietro delle bottiglie di şònta, cioè vino diluito abbondantemente con acqua o di bevanda (v.) cioè aceto (v. Aşédo) diluito con acqua. Molti, però, preparavano la şònta direttamente durante la procedura di vinificazione: tolto dalle raspe (v.) tutto il mosto destinato al vino buono, su queste gettavano dell’acqua e facevano fermentare il tutto nuovamente. Ne veniva fuori un vinello molto leggero che, però, manteneva con maggiore


vigoria il sapore e la consistenza del vino vero e proprio. Di conseguenza, se ne poteva bere molto di più senza il rischio di ubriacarsi. Nel racconto sulla storia di Isola, inserito al prof. Morteani nel volume sugli Statuti medievali isolani, la voce viene riportata proprio con il significato di bevanda. SONTÀR, v.: Aggiungere. Allungare. SÒPA, s.f.: Zuppa. Pane inzuppato nel latte o nel brodo. Fàr sòpa oppure bere caffè con sòpe de pàn. Era indubbiamente la colazione che fece crescere quasi tutti i bambini di Isola. Con la differenza che invece del caffè si riempiva la scodella di cicoria e latte con un po’ di zucchero. Per molti isolani, però, le sòpe in bròdo erano obbligatorie – al di là delle persone malate – anche per chi non aveva altro da mettere sotto i denti. Se poi il pane era vecchio e raffermo, tanto meglio. Cos’ gavé magnà per séna? Pàn e sòpe, come dire pane e acqua. SÒPA, s.f.: Zolla di terra. SOPIGÀR, v.: (v. Sotàr) Zoppicare. SÒPÌN, s.m.: (v. Supìn) Ginepro. Dalle parti nostre si usavano rami del ginepro per affumicare la porsìna, la carne di maiale, per l’aroma particolare che il fumo sprigionava. A volte, ma erano in pochi, si usavano le bache per cuocere la grappa di ginepro, oppure alcune bacche venivano introdotte nella bottiglia di grappa per far prendere il gusto del ginepro. SOPRÈSA, s.f.: Ferro da stiro. Chi non si ricorda le vecchie soprèse che ormai sono ricercate soltanto come oggetto d’antiquariato da mettere in evidenza civettuola

sulla nàpa (v.) finta delle cucine moderne. Ce n’erano di diversi tipi: da quelle che si scaldavano sulla piastra del spàcher (v.) a quelle che venivano riempite con carbone o con della brace ardente. SOPRESÀR, v.: Stirare. El fèro de sopresàr. SÒRA, avv.: Sopra. Pasàrghe sòra. Soramànego (v.). SORAFÌL, s.m.: (v. Sorapònto) Sopraffilo. Sopraggitto. Punto di cucitura usatoper unire due lembi di tessuto, eseguito da destra a sinistra con piccoli punti avvicinati. SORAMÀNEGO, s.m.: Soprammanico. Il lavoro del professionista. Şé un bél lavòr, ma ghe mànca el soramànego = È un lavoro ben fatto, ma gli manca il tocco professionale. SORANÒME, s.m.: Soprannome. SORAPENSIÈR, s.m.: Soprappensiero. Ièro sorapensièr e no te gò vìsto. SORAPÒNTO, s.m.: (v. Sorafìl) Sopraffilo. Sopraggitto. SORAVÌA, avv.: Sopra. Di sopra. In aggiunta. Inoltre. SORBÌR, v.: Sorbire. Assorbire. Succhiare. Subire. Sopportare. E dopo do òre de tìra e mòla gò dovù sorbìrme anca la prédica. SORBOLÈR, s.m.: Sorbo. La pianta del sorbo. SÒRBOLO, s.m.: (v. Sòrvolo) Sorbo. SÒRDO, agg.: Sordo. No şé péşo sòrdo de chi che no vòl sentìr. SÒREGO, s.m.: Sorgo. Saggina. Il cereale veniva usato come mangime per le galline, mentre il fusto serviva per le scope. SORÈLA, s.f.: Sorella.

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ŞORMÀN, s.m.: (v. Şermàn) Cugino. Germano. SORŞÈTO, s.m.: Topolino. SÒRŞO, s.m.: Sorcio. Topo. Pipistrél, méşo sòrşo e méşo uşél. SÒRTE, s.f.: Destino. Specie. Tipo. Fortuna. Fìn a la mòrte no se sa la sòrte. Tiràr a sòrte. Bona sòrte. Un pàr sòrte. SÒRVO, s.m.: Sorbo. Il frutto del sorbo. SÒRVOLO, s.m.: (v. Sòrbolo) Sorbo. Pianta abbastanza frequente dalle nostre parti che veniva piantata in zona soleggiata ed ai margini di qualche campo perché riusciva a crescere anche oltre i 5-10 metri. Noi ragazzi si era particolarmente ingordi delle bacche dolcissime e gustose, una volta mature, mentre da acerbe (ma anche quello era un gioco) riuscivano a legarti completamente la bocca. SÒSIO, s.m.: Socio. Amico. SOSTÀNSA, s.f.: Sostanza. SOSTIGNÌR, v.: Sostenere. Mantenere. Sopportare. SOSTIGNÙDO, agg.: Sostenuto. SOTÀIERO, s.m.: Palombaro. SOTÀR, v.: (v. Sopigàr) Zoppicare. SOTERÀR, v.: Seppellire. Sotterrare. SOTILIÈSO, s.m.: Sottigliezza. SÒTO, s.m.: Zoppo. Sciancato. SÒTO, prep.: Sotto. Di sotto. SOTOGÀMBA, avv.: Sottogamba. Con noncuranza. Negligentemente. Ciapàr qualcosa sotogàmba. ŞÒTOLO, s.m.: Piccola seppia. Molto gustosa. SOTOÒCI, s.m.pl.: Occhiaie. SOTOPÀNSA, s.m.: Sottopancia.

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SOTOPÒNTO, s.m.: Tipo di cucitura. Cucire lungo i bordi delle pieghe della stoffa. SOTOSCÀIO, avv.: Sotto le ascelle. SOTOSÒRA, agg.: Soqquadro. Disordine. Sossopra. SOTOSCÀIO, s.m.: (v. Scàio) Sottobraccio. SOTOVÒŞE, avv.: Sottovoce. SOTRATÌVO, s.m.: (v. Servisiàl) Clistere. ŞÒVENO, s.m./agg.: Giovane. SOVIGNÌR, v.: Ricordare. SPACADÙRA, s.f.: Spaccatura. Fessura. SPACÀR, v.: Rompere. Spezzare. Spaccare. A quél me vién de spacàrghe ‘l mùşo. SPÀCHER, s.m.: Focolare. Cucina economica. SPÀCIO, s.m.: Spaccio di vini. Mescita di vini. SPÀDA, s.f.: Spada. L’arma, ma anche uno dei colori delle carte da gioco assieme ai bastoni, ai denari ed alle coppe. SPÀDA, s.f.: Gladiolo. Il fiore chiamato così probabilmente perché con il suo lungo fusto e le foglie allungate fa pensare alla spada. SPADÈTA, s.f.: Erbaccia infestante. Simile alla gramigna. SPAGHÈTO, s.m.: Cordicella. In senso figurativo usato molto spesso per indicare paura e fifa, quando non terrore. Gò ciapà un spaghéto che no te dìgo. SPÀGNA (ÈRBA), s.f.: Erbaspagna. Erba medica. Originaria dell’Asia occidentale molto presente anche nei campi isolani per il suo alto valore nutritivo per il bestiame Molto spesso coltivata assieme o


in alternativa con il trifoglio, altra erba importante come foraggio per gli animali. SPAGNOLÈTO, s.m.: Sigaretta. Nel passato, il termine spagnoletta era usato per sigaretta anche nella lingua italiana ed era rimasto nell’uso in senso estensivo (Vocabolario Oli-Devoto) con allusione alla forma, per indicare una confezione di filati di seta o cotone avvolti intorno a un piccolo cilindro di cartone. Di conseguenza, per similitudine con la forma cilindrica della sigaretta, trasportato nell’uso anche a questa. SPÀGO, s.m.: Spago. Paura. No me rìva el spàgo = non dispongo di mezzi sufficienti. Dàrghe spàgo. SPÀLA, s.f.: Spalla. SPALÈTA, s.m.: Prosciutto di spalla del maiale. SPALIÀR, v.: Spargere. Sparpagliare. Distribuire. SPALÌN, s.m.: Spallino. Quelle che regge la sottoveste delle donne. SPÀNA, s.f.: Spanna. SPANÀ, agg.: Senza filettatura. SPANÀR, v.: Togliere la filettatura. SPÀNDER, v.: Spandere. Versare. Traboccare. Vàdo a spànder un poco de aqua. Spénder e spànder. SPÀNTO, agg.: Versato. Sparso. Spanto. SPARAGNÀR, v.: Risparmiare. Sparagnare. Chi sparàgna el diavolo ghe màgna. SPARAGNÌN, agg.: Tirchio. Avaro. Parco. Risparmiatore. SPARÀGNO, s.m.: Risparmio. SPARAVIÈR, s.m.: Sparviero. Uccello rapace non molto frequente dalle nostre parti, ma

figurativamente il termine veniva più usato per indicare giovane vivace e sbrigativo. Àrilo come che a se mòvi, a pàr un sparaviér. SPARECIÀR, v.: Sparecchiare. Sparecchiare la tavola dopo un pasto o dopo una festa. SPÀREŞO, s.m.: Asparago. Soprattutto quello di bosco, naturalmente. SPARÈTO, s.m.: (v. Spàro) Pesce di mare. Pennichella. SPARLASÀR, v.: Sparlare. Criticare. SPARNACIÀ, agg.: Arruffato. Spettinato. Disordinato nei capelli. SPARNÀCIO, s.m.: Ciuffo. Di capelli, ma anche il pennacchio del granoturco in fiore. SPARNÌŞA, s.f.: Pernice. Ricordo che, da bambino, mio padre si adoperava a preparare trappole nei campi per catturare le pernici: una lastra di pietra tenuta su da una parte con un bastoncino e con dei semi di frumento sotto per invitare a pranzo gli uccelli. A volte, ma raramente, si mangiava uşèi in tècia co la polènta. SPÀRO, s.m.: (v. Sparèto) Sparo. Sarago. Pesce di mare. Abbastanza buono. Pennichella. Riposino pomeridiano. SPARSÒR, s.m.: (v. Spasòr) Palo che sostiene le reti messe ad asciugare. SPARTÌR, v.: Spartire. Dividere. Mi no gò gnénte de spartìr con tì. SPÀRTO, agg.: Piano. Liscio. Levigato. Piatto. SPASACAVÀL, s.m.: Esuberanza. SPASACUŞINA, s.m.: Cucinino. Acquaio. Dispensa. SPASEGIÀR, v.: Passeggiare.

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SPASÈGIO, s.m.: Passeggio. Stasèra, se te vòl, ‘ndèmo a spasègio.

SPERÀNSA, s.f.: Speranza.

SPASÈL, s.m.: Tipo di martello. Martello particolare provvisto di una scanalatura, adatto per battere i cerchi delle botti.

SPESIÀL, s.m.: Speziale. Droghiere. Un tempo, el spesiàl fungeva anche da farmacista.

SPAŞEMÀR, v.: (v. Ispaşemàr) Spaventare. Impaurire. SPÀŞEMO, s.m.: Spavento. SPASÌŞO, s.m.: Passeggino. Carrozzino per bambini. SPÀSO, s.m.: Spasso. Passeggiata. Divertimento. SPASÒR, s.m.: Palo che sostiene le reti messe ad asciugare. SPAURÌR, v.: Impaurire. Spaventare.

SPESIARÌA, s.f.: Drogheria. Farmacia.

SPETÀR, v.: Aspettare. Attendere. Spéta mùs che l’érba crési. De lù no me la spetàvo. Spéta mérlo. Spétime un pòco. Questo era anche il nome che si dava ad un tipo di fiammiferi zolfanelli poiché, una volta sfregati, era necessario attendere un po’ prima che si accendessero. SPETINÀ, agg.: Spettinato. SPETINÀR, v.: Spettinare. SPIÀDA, s.f.: Spiata. Delazione.

SPÈCE, avv.: Specialmente. In particolare. Me dispiàşi pàr dùti, ma spéce pàr ti.

SPIÀNA, s.f.: Pialla.

SPECÈRA, s.f.: Specchiera. Per gli agricoltori era il campo a terrazza esposto al sole.

SPIANÀR, v.: Piallare. Livellare. Drizzare.

SPÈCIO, s.m.: Specchio. Néto come un spécio.

SPIFERÀR, v.: Divulgare. Spifferare. Fare la spia.

SPEDISIONÈR, s.m.: Spedizioniere SPEDÌR, v.: Spedire. Inviare. SPEDOCIÀR, v.: Spidocchiare. SPELÀ, agg.: Pelato. Scortecciato. Scuoiare. Gò ‘péna finì de spelàr el cunìgio e dopo dovarò spelàr le patàte. SPELÀDA, s.f.: Pelata. Tosatura. SPELÀR, v.: Pelare. Scuoiare. Sbucciare. Sgusciare. Spennare. SPENDACIÀR, v.: Spendere in maniera sregolata. Scialacquare. SPENDACIÒN, agg.: Spendaccione. Sprecone. SPÈNDER, v.: Spendere. Spénder e spànder. Chi più spéndi méno spéndi.

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SPIANÀDA, s.f.: Piallata. Colpo di pialla. Spianàta.

SPIÈNŞA, s.f.: (v. Şmìlsa) Milza.

SPÌFERO, s.m.: Corrente d’aria. SPIGHÈTA, s.f.: (v. Slunga) Laccio. Stringa delle scarpe. Legaccio. SPÌGO, s.m.: Spicchio. Spìgo de narànsa. SPILÒRSO, agg.: Tirchio. Avaro. SPÌN, s.m.: Spino. Aculeo. SPÌNA, s.f.: Spina. Rubinetto. Méter a spìna. Bìra de spìna. Aqua de spìna. SPINÀSA, s.f.: Spinaccio. SPINÈL, s.m.: Piccola spina. Zampillo. SPIÒN, s.m.: Spia. Spione. Delatore. SPÌRITO, s.m.: Alcool. Sariéşe sòto spìrito.


SPIRÒN, s.m.: Tralcio d’uva. Così lo descrive Francesco Semi, pur se preso da dialetto capodistriano: Sìnque ràpi insième co le fòie de vìda. SPÌSA, s.f.: Prurito. Capriccio. Voglia. Briciola. SPISÀDA, s.f.: Assaggino. Boccone. SPISADÙRA, s.f.: Pezzetti di legna. Venivano usati per accendere il fuoco nel spàcher (v.). SPISÀR, v.: Prudere. Me spìsa el nàşo. SPISÀR, v.: Piluccare. Mangiucchiare. Assaggiare. SPIUMA, s.f.: Schiuma. SPOIÀR, v.: Spogliare. SPÒIO, agg.: Nudo. Svestito. Spoglio. SPOLPÀR, v.: Spolpare. Disossare. SPOMPÀ, agg.: Esausto. Fiaccato. Sfiatato. SPOMPÀR, v.: Sgonfiare. SPÒNŞER, v.: Pungere. Punzecchiare. SPÒNTA, s.f.: Puntura. Iniezione. Dolore improvviso. Fitta. SPONTÒN, s.m.: Sporgenza. Spuntone. SPORCACIÒN, s.m.: Porcaccione. SPORCARÌA, s.f.: (v. Porcheria) Porcheria. Cosa vergognosa. Porcata. Azione riprovevole. SPORCHÈSO, s.m.: Sporcizia. Sudiciume. Bruttura. SPORSÌSIA, s.f.: Sporcizia. SPÒRCO, agg.: Sporco. Sudicio. Termine viene usato anche per indicare la brutta copia di una scrittura a mano o a macchina. Pàr adéso gò scrìto la létera in sporco, dopo che ghe la farò véder a me màre, la scriverò in béla. A la più sporca.

SPOŞALÌSIO, s.m.: Matrimonio. Nozze. Sposalizio. SPOŞÀR, s.f.: Sposare. SPOSTÀ, agg.: Cretino. Dalle idee non chiare. Fuori di testa. SPÒTO, s.m.: Dispetto. SPÒTICO, agg.: Prepotente. SPOTIŞÀR, v.: Fare dispetti. Disturbare. Fare smorfie. SPRÈNTA, s.f.: Spinta. Urto. Spallata. SPRÌS, s.m.: Vino spruzzato con selz. Chi non si ricorda le bottiglie di selz con sifone? Il termine è rimasto, anche se con il tempo è stato sostituito da altre voci indicanti misture di vino e acqua gassata o meno. Tra queste, importata da Trieste, il mismàs (v.), una mistura di vino bianco e vino rosso. SPUDACÈRA, s.f.: (v. Spudariòla) Sputacchiera. SPUDÀCIA, s.f.: Saliva. Sputo. SPUDACIÀR, v.: Sputacchiare. SPUDACIÒN, s.m.: (v. Cataraciòn) Grosso sputo con catarro. SPUDÀDA, s.f.: Sputo. SPUDÀR, v.: Sputare. SPUDARIÒLA, s.f.: (v. Spudacèra) Sputacchiera. L’igiene, negli ultimi anni e decenni, ha fatto passi da gigante. Eppure, anche le spudariòle ed i cicariòi (v.) rappresentarono ad un certo momento un elemento di novità rivolta alla salute della persona. I luoghi pubblici come sale d’attesa, corridoi, ospedali, teatri, cinema, vennero attrezzati di questi strumenti, obbligando i presenti a non sputare e a non spegnere le sigarette per terra. Sembra di parlare di cose lontane secoli, ma erano presenti ancora negli anni sessanta del secolo scorso.

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SPUNTÌ, agg.: Spuntato. Ottuso. Senza punta. SPÙSA, s.f.: Puzza. Cattivo odore. SPUSAFADÌGHE, s.m.: Scansafatiche. Pigro. SPUSÀR, v.: Puzzare. SPUSÈTA, s.f.: Donna superba. Presuntuosa. Di seguito una filastrocca per bambini presa direttamente dai muggesani: Anéta spuséta la fìa del spasacamìn la gà ròto la fiaschéta e spànto dùto el vìn. SPUSOLÈNTE, agg.: Puzzolente. Maleodorante. Fetido. SPUTANÀR, v.: Diffamare. Sparlare. SQUAIÀR, v.: Sciogliere. Liquefare. Fondere. SQUAIÀRSELA, avv.: (v. Mocàrsela) Svignarsela. Tagliare la corda. Squagliarsela. SQUÀRA, s.f.: Squadra. Ma anche gruppo di persone che perseguono lo stesso fine. Èser fòra de squàra = chi sta sbagliando. SQUÀŞI, avv.: Quasi. SQUÈRA, s.f.: Sfera. Lancetta dell’orologio. SQUERO, s.m.: (v. Cantièr) Squero. Piccolo cantiere. SQUÌNSIA, s.f.: Donna capricciosa. STÀ, escl.: Fermo. Stop. Alt. È il comando che i contadini isolani davano all’asino per fermarlo. STABILÌR, v.: Intonacare. Rifinitura del muro. STAGNÀCO, s.m.: Secchio. Quasi sicuramente la voce deriva dal fatto che un tempo i secchi erano fabbricati in lamiera stagnata o zincata. STAGNÀDA, s.f.: Paiolo. Grande Recipiente di solito in rame

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battuto o stagnato nel quale si scaldava l’acqua per il bucato. Serviva, però, anche per cucinare il mangime per i maiali. Oppure, attrezzato adeguatamente serviva anche da lambicco per la distillazione della grappa. STAGNADÈLA, s.f.: Paiolo di piccole dimensioni. STAGNÀR, v.: Rendere impermeabile. Bloccare le perdite d’acqua. Deriva dalla parola stagno che sta ad indicare il metallo con il quale fino a non molti anni fa si tappavano e chiudevano le condutture d’acqua. La voce è passata poi in uso generale per significare la procedura per bloccare le perdite d’acqua anche a tutti i recipienti, anche quelli di legno, come botti e tinozze. Infatti venivano riempite d’acqua e si lasciavano impregnare fino ad impedirne completamente qualsiasi perdita di liquido. Ancora i primi anni del dopoguerra quasi tutti i contadini isolani portavano le proprie botti in riva al mare per impregnarle d’acqua dopo che, svuotate del vino, perdevano da tutte le parti. L’uso dell’acqua di mare aveva anche una seconda funzione: grazie alla soluzione salina fungeva anche da antisettico e da strumento impermeabilizzante. STAGNÌN, s.m.: Stagnino. Stagnaio. Oltre agli ambulanti che facevano il giro delle vie offrendo di riparare un po’ tutto, con la nascita dell’industria conserviera si formò il mestiere dello stagnìn, con la qualifica di saldatori (v.), cioè un gruppo di persone addette all’inscatolamento ed al controllo delle scatolette di sardine. Assieme a loro lavoravano pure alcune donne incaricate di attaccare le etichette con la denominazione


del prodotto e del produttore. Una delle regole che dovevano essere rigorosamente osservate dagli stagnini, per motivi di igiene, era che non dovevano mai entrare in contatto diretto con il pesce. Una regola che, almeno a quanto raccontano, era certamente in vigore fino agli anni Cinquanta, quando anche la produzione delle conserve subì qualche aggiornamento tecnologico e, invece dello stagno, venivano usati altri materiali meno dannosi per la salute. STÀGNO, agg.: Impermeabile. STÀGNO, agg.: Robusto. Ben messo. STAIÒN, s.f.: Stagione. STAIONÀ, agg.: Stagionato. STÀLA, s.f.: Stalla. STALÒN, s.m.: Stallone. Cavallo. In senso figurativo con il termine si indicava pure ragazzone ben piantato, ma con poca volontà di lavorare. A şé un stalòn, ma a no combìna gnénte. STANCÀDA, s.f.: Faticata. Stancata. STANCÀR, v.: Affaticare. Stancare. STANGÀDA, s.f.: Stangata. Fregatura. STANGÒN, s.m.: Stanga della bicicletta tra il manubrio e la sella. STÀNSIA, s.f.: Fattoria. Podere. STÀNSIA RÒNCO, top.: Zona in cima a Ronco. Su una vecchia carta topografica del territorio isolano della fine del XIX secolo, ho trovato segnata Stànsia Rònco, proprio in cima al promontorio: zona che ancor oggi mantiene questa denominazione, anche se della stànsia ben poco è rimasto

oltre ai muri del casone ed i cipressi che lo circondano. STÀNTE, s.m.: Corrimano. Passamano STANTÌSO, agg.: Stantio. Vecchio. STÀR, v.: Stare. Abitare. Mi stàgo, ti te stàghi, lù a stà, noi stémo, voi sté, lori i stà. Stàr sentà su do caréghe. Stà su co la vìta. STARNUDÀR, v.: Starnutire. STARNÙDO, s.m.: Starnuto. STÀŞA, s.f.: Riga. Regolo. Usati dal falegname (v. Marangòn) o dal muratore (v. Muradòr). STECADÈNTE, s.m.: Stuzzicadenti. STEFÀNIA, s.f.: Piccola corona di fiori. Ghirlanda. Veniva usata per le cerimonie funebri e per essere depositate ai piedi dei monumenti tombali. Non credo abbia una qualche attinenza con la principessa Stefania di austroungarica memoria, alla quale, verso la fine del XIX secolo a Isola venne dedicata Piazza Grande con il nome di Piazza Stefania. Probabile derivi invece dal termine greco stefanòs, che, a quanto dicono, significa proprio corona, anche se difficile capire quali tortuose vie il termine greco abbia dovuto percorrere per arrivare in Istria e a Isola. STÈLA, s.f.: Stecca. Scheggia di legno. STÈLA, s.f.: Stella. STÈR, s.m.: Staio. Misura per cereali e granaglie. STÈURA, s.f.: Tassa. Imposta. Voce dell’amministrazione austriaca, ma che si mantenne nella memoria popolare anche fino ai primi anni dopo la seconda guerra mondiale, almeno presso i contadini. STÈVA, v.: Stàva. Voce del verbo

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Stàr = stare. Come per qualche altro verbo, il dialetto isolano riferendosi al tempo passato invece di pronunciare la desinenza in …àva, terminava in …éva. Una prassi presente ancora nei primi decenni del secolo scorso e documentata, oltre che dal Dizionario della parlata isolana di Antonio Vascotto, anche dal Morteani nella suo compendio di storia isolana di fine Ottocento. STIÈRA, s.f.: Filare. Schiera. Di viti o di altre piante in un campo.

Co la me védi la stòrşi el mùşo. STORTO, agg.: Storto. Curvo. Piegato. Olive storte. STRACAPÌR, v.: Fraintendere. Equivocare. Capire male. STRÀCO, agg.: Stanco. Sfinito. Fiacco. STRACÀR, v.: Stancare. STRACÒLO, s.m.: Torcicollo. STRACÙL, s.m.: Culaccio. Culatello. Il miglior pezzo di carne di maiale o vitello.

STIMÀR, v.: Stimare. Valutare. A şé una persona pàr ben e la merita de éser stimàda. Şé vignù Tomàşo a véder i parsùti par comprarli, ma me li gà stimài tropo pòco.

STRADÈR, s.m.: Bighellone. Ragazzo di strada.

STIRACIÀR, v.: Stiracchiare. STIRÀR, v.: Stirare.

STRADIŞÈLA, s.f.: (v. Canişéla) Stradina. Viottolo. Sentiero.

STÌSO, s.m.: Tizzone. Pezzo di legno che brucia.

STRADÒN, s.m.: Stradone. Strada principale.

STIVÀL, s.m.: (v. Trombìn) Stivale.

STRAFANÌCIO, s.m.: Straccio. Cencio. Oggetto di nessun valore. In senso figurativo anche per indicare persona che non si cura e si comporta male. Gò vìsto Gìgi che a se strasinàva come un strafanìcio.

STIVÀR, v.: Stipare. Sistemare. Ammassare. STÒMEGO, s.m.: Stomaco. La parola viene usata anche per indicare persona o comportamento ributtante, meritevole di disprezzo. STOMEGÒŞO, agg.: Stomachevole. Ripugnante. Schifoso. STONÀ, agg.: Stonato. STONÀR, v.: Stonare. Questo şé pròpio un colòr stonà.

STRADÌN, s.m.: Cantoniere. Stradino. Addetto alla manutenzione delle strade.

STRAFÀTO, agg.: Troppo maturo. Naturalmente si parla di frutta talmente matura da essere sul punto di diventare marcia. STRAFORO (de...), avv.: Di nascosto.

STORLÈSO, s.m.: Stupidaggine. Sciocchezza. Cosa di poco conto.

STRÀIA, s.f.: Strame. Lettiera di animali.

STORNÈL, s.m.: Storno. Uccello dei passeracei abbastanza frequente dalle nostre parti, soprattutto nel periodo della vendemmia.

STRALASÀR, v.: Omettere. Tralasciare. STRAMASÀR, v.: Stramazzare. Cadere.

STORNÌ, agg.: Stordito. Confuso. Frastornato.

STRAMASÈR, s.m.: Materassaio. Tappezziere.

STÒRŞER, v.: Torcere. Avvolgere.

STRAMÀSO, s.m.: Materasso.

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STRAMASÒN, s.m.: Caduta pesante per terra. Cadere disteso. STRAMBÈSO, s.m.: Gesto o parola bizzarra. Stramberia. STRÀMBO, agg.: Bizzarro. Eccentrico. Strano. Butàr stràmbo. STRAMBOTÀR, v.: Parlare sconnesso. STRAMBÒTO, s.m.: Parola incoerente. Sproposito. Battuta. STRAMORTÌR, v.: Tramortire. STRANGOLÌN, s.m.: Sbarra di acciaio. Veniva usata per sollevare e spostare grosse lastre di pietre. Particolarmente utile durante i lavori per lastricare vie e piazze. STRANIO, agg.: Estraneo. Forestiero. STRAPÒNŞER, v.: Rammendare. STRÀSA, s.f.: Straccio. Strofinaccio. Cencio. La stràsa dei piàti. Chi non rammenta i versi di quella bellissima e accorata canzone popolare che si richiama al “dòpio de vìn”: ...e se sòn pàlida come ‘na stràsa, vinàsa, vinàsa… STRASÀR, v.: Stracciare. Lacerare. Sciupare. STRASARIÒL, s.m.: Straccivendolo. STRASINÀR, v.: Trascinare. Tirare. Strascicare. A şè cusì malà che a no rìva gnànca strasinàrse şò pàr le scàle. STRASÒN, s.m.: Straccione. Pezzente. STRATÈMPO, s.m.: Temporale. Maltempo. STRÀUS, s.m.: Persona trasandata. Straccione. A camìna pròpio come un stràus.

STRAVACÀRSE, v.: Sdraiarsi. Distendersi. Il termine deriva probabilmente da vàca (v.) = mucca e dal loro modo di sdraiarsi dopo mangiato per ruminare più facilmente. STREMÌ, agg.: (v. Istremì) Stremato. Spossato. STRÈMO, avv.: Ai margini. Al bordo. Alla fine. In conclusione. STRÈNŞER, v.: Stringere. Premere. Legare. Chi tròpo vòl gnènte strènşi. STRÈNTA, s.f.: Stretta. Voce con la quale i campagnòi (v.) isolani indicavano un intervento per ridurre i rami delle viti troppo rigogliose. Con l’uso di una particolare tenaglia operavano una stretta su alcuni rami per ridurre l’afflusso della linfa e agevolare la fruttificazione. STRÈNTO, agg.: Stretto. Tirchio. Avaro. Stretto di manica. STRÌCA, s.f.: Riga. Linea. Striscia. STRICÀR, v.: Cancellare. Cassare. Depennare. Tirare una striscia. STRÌGA, s.f.: Strega. Le fiabe istriane sono piene di strìghe, di diavoli e strani personaggi. Ma anche il mondo degli adulti, almeno fino a qualche anno fa, era pieno di racconti su streghe da far rabbrividire. Basta leggere la raccolta di fiabe istriane messe assieme da don Radole per avere una visione di come le streghe appartenessero al mondo dell’immaginario contadino istriano. STRIGÀ, agg.: Stregato. Con Giani no se pòl più ragionàr, la mùla la lo gà strigà! STRIGÀR, v.: Stregare. STRIGARÌA, s.f.: Stregoneria. Maleficio. Fattura.

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STRIGHÈSO, s.m.: Magia. Incanto. Stregoneria.

STROSINÀR, v.: L’esercizio dello strozzinaggio.

STRIGÒN, s.m.: Stregone.

STRUCÀ, agg.: Premuto. Pigiato. Premuto.

STRISÀ, agg.: Strizzato. Schiacciato. STRISÀR, v.: Strizzare. Schiacciare. STROLEGÀR, v.: Indovinare. Prevedere passato e futuro. STROLEGHÈSO, s.m.: Previsione del futuro. Magia. STRÒLEGO, s.m: (v. Stròligo) Indovino. Mago. Stregone. Persona che predice il futuro. Pòche ciàcole, o te sòn strego, o te sòn stròlego. STROMBASÀR, v.: Strombazzare. Pubblicizzare. Gridare. STRONSÀDA, s.f.: Stupidata. Stronzata. STRÒNSO, s.m.: Stronzo. Termine usato molto di frequente anche nella lingua italiana per indicare persona spregevole. STROPÀ, agg.: Otturato. Chiuso. Imbonito. La pàrla come se la gavési ‘l nàşo stropà. STROPABÙŞI, s.m.: Tappabuchi. Persona chiamata a sostituire altre persone assenti. STROPACÙL, s.m.: La bacca della rosa canina. Molto conosciuta per le sue qualità astringenti. STROPÀR, v.: Tappare. Otturare. Chiudere.

STRUCÀDA, s.f.: Stretta. Pigiata. Abbraccio forte. Torchiata. STRUCAPATÀTE, s.f.: Schiacciapatate. Serviva soprattutto quando era necessario preparare la pasta per gli gnocchi. STRUCÀR, v.: Stringere. Torchiare. Pigiare. Abbracciare. STRÙCO, s.m.: Torchio. Quello per spremere le vinacce ormai prive del mosto per far uscire anche il resto del vino. STRÙCOLO, s.m.: Strudel. Dolce farcito. Termine usato molto spesso in senso affettuoso o amoroso. La gà una fìa che la şé come un strùcolo. STRUCÒN, s.m.: Stretta forte. Abbraccio. STRUGNÀN, top.: Strugnano. Località, un tempo agricola ed oggi prettamente turistica, situata nella valle tra Isola e Portorose. STRUGNANÒTO, s.m.: Abitante di Strugnano. STRUSA, s.f.: Filone di pane. STRUSÈTA, s.f.: Filoncino di pane. STRUSIÀR, v.: Preoccupare. Travagliare. Tormentare. Soffrire. Angosciare.

STROPÌN, s.m.: Stoppino. Tappo rudimentale, provvisorio.

STRÙSIO, s.m.: Tormento. Sofferenza. Travaglio. Preoccupazione. Angoscia.

STRÒPOLO, s.m.: Tappo rudimentale. Voce usata anche per indicare persona piccola e tozza.

STÙA, s.f.: Stufa. STÙBIA, s.f.: Stoppia. Residuo di un campo di grano dopo il taglio o la mietitura.

STROPÒN, s.m.: Turacciolo. Grosso tappo.

STÙCO, s.m.: Stucco. Stùco e pitùra fa béla figura. La voce viene spesso usata anche per indicare

STROSÌN, s.m.: Strozzino. Usuraio.

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sorpresa: Co a me gà vìsto, a şé restà de stùco. STUDÀR, v.: (v. Distudàr) Spegnere. STUDIÀ, s.m.: Studiato. Persona colta e istruita. STUFADÌSO, agg.: Persona annoiata. Persona irrequieta. STUFÀR, v.: Stufare. Stancare. Annoiare. Tediare. Ògni bél bàlo stùfa. STÙFO, agg.: Stufo. Annoiato. Tediato. STUMBÈL, s.m.: Erbaccia. Temuta dai contadini quasi quanto la gramigna. STUPIDÀDA, s.f.: Stupidaggine. Stupidata. Sciocchezza. STÙRLO, agg.: Stupido. Sciocco. Balordo. STUSIGADÈNTI, s.m.pl.: Stecchino. Stuzzicadenti. STUSIGÀR, v.: Stuzzicare. Irritare. Provocare. STUSIGHÌN, s.m.: Stuzzichino. Boccone prelibato. SÙ, prep.: Su. Sopra. Stàr su; Andàr su; Ciòr su; Ciapàrse su; Fàr su. SÙBA, s.f.: Donna di malaffare. SÙBIA, s.f.: Lesina. Arnese del calzolaio: grosso ago ricurvo e molto appuntito, sostenuto da un corto manico, che serve a forare il cuoio per la cucitura. SUBIÀDA, s.f.: Fischiata. SUBIÀR, v.: Fischiare. Zufolare. Far subiàr = Far filare diritto. SUBIOLÀR, v.: Fischiettare. SUBIÒTO, s.m.: (v. Fis’ciòto. Fis’céto) Fischietto. Zufolo. A differenza del fis’céto, tuttavia, il subiòto poteva modulare il fischio con note diverse. Il termine viene usato anche per indicare un tipo

di pasta particolarmente adatta per le minestre. In tela minéstra pàr prànso go méso i subiòti. SÙCA, s.f.: Zucca. In senso figurativo la voce viene usata anche per definire la testa. Te pàrli come se te gavési pàia in sùca. SÙCA BARÙCA, s.f.: Zucca grossa, rotonda e piena di escrescenze. Molto usata anche oggi sia lessa che arrosta o in forno, ma anche per farcire dolci. SUCÀDA, s.f.: Zuccata. Tirata. Strattone. Se te lo sùchi ancora a cascarà pàr téra. SUCÀR, v.: Tirare. SÙCARO, s.m.: (v. Sùchero) Zucchero. SÙCHERO, s.m.: (v. Sùcaro) Zucchero. SUCHÈTA, s.f.: Zucchina. SÙCO, s.m.: Cima. Cocuzzolo, Sommità. SUCÒN, agg.: Strattone. Zuccone. Testone. SUDÀR, v.: Sudare. SUDÒR, s.m.: Sudore. SUFIÀDA, s.f.: Soffiata. Spiata. SUFIÀR, v.: Soffiare. SÙFO, s.m.: Ciocca. Ciuffo. Di capelli, ma anche di erba. SUGAMÀN, s.m.: Asciugamano. SUGÀR, v.: Asciugare. Mi sùgo, ti te sùghi, lù a sùga, noi sughémo, voi sughé, lori i sùga. SUGARÌN, s.m.: (v. Càrta sugànte) Tampone con carta assorbente. Ve la ricordate la carta assorbente che, piena di macchie nere, era di arredo ai quaderni di scuola? Per ricordarselo bisogna aver frequentato i banchi di scuola prima che venisse inventata la penna biro.

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ŞÙGNO, s.m.: Giugno. Sesto mese dell’anno. SÙGO, s.m.: Succo. Succo. SULÈRA, s.f.: (v. Èra. Soléra) Aia. Cortile. SUMBÌR, v.: (v. Insumbìr. Insumbàr) Assorbire, inzuppare. SUPERCIÀR, v.: Traboccare. SUPÈRCIO, agg.: Superfluo. Eccessivo. SUPÌN, s.m.: Ginepro. SÙRLO, s.m.: Sciocco. Stupido. SURLÒN, s.m.: Stupidone. Testone. SÙRO, s.m.: Sughero. SÙRO, s.m.: Tracuro. Pesce di mare: buono, ma non pregiato. SUSÀR, v.: (v. Ciuciàr) Succhiare. Sorbire. Poppare. SUŞÌN, s.m.: Susina. Prugna. Soltanto negli ultimi decenni le prugne hanno trovato frequente dimora negli orti e nei campi isolani, prima erano abbondantemente superati dalle albicocche (v. Armelìn): a favorirne la diffusione ha contribuito certamente il cambio quasi totale della popolazione locale. SUŞINÈR, s.m.: Susino. Prugno. L’albero dei susini. SÙSTA, s.m.: Molla. A gà la sùsta mòla = è incontinente. SUSTÌNA, s.f.: Bottone di metallo a pressione. Usato soprattutto negli indumenti per bambini. SÙSTO, s.m.: Sussulto. SÙTO, agg.: Asciutto. Secco. Magro. ŞVAMPÌ, agg.: (v. Sbampì) Evaporato. Svampito. ŞVAMPÌR, v.: Evaporare. Perdere in consistenza.

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SVEDÈSI, s.m.pl.: Tipo di fiammiferi zolfanelli. Venivano chiamati anche Spétime un pòco (v.) poiché prima di accendersi era necessario aspettare un poco. ŞVÈIA, s.f.: Sveglia. ŞVEIÀR, v.: Svegliare. ŞVEIARÌN, s.f.: Orologio con suoneria. ŞVÈIO, agg.: Sveglio. Desto. ŞVENTOLA, s.f.: Ventaglio. Ventola. Pezzo di cartone o di legno molto sottile che serviva per ravvivare il fuoco. Il termine veniva usato molto frequentemente anche con il significato di şbérla (v.). ŞVENTOLÀR, v.: Sventolare. Arieggiare. ŞVIDÀ, agg.: Svitato. Ma anche persona fuori di testa. No şé de créderghe gnénte: a şé un poco svidà. ŞVIDÀR, v.: (v. Dişvidàr) Svitare. ŞVODÀR, v.: (v. Şiodàr) Vuotare. ŞVÒDO, agg.: (v. Şiòdo) Vuoto. ŞVOIÀ, agg.: Svogliato. Senza voglia. ŞVOLÀR, v.: (v. Şiolàr) Volare ŞVÒLO, s.m.: Volo. ŞVOLTÀR, v.: Voltare. Girare. Lo gò vìsto şvoltàr cantòn. ŞVOLTISÀR, v.: Togliere l’involucro. SVÒRNO, agg.: Strano. Strambo.


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Tt

T, diciottesima lettera dell’alfabeto italiano. TABACÀR, v.: Fumare. Fiutare tabacco. Al giorno d’oggi l’abitudine di fiutare tabacco è praticamente scomparsa, ma ancora nella prima metà del secolo scorso c’era chi si portava dietro la solita presa di tabacco in polvere che, di tanto in tanto, prendeva con le due dita e se lo portava sotto il naso per aspirarlo. Abitudine, tra l’altro, presente anche tra le donne, che certamente non contribuiva a migliorare la loro femminilità. TABACHERÌA, s.f.: Rivendita tabacchi. TABACHÌN, s.m.: (v. Apàlto) Tabaccaio. TABÀCO, s.m.: Tabacco. TABANÈLA, s.f.: Tafano. Insetto somigliante ad una grossa mosca che di solito succhia il sangue di asini e cavalli e depongono le uova nelle piaghe. La voce viene usata anche per una persona insistente, che non da pace, insidiosa. TABÈLA, s.f.: Tabella. Lavagna. Ancora quando andavo alle elementari non si usava dire lavagna, ma più semplicemente tabèla. Era il luogo dove la maestra spediva per castigo i più chiassosi oppure chi non aveva fatto il compito. TABELÒN, s.m.: Tabellone. TÀCA, s.f.: Tacca. Ammaccatura. Macchia. Segno. Voglia sulla pelle. TACÀ, agg.: Attaccato. Presso. Vicino. A me stà sempe tacà.

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TACABOTÒNI, s.m.: Attaccabottoni. Seccatore. TACÀDA, agg.: Attaccata. Vicina. TACÀDA, s.f.: Battuta maliziosa. Frecciata. Critica. Osservazione. A ghe ga dà una tacàda che no se la dişmentegarà più. TACADÌSO, agg.: Attaccaticcio. Appiccicoso. TACÀGNO, agg.: Taccagno. Avaro. Tirchio. TACAMÀCO, s.m.: (v. Siròto) Cerotto. Cataplasmo. Impiastro. TACAPIÈRA, s.f.: Patella. Mollusco attaccato agli scogli, dal che prende anche il nome. In senso figurativo il termine viene usato anche per indicare persona attaccaticcia. TACÀR, v.: Attaccare. Incollare. Incominciare. Tacàr co le spudàce. A gà tacà un botòn che no finìsi mài. Ga tacà piòver. Tàca bànda. Chi varìa mai dìto che a şé cusì tacà al sòldo. El péro che gò impiantà no a se gà tacà. A me ga tacà ‘l rafredòr.. TÀCO, s.m.: Tacco. Lù a mì a me stà sòto i tàchi. TACÒN, s.m.: Toppa. Pezza. Debito. Şé péşo el tacòn del bùşo. TACONÀDA, s.f.: Coito. Fregatura. Chi varìa mài dìto, sùl più bél a me gà taconà. TACONADÒR, s.m.: Donnaiolo. Puttaniere. TACONÀR, v.: (v. Guàr. Ciavàr) Scopare. Fare sesso. Imbrogliare. Fregare. TACUÌN, s.m.: Taccuino. Portamonete. Portafoglio. TAIÀ, agg.: Tagliato. Reciso. Adatto. A şé pròpio taià par quel mestiér.


TAIADÈLE, s.f.pl.: (v. Lasàgna) Tagliatelle. Pasta fatta in casa a striscioline, chiamata anche Lasàgne.

TALIÀN, s.m.: Italiano. Fintanto che nell’area vigeva l’austriacante, Taliàni erano gli Italiani dopo Venezia.

TAIAPIÈRA, s.m.: Scalpellino.

TALPÌNA, s.f.: Talpa.

TAIÀR, v.: Tagliare. Recidere. Anche mescolare: taiàr ‘l vìn. Şé un calìgo che se lo pòl taiàr còl cortél. Taiàrghe la tèsta al mùs.

TALPÒN, s.m.: Pioppo.

TAIÈR, s.m.: Tagliere. Piatto di tavola rotonda, fornita di manico, o sporgenza, sul quale si versa la polenta appena cotta. Dopo qualche minuto di riposo, la polenta va tagliata a fette o a cubi con un pezzo di spago, che solitamente viene attorcigliato e conservato attorno al manico. Taiér è anche la tavolozza da cucina, di solito rettangolare, che serve per tagliare la carne, oppure per sminuzzarla in preparazione del pésto (v.) per la minestra. Anche nel dialetto isolano l’origine del termine è chiaro: taiàr (v.) = tagliare. TAIÈTO, s.m.: Taglietto. Piccolo taglio. Piccola ferita. Ma che dotòr, no te védi che şé sòlo un taiéto. TÀIO, s.m.: Taglio. Ferita. Scampolo di stoffa. Dàghe un tàio – Smettila. A lo gà méso de tàio = L’ha messo di traverso. Ròba de tàio – Stoffa venduta a metro. TAIUSÀR, v.: Tagliuzzare. Tritare. TÀL, agg.: Tale. Şé vignù a trovàrme un tàl, pàr dìrme che te me sercàvi. A şè tàl e quàl. TÀLARO, s.m.: Tallero. Antica moneta austriaca d’argento. Con la stessa denominazione è stata introdotta come moneta ufficiale dalla Slovenia all’indomani dell’indipendenza e prima di entrare nell’area dell’Euro.

TAMBASCÀR, v.: Parlare confusamente. Borbottare. TÀMBURA, s.f.: La ruota con pale dei piroscafi. Sembra, secondo alcune testimonianze, che uno di questi piroscafi fosse di linea tra Isola e Trieste e veniva chiamato Vapòr a tàmbure. TAMBURO, s.m.: Tamburo. Usato spesso anche per definir persona ignorante e dura di comprendonio. TAMIŞÀDA, s.f.: Setacciata. Passata al setaccio. TAMIŞÀR, v.: Setacciare. Prima de impastàr el pàn, bisogna tamisàr la farina. TAMÌŞO, s.m.: (v. Buràto) Setaccio. TAMPÀGNO, s.m.: Dado. Quello che si avvita al bullone. TAMPÈSTA, s.f.: Tempesta. Grandinata. TAMPÒN, s.m.: Tappo. TAMPONÀR, v.: Tappare. Chiudere. TANÀIA, s.f.: (v. Tenàia) Tenaglia. Pinza. Chela (di crostaceo). TANANÀ, s.m.: Chela (di granchio, di scorpione o delle forbicette). Molto più spesso, però, usato per definire persona sciocca e stupidella. TANÀR, v.: Affilare la falce del fieno. Per rendere la falce quanto più tagliente, prima di iniziare la falciatura del fieno il contadino pensava di affilarla battendo con un piccolo martello il filo della lama su un’apposita piccola

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incudine la cui estremità inferiore veniva conficcata nel terreno. Faceva parte del corredo di ogni contadino assieme al (v.) codàro che serviva a portarsi dietro la pietra per affilare la lama dopo ogni taglio.

TARDEGÀR, v.: (v. Intardegàr) Ritardare. Attardarsi. Indugiare. TARLÀ, agg.: Tarlato. Bucato dalle tarme. TARLÀR, v.: Tarlàr.

TÀNFA, s.f.: Feci bovine. Che derivi da tànfo (v.) = puzza?

TÀRMA, s.f.: Tarma. Tignola. Usato anche per definire persona che non dà pace, fastidiosa. A şé come ‘na tàrma: mai che a finirìa de ròmper.

TÀNFO, s.m.: Puzza. Odore sgradevole. Tanfo.

TARMÀR, v.: Tormentare. Punzecchiare.

TÀNGARO, s.m.: Tanghero. Villano.

TAROCÀR, v.: Litigare. Arrabbiare. Altercare. Brontolare.

TANDÀN, s.m.: Sciocco. Stupidone. TANÈCO, s.m.: Sciocco. Stupido.

TÀNTO, agg.: Tanto. Molto. A şè tànto mòna quànto che a şè gràndo. TAPÀ, agg.: Chiuso. Tappato. Coperto. Col frédo de ‘sti şòrni bisogna tapàrse ben. TAPABÙŞI, s.m.: Persona chiamata a colmare vuoti di presenza altrui. TAPÀR, v.: Chiudere. Tappare. Turare. TAPÈDO, s.m.: Tappeto. TAPESÀR, v.: Tappezzare. TAPESARÌA, s.f.: Tappezzeria. TAPESIÈR, s.m.: Tappezziere. TÀPO, s.m.: Tappo. In senso figurativo e scherzoso il termine viene usato per indicare persona di bassa statura. TÀRA, s.f.: Tara. Quello che rimane del lordo dopo che si è tolto il netto. Te sòn pròpio ‘na tàra. TARÀSA, s.f.: (v. Tersa) Terrazza. Terrazzo. Poggiolo. TARDÀR, v.: Tardare. Fare tardi. Indugiare. TARDÈTO, s.m.: Piccolo ritardo. TÀRDI, s.m.: Tardi. Méio tàrdi che mài. Şe vedémo sùl tàrdi.

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TARTAIÀR, v.: Tartagliare. Balbettare. TARTÀIFEL, s.m.: Persona prepotente. Persona severa. Persona autoritaria. Di derivazione sicura dal tedesco: Der Teufel = il diavolo. TARTAIÒN, s.m.: Tartaglione. Balbuziente. TARTÀNA, s.f.: Tartana. Grossa barca da pesca o da carico. TARTASÀR, v.: Maltrattare. Tartassare. Stavolta a scòla i lo gà pròpio tartasà. TARTÙFOLO, s.m.: Tartufo. A Isola forse era conosciuto il termine del famoso fungo, ma non credo che qualcuno abbia mai avuto occasione di mangiarlo. Forse per questo, con il nome di tartùfolo veniva chiamata la patata dolce, quella chiamata anche americana (topinambur). TASADÒRA, s.f.: (v. Taiér) Tagliere. Tavola per battere e tagliere le carni, ma anche la verdura. TASÀNIMA, s.f.: Rompiscatole, tasàr (v.) l’anema = rompere, tagliuzzare l’anima. A şé un tasànime.


TASÀR, v.: Tagliuzzare. Tritare con il coltello. Per esempio tagliuzzare finemente il lardo o la pancetta per fare il soffritto o, come lo chiamavamo, pèsto (v.). TASCHÈTOLA, s.f.: Specie di radicchio selvatico. Si raccoglieva per i campi per l’insalata: tra l’altro non costava niente. TASÈL, s.m.: Tassello. Terreno marnoso. In senso figurativo anche con il significato di pezzetto: la me dàghi un tasél de angùria. TÀŞER, v.: Tacere. Chi che tàşi a gà qualcòsa de scònder. TASTÀR, v.: Tastare. Palpare, Toccare. TASTÀRDO, agg.: Testardo. Cocciuto. Ostinato. Ormai, anche in dialetto viene usata quasi esclusivamente la voce presa direttamente dalla lingua italiana. TÀTO, s.m.: Neonato. Bambino. Vezzeggiativo usato soprattutto parlando con i più piccoli. Te sòn pròpio come un pìcio tàto. TAVÈLA, s.f.: Tavella. Mattonella. Veniva usata solitamente per coprire il tetto prima della posa delle tegole (v. Còpi). TAVÈRNA, s.f.: Taverna. A Isola con questa voce veniva chiamato il locale-trattoria Alle Porte, di fronte alla Farmacia Ravasini. Difficilmente ipotizzabile la ragione della denominazione. Forse perché dopo il primo locale adibito a caffè con tanto di lungo bancone, per accedere al ristorante si attraversava un passaggio a forma di arco che portava al secondo locale, praticamente quasi senza finestre. Ricordo, tuttavia, che proprio alla Taverna verso la fine degli anni ’50 era stato installato uno dei primi juke-box

di Isola. Oggi il locale ospita un mini Casinò. TÀVOLA, s.f.: (v. Tòla) Tavola. Negli ultimi decenni il termine dialettale Tòla è stato del tutto sostituito dall’italiano Tavola. Lo proponiamo soltanto a dimostrazione del costante e continuo trasformarsi della parlata isolana. TAVOLÀSO, s.m.: Tavolaccio. Supporto in legno per vari usi. Pedana. Quéla vòlta iéra mişéria nera. Pàr quel che me ricordo, solo i véci i gavéva ‘l paiòn. Noiàltri mùli se dormìva sul tavolàso. TAVOLÈTA, s.f.: (v. Canèta. Paièta) Cappello di paglia. Rigido e piatto. TAVOLÌN, s.m.: Tavolino. Piccolo tavolo. TAVONÀR, v.: Ritemprare zappe e picconi. Lavoro che veniva svolto dai fabbri con fuoco e con l’ausilio dell’incudine per correggere e affilare il taglio delle zappe. TE, pr.: Tu. Ti. Te. Te pàr? Se te lo dìşi ti. TÈCIA, s.f.: Tegame. Teglia. Chi che pàrla in récia no vàl ‘na técia. TÈGA, s.f.: Baccello. Guscio. Involucro. Chi me iùta a disgranàr le téghe de bìşi? TÈGNA, s.f.: Tigna. Affezione contagiosa del cuoio capelluto che molto spesso veniva scambiata per scabbia (v. Rògna). La tégna veniva curata con il taglio a zero dei capelli e con massaggiate di petrolio, come per i pidocchi. TEGNÌR, v.: (v. Tignìr) Tenere. TEGNÒŞO, agg.: Tirchio. Avaro. TÈLA, s.f.: Tela. Stoffa robusta e grezza. Se và ‘vànti cusì, restarémo dùti in bràghe de téla.

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TELÀR, v.: Fuggire. Svignarsela. TELÈR, s.m.: Telaio. Riquadro in legno per porte e finestre. TEMPERÀ, s.f.: (v. Intemperà) Bevanda mista di acqua e vino. TEMPÈSTA, s.f.: Tempesta. Burrasca. Maltempo. Anche sinonimo di grandine. ‘Stò àno, la tempésta me gà rovinà dùta l’ùa. TÈMPO, s.m.: Tempo. Opportunità. Stagione. Chì gà témpo no spéti témpo. Ròso de séra bél témpo se spéra, ròso de matìna la piòva şé visìna. Tànto témpo indrìo. Quésti şé brùti témpi. TEMPORÀL, s.m.: Temporale. TENÀIA, s.f.: (v. Tanàia) Tenaglia. Pinza. Chela (di crostaceo). TÈNDER, v.: Badare. Curare. Accudire. Prestare attenzione. No stà pensàrghe, pàr quele do òre ai fiòi che tenderò mi. TENTASIÒN, s.f.: Tentazione. TÈNTO, agg.: (v. Atènto) Attento. Stà ténto al pàl. TÈPIDO, agg.: Tiepido. TÈRA, s.f.: Terra. Podére. Gnànca lù a no sa quanta téra che a gà. A şé cascà col cùl pàr téra. TERÈN, s.m.: Terreno. Suolo. Tastàr el terén. TERÌNA, s.f.: Terrina. Zuppiera. Insalatiera. Cosa şé méio de séra che gavér ‘na béla terìna de radìcio e faşòi. TERLÌS, s.m.: Tessuto grezzo per abiti da lavoro. Co ‘ndàvo a lavoràr, la mia montùra iéra sempre bràghe e sachéto de terlìs blù. TÈRSO, agg.: Terzo. TÈSARA, s.f.: Tessera. La tèsara del pàn. TÈSTA, s.f.: Testa. Capo. Memoria. Me şé ‘ndà fòra de tésta. A se gà

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méso in tésta. Me şé saltà in tésta. Ficàrse in tésta. Tésta de àio. Chi che no gà tésta gà gàmbe. A gà pérso la tésta. TESTÀDA, s.f.: Testata. Colpo di testa. A se gà butà şò del mòlo in testàda. TESTÒN, agg.: Testone. Testardo. TESTIÈRA, s.f.: Spalliera del letto. TÈTA, s.f.: (v. Néna) Mammella. Poppa. A şé delicato come le téte dele mònighe. La gà le téte fiàpe. Téte e cùl şé la dòte del Friùl. TETARIÒL, s.m.: Tettarella. Succhiotto. TETÌNA, s.f.: Tettina. Piccola mammella. Chi non conosce i versi di quella bella canzone istriana che, negli ultimi anni è tornata nuovamente in auge grazie a interpretazioni e arrangiamenti moderni: Che béle tetìne la gà, la campagnola… TETÒNA, s.f.: Donna dal seno prosperoso. TÌBIO, top.: Tibio. La piazzetta adiacente alle Porte, oggi Piazza Kristan. Nel vocabolarietto dei termini dialettali isolani, il prof. Morteani riporta la voce raccolta dalla signorina Delise, per cui Tibio equivarrebbe a “piccolo piazzale alle porte del paese”. TIÈSA, s.f.: Frumento ammucchiato prima della trebbiatura. TIGNÌR, v.: (v. Tegnìr) Tenere. No şé Cristo che tégni. Me tién de pisàr. Sé un de quéi che i tién el cùl strénto. No se pòl tignìr el cùl su do scagni. Bişògna tignìr dùro. Tignìr a batìşo. Tignìr in amante. Tignìr el mùşo. TIMÒR, s.m.: Tumore. Cancro. TINÈL, s.m.: Tinello. Stanza da pranzo.


TINTINÀR, v.: Tentennare. Vacillare. TIÒLA, s.f.: Capanno attrezzato per l’uccellagione. TÌRA, s.f.: Fare la spia. Agguato. Sorveglianza. A Tòio bişogna fàrghe la tìra, de lù non şé de fidàrse. TIRÀ, agg.: Tirchio. Spilorcio. Avaro. TIRÀCA, s.f.: Bretella. Il termine viene usato in senso figurativo per indicare persona che, nel discorrere, non sa essere preciso e concreto: te sòn péşo de ‘na tiràca. TIRÀDA, s.f.: Tirata. Tratto. Boccata. Prima de butàr vìa la cìca, dàme ‘na tiràda de spagnoléto. Şé un lavòr che va fàto dùto in una tiràda. TIRADÒR, s.m.: Tirante. Tirella. Cinghia fissata al comàto (v.) per mezzo di due funi legate al balansìn (v.) aiuta el mùs (v.) a tirare il carro. TIRAMÒLA, s.f.: Stendibiancheria. Il termine veniva usato dai bambini anche per indicare il chewing gum che, più comunemente, veniva chiamato anche gòma americana (v.). Frequentemente usato anche figurativamente per indicare discorso o azione che si dilunga senza concludere. TIRAPÌE, s.m.: Tirapiedi. TIRÀR, v.: Tirare. Sparare. Scagliare. Trascinare. Tendere. Indugiare. Tiràr pàr le lònghe. Ogi gò tirà la pàga. Làsime tiràr el fià. No stà tiràr el cùl indrìo. Ti te me pàrli de coràio, che te se tìri subito şò le bràghe. Tiràr su i fiòi. Tiràr i cràchi. TÌRO, s.m.: Tiro. A stà a un tìro de s’ciòpo. Stanòte gò dormì dùto de un tìro.

TIRÒN, s.m.: Strappo. Strattone. TÌTOLA, s.f.: (v. Bovìsa) Dolce Pasquale. TÒ, pr.: Tuo. Tò pàre. Tò màre in cariòla. TOCÀ, agg.: Tocco. Fuor di senno. TOCÀR, v.: Toccare. Spettare. Nisùn se gà fàto ‘vànti e me gà tocà ciapàrlo in màn a mì. Me gà tocà ‘na béla. Màma, Tòni me gà tocà ‘l cùl. TOCHÈTO, s.m.: Pezzettino. TOCIÀDA, s.f.: Immersione. Tuffo. Salto in acqua. Intingere il pane nel sugo. Se ‘l màr fòsi tòcio e i mònti de polénta, oh màma che tociàde, polénta e bacalà… TOCIÀR, v.: Intingere. Inzuppare. Ammollare. Immergere. Tuffare. TÒCIO, s.m.: Sugo. Intingolo. Salsa. Polénta còl tòcio. Veniva usato anche come sostituzione di bestemmia: Òrco tòcio. Vàdo in Pùnta a fàr un tòcio. TÒCO, s.m.: Pezzo. Boccone. Tòco de mùs. Dàme un tòco de pàn. Mario, a şé un tòco de mùlo, ma ànca Marìa la şé un tòco de màmola. TÒGNA, s.f.: Lenza. Credo non sia esistito ragazzo o bambino isolano che non fosse stato possessore di una bella raccolta di togne, tutte di filo di nailon di diverse lunghezze e diametri, come pure di una raccolta di ami e sugheri da attaccarveli sopra. E non credo sia esistito bambino o ragazzo, ma anche uomo, che non abbia trascorso almeno qualche ora con la togna in mano sul molo o sulla diga in attesa di prendere qualche spàro (v.). Con un po’ di fortuna, a volte, ci scappava anche la cena. La canna da pesca, almeno a Isola, venne introdotta soltanto

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nel dopoguerra, soprattutto perché troppo costose. No stà a ròmperme le tògne. TÒLA, s.f.: Tavola. Asse. Desco. Anche la tòla déla polénta, la tavola ritagliata rotonda con manichetto che veniva chiamata pure taiér (v.). Şé òra de pareciàr la tòla. TOMBÌN, s.m.: Cunicolo. Pozzetto per lo scolo delle acque, coperto da grata o chiusino. TOMBOLA, s.f.: Capitombolo. Caduta. Ruzzolone. Il gioco della tombola. Era il gioco delle domeniche pomeriggio delle famiglie isolane che passavano il tempo assieme ai vicini ed agli amici giocando a tombola. TOMBOLÀR, v.: Cadere. Ruzzolare. TOMBOLÌN, s.m.: Bambino grassottello e vivace. TÒMBOLO, s.m.: Cuscino di forma cilindrica imbottito. Veniva e viene usato per ricami, pizzi, merletti. Da non dimenticare che agli inizi del secolo scorso esisteva a Isola una scuola del merletto che era riuscita a diventare famosa. Venne abolita negli anni ’30, sembra per mancana di interesse tra le giovani Isolane. TOMBOLÒN, s.m.: Ruzzolone. Capitombolo. TOMÈRA, s.f.: Tomaia. La parte superiore della scarpa che fascia il piede. Secondo i dizionari di lingua italiana deriverebbe dal greco antico: tomariòn = pezzo di cuoio. TÒMO, s.m.: Persona singolare e originale. A şé un bél tòmo. TÒN, s.m.: Tonno. TÒN, s.m.: Tuono. Domàni cambia el témpo: sarà làmpi e tòni.

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TONÀR, v.: Tuonare. TÒNCO, agg.: Tonto. Stupido. TÒNDO, agg.: Rotondo. Di forma circolare. TONELÀDA, s.f.: Tonnellata. TÒNI, n.pr.: Diminutivo di Antonio TORCÈR, s.f.: Lavoratore addetto al torchio delle olive. TÒRCIO, s.m.: Torchio. Frantoio. Sia quello per spremere le vinacce, sia quello per la spremitura delle olive. Di particolare importanza, naturalmente, soprattutto quelli per la spremitura delle olive dei quali, sin dal medio evo, a Isola ne esistevano alcuni. Tant’è vero, che sulla loro attività vigilava addirittura il Comune con alcune delibere sancite nello Statuto del 1360. Le norme, per esempio riguardavano sia la concessione per la torchiatura, sia la quantità che ogni contadino poteva poi vendere naturalmente a Venezia. Alcune norme, inoltre, vietavano di gettare in mare quanto rimaneva dalla torchiatura. TORNÀR, v.: Tornare. Ritornare. Rendere. Ghe gò tornà i sòldi che a me gavéva imprestà. Tornàr indrìo. TORNIDÒR, s.m.: Tornitore. TÒRŞIO, avv.: Attorno. In giro. TORŞIOLÒN, agg.: Sfaccendato. Ozioso. Bighellone. TÒRSO, s.m.: Torsolo. Quello della mela, del cavolo. TOŞÀR, v.: Tosare. La tosatura delle pecore, che a Isola erano quasi una rarità, mentre la voce veniva usata per la rapatura dei capelli dei bambini. TÒSE, s.f.: Tosse. De pìci gavévimo dùti la tòse pagàna. TÒSEGO, s.m.: Tossico. Veleno.


TOSÌR, v.: Tossire. TÒŞO, s.m.: Ragazzo. Preso di sana pianta dal veneziano, anche se a Isola raramente veniva sostituito a mùlo (v.) o puto (v.). TÒTANO, s.m.: Mollusco simile al calamaro. Buono. Il termine viene usato anche per indicare in senso figurato persona ignorante e dura di comprendonio. TOVÀIA, s.f.: Tovaglia. TOVAIÒL, s.m.: Tovagliolo. TRABÀCOLO, s.m.: Grosso barcone da trasporto, a vela o a motore. TRACAGNÒTO, agg.: Tozzo. Tarchiato. Persona bassa di statura e piuttosto robusta. TRÀIBER, s.m.: Imbroglione. Ciarlatano. Sicuramente deriva dal tedesco Treiber. TRÀINA. s.f.: Solfa. Tiritera. Şé sempre la sòlita tràina. TRAMONTANA, s.f.: Forte vento da Nord. TRAMONTANÈŞE, s.f.: Vento di tramontana. TRÀPA, s.f.: Grappa. Acquavite. TRAPÈTA, s.f.: Grappino. TRAPOLÀR, v.: Trafficare. Compiere azioni poco pulite. TRAPOLÈR, s.m.: Imbroglione. Persona che vive di espedienti. TRAPOLERÌA, s.f.: Imbroglio.

TRAVAŞÀR, v.: Travasare. Mescere. TRAVERSA, s.f.: Grembiule. Quello da cucina che le donne usano legare attorno ai fianchi, magari con su qualche disegno o qualche scritta spiritosa. TRAVERSÒN, s.m.: Grembiulone. TRÀVO, s.m.: Trave. TRÈDIŞE, num.: Tredici. TREMARÈLA, s.f.: Fifa. Paura TREMARIÒLA, s.f.: Tremore. Solitamente il tremolio dei vecchi o degli ammalati di qualche morbo. TREMÀSO, s.m.: Forte tremore. Come quello provocato dai brividi della febbre. TREMOLO, s.m.: Torpedine. Pesce marino che a toccarlo emette una scarica elettrica. TREMÒN, s.m.: Striscia di terreno larga tre spanne. TRIPÌE, s.m.: Treppiede. TRESÈNTO, num.: Trecento. TRÈSO, agg.: Sdraiato. Disteso. Allungato. TRÈSO, s.m.: Traversa. Assicella che unisce due parti. Così anche il pezzo di tavoletta che inserita nelle scanalature delle imposte provvede a tenerle bloccate quando sono aperte.

TRASANDÀ, agg.: Trasandato. Trascurato.

TRÈSO, agg.: Traverso. Una frégola de pàn me şé ‘ndàda pàr trèso, che me paréva de sofigàr.

TRÀTA, s.f.: Rete da pesca. Rete a strascico.

TREVOLÌNA, s.f.: Treulina. Uva bianca da tavola.

TRATIGNÌR, v.: Trattenere.

TRÌBIA, s.f.: Trebbia. Trebbiatrice.

TRAVAIÀR, v.: Travagliare. Sopportare.

TRIBOLÀR, v.: Faticare. Soffrire.

TRAVÀIO, s.m.: Travaglio. Fatica. Difficoltà. Ansia. Sacrificio.

TRINCÀR, v.: Bere smodato.

TRIFÒIO, s.m.: Trifoglio.

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TRÌPA, s.f.: Pancia. Trippa. A gà méso su trìpa. ‘Ndémo in ostarìa e ciamémo una de trìpe. TROMBÀ, agg.: Fregato. Bocciato. TROMBÀR, v.: Fregare. Fottere. Bocciare. TROMBÌNI, s.m.pl.: Stivali di gomma. TRÒPO, agg.: Molto. Troppo. Vòio el iùsto, né tròpo, né pòco. TRÒŞO, s.m.: Sentiero. Viottolo. Il Vascotto ritiene che sia voce presa dai capodistriani, anche se personalmente mi ricordo di averlo sempre sentito, almeno quando ero bambino e le nostre scorribande per i tròşi de campagna erano quasi quotidiani, purché ci fosse bel tempo. TROVÀR, v.: Trovare. TÙBO, s.m.: Tubo. Poliziotto. Stà ‘ténto come che te pàrli, àra che i tùbi te scòlta. No sérvi che te spiégo, co no te capìsi un tùbo. TULULÙ, s.m.: Scemo. Stupido. TÙNEL, s.m.: Tunnel. Galleria. Famoso a Isola el tùnel de Saléto costruito ai tempi della Parenzana, oggi trasformato in pista ciclabile e passeggiata ricreativa. TUTINTÙN, avv.: (v. Dutintùn) Improvvisamente. Di colpo.

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Uu U, diciannovesima lettera dell’alfabeto italiano. ÙA, s.f.: Uva. Qualche tempo addietro, con alcuni amici, facevamo a gara chi si ricordava i tipi di uva che un tempo esistevano a Isola. Ne è venuto fuori un elenco abbastanza consistente che, certamente, non è completo. A partire dal Re di tutti i vini, decantato dal massimo poeta isolano, Pasquale Besenghi degli Ughi: il Refòsco – Miglior Re io non conosco del buon Re Fosco. La Malvasia, la Negraténera, la Bontémpa, l’Işolàna, la Fràgola, il Moscàto, la Matalòna, la Travolìna, il Cìpro, la Bregògna, il Tintòr, l’ Agostàna, la Pagadébiti, la Luliàna, la Vardàsa piranéşa, i Coiòni de gàlo. Probabilmente ce n’erano ancora altri tipi che meriterebbero di esser portati alla luce, se non altro nell’ambito di una storia del vino che, per secoli, ha rappresentato fonte di guadagno e di vita. C’erano poi quelle chiamate ùa, ma che uva non erano: l’ùa spìna, che erano delle bacche di un arbusto alquanto spinoso, e l’ùa de San Giovàni, oggi più comunemente chiamato rìbes. UBIDIÈNSA, s.f.: Obbedienza. UBIDÌR, v.: Obbedire. Ascoltare. UFISIÀL, s.m.: Ufficiale. UFÌSIO, s.m.: Ufficio. Funzione religiosa. Interessante l’interpretazione che ne dà il Vascotto: Scùri in ufìsio = imposte socchiuse, disposte come un libro posato su un leggio aperto,

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ma in modo da formare non un piano, bensì un angolo ottuso, poiché questa era la posizione di certi libroni appoggiati sul leggio durante certi servizi religiosi. ÙFO, s.m.: Gratis. Senza pagare. Gavémo magnà a ùfo. ÙGNOLO, agg.: Singolo. Unico. ULÌVA, s.f.: Oliva. ULTIMÀDA, s.f.: Rifinitura. Me mànca de dàrghe l’ultimàda. ULTIMÀR, v.: Ultimare. Finire. Rifinire. UMÀN, agg.: Umano. Intelligente. Disponibile. Rivolto in particolare a certi animali domestici che sembrano essere particolarmente dotati nell’eseguire e comprendere la volontà del padrone (cani, gatti, asini, cavalli). UMIDÌR, v.: Inumidire. Rendere umido. UMIDÌSO, agg.: Umido. ÙMIDO, agg.: Umido. Bagnato. No şè gnènte de mèo che gavèr pàr sèna dò bèi tòchi de lèvro in ùmido. ÙN, num.: Uno. Un. Ùn drìo l’àltro. Dùto int’ùn. Ùn, do, tré, fina che còro no me ciapé. ÙNDIŞE, num.: Undici. UNÌDO, agg.: Unito. Messo assieme. URINÀL, s.m.: (v. Bucàl) Pitale. Vaso da notte. ÙRTA, s.f.: Astio. Insofferenza. Antipatia. Inimicizia. A şé un tìpo stràno, a şé in ùrta con dùti. URTÀ, agg.: Urtato. Toccato. URTÀDA, s.f.: Spinta. URTÀR, v.: Urtare. Scontrare. Indisporre. Ogni volta che lo sénto a me ùrta i nérvi.


URTÒN, s.m.: Spintone. UŞÀ, agg.: Usato. UŞÀNSA, s.f.: Usanza. Tradizione. Costume. Consuetudine. UŞÀR, v.: Usare. Adoperare. Abituare. Co iéro pìcio se uşàva ‘ndàr a Trieste in bàrca. UŞÈL, s.m.: Uccello. Conosciuta e anche usata a Isola la polénta còi uşéi. Spesso il termine è usato per indicare l’organo sessuale maschile. UŞELÀNDA, s.f.: Uccellatoio. Posta per l’uccellagione. UŞELÀR, v.: Uccellare. UŞELÈTO, s.m.: Uccellino. Filastrocca: Uşelìn che vén del màr, quànte ròbe pòl portàr? Pòl portarne una sòla, questo drénto e questo fòra! UŞÌNA, s.f.: Officina. UŞMÀR, v.: Fiutare. Intuire. Annusare. Péna che a gà uşmà l’aria che tirava, a se la gà mocàda. ÙŞO, s.m.: Usanza. Abitudine. Şé un’abitùdine che no se ùşa più.

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Vv

V, ventesima lettera dell’alfabeto italiano. VÀ, v.: Va. Voce del verbo andare. Và in mòna. No me và e no me vién. No ghe ne và bèn gnànca ùna. VÀCA, s.f.: (v. Arménta) Vacca. Mucca. Anche donna di malaffare. Quéla vàca de su’ màre. A se ga butà in vàca. VACÀDA, s.f.: Vigliaccheria. Porcheria. Azione disonesta. VADAGNÀR, v.: Guadagnare. Vincere. Avanzare. VADÀGNO, s.m.: Guadagno. VÀDO, v.: Vado. Voce del verbo ‘ndàr o andàr. Mi vàdo, ti te vadi, lù a và, noi ‘ndémo, voi ‘ndé, lòri i và. VÀGA, s.f.: (v. Dalìn. S’cìnca) Biglia. Pallina. Palline di vetro che rappresentavano uno dei giochi preferiti dai bambini. Prima di trovarsi in commercio quelle colorate di vetro, si giocava con palline di terracotta, più fragili. VAGÒN, s.m.: Carrozza ferroviaria. Misura di peso equivalente a mille tonnellate. VALDERNÌGA, top.: Toponimo della vallata che prende il nome dall’omonimo torrente a nord-est dell’anfiteatro isolano. VÀLE, s.f.: Valle. Pianura. La vàle de Strugnàn. VALÈR, v.: Valere. Costare. Dùto insiéme no vàl ‘na cìca. VALESÈLA, top.: Vallesella. Toponimo presente ai limiti del territorio comunale confinante con Pirano. Il toponimo è

presente nell’art. 73 del III Libro degli Statuti di Isola del 1360 in lingua volgare. Si tratta di un terreno descritto abbastanza dettagliatamente e, probabilmente, trovandosi proprio al confine del Comune, rappresentava uno dei motivi per cui tra Isola e Pirano esistevano frequenti conflittualità. Già il titolo del Capitolo ammonisce De non lavorar il Terreno della Vallesella” continuando poi “Statuimo, et ordinamo, che niuno Cittadino de Isola ardisca per l’avvenir lavorar del terreno della Vallesella, cioè dalla strada, che va à S. Basso verso Isola de sotto la Sera in pena de pagar lire venticinque Venetiane al Comun de Isola, et il lavoriero, che sarà fatto sopra sia reduto in niente. Et il Podestà non debba dar licentia ad alcuno, che volesse lavorar nel predetto terreno. Et niuno nostro Cittadino sia ardito conoscer, ò ricever del detto terreno di alcun huomo dà Pirano overo dà alcun’altro Forestiero sotto la predetta pena da esserli tolta irremissibilmente. Et tamen sia in arbitrio del Sig.r Poestà di lavorar, ò dar licentia di lavorar del detto terreno. VALIŞÀ, agg.: Terreno che è stato appianato. VALÌSA, s.f.: Campo pianeggiante. Va sottolineato che la quasi totalità dei campi lavorati lungo i pendii di quello che veniva definito l’anfiteatro di Isola, cioè le colline che circondano la città, erano rappresentati da terrazze e valìse lavorate esclusivamente a mano e che oggi sono in buona parte ricoperte da sterpaglie. VALÌŞA, s.f.: Valigia. VALIŞÀR, v.: Rendere piano un terreno. Appianare un pezzo di terra.

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VÀLSER, s.m.: Valzer. Ballo molto in voga ai tempi di Francesco Giuseppe. Dài, Nìno, fàme fàr un gìro de vàlser. VÀMPA, s.f.: Fiamma. VAMPÀDÀ s.f.: Fiammata. VANÈŞA, s.f.: Pezzetto di campo destinato alla semina di ortaggi. Gò finì de seminàr ‘na vanéa de radìcio. VANSÀR, v.: Avanzare. Essere in credito. Dover ricevere qualcosa. Pàr séna gavémo quel che ne şé restà pàr prànso. De Tòio vànso ancora do ore de lavòr. VANSÀTOLO, s.m.: Rimasuglio. Resto. Avanzo. VANTAŞÀ, agg.: Avvantaggiato. VANTAŞÀR, v.: (v. Vantişàr) Avvantaggiare. VÀNTI, avv.: Avanti. VANTIŞÀR, v.: (v. Vantaşàr) Avvantaggiare. Anticipare. Approfittare. VAPÒR, s.m.: (v. Bapòr) Vapore acqueo. Piroscafo. VAPÒR A TÀMBURO, s.m.: Piroscafo con le ruote laterali. VAPORÈTO, s.m.: Vaporetto. VÀRA, v.: (v. Vàrda. Àra) Guarda. Bada. VÀRDA, v.: (v. Vàra. Àra) Guarda. Bada. VARDÀDA, s.f.: (v. Ociàda) Occhiata. Sguardo. Te me dàghi ‘na vardàda ai fiori domàni che son via? VARDÀR, v.: Guardare. Osservare. Badare. Custodire. Fare attenzione. Şé una de quéle ròbe delicate tìpo vàrdime-làsime. Vardàr de brùto. Quéi do’, in sti ultimi tempi, gnànca no i se vàrda più.

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VARDÀSA, s.f.: (v. Verdàsa) Tipo di uva da vino. Qualcuno la definiva Vardàsa o Verdàsa Piranéşa, forse perché inizialmente portata a Isola da qualche contadino che l’aveva presa a Pirano. VARGÒN, s.m.: Bastoncino con piccoli intagli nei quali venivano fissate le vis’ciàde (v.). VARICHÌNA, s.f.: Varecchina. Candeggina. VARIÒLA, s.f.: Cicatrice della vaccinazione contro il vaiolo. Il termine variòla, tuttavia, nella terminologia medica rappresenta il nome ormai in disuso del vaiolo. Chi ha una certa età ricorda certamente che la parte superiore del braccio era segnata con una o due cicatrici rotondeggianti formatesi in seguito alla vaccinazione. Per quanto mi ricordo, la vaccinazione, almeno nei primi anni del dopoguerra, veniva effettuata direttamente sui bambini che frequentavano la scuola. Oggi, dicono, non serve più in quanto il virus che provocava questa grave malattia infettiva è stato completamente debellato ed annientato. VARSÒR, s.m.: Vomere. La lama dell’aratro che rovescia la terra formando il solco. VÀŞI, s.m.pl.: Sostegni per natanti. Vàşi venivano chiamati i grossi travi che, durante i vari e ben oleati, facevano scorrere l’imbarcazione verso il mare. VÀŞO, s.m.: Vaso. Barattolo. Recipiente. VAŞOLÌN, s.m.: Asticella sottile di legno. Veniva usata per rifinire lavori di muratura, come battiscopa oppure per incorniciare o proteggere angoli. VÀTA, s.f.: Ovatta.


VÈ, pr.: Vi. Vè dìgo e vè spiègo. Vè la farò vèder mi. VÈCIA, s.f.: Bavosa, pesce di mare. Detto anche Limòşa o Strìga. VECIÀIA, s.f.: Vecchiaia. VECIÀSA, s.f.: Vecchiaccia. Termine dispregiativo per indica donna anziana brutta e cattiva. VÈCIO, agg.: Vecchio. Usato. Antico. Vécio come el cùco. VEDÈL, s.m.: (v. Vidèl) Vitello. VEDELÒN, s.m.: Vitellone. VÈDER, v.: Vedere. Vèder ciàro. Chi se gà vìsto se gà vìsto. Cos’ te vòl che te dìgo, lo védo e no lo védo. Ghe la farémo vèder. Qualche vòlta bisogna fàr fìnta de no vèder. Lo go vìsto solo de şbrìs. VEDÙDOLA, s.f.: (v. Vidùdola) Vilucchio. Erba rampicante molto frequente nei nostri campi, con fiori a campanella, molto gradita ai conigli. VÈGNA, s.f.: Linea tracciata per terra. Soprattutto in alcuni giochi di bambini, dove la linea segnava il limite al quale bisognava avvicinarsi nel lancio delle làvre (v.), cioè delle scaglie appiattite di pietra, o di altri oggetti. VEGNÌR, v.: (v. Vignìr) Venire. Arrivare. Giungere. Còme te şé vegnù el vestito? VÈIA, s.f.: Veglia. In particolare quella che si svolgeva per onorare la morte di qualche parente o vicino. Manifestazioni che, almeno un tempo, rappresentavano delle vere e proprie occasioni di incontro con parenti o conoscenti lontani, ma anche per carpire qualche novità o scroccare qualche bicchiere di vino e, a volte, un rebechìn (v.). VEIÀR, v.: Vegliare.

VÈL, s.m.: Velo. Pelo. VELÀDA, agg./s.f.: Velata. Soprabito leggero. VELÈN, s.m.: Veleno. Sta minéstra la şé màra come ‘l velén. VELENÀ, agg.: Avvelenato. VELENÀDA, agg.: Avvelenata. VELENÀR, v.: Avvelenare. VELIÒN, s.m.: Veglione. I veglioni di cui rimane memoria a Isola sono quelli di Carnevale e di S.Silvestro. Venivano organizzati nel grande salone dell’Arrigoni. VELTRÌNA, s.f.: Vetrina. Quella dei negozi. VELUDÀ, agg.: Velutato. VELÙDO, s.m.: (v. Vilùdo) Velluto. Şé una putéla ‘sài béla: la gà la péle come ‘l velùdo. VÈNA, s.f.: Vena. Làsime stàr che no sòn in véna de fàr monàde. VENCHÈR, s.m.: Vinco. Giunco. L’albero sul quale crescono i vimini VÈNCO, s.m.: Vimine. VENDARÌGOLA, s.m.: (v. Venderìgola) Venditrice. Rivenditrice. Negoziante. Il termine, però, veniva usato soprattutto per indicare il rivenditore di frutta e verdura. VENDÈMA, s.f.: Vendemmia. VENDEMÀR, v.: Vendemmiare. VÈNDER, v.: Vendere. VENDERÌGOLA, s.m.: (v. Vendarìgola) Venditrice. Rivenditrice. Negoziante. VÈNE, s.m.: Venerdì. Né de véne né de màrte no se se spòsa e no se pàrte. VENESIÀN, s.m.: Veneziano. Abitante di Venezia.

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VÈNTIŞÈL, s.m.: Venticello. ‘VÈR, v.: (v. Gavér) Avere. Mi gò, ti te gà, lù a gà, noi gavémo, voi gavé, lòri gà. Magàri vérghene de più. VÈRA, s.f.: Vera. Anello nuziale. VERDÀSA, s.f.: (v. Vardàsa) Tipo di uva da vino. VERDERÀME, s.m.: Verderame. Miscela di acqua, calce e solfato di rame usato per irrorare le viti come anticrittogamico. VERDÌSO, agg.: Verdicchio. VERDOLÌN, agg.: Verdognolo. VERDÒN, s.m.: (v. Bòro) Ramarro. VERDÒNI, s.m.pl.: Verdoni. Così chiamato un tipo di piselli e, pure, un tipo di fichi. VERICÒŞO, agg.: Varicoso. Che ha le varici. VERÌGOLA, s.f.: Trivella. Trapano a mano. Punteruolo. VÈRMO, s.m.: Verme. Bruco. El putél a no stà férmo un momento, come se a gavési i vérmi. Sto àno dùte le sariéşe le gà ‘l vérmo. VERNÀCOLO, s.m.: Vernacolo. Dialetto. Parlata locale. Ha lo stesso significato e la stessa pronuncia del termine in lingua italiana. Lo riportiamo soltanto per offrire al lettore qualche notizia sulle origini della voce. Riportiamo di seguito l’interpretazione che ne dà il “Vocabolario etimologico della lingua italiana” del Pianigiani (Firenze, 1907): “lat. VERNÀCULUS, propr. appartenente ai servi nati in casa, e quindi domestico, paesano, da VÈRNA per VÈSNA quasi vesigena, schiavo nato da una schiava in casa del padrone, e questo dalla rad. Vas – abitare, restare,

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fermarsi, d’onde il sscr. Vâs-a, vas-ana abitazione, vedic. Vas-tu città, vâs-tu sito, casa, vas-tya abitazione, il got. Vis-an = aa. A. ted. Vës-an rimanere, stare (cfr. mod. ted. Ge-wegen stato), l’a. a. ted. Wist abitazione, l’irl. Foss per voss restare; ed a cui pur rannodasi il gr. àsty per vàsty = sscr. ved. vastu città, astéios cittadino. VÈRNA adunque è una di quelle parole portate dall’Asia nel suolo italico dai primi emigranti, e che perciò si trovano isolate nella lingua latina e non possono interpretarsi che con l’aiuto del sanscrito. Gli antichi perciò la spiegarono con vernàre germogliare in primavera (lat. Ver), confrontati i nati dalla schiava ai germogli o frutti della terra. Oggi la voce Vernàcolo rimane solo come attributo della lingua naturale d’un paese, in quanto si scosta dalla lingua comune, ma parola sarebbe la Lingua de’ servi, quindi plebea, volgare.” VERNIŞÀR, v.: Verniciare. Pitturare. Dipingere. VERNÌŞE, s.f.: Vernice. Pittura. VÈRO, agg.: Vero. Verità. No me pàr véro. Véro còme Dìo. VÈRO, s.m.: Vetro. Già a partire dagli anni 50 del secolo scorso, il termine venne completamente soppiantato dall’italiano vetro. VÈRŞA, s.f.: Verza. Ricordo che a Natale, molti preparavano le Vérşe in técia. VÈRŞER, v.: Aprire. Spalancare. Sbloccare. Vérşi i òci. In dùta la séra a no gà vérto bòca. Bisogna vérşer la finéstra, no te sénti che tànfo? VERŞIDÙRA, s.f.: Apertura, VERTÌR, v.: Avvertire.


VÈRTO, agg.: Aperto.

VILIÀCO, agg.: Vigliacco.

VÈSO, s.m.: Vezzo. Abitudine. Sarà ànca bòn, ma no sòn vèso a sti magnàri.

VILIŞÀN, top.: Vilisano. Toponimo che secondo alcuni è di origine romana e dovrebbe derivare da Laevidius o Laevinius. Situtato nelle vicinanze della Valderniga è conosciuto e citato in alcuni documenti fin dal XVI secolo.

VESTÀIA, s.f.: Vestaglia. VESTÌ, agg.: Vestito. Abbigliato. L’òmo a se gà vestì de fésta. VESTÌR, v.: Vestire. Indossare. VIÀLTRI, pr.: Voialtri. Voi. VIAŞÀR, v.: Viaggiare. VIÀŞO, s.m.: Viaggio. Trasporto. Prìma de finìr dovarò fàr alméno do viàşi. VÌDA, s.f.: Vite. La pianta dell’uva. VÌDA, s.f.: Vite. Chiodo filettato per legno o per metallo. VIDÈL, s.m.: (v. Vedèl) Vitello. VIDÙDOLA, s.f.: (v. Vedùdola) Vilucchio. VIÈR, s.m.: Viario. Spazio in cui confluiscono più vie. Da questo il toponimo isolano Viér, che durante la presenza italiana era stato trasformato in Piazza dell’Annessione, mentre oggi è stato denominato in Piazza dei Caduti. Un sagace Isolano ebbe a commentare: I podéva lasàrghe el nome che gavéva soto l’Italia. Tanto, anesiòn iéra prìma e anésion iéra dòpo. VÌGNA, s.f.: Vigna. Vigneto. Antico proverbio piranese: l’òcio del paròn şè ludàme per la vìgna. VIGNÌR, v.: (v. Vegnìr) Venire. Arrivare. Giungere. El màl vién a brénte, el bén vién a ònşe. No so còme, ma gràsie a Dio, ne sòn vignù fòra. VIGNÙ, agg.: Venuto. A şè vignù giusto in tempo. VILÀN, s.m.: Villano. Contadino. Schérsi de màn, schérsi de vilàn. Càrta cànta, vilàn dòrmi.

VILISÒN, s.m.: Tipo di vite selvatica. Produce bacche non commestibili ed i rami, sottoli e tortuosi, venivano usati per fare i cerchi (v. Ròsi) per le brénte (v.) VILÙDO, s.m.: (v. Velùdo) Velluto. VÌN, s.m.: Vino. Si può ben dire che la nascita della località oggi denominata Isola, storicamente è coincisa con la venuta – chissà quando – della vite e con la produzione del vino. Prodotto che, assieme all’olio d’oliva, ha rappresentato nei secoli la più importante fonte di sostentamento e di guadagno della popolazione isolana. Una voce che sembra assurgere nuovamente, almeno stando alle vicende degli ultimi anni, ad una nuova rinascita, con la ripresa dei vecchi vitigni e con la destinazione di nuove aree a questo importante prodotto del lavoro umano. El vìn ghe şé ‘ndà in tésta. Questo sì che şé vìn de bòta. Che il vino abbia da sempre rappresentato un’importante elemento della produzione agricola isolana, lo dimostra anche il fatto che la sua produzione ed il suo commercio veniva regolato pure dallo Statuto medievale del 1360. Così, nella sua trascrizione volgare, viene stabilito che “Niuno ardisca vender Vino alla Menuta senza licentia di Iusticieri”, e prosegue ribadendo che “Volendo ressister alla fraude di quelli che venderanno Vino alla Menuta in ascosto senza la Mesura di Iustitieri in fraude del Comun,

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et di quelli, che conducono, et comprano il Datio, Statuimo che non sia alcuna persona Maschio ò Femina, terriera ò Forestiera, quali, ò quale in alcun modo ardiscano, ò presumano in palese, ò in secreto vender vino alla menuta senza la Mesura di Iustitieri sotto pena de lire diese de piccoli per ogni volta, che sarà contrafatto, et più ad arbitrio del Sig.r Podestà.” VINÀSA, s.f.: Vinaccia. Residui dell’uva dopo che, a fermentazione finita, rimangono dopo aver trasferito il vino in altra botte. Usato anche per indicare una quantità di vino fuori del normale. A se gà incoconà de vinàsa come un mùs. VÌNSER, v.: Vincere. VÌNTI, num.: Venti. VÌSARE, s.f.pl.: Viscere. Grembo. VÌSCA, s.f.: Bacchetta lunga e flessibile. Usata di solito dai campagnòi (v.) per incitare gli asini. VIS’CIÀDA, s.f.: Asticella coperta di vischio. Lunga sui 20-30 centimetri veniva usata per catturare gli uccelli vivi. Alcune di queste venivano inserite negli intagli del vargòn (v.) e collocate strategicamente al mattino presto vicino a qualche sorgente d’acqua, dove gli uccelli andavano ad abbeverarsi. VÌS’CIO, s.m.: Vischio. Pianta parassita dalle cui bacche si ottiene la pania, una specie di pasta nera ed attaccaticcia usata per fare le vis’ciàde (v.). VÌS’CIO, s.m.: Pania. La sostanza attaccaticcia e vischiosa ottenuta dalle bacche del Vischio. Nella parlata isolana venivano definiti con lo stesso termine sia la pianta

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del vischio che la pania prodotta dalle sue bacche. VISIÀ, agg.: Viziato. VISIÀR, v.: Viziare. VIŞÌLIA, s.f.: Vigilia. Solitamente per indicare il giorno che precede una festa. Vişìlia de Nadàl. VIŞÌN, s.m.: Visino. VISÌN, s.m.: Vicino di casa. VISÌN, agg.: Vicino. Contiguo. Appresso. Nelle vicinanze. VISINAL, s.m.: Vicinato. VISINÀNSA, s.f.: Vicinanza. VÌSIO, s.m.: Vizio. Ànca ‘l fùmo şè un brùto vìsio. VÌSOLA, s.f.: Visciola. Tipo di ciliege dal gusto leggermente amarognolo. Più che per essere mangiate veniva usate per essere conservate sotto spirito o, ancora più semplicemente, nella grappa dopo esser state cosparse di zucchero. VÌTA, s.f.: Vita. Riportiamo il termine con lo stesso significato della lingua italiana soltanto per rimarcare l’importanza di non confonderlo con il termine vìda (v.) con tutt’altri significati. La vìta şé sempre méşa storta e méşa drìta. A şé un putél pién de vìta. Vìta gòdi, vìta patìsi. No te dìgo, co sti fiòi şé ‘na vìta! VÌVER, v.: Vivere. Vìver e lasàr vìver. Chi vìvi sperando mòri cantàndo. Chi mòri ‘l mòndo làsa, chi vìvi se la spàsa. VÌVO, agg.: Vivo. Dopo tànto témpo a se gà fàto vìvo. Gò patì pàr i vìvi e pàr i mòrti. VOGÀR, v.: Vogare. Vòga e sìa: modo di dire per indicare un modo di spingere la barca vogando con un solo remo. Secondo A. Vascotto in italiano il termine esatto sarebbe Brattare.


VOGADÒR, s.m.: Vogatore. Rematore. VÒIA, s.f.: Voglia. Volontà. Desiderio. Neo. Gò ‘na méşa voia de gilàto. Şé ‘na béla mùla, ànca se la gà una vòia proprio sòto el nàso. Me sòn fàto pasàr la vòia. Dìşi fòia e fàte pasàr la vòia. Vòia de lavoràr sàltime sòra. VÒLEGA, s.f.: Retina per tirare su i pesci presi con la tògna (v.). VOLÈR, v.: Volere. Mi vòio, ti te vòl, lù a vòl, noi volémo, voi volé, lòri i vòl. Passato prossimo: Mi gò volésto, ma anche volù. Vòio ma no pòso e chi pòl no vòl. VOLPÌNA, s.f.: (v. Siévolo) Cefalo. Gustoso pesce di mare dalla carne azzurra. VOLTÀR, v.: Voltare. Volgere. Cambiare. Voltàr cantòn. El vìn a gà voltà in aşédo. VOLTISÀR, v.: Avvolgere. VÒŞE, s.f.: Voce. Suono. Diceria. Şé vòşe che i se gà lasà. VÒVO, s.m.: (v. Òvo) Uovo. Termine antico ormai completamente in disuso. VÙ, pr.: Voi. Modo di rivolgersi con rispetto alle persone, ma ormai completamente fuori uso e importato, a suo tempo, dalla lingua veneziana.

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Toponimi isolani Acquavia – Aguavia Territorio della campagna isolana che inizia nei pressi della chiesetta della Madonna di Loreto e scende verso la valle dove scorre il letto del torrente omonimo. Asciutto durante tutto il periodo estivo, il corso d’acqua si gonfia soltanto durante i mesi quando sono più frequenti le piogge, e sfocia in mare all’interno delle saline di Strugnano. Nella valle il torrente finisce con il mescolarsi con l’acqua salata del mare, per cui le varie diramazioni offrono condizioni ideali per le anguille. Ha sicuramente origine dal fatto che a fondo valle – la vale de Strugnan – ci siano in abbondanza ruscelli – i cosiddetti aguèri – e vene acquifere. Nel dialetto isolano aguèr è il piccolo corso d’acqua che con le piogge ingrossa fino a diventare torrente. A fondo valle, il ruscello e le sue numerose diramazioni, tra l’altro, rappresentavano ancora agli inizi del secolo scorso le condizioni ideali per l’allevamento delle sanguisughe che, da qui si provvedeva a rifornire tutte le farmacie della regione. Proprio da questo allevamento la zona prese il nome di “Sangueterra”, toponimo con il quale è conosciuta ancor oggi, quando delle sanguisughe è scomparsa addirittura la memoria. Àgnisi È situato subito dopo il vecchio macello, operante ancora nei primi anni cinquanta del secolo scorso, dove oggi è collocato l’autocampeggio. La località era nota per una fontana con sorgente d’acqua, cui attingevano gli abitanti delle campagne circostanti, per i quali recarsi alla Fontana de Fora era troppo distante. La sorgente d’acqua è tuttora presente, tanto che qualche decennio fa si pensò bene di ampliarla, trasformandola in un piccolo stagno per l’irrigazione dei campi, soprattutto durante il periodo estivo. Il nome sembra di origine romana, derivante da Anicius, nome personale o della famiglia romana degli Anicii che probabilmente era proprietaria del vicino insediamento di Vilisan, i cui resti vennero scoperti appena in questo secolo per opera dell’isolano, prof. A. Degrassi. E dato sicuro, comunque, che la famiglia romana degli Anicii fosse presente in Istria, tanto che a Cittanova è stata trovata l’iscrizione Petrone probi v.cet – Anicie probea c.f.

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Arrigoni L’area compresa tra San Simone e Fontana Fora che ancora fino a qualche decennio fa ospitava il complesso dell’industria conserviera con tutte le strutture annesse e della quale ormai, a parte il ricordo storico, rimangono soltanto i resti di quella che fu per quasi un secolo la più importante fabbrica di Isola. Sul comprensorio esisteva lo stabilimento balneare di Porto Apollo comprendente pure alcuni alberghi ed un parco che, pur mantenendo il nome di Parco Arrigoni, è stato ormai quasi totalmente smantellato. Dopo la seconda guerra mondiale, gli edifici che prima erano destinati all’industria dell’ospitalità vennero trasformati in alloggi popolari, mentre gli spazi che prima della guerra ospitavano il Dopolavoro della fabbrica, funzionarono da sala cinematografica e da salone delle feste. Soltanto in questi ultimi anni si sta cercando una soluzione possibile che risollevi dal degrado totale tutta l’area. Ariol – Arivol – Rioli (quota 239 m) Come già per Aguavia, anche questo toponimo deriva indubbiamente dalla presenza di una fonte d’acqua, di un rio, di un rivo, di un ruscello. La località si trova tra Settore e Nosedo e, come nel caso di Isola, ci sono diverse altre località nel settentrione italiano che portano un nome molto simile e che ugualmente traggono origine dalla presenza di un corso d’acqua o di un canale. Bagni Levante La spiaggia preferita un tempo dagli Isolani. Situata tra il Primo ponte e Punta Vilisan, dove oggi si trova un autocampeggio, e a ridosso dei resti dell’antico molto romano. Buona parte della zona oggi è stata interrata per dare spazio alla strada di collegamento con Capodistria e al parco delle rimembranze. Gli altri bagni isolani, ancora nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, si trovavano sugli scogli di San Piero, a Punta Gallo e nella baia di San Simon. I vecchi e gloriosi bagni di Porto Apollo, invece, comprendenti pure tutta la struttura alberghiera e da spiaggia, sono stati chiusi e dimenticati dopo la seconda guerra mondiale. Barè e Baredina Deriva dal dialetto veneto–istriano dove per baro si intende, ancora nei giorni nostri, cespuglio e che, nell’accezione contadina, trasformato in

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barè, sta a significare terreno incolto, quindi pieno di cespugli e mucchi d’erba. Il toponimo s’incontra per la prima volta in un testamento di Isola del 1517. Bosumè Non ci sono dati certi sull’origine di questo toponimo. La località è situata sotto Monte Calvo. Gli abitanti del luogo la pronunciavano Busumè, tuttavia qualsiasi ipotesi sulla possibile derivazione sarebbe avventata. Qualcuno la fa derivare da avvallamento, da buso (buco, fosso). Calcine Località nella Valderniga, vicina a Carieghi e sulle sue origini non ci possono essere dubbi. Il toponimo non può derivare che da calce: forse per la qualità del terreno o, forse, per la presenza di una fornace usata per ricavare la calce dal calcare. Praticamente, la località è situata al confine tra il territorio capodistriano e quello dove ha inizio il comune censorio di Corte d’Isola. Da notare, che il torrente Valderniga, che dà il nome all’altro toponimo della zona, segna il confine con la località d S. Pietro dell’Amata, appartenente al comune di Pirano. Callelarga Toponimo di una frazione del territorio isolano situato tra la stazione ferroviaria ed il primo ponte. Nella zona nel 1883 venne trasferito il cimitero di Isola. Evidentemente deriva da spazio largo o ampio. Nel corso del secolo scorso, dopo che sulla strada che dal centro di Isola portava verso la nuova stazione ferroviaria vennero costruiti nuovi insediamenti abitativi, la via per gli abitanti venne identificata con il toponimo della zona. Campi Longhi La denominazione di Campi Longhi ormai è scomparsa dall’uso per il semplice fatto che già alla fine del secolo scorso i campi, che certamente occupavano l’area, non esistevano più. Infatti, proprio in quella zona con l’allargamento urbano di Isola sono sorte tante piccole case. Nei primi anni di questo secolo infatti, sui Campi Longhi, dei quali si ha notizia già nel sedicesimo secolo, sono sorte le prime case operaie di Isola.

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Canè – Canne È situata lungo la costa, dopo l’insenatura di San Simone. Il toponimo non può che aver origine dal fatto che la località doveva essere caratterizzata da una forte presenza di canne. Come del resto anche Canedo è presente già nei testi dei primi Statuti Isolani del 1300. Anche altre località della penisola italiana, dove è presente la canna, portano nomi simili se non identici. Cànola Non tutti coloro che hanno studiato l’origine dei toponimi isolani sono concordi nel dare la stessa definizione di questa località. Secondo alcuni deriverebbe nuovamente dalla canna, mentre secondo altri sono maggiori le probabilità che derivi da canale, anche per la conformazione del terreno. Da ricordare che il famoso trenino della Parenzana, che agli inizi del secolo scorso, nel suo tragitto da Trieste a Parenzo, toccava anche Isola e incominciava la sua salita verso la galleria di Salèto proprio a Canola. Il toponimo ha fatto la sua prima comparsa scritta nel XVI secolo. Capitél Un piccolo capitolo a parte meriterebbero i capitelli che nel tempo esistevano a Isola e nel suo circondario. In buona parte sono scomparsi, vuoi per incuria dell’uomo, vuoi per opera del tempo e delle intemperie. Ne rimane ancora qualcuno, soprattutto in città, perché incavati all’esterno dei muri degli edifici. I capitelli, cappellette, tabernacoli o nicchie con immagini sacre, a Isola non mancavano, anche se erano più numerosi da incontrare sulle strade di campagna e soprattutto agli incroci tra due o più strade. In città non potevano far concorrenza alle numerose chiese disseminate un po’ in tutti i rioni. Il capitel più grande e più solidamente costruito era quello in cima alla salita di Saleto, prima che la strada continuasse in discesa per Lavorè. Era rivolto verso la Chiesa della madonna di Loreto che intendeva onorare. Dalla sua presenza prese nome anche la stessa cima della salita di Saleto. Co se riva a Capitèl l’ocio se şlònga fin a Trieste, si diceva per la bella veduta che si aveva del panorama di Isola e del Golfo di Trieste. Dopo la guerra, al suo posto venne inaugurato un monumento ai caduti della zona nel corso della Seconda guerra mondiale. Successivamente, anche questo venne spostato nei pressi della Chiesa di Loreto per dar spazio alla nuova strada che collega Pirano a Capodistria. Altri capitelli, di cui però non esistono molte notizie, erano collocati a 280


Vilisano e a Servignano. Ancora presente il capitello sulla strada che dalle prossimità della Fabbrica del Cotto porta al nuovo ospedale. Un capitello era situato anche alle Porte di Isola, nei pressi del luogo dove poi venne costruita Villa Ravasini e dove per un intero secolo trovò sede la Farmacia di Isola. Casadièvolo – Casaglièvolo Il toponimo appare piuttosto spesso nei documenti scritti riguardanti Isola. Molti lo fanno derivare dal termine “Casa del diavolo”, ma sembra congettura alquanto azzardata in quanto solitamente toponimi del genere venivano affibbiati a località impervie o comunque scostanti. Cosa che non è possibile asserire per Casaglievolo in quanto situata vicino a Isola e confinante con Pregavor. Secondo qualcuno potrebbe essere anche possibile che il toponimo derivi dal dialetto veneto e significasse Casa della lepre, vista la vicinanza fonetica tra il veneto lievoro, e l’isolano levero, da qui il succitato glievolo, secondo alcuni ancora trasformato in dievolo. Tra l’altro, da ricordare che una vera e propria Casa del diavolo esisteva ed esiste tuttora in cima a Saleto ed il cui nome probabilmente le venne per la sua solitudine tra le campagne che nulla aveva a che fare con il diavolo. Carieghi Sembra che il toponimo derivi sicuramente dal termine carega (sedia), non perché sul luogo ci fosse un fabbricante di sedie, quanto piuttosto per la conformazione a terrazze del terreno, che potrebbe far pensare ad una susseguirsi di careghe. La zona è situata all’interno dell’altopiano che segna il confine tra Isola e Capodistria, assieme ai toponimi di Calcine e della Valderniga, quet’ultimo torrente che va a finire nella vallata della Dragogna. Casanova Toponimo presente già in documenti del sedicesimo secolo confinante con la vicina località di Saleto che, probabilmente, è tra le poche che non hanno bisogno di particolare spiegazione sul significato delle sue origini. Eventualmente sarebbe interessante sapere quale è stata la prima casa costruita secoli addietro in quella località e per conto di chi, tanto da meritarsi il toponimo. Con ogni probabilità, trattandosi evidentemente di un edificio di campagna, ogni sua traccia deve essere scomparsa da tempo.

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Cavalièr Nei tempi andati nel dialetto veneto italiano il baco da seta veniva chiamato anche cavalier, per il suo modo di procedere a testa alta. È confermato, che nella piccola località adiacente Bosumè vi fosse un allevamento di bachi da seta, da cui la denominazione del toponimo di Cavalier. Cavarìe – Cavrìe Località appartenente al comune di Isola, ma confinante con quello di Pirano nella valle di Strugnano, alle pendici del monte Costerlago. Ancora oggi molti lo chiamano Cavrìe e certamente le sue origini vanno collegate alla capra (in dialetto càvra o càvera). Cavo dei fossi Potrebbe sembrare illogico abbinare una cava ad un fosso. Ma in questo toponimo il cavo sta ad indicare il capo, cioè l’inizio dell’area dove si trovavano dei fossi, cioè dei canali. La zona, che è ormai dimenticata e completamente fuori uso, era situata nelle vicinanze dell’attuale cimitero e, probabilmente, comprendeva anche lo spiazzo dove si trova lo stesso Camposanto. Certamente, almeno stando alla carta del territorio isolano disegnata con tutti i toponimi verso la fine dell’800, nella zona esisteva fin dall’antichità un impianto per la costruzione di laterizi e, a memoria d’uomo, anche una moderna fabbrica di mattoni, per cui l’area più con l’antico nome viene ricordata come Fabrica de còto. Corgnolèda La zona è situata tra Serra e Cavarìe. Sembra che il toponimo derivi dalla pianta del corniale. Per alcuni lo stesso nome è mantenuto anche dal torrente che scorre a fondo valle e finisce nelle saline di Strugnano. Corte d’Isola Comune censorio di Isola d’Istria, il cui toponimo deriva da Curia, cioè gruppo di case. È presente nella storia di Isola fin dai primi secoli del millennio che, sotto alcuni aspetti, godeva anche di una certa autonomia. La località, che rappresenta anche il centro abitato più popolato dell’interno, è situata su un promontorio che raggiunge i 220 metri d’altitudine. Assieme alle vicine località di Albuciano, di Saredo e di Malìo è servita nei secoli da punto di osservazione e di difesa delle vie marittime e terrestri, sia in 282


direzione di Isola che delle località situate sull’altro versante della valle di Sicciole. In prossimità del centro abitato, sulla strada che lo collega a Isola, si trovano i resti dell’antico castelliere fortificato, entro il quale trovavano rifugio dai nemici non soltanto gli abitanti della zona, ma anche buona parte della popolazione isolana. Oggi, assieme a Saredo, Nosedo e Malio, Corte d’Isola rappresenta una Comunità d’abitato (Comunità locale). Importante nella zona la chiesetta di San Giacomo che si rifà da un’altra chiesa omonima risalente ai primi secoli del millennio scorso. Costerlago – Castrolago Negli ultimi decenni del secolo scorso e anche attualmente, la località è stata modificata da Castrolago in Costerlago. Il toponimo è certamente di origine romana e deriva da Castra–locum, il posto dove si trovava l’accampamento militare. Spiegazione alquanto logica anche per il fatto che nella non lontana Albuciano esisteva l’omonima postazione romana, sorta su un preesistente castelliere degli Istri. Anche questa denominazione è presente già nel 1500. Cospetòn È località situata vicino a Nosèdo, anche se è poco probabile che qualcuno ne conosca ancora l’ubicazione e la stessa denominazione. Probabilmente il toponimo ha origine da qualche famiglia che abitava nella zona o che, più probabilmente, era proprietaria dei terreni. E più che di un cognome vero e proprio, si tratta di un soprannome, vista l’abitudine a Isola di dare un soprannome a tutte le famiglie per distinguerle dalle altre con lo stesso cognome. In dialetto, comunque, sta a significare l’aringa. Creta (La Creta) Anche su questo toponimo non vi possono essere dubbi, perché sia nel dialetto isolano che in quello veneto, la parola creta o creda sta ad indicare l’argilla. Quindi una denominazione che ha preso spunto dalla qualità del terreno, ma che già a partire dal secolo scorso era andato in disuso. Si sta ripristinando in questi ultimi anni grazie ad alcuni nuovi piani regolatori del Comune di Isola, che comprendono anche questa zona e che – secondo alcuni – dovrebbe abbandonare la sua funzione agricola per diventare centro residenziale, grazie all’ottima panoramica che offre sul golfo di Trieste. La località si trova immediatamente ai piedi dell’anfiteatro, subito dopo i Campi Longhi, a sinistra del torrente Morer, ed è attraversata dalla nuova circonvallazione che sta per trasformarsi in superstrada. 283


Fabrica de Còto Il toponimo comprende l’area dove fino a qualche decennio fa esisteva ed era operante una fabbrica di laterizi che attingeva materia prima dall’adiacente collinetta. Secondo alcune testimonianze archeologiche, oltre all’evidente presenza dei resti del porto romano, nell’area sembra esistesse un’importante produzione di mattoni già nei tempi della presenza romana. Tuttavia, pur esistendo alcuni indizi archeologici, veri e propri scavi nella zona non sono mai stati affrontati. Negli ultimi decenni, anche il toponimo sta uscendo dalla memoria storica dell’attuale popolazione isolana, acquisendone nuovi, vista l’attività di tipo prettamente commerciale che vi si è installata. Fonda (La) L’area è situata tra Salèto e Sarèdo, comprendendo quella parte dell’anfiteatro isolano dal momento in cui incomincia ad alzarsi verso l’apice della collina. Non si conoscono le origini del toponimo, oggi quasi del tutto dimenticato. È ancora presente su qualche vecchia pianta del territorio isolano del secolo scorso. Fontana Fora Fontàna Fòra, oppure come era ancora conosciuta, El Fontanòn ha rappresentato per secoli l’acqua madre per tutti gli Isolani. Della sua esistenza si ha notizia fin dal XIII secolo, tanto che secondo alcuni, molti naviganti venivano a far provviste d’acqua proprio qui. Negli anni anche il nome subì qualche modifica, per cui era conosciuta pure come Fontana Granda. Era situata poco dopo la porta d’entrata a Isola, sulla via che portava verso San Simone, e che al tempo dei romani doveva far parte della strada verso Pirano. Addirittura nella prima carta geografica dell’Istria di Pietro Coppo, tra le altre cose di Isola, viene segnata anche questa fontana. Era comunque il punto di riferimento idrico per tutta la città. Ai tempi delle province illiriche lo spazio venne ristrutturato e ulteriormente ampliato, come si vede da alcune cartoline d’epoca. L’acqua eccedente finiva in una grande vasca, detta appunto fontanòn, dalla quale usciva per riempire il lavatoio. Rimase in funzione fino all’inaugurazione dell’Acquedotto Istriano negli anni Trenta del secolo scorso e l’amministrazione comunale provvedeva alla sua pulitura almeno una volta all’anno. Della bontà e della qualità della sorgente testimonia il vescovo Tommasini che, nel descrivere la produzione isolana del vino e dell’aceto, sottolineava come quest’ultimo “viene venduto ai marinai e serve ai 284


vascelli con grandissimo utile degli abitanti e si dà la causa all’acqua di quella loro fontana, che sta vicino alla terra così abbondante, che tal anno facendosi dieciotto sino a 20.000 barile di zonta e mai resta asciutta nelle vendemmie.” Fosàl Lo spazio che un tempo intercorreva tra le mura che circondavano tutta Isola ed il mare. Per difendere la città a partire dal XIV secolo vennero innalzate poderose mura sia nella parte affacciata sul mare, che in quella che dal primo Ponte portava verso gli scogli di San Piero e verso il Duomo. Le mura arrivavano quasi fino al mare, per cui la zona prospiciente veniva chiamata Fosàl, termine in uso ancora alla fine del XIX secolo. Per difendere la zona dai rifiuti, il podestà aveva fatto approvare tutta una serie di delibere presenti nello Statuto isolano del 1360. Le ultime ricerche archeologiche condotte durante i restauri della chiesetta di S. Maria d’Alieto e di Palazzo Manzioli, hanno dimostrato che anche il Palazzo Pretorio che si ergeva dove c’è oggi il vecchio Palazzo Comunale, era circondato da un canale e l’entrata nell’edificio era possibile solo attraverso un ponte levatoio. Giro Caròse Situato sulla strada per Capodistria tra Punta Vilişan e la Fabrica de Coto. Il toponimo risale al periodo della costruzione della strada che costeggia la riva e, come si racconta, deve il nome al fatto per cui le carrozze in arrivo da Capodistria diventavano visibili appena dopo aver affrontato questa curva: il giro caròse, appunto. Livisan – Livizzano Anche questo toponimo è di origine romana e dovrebbe derivare da Laevidius o Laevinius. Come per altri toponimi anche questo probabilmente prende spunto dal nome di una importante famiglia romana. Situato nelle vicinanze della Valderniga è conosciuto fin dal 1500. L’area è situata sulle colline all’interno del territorio isolano, una volta oltrepassato l’anfiteatro, tra S. Giacomo, Barè e Calcine. Lonsàn – Lonzano Anche questo toponimo deriva presumibilmente dal romano Loncianus. È località vicina a Vilisano dove esisteva certamente un insediamento 285


romano e dove ancora oggi, durante le giornate di secca si vedono affiorare dalle acque del mare i resti dell’antico porto. Loreto Come per altre località isolane anche Loreto prende nome dalla presenza della piccola Chiesa di S. Maria di Loreto. La zona è situata all’apice della collina dove si congiungono da est la salita di Salèto e da ovest quella che sale da Strugnano e veniva chiamata “Ràto del Podestà”, pur senza aver notizia delle origini dell’attribuzione ad un podestà. La chiesetta è stata costruita dalla famiglia Delise nel 1663, dopo un pellegrinaggio compiuto alla cattedrale di Loreto in segno di ringraziamento per lo scampato pericolo di un’epidemia di peste che aveva colpito la zona. Anche la piccola chiesa isolana veniva e viene tuttora celebrata l’otto settembre, affettuosamente definita la Madona picia, per distinguerla da quella del quindici agosto che è la Madona granda e viene festeggiata al Santuario di Strugnano. Purtroppo, l’immagine esteriore della chiesetta è mutata, in seguito ad un’opera di restauro, durante la quale è stata ripristinata anche la piccola campana. Il nome della chiesetta, ormai da qualche secolo, ha dato il nome anche al territorio circostante. Malìo Situato sul colle tra Saredo e Corte d’Isola deriva probabilmente dal romano Mallius. Qualcuno fa notare che uno dei triumviri fondatori di Aquileia, Lucio Manlio Acidino, fosse appartenuto alla famiglia patrizia romana dei Manlio Acidino, denominata anche Mallio. Secondo altri invece il nome deriverebbe dal latino “malus”, quindi pomo, melo. Tuttavia è più verosimile la variante del mallius, visto che nelle sue vicinanze esisteva l’insediamento romano di Albuciano. Marzanè Altro toponimo di origine romana. Deriva da Marcius. È noto che sul territorio di Pirano, ma anche su quello isolano (e Marzanè si trova proprio al confine tra i due) si fossero insediati del coloni romani. Una colonia a ridosso della zona più antica di Pirano era un praedium della nobile famiglia Marcia, da cui prese nome anche il nome una strada, quella Marciana appunto. Nei secoli successivi si trasformò in Marzana per arrivare già nel sedicesimo secolo con il Marzanè che conosciamo tuttoggi.

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Modiano Località poco distante da Malìo deve avere pure origini romane e viene segnata già nel 1500. Probabilmente deriva da medius, medianus o metius. Il territorio, situato dopo l’area di S. Giacomo, è attraversato dall’omonimo torrente, secco quasi durante tutto l’anno. Confluisce nel Valderniga prima di scendere sull’altro versante, verso il Dragogna. Monte Càlvo Segnalato nel sedicesimo secolo deriva dal latino Calvus, quindi Monte spoglio da vegetazione, anche se oggi la situazione è ben diversa. Situato subito dopo Saleto e Lavorè. Monti Bianchi – Rivaso Con questo nome venivano indicati i dirupi e gli scoscendimenti, ma soprattutto i macigni marnacei, che tra Cané e Rònco, da lontano, sembrano assumere un colore quasi bianco. Oggi, anche se limitatamente al primo avvallamento di Cané dopo la spiaggia di San Simone, viene chiamato in sloveno Bele Skale, che significa Bianca Scogliera, oppure Scogli Bianchi. Diciamo che l’anno preso in prestito traducendolo, ma senza usare l’originale, come invece sarebbe giusto. I Monti Bianchi venivano chiamati anche Rivaso perchè faceva riferimento alla zona che da Ronco cadeva a strapiombo sul mare. Tuttavia, con lo stesso nome di Rivaso veniva chiamato anche lo strapiombo che costeggiava la strada da Isola verso Capodistria. Morèr Località conosciuta nei secoli precedenti ha preso il nome certamente dalla pianta del gelso, morer per l’appunto. Da ricordare che, nei secoli scorsi, a Isola era presente l’allevamento dei bachi da seta che, come noto, sono ghiotti delle foglie del gelso. È quindi probabile, che anche il nome della località derivi proprio da questo. Nosèdo È collocato subito dopo Malìo ai confini con il territorio di Pirano. Prende certamente il nome dalla pianta della noce. Infatti, con la denominazione di Noxedi compare in un atto di donazione del 1173.

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Pèna Quartiere della vecchia Isola che comprende la zona di edifici e vie che va dal mandracchio verso Palazzo Besenghi e si spinge verso Punta Gallo. Un’area che per molti decenni è stata la più povera e malandata della città. Soltanto ultimamente si sta portando avanti un programma di risanamento che sta ridando calore e vitalità al pari degli altri quartieri isolani. Il nome, forse, potrebbe derivare proprio dal degrado che per tanto tempo aveva colpito il rione. Pivòl È probabile che il toponimo originario sia quello di Piaiòl, perché è con questo che compare in un documento del 1500. In ogni caso è quasi certo che il nome gli derivi dal corso d’acqua, rio o rivolo che fosse per arrivare ad Arivòl e più precisamente, in questo caso, Pivòl. Che il terreno fosse coltivato già ai tempi dei romani è dimostrato dal ritrovamento di una moneta romana dell’Imperatore Costantino, del 330 d.C. La zona comprende la vallata a est di Lonzano, un tempo nota per le colture di ortaggi e vigneti. Ultimamente, la valle è fonte di aspre polemiche con gli ambientalisti, dopo che il progetto della nuova superstrada dovrebbe attraversarla in tutta la lunghezza a partire dall’uscita di un tunnel scavato sotto il monte di San Marco. Porte (Le Porte) Le porte fanno parte della lunga storia di Isola in quanto definiscono in maniera inequivocabile che proprio qui si ergeva la principale porta d’entrata nella città quando era circondata dalle mura difensive. Dopo la scomparsa delle mura ed il congiungimento dell’isolotto con la terraferma, questo spiazzo ha continuato a mantenere il suo nome originario assieme a tutta l’area circostante. Oggi “Le Porte” rappresentano la piazza centrale della città, chiamata Piazza della Repubblica. Al tempo delle mura, però, esistevano anche altre porte che, se non altro, consentivano alla popolazione che abitava all’interno, di avere accesso al mare: così Porta Puiese, Porta Ughi, Riva de Porta. Secondo alcuni etimologisti, sembra che il termine derivi dalla parola latina “portare”, cioè sollevare, poiché – come sottolineano – nel tracciare, come fece Romolo per Roma, le mura della città con un aratro, questo veniva sollevato nel luogo dove dovevano trovarsi le porte, cioè il passaggio per entrare in città. Altri, invece, sostengono che si tratta dello stesso etimo di “Poro” e “Porto” nel senso di Passaggio, ma è anche probabile – come accenna il Pianigiani – che si tratti di qualche anti288


co verbo andato ormai in disuso e derivante dal greco: Perao, che significa “attraverso”, da cui Porita, Por’ta, Poro, Pòrta. Porto Apollo Comprendeva la zona turistica d’anteguerra conosciuta come Porto Apollo, al cui interno esisteva pure un ben curato parco più tardi conosciuto come Parco Arrigoni, in quanto nel periodo tra le due guerre del secolo scorso ospitava le strutture del Dopolavoro della fabbrica Arrigoni. I bagni, conosciuti appunto come bagni di Porto Apollo, le cui origini risalgono alla fine del XIX secolo, rimasero in funzione con tutte le necessarie strutture da spiaggia e alberghiere fino all’inizio della seconda guerra mondiale e rappresentarono il vero inizio dello sviluppo turistico di Isola. Dopo lo smantellamento del Dopolavoro, il Parco ospitò per qualche decennio un ristorante, mentre il salone si trasformò in sala cinematografica, coadiuvata durante l’estate anche dal cinema all’aperto. Oggi si sta discutendo di una nuova progettazione dell’area che, pur a ridosso di importanti aree come il porto turistico e l’albergo Delfin, sta versando in condizioni disastrate assieme ai resti di quella che fu la più importante industria isolana per tutto un secolo e della quale è rimasto intatto soltanto il nome. Pregàor – Pregàvor La località esiste tuttora e non ha niente a che fare né con la preghiera , né con un luogo di culto. Sembra, secondo alcuni studiosi, che il toponimo stesse ad indicare un prato nelle vicinanze di un bosco o di un torrente. Primo Ponte Toponimo all’entrata di Isola per chi veniva da Capodistria e, chiaramente, stava a indicare la zona dove un tempo esisteva un ponte che collegava la cittadina alla terraferma. Provè Zona a cavallo tra il Comune di Capodistria e quello di Isola. È situata sul versante settentrionale del Monte San Marco, verso Isola. Attualmente la zona rientra nel più ampio comprensorio ribattezzato in “Polje”, senza adeguata traduzione italiana. Un tempo era costituita soprattutto da vigneti lavorati da campagnòi che abitavano in città.

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Punta Corbato Piccolo promontorio all’inizio della baia di San Simone che finisce in mare con alcuni scogli frastagliati. È la zona dove un tempo, a pochi metri dal mare si ergeva l’antica villa rustica, o marittima, romana e dove, ancor oggi è possibile trovare qualche tassello dell’antico mosaico che decorava l’edificio. Purtroppo, gli scavi archeologici, che dovrebbero comprendere buona parte del comprensorio, dopo un promettente inizio di qualche decina di anni fa, non sono mai stati ripresi ed oggi figurano in un vero e proprio stato di abbandono. Un ultimo tentativo di attirare l’attenzione è stato compiuto dalla giovane artista Megi Uršič Calzi che, con finanziamenti europei e per conto della Sovrintendenza ai beni culturali, ha ricostruito ex novo una parte del mosaico depositandolo nel sito originale, in attesa di una ripresa dei lavori di scavo. Punta Gallo Penisola estrema dell’isola con cui il centro urbano confluisce in uno splendido parco e nell’odierna spiaggia cittadina. Ignota l’origine del toponimo che, secondo alcuni, deriverebbe dalla presenza in zona di una famiglia, ma senza alcun riscontro documentabile. La zona, per la sua amenità, è da tempo di interessi speculativi, tra chi vorrebbe costruirci una serie di alberghi e condomini e chi, invece, preferisce mantenerla integra sotto forma di polmone verde della città situato proprio dirimpetto alla baia di San Simone. Rato del Podestà Salita che da Strugnano portava a Isola. Naturalmente riguarda la vecchia strada che dalla valle di Strugnano dopo una serie di curve attraversa Marzanè per raggiungere la chiesetta di Loreto. Prima della nuova strada asfaltata che risale ai primi decenni del secolo scorso, era la carrozzabile che collegava Capodistria a Pirano. Non siamo riusciti a scoprire l’origine del riferimento al podestà, anche se ormai il toponimo è completamente scomparso dall’uso e anche dalla memoria degli Isolani. Ricorvo È certo che la località prende il nome dalla sorgente d’acqua e dall’omonimo torrente. L’acquedotto di Ricorvo erogava l’acqua anche grazie ad alcune fontane costruite in città prima della costruzione dell’acquedotto del Risano. Forniva l’acqua soprattutto agli abitanti che si trovavano in 290


un territorio più distante dalle Porte e dalla Fontana de Fora. Il nome di Ricorvo del torrente rappresenta probabilmente una deformazione di Rio Curvo o Rio del Corvo, come sostengono alcuni studiosi. Rìva de Pòrta Oggi chiamata Rìva del Sole. Di fatto, ancora fino agli inizi del secolo scorso, non esisteva un lungomare vero e proprio. In effetti il mare riusciva quasi a lambire gli edifici oppure, prima, il muro di cinta che da questa parte circondava il centro urbano. L’attuale riva è stata progettata agli inizi del secolo scorso per far fronte alle esigenze del traffico merci e di persone in continuo aumento tra le industrie conserviere ed il porto. Ronco Località inerpicata sulla collina che sovrasta il mare al confine con il territorio di Pirano, prima di Strugnano. Prende il nome probabilmente dal terreno in forte pendio e tutto a terrazze verso la valle, e a picco sul mare. Viene riscontrato già nel 1400. Roncaldo Quasi tutto il territorio che circonda la cittadina di Isola rappresenta contemporaneamente un pezzo di confine con un altro Comune. Sia si tratti di Pirano o di Capodistria. Roncaldo confina con quest’ultima ed è situato nei pressi di Segadissi. Probabilmente ha lo stesso significato di Ronco, ma con l’aggiunta di alto. Quindi, con il tempo, Roncaldo e con questo nome è segnalato già nel 1400. Saleto – Saletto Pare che il toponimo non abbia niente a che fare con la salita della collina fino a Capitel, né con le antiche saline che si trovavano nelle vicinanze, dopo San Simon. Terreno di fertili campagne, sembra abbia preso il nome dal salice, che, pare, nei secoli scorsi fosse abbastanza frequente. Oggi, quando tutta la zona è diventata residenziale con il nome di Jagodje, c’è una via che è stata denominata Sotto Saleto. Peccato che sia ubicata proprio in cima alla salita, per cui, eventualmente, avrebbe potuto essere definita non sotto ma sopra. Sempre in questa zona, un’altra via è stata denominata via dei Pasteni. Potrebbe anche essere, poiché, almeno a memoria d’uomo, il terreno a terrazze, prima di diventare zona residenziale, era coltivata a vitigni. 291


San Donà Piccolo promontorio collinoso che ha preso il nome da una cappella, appunto quella dedicata a S. Donato, che ormai non esiste più. Era dedicata al santo compatrono di Isola, che veniva celebrato già nel 1212. La chiesa risulta certamente tra gli edifici sacrali più antichi della città, in quanto la sua consacrazione, secondo alcuni dati, risale addirittura al 1273. Venne rinnovata nel quindicesimo secolo, tuttavia nel secolo diciottesimo era in una situazione di abbandono, per cui nel 1816 venne demolita. Santa Fosca Anche questa località sembra aver preso il nome da una piccola, chiesetta. Comunque, di S. Fosca si ha notizia già nel sedicesimo secolo. Un documento che risale addirittura al 1035 informa che l’imperatore Corrado II aveva concesso a Capodistria alcune località, tra cui anche una denominata Fontana Fosca (Fontanam Fuscam). Poiché la sorgente del torrente Ricorvo si trova nelle immediate vicinanze è possibile che si tratti proprio della stessa zona. In ogni caso è quasi indubbio, che il toponimo sia stato adottato dopo la costruzione dell’omonima chiesetta. San Giacomo Anche questa località, ma in tempi più recenti, ha assunto il nome dalla chiesetta che vi era stata costruita. Di essa, ormai, non esiste più niente. A parte le testimonianze scritte, nessuno la ricorda più. È rimasta, invece, l’altra chiesa situata sul monte alle spalle di Isola, oggi quasi centro dell’abitato di Saredo. Per importanza, nei tempi passati, veniva subito dopo la Chiesa della Madonna di Loreto. Consacrata nel 1600 venne ristrutturata nel 1861 e, ultimamente, nel 1939. Recentemente è stata nuovamente rimessa a nuovo. Sangueterra Area nella valle di Strugnano che un tempo era circoscritta al podere di una famiglia che allevava sanguisughe e da cui aveva preso il soprannome. Oggi, a questa zona è rimasto il toponimo anche se, credo, pochissimi ne conoscono l’origine. La zona, ricca di canali che disponevano di acqua anche nel periodo estivo, grazie a numerose piccole sorgenti, oltre che rappresentare un vero e proprio sistema di irrigazione per la coltivazione di ortaggi e primizie, almeno una volta all’anno rappresentavano l’occasione per dedicarsi alla cattura delle anguille (bişàti). 292


San Lorenzo Toponimo che prende il nome dall’esistenza di una chiesetta di cui ormai si è persa la memoria. La zona è situata a nella piana a ridosso di San Simon e confina con la Valleggia, prima della salita per Saleto. Del toponimo si ha ancora notizia soltanto su alcune piante del secolo scorso. Per il resto è completamente scomparso dall’uso quotidiano. San Piero Zona a nord–est del centro urbano di Isola dove, fino agli anni Sessanta del secolo scorso esisteva una piccola chiesetta dedicata a San Pietro. Dopo la seconda guerra mondiale venne dapprima sconsacrata per adibirla a magazzino per poi abbatterla. Tutt’oggi, però, la zona mantiene il suo toponimo originario, almeno tra la popolazione che vi abitava e vi abita. San Simon Area a sud–ovest di Isola, dove in antichità esisteva una ricca villa rustica romana conosciuta con il nome di Haliaetum (Alieto) e che probabilmente rappresentava il primo vero e proprio centro di produzione e di esportazione di olio e vino isolani. A testimoniare dell’importanza della località i resti archeologici della villa e la presenza di un molo romano, ancora visibile durante la bassa marea. Il nome attuale del toponimo deriva dalla presenza ormai scomparsa di una chiesetta di campagna dedicata a San Simone. Sardacòn Zona boscosa lungo il pendio formato dalle colline che s’innalzano dalla valle di Lavorè e che portano verso Saredo e verso Malio. Saredo – Cerredo – Cerredina Località posta sul colle che sovrasta Isola, a ridosso di Ricorvo. Probabilmente il suo nome deriva dal cerro, che è una varietà diffusa della quercia. Il toponimo è presente già nel sedicesimo secolo. Fino ai primi anni cinquanta del secolo scorso ancora borgo di poche famiglie dedite all’agricoltura, in seguito allo sviluppo industriale della vicina città proliferò in maniera disordinata per l’assenza di un piano regolatore e grazie all’arrivo di nuovi immigrati provenienti dall’interno. Le nuove prospettive di sviluppo prevedono per Saredo un vero e proprio boom edilizio tanto da trasformare il borgo in zona residenziale. 293


Scamàl Località citata più volte in documenti risalenti addirittura al 1500. Comunque, delle origini del toponimo non si ha alcuna notizia. Secondo alcuni potrebbe essere stata presa dalla presenza di qualche eremita “camaldolese” o, più probabilmente, da qualche proprietario di appezzamenti di terreno. L’area collinosa è compresa tra i torrenti Modiano e Valderniga, prima che incomincino a discendere sull’altro versante verso la valle di Sicciole, nel comune di Pirano. Scòio Parlando di Scòio, a Isola viene immediata l’immagine degli scogli di Pùnta del Gàlo. Un tempo la zona era la spiaggia preferita degli abitanti e dei ragazzi. Oggi, degli scogli è rimasto poco, vista la quasi totale cementificazione, compreso tutto lo Scòio de San Piéro (v.) dopo che negli anni Sessanta del secolo scorso venne abbattuta anche l’omonima chiesetta e tutta l’area adibita in parte a zona residenziale, in parte usata per le necessità della vicina fabbrica del pesce. Segadìsi – Segadizzi Un tempo conosciuto anche come Segaticci. Località posta su una collina di poco superiore ai 200 metri e situata proprio sul confine con il territorio capodistriano, tanto da farne parzialmente parte. Il toponimo potrebbe derivare dall’aspetto orografico della cima: sembra fatta a denti di sega, o qualcosa del genere. Segadìsi era, almeno fino ai primi decenni del secolo scorso, anche il soprannome di una famiglia isolana di pescatori. Anche per loro è probabile che avessero preso il nome per esser stati proprietari di appezzamenti di terreno della zona. Servignàn – Cervignano È toponimo che ha certamente le sue origini nell’epoca romana, ed oltre che a Isola è presente anche in altre zone della penisola italiana, come per esempio Cervignano del Friuli. Anche il toponimo isolano, presente già nel quindicesimo secolo, deriva dal centro romano Praedium Cervianum. L’area è situata sui pendii della collina che rappresenta il lato orientale dell’anfiteatro, tra Casadievolo e Morer.

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Serra Secondo quanto scrive Alfredo Erman nella sua ricerca “Alle origini dei toponimi isolani”, dalla quale abbiamo ripreso alcune delle note presenti in questo elenco, sembra che il toponimo indichi una località chiusa da colline, costoni rocciosi, crinali montuosi. La località situata al confine con Strugnano, quindi con il territorio piranese, viene menzionata già nei primi Statuti di Isola e anche successivamente nel sedicesimo secolo. Secondo lo studioso di cose istriane, Gravisi, pare che nella zona esistessero cave di pietra risalenti addirittura all’epoca romana. Settore Toponimo di indubbia origine romana. Poco distante da Malìo potrebbe significare la presenza di una costruzione militare, delle mura o una cinta difensiva. Solèra Rione tra il Vièr e San Piero. Un tempo la zona era meno edificata di questi ultimi decenni. Riscontrò un notevole sviluppo solo dopo che nel XVIII secolo venne costruito l’ospizio Besenghi e dove ancora oggi è situata la Casa del Pensionato. Stansia Ronco Zona in cima a Ronco, dove esiste ancora l’edificio di una grande fattoria colonica. Su una carta topografica del territorio isolano della fine del XIX secolo, si trova segnata Stànsia Rònco, proprio in cima al promontorio: zona che ancor oggi sulle carte catastali mantiene questa denominazione, anche se della stànsia ben poco è rimasto, oltre ai muri del casone ed i cipressi che lo circondano. Tibio La piazzetta adiacente alle Porte, oggi Piazza Kristan. Nel vocabolarietto dei termini dialettali isolani, il prof. Morteani riporta la voce raccolta dalla signorina Delise, per cui Tibio equivarrebbe a “piccolo piazzale alle porte del paese”. Nei secoli rappresentò il primo piazzale isolano in cui confluivano le varie vie di comunicazione interna prima della porta d’entrata e d’uscita dalla città.

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Valderniga Il toponimo potrebbe semplicemente significare Valle dell’arnica in onore all’omonima pianta medicinale. Va ricordato però, che dalle parti di Pola esiste una Valdenaga che alcuni vogliono derivare da Valle d’Anago (Annius), o da Valle d’Enago (Ennius). Nella storia dell’Istria rivestì una notevole importanza, tanto che ai tempi della Repubblica di Venezia esisteva il Capitano della Valderniga. Evidentemente il toponimo comprende l’area che è attraversata dall’omonimo torrente che, almeno durante le stagioni piovose, scende sull’altro versante per confluire a fondo valle nel Dragogna. L’area è inserita tra quelle di S. Giacomo, Calcine e Scamal. Valleggia La località è situata nelle immediate vicinanze del centro storico di Isola. Il toponimo, già dalla sua definizione, non poteva che indicare una zona più bassa rispetto al resto del territorio, quindi valleggiante. È in pratica la zona pianeggiante, dalla quale inizia l’odierna Jagodje, ma che con il nome di Valleggia era conosciuta fin dal 1500. Probabilmente anche da prima, visto che la testimonianza scritta del sedicesimo secolo doveva già essere entrata a far parte della memoria collettiva del luogo. Peccato che la memoria collettiva ultimamente significhi così poco. Vièr Area situata nella parte nord–orientale di Isola e prende il nome dall’esser stata per qualche secolo il viario di alcuni sentieri che si diramavano dal centro urbano verso la terraferma. Infatti a poca distanza esiste l’altro toponimo che si rifà al Primo Ponte, quindi alla possibilità di uscire dalla città anche in questa zona. Secondo le ultime ricerche archeologiche, pare che l’area – oggi chiamata Piazza dei Caduti e completamente inserita nel perimetro urbano della città – fosse, anche in tempi lontani, all’interno delle mura di cinta che circondavano Isola. Vilisàn – Vilisano Toponimo che comprende la punta dopo il Giro Carozze sulla strada per Capodistria. L’area è ritenuta essere un importante sito archeologico, vista la presenza di un secondo molo romano, anch’esso visibile durante la bassa marea, che fa presumere importanti traffici con Aquileia e, di conseguenza, anche la possibile presenza di una seconda villa rustica del

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periodo. Un’ipotesi questa che tiene conto anche dell’immediata vicinanza di una probabile fabbrica di mattoni, esistita questa – pur se in forme più moderne – fino ai primi anni della seconda metà del secolo scorso dando il nome al toponimo di Fabrica de Coto.

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Proverbi Istriani e Isolani Mai mostrar el cul par ‘na sarieşa. Gnanca el can no movi la coda par gnente. Pèşo el tacon che el buşo. A chi tropo se şbàsa se ghe vèdi el cul. Ogni ano pàsa un ano. Şògo de man, şògo de vilán. Bişògna sentir sempre dò canpàne. Conténto mí, contenti dùti. Do òci i vàl più de ùn, e do téste vàl più de una. Se te vòl comandàr, inpàra prima a servìr. El calìgo spùrga el tempo. Un ano gà più şòrni che lugànighe. Mèio sudàr che tosìr. Tempo e pàia madurìsi anca le nèspole. Nadàl al fògo, Pasqua al şògo. Tre calìghi fa una piòva. Co tòna, poco o sài piòvi. Pàn de mulìn, polènta de pistrìn. Chi gà gà, chi no gà varda. Caşa quanta se pòl star, campagna quanta se pòl vardàr. El càro còri se se ghe ònşi le ròde. In Paradişo no se và in caròsa. Chi no pòl bàter el mùs, bàti el bàsto. Chi gà santoli, gà busolài. Co gnènte se fà gnènte. Per comodàrse bisogna scomodàrse. Ogni piàda sbùrta avanti. Fin che şè fià, şè speransa. Ano bişèsto, ano sènsa sèsto. Ròso de sèra bel tèmpo se spèra, ròso de matìna la piòva şè visina. Cèl in làna, la piòva no şè lontàna. Co piòvi su l’ulivo, no piòvi sui òvi. Per San Martin, mèti in sàco e va al mulìn. San Bastiàn co le viòle in màn.

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Per Santa Madalèna, la noşèla la şè pièna. La Madona Candelòra se la vèn co piòva e vento de l’inverno sèmo drènto, se la vèn co frèdo e bòra de l’inverno sèmo fòra. Piòva d’agòsto rinfresca el bosco. El levànte làsa quel che a tròva. Lùna sentàda, marinèr in pìe. Chi gà fiòi, no mòri mai. Fiòi e bòri no basta mai. Chi li fà trìbola, e chi li trova giùbila. A un bel sempre ghe manca, a un bruto sempre ghe vànsa. Chi se fìda del Loto, no màgna né crùdo né còto. A şè pièn come el Badoer. Nisùn şè contento del so mestièr. Dopo la tempesta no sèrvi la benedisiòn. Un bòn marì fa una bòna molie. Dopo i confèti se vèdi i difèti. Chi gà sài sòldi sempre cònta, chi gà la moròsa bèla sempre cànta. Spòşa bagnàda spoşa fortunàda. Rèmo cùrto, bàrca pìcia. Lavoràr şè fadìga, fadigàr fa mal, el mal fa morir. Chi gà pàn no gà denti, chi gà denti no gà pàn. Anca còl basto de oro el mùs a şè sempre mùs. A no sà che el sàl còsta. Negàrse int’un bicièr de aqua. Co càla le şornàde cresi el caldo. Co manca el gato, i sòrşi bàla. Dàrghe fògo al finìl par copàr i sòrşi. A gà l’anèl, ma a şè sènsa bràghe. Chi se lòda se imbròda. Ghe şè sempre un più fùrbo de tì. Buşìa tìra buşìa. Càn no màgna càn. Sòldi fà sòldi, merda fa merda. La prìma se perdòna, la seconda se bastòna. Come te farà, cusì te varà. Màl no fàr, paura no ‘vèr. Can che bàia no ròşiga. Con poco se vivi, co gnente se mòri.

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I malàni şè come i sòldi, chi li gà se li tièn. La paura de morìr şè pèşo che morìr. Co se şè vèci, l’òmo fà pànsa e la dòna fà stòmego. El vèro pònşi, la buşìa ònşi. Ciàcole no fà frìtole. No şè sàbo sènsa sòl, no şè màmola sènsa amòr. Sài pàia, poco gràn. Per San Vito le sarièşe ga marido. El bòn giorno se vèdi la matìna. Da Santa Lucia a Nadàl un pàso de gàl, da Nadàl a Pasqueta una orèta, da Pasqueta a la Candelòra un’altra ora. Sant’Epifania tute le feste se porta via. Ogni frùto gà la sua staiòn. Màrso sùto, aprìl bagnà, beato el campagnòl che gà semenà. Sparàgno no şè vadàgno. Fiòi e colombi sporca la caşa. Galìna vècia fà bon brodo. Galìna che cànta gà fato l’ovo. Amor e tòse no se scòndi. Compàre de anèl, compàre del primo putèl. Màl lòngo morte sicura. Chi se gà scotà co l’aqua calda, gà paura anca de quela giasàda. Voltàdo el cantòn, pasàda la pasiòn. Chi va in lèto sensa sèna, duta la nòte se remèna. Tiràr el sàso e scònder el bràso. Chi màgna solo crèpa solo. Chi regàla in vita mòri in sofìta. Ràgno pòrta vadàgno. Ròsa de pèl, sènto diàvoli pàr cavèl. Vòia o no vòia, Pasqua vèn co la fòia. Sòldi sarà che noi no saremo. Sangue no şè acqua. Chi şè coiòn che stàghi a càşa. Màl no fàr, paura no gavèr. Ogni bel bàlo stùfa. Merda che mònta in scàgno o la spùsa o la fà dàno. Più che se la mìsia più la fà dàno. Chi mòri el mòndo làsa, chi vìvi se la spàsa.

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No ghe şè voşe se no ghe şè noşe. No şè bel quel che şè bel, şè bel quel che piaşi. Ladro şè quel che roba e anca quel che tèn el sàco. La dona ghe la fà anca al diavolo. Bisogna ònşer le ròde se se vòl che el caro camini. Dopo el dolse vèn l’amaro. No se pòl portar Cristo e anca cantar. Indove che şè ‘ndà el mànego che vadi anca la manèra. O de pàia o de fèn, basta che ‘l stòmego sia pièn. Chi che gà el sospèto, gà el difèto. Chi che ne gà in cùna, no parli co nisùna. Chi che vòl vàdi, chi che no vòl màndi. Chi che gà creansa campa, chi che non ne gà ancora mèio. De la ròba dei altri presto se se vesti e presto se se spòia. Chi in marso no pòda la vigna, in vendèma la se ghe sbrìgna. Dona che piànşi, caval che sùda, òmo che giura, non crèderghe mai. Che Dio vòia che Pasqua vegni co la fòia. A podarìa vènder el so vìn col fiòr su la rècia. La bondànsa stùfa, la mişeria fa fame. Se a vinti no se ne gà, a trenta no se ghe ne fà, a quaranta no şè più speransa. No se pòl far cagàr el mùs per fòrsa. A portarìa roba a caşa anca co le rèce. La ghe gà calà a dùti, la ghe calarà anca a lù. Ala lingua el vin ghe dà forsa, ale gambe a ghe la ciòl. Chi màgna in pìe, magna per sìe. Fiòi e linsiòi no şè mai màsa. La nòte şè la màre dei pensieri. La şè rivàda al fumo de le candèle. Chi gà şè, chi no gà no şè! De aria no se vìvi. Sena longa vita curta¸ sena curta, vita longa. Manestra scaldada no şè mai bona! A tòla no se ven vèci. Chi no gà fàme, a şè malà o a gà şà magnà. Ciàve de oro verşi anche le pòrte de fèro. Co senti sta campana, ogni dona şè putana. Se ve piaşi la fìa, coltivè la màre.

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Se ‘l camin no fuma, stasera se dişuna. Conforme la persona se ghe dà el bongiorno...! Dàtoli fà mandatoli. Chi pòl pòl, mòna chi no vòl! Sparagnìn sensa tacuìn. Chi sparàgna el sòrşo ghé magna. Pan de balànsa no inpinìsi la pènsa.

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Qualche considerazione sul dialetto Secondo il parere di importanti studiosi, dal punto di vista storico, glottologico ed espressivo, non vi sono differenze sostanziali tra una lingua letteraria e un dialetto: entrambe provengono da una formazione storica dovuta a processi molto complessi, anche se i dialetti esprimono una tradizione di cultura che risulta essere certamente meno complessa ed autorevole. In ogni caso sarebbe uno sbaglio adottare il parere secondo cui i dialetti non sarebbero altro che una degradazione o un sottoprodotto della lingua letteraria. La verità è che tra il concetto di “dialetto” e quello di “lingua letteraria” esiste solo un rapporto logico, per cui l’una cosa non può intendersi senza l’altra, tanto che sarebbe assurdo parlare di dialetto senza presupporre una lingua nazionale e viceversa. Sono false polemiche, quindi, quelle sulla maggior o minor espressività della lingua o dei dialetti, quando deve esser chiaro che l’espressività deriva solo dallo spirito e dalla capacità espressiva dei parlanti. Per letteratura dialettale intendiamo un complesso di opere letterarie composte in una particolare lingua che viene definita appunto dialetto, rispetto alla lingua nazionale. Il dialetto può essere regionale o urbano, cittadino o rustico, a testimonianza della estrema varietà in relazione al luogo. Che poi i vari dialetti abbiano avuto vicende storiche diverse, per cui da una pari dignità iniziale, in seguito, ognuno ha avuto una propria storia, un proprio svolgimento. Per quanto riguarda i dialetti dell’area italiana, prima dell’unità d’Italia, esistevano essenzialmente la lingua letteraria, prevalentemente scritta e conosciuta da una ristretta cerchia di borghesi, e una vasta moltitudine di dialetti urbani e rurali. In seguito all’unità, il processo di nazionalizzazione della lingua complicò notevolmente la realtà linguistica italiana; non avvenne, infatti, come auspicato dal Manzoni, che una lingua già strutturata si imponesse sulle altre. La fortuna del toscano si basò soprattutto sul consenso avuto da parte di importanti scrittori come Dante, Petrarca, Boccaccio nel momento in cui il latino incominciava a perdere le sue connotazioni popolari riservandosi soltanto il ruolo di mezzo di comunicazione ufficiale. Per cui, a un certo momento, per ragioni culturali e letterarie, accadde che autori del nord come del sud abbiano cominciato a scrivere in toscano. Va chiarito, comunque, che in Italia non c’è stata alcuna autorità politica o religiosa che a un certo punto abbia imposto il toscano come base della lingua nazionale. Non si è trattato di una costrizione, è stato un fatto di libera scelta. In Italia non è accaduto come in Francia dove la 303


lingua è stata stabilita con una legge, o come in Inghilterra, dove la scelta di un certo dialetto come lingua generale è dipesa da vicende di carattere soprattutto politico. In Italia tutto è accaduto naturalmente. Questa unificazione culturale incominciò a formarsi quando non esisteva ancora un’unità nazionale. Ciononostante, i difensori a oltranza dello sviluppo dei singoli dialetti dicono che c’è stata una violenza dello Stato italiano. Ma si riferiscono al 1870, alla fine del Risorgimento, a quando cioè è stato codificato quale fosse la lingua ufficiale della penisola. E in quella occasione lo Stato non ha fatto altro che prendere atto di quello che era già da tempo il mezzo di comunicazione generale. Per scoprire come e quando si formarono i dialetti, ovvero le diverse parlate, bisogna risalire a quando il latino si diffuse, in tempi diversi, in quasi tutto il bacino del Mediterraneo come conseguenza delle conquiste romane. Le popolazioni dei luoghi occupati parlavano naturalmente lingue diverse ma, è questo il fatto interessante, fossero esse di tipo tosco-umbro, nell’Italia centro-meridionale, o celtico-gallico, in quella settentrionale, in un tempo abbastanza breve tutti accettarono di apprendere il latino. Ecco, è qui che comincia la storia dei dialetti italiani. Infatti questa comune base latina, mescolandosi con le lingue precedentemente parlate, produsse nel tempo la formazione di altre “lingue” che hanno poi avuto una diversa evoluzione a seconda delle vicende storiche di ciascuna località. E accade oggi di notare che gli abitanti di zone rimaste a lungo isolate, che per diverso tempo non hanno avuto rapporti con altre popolazioni, parlino un dialetto che ha una maggiore somiglianza con il latino. Prima di soffermarci, pur se brevemente, sulle origini e sugli sviluppi del dialetto isolano, crediamo sia opportuno rivedere – ancora più rapidamente – qualche nota storica sulle origini, sulle presenze e sugli sviluppi delle diverse parlate che caratterizzarono il territorio istriano, a seconda dei periodi ed a seconda delle popolazioni che vi si succedettero. Della storia della penisola istriana si sa qualcosa da circa tremila anni, poco più o poco meno, ed essendo stata sempre un’area sottoposta a immigrazioni, emigrazioni, conquiste e passaggi da nord a sud, da est ad ovest, ma anche da sud a nord, è una storia abbastanza complessa e di non sempre facile interpretazione. Tanto più difficile e complessa la definizione temporale, geografica, demografica o linguistica delle parlate in uso volta per volta. Presenze che, seppur in maniera meno pronunciata, presentano sostanziali differenze tutt’oggi, anche all’interno dello stesso ceppo linguistico. Secondo lo storico romano Tito Livio, sarebbe accertato che le prime popolazioni in Istria delle quali si abbia memoria storica siano stati gli 304


Euganei che, qualche migliaio di anni prima di Cristo, si insediarono sul territorio creando i primi nuclei abitativi: i castellieri. Gli Euganei erano un popolo instauratosi sui colli Euganei e nella regione compresa fra il mare Adriatico e le Alpi Orientali circa 4000 anni fa, cioè nell’età della pietra (precisamente nel neolitico) e sopravvissuti fino all’arrivo dei Romani. Ad essi si deve il termine “Venezia Euganea” usato in passato per definire la regione Veneto. Qualche secolo dopo i Veneti la regione istriana venne raggiunta anche dagli Histri, tanto che nel 300 a.C. Hecataeus da Mileto menziona gli Histri per la prima volta come un popolo insediatosi nella Baia Ionica (cioè l’Adriatico). Degli Histri, tuttavia, si ha notizia già nell’800 a.C. quando si rilevava che la penisola istriana è occupata da Veneti e da Histri. La storia racconta come nel V secolo l’Istria sia stata invasa dai Celti, una “gens valida et fera”, come la definisce lo storico greco Appiano Alessandrino nel suo “Delle guerre civili dei romani” (Appianus Alexandrinus, Alessandria d’Egitto). Con il nome di Celti si indica un insieme di popoli indoeuropei che, nel periodo di massimo splendore (IV-III secolo a.C.), erano estesi in un’ampia area dell’Europa, dalle Isole britanniche fino al bacino del Danubio, oltre ad alcuni insediamenti isolati più a sud, frutto dell’espansione verso le penisole iberica, italica e anatolica. Portatori di un’originale e articolata cultura, i Celti, a partire dal II secolo a.C., furono soggetti a una crescente pressione politica, militare e culturale da parte di altri due gruppi indoeuropei: i Germani, da nord, e i Romani, da sud, fino a venirne progressivamente sottomessi e assimilati, tanto che già nella tarda antichità l’uso delle loro lingue appare in netta decadenza. Quale sia stato il diretto rapporto tra Celti, Histri, Illiri sul territorio istriano è tuttora difficile da identificare precisamente, soprattutto ai fini di un’indagine conoscitiva delle lingue parlate. Si sa per certo che Celti e Histri scomparirono abbastanza rapidamente con la conquista romana nel 177 a.C. I Romani fondarono Aquileia sulla soglia “delle porte d’Italia” e da li iniziarono ad irradiare una profonda romanizzazione che, per quanto riguarda l’uso della lingua scritta e parlata, fecero adottare ben presto il latino. In tutto questo periodo, l’Istria ebbe rapporti amichevoli e di simpatia con Venezia. L’Adriatico comunque congiungeva le due popolazioni. Un rapporto che divenne ancora più stretto e costante quando gli Istriani iniziarono le dedizioni alla Repubblica di Venezia. Un dominio che perdurò fino al 1797. Questo mutamento storico, con il dominio della repubblica di Venezia sull’Istria, si manifestò, naturalmente, anche nel cambio linguistico. 305


Un mutamento che venne subìto anche dal volgare istriano. Come scrive B. Benussi, nella sua imponente “L’Istria nei suoi due millenni di storia”, all’orecchio di Dante, abituato alla dolcezza della parlata toscana, il nostro volgare italico doveva suonare “di accenti aspri e crudeli”. Ma col progresso del tempo, di mano in mano che i contatti con Venezia divennero sempre più frequenti a tutti i livelli, l’influenza del dialetto veneto si fece sentire anche nei comuni istriani, ove le famiglie dei cittadini andavano a gara per avvicinarsi anche nel linguaggio alla “Dominante”. Fu così che, ove maggiori furono i contatti fra le due rive dell’Adriatico o maggiore la possibilità di subirne l’influenza, maggiore fu l’innesto del “veneziano” nel primitivo volgare istriano; e dalla loro reciproca fusione ed assimilazione ebbero vita varie parlate che, sempre secondo il Benussi, divisero la nostra regione: il ladino ritrattosi al Friuli, ma dominante una volta a Trieste ed a Muggia; l’istrioto che si parla a Rovigno, Dignano, Gallesano, Fasana e Valle; l’istro-veneto in tutte le altre località dell’Istria”. Già nel secolo XVIII l’appartenenza linguistica dell’Istria era costituita da tre distinte comunità linguistiche: croata, italiana e slovena. Il processo di venetizzazione linguistica dell’Istria possiamo seguirlo nel tempo in 3 fasi distinte, come ribadisce lo storico Franco Crevatin nel suo studio “Per una storia della venetizzazione dell’Istria”. La “prima fase” comprese alcuni secoli – dal X al XIII – nei quali Venezia in rapporti amichevoli o conflittuali con le città costiere istriane le legò a sé nel “vincolo di fedeltà”. L’Istria costiera divenne politicamente veneziana e il veneziano lingua amministrativa. Ci fu una prima fase di coesistenza di due codici: quello veneziano e quello dei dialetti istriani preveneti. Sembra logico che il veneziano dal XIV al XV secolo era limitato a precise situazioni e funzioni. La “seconda fase” di venetizzazione andò dal XVI secolo alla prima metà del XIX secolo. Fu in questo periodo, nel ‘500, che il toscano si impose come lingua nazionale sostituendo gradualmente i1 veneziano. Il veneziano divenne strumento di comunicazione elevata e si fissò come koiné provinciale. La “terza fase” vide l’indebolimento e la sconfitta politica ed economica della Serenissima. Il triestino, dialetto venezianeggiante, sostituì il tergestino, dialetto friuleggiante, nel XIX secolo. Nell’Istria si diffuse senza grosse difficoltà – sempre secondo il Crevatin – il modello linguistico triestino; quando Trieste diventò Porto Franco sostituì anche economicamente Venezia. La terza venetizzazione fu dunque segnata dall’interferenza del triestino sui dialetti veneti dell’Istria. Un’interferenza che è continuata a ritmo accelerato anche e soprattutto nella seconda metà del secolo scorso, 306


per cui, anche le pur evidenti differenze presenti nelle parlate da località a località, andarono rapidamente scomparendo portando ad un dialetto istroveneto tutto sommato generalizzato. Nel secolo XX l’Istria conobbe la stagione dei totalitarismi. L’Italia iniziò a condurre una politica di assimilazione dei croati e degli sloveni subito dopo il 1918. Si chiusero le scuole con lingua d’insegnamento croata e slovena. Dopo l’ascesa al potere del fascismo si vietò l’uso dello sloveno e del croato nell’amministrazione e nei tribunali. Tale politica già nel 1921 provocò la resistenza degli sloveni e croati. La seconda guerra mondiale e la divisione politica del territorio istriano ebbe come conseguenza l’ esodo di buona parte della sua popolazione. La nuova congiuntura nazionale jugoslava esercitava una forte pressione ideologica sulla popolazione, schierando le minoranze nazionali da una o dall’altra parte. Si arrivò cosi all’esodo massiccio degli italofoni. Una fase, questa, che a voler esser di manica larga, è presente tutt’oggi, ma che va inesorabilmente estinguendosi a favore della componente slava. Un’estinzione, che vorremmo definire risultato di una precisa volontà politica che nell’ultimo mezzo secolo ha ridotto la consistenza numerica dell’elemento italofono a tal punto da renderla concretamente incapace di sopportare il peso della comunicazione generale. Nell’odierna società di massa i dialetti hanno ceduto il passo alla lingua standard, maggiormente diffusa grazie alla scolarizzazione ma anche grazie alla televisione. Se parliamo dell’Istria dobbiamo dire che questa penisola era costituita da un mosaico di dialetti (istroveneti, istroromanzi, slavi, ecc.) che nel corso del tempo mutarono, si arricchirono, ma anche rischiarono la completa estinzione. Nei secoli in cui la Serenissima aveva esteso la sua influenza sulla sponda orientale dell’Adriatico, la regina del mare aveva introdotto anche la sua lingua, che lungo questi lidi, in breve tempo, divenne la “lingua franca” dei commerci e utilizzata da genti di varia provenienza, che altrimenti sarebbero state ostacolate da una barriera linguistica. Nonostante la lingua della Repubblica, i dialetti istriani non furono accantonati. Anzi, continuarono ad essere utilizzati giungendo sino ai giorni nostri. L’ascesa di Trieste, che tra l’800 ed il ‘900 era diventata un’importante città con il suo porto e numerose attività economiche, avrebbe influenzato notevolmente le parlate contermini. Nel capoluogo giuliano, ancora nel XVIII secolo, si parlava un dialetto di tipo ladino, successivamente abbandonato per abbracciare la lingua dei commerci per antonomasia, vale a dire il veneziano coloniale. Agli albori del XX secolo si iniziavano a notare le influenze del triestino presso le varie cittadine istriane, che a poco a poco abbandonarono determinati nomi. Un esempio per tutti è l’accoglimento del sostantivo “mulo-mula”, cioè ragazzo-ragazza, al posto 307


di “putel-putela”, oggi quasi del tutto scomparso, e utilizzato solo dalla popolazione più anziana. Il passaggio dal latino al volgare e, in quest’ambito, all’ufficialità del volgare adeguato ai non troppo precisi canoni dell’Italiano volgare. Accennare agli studiosi, e ad un processo di acculturamento in “volgare” presente in tutta l’Istria, che – comunque incentivata dalla Serenissima, usava il “volgare” come lingua ufficiale di comunicazione. Esempio ne sono gli Statuti medievali. Gli abitanti di Isola, secondo la testimonianza dello storico Luigi Morteani, come quelli di tutta l’Istria, coltivavano dunque la lingua latina, perchè latina era la cultura, e gli atti pubblici fino al principio del secolo XV si compilavano soltanto in latino. La lingua italiana, invece, viveva nel popolo. I documenti del primo tempo del medio evo ne contengono gli elementi in quei vocaboli che accennavano agli usi ed utensili domestici. Il più antico saggio del volgare scritto l’abbiamo in una terminazione del consiglio del 1424, la quale merita d’essere riportata perché si possano fare i confronti con quello delle altre città istriane: “Capta fuit pars infrascripti tenoris. Videlicet - perché Assaij volte se truova assaij cosse esser vendude per li sindici de comum lo qual da può in sim un certo tempo Algune persone dixe esser soe perchè quando le xe vendude Ele non possano trovar le sue raxion mo da può, o, per Testimonianza o per carta, o, per altre licite scripture vien a saver che lo comun ha vendude le cosse soe che apartien a lor, Et in per zo Andara parte che non obstando che li sindici de commi fesse far alguna strida de algun stabele E da può quello stabele fosse vendudo per li sindici de comun al’ Incanto e conprese alguna persona digando aver raxion in quello stabele vendudo, e provando in zudizio quello stabele esser so per dimanda Jn sim un anno da può che lo sera vendudo al incanto in quella volta lo comun sia tegnudo de Restituir li denarj de lo stabele vendudo a lo patron pagando lo patron la spesa che, e, seguita, de, lo trovar, de quello stabello, Ela, vendeda, niente de mancho sia ferma e rata, E se la question comenzasse avanti l’ anno, e finido lo anno la question se deffinisse non per o perda lo patron la so raxion”. Anzitutto va considerato che ogni linguaggio ha avuto e continua ad avere una costante, pur se a volte più lenta, evoluzione. Ogni lingua è un elemento vivo, palpitante, e di una straordinaria flessibilità. Anche il nostro dialetto è molto cambiato, si è trasformato proprio nella prima metà del secolo, molto più di quel che era avvenuto nei due, tre seco­li precedenti. Isola infatti, per effetto degli insediamenti industriali, del conseguente impulso che pesca, commercio, artigianato ed ogni altra attività 308


avevano ricevuto – a fronte della vita sonnolenta del piccolo borgo nei secoli passati, con un’economia basata quasi esclusivamente su agricoltura e pesca, – stava cambiando volto, si affacciava agli immensi campi della cultura, “sentiva” il mondo che la trascinava verso il progresso, non fosse venu­to l’immane flagello della guerra e l’altro della dissoluzione del tessuto vitale rappresentato dalla sua popolazione, umiliata e dispersa. In quel fe­ lice periodo il nostro idioma, se perdette qualche pittoresca frangia del dire veneto, si arricchì grandemente attingendo alla terminologia tecnica, ac­quisì vocaboli dall’italiano ad integrazione di un lessico essenziale, carente a fronte delle nuove necessità espressive. Nel complesso, la parlata isolana appartiene certamente al ceppo dei dialetti italiani e istroveneti, anche se modificata nei costrutti e nelle desinenze, in seguito ad un lento processo di stratificazione di usi e pronunce differenti, e di altre drammatiche cause che non saprei né voglio rischiarmi di trattare. Va indubbiamente ribadito, che i primi cinquant’anni del ‘900 hanno rappresentato il periodo d’oro del dialetto isolano, perché esso ha dimostrato una sostanziale omogeneità, che i nuovi termini acquisiti erano riusciti a modificare soltanto marginalmente. Un periodo, durante il quale il linguaggio si arricchì e si affinò, la pronuncia si sgrezzò e perdette certi aspetti giudicati “ordinari”, ma nel contempo vennero abbandonate certe espressioni colorite. Proprio a testimonianza dell’evoluzione che anche la parlata isolana ebbe ad affrontare già nel breve spazio dell’ultimo secolo, riportiamo di seguito alcuni esempi che ci sono stati tramandati dallo studio sulla storia di Isola pubblicata nel 1888 dall’emerito prof. Morteani e che, a detta sua, gli vennero comunicati da una “gentilissima signorina Delise”: Far el bargo = far il passo; la cambra = la camera; ghittà = gettare; la zonta = la bevanda; el scavezo = il vino secondo; l’asedina = la bevanda divenuta acida; mittina = mattina; fisie notte = felice notte; go catta’ = ho trovato; la del cosso = da quel tal; cussio = così; el mantil = la tovaglia; xe un ordeno = una burrasca di mare; fiffotta = una che piange facilmente; far spotti = fare smorfie; sclammèo = strepito grande; scaruzza’ o scaruzzarse = far piccola zuffa fra due; andemio, slemio, femio = andiamo, stiamo, facciamo; feva, steva = faceva, stava; gnagna, giagia, ameda = zia; zermana = cugina; barba = zio; el me omo = il mio marito; me suor = mia sorella; me missier = mio suocero; me madonna = mia suocera; me gnora = mia nuora; mamo = ragazzo; mamola = ragazza; me muier = mia moglie; el gnolo = il nuvolo, morgan = uomo di campagna; cagiu’ = caduto; el parico = il parroco; tibio = piccolo piazzale alle porte del paese; la gusella = l’ago 309


da cucire; tonco = stupido; el bitinel = il gilet; la zea, zuola, zevoleta = la cesta; in gnora = in nessun luogo; el borgo = l’abito; go pachèa = ho sonnolenza; son inciangada = sono spaventata; a rente = vicino; liese = legge; i fa la crida = quando si pubblica qualche cosa a suon di tamburo; un gran parlèo = un gran parlare ecc. È evidente che, rispetto alla parlata isolana di qualche decennio fa, già il dialetto di fine Ottocento era sostanzialmente diverso. Più rapida la trasformazione nel XX secolo, quando le vie di comunicazione, lo sviluppo industriale e, più tardi anche un adeguato sviluppo culturale, diventarono parte della vita quotidiana di Isola. Un processo che, via via, prese piede ancor più rapidamente dopo la prima guerra mondiale, con l’arrivo dei turisti, con le nuove maestranze delle fabbriche, con strutture scolastiche più attrezzate e consapevoli. Fino all’arrivo della seconda guerra mondiale e alle conseguenze dell’esodo che ridussero la parlata isolana ad uso e consumo delle poche persone rimaste. Sarebbe pretestuoso, parlando del dialetto isolano, sostenere oggi che sia possibile definirlo sulla base di precise regole e di una grammatica codificata, tanto è vero, che nemmeno i suoi vocaboli possono vantare sempre la stessa pronuncia o grafia. Un lodevole primo tentativo in tale senso è stato compiuto qualche decennio fa dal compianto prof. Antonio Vascotto, con il suo volume “Voci della parlata isolana nella prima metà di questo secolo” che lasciò dietro di sé una prestigiosa raccolta di vocaboli e di regole per cui, invece di elencare queste regole, ci sia consentito concludere riproponendo, almeno parzialmente, quanto ebbe a sottolineare proprio il Vascotto in merito alla parlata isolana: “Mi è giunta voce che parecchi compaesani nati a Isola, dimenticato il nostro modo di parlare, quando leggono o sentono qualche brano genuino del nostro dialetto, quello parlato circa 50 anni fa, per intenderci, rifiutano di riconoscerlo come l’idioma del loro paese, lo trovano grezzo, antiquato o addirittura come imbastardito: tanto ormai si sono adeguati all’attuale ibrido Isolano, infarcito di termini triestini o di altre località, trasformato ancorché ingentilito dall’introduzione di voci ed espressioni della lingua italiana. Se a questo fenomeno non ci si può opporre sarebbe andar contro la storia, come se noi s’cèti işolani dişésimo: “Pisàr cóntra vènto” sia almeno consentito di ricordare nel modo più integrale possibile uno strumento che ci ha servito egregiamente per tanti decenni”. Con l’auspicio, da parte nostra, che continui a servirci anche in futuro per tanti altri decenni.

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Bibliografia ANTONIO VASCOTTO, Voci della parlata isolana nella prima metà di questo secolo. Cesena, 1986. ANTONIO VASCOTTO, Ricordando Isola. Cesena, 1989. EDITTA DEPASE GARAU, L’Estate del Gustin. Edizioni “Italo Svevo”, Trieste, 1986. LAURO DECARLI, Caterina del buso – Capodistria attraverso i soprannomi. Edizioni “Italo Svevo” Trieste, 2001. LAURO DECARLI, Origine del dialetto veneto istriano. Trieste, 1976. DARIO ALBERI, Istria - Storia, arte, cultura. Edizioni LINT, Trieste, 1997. BERNARDO BENUSSI, L’Istria nei suoi due millenni di storia. Trieste, 1924, p. 283. FRANCO CREVATIN, Pagine di storia linguistica istriana. AMSI, vol. XXIV (n.s.) (1976). FRANCO CREVATIN, I dialetti veneti dell’Istria. Guida ai dialetti veneti. vol. IV (1982). DARKO DAROVEC, Rassegna di storia istriana. Biblioteca Annales, Koper/ Capodistria, 1993. ACHILLE GORLATO, Paesaggi istriani, Unione degli Istriani, Padova 1968. ACHILLE ORLATO – ELIO PREDONZANI, Leggende istriane: Poesia di popolo. Trieste, 1956. CARLO TAGLIAVINI, Le origini delle lingue neolatine. Bologna, 1964. M. BARTOLI, Lettere giuliane. Capodistria, 1903. DOMENICO CERNECCA, Dizionario del dialetto di Valle d’Istria. Trieste, 1986. GIOVANNI ANDREA DALLA ZONCA, Vocabolario dignanese-italiano. Trieste, 1978. FLAVIO FORLANI, Fra tere e vedurni: saggio di terminologia botanica dignanese. Trieste, 1988. ANTONIO IVE, I dialetti ladino-veneti dell’Istria. Strasburgo, 1900.

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Per la solenne inaugurazione della nuova Casa del Popolo in Isola, Capodistria, 1914. FERRUCCIO DELISE, Il Porto di Isola - Breve storia cronologica e documentata dal 1857 al 1923. Edizioni “Il Mandracchio”, Isola, 2008. MARINO BONIFACIO - GIOVANNI RADOSSI, Cognomi e stemmi di Isola. Edizioni “Il Mandracchio”, Isola, 2000. CADASTRE NATIONAL DE L’ISTRIE - d’après le recensement du 1.er Octobre 1945. Edition de l’Institut Adriatique, Sušak, 1946. ALMERIGO APOLLONIO, L’Istria veneta dal 1797 al 1813. LEG-IRCI, 1998. FRANCO DEGRASSI - SILVANO SAU, Statuti del Comun d’Isola, Edizioni “Il Mandracchio”, Isola, 2003. ATTILIO DEGRASSI, Scoperte d’antichità romane nel territorio d’Isola. Archeografo triestino, vol. VIII, fasc. I - Trieste, 1913. A. DELISE, Vocabolarietto del dialetto isolano. Editrice “Isola Nostra”, Muggia. GIOVANNI RUSSIGNAN, Isola d’Istria ed il Monastero di S. Maria d’Aquileia. Trieste, 1987. GIOVANNI RUSSIGNAN, Testamenti di Isola d’Istria dal 1391 al 1579. Trieste, 1986. GIANNANDREA GRAVISI, I nomi locali del territorio di Isola, Atti e memorie della Società Istriana di archeologia e storia patria - Vol. XXXIV, Parenzo, 1922 MEDITERRANEUM, Di porta in porta per le contrade di Isola, Editrice “Il Mandracchio, Isola, 2004. fra Sergio M. Pachera OSM - fra Tiberio M. Vescia OSM, I Servi di Maria in Istria. Edizioni “Italo Svevo” Trieste, 2005. BRUNO VOLPI LISJAK, Delamaris 1879-1999. Isola, 1999. AA.VV., Isola d’Istria, Edizioni “Isola Nostra”. Trieste, 2000. GIORGIO SPAZZAPAN - PAOLO VALENTI, I vaporetti - Storia dei servizi costieri per passeggeri nel golfo di Trieste. Edizioni Luglio - Trieste, 2003. G. DEVOTO - G.C.OLI, Nuovo vocabolario illustrato della lingua italiana. Milano, 1987.

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Indice Prefazione

3

Avvertenze

6

Abbreviazioni

7

Lettera A

9

Lettera B

20

Lettera C

45

Lettera D

81

Lettera E

91

Lettera F

93

Lettera G

108

Lettera I

117

Lettera L

128

Lettera M

137

Lettera N

155

Lettera O

159

Lettera P

163

Lettera Q

194

Lettera R

196

Lettera S

210

Lettera T

256

Lettera U

266

Lettera V

269

Toponimi Isolani

277

Proverbi Istriani e Isolani

298

Alcune considerazioni sul dialetto

303

Bibliografia

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Kolofon Editore / Izdajatelj Comunità Autogestita della Nazionalità Italiana - Isola Italijanska Samoupravna narodna skupnost - Izola Edizioni / Založnik Il Mandracchio Isola Titolo / Naslov Dizionario del dialetto isolano Autore / Avtor Silvano Sau Disegni originali / Izvirne risbe Marjan Motoh Revisione linguistica / lektoraranje Claudio Chicco, Andrea Šumenjak Impaginazione / Prelom Andrea Šumenjak Stampa / Tisk Tiratura / Naklada: 500 copie /izvodov

La pubblicazione del volume è stata possibile con il supporto finanziario del Ministero per la Cultura della Slovenia e del Comune di Isola Izdajo knjige sta finančno omogočila Ministrstvo za kulturo Slovenije in Občina Izola. 316


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