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Il castrum

re grande, realizzando la torre piccola e collegando queste con dei camminamenti di ronda ad oggi non visibili a causa dei seguenti stravolgimenti 2. Sarà intorno al 1331 la successiva modifica al castello, testimoniata da uno scritto conservato presso l’Archivio di Stato a Roma, in cui Raniero de Alessandrini “si impegna a migliorare il complesso architettonico.”3 Del XVII secolo sarà invece la costruzione della rampa parallela al castello che porta alla piazza. Poco tempo fa, il restauro del suo ultimo proprietario Enrico Castellani, che scopre e riscopre il valore di quel luogo dimenticato, minuziosamente lo riporta al dovuto splendore. D’impianto irregolare, oggi mostra il suo carattere con solo la torre piccola a sud, probabilmente sbassata nel tempo, e con una severa facciata rivolta verso la piazza del paese, continuando a svolgere il suo importante compito di simbolo all’interno del tessuto urbano: domina sull’altura, e come un monumento, si costruisce tutt’intorno al costruito, “ne influenza la forma urbana nella classica disposizione a fuso e la sua conseguente fortificazione.”4Diverse saranno le conquiste al castello, dovute principalmente alla “...lotta tra Orvieto e Viterbo che, alternando alleanze e ribellioni contro la Chiesa, mettevano a ferro e fuoco la Valle del Tevere…” 5. Una strada che solca il crinale lo collega alla chiesa di San Donato, a rimarcare il costante rapporto tra potere profano e potere sacro. La chiesa, posta a nord del paese, si presenta come rovina, ma ancora carica di potere spirituale. Di essa rimane l’impianto a croce greca, con un alto campanile posto all’ingresso della piazza, su una parete in cui ancora oggi si legge il vecchio ingresso, spostato poi a est. Da queste due condizioni, castello e chiesa, il castrum si sviluppa seguendo l’andamento dello sperone, con edifici su fronte, a creare una cortina muraria di protezione. La forma dell’intero abitato, condizionato da una manovalanza lombarda,6 è dunque irregolare, con edifici di due o tre piani, aggregati e disposti in linea sul fronte, o a corte nelle zone interne. Passaggi stretti e angusti caratterizzavano il tessuto viario, un saliscendi continuo per assecondare la topografia del colle. Uno sperone cedevole, che a causa della sua morfologia ha determinato il deterioramento non solo di Celleno ma anche di altre città simili della Tuscia. Uno strato duro che poggia su una tenera argilla, che erosa dall’acqua tende a far scivolare le pendici della collina: un destino segnato ormai da tempo. Già nel Liber statutorum comunis castri Celleno veniva indetta una pena per chi “scava nelle rupi di Celleno per fare una colombaia”7 nonostante fino ad allora il rapporto con lo sperone era di tutt’altro avviso: esso non doveva solo sorreggere gli edifici sovrastanti, ma diventava talvolta edificio esso stesso.

4 ivi p. 81.

5 ivi p. 83.

“La grotta era scavata per impieghi diversi: abitazione, ricovero animali, deposito di foraggio e legna, riparo dei temporali”8. Cavità scavate nella roccia che con buona probabilità hanno dato il nome a questo luogo9. Esempi importanti di abitazioni scavate e abitate fino agli anni ’60 del Novecento ci arrivano dalla vicina città di Bagnoregio10. Questo fa intuire lo stretto rapporto tra gli abitanti e il luogo stesso che li ospita. Uno dei più importanti eventi traumatici fu il terremoto che colpì duramente la Teverina nel 1695, che portò ai primi sgomberi e demolizioni di edifici. Mentre una perizia del 1757 evidenzia le situazioni critiche del lato nord dello sperone, che ancora oggi ne risulta il lato più colpito e con un maggiore rischio idrogeologico11. Le avversità del luogo, aggiunte alla mancanza di manutenzione negli edifici sui versanti, dello scavo di grotte sotto le fondazioni degli edifici, e della costruzione di edifici sulle mura di cinta pre- esistenti12 hanno compromesso questa relazione, tanto da dover prendere la dura decisione da parte degli abitanti di dover abbandonare le loro case natali per trasferirsi in un luogo più sicuro, nonostante alcuni interventi di manutenzione e consolidamento avvenuti negli anni Trenta del novecento. È il XVII aprile del 1939 quando la cittadina di Celleno veniva immortalata in una delle prime foto aeree in bianco e nero. Già allora la situazione, seppur diversa da oggi, si mostrava in tutta la sua criticità. Un centro abitato orfano dei suoi quartieri più a nord nel suo confine affusolato. Il terremoto, lo spopolamento, il decadimento: un destino scritto che diventa questione di stato. Era il 1952 quando sulla Gazzetta Ufficiale, giovedì 6 marzo, viene pubblicato il Decreto del Presidente della Repubblica che determinava il trasferimento dell’abitato di Celleno. Già nel 1935 venne posata la prima pietra del nuovo abitato, nominato successivamente Borgata Luigi Razza, in onore del ministro che intuì subito i problemi del paese. I Cittadini sapevano ormai che il loro abitato presentava un’insidia difficile da gestire, e in piena epoca fascista viene realizzato il nuovo centro cittadino a circa due km di distanza dal Castello. Si narra oralmente, che alcuni proprietari di casa disfacevano appositamente il tetto della propria abitazione, per accaparrarsi una residenza nella zona nuova. Da allora il castro cellenese visse un periodo buio, caratterizzato da fatiscenza e crolli. Ad oggi solo il castello e pochi altri edifici hanno resistito al destino inevitabile dell’oblio. In quegli anni i Cellenesi non hanno mai perso la voglia di vivere le loro pietre natali, e ancora oggi i bimbi di una volta, mascherando gli occhi lucidi di una nostalgia velata, rivivono Celleno, recandosi nella vecchia piazza, e raccontando le loro storie migliori ai visitatori.I-VI secolo a. C.”3 Diversi sono i ritrovamenti di necropoli in questa zona, che ne determinano quindi la grande importanza dal punto di vista economico-commercia- le, confermata dalle notevoli presenze storiche di cui abbiamo dati certi nelle epoche successive: dai viterbesi ai Signori di Orvieto, dai romani ai longobardi. Ma anche terra fragile, caratterizzata da terreni tufacei, sedimentati sopra un tenero strato argilloso, che ne provoca i continui dissesti idrogeologici. L’erosione diviene un aspetto tipico di questi luoghi, un problema comune che tende ad aumentare con il passare del tempo, decimando interi borghi fino all’abbandono. Tra questi rientra sicuramente il comune di Celleno, luogo abitato fino alla metà del Novecento, per poi cadere in uno stato di oblio profondo, fino a tornare di interesse verso la fine del secolo. Di ciò rimane solo l’impianto planimetrico parzialmente leggibile, sovrastato dai rovi spontanei della collina, che ne denunciano il cruciale abbandono causato dal luogo stesso. Così la vasta popolazione, pian piano, si sposta tra il borgo e la zona nuova, a due chilometri o poco più, di distanza. Nessuno farà più ritorno al castrum.

I pozzi da butto sono cavità naturali o artificiali, scavate o costruite allo scopo di gettare al loro interno rifiuti vari. Molto utilizzati nel Medioevo fino al Rinascimento, hanno poi visto decadere il loro uso all’interno della città per questioni legati all’igiene e alla salubrità degli abitati. Terminata la loro funzione, vengono chiusi e messi nel dimenticatoio, fino al momento in cui vengono ri-scoperti. Al loro interno possiamo trovare oggetti di ogni tipo, in cui si celano preziose informazioni sulle precedenti generazioni e, riprendendo le parole del Professor G. Romagnoli sul vicino butto di Graffignano, costituiscono una straordinaria fonte di informazione su molteplici aspetti della vita quotidiana del passato, riflettendo piuttosto fedelmente le pratiche di uso, consumo riuso e scarto dei manufatti, nonché i cambiamenti di gusto, e lo stile di vita di coloro che vi abitavano.1 Nel 1975 cinque persone vengono sorprese dalla Soprintendenza a scavare tra i ruderi di un edificio ormai demolito da anni. Ciò che ne uscì in quel momento fu probabilmente una delle più grandi notizie che potesse capitare alla comunità cellenese. Venne riportato alla luce un pozzo di scarto di materiale, detto butto. Questa cisterna ricavata dallo scavo del banco tufaceo aveva una circonferenza di massimo 4 mt, e al suo interno conteneva quella che comunemente viene chiamata maiolica arcaica ossia quel tipo di prodotto che veniva realizzato nel viterbese, nell’orvietano e nel Lazio centrale più in generale. I primi a darne la notizia furono Joselita Raspi Serra e Franco Picchetto che pubblicarono nella prestigiosa rivista Faenza, le schede di 39 esemplari di questa preziosa maiolica. Dall’analisi ne risulta che queste maioliche hanno una provenienza e un periodo di produzione differente. Questo può essere stabilito dal tipo di colore della ceramica, della decorazione e dalla qualità dell’impasto, determinando tre zone differenti di produzione: Orvietano, Viterbese e Toscano. Ciò si collega alla grande influenza avuta dalle diverse città, in particolare proprio Orvieto e Viterbo, che hanno avu- to tra i loro possedimenti proprio la città di Celleno. Il materiale è tutto databile tra la seconda metà del XIV secolo e la prima metà del XV secolo. Seppure i caratteri decorativi siano ricorrenti tra i vari frammenti, risulta però difficile poter fare un confronto decorativo, a causa della mancanza di studi in quest’ area. Inoltre, una documentazione storica mancante, rende complicata la determinazione della provenienza dei pezzi, che seppur risultano essere omogenei, rimane valida l’idea che possano essere stati importati, proprio per i motivi precedentemente citati. Quindi difficile determinare una scuola anche per caratteristiche relativamente eclettiche dei materiali. Interessante è però il recente ritrovamento di alcuni utensili da infornamento delle ceramiche, che potrebbero far pensare alla presenza di una fornace nelle vicinanze. Il pozzo potrebbe comunque essere chiuso dal 1450, ossia il periodo in cui si datano i pezzi più recenti, nonché il periodo di decadimento della produzione della maiolica arcaica.

Ogni architettura, si sa, è sempre prima di tutto una risposta a un problema, a un problema pratico definito.

(G. Grassi, 2000)

Salendo dalla valle, costeggiando il crinale, saltano all’occhio le rimanenze delle vecchie mura di cinta della città. Sopra di esse la natura ha preso il sopravvento a causa del lungo abbandono. Una promenade che accompagna dolcemente l’osservatore fino alla piazza principale, dedicata all’artista Enrico Castellani. La macchina urbana era così fatta: una piazza, una via principale che, solcando il crinale, la collega alla chiesa di San Donato, un reticolo viario secondario, e delle abitazioni ora più centrali, ora più a confine. Ma là dove tutto iniziava, oggi si conclude. Le lunghe diramazioni, strette, tortuose e buie, sono stroncate dal tempo. Il luogo perde così il suo carattere, le sue suggestioni, mostrando un altro aspetto di sé: vuoto, debole, incompreso. La città gotica, si spoglia delle sue vesti e lascia intravvedere tutte le sue debolezze, consumandosi nel tempo

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