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e riconoscimento collettivo

un modello di ridefinizione processuale delle politiche per la tutela e valorizzazione del Patrimonio stesso e, in relazione a tale modello, di individuare potenzialità e punti critici che, in tale prospettiva, emergono per il contesto specifico delle politiche locali che hanno riguardato e riguardano il sistema della Fattoria di Cascine di Tavola.

8.2. Una domanda di governance per un progetto di patrimonializzazione e riconoscimento collettivo Il concetto di Patrimonio nel dominio degli studi sulla città e sul territorio, ma anche -in senso più generale- riferito al mondo dell’arte e dei beni culturali, è un concetto che ha una sua precisa storia sulla quale importanti contributi hanno già permesso di stabilire specifiche genealogie e progressioni di significato (Choay 1993, 1995). Proprio François Choay ha permesso di chiarire l’emergere attraverso questa categoria di una specifica cifra della modernità occidentale e della sua cultura che, a partire dal XV secolo, ha riflesso su tale concetto, come in uno specchio, la propria crescente perdita di “abilità” e competenza nell’ art de bâtir, cioé nel produrre e riprodurre in forma ordinaria qualità dell’ambiente di vita, inclusi i suoi oggetti d’uso; perdita vissuta come un presunto “minus” rispetto a passate civiltà. Una critica drammatica e, in fondo tragica, ma che porta, secondo una significativa continuità logica e paradigmatica della modernità, dalla originaria nozione di monumento storico e di patrimonio culturale, che tende a separare un prodotto materiale dal contesto e dal tempo che lo ha prodotto e a collocarlo in dimensioni a-spaziali e a-temporali, alla non meno pervasiva e “segregante” idea di articolazione ulteriore del concetto stesso secondo le categorie di “Patrimonio Culturale” e “Ambientale”. Tali categorie emergono in particolare nella seconda metà del XX secolo in importanti documenti ufficiali quali quello dell’UNESCO (1972) e, pur costituendo un avanzamento rispetto a un approccio di carattere simbolico-percettiva del patrimonio stesso tendono a mantenere una netta separazione tra i beni oggetto di tutela e il divenire delle dinamiche e processi storici ordinari che li hanno generati. Deriva da tale approccio una visione del concetto di Patrimonio, nel migliore dei casi, di tipo conservativo rispetto alla quale l’unica opzione possibile per una azione, appare quella della “museificazione” piuttosto che quella, dato che si parla perlopiù di spazi ed ambienti di vita, di una loro fruizione e “ri-abitazione”. Ciò apre, sempre nella logica della modernità - che esaspera la frattura fra produttore e consumatore nei luoghi ed ambienti di vita- alle dinamiche del turismo e consumo di massa, del patrimonio culturale-naturale, paesaggistico urbano, esperito in forma passiva, come estraneo ad ogni processo di (ri) costruzione di una relazione “empatica” e cognitiva con i luoghi (Paquot, 2015; Paba.

2008) anche come sistema socio-ecologico (Escalera-Reyes, 2020). In tale quadro il Patrimonio è osservato dall’esterno, come una “alterità” colta in modalità sincronica e quindi priva di ogni consapevolezza e spessore temporale (Choay, 1993, ibidem). Esso è riconosciuto e fruito esclusivamente attraverso fattori di significazione che dipendono sempre più dai codici “glamour” introiettati attraverso l’amplificazione dei diversi mezzi di comunicazione e non di significato. Fattori estranei del tutto alle ragioni, processi e regole che ne hanno originato la creazione e caratterizzato sviluppo e riproduzione nel corso della sua storia. Un esito folle, un “assassinio” che attraverso l’operazione dell’“ingegneria culturale” separa la memoria storica dalla nostra memoria organica (Choay, 1993 cit. 9) e che allontana artificiosamente bellezza e vita, ambiente costruito e condizioni di benessere e giustizia. Una operazione artificiosa che, in riferimento all’ambiente naturale e alla campagna, viene colta da Christopher Alexander, in relazione all’idea di parco, con termine analogo a quello della Choay, come un vero e proprio “delitto” (Alexander, 1977). Conseguenza rilevante e specifica di tale processo di consumo e “iconico” del patrimonio urbano e territoriale come bene “fittizio” -il termine Polanyiano appare qui quanto mai appropriato (Polanyi, 1944)- e della perdita del suo valore come “memoria organica”, risulta nella rinuncia e perdita di “competenza” materiale ad agire e trasformare in maniera sapiente il nostro ambiente costruito “prossimo” e a riprodurre il patrimonio urbano e territoriale stesso. Il processo descritto definisce le condizioni non certo per la conservazione e riproduzione del patrimonio territoriale, fatto di luoghi, architetture, manufatti, “seconde” e “prime” nature, ma per la sua progressiva perdita di rilevanza come fattore riproduttivo della vita e della cultura, la sua riduzione e scomparsa come struttura vitale. Da qui nasce il richiamo verso la necessità di “attraversare” il consolatorio “specchio patrimoniale” richiamato dalla Choay per recuperare quella profonda relazione anche corporea e quindi cognitiva con il nostro ambiente costruito che la stessa Choay definisce appunto come “art de batìr”, come condizione per una azione riproduttiva e creatrice del patrimonio stesso. Possiamo cogliere in questa visione “organica” ed evolutiva del patrimonio, alternativa rispetto a quella museale, un’importante affinità con l’idea stessa posta al centro della concezione di sviluppo territoriale, inteso come processo che crea crescente “diversità” ed “espansione” a partire da “pool genetici” locali e territoriali –materiali e cognitivi- depositati, ma mai obsoleti, nello spazio e nel tempo (Jacobs, 2001: pp.15-38). In questa direzione ed in coerenza con le considerazioni della Choay la dimensione evolutiva e “vivente” del patrimonio territoriale è ulteriormente esplorata, specificata ed approfondita nelle discipline territoriali dalla lettura condotta da Alberto Magnaghi e, più in generale, nell’approccio della scuola territorialista.

In tale approccio, a partire da una concezione co-evolutiva, fra ambiente naturale, costruito ed antropico, del processo di costruzione territoriale e di costituzione insediativa, il concetto di Patrimonio Territoriale si configura anch’esso secondo una dimensione non statica ma processuale ed evolutiva, esito di

…una trasformazione dinamica …(che)…produce, attraverso regole in gran parte invisibili, paesaggi visibili. (Magnaghi, 2010, p.96)

Il Patrimonio territoriale, nella visione territorialista, non è dunque da considerarsi un insieme di vestigia separate dal “flusso dell’agire” che trasforma il territorio ma, in quanto esito di relazioni co-evolutive di lunga durata, è al tempo stesso struttura regolativa e dotazione da (ri)attivare in ordine ad obiettivi di sviluppo locale endogeno. In tale prospettiva il Patrimonio territoriale orienta non solo e non tanto verso una pratica “conservativa” o “mitigativa degli impatti umani- dell’ambiente naturale e costruito a tutela delle generazioni future. Essa informa piuttosto una postura di valorizzazione ed arricchimento del patrimonio stesso, attraverso la “attivazione” delle dotazioni patrimoniali medesime. Ciò secondo una interazione fra regole e strutture di lunga durata e domanda e progettualità sociale del territorio (Magnaghi, cit., p. 97) determinata da forme di “territorialità attiva”, cioè di intenzionalità e “identità di progetto” (Castells, 1997) portate da coalizioni di attori locali. Un processo che permette di mettere in tensione tali progetti in forma bottom-up e multi-agente con le regole riproduttive delle dotazioni patrimoniali e con il sistema territoriale (urbano e di area vasta, sovralocale) alle diverse scale. Tale processo, che genera “valore aggiunto territoriale” (Dematteis, 2001) implica però, nella lettura territorialista, il considerare la duplice natura –di uso e di esistenza- del valore del Patrimonio Territoriale stesso. Riconoscere il valore d’uso della dotazione patrimoniale è fondamentale per la sua “messa in valore” e apprezzamento come risorsa e “bene comune” -sia esso privato o pubblico- e per l’attivazione del processo di sviluppo endogeno. Al tempo stesso tale riconoscimento ed uso non può essere disgiunto da una attitudine di “cura” riferita proprio a quelle regole “invisibili” e riproduttive che –in forma di invariante strutturale- costituiscono il “patrimonio genetico” per la riproduzione del Patrimonio stesso e la condizione per la sua esistenza (Magnaghi, cit., p. 103). Da questa ultima considerazione possiamo desumere una conferma ulteriore della natura dinamica e “costruttiva” del patrimonio che da “pool genetico” e dotazione materiale, può essere attivato e riconosciuto come “risorsa” da una intenzionalità progettuale espressa dal contesto e dagli attori del territorio. Si configura dunque un processo che definiamo di “patrimonializzazione” che a partire da una dotazione patrimoniale del