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Tutti sottomessi, tutti vogliono obbedire e pensare meno che si può: gli uomini sono bambini

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Siddharta Gautama di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 24 MAGGIO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Cena a Bruxelles con Monti, Merkel, Cameron e Hollande assieme agli altri premier e capi di Stato

L’Eurogermania non funziona Tutti i leader d’Europa lo dicono. E non conviene neppure a Berlino Il vertice Ue alla fine di una giornata nera per le Borse dopo le voci sull’uscita della Grecia. L’Unione è divisa ma il summit del 28 giugno è davvero l’ultima spiaggia per cambiare strada IL RILANCIO

Vertice al veleno: è guerra tutti contro tutti

Tagliare le tasse e ridurre la spesa: ecco la Terza fase

Pdl nel caos: Berlusconi evoca l’addio

di Rocco Buttiglione iniziata la fase due del governo Monti. È iniziata con la riprogrammazione di due miliardi e trecento milioni di fondi europei che le regioni meridionali erano state incapaci di spendere e che altrimenti avrebbero dovuto essere restituiti. a pagina 4

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Il coordinatore Bondi lascia: «Non ho colpe, ma voglio sottrarmi agli attacchi personali». Il Cavaliere lo frena ma poi dice: «Davvero non so se resterò in campo»

Parla Gian Enrico Rusconi

CONTROCORRENTE

«Vi spiego perché i tedeschi ce l’hanno con noi (e con la moneta unica)»

Errico Novi • pagina 6

«Molti di loro considerano gli Eurobond come l’ultimo balzello da pagare per estinguere le colpe dell’Olocausto»: l’analisi choc del celebre germanista Francesco Lo Dico • pagina 3

Per “salvarsi” dovrebbero rendersi autonomi

Alfano, Fitto, Frattini: volete proprio morire berlusconiani?

di John R. Bolton l G8 di Camp David, a dominare la discussione è stata la continua crisi dell’Euro. In particolare, l’agonia della Grecia - costretta a indire nuove elezioni per via delle sue drammatiche divisioni interne era in prima linea. a pagina 5

A

Anche il premier in Sicilia: «L’unica vera ragione di Stato è la verità»

«Lo stragismo può tornare» Napolitano chiede «legalità» vent’anni dopo Capaci

di Giancristiano Desiderio

di Marco Palombi

a prima volta che Sandro Bondi presentò le dimissioni c’erano stati i crolli a Pompei. Oggi la situazione non è diversa: sempre di crolli si tratta e, visto lo scenario, non è ingiusto parlare di “ultimi giorni di Pompei”. Naturalmente, oggi come allora, Silvio Berlusconi ha respinto, insieme con Angelino Alfano, le dimissioni ma il problema del Pdl non sono le dimissioni di Bondi. Il problema del Pdl è il Pdl.Tutti lo sanno. Soprattutto, lo sanno gli elettori che ogni volta che si presenta l’occasione del voto dicono “ciao ciao” e o si astengono o cambiano cavallo. a pagina 6

iamo preoccupati per la persistente gravità della pressione mafiosa. Che la mafia possa oggi tentare feroci ritorni alla violenza, anche di tipo stragistico e terroristico, non possiamo escluderlo». Sono passati vent’anni dal pomeriggio in cui Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta vennero fatti saltare in aria da mezza tonnellata di tritolo sull’autostrada Palermo-Mazara del Vallo, solo pochi giorni invece da quando la sedicenne Melissa Bassi venne spenta da un’esplosione davanti alla sua scuola, e il capo dello Stato non può e non sa escludere che altre stragi verranno. segue a pagina 16

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EURO 1,00 (10,00

Cari amici europei, crescita per voi può significare sprechi

CON I QUADERNI)

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• ANNO XVII •

NUMERO

98 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


Ieri, alla vigilia della cena a Bruxelles, si sono diffuse nuove voci di un piano Ue per preparare l’uscita della Grecia dall’Euro

I Mercati contro il vertice Le Borse a picco mentre i leader dell’Unione cercano una difficile mediazione tra le posizioni tedesche e la necessità di un rilancio di Francesco Pacifico

ROMA. Prove tecniche di default. L’Eurogruppo ha consigliato agli Stati membri di «preparare, individualmente, un piano di emergenza per capire le potenziali conseguenze di una fuoriuscita della Grecia». Bruxelles smentisce ma a Berlino e a Francoforte (lato Bce) le task force stanno già lavorando. Gli investitori istituzionali, fa sapere Fitch, continuano a ridurre le loro esposizioni in titoli di Stato italiano e spagnolo. E se le Borse crollano (Milano 3,68 per cento, Parigi -2,62, Londra -2,53, Francoforte -2,33) la Germania si rifinanzia a tasso zero (0,07 garantito per i bund a due anni, 1,39 per il decennale). Se non bastasse, anche i Ventisette, grandi e piccoli, sembrano più interessati più a ricapitalizzare le banche di sistema che ad accelerare gli strumenti della crescita. Almeno questo si è capito ieri sera al Consiglio d’Europa di ieri. Difficile capire se il motore è un peggioramento della situazione greca oppure la certezza che in Europa gli asset tossici non soltanto quelli per 223 miliardi che la Spagna porta con sé come eredità della bolla del mattone. A Bruxelles, i capi di governo riuniti a cena da Herman Van Rompuy, non hanno fatto molta strada sulle misure già discusse nelle scorse settimane (project bond, ampliamento delle risorse della Bei,

riallocamento dei fondi strutturali non utilizzati, imposte sulle transazioni finanziarie per coprire le future politiche di outplacement). Di più, si sono ben guardati dal discutere di eurobond e liberalizzazioni dentro il perimetro dell’eurozona.

Mario Monti, visto il clima, non ha forzato più di tanto sulla “golden rule”, sulla possibilità di scorporare gli investimenti dal computo del deficit. Persino François Hollande, che su tutti questi temi ha ribaltato la corsa all’Eliseo, ieri è sembrato orientarsi su altri dossier. «La Banca centrale europea», ha fatto sapere, «deve l’assistenza rafforzare agli istituti dell’area. Dobbiamo iniettare liquidità nel sistema finanziario europeo e rafforzare tutte le banche». Per la crescita

tutto è rimandato al Consiglio d’Europa del 29 giugno e, soprattutto, al voto in Grecia che si terrà quasi due settimana prima. Due eventi correlati se José Manuel Barroso ieri ha comunicato al premier greco Panagiotis Pikrammenos: «Gli ho sottolineato l’importanza che Atene rispetti gli impegni presi. Mi piacerebbe che ci fosse una

via d’uscita più facile dalla crisi che il Paese si trova ad affrontare, ma il fatto è che il modo meno difficile è la piena messa in atto del secondo programma concordato dalla Grecia e dai suoi partner internazionali». Dalle banche d’affari, dalle task force governative e dai think tank rimbalzano le ipotesi più disparate: c’è chi parla di una “maxiliquidazione” da 50 miliardi per rendere meno aspra l’uscita dei greci dalla moneta

In vista del voto greco i Ventisette studiano un meccanismo di garanzia dei depositi bancari nei Piigs. Per la crescita si attende il vertice di giugno europea, chi suggerisce la creazione di un’euro apposito per Atene, in modo da mantenere sotto l’ombrello di Bruxelles. Così l’unica certezza è che prima del 17 giugno – prima di sapere se la Grecia avrà un governo in grado di tagliare altri 11 miliardi di spesa – difficilmente l’Europa farà un passo avanti e sbloccherà

il miliardo e più dell’ultima tranche del maxiprestito accordato a Lucas Papademos da Ue, Bce e Fmi. Proprio l’ex vicepresidente della Bce mandato sotto il Partenone per salvare il salvabile, ieri ha lasciato un monito a dir poco allarmante: «I costi di un’uscita della Grecia dall’euro oscillerebbero tra i 500 milioni e un miliardo di euro, incluso l’effetto contagio». Parole che hanno spinto la numero uno del Fondo monetario, Christine Lagarde, a proporre che «altri Paesi aumentino i loro aiuti ad Atene per farla restare». Se ad Atene il crack costerebbe massimo un miliardo di euro, Berlino rischierebbe di pagare una cifra sei volta superiore soltanto per i crediti che il proprio sistema bancario non potrà più esigere dalla Grecia. Soldi che Atene, una volta fuori dall’euro, si guarderebbe dal restituire o che nel migliore dei casi si ridurrebbero a briciole in seguito a una probabile svalutazione della nuova dracma. Ed è proprio da questo che bisogna partire per capire perché l’Unione europea, gli Stati Uniti e la Merkel sembrano più preoccupate per la stabilità del mondo creditizio che per la crescita del Vecchio Continente. Quarantott’ore fa ha fatto un certo scalpore sentire la Cancelliera aprire all’ipotesi di far intervenire direttamente il futuro


prima pagina ROMA. Nein, nein, nein. L’impressionante sfilza di no opposta dai tedeschi a qualunque sollecitazione provienente dal resto dell’Europa messa in ginocchio dal dogma dell’austerity, si arricchisce ancora oggi di ulteriori sprezzanti rifiuti. Angela Merkel vola al vertice di Bruxelles con un trolley carico di solidarietà e speranza: no agli eurobond, no a un piano alternativo per salvare la gente greca da scenari postatomici, no a qualunque deviazione dal fiscal compact che rischia di sprofondare Paesi come Spagna e Italia in una recessione decennale. No a prescindere, nonostante la grottesca recita di una falsa collegialità che fa tracollare l’euro dinanzi al sacro altare dei mercati. Ma Berlino non è certo animata da un cieco rifiuto: il rendimento medio sui titoli tedeschi in scadenza a giugno 2014 è stato fissato allo 0,07%. Come a dire che può spendere gratis, senza interessi, e non ha nessuna voglia di rinunciare al proprio ricchissimo particulare. Ma è soltanto cinismo contabile, quello che anima la cancelliera? O dietro la nuova tirannide tedesca si celano altre ragioni? «Le ragioni della Germania sono nei numeri, ma dietro i numeri si celano spinte più viscerali. Berlino rivendica la propria leadership perché si sente vittima di chi gli ha imposto l’euro per frenarla, e ora le dice che quest’Europa dell’euro non va bene e va cambiata», spiega a liberal Gian Enrico Rusconi, docente di Scienze politiche all’università di Torino, e anche Gastprofessor presso la Freie Universität di Berlino . Professore, perché la Germania è così inflessibile? Berlino ha trovato nel controllo dei numeri l’arma per imporre condizioni a tutto il resto d’Europa. La Germania non ha il minimo interesse nel recepire l’idea di una sovranità condivisa. Gli eurobond sono per la Merkel fuori discussione, perché il diktat del rigore è la maniera di tenere in scacco il resto dei Paesi europei. Non è una prospettiva miope, visto che Berlino non trarrà ancora a lungo vantaggi da un resto d’Europa sempre più depresso? Così vorrebbe la razionalità. Ma dietro c’è un sentimento che serpeggia da tempo e influenza l’atteggiamento politico della Germania. In Italia non è stato colto appieno il successo avuto dagli ultimi due libri di Sarrazin, un ex ministro socialdemocratico che incarna ciò che ribolle in molti tedeschi. Che cosa scrive? fondo di salvataggio Ue (Esm) nel capitale bancario. Se un mese fa aveva quasi irriso la proposta francese di dotare il Salva Stati di una licenza bancaria, martedì ha ammesso: «In Germania ci siamo dotati di una legge per le ristrutturazioni bancarie e un fondo, ma sappiamo che potrebbero non bastare per gli istituti di rilevanza sistemica. Per questo servono regole transfrontaliere per il salvataggio, o la ristrutturazione, di queste banche». Il giorno prima Barack Obama aveva rinverdito i suoi ultimatum all’Europa, ma stavolta non

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«Vi spiego perché i tedeschi ce l’hanno con noi europei» Analisi choc di Gian Enrico Rusconi: «Molti considerano gli Eurobond l’ennesimo balzello per le colpe dell’Olocausto» di Francesco Lo Dico Due anni fa aveva venduto 1,3 milioni di copie, scagliandosi contro i rischi dell’immigrazione di extracomunitari di fede musulmana, a suo parere non integrabili nella società tedesca. Oggi, nel suo nuovo vendutissimo libro, dice che l’introduzione degli eurobond, ma più in generale la creazione dell’euro, costituiscono di fatto l’ultimo balzello che la Germania ha dovuto pagare per aver scatenato l’Olocausto.

arrestare la marcia dell’economia tedesca? Ciò che conta è soprattutto lo status quo, in quanto garantisce alla Germania la leadership e la prosperità economica. Per i tedeschi, gli eurobond rappresenterebbero un’illegittima costrizione a pagare per gli altri. Ma che senso ha quindi stare in Europa?

aspettarsi un nulla di fatto come al solito? La Merkel è una donna capace di tatticismi straordinari. Lascerà filtrare qualche vaga speranza di un’Europa migliore, dall’alto di una retorica vaga che non si traduce in qualcosa di concreto. Non è esclusa qualche apertura, che puntualmente loderemo sui giornali in maniera sperticata. La Merkel

Berlino ha subito la moneta unica come un trucco, e ora che si è ripresa il comando vuole tenere testa ai suoi nemici

Piuttosto inquietante, visto che si tratta di un uomo politico navigato. Anche se i tedeschi si sono giovati più di tutti dell’euro, la nostalgia per il marco è diffusa perché la moneta europea è stata subita come un trucco. E ora che la Germania è riuscita comunque a porsi al comando, avverte la sensazione impagabile di tenere testa a un gruppo di nemici. Dei quali, nonostante l’apparente arroganza, si sente piuttosto una vittima. Ma questa visione dell’Europa non è leggermente in contrasto con lo spirito che animò i suoi padri fondatori? I padri fondatori contavano sul fatto che la Germania si lasciasse guidare. E anche Kohl sapeva benissimo che l’Europa sarebbe stata la salvezza di Berlino. Ma oggi i tedeschi avvertono l’Europa come un vincolo. Ma su tanto rancore non incide neppure la fondata paura che un’Europa così stagnante possa

aveva citato il salvataggio della Grecia, bensì la necessità di ricapitalizzare le banche dell’area. Concetto, questo, di difficile applicazione nel Vecchio Continente: vuoi perché la stabilità del credito sul versante orientale dell’Atlantico viene giudicata in base alla raccolta e non alla capitalizzazione, vuoi perché i maggiori istituti non hanno ancora metabolizzato il processo di buffering imposto dall’Eba. Soprattutto se accompagnato dal ricorso a costosissimi e rischiosi strumenti finanziari ibridi come i bond convertibili in capitale.

È l’imposizione delle proprie regole a tutti gli altri grazie all’alibi dei numeri: pensano di non aver rubato nulla e di essere a posto con la coscienza. E che i reprobi devono pagare. Ma ha senso l’istituzione europea, se tutto è deciso da un solo attore? Come è già avvenuto in passato nelle sentenze sul processo di integrazione europea, la Corte costituzionale di Karlsruhe ha affrontato la questione della legittimità delle nuove riforme istituzionali dell’Unione europea sulla base del principio della sovranità democratica dello Stato tedesco. Devo aggiungere altro? I mercati non sembrano guardare con particolare fiducia all’ennesimo vertice di Bruxelles. Lecito

C’è il sospetto che la Germania – per uscire dall’isolamento in cui si trova – abbia stretto un patto con l’amministrazione americana, anche per la gioia degli emergenti: acconsentire finalmente alla creazione di un strumento in grado di garantire liquidità all’eurosistema, senza però dover cedere al fascino degli eurobond, degli stimoli all’economia reale o delle liberalizzazioni per smuovere la domanda interna. Non si sa se al vertice del 29 giugno Francia e Italia avranno la forza di scontrarsi con la Germania e proporre di unifi-

Sopra, il ministro dell’economia tedesco Wolfgang Schäuble. A destra, il leader dei “Piraten”, Denis Simonet. A sinistra, Gian Enrico Rusconi

potrebbe tentare la carta della statista che salva l’Europa. Ma la verità è che non bisogna attendersi nulla di particolarmente rilevante. Insomma, secondo lei, nessuna chance per Hollande e le squadre speciali della crescita? È un assedio. Ma a oggi la Germania resta un fortino inespugnabile.

care e socializzare il debito pubblico dell’Eurozona. Ipotesi che porterebbe il livello del debito/Pil dell’area vicino al 60 per cento imposto dal sixt Pack e dal Fiscal compact con sommo gaudio delle agenzie di rating, ma che impedirebbe alla Germania di riconoscere al proprio decennale una rendita dell’1,39 per cento, di rifinanziarsi a costo zero.

Certo è che, da qualche giorFrancoforte, Berlino, no, Bruxelles e Londra hanno rifocalizzato i loro piani B in caso di uscita della Grecia e di crack

della Spagna. Non più e non solo un cordone sanitario per garantire liquidità in quello che rimarrà dell’Europa, ma un meccanismo europeo di garanzia dei depositi bancari in Paesi a rischio come i Piigs. Resta da capire se la Germania accetterà di portare a un miliardo di euro la potenza di fuoco del Salva Stati oppure se toccherà ancora una volta a Mario Draghi fare il lavoro sporco. Non a caso anche ieri il Fmi ha suggerito sia di abbassare i tassi d’interessi sotto l’uno per cento sia nuove aste a condizioni stracciate.


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l’approfondimento

Il rilancio della produttività italiana è impensabile fuori da un accordo europeo sui vincoli di bilancio e i project bond

La Terza fase

È quella che, tagliando la spesa, porterà a una riduzione delle tasse. Monti deve annunciarla e iniziare a realizzarla. Ma prima deve convincere la Germania a non considerare uno spreco gli investimenti, rafforzando l’asse con Hollande di Rocco Buttiglione iniziata la fase due del governo Monti. È iniziata con la riprogrammazione di due miliardi e trecento milioni di fondi europei che le regioni meridionali erano state incapaci di spendere e che altrimenti avrebbero dovuto essere restituiti. Qualcuno si è lamentato perché questi interventi sono localizzati solo nel Mezzogiorno. Il motivo è semplice e lo abbiamo già detto: si tratta di fondi europei destinati alle regioni in ritardo di sviluppo ed il governo non avrebbe potuto spenderli in Lombardia nemmeno se il presidente del consiglio fosse stato un leghista. Una obiezione più fondata è che forse gli interventi decisi non sono molto strutturali. Anche qui la risposta è semplice: si sono scelte le cose più facili da realizzare immediatamente in modo da realizzare una specie di pronto soccorso in una situazione di tensione straordinaria. C’è però una riflessione di carattere più generale da fare. Le regioni meridionali si sono rivelate cronicamente incapaci di spendere tempestivamente ed efficacemente i fondi europei. Perché non stabilizzare nel tempo la procedura seguita in questa occasione e non affidare la programmazione di interventi strutturali per la costruzione di grandi infrastrutture materiali ed immateriali dello sviluppo al governo centrale coadiuvato da un comitato composto dai presidenti delle

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regioni interessate? La competenza regionale potrebbe restare ma le regioni sarebbero vincolate ad esercitarla in forma congiunta seconda una programmazione comune e sostenute dal governo centrale che opererebbe in questo caso in un modo simile a quello della Commissione nelle istituzioni europee.

Il secondo passo della fase due è la decisione di pagare i debiti dello Stato verso i suoi fornitori. Un po’ per banali ragioni di inefficienza burocratica, un po’ per un tentativo ingenuo di nascondere debito pubblico alla Commissione Europea lo Stato italiano ha preso l’abitudine di pagare i fornitori con un ritardo sempre maggiore.Vi sono migliaia e migliaia di imprese che lavorano per lo Stato che oggi sono alla canna del gas non perché manchi il lavoro ma perché loro lavorano e lo Stato non paga. Sono imprese di ogni tipo. Molte operano nel sociale e la loro crisi si riflette in un declino del livello di sostegno ai più deboli. Adesso lo Stato ha deciso di pagare. Il debito complessivo è di circa settanta miliardi di euro

ed il governo pensa di pagarne in corso d’anno circa la metà. Si tratta di un valore di circa due punti Pil. È una immissione di liquidità che solleva potentemente lo stato dell’economia, sostiene una domanda interna ridotta ai minimi termini e permette probabilmente di rettificare almeno in parte le previsioni nerissime formulate per il 2012. La decisione del governo è sostenuta da una complessa architettura finanziaria e da una opera intelligente di moral suasion presso le banche svolta dal ministro Passera. Io avevo suggerito un approccio più diretto. Avevo detto: vada Monti a Bruxelles a spiegare che non si tratta di debito nuovo ma di debito pregresso e si faccia autorizzare a farlo transitare direttamente nel debito pubblico senza passare per il deficit annuale, come so è fatto già in altri casi. Emetta poi il governo buoni del tesoro in quantità corrispondente e paghi quanto dovuto. Monti e Passera hanno scelto un’altra strada. Non lo hanno fatto per evitare una spiegazione con Bruxelles (e con Berlino). Credo che la spiegazione ci sia stata e sa-

Certamente la Ue approva la procedura di rimborso delle aziende

rebbe comunque ingenuo pensare di potere fare una operazione come quella che è in corso senza che le autorità comunitarie se ne rendano conto. Il motivo vero della scelta di fare ricorso ad un sistema più sofisticato di ingegneria finanziaria lo ha spiegato il viceministro Grilli: con i mercati in tensione per la vicenda greca non sarebbe comunque prudente aggiungere altre emissioni di debito pubblico a quelle comunque in programma per la seconda metà dell’anno. Va bene così.

Non sfugge a nessuno che sia la prima che la seconda delle misure che abbiamo commentato non sarebbero state possibili senza la forte credibilità del governo Monti in sede europea. Sia la riprogrammazione dei fondi europei che il pagamento del debito pregresso non sarebbero stati possibili senza il consenso esplicito o implicito delle istituzioni europee. Sulle altre misure che noi dell’Udc abbiamo chiesto il governo è al lavoro, le prospettive sembrano però essere positive. La Francia chiede un allentamento dei vincoli del patto fiscale e politiche keynesiane di sostegno alla domanda che la Germania non è disposta a concedere. La giusta proposta di mediazione che già abbiamo avanzato è quella di un accordo per la crescita. Esso deve: A) Vincolare i paesi che hanno i bilanci in


L’opinione controcorrente dell’ex ambasciatore Usa all’Onu

Attenti, amici europei: crescita per voi può significare sprechi Spesso le politiche socialdemocratiche hanno prodotto grandi investimenti pubblici che non hanno aiutato l’economia privata di John R. Bolton l G8 di Camp David, a dominare la discussione è stata la continua crisi dell’Euro. L’agonia della Grecia - costretta a nuove elezioni per le sue divisioni interne - era in prima linea. Il crescente sostegno ai partiti estremisti greci, sia di destra che di sinistra, preoccupa molto i membri dell’Ue, in special modo la prospettiva che il partito della sinistra radicale Syriza possa prevalere al prossimo turno. Syriza inequivocabilmente rifiuta le dure misure fiscali richieste da Ue e Fmi per tirare fuori la Grecia dalla dissolutezza fiscale con cui è stata gestita negli ultimi decenni. Quindi la prospettiva che la Grecia esca dall’Euro e torni alla moneta nazionale, un tempo impensabile e innominabile, adesso è argomento di frenetiche pianificazioni sia ad Atene sia a Bruxelles. Anche se nel breve termine sarà doloroso per la Grecia, abbandonare l’Euro, potrebbe rivelarsi più appetibile rispetto a anni di agitazioni sociali e rivolte in strada da parte di quei greci che non vogliono rinunciare ad un pasto gratis. L’Islanda per esempio è la prova che la svalutazione può essere proprio la medicina necessaria per una maggiore correzione economica.

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quella che hanno suggerito i suoi antagonisti come Hollande e il presidente Barack Obama. Quando parlano di promuovere la “crescita”, non stanno sostenendo l’incremento dell’attività del settore privato, piuttosto vogliono espandere quei settori del governo già enormi con una spesa pubblica ancora maggiore. Questo approccio, ovviamente, influisce direttamente sull’attuale situazione problematica dell’Occidente, che di questo passo sarà ancora più aspra. Incapace di trovare un accordo sulla sostanza, il G8 – come succede spesso – ha sostenuto praticamente tutto: sia l’austerity che maggiori misure di governo per gli incentivi. Una retorica così vaga e fondamentalmente contraddittoria, senza il sostegno di azioni concrete, non porterà a niente se non a ulteriore confusione. Soluzioni parziali e visioni inadeguate non solo non hanno risolto la crisi, ma probabilmente l’hanno peggiorata perché non si possono posticipare indefinitamente le questioni spinose. Così facendo si rischia solo di rendere ancora più doloroso il risultato finale.

La crisi europea pesa anche sulla Nato: per questo Obama vuola abbandonare l’Afghanistan

Ciò nonostante molti leader della Ue ritengono, o sperano, che disciplinare la Grecia espellendola dall’Eurozona potrebbe castigare altre economie europee in difficoltà. Ma la Grecia non è altro che un elemento di un problema più grande che esiste in tutta l’Ue. In Francia ad esempio la sconfitta di Sarkozy ad opera di François Hollande ha portato al potere un socialista che ha usufruito anche di un forte sostegno comunista. Le imminenti elezioni parlamentari determineranno se il Front National può sostituire efficacemente i partiti di centrodestra francesi, ora in rotta dopo la sconfitta di Sarkozy. Se i recenti successi di Le Pen dovessero continuare, la Francia potrebbe essere più estremizzata di quanto non lo sia mai stata dal crollo della Quarta Repubblica nel 1958. I paesi dell’Ue più piccoli come l’Olanda, che si ritiene abbiano politiche fiscali più responsabili rispetto a Grecia e simili, non sono stati in grado di formare governi o mandare avanti i loro progetti di austerità. Nel Regno Unito il malcontento degli elettori per la politica di austerità del governo conservatore ha portato a sostanziali perdite per entrambi i partner di coalizione nelle recenti elezioni locali. Anche in Germania i Cristiano-Democratici di Angela Merkel hanno subito successive battute di arresto nelle elezioni locali. Mentre non rappresentano un’immediata minaccia per la sua coalizione nazionale, queste indicazioni di debolezza potrebbero costringere la Merkel ad un periodo decisamente critico. Tutti questi sviluppi politici rappresentano una sfida alla dolorosa stretta finanziaria guidata dalla Germania per salvare l’Euro. Gli elettori hanno respinto la prospettiva di austerità, ma i disordini politici hanno raggiunto livelli esplosivi ancor prima che le restrizioni fiscali iniziassero a mordere. Immaginate quanto la situazione potrebbe diventare tumultuosa quando saranno effettivamente attive le misure di austerità. La risposta all’austerità comunque non è

Le conseguenze della crisi dell’Euro purtroppo si sono rivelate anche al vertice Nato di Chicago che è seguito al G8. L’Alleanza si sta preparando a dichiarare vittoria e il ritiro dall’Afghanistan, senza considerare che in questo modo lascerà la porta spalancata ai talebani. La Nato soffre non solo di una spaventosa mancanza di leadership degli Stati Uniti, ma anche dello svuotamento delle capacità militari europee, principalmente causato dalle stesse politiche economiche che hanno prodotto l’attuale crisi finanziaria: l’inesorabile espansione dello stato assistenziale, le enormi pressioni sull’attività economica privata. In questo modo si assiste ad un’Europa che inciampa lungo un percorso di cui non si intravede la fine. Potrebbero uscire dall’euro altri paesi, o potrebbe verificarsi un massiccio trasferimento di poteri a Bruxelles per allineare la politica fiscale con la politica monetaria. In entrambi i casi, l’Eurozona e la stessa Unione Europea potrebbero presto assumere un aspetto completamente diverso. E senza sostenitori per un settore privato più forte, i dibattiti politici verteranno su come distribuire una torta economica più piccola piuttosto che su come godere dei benefici dell’espansione economica. Il ché sarebbe un male per la Nato e per l’Occidente in generale, in special modo per quegli europei che si devono dividere la miseria. Gli Stati Uniti hanno evitato – fino ad Obama – i peggiori eccessi di quelle politiche statiste così dominanti in Europa. Ora che gli effetti di queste politiche sono ampiamente evidenti, si potrebbe pensare che è relativamente facile disegnare la conclusione politica per la maggior parte degli americani. Tuttavia, proprio come in Europa, il richiamo di concessioni, pasti gratis e nessuna responsabilità riscuote molto successo anche qui. A novembre vedremo se gli americani hanno intenzione di continuare a perseguire la loro eccezionalità, o se metaforicamente ripercorreranno le strade di molti dei loro antenati europei.

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ordine a politiche espansive del loro mercato interno in modo da compensare a livello europeo il restringimento dei mercati dei paesi che devono fare politiche di austerità. Per la verità questo sta già avvenendo anche perché la Cancelliera Merkel deve allargare i cordoni della borsa se vuole vincere le prossime elezioni. B) Completare il mercato interno soprattutto dei servizi. Da questo possono derivare importanti impulsi di crescita per tutti i paesi dell’Unione. C) Avviare un grande piano di investimenti per fare dell’Europa la più grande economia della conoscenza del mondo. Essi possono essere finanziati parzialmente da titoli di debito pubblico europeo (project bonds) e/o da una Bei (Banca Europea per gli Investimenti) adeguatamente rafforzata. Si potrebbe prevedere un finanziamento parziale da parte degli Stati membri ed il contributo degli Stati membri potrebbe essere esentato dal vincolo di bilancio. Si potrebbe infine fare ricorso per la quota restante al mercato dei capitali. La proposta italiana di applicare la golden rule esentando dal vincolo di bilancio la spesa per investimenti incontra ostacoli perché non tutti intendono gli investimenti nel medesimo modo e spese correnti potrebbero essere travestite da investimenti. Queste perplessità devono cadere però nel caso del cofinanziamento di un progetto comunitario. La filosofia dell’accordo sulla crescita è un keynesismo rivisitato, un keynesismo dal lato dell’offerta. Si realizzano investimenti volti a migliorare la produttività dell’Europa, capaci quindi di pagarsi nel tempo. Contemporaneamente questi investimenti sostengono la domanda interna.

Il primo punto rassicura la Germania, il secondo viene incontro alle domande della Francia. Nel momento in cui Germania e Francia rischiano di presentarsi al tavolo della trattativa con posizioni divaricate tocca al governo Monti un ruolo essenziale e difficile di mediazione. Dal governo Monti ci aspettiamo però anche una terza fase. Non sappiamo se sarà in grado di completarlo, è essenziale però che la prepari, la annunzi e la inizi. Il governo Monti deve essere il governo che taglia le tasse e, per farlo, taglia la spesa pubblica e ridefinisce i compiti dello Stato. C’è un equivoco esiziale oggi nella pubblica opinione che va dissipato con energia. Una campagna di stampa pretestuosa e disonesta dice che il governo Monti è il governo delle tasse. È vero: il governo Monti ha messo le tasse per evitare la catastrofe. Ha messo le tasse perché il governo Berlusconi (e , prima di lui, il governo Prodi) non sono stati capaci di tagliare la spesa pubblica. La spesa pubblica non si taglia da un giorno all’altro. Occorre tempo per cambiare i meccanismi profondi che ne determinano l’aumento. La manovra fatta per evitare il dissesto è stata troppo pesante sulle tasse ma era l’unica manovra possibile. Adesso sulla spesa pubblica bisogna intervenire seriamente. Il ministro Giarda e poi il commissario Bondi hanno avviato la revisione della spesa e la lotta agli sprechi. Bene, ma non basta. Per arrivare a quella forte riduzione delle tasse di cui c’è bisogno è necessario ripensare l’architettura dello Stato. La questione delle tasse non è solo questione di soldi. È anche, e soprattutto, questione di libertà. Questo compito si proietta sulla prossima legislatura e chiama in causa le forze politiche ed i programmi con i quali esse si presenteranno al giudizio degli elettori.


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Drammatica riunione a Via del Plebiscito

Pdl caos. Berlusconi evoca il suo addio Il Cavaliere congela le dimissioni di Bondi poi: «Montezemolo farà politica? Con i moderati» di Errico Novi

ROMA. Un partito? No, una persona. Come sempre. Tutto il travaglio del Pdl, che da giorni proietta di sé l’immagine di un magma indistinto e rissoso, si riduce in realtà solo al dubbio soggettivo di Silvio Berlusconi: «Restare in campo? Questo me lo domando anch’io», dice ai cronisti appena sbarcato a Bruxelles e con alle spalle due ore di vertice a Palazzo Grazioli. Alla fine di una giornata in cui fioccano nell’ordine le indiscrezioni di Repubblica su una defenestrazione di Angelino Alfano e la rentréè

rispettive case madri delle diverse famiglie, ex An in primis, evapora al cospetto dell’unica, vera incognita: che farà il Cavaliere?

Si respira un’aria dimessa, molta frustrazione, voglia di mandare tutto all’aria. E la cosa riguarda il Cavaliere come i suoi colonnelli. Se ne discute in tarda mattinata nella residenza romana dell’ex premier. Accorrono i coordinatori e i capigruppo. Si commentano le indiscrezioni di Repubblica sul nuovo “predellino” da cui Berlusconi vorrebbe

L’ex ministro della Cultura sembra cogliere più di altri, a via dell’Umiltà, il grado estremo a cui è arrivata l’insofferenza dell’ex premier nei confronti dei suoi dirigenti, anche se dà tutta la colpa a Libero del Cavaliere, quindi le dimissioni di Sandro Bondi da coordinatore, e ancora il no alle suddette dimissioni da parte del Cavaliere e del segretario, al termine insomma della solita giostra infernale che il Pdl sperimenta dopo le sconfitte, arriva la più realistica delle ammissioni: il capo si interroga su se stesso, non ha effettivamente deciso di riassumere il comando (anche se lo ha certamente ipotizzato) e anzi comincia a valutare l’opzione contraria, quella del definitivo disimpegno: «Escludo di ricandidarmi a premier», dice. Colpisce che dinanzi a tutto questo il gotha di quello che è ancora il partito di maggioranza relativa in Parlamento, assista semplicemente col naso per aria. Anche le ipotesi, pur coltivate, di uno spacchettamento del Pdl, con ritorno alle

far rotolare giù il Pdl e rimpiazzarlo con una lista agile («basta tessere e congressi). Si parla anche di frequenze tv e di nomine all’Agcom. Partecipano, non a caso, l’ex ministro allo Sviluppo economico Paolo Romani (indagato a Milano con Paolo Berlusconi) che segue sempre le partite “televisive” e, soprattutto, Felice Confalonieri. Si riflette però anche sulle dimissioni da coordinatore di Sandro Bondi. Non è la prima volta che l’ex ministro della Cultura le presenta: era già successo in seguito alle polemiche per i crolli di Pompei e dopo la vittoria di Pisapia al Comune di Milano. Stavolta il passo indietro di Bondi arriva in coincidenza di una nuova pesante requisitoria contro la dirigenza pidiellina attribuita dai giornali al Cavaliere. L’ex ministro dà l’im-

Per riuscire a ”salvarsi” dovrebbero rendersi autonomi

Alfano, Fitto, Frattini, volete proprio morire berlusconiani? di Giancristiano Desiderio a prima volta che Sandro Bondi presentò le dimissioni c’erano stati i crolli a Pompei. Oggi la situazione non è diversa: sempre di crolli si tratta e, visto lo scenario, non è ingiusto parlare di “ultimi giorni di Pompei”. Naturalmente, oggi come allora, Silvio Berlusconi ha respinto, insieme con Angelino Alfano, le dimissioni ma il problema del Pdl non sono le dimissioni di Bondi. Il problema del Pdl è il Pdl. Tutti lo sanno. Soprattutto, lo sanno gli elettori che ogni volta che si presenta l’occasione del voto dicono “ciao ciao”e o si astengono o cambiano cavallo. Ecco perché il Cavaliere ha in mente - una volta diceva e scriveva: “L’Italia che ho in mente”, ricordate? - una trovata delle sue per cavalcare la voglia matta dell’onda antipolitica: una lista civica forzista, un nuovo predellino, gli alfieri della libertà e roba similberlusconiana già vista e già fritta. Un progetto che va bene per Berlusconi. Ma ciò che va bene per Berlusconi può andar bene anche a Fitto, a Frattini, allo stesso Alfano?

L

Se la Seconda repubblica, caratterizzata dal berlusconismo e dall’antiberlusconismo, è finita, è mai possibile che la ricetta giusta per pensare e agire in politica per l’Italia sia ricominciare tutto daccapo con gli stessi errori che ci hanno condotto fin qui, ad un passo dal bagno

nel mar Egeo? In ciò che rimane del Pdl ci sono tante cose e non tutte in accordo tra loro. Fino a quando il Pdl era al governo e aveva potere - Feltri direbbe “menava il torrone”- le anime in conflitto erano acquietate dal governo e dagli incarichi. Ora, però, che a Palazzo Chigi c’è Mario Monti e che il Cavaliere è un leader stanco con un grande avvenire dietro le spalle, il Pdl si sfalda e lentamente muore. Non è una novità. Tante volte è stato detto e scritto: quando lui non ci sarà più (politicamente) il partito imploderà, si scioglierà come un gelato a Ferragosto. Anche questa, però, è stata una previsione parziale perché nei fatti che abbiamo davanti il Cavaliere non è né dentro né fuori ma un po’ dentro e un po’ fuori e la sua intenzione è quella di rimettersi a fare politica con gli strumenti del marketing e della comunicazione, dei sondaggi e delle scienze sociali applicate alla propaganda. E’ lo scenario peggiore per chi come i tre citati sopra: Alfano, Fitto, Frattini ma altri se ne possono aggiungere - ha in mente un’altra Italia e un’altra politica. È lo scenario da evitare per chi si vuole rivolgere ai cattolici, alle famiglie, alla storia italiana, alle virtù della moderazione politica e a quel senso del limite da cui vengono al mondo le cose migliori per vivere e crescere. Insomma, se i cattolici che oggi albergano nel Pdl asseconderanno il nuovo programma antipolitico berlusconiano e si


politica Ieri è stata una giornata di resa dei conti al vertice del Pdl a Roma, con Silvio Berlusconi sempre più distante dalle amarezze della politica e il coordinatore Sandro Bondi stanco di fare da parafulmine per le polemiche interne dopo il tracollo elettorale alle elezioni amministrative. Nell’ombra restano tre leader moderati: Angelino Alfano, Franco Frattini e Raffaele Fitto. Sono in molti ad attendersi delle mosse significative da parte loro

accoderanno al nuovo vecchio Berlusconi per loro il destino sarà segnato: essere ancora una volta al servizio del Cavaliere. Ma con una novità consistente: non si ritroveranno in un grande partito berlusconiano come nel passato bensì in un medio partito berlusconiano al di sotto del 20 per cento. Conviene a Fitto, Frattini, Alfano intraprendere questa strada?

In politica non solo bisogna sapere quando “scendere in campo” ma anche quando “uscire di scena”. Eppure molti se lo dimenticano

In politica non solo bisogna sapere quando “scendere in campo” ma anche quando “uscire di scena”. Prima che sia troppo tardi. La vera colpa di Umberto Bossi è stata proprio questa. Silvio Berlusconi si avvia a ripetere lo stesso errore del suo amico in canottiera. Ma i più giovani tra i berlusconiani, quelli che sono venuti al mondo non con la prima ora ma con la seconda e con la terza, quelli che ancora non c’erano quando si parlava di “rivoluzione liberale” e quando Lucio Colletti era ancora tra noi, ecco questi - diciamo così - della seconda decade della Seconda repubblica perché non valutano l’idea di crescere e di “scendere in campo”autonomamente? Possibile che non capiscano che ora è il momento di creare un’altra forza politica che abbia come punto di riferimento le virtù moderate del cattolicesimo liberale? Tanto per prendere in prestito uno slogan di un certo successo: se non ora, quando? Non è più tempo di rivoluzioni, non è più tempo di predellini, non è più tempo di illusioni. Ora è il tempo della responsabilità e della unione dei moderati. Il modo per farlo è quello classico: credere nelle proprie idee, assumersi dei rischi e garantire appoggio e continuità al governo Monti. È quasi un appello: chi crede nella necessità di ridare forza e nuova vita alle ragioni dei moderati deve pur opporsi ad un programma antipolitico come quello che Berlusconi ha in animo di rilanciare per tenere in piedi quel che resta del suo predellino e della sua forza di interdizione pubblica. I più giovani tra i cattolici liberali del Pdl oggi si giocano tutto: il loro passato, il loro presente, il loro futuro. Se voglio crescere e dire qualcosa al mondo non possono fare altro che fare ciò che ogni uomo è chiamato a fare per diventare adulto: “uccidere il padre”.

pressione di cogliere forse più di altri il malumore di Silvio nei confronti dei suoi uomini. Pesano in particolare le frasi che avrebbe specificamente indirizzato ad Alfano («purtroppo non esiste, solo io posso salvare la situazione») che di fatto non risparmiano l’intera tavola rotonda che circonda il Cavaliere.

Bondi se la prende soprattutto con i mass media e in particolare «contro quei quotidiani che, come Libero, dichiarano di riconoscersi nell’area di centrodestra», giornali segnati da una «linea», da «argomenti» e da un «linguaggio stesso» che rappresentano «una delle ragioni più evidenti delle nostre difficoltà». Certo, il quotidiano fondato da Vittorio Feltri e diretto da Maurizio Belpietro invita Berlusconi, nell’edizione di ieri, a disfarsi senza indugio dei suoi collaboratori. Ma appunto, è difficile distinguere tra la delusione per quei media che, come Libero e Repubblica, rappresentano un Cavaliere stufo, e l’effettiva insofferenza di Berlusconi stesso. Così difficile e sottile è la distanza, che quando Berlusconi dice ai cronisti assiepati al Plebiscito che «io e Alfano respingiamo le dimissioni di Bondi», sembra di assistere all’affannoso tentativo di circoscrivere l’incendio. Ma ormai la percezione diffusa, nel Pdl, è proprio quella: il Cavaliere non ne può più, vorrebbe sbarazzarsi di tutti e replicare l’epopea del ’94. Se non è già passato all’azione è solo perché mancano nuovi argomenti con cui sedurre l’elettorato. Non sarà dunque la prima volta che Bondi sbatte la porta, ma più che di predilezione per il gesto teatrale si tratta probabil-

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resterà in campo e, riguardo al partito, ammette che «stiamo ragionando su cosa fare».Vuol dire che l’ipotesi della definitiva uscita di scena è davvero sul tavolo e la svolta verso un patto moderato, che non vedrebbe più l’impegno del Cavaliere, è tutt’altro che remota. C’è anche la conferma diretta dell’incontro con Montezemolo: «Ne ho avuto uno solo», risponde Berlusconi, «molto cordiale» e ne è uscito confortato nella convinzione che «se se entrasse in politica, dovrà stare per forza nel campo dei moderati». Aggiunge poi di aver «sconsigliato» il presidente Ferrari dall’entrare in politica. E se si considera la tempra del Cavaliere, qualche segnale di una possibile, definitiva uscita di scena sembra cogliersi anche nella battuta un po’ malinconica su Beppe Grillo: «Complimentarmi con lui? No, non ci ho pensato, però magari i complimenti glieli faccio», risponde ai cronisti senza riuscire a celare una certa nostalgia per il tempo in cui era lui a sparigliare i giochi. «Anche Grillo è figlio di questo momento, dell’antipolitica, quindi è una bolla che deve dare un segnale a tutti coloro che fanno invece politica di una profonda necessità di rinnovamento».

Il punto non è però cosa veda Berlusconi nel futuro dei moderati, ma se ci vede se stesso. Perciò anche la battuta, non nuovissima, sul fatto che «noi vogliamo cercare di costruire in Italia il Partito popolare europeo» non scioglie il vero quesito. Già all’uscita da Palazzo Grazioli, d’altronde, il Cavaliere s’era fatto scappare un’altra battuta, a proposito del predellino: «Se ce ne sarà un altro? Al massimo ci sarà un altro sgam-

C’è una continua oscillazione, nel Cavaliere, tra un suggestivo gran ritorno e la definitiva uscita di scena. Di sicuro ha nostalgia per il ’94 e fa persino i complimenti a Grillo, che gli ricorda la sua epopea mente di realismo. Da parte del segretario Alfano, però, arriva l’arrocco difensivo: «È in atto un chiaro tentativo di avvelenare i pozzi, ma noi non procederemo con la logica della ghigliottina». Ma chi è che ordisce la trama? «Il presidente Berlusconi è il leader del Pdl», argomenta Alfano, «alcune fonti danno polpette avvelenate ai giornalisti che, giustamente, hanno una loro attitudine ad assumere come buone delle fonti in cui credono». È un corto circuito dietro cui si nasconderebbe il nulla. Quello che è certo d’altronde è che Berlusconi non esibisce più certezze. Non si concede più con ampiezza ai cronisti, scappa via verso l’areo per Bruxelles senza rispondere alle domande sul Pdl, Bondi a parte.

Poi però arrivato nella capitale belga, dove lo attende il summit del Ppe, ammette di essere oppresso dai dubbi. Non sa se

betto». A tenderlo sono in tanti, «cercano tutti di farcelo ma noi stiamo saldi». E così, se Bondi se la prende con Libero, lui, Silvio, si scaglia contro la solita Repubblica che «fa politica, è ostile a noi». «Tutto quello che hanno scritto in relazione al nostro movimento è falso, non c’è nulla all’interno del nostro partito che corrisponda alla situazione dipinta da Repubblica». Ma il tormento è indiscutibile, ed è così chiaro che riguardi sostanzialmente la sola persona di Berlusconi, che tutti gli altri più o meno veri conflitti interni appaiono all’improvviso come una rappresentazione di contorno. Scajola chiede di procedere subito con il nuovo partito dei moderati, Cicchitto difende Alfano, Matteoli lo fa, eroico, addirittura con il Pdl. Ma finché il Cavaliere oscillerà tra la suggestione del ritorno e l’uscita di scena, il resto conterà poco.


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media non lo dicono, ma la scienza dimostra un rovesciamento nel pensiero corrente sulla famiglia. La famiglia “tradizionale” si scopre essere una risorsa per la società, essere la strada del futuro. La famiglia rende più felici e più produttivi socialmente. La famiglia fa bene. E non è per nulla uguale a tutte le altre forme di convivenze che si stanno diffondendo. Anzi, la loro diffusione non è la strada per un futuro migliore, ma è il sintomo di una crisi e di una disgregazione. Non sono il superamento della famiglia, ma il fallimento della società. Non è lo Stato, non è il mercato che si adegua allo sviluppo di nuovi modelli di famiglia, ma al contrario sono proprio essi a determinare questo sviluppo negativo tenendo sotto attacco costante una famiglia sempre più penalizzata benché sia determinante a costruire positività per tutta la società. Insomma, l’attacco alla famiglia è la via verso un suicidio sociale. Parola di scienziati. La famiglia conquista il centro della scena. Ma trovandosi davanti a una terribile divaricazione. Dove va la famiglia? Verso il baratro, la scomparsa, l’irrilevanza? O sarà di nuovo protagonista del rilancio della società in questo momento di crisi? La famiglia è una risorsa per la società o è un limite per la modernità? Dati Istat contro una ricerca sociologica sponsorizzata dal Vaticano. Ma con contrapposizione solo apparente. Non si può negare che oggi questi temi siano attualissimi e vivacissimi, e ancora di più lo siano a causa della crisi che mette tutti in difficoltà e costringe a guardare in faccia la verità. E anche a chiedersi cinicamente come si sopravvive, come se ne esce? E a quel punto la famiglia, che è comunque nucleo chiave della società, snodo fondamentale, diventa l’oggetto diretto o indiretto di una domanda profonda: la famiglia nella crisi (ma più in generale nella vita) è una zavorra che impedisce di spiccare il volo o al contrario è una risorsa, una rete, un arricchimento che non solo protegge ma dà anche gli strumenti per spiccare quel volo, sia individualmente sia socialmente?

I

Di questo tema se ne stanno occupando in molti di questi tempi, sotto diversi punti di vista e con diversi approcci e supporti. Ma se si vuole essere seri e onesti si potrebbe scoprire che le cose stanno diversamente da come la pressione massmediatica vuole farci credere. È evidente che c’è un pensiero dominante che oggi propugna tutto ciò che va contro la famiglia, tutto ciò che sembra “liberare”il singolo facilitandone l’appagamento di ogni desiderio: dalle convivenze senza vincoli al rifiuto di avere figli (o magari di averli solo su misura come proprietà), dai matrimoni gay al divorzio breve e via così su tutte le iniziative “moderniste” e di “diritti civili” che disgregano il senso della famiglia detta “tradizionale” (o normo-costituita secondo il linguaggio sociologico), quella dove un uomo e una donna si sposano e mettono al mondo i figli. E questo pensiero dominante pare trovare la sua conferma e il suo sostegno nei dati statistici che vengono continuamente scodellati, nella descrizione della situazione che viene disegnata. Ad esempio sono davvero pesanti i dati forniti dall’Istat. Ma attenzione a un elemento metodologico molto determi-

il paginone nante in questo contesto: nessuno mette in discussione che i dati dell’Istat siano corretti, ma c’è chi li strumentalizza per farne un dogma programmatico, invece di limitarsi a leggerli, comprenderli, indagarli. Così se ne ricava un trend che viene dato come inevitabile e come addirittura giusto e portatore di modernità, mentre i dati di per sé non dicono assolutamente questo. Si limitano a descrivere una realtà asetticamente, ma non dicono cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa è desiderato e cosa è subìto, cosa porta vantaggi e cosa svantaggi per i singoli, per le famiglie, per la società tutta. Descrivono fotograficamente una realtà, ma non ne spiegano le cause.

Vediamo prima questi dati e poi proviamo a dargli un senso alla luce delle ricerca La famiglia, una risorsa per la società, condotta dal professor Pierpaolo Donati su mandato del Pontificio Consiglio per la Famiglia, edita da Il Mulino e sponsorizzata dalla Fondazione Fede e Scienza presieduta da Rocco Buttiglione. Registra il Rapporto annuale 2012 dell’Istat che negli ultimi venti anni le “famiglie” italiane sono passate da 20 a 24 milioni, mentre i componenti sono scesi da 2,7 a 2,4. Sono aumentate le persone sole, le coppie senza figli e le famiglie monogenitore, sono diminuite le coppie con figli. Le coppie coniugate con figli si sono ridotte al 33,7 per cento delle famiglie italiane nel 2010-2011 dal 45,2 per cento del totale delle famiglie del 1993-94; anche nel Mezzogiorno la famiglia tradizionale, ancora maggioritaria nel 1993-‘94 (52,8 coppie coniugate con figli per cento famiglie), rappresenta oggi poco più del 40 per cento. Aumentano le nuove forme familiari:

La verità non è quella dell’Istat ma quella che emerge da una ricerca della Fondazione Fede e Scienza: il nucleo familiare è una risorsa che lo Stato sta distruggendo

L’Italia non ti

di Osvaldo

single non vedovi, monogenitori non vedovi, “libere unioni” e famiglie ricostituite coniugate; nel complesso si tratta di oltre sette milioni di famiglie (il 20 per cento del totale del 20102011), circa il doppio rispetto al 19931994, per un totale di 11 milioni e 807 mila individui. Le libere unioni sono quadruplicate in meno di vent’anni, nel 2010-2011 sono 972 mila. Le convivenze more uxorio tra partner celibi e nubili, in tutto 578 mila, hanno fatto registrare gli incrementi più sostenuti, 8,6 volte in più di quelle del 1993-‘94. I matrimoni sono in diminuzione, poco più di 217 mila nel 2010, nel 1992 erano circa 100 mila in più. Ogni dieci matrimoni quasi tre finiscono in separazione, una proporzione raddoppiata in 15 anni; le unioni interrotte da una separazione entro 10 anni di matrimonio sono più che triplicate, passando dal 3,62 per cento matrimoni celebrati nel 1972 al 12,25 per cento nel 2000 (sempre una tragedia, ma certo la stampa potrebbe anche notare che i numeri assoluti sono brutti ma non mostruosi: le famiglie che durano sono sempre la

stragrande maggioranza, ma questo non fa notizia). Dato invece di particolare rilevanza, e che ci porta al successivo passaggio, è quello che dice che una famiglia su dieci è in povertà, e che il dato è più che doppio al Sud, e soprattutto che è molto peggiorata la condizione delle famiglie più numerose. Nel 2010 risulta in condizione di povertà relativa il 29,9 per cento di quelle con cinque e più componenti (più sette punti percentuali rispetto al 1997). Sono 1 milione 876

I dati forniti dall’Istituto di Statistica sono certo attendibili, il problema è il modo strumentale in cui vengono letti

mila i minori che vivono in famiglie relativamente povere. Ma già nelle famiglie con almeno un minore l’incidenza della povertà è del 15,9 per cento. Complessivamente sono 1 milione 876 mila i minori che vivono in famiglie relativamente povere (il 18,2 per cento del totale). Negli ultimi due decenni la spesa per consumi delle famiglie è cresciuta a ritmi più sostenuti del loro reddito disponibile, determinando una progressiva riduzione della capacità di risparmio; il potere d’acquisto è sceso di circa il 5 per cento. Il carico fiscale corrente sulle famiglie è passato dal 13,2 per cento degli anni 1992-1996, al 14,1 per cento del periodo 2001-2007, per raggiungere il 15,1 per cento nel 2011.

Questi sono i dati che fanno vedere le difficoltà della famiglia. Ma che forse visti in un’ottica onesta e al di fuori del politicamente corretto mostrano che non è la famiglia a causare problemi ai suoi membri, alla società, allo Stato. Al contrario sono lo Stato e la società che si mostrano ostili alla famiglia e invece di incoraggiarla la ostaco-


il paginone Ferruccio Ferrazzi, “Visione prismatica”, 1924. Accanto, una scena del film “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti; sotto il titolo, un’immagine tratta da “Happy family” di Gabriele Salvatores razione largamente più diffusa è proprio quella di “mettere su famiglia”, aspirazione cui in troppi rinunciano non per “modernità” ma per paura. La crisi della famiglia è una sconfitta, non un progresso. Ma questa lettura è corretta o è pregiudiziale? Se è vero che lo Stato e il mercato non aiutano e anzi danneggiano la famiglia, ma perché dovrebbero aiutarla? Su quali basi? E qui arriviamo alla ricerca presentata dal Pontificio Consiglio per la Famiglia. Un’analisi scientifica serissima e rigorosa, forse non a caso ignorata dai mass media. Perché rovescia il politicamente corretto generalizzato. Ma la ricerca è seria, scientificamente fondata: se la si vuole contestare (è legittimo) lo si faccia su basi altrettanto scientifiche, altrettanto solide e rigorose. Ma questo non avviene, si preferisce ignorare e continuare con gli stereotipi che fanno comodo ad alcuni e che molti si bevono.

Ma quali sono questi risultati rivoluzionari della ricerca La famiglia, risorsa per la società, condotta dall’equipe guidata dal sociologo Donati intervistando personalmente per 18 mesi 3500 persone? «Le famiglie fondate sul matrimonio uomo-donna e con due o più figli sono le più felici, le più stabili e le più pro-sociali», ha sintetizzato il cardinale Ennio Antonelli, presidente del Pontificio Consiglio della Famiglia. «La nostra ricerca dimostra, con dati empirici, che la famiglia non è un peso, non è un ostacolo, ma una risorsa» ha detto

iene famiglia

o Baldacci

Donati. «Il problema di fondo è che a livello mondiale viene messo in discussione il modello della famiglia “normocostituita”, quella fondata sul matrimonio uomo-donna e con due o più figli,

L’equipe diretta da Pierpaolo Donati ha lavorato 18 mesi intervistando 3500 persone. Il modello più ambito? Quello tradizionale lano e la danneggiano. In quest’ottica rivoluzionaria si possono meglio comprendere anche tutti i terribili dati citati in precedenza, che mostrano un quadro di famiglia sotto assedio e un’avanzata di forme nuove. Quest’avanzata non è progresso, non è il risultato della

crisi della famiglia come modello superato e inadeguato, ma al contrario è solo il frutto della crisi della famiglia come soggetto che pur essendo positivo viene continuamente messo sotto attacco. Tra l’altro andrebbe evidenziato come tanti studi registrano che l’aspi-

che si ritiene sia ormai un’istituzione del passato. La grande sfida è dimostrare invece che questo modello è un’istituzione del futuro, che diventa sempre più fondamentale per l’avvenire della nostra società». La ricerca sfata anche le tesi di chi dice

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che ogni modello sia “equivalente” e dimostra che «la famiglia normo-costituita è più soddisfacente rispetto alle altre», offre più “capitale sociale” e «dà più aiuti anche a persone esterne alla famiglia». Secondo la ricerca, «sposarsi aumenta il valore aggiunto per la società, non è equivalente rispetto a non sposarsi», mentre man mano che si va dalla famiglia normo-costituita a quella con figlio unico o senza figli, a quelle non sposate e alle altre “nuove”forme di convivenza, peggiorano le condizioni di vita delle persone. Per Donati, dallo studio emerge anche che «il numero dei figli è decisivo, perché è un fattore di ricchezza di relazioni. E il secondo fattore decisivo, dimostrato da dati empirici, è il matrimonio: le famiglie più valide e forti sono quelle che hanno più figli e si fondano sul matrimonio». Pierpaolo Donati, ordinario di Sociologia della famiglia all’Università di Bologna ha apertamente contestato «l’idea che in una società priva di famiglia normo-costiuita gli individui siano più felici e soddisfatti e che la maggiore libertà sia preminente sul fare famiglia. Il nostro compito non era semplice: dimostrare sul piano empirico che così non è. Fare famiglia in un modo o in un altro non è equivalente. La famiglia normocostituita è effettivamente più soddisfacente delle altre forme, ha una clima maggiormente ottimistico, crea fiducia verso gli altri e i vicini, è il dono agli altri, la reciprocità. E questa famiglia che ha due figli o più è quella che dà più aiuti alle persone esterne alla famiglia». Nel complesso, l’indagine evidenzia che il distacco dalla coppia uomo-donna stabile e unita da un vincolo pubblico con i propri figli e la sua destrutturazione non migliorano la condizione esistenziale delle persone, semmai la peggiorano. Mettere in forse e depotenziare la famiglia significa far sì che le persone diventino soggetti deboli e passivi rispetto alla società, che deve assisterli, anziché essere attori/agenti che generano e rigenerano il capitale umano e sociale della stessa società.

«Questa ricerca - ha spiegato Donati - è un viaggio alla riscoperta delle ragioni per le quali la famiglia è, e rimane, la fonte e l’origine della società. In sintesi, si dimostra che la famiglia è una risorsa per la società perché genera virtù sociali, e che ciò si realizza quando la famiglia vive secondo l’etica del dono. La relazione familiare genera un clima caratterizzato da fiducia, cooperazione, reciprocità, dentro il quale crescono le virtù personali e sociali. Senza il clima proprio della famiglia, le virtù personali e sociali diventano più difficili, e a volte impossibili, da apprendere e mettere in pratica». Il problema quindi, ha detto apertamente il sociologo durante la presentazione del rapporto, non è che la famiglia rappresenta una superata e zavorrante eredità del passato, un modello arretrato e in via di estinzione. Il problema è il contrario. Nonostante il fatto scientificamente dimostrato che la famiglia rappresenti il modello migliore, quello che rende più felici gli individui e al contempo arricchisce di più la società, oggi lo Stato, il mercato e gli opinion makers stanno distruggendo la famiglia, penalizzandola, aggredendola, cercando di sostituirla con altri modelli molto meno positivi, mentre «il fisco è nemico della famiglia».


mondo

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Ieri a Baghdad il secondo round di colloqui tra il governo iraniano e il gruppo di contatto

«Allah contro l’atomica» Ahmadinejad cambia rotta nelle dichiarazioni sul nucleare: «L’islam proibisce la realizzazione di armi di questo tipo» di Pierre Chiartano alam è la parola che in arabo significa pace e la trovi ripetuta decine di volte nel Corano. Nulla di sorprendente, se nell’ultima uscita del presidente iraniano si fa riferimento alla tradizione musulmana per tranquillizzare le ansiose cancellerie occidentali sul dossier nucleare. Anche se la frase del presidente iraniano sembra più un ammiccamento alle posizioni di Khomeini, a suo tempo contrario all’atomica sciita. «L’Islam proibisce la realizzazione di armi atomiche» e di distruzione di massa, sulla base degli «insegnamenti islamici la produzione e l’uso di armi di questo genere è haram (proibito) e non trova spazio nella dottrina della Repubblica islamica in difesa dell’Iran». Così ha dichiarato, Mahmoud Ahmadinejad, nel corso di una conferenza stampa convocata ieri nella città di Borujerd per commemorare le vittime iraniane

S

bero. Ma è un problema di cultura. Parliamo di quella quella nata dalla dinastia safavide che rese lo sciismo religione di Stato – e il paese più forte – e gli ulema una casta potente nella gestione del consenso popolare. Non è neanche una storia di ieri l’ingerenza occidentale in quel paese. Fin dal XVII secolo gli europei vendevano armi e strateghi agli imperatori persiani. C’erano gli inglesi, i francesi, gli svedesi e i russi, che più che altro si facevano la “guerra” tra loro.

E l’impero Ottomano che con la battaglia di Cialdiran (1514) mise fine al periodo d’oro dei safavidi, e che oggi con la Turchia di Erdogan sta giocando un ruolo simile di competitor/partner. I turchi sono un modello positivo e vincente per le masse arabe e musulmane, più di quanto non lo fosse Ahmadinejad che urlava contro Israele le sue insulse mi-

Ora sono in molti a dare credito ai negoziati con Teheran sul dossier, ma sedersi insieme al tavolo è un conto; raggiungere un risultato è un altro, vista anche la posizione degli israeliani di armi chimiche durante la «guerra imposta» contro l’Iraq del 1980. Le parole del capo del governo iraniano giungono nel giorno in cui a Baghdad si apre il secondo round di colloqui sul nucleare tra Teheran e il gruppo di contatto «5+1» (Usa, Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna e Germania), dopo il vertice che si è svolto a Istanbul lo scorso 14 aprile. Sembrano dunque frasi pilotate non a caso, visto anche che ormai sono in molti ad essersi convinti che l’Iran sia un attore razionale nel contesto internazionale. Ha degli obiettivi strategici e regionali che persegue con costanza, anche se non con quella logica cartesiana che europei e americani si aspettereb-

nacce. Anche se nella vicenda siriana Ankara sta inanellando una serie di errori. E come in passato gli ulema gridavano al tradimento dei re fantoccio in mano agli europei, così hanno fatto anche nel secondo dopoguerra, dominando la scena politica fino ad oggi. Il modello non sembra essere tanto cambiato. Ed è utile per meglio comprendere la posizione dell’Iran di oggi. Innanzitutto serve sfatare la leggenda di un paese “irrazionale”che non abbia strategie precise e un modello politico per poterle gestire. Abbiamo chiesto a Nicola Pedde, direttore dell’Institute for global studies di Roma, reduce da un recente viaggio a Teheran, cosa pensa dell’uscita

La diplomazia sembra essere arrivata all’ultima spiaggia per mantenere la pace

Ma Israele spariglia: «Niente concessioni»

Il governo di Tel Aviv non ha dubbi: le aperture sono solo una facciata per ottenere l’atomica di Vincenzo Faccioli Pintozzi entre il mondo guarda con attenzione e forse troppo ottimismo all’apertura dei colloqui fra il governo iraniano e l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, Israele – il principale attore di questo palcoscenico – si dice “molto scettico” riguardo al prossimo accordo tra Iran e Aiea. Lo ha detto all’Afp un alto responsabile israeliano. Secondo il funzionario, ovviamente anonimo, «siamo molto scettici... abbiamo visto come precedenti accordi tra Aiea e Iran siano stati violati in modo eclatante dagli iraniani». Eppure ieri il direttore dell’Aiea, il nipponico Yukiya Amano, di ritorno da Teheran ha dichiarato che la sua Agenzia e il governo islamico hanno trovato un accordo relativamente all’approccio strutturale per risolvere le questioni ancora in sospeso relative al programma nucleare iraniano: «Con Jalili [il capo della delegazione iraniana incaricata del dossier ndr] abbiamo deciso un accordo relativo a un approccio strutturale, destinato a risolvere le incertezze sulla natura del programma nucleare iraniano», ha detto Amano all’aeroporto di Vienna.

M

Amano ha quindi aggiunto che Jalili «ha precisato che le differenze ancora sussistenti (tra Iran e Aiea) non dovrebbero essere un

ostacolo per l’accordo». Amano non ha comunque specificato quali siano queste differenze: «La cosa importante - ha precisato Amano - è che io abbia potuto parlare direttamente con i dirigenti iraniani. Ora capiamo meglio le nostre posizioni reciproche».

Ma lo scetticismo israeliano non è affidato solamente alle parole di diplomatici anonimi. Due giorni fa il presidente israeliano Benyamin Netanyahu si è esposto ed ha sollecitato i diplomatici che lavorano al tavolo del 5+1 a prendere “provvedimenti seri” e a “non fare alcun tipo di passo in direzione di Teheran”. «Nelle ultime settimane ho sentito che c’è chi dubita sulle vere intenzioni del’Iran, che quando i suoi dirigenti dicono di voler cancellare Israele dalle carte geografiche, in lingua farsi intendono qualcos’altro. Adesso vorrei sapere cosa diranno costoro – ha aggiunto – delle dichiarazioni rilasciate domenica dal capo di stato maggiore dell’Iran secondo cui il suo Paese punta alla distruzione di Israele», ha detto Netanyahu, facendo esplicito riferimento ad alcune dichiarazioni rilasciate da Hassan Firouzabadi, un esponente dell’esercito iraniano. Il premier israeliano ha poi concluso dicendo: «L’Iran minaccia non solo Israele ma la pace in


mondo

Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad in visita alla centrale nucleare di Busher. In alto pasdaran, le truppe scelte al servizio della Guida suprema. In basso il primo ministro di Israele, Netanyahu

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del presidente iraniano e quale sarebbe l’approccio politico migliore col regime sciita per la stabilità della regione.

«Il riferimento di Ahmadinejad lo vedo legato alle dichiarazioni fatte da Khomeini in passato. L’ayatollah era stato sempre contrario al progetto nucleare». Per Pedde dunque sarebbe un tributo al partito vincente nel lungo scontro di potere che lo ha visto protagonista per almeno un biennio. Alì Khamenei, la Guida suprema, infatti sembra oggi uscire vincitore – per il momento – nel confronto col presidente. Uno scontro combattuto sul filo del potere, della politica e della cultura. Da una parte la seconda generazione della rivoluzione khomeista rappresentata – semplificando – da Ahmadinejad, dal consuocero

asimmetrica e per procura. Che poi questi principi siano stati utili ed efficaci è un altro paio di maniche. Hanno dunque sviluppato forze aree e navali che le permettono di sopravvivere in caso d’embargo. Poi c’è la frontiera missilistica». Ricordiamo che proprio su questo fronte lo scorso settembre era stata annunciata la messa in produzione di un missile cruise in versione navale. Una produzione su larga scala di un missile da crociera progettato per obiettivi in mare e in grado di distruggere le navi da guerra. Il ministro della Difesa, il generale Ahmad Vahidi sosteneva che un numero imprecisato di campioni di «Ghader» fossero già stati consegnati alla marina militare della Guardia rivoluzionaria che ha l’incarico di proteggere i confini marittimi dell’Iran. «Nel dibattito strategico interno, l’Iran ci si è sempre domandati se l’arma atomica fosse un deterrente efficace contro Isreale. Ma non c’è consenso su questo argomento. Si vorrebbe certamente arrivare al know how, ma non c’è accordo sull’utilità. La Guida è scettica sull’atomica, così come tutta la prima generazione al potere. La seconda generazione (che fa capo ad Ahmadinejad) ritiene invece che possa essere utile». Ecco come anche su questa materia lo scontro interno ha prodotto i suoi effetti. «Il nucleare però è solo uno degli aspetti nelle relazione con l’Iran. Teheran ha consolidato una posizione regionale vuole che ciò venga riconosciuto. Il primo errore è negare questo ruolo regionale di Teheran». La questione dei riconoscimenti è però piuttosto

Il direttore dell’Igs: «I mullah hanno consolidato una posizione regionale e vogliono che venga riconosciuto. Sarebbe un errore negarlo. Il nucleare è solo uno degli aspetti nelle relazioni» tutto il mondo. Di fronte a quelle intenzioni i Paesi guida devono mostrare determinazione, non debolezza. Non devono fare concessioni, ma avanzare richieste inequivocabili».

Da tempo Israele richiede alla comunità internazionale e soprattutto agli Stati Uniti, Paese con cui è molto in sintonia per regioni prevalentemente storiche, di ricorrere alle maniere forti contro l’Iran perché sente la

e teme che, dietro le dichiarazioni di buona volontà, tenti di ingannare il mondo. Noi non crediamo alle intenzione iraniane». D’altra parte, anche dall’altro lato della giostra la situazione non è rosea. Accusato di essere una spia al servizio di Israele, Majid Jamali Fashi è stato giustiziato tre giorni fa per impiccagione in Iran. Era stato condannato nell’agosto scorso per l’assassinio di uno scienziato nucleare iraniano, avvenuto nel gennaio del 2010. L’ingegnere avrebbe perso la vita nell’esplosione di una bomba piazzata sotto una moto di fronte a casa sua. Le autorità iraniane affermano che l’uomo avrebbe confessato di essere autore dell’attacco e sono certe che lavorasse per il Mossad. Negli ultimi anni diversi scienziati iraniani, tutti operanti in ambito nucleare, sono stati uccisi. E ogni volta Teheran ha puntato il dito contro Israele e gli Stati Uniti. Washington ha sempre smentito, Israele non ha mai commentato.

Il ministro israeliano della Difesa, Ehud Barak, non ha dubbi: «Minacciano non solo noi, ma la pace del mondo intero. Non crediamo alle loro parole alla loro disponibilità» propria incolumità messa in discussione a causa del riarmo. In particolare Israele e il suo attuale leader Netanyahu, aspettano che gli altri Paesi si pronuncino per dare il via ad un’azione militare, la quale però, dato il contesto di crisi economica e di sfiducia generalizzata nei confronti dei conflitti armati. Ancora più chiaro, se possibile, il ministro israeliano della Difesa Ehud Barak: «Israele continua a diffidare delle vere intenzioni dell’Iran

Ora la palla torna in mano agli organismi internazionali, che devono provare di essere in grado di fare ciò per cui sono nati: prevenire e evitare le crisi e i conflitti globali.

Rahim Mashai e dai colonnelli delle Guardie della rivoluzione. Stanchi della retorica islamica, hanno tentato di puntare le loro carte su una ripresa della tradizione iranica nel paese. Dall’altra parte la Guida suprema con l’apparato della casta degli ulema e del potere costruito negli ultimi 30 anni. Ogni evento o dichiarazione negli ultimi tempi andava letta anche attraverso questa lente dello scontro interno di potere. «Ma per meglio comprendere l’atteggiamento di Teheran serve conoscere – continua Pedde – a quale modello strategico fa riferimento. L’Iran ha una strategia di carattere difensivo. La paura di un attacco è quello che tiene unito il paese. È nata dall’esperienza della guerra con l’Iraq. Il paese vive nella consapevolezza che quell’evento possa ripetersi. Hanno sviluppato una concezione della sicurezza basata sul principio di deterrenza, di guerra

delicata, perché si scontra con gli interessi d’Israele, anche se lo stesso Mossad non vede un pericolo nucleare imminente e solo alcuni settori dell’Aman – l’intelligence militare – sostengono le tesi del governo Netanyahu su un attacco preventivo. Ora sono in molti a dare credito ai negoziati, ma sedersi al tavolo è un conto, raggiungere un risultato è un altro.

«Come risolvere il negoziato? Allargando la forbice negoziale integrando l’Iran nel circuito internazionale. Un primo passo sarebbe rendersi disponibili a revocare le sanzioni», conclude Pedde. Intanto da Vienna arrivano buone notizie, in base alle dichiarazioni rilasciate martedì a Vienna dal direttore generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea),Yukiya Amano, secondo cui sarebbe vicina la firma di un accordo con l’Iran sull’ispezione dei suoi siti nucleari.


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Afghanistan, Libano e Kosovo sono i teatri più impegnativi: «Siamo all’avanguardia, ma abbiamo bisogno di soldi»

In difesa della Difesa I tagli al budget militare mettono a rischio la presenza e il rispetto dell’Italia nel mondo di Antonio Picasso so a obbedir tacendo. Lo dicono i Carabinieri, ma è nell’indole di tutte le Forze armate. Se il Paese richiede sacrifici, leggasi risparmi, i nostri soldati si adeguano. C’è da chiedersi però come i tagli alla Difesa proposti dal ministro Di Paola vadano a incidere sulle nostre missioni all’estero e quindi sul relativo tornaconto di cui la politica estera nazionale sarebbe beneficiaria. «Ci riducono i fondi e poi? Una volta che avremo dimostrato di farcela con risorse ridotte, non è che ci chiederanno di risparmiare ulteriormente?» Il maggiore dei caschi blu italiani Unifil nel Libano del Sud lo ammette: «Sono un po’ sindacalista, lo so. Ma quando mi sento dire che il nuovo budget della Difesa andrà in favore di mezzi e tecnologia, la mia prima domanda è: chi li guiderà questi mezzi?» La riforma prevede una riduzione del 30% delle risorse attuali. Alla base di Shama, un po’ tutti gli ufficiali la pensano alla stesa maniera. Ok ai tagli, ma poi? La paura è che si inneschi un ciclo perverso, da una riduzione all’altra, perché «se hai tagliato sugli uomini puoi farlo anche sui mezzi». Il discorso ha una sua logica: se prima i soldati erano cento e i mezzi cinquanta, adesso che i primi sono cinquanta, di mezzi te ne servono solo venticinque.

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C’è da chiedersi però come la nuova politica di palazzo Barracchini vada a incidere sulle nostre missioni all’estero e quindi sul tornaconto di cui la politica internazionale nazionale sarebbe beneficiaria. «Al momento noi abbiamo tre grandi teatri aperti: Afghanistan, Kosovo e Libano. Di Paola ha promesso una riduzione dell’organico in favore di queste missioni. Il tutto per una maggiore sicurezza dei soldati». I tagli dovrebbero facilitare la disponibilità di nuovi fondi da investire sia nei mezzi sia in intelligence. «Staremo a vedere», dice il coro unanime degli ufficiali. «L’importante è che a Roma ci si renda conto che, se vogliamo che a Beirut continuino ad accoglierci come ospiti di riguardo, una mano al portafo-

glio la dobbiamo comunque mettere». Insomma, per fare bella figura in Libano, i graduati sono dell’idea che si debba investire. Perché è il peacekeeping la nostra forza. «Il nostro successo qui è dovuto agli uomini. Non alla tecnologia». Altro che Lince o Freccia, quindi. Quest’ultimo fa parte del progetto Forza Nec (Network enabeld capabilities). Mezzi importanti sì, ma «chi li guida?».

«Voglio proprio vedere come ce la caviamo», aggiunge un tenente colonnello, la cui responsabilità nel teatro libanese è coordinare le manovre meccanizzate di tutto il contingente.Vale a dire tutta la macchina organizzativa per i mille e passa uomini. «Nei miei oltre

dei rischi del teatro in cui un soldato si trova, le nostre basi sono davvero all’avanguardia». E con un gesto indica il le strutture della mensa e della sala operativa illuminate dal tramonto libanese. Sul versante opposto, i Centauro schierati. All’inizio dell’anno, il generale Palo Serra è stato nominato capo della missione Unifil in Libano. È la seconda volta che un italiano va a ricoprire questo ruolo. Prima di lui è stato Claudio Graziano, tra il 2007 e il 2009. Mai dall’arrivo dei caschi blu in Libano, nel 1978, un Paese si era accollato per due volte questa responsabilità. A questo punto, delle due l’una: o l’Onu preferisce demandare a un soggetto secondario (cioè l’Italia) la questione libanese,

Lo scorso anno, il Cimic in Libano ha avuto a disposizione 1,2 milioni di euro. Nel 2006, quando la missione era all’inizio e l’Italia doveva mostrarsi efficiente e ben disposta, erano 1,6 milioni vent’anni in uniforme, devo dire che ho conosciuto e lavorato per due eserciti completamente diversi». Il riferimento è alle Forze armate pre e post leva. «Non ha idea di come fossimo combinati in Somalia. Mancavano logistica e munizioni. Ci facevamo la doccia con un secchio pieno d’acqua montato alla bell’e meglio sulla testa». «Oggi è tutto diverso. Al di là

oppure al Palazzo di vetro c’è chi stima quello che gli italiani fanno ogni giorno laggiù. Ovvio che propendiamo per la seconda opzione. Non fosse altro perché l’Italia non è un attore gregario. A fine aprile, si è avuto il passaggio di consegne tra la brigata Pinerolo e la Ariete. «Il comandante, il generale Carlo Lamanna, ha ingranato una marcia in più

per questa base», dice ancora il maggiore. «Non che lui abbia fatto meglio di quello che c’era prima. È che ognuno ha la sua scala di priorità». Il ragionamento è riferito alle qualità umane che «ogni comandante riesce a mettere a disposizione in teatro operativo».

Di recente si sono avute l’inaugurazione di una pompa idraulica nel villaggio di alHinnyah e l’illuminazione stradale, mediante pannelli solari, a Shama. Progetti realizzati grazie alla cellula Cimic, anello di congiunzione tra il nostro contingente e le autorità locali.

Cimic: Civil Military cooperation. L’organismo sfrutta risorse economiche sia della Difesa sia di Unifil. Nel 2012, palazzo Baracchini ha stanziato 800mila euro per la cooperazione nel Paese dei cedri. Finora ne sono stati spesi 300mila. L’ammontare complessivo sta comunque scendendo. Lo scorso anno, il Cimic in Libano ha avuto a disposizione 1,2 milioni di euro. Nel 2006, quando la missione era all’inizio e l’Italia, anzi Unifil intera dovevano mostrarsi efficienti e ben disposte, gli stanziamenti erano di 1,6 milioni di euro. Nel frattempo, l’Onu mantiene constanti i suoi


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avvengano gli affari più torbidi. È un modo per incentivare l’avvio di attività economiche locali e permettere alle nuove generazioni di sperare che il proprio futuro non sia fatto solo di conflitti, bensì di studio e lavoro. I peacekeeper italiani si ingegnano per un intervento virtuoso sul terreno.

Le truppe vedono nel ministro Di Paola uno di loro, ma soprattutto «uno che ne capisce». E questo li fa stare tranquilli. Fino al 2013 però. Poi non è escluso che le scelte di oggi cambino Soldati italiani in perlustrazione e in parata in Libano, una delle missioni più impegnative in cui sono coinvolti i nostri militari nel mondo

500mila euro annuali per i progetti Cimic, che devono poi essere distribuiti tra i singoli contingenti. Pozzi, lampioni, fognature. Alle cerimonie dei tagli di nastri, soldati e popolazione locale si mischiano. Nelle foto, di fronte agli opulenti buffet offerti dai sindaci, nello scambio di complimenti e adulazioni. «Italiani e libanesi sono simili: stesso mare, stesso clima e un passato comune». L’ufficiale osserva i ruderi romani della città di Tiro e intanto pensa alla lotta per l’unità nazionale, italiana quanto libanese. «Mi chiedo cosa potrebbe accadere se ci tagliassero le risorse». «Illuminare una strada significa concedere maggiore sicurezza, ma rappresenta anche la possibilità di avviare una vita urbana notturna», commenta Serra. Si tratta di uno stimolo affinché il Libano del sud non resti un mondo al buio, nel quale si suppone

Tra i soldati non fa del tutto presa la rassicurazione della Difesa per cui le missioni all’estero sono blindate. Serra sulla questione non si è espresso. D’altra parte è la sua stessa posizione a dirci tante cose. Noi non avremmo il comando di Unifil se non ci fossimo comportati tanto bene. E ancora, Serra non sarebbe lì se il nostro contingente non fosse il più numeroso di tutto il teatro. Ridurlo, come peraltro già è stato fatto, pregiudicherebbe la nostra leadership di fronte a 37 nazioni che sottoscrivono Unifil. E se non ci interessasse il Libano? Perché è caro e inutile andarci. Quella di rinunciare a una testa di ponte in Medioriente sarebbe una scelta incauta. Il Paese dei cedri è un teatro in cui Francia e Stati Uniti, per esempio, non hanno il coraggio di mettere più il naso. Secondo c’è il discorso economico. Quel giacimento di gas off shore, di cui si parla sottovoce da anni e che sarebbe proprio di fronte a Tiro, potrebbe essere appetibile anche per noi. Ma è necessario restare nelle grazie del governo di Beirut. E con esso costruire strade e ponti. Il discorso è simile per quel che riguarda l’Afghanistan. Ma più articolato. Soprattutto perché la missione chiama in causa la Nato. Nel teatro asiatico, i Freccia e l’alta tecnologia di “Forza Nec” sono indispensabili. Anche se politicamente Isaf è con un piede fuori dalla porta. L’82esimo reggimento Torino è dispiegato a Shindand proprio con i suoi avveniristici mezzi. «Dei Freccia si sono dimostrati interessati anche gli americani», spiegano con orgoglio alla base. Non bisogna essere un addetto ai lavori per capire che se il Pentagono dice che se una cosa potrebbe essere buona anche i suoi Gi, allora quella cosa è buona veramente. Idem a Farah. Ai compound militari italiani e statunitensi si confrontano sulle differenze dei visori notturni e della strumentazione di ricognizione area in dotazione alle rispettive forze. Ed è inatteso come gli americani apprezzino le nostre capacità. È la confutazione di un luogo comune per cui le Forze armate italiane se non proprio di serie B sarebbero comunque della parta bassa della classifica di A e, di conseguenza, pagherebbero lo snobismo indifferente degli Usa. Non è assolutamente così. Le Stellette rientrano anch’esse nel made in Italy. Eppure anche da queste parti, il leitmotiv è di perplessità. «Che

fine faremo?» si chiedono. Non tanto per l’exit strategy e i relativi ridimensionamenti della missione afgana. Bensì per come la Difesa saprà trovare la quadra fra revisione identitaria in corso per l’Allenanza atlantica – vedi il summit di Lisbona e gli interessi dei singoli partner – e le prossime disponibilità economiche formulate dalle prossime Leggi finanziarie. In questi giorni, a Chicago, il governo italiano ha dato l’ok a fornire 120 milioni di euro all’anno nel triennio 2015-2017 negli sforzi per la sicurezza in Afghanistan, una volta completato il passaggio di consegne al governo di Kabul.

Dunque, a questo punto è necessario mettere in chiaro due elementi, tutti squisitamente di servizio. Primo: la scelta dell’esecutivo non nasce con Chicago, bensì è la conferma di una decisione presa collegialmente al summit di Lisbona nel 2010, che ha dato il via al Nato traning mission, vale a dire alla faraonica operazione di addestramento dell’Afghan National army e relative forze di polizia. Secondo: Chicago conferma quanto detto a Lisbona anche in termini di struttura dell’Alleanza e non solo in chiave Afghanistan.Vale a dire gli Stati membri si accollano una parte delle spese per alleggerire l’impegno di Bruxelles. In pratica avviene una gemmazione di impegni e risorse. E anche questo non è una novità. Visto che l’Italia vanta un polo di eccellenza come il Nato rapid deployable corps (Nrdc) di Solbiate Olona. Domanda conseguente: ce la faremo a far tutto? E più precisamente: la politica riuscirà a rispettare gli impegni che i tecnici di stanno assumendo? Spesso si tratta di timori fondati su luoghi comuni. La truppa vede nel ministro Di Paola uno di loro, ma soprattutto «uno che ne capisce». E questo li fa stare tranquilli. Fino al 2013 però. Poi, con il prevedibile ritorno alla gestione politica non è escluso che quelle scelte ben calibrate oggi subiscano variazioni. È vero che una sorta di continuità tecnica è garantita, specie per quanto riguarda l’Esercito. L’età di Claudio Graziano, 59 anni il prossimo novembre, tra i più giovani capi di stato maggiore dell’Esercito nella storia dell’Italia repubblicana, permette al comandante stesso di definire una vision di lungo periodo. Continuità, quindi. Ma come la mettiamo per Aeronautica e Marina? I Carabinieri fanno un discorso a loro stanti. Alla fine – e qui sta la banalità con fondamento – quando uno Stato è in crisi economica, le prime a farne le spese sono le Forze armate. Tuttavia, tra le vittime collaterali non vorremmo che ci fossero l’immagine e il peso politico dell’Italia sullo scacchiere internazionale.


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Mentre il cinema americano riscopre la Beat Generation, a Cannes è stato presentato “On the road”, tratto dal celebre romanzo

Riflessi (sbiaditi) di Kerouac Il film di Walter Salles non rende giustizia al libro: dove c’era il viaggio c’è ripetitiva staticità. E le critiche negative si sprecano... di Andrea D’Addio annes si tinge di Beat Generation e lo fa presentando in concorso il nuovo lavoro di Walter Salles, il primo lungometraggio mai realizzato finora (c’era stata però una serie tv nel 1962) tratto da On the road. Sono passati sessantuno anni da quando Jack Kerouac scrisse le ultime parole di quello che sarebbe diventato il suo romanzo più celebrato (cinquantacinque se si pensa a quando fu pubblicato per la prima volta), simbolo di una generazione in cerca della propria identità e per questo soprannominata dallo stesso Kerouac beat, ovvero battuta, sconfitta (siamo a fine anni Quaranta, in pieno dopoguerra), anche se nel tempo quel beat ha finito per rappresentare la sintesi anche di parole come beatitudine (nelle droghe e nel misticismo) e di battito, ritmo (vedasi la musica jazz del tempo). Sulla strada si chiudeva con un poetico paragrafo dedicato allo scrittore Neal Cassidy (nel libro chiamato Dean Moriarty), compagno di molte delle avventure che Sal (lo pseudonimo di Kerouac) racconta nel libro, che da solo racchiudeva quel senso di smarrimento che accompagnava molti giovani dell’epoca all’inizio di una nuova era senza punti di riferimento: «E così in America quando il sole tramonta e me ne sto seduto sul vecchio molo diroccato del fiume a guardare i lunghi lunghi cieli sopra il New Jersey e sento tutta quella terra nuda che si srotola in un’unica incredibile enorme massa fino alla costa occidentale, e a tutta quella strada che corre, e a tutta quella gente che sogna nella sua immensità, e so che a quell’ora nello Iowa i bambini stanno piangendo nella terra in cui si lasciano piangere i bambini, e che stanotte spunteranno le stelle, e non sapete che Dio è Winnie Pooh?, e che la stella della sera sta tramontando e spargendo le sue fioche scintille sulla prateria proprio prima dell’arrivo della notte che benedice la terra, oscura tutti i fiumi, avvolge le vette e abbraccia

C

le ultime spiagge, e che nessuno, nessuno sa cosa toccherà a nessun altro se non il desolato stillicidio della vecchiaia che avanza, allora penso a Dean Moriarty, penso perfino al vecchio Dean Moriarty padre che non abbiamo mai trovato, penso a Dean Moriarty». Da allora il mito di On the road non si è mai esaurito, viene letto da giovani e meno giovani in tutto il mondo, suggerito da insegnanti di licei e sempre citato in vari modi in film, libri e cultura popolare e si è piazzato al 66esimo posto della classifica sui cento libri da leggere assolutamente nella vita stilata dalla Bbc nel 2010. Difficile non conoscerene la storia e i personaggi, nomi inventati per avventure vissute in prima persona da Kerouac e dalla sua banda di amici, tutti nel tempo diventati famosi, dal già citato Neal Cassidy a Allen Ginsberg (nel libro Carlo Marx), passando per WIlliam S. Burroughs, Herbert Huncke (Elmer Hassel) e tanti altri. Trasportare questo turbinoso mondo di volti, parole, episodi e sensazioni riuscendo a coglierne lo spirito e gli elementi più importanti era davvero un’opera difficilissima da realizzare, nonostante le due ore e venti di pellicola a disposizione. Per farlo il regista brasiliano Walter Salles si è affidato a una sceneggiatura scritta dal portoricano José Riviera, con cui già aveva collaborato per I diari della bicicletta, il film su Ernesto Guevara prima che diventasse il “Che”, e ha chiamato a sé una serie di attori più o meno noti, cercando il giusto mix di freschezza e popolarità (imprescindibile per il box office). Ecco allora che accanto agli emergenti Sam Riley (Sal),Tom Sturridge (Carlo) e Garrett Hedlund (Dean), recitano star del jet set internazionali come Kirsten Dunst (premiata lo scorso anno a Cannes per la migliore interpretazione femminile in Melancholia), Viggo Mortensen e quella Kristen Stewart, già stella di Twilight, che per partecipare al progetto ha deciso di decurtarsi il cachet

Jack Kerouac. Nelle altre foto, la locandina e alcune scene del film “On the road” che uscirà in Italia il 5 ottobre prossimo

a soli 200 mila dollari dopo che la produzione aveva visto diminuire il budget a disposizione in corso d’opera.

Il personaggio di Sal, in cui si identificava lo scrittore americano, ha perso nella pellicola la sua fantasiosa autonomia: troppo legato all’amico Dean

«Tutti quelli che hanno letto Sulla strada ne sono rimasti in qualche modo affascinati dal senso di libertà che esprime, dal sesso, dalle droghe e dal movimento che provocò all’epoca. Per ciò che cerco io nelle storie da raccontare, era un perfetto materiale di partenza. Amo realizzare road movie, mi piace avere un viaggio, inizio e fine, e nel mezzo imprevisti e sorprese, ovvero ciò che fa crescere i personaggi. Questo è anche uno straordinario romanzo di formazione, lo lessi la prima volta quando avevo a 18 anni, poi a 25 e poi a 35 anni. Ogni volta mi ha dato qualcosa di diverso», ha dichiarato Walter Salles in conferenza stampa sulla Croisette, mentre Viggo Mortensen, esprimendosi in un ottimo francese (parla altre quattro lingue, compreso un

po’ di italiano), ha spiegato come la storia in qualche modo lo rappresenti e lo abbia spinto anche a intraprendere un viaggio appena divenne maggiorenne: «Lessi Sulla strada quando avevo diciassette anni e vivevo negli Stati Uniti del nord, al confine con il Canada. Mi ispirò moltissimo, dopo cominciai a leggere anche Ginsberg, Burroghs e scrittori francesi come Albert Camus e Louis-Ferdinand Céline. Poi, una volta diventato maggiorenne decisi di andare alla scoperta del sud degli Stati Uniti e lo feci tra treni, auto a noleggio e autostop. Di quell’avventura ritrovo in questo film la stessa energia». Kristen Stewart interpreta invece Marylou, ovvero LuAnne Henderson, la prima donna di Neal Cassidy, un personaggio che nel libro non è grande quanto invece appare nel film: «Per capirlo abbiamo fatto tante ricerche, parlato con chi la conobbe e cercato di ricostruire la sua personalità anche dai libri di altri esponenti della Beat Generation che la citarono». Durante la conferenza stampa nessuno ha chiesto a Kirsten Stewart che opinione avesse di quanto scoperto e scritto dal settimanale tedesco Der Spiegel a proposito della richiesta di 1200 euro fatta dal distributore canadese del film ai giornalisti (sempre canadesi) interessati a un’intervista con la star dei vampiri. Per lei c’era solo una cosa che contava: «Fare questo film ed essere qui: trovo tutto molto cool». Il film di Salles purtroppo non rende però merito al libro. Lì c’era il viaggio, qui c’è molta staticità. Il senso di solitudine ricercata dal protagonista per vivere davvero il proprio Paese senza filtri e pregiudizi, quel lasciarsi prendere dalla corrente in maniera libera, senza ancore da portarsi dietro e così sollecitare una vena creativa altrimenti assente, viene quasi annullato completamente da una sceneggiatura che non riesce mai a staccare davvero il personaggio di Sal da quello di Dean, quasi che invece di Sulla


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e di cronach

Ufficio centrale Nicola Fano (direttore responsabile) Gloria Piccioni, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Direttore da Washington Michael Novak

strada ci si trovi davanti a un sequel di I diari della motocicletta, con tanto di ripetizione di scene di ballo dai ritmi tribali, malattie improvvise ed espedienti da ragazzini ribelli buttati qua e là. In Sulla strada Kerouac metteva spesso se stesso al centro della scena. Scriveva: «A quel tempo danzavano per le strade come pazzi e io li seguivo a fatica come ho fatto tutta la vita con le persone che mi interessano, perché le uniche persone che esistono per me sono i pazzi, i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d’artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle e nel mezzo si vede scoppiare la luce azzurra e tutti fanno oooooh!». Nel film invece il personaggio di Sal è un semplice e sbiadito riflesso di Dean, un uomo di cui non si capiscono bene né le ambizioni né il talento di sapere osservare e riscrivere ciò che gli succede intorno.

Allo stesso tempo Dean non diventa quel moto perpetuo che non riesce a fermarsi di fronte a ogni esperienza possibile, ma uno sciupafemmine che vive solo in funzione del sesso. Non c’è traccia di un Dean che pensa e recita: «Adesso considera un po’ questi qua davanti. Hanno preoccupazioni, contano i chilometri, pensano a dove devono dormire stanotte, quanti soldi per la benzina, il tempo, come ci arriveranno... e in tutti i casi ci arriveranno lo stesso, capisci. Però hanno bisogno di preoccuparsi e d’ingannare il

«Beat come ribellione. Beat come battito. Beat come ritmo» stabilì Ferlinghetti. E al rapporto tra il poeta e il narratore sarà dedicato un altro lungometraggio tempo con necessità fasulle o d’altro genere, le loro anime puramente ansiose e piagnucolose non saranno in pace finché non riusciranno ad agganciarsi a qualche preoccupazione affermata e provata e una volta che l’avranno trovata assumeranno un’espressione facciale che le si adatti e l’accompagni, il che, come vedi, è solo infelicità, e per tutto il tempo questa aleggia intorno a loro ed essi lo sanno e anche questo li preoccupa senza fine». A mancare, soprattutto, è quel senso di movimento che faceva parte del libro già dall’incipit:

«“Dobbiamo Andare e non fermarci finché non siamo arrivati”. “E dove andiamo?”. “Non lo so, ma dobbiamo andare”». New York è più presente che tutto il resto e Laura, pseudonimo di Joan Haverty, ovvero colei che sarebbe stata la seconda moglie di Kerouac, è completamente tagliata via e non sarebbe troppo male se non fosse che anche il fondamentale ruolo che Bea Franco ricopre all’interno della scoperta che Kerouac fa gradualmente di se stesso, si risolve in un paio di sequenze più dovute che sentite. Manca il contesto, il mondo intorno alla Beat Generation che fu proprio alla base di quei sentimenti e di un’opera così importante nell’immaginario collettivo di oggi: non ricostruirlo è un errore di partenza che pesa come un macigno su tutto il resto. Il film uscirà in Italia il 5 ottobre 2012, cinque mesi dopo l’uscita francese, abbastanza per far dimenticare le critiche negative che sta raccogliendo in questi giorni di festival.

A prescindere comunque dai meriti e demeriti del film, On the road va ad aggiungersi a un rinnovato interesse che il cinema americano sta riservando alla Beat Generation. Due anni fa al Festival di Berlino fu presentato Howl-Urlo, un biopic molto particolare (tante le sequenze animate) dedicato ad Allen Ginsberg e al processo per oscenità che dovette affrontare nel 1957, dopo la pubblicazione della poesia Urlo. A interpretare Ginsberg fu il suo grande fan James Franco (il Lex Luthor della serie Spiderman) e il film fu distribuito in Italia nell’agosto del 2010. In preparazione a Hollywood c’è però già un altro film tratto da un romanzo di Jack Kerouac, ovvero Big Sur, storia dei tre soggiorni che lo scrittore trascorse presso la casa del poeta beat Lawrence Ferlinghetti tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta (a Ferlinghetti si deve la definizione di «Beat come ribellione. Beat come battito. Beat come ritmo»). Nel cast ci saranno i bei volti di Josh Lucas e Kate Bosworth (entrambi idoli di tanti teeanger), mentre un trittico di attori da serie A, ovvero l’ex Harry Potter Daniel Radcliffe, il sex symbol Ryan Gosling e il lanciatissimo Jack Houston interpreteranno rispettivamente Ginsberg, Burroughs e Kerouac in Kill Your Darlings, rilettura sul grande schermo del misterioso omicidio di David Kammerer nel 1944, per cui fu condannato il suo presunto amante, nonché uno dei fondatori del circolo della Beat Generation, Lucien Carr.

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ULTIMAPAGINA Grande folla in Sicilia con Napolitano e Monti per celebrare i vent’anni dall’omicidio di Giovanni Falcone

Il ritorno del fantasma di Marco Palombi segue dalla prima Giusto che lo dica in Sicilia, giusto che lo dica ricordando la strage di Capaci, l’inizio dell’attacco allo Stato della mafia corleonese rimasta senza referenti politici dopo la fine del bipolarismo Est/Ovest e le condanne definitive del maxiprocesso. Vent’anni fa, forse è utile ricordarlo nella confusione investigativa di oggi, la prima rivendicazione fu della Falange Armata, un finto gruppo terroristico – si scoprì poi – che direttamente dal Viminale si dava da fare a depistare e intorbidire le acque, per le bombole di Brindisi si vedrà. Ieri era solo il giorno del ricordo, “commosso” e “vibrante” comme il faut, di quando un pezzo di Stato venne fatto esplodere nel silenzio e nella connivenza di altri pezzi: allo scopo, a Palermo, ci sono il già citato Giorgio Napolitano e mezzo governo, Mario Monti in testa. Si ritrovano davanti, i vertici delle nostre istituzioni, i ragazzi della scuola di Melissa Bassi, nuove vittime di una vecchia passione nazionale per le bombe: «Se hanno osato troncare la vita di Melissa e di altre 16enni - scandisce il capo dello Stato - la pagheranno e saranno assicurati alla giustizia. E se hanno pensato di sfidare questa commemorazione stanno già avendo la prova di aver miseramente fallito».

Il resto sono un invito («giovani, scendete al più presto in campo, aprendo porte e finestre se vi si vuole tenere fuori, scendete al più presto in campo per rinnovare la politica e la società») e promesse che i decenni hanno insegnato agli italiani e ai siciliani ad accogliere nel mare calmo del pessimismo della ragione: «Bisogna proseguire con la più grande determinazione e tenacia sulla strada segnata con sacrificio da Falcone e Borsellino. Se le stragi in cui caddero massacrati insieme agli agenti della scorta segnarono il culmine dell’attacco frontale allo Stato e se gli attentati della primavera del ’93 si esaurirono, la mafia seppe però darsi altre strategie meno clamorose ma non meno insidiose». Combatterla, «dunque, è più che mai una priorità per tutto il paese», anche al nord, dove le organizzazioni criminali hanno coltivato «vecchi e nuovi traffici invasivi conquistando posizioni di potere sul terreno economico». Napolitano, comunque, ci tiene a dire anche altre cose, connesse col suo ruolo di capo del Csm: «L’autonomia e l’indipendenza che a Falcone erano care si esprimevano nella sua libertà di giudizio e insieme nel rispetto per le istituzioni, in una inequivoca distanza da posizioni di partito e insieme in una serena valutazione delle responsabilità di tutti i soggetti partecipi del funzionamento della giustizia». Una frecciata neanche troppo nascosta ai magistrati “neo-partigiani” per citare l’intervento del palermitano Antonio Ingroia al congresso del Pdci. D’altronde tutte le toghe, cui vanno i ringraziamenti del presidente della Repubblica, devono comunque riconoscere «la gravità degli errori che in sede giudiziaria possono compiersi, come se ne sono compiuti nei procedimenti sulla strage di Via D’Amelio» (quella in cui morì Paolo Borsellino). C’è un punto in cui i discorsi di Napolitano e del premier si toccano: «Nel quadro della crisi generale che l’economia italiana ed europea stanno

STRAGISTA

Il premier ha scandito: «Non bisogna mai stancarsi di cercare la verità sulle morti di Falcone e Borsellino. Nessuna ragione di Stato può giustificare ritardi» attraversando, la compenetrazione tra la criminalità e l’attività economica è divenuta un nodo di estrema rilevanza nel Mezzogiorno, un nodo soffocante per ogni possibilità di sviluppo», ha detto il capo dello Stato.

Questo governo, gli ha fatto eco Monti, deve fare di tutto «per creare occasioni di vero sviluppo nei territori dove la mancanza di lavoro crea un terreno più facile per l’insedia-

mento delle mafie: sì a lavoro onesto, no al lavoro rubato, promesso con il ricatto o per la ricerca di consenso; no a lavoro come privilegio, sì al lavoro come diritto e come dovere». È un altro, però, il nodo cruciale del discorso del presidente del Consiglio e potrebbe riservare sorprese in particolare nelle inchieste e nei processi sulle bombe mafiose del 1993, quelle nel continente: «Non bisogna mai stancarsi di cercare la verità sulle morti di Falcone e Borsellino. Non esistono ragioni di Stato che possano giustificare ritardi nella ricerca della verità», ha scandito Monti, dando forse involontariamente una speranza a quei familiari delle vittime che chiedono da anni di “desecretare” tutte le carte. Si vedrà, per il momento ci possiamo accontentare della dichiarazione secondo cui «gli apparati dello Stato devono essere lontani dal sospetto di legami di prossimità con le organizzazioni mafiose», che è già un bel pezzo di strada rispetto a «Mangano eroe», «Dell’Utri perseguitato» e i vari parlamentari che ritengono normale coltivare rapporti incestuosi con la borghesia (e non solo) mafiosa salvo poi stupirsi se li indagano. È appena il caso di ricordare che a Palermo è tornato in sella Leoluca Orlando, sindaco anti-mafia, ma per un periodo anche anti-Falcone, contro cui nel 1992 presentò un esposto al Csm accusandolo di “tenersi nei cassetti” le prove d’accusa contro i politici collusi con la mafia. La sorella del giudice non se lo ricorda con piacere, lui invita a “contestualizzare”, ne è nata l’ennesima polemichetta. Anche ieri.


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