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he di cronac

Una giusta economia non

dimentica mai che non sempre si può risparmiare

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Theodor Fontane di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 5 GIUGNO 2012

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Confindustria: «Deludente la riforma del lavoro». Altalena in Borsa: Piazza Affari giù ma poi chiude in positivo

Adesso abbassiamo le tasse Scontro sul licenziamento degli statali: ma il vero nodo è il fisco La Fornero: «Parità di trattamento con il privato». Ma Patroni Griffi: «Decida il Parlamento». L’Ue: «Barroso, Juncker e Draghi lavorano a un piano per salvare l’euro». Ma non è segreto Al centro un nuovo patto fiscale

Retroscena vaticani

I quattro punti del programma che può unire i moderati

I corvi sono almeno tre: ecco i loro obiettivi I primi giudizi sul “piano segreto”

di Rocco Buttiglione a diverso tempo Angelino Alfano lancia il tema della unità dei moderati e del Partito Popolare Europeo in Italia come strumenti per un dialogo possibile con l’Udc e per la riaggregazione dell’area moderata in Italia. Il problema esiste. L’area moderata resta maggioritaria in Italia ma oggi è divisa, confusa e senza un progetto politico. Si rifugia quindi nell’astensione o talvolta anche nel voto di protesta. Non nasconderò il fatto che ci sia stata e ci sia da parte dell’Udc una certa diffidenza verso questa proposta. Vediamo di capirne le ragioni. segue a pagina 2

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«Date pieni poteri Ma le multinazionali alla Bce: è l’unica stanno già fuggendo dall’Euro via d’uscita» Luigi Paganetto, Marco Fortis e Luigi Campiglio giudicano il progetto europeo in vista del vertice del 28 giugno

Dalla Procter alla Heineken, dalla Glaxo a Carrefour: tutti cercano di convertire i capitali in dollari o sterline

Franco Insardà • a pagina 4

Luisa Arezzo • a pagina 5

23 anni dopo il massacro, fermate decine di dissidenti. L’ira degli Usa: «Liberateli!»

La Cina stronca anche il ricordo Arresti e censura sul web nell’anniversario di piazza Tiananmen di Maurizio Stefanini

Chen Xitong: «Si poteva evitare»

Autocritica dell’ex sindaco di Pechino

l 23esimo della strage della Tiananmen non è in realtà una di quelle cifre tonde che portano la Storia a muoversi anche solo per la loro semplice rotondità: quasi che gli zeri si trasformassero in ideali ruote che all’improvviso fanno scorrere il ritmo dei mutamenti più veloci. E neanche si può dire in realtà che ci fosse stata una particolare mobilitazione internazionale. Sì, gli Usa hanno sollecitato Pechino a rilasciare “gli incarcerati per la loro partecipazione” alle manifestazioni di Tiananmen. Ma questa è robetta. È il minimo che una potenza come gli Usa deve fare. a pagina 12

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EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

Chen Xitong, ex sindaco di Pechino, 81enne e malato di cancro, travolto da accuse di corruzione, per la prima volta in 23 anni, si allontana dalla versione ufficiale e ammette che il bagno di sangue di piazza Tiananmen, in cui secondo Amnesty furono uccise oltre mille persone, «è una tragedia che poteva e doveva essere evitata». a pagina 13 • ANNO XVII •

NUMERO

106 •

di Luigi Accattoli

La denuncia del Wall Street Journal

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

ove portano le beccate e le imbeccate del corvo? O piuttosto dei corvi? È l’unico aspetto della nera questione che al momento possa essere affrontato da un osservatore esterno. Mettendo insieme le informazioni che vengono dai “documenti”pubblicati e da ogni altra fonte si possono individuare tre obiettivi del corvo sovrano e dei corvidi suoi ausiliari: colpire i più diretti collaboratori del Papa, isolare Benedetto dal “consiglio” di chi non lo frequenta di persona, contrastare la sua opeL’intento è ra di goversvelaningigantire no do e avvele difficoltà lenando le che già tensioni che attraagitavano versano la questo e la Pontificato Curia Chiesa. Vedo nell’intera operazione un tentativo di ingigantire le difficoltà che già travagliavano il Pontificato di Benedetto XVI. Contro le patetiche affermazioni della fonte “Maria” - che il collega Nuzzi ad apertura del volume “Sua Santità” accredita come intenzionato ad aiutare il Papa - sta il fatto oggettivo che la divulgazione di quelle “carte” esaspera i contrasti che dividono gli uomini al vertice della Curia.

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IN REDAZIONE ALLE ORE

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19.30


La spesa può essere tagliata in modo sostanziale solamente se si ridisegna l’architettura complessiva dello Stato

Ora abbassiamo le tasse Lotta agli sprechi, contrasto all’evasione, diminuzione dei sussidi statali e nuova sussidiarietà. Ecco i quattro punti necessari a un vero patto fiscale di Rocco Buttiglione segue dalla prima È ingenuo pensare che l’area moderata sia divisa perché Berlusconi e Casini hanno litigato e basti una cena di riconciliazione per ricomporre i moderati. Serve piuttosto un programma e una strategia politica. Cominciamo con l’enumerare alcuni dei problemi da affrontare: 1. Alle prossime elezioni con che programma pensiamo di andare? Qual è il giudizio che diamo della crisi italiana ed europea e quali sono le vie di uscita dalla crisi che proponiamo al Paese? 2. Il governo Monti è una parentesi dopo la quale si torna al mondo di ieri o una svolta che lascia comunque una eredità permanente sulla quale costruire la politica di domani? Di conseguenza dobbiamo sforzarci di spiegare al Paese le ragioni della politica dei sacrifici (come fanno Casini ed Alfano) oppure dobbiamo differenziarcene in ogni modo possibile (come fa la Santanchè non senza una certa complicità di Berlusconi)? 3. Pensiamo di andare alle prossime

elezioni in una alleanza con la Lega oppure vogliamo stabilire e difendere un confine certo contro il separatismo e la destra sfascista? 4. Qual è il sistema di alleanze con cui contiamo di governare il Paese?

Questa ultima domanda non può trovare una risposta definita nel momento presente perché ancora non sappiamo con quale sistema elettorale andremo al voto. Almeno su di una cosa, però, dobbiamo cominciare ad intenderci: vogliamo costruire una coalizione semplicemente per impedire che governi la sinistra o per realizzare con chi ci sta un progetto di bene per l’Italia? Per il tema fondamentale dei programmi, in primo luogo è necessario fare un minimo di bilancio critico del centrodestra. Esso è partito da una intuizione giusta: la pressione fiscale nel nostro Paese ha raggiunto un livello insopportabile e strangola la sua capacità di crescita e di sviluppo. La questione della riforma fiscale è prioritaria. Bisogna stringere un nuovo patto fiscale fra con-

tribuenti e Stato. Bisogna però dire chiaramente quattro cose. 1. Non c’è riduzione delle tasse senza una lotta durissima contro quelli che le tasse non le pagano. Il sistema attuale è vessatorio con i contribuenti onesti ed indulgente con quelli disonesti. Bisogna dare aliquote basse ai contribuenti onesti e pene pesanti agli evasori. 2. Non c’è riduzione delle tasse senza una lotta a fondo contro gli sprechi, quelli della politica e quelli della burocrazia. Ci sono troppe

Non è necessario che i beni pubblici li produca direttamente lo Stato, a costi elevati, con livelli modesti di gradimento degli utenti scorte che servono solo come status symbol, troppe assunzioni clientelari nelle società pubbliche e nei gabinetti dei ministri e degli assessori, troppa gente che vive di politica e troppe spese ostentative. Chi lo ha detto che un politico deve vivere come un ricco o almeno dare l’impressione di vivere come un ricco? 3. Non c’è riduzione delle

tasse senza la abolizione di troppe aree di elusione e di erosione fiscale oltre che di troppi sussidi dello Stato alle imprese. Agevolazioni fiscali e sussidi distorcono la concorrenza a favore delle imprese vicine alla politica ed a danno di quelle che pensano solo a far bene il loro mestiere. 4. Tutti e tre i primi punti non sono sufficienti senza una nuova architettura dello Stato fondata sul principio di Lo sussidiarietà. Stato non deve fare quello che la società può fare da sé. Non è necessario che i beni pubblici li produca direttamente lo Stato, a costi elevati e con livelli spesso modesti di soddisfazione degli utenti. È possibile che lo Stato lasci che i beni pubblici li produca chi si sente la vocazione a farlo, che le famiglie scelgano chi offre loro il servizio migliore e che lo Stato intervenga sussidiariamente attribuendo alle famiglie spezzoni di reddito qualificato (vouchers o bonus) che possono essere spesi per comprare il servizio desiderato. La spesa pubblica può essere tagliata in modo sostanziale so-

lo se si ridisegna l’architettura complessiva dello Stato. Il Pdl non ha potuto diminuire le tasse perchè non è stato capace di diminuire la spesa pubblica, perchè non ha fatto le quattro cose che adesso abbiamo detto. Da qui bisogna ripartire sapendo che per fare questo sarà necessario condurre una lotta terribile contro il partito dei privilegi e della spesa pubblica. L’elettorato deluso ed astensionista dell’area moderata è quello che si è sentito abbandonato e tradito quando le tasse sono state aumentate.

Oggi magari alcuni battono le mani a chi propone di non pagare l’Imu. Ciò di cui hanno veramente bisogno, però, è un percorso credibile ed onesto per diminuire durevolmente il carico fiscale. A questo punto qualcuno potrebbe chiedere: come fate a sostenere il governo Monti che è il governo che ha messo le tasse ed a dire contemporaneamente che bisogna diminuire le tasse? La risposta è semplice e la capisce anche un bambino: il governo Monti ha messo le tas-


prima pagina

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Il settore pubblico? Ha troppi privilegi Il ministro Fornero auspica parità di trattamento con il privato. Ed è polemica con Patroni Griffi di Riccardo Paradisi on ho mai detto che voglio licenziare nel settore pubblico – precisa Elsa Fornero a margine di una visita al Centro per l’impiego di via Bologna a Torino – auspico che ci sia il più possibile parità di trattamento tra i lavoratori del pubblico impiego e quelli del privato». La polemica sulla licenziabilità nel pubblico impiego – un tabù inviolabile evidentemente - era stata innescata dopo le dichiarazioni rilasciate dal ministro della Funzione Pubblica, Giuseppe Patroni Griffi, nella mattinata di ieri, che o aveva sottolineato come nella sua delega non è prevista la libertà di licenziamento.

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Il ministro Fornero parte proprio da questo punto: «C’è una delega ad un mio collega di governo e rispetto le deleghe date dal presidente», anche se il ministro aggiunge che il concetto della parità di trattamento attiene anche al suo mandato di ministro delle Pari Opportunità e che quindi oltre che riguardare il superamento delle differenze tra uomo e donna, riguarda anche quello tra lavoratori pubblici e privati, lavoratori immigrati e lavoratori inattivi. «Io sono anche ministro per le pari opportunità e non credo che non riguardino solo uomini e donne, ma anche i pubblici dipendenti e i privati. Mi parrebbe in contrasto con il mio man-

dato se dicessi che le cose dovessero andare diversamente per queste due categorie. Tenendo conto delle specificità quindi auspico una parità di trattamento. Ma non dite che questo significa libertà di licenziare». Il ministro Fornero “tenendo conto delle specificità del pubblico impiego” si limita ad auspicare «il più possibile la parità di trattamento tra dipendenti pubblici e dipendenti privati. C’è un concetto più ampio e mi parrebbe in contrasto con il mio mandato se dicessi che le cose dovessero andare diversamente». A fare il punto sulla riforma del lavoro era stato come si diceva il ministro Patroni Griffi, spiegando che «la delega non conterrà una disposizione specifica sui licenziamenti disciplinari, ma ci rimetteremo al parlamento». Il nodo da sciogliere riguarda i licenziamenti

pronta. Ci sono un po’ di contrasti ma non riguardano il rapporto con Fornero».

Per quanto poi riguarda i provvedimenti già presi e la riforma del lavoro la Fornero s’è difesa da una contestazione portata da un gruppo di disoccupati che le ha ripetutamente urlato: “Vergogna”. «Non mi vergogno affatto – è stata la risposta prima di visitare il centro per l’impiego della provincia di Torino – sono orgogliosa di far parte di questo governo che ha fatto delle scelte. Possiamo aver sbagliato, possiamo aver fatto delle cose che dovevano essere fatte meglio – ha continuato il ministro senza perdere la calma – ma due cose non abbiamo fatto: una è mentire, far finta che le cose vadano bene quando non vanno bene; la seconda è di sottolineare che questa casa è piena di crepe e che dobbiamo aggiustarle una per una. Non abbiamo fatto finta che le cose andassero bene quando non vanno bene affatto.Voglio assicurarvi guardandovi bene negli occhi che questo governo non vuole portare alla fame le persone». Ai disoccupati che invocavano lavoro, il ministro ha infine replicato: «Lo spero davvero. Il governo sta cercando di risolvere determinate situazioni. Noi abbiamo vissuto per troppi anni sul debito. Siamo in recessione. Non ci sono strumenti che possono farci uscire da questa si-

«La riforma del lavoro poteva essere fatta meglio» secondo il segretario della Cisl Bonanni. «L’equilibrio si è trovato grazie alla mediazione del Parlamento»

se perché il governo Berlusconi non ha ridotto la spesa, anzi la ha aumentata. C’è una sola cosa che è peggiore che pagare troppe tasse e questa è fare fallimento. Per non fare fallimento Monti ha messo le tasse. I politici che protestano contro le tasse ma non sanno o non vogliono ridurre la spesa pubblica sono disonesti. Noi però dobbiamo spiegare chiaramente che l’aumento della pressione fiscale è stata una operazione provvisoria e di pronto soccorso. Adesso bisogna fare la operazione vera che è la riduzione della spesa e la diminuizione delle tasse. Sul secondo punto, la linea inaugurata dal governo Monti, la nostra posizione è chiara: indietro non si torna. La Seconda Repubblica è finita ed è finito anche il bipolarismo che la ha contrassegnata, il bipolarismo segnato dalla lotta a morte per la distruzione dell’avversario e da una vicinanza troppo stretta fra

perché «se si prevede che a pagare l’indennizzo sia il dirigente non avremo nessun licenziamento. Mentre se non si prevede questa responsabilità a quel punto pagherebbe pantalone e questo andrebbe a carico della comunità». Per il ministro si tratta di “un problema non semplicissimo” sul quale occorre trovare un punto d’equilibrio. «Comunque la riforma è sostanzialmente

alcuni gruppi di potere mediatico ed economico e la politica.

Alcuni autorevoli opinionisti (es. Angelo Panebianco ed Ernesto Galli della Loggia) si ostinano a difendere le ragioni del bipolarismo. Possiamo parlarne ma ad una condizione: deve essere chiaro che parliamo di un altro bipolarismo. Gli autorevoli opinionisti hanno in mente modelli anglosassoni, mentre il bipolarismo italiano è stato una specie di azionismo in ritardo che ha spregiato come inciucio qualunque ricerca di ragionevoli compromessi per il bene comune. I compromessi si fanno con gli avversari politici. Con i nemici della patria si fa la guerra. Forse il sogno bipolare avrebbe anche potuto funzionare se, nel 1996, avesse avuto successo il tentativo di governo Maccanico. Occorre infatti, per realizzare un bipolarismo virtuoso, un sistema di pesi e con-

trappesi istituzionali che faccia in modo che chi vince le elezioni prenda in mano tutto e solo il potere esecutivo. Occorrono delle riforme istituzionali condivise che separino, fra l’altro, la sfera della economia da quella della politica (compresa una buona legge sul conflitto di interessi che non era possibile fare

L’elettorato deluso e astensionista dell’area moderata è quello che si è sentito tradito quando le imposte sono state aumentate finché un protagonista assoluto della economia era anche capo del governo). Proprio per queste ragioni mi permetto rispettosamente di chiedere ai partigiani di un bipolarismo virtuoso se

tuazione subito, ma voi dovete avere un minimo di fiducia».Una richiesta impegnativa visti i chiari di luna. Senonché il ministro – ammiratrice di Margareth Tatcher e del volontarismo della lady di ferro dei tempi d’oro – cerca soluzioni pragmatiche da subito. Come «trovare modalità che permettano ai centri per l’impiego ben funzionanti di essere da traino per quelli che arrancano». Ma il ministro Fornero non viene contestata solo dai disoccupati. Subisce critiche anche da quella parte di sindacato che più ha cercato la collaborazione con il governo: «Ci siamo trovati davanti un ministro con un approccio ideologico. È stato fatto un pastrocchio e spero che la Camera migliori il provvedimento». Se si è raggiunto un equilibrio insomma, secondo Bonanni, è grazie al Parlamento e malgrado la Fornero: «Alla fine è stato raggiunto un equilibrio grazie al lavoro fatto in aula; la riforma del mercato del lavoro si poteva fare meglio, molto meglio. Per fortuna ci sono stati alcuni deputati che hanno lavorato per aggiustare una cosa mal costruita e mal comunicata».

non sarebbe bene dal loro stesso punto di vista prevedere una fase di governo di grande coalizione per fare le riforme istituzionali necessarie. Non è chiara, invece, la posizione del Pdl. Esso sembra unito dalla difesa della parola d’ordine del bipolarismo ma non si è ancora aperta una discussione su quale bipolarismo. Il bipolarismo di Quagliariello somiglia molto a quello di Galli della Loggia. Quello della Santanchè (e di molti altri) somiglia alla elezione di un uomo solo al comando. Non è un modello con il quale noi possiamo venire a patti. Sul terzo punto noi crediamo che la alleanza con la Lega sia consumata definitivamente. Non è possibile riproporla perché è fallita. Forse sarà bene ricordare che la alleanza fra Forza Italia e Udc andò in crisi perché l’Udc dal momento della sua costituzione tentò di bilanciare l’influenza della Lega nel cen-

trodestra. Fra l’Udc e la Lega il PdL scelse la Lega. Oggi la Lega ha estremizzato ulteriormente le sue posizioni, ha rispolverato il vecchio armamentario secessionista a cui non aveva mai veramente rinunciato, dopo avere accusato tutti gli altri di essere ladri è stata colta lei con le mani nel sacco ed è in crisi evidente di consensi.

Credo di non essere troppo tranchant se dico che con questa Lega non si fanno patti di governo. Se con il tempo emergerà un’altra Lega allora vedremo. Sul quarto punto non è possibile dire adesso nulla di troppo preciso finché non sapremo con quale sistema andremo a votare. Una cosa però deve essere chiara: le alleanze si fanno per realizzare un programma. Iniziamo intanto a parlare per vedere con chi possiamo intenderci su questi punti di programma.


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l’approfondimento

Luigi Paganetto, Marco Fortis e Luigi Campiglio giudicano le prime notizie sul lavoro di Draghi, Barroso, Juncker e Van Rompuy

Lezioni di piano

La stampa mondiale diffonde il “progetto segreto” per salvare l’euro, preparato per il vertice di fine mese. È la strada giusta? Tre economisti lo passano al vaglio. Ma Bruxelles: «Si fa confusione. Non c’è nulla di segreto» di Franco Insardà

ROMA. Dopo Grecia, Portogallo e Irlanda, Cipro potrebbe essere il quarto Paese della zona euro ad aver bisogno di un aiuto economico internazionale. Intanto Bruxelles ha fatto sentire la sua voce: «Non c’è nessun “piano segreto” per ristrutturare l’Unione europea o di salvataggio dell’euro», ha precisato la portavoce della Ue. «Si sta facendo confusione», ha aggiunto, ricordando che al vertice del 23 maggio scorso, i leader dei 27 hanno dato mandato al presidente della Commissione europea Barroso e a quello del Consiglio europeo Van Rompuy, «in stretta collaborazione» con il presidente della Bce Draghi e con quello dell’Eurogruppo Juncker, di «approfondire il lavoro» per rafforzare l’Unione economica e monetaria e «la nostra governance». Luigi Paganetto, professore di Economia Internazionale all’Università di Roma “Tor Vergata”, premette la difficoltà di un giudizio sul piano «perché se ne conosce pochissimo. Si capirà meglio, quando la proposta sarà essere illustrata il 28 giugno, in oc-

casione del vertice dei 27. Mi sembra che la questione di fondo sia quella di ragionare sugli interessi in gioco tra paesi molto diversi. Su una cosa penso che tutti convergano: l’euro era una moneta comune, che ha reso possibile un mercato unificato dei capitali in Europa. Come ha fatto notare, giustamente, il governatore della Banca d’Italia, nella sua relazione, di questa condizione hanno beneficiato alcuni paesi e non altri. Tutti gli stati, come Irlanda, Portogallo e Spagna, trovandosi con un mercato di capitali molto ampio hanno avuto la possibilità di accedere a finanziamenti di grande dimensione per fare sviluppo a bassi tassi d’interesse in condizioni di stabilità». Guardando ai dati, secondo Paganetto, ci troviamo «con una crescita di questi paesi decisamente superiori rispetto a Italia, Germania e Francia. Oggi la situazione è squilibrata con Berlino che ha il vantaggio di avere un mercato che le fornisce capitali a basso tasso d’interesse, grazie all’afflusso monetario da paesi deboli, in cambio della sta-

bilità anche ottenendo interessi negativi rispetto al tasso d’inflazione. Rinunciare a un mercato di capitali di così grandi proporzioni allontana le prospettive di sviluppo per tutti i paesi, Germania compresa. Occorre che ci sia una presa di consapevolezza di questa situazione e un intervento politico, come hanno detto sia Mario Draghi sia Ignazio Visco. Sono poco convinto che la strada giusta per il debito dei paesi sia quella di mettere la parte che supera il 60 per cento in un fondo, per consentire il pagamento di un tasso d’interesse più basso.

La proposta avanzata da Paganetto punta «sul rapporto le politiche e i risultati che i paesi ottengono, esaminati nel semestre europeo, come previsto dal fiscal compact e che sono sulla strada giusta. Anche perché si sta verificando lo strano fenomeno che gli spread salgono, nonostante le politiche di bilancio rigoroso. I paesi virtuosi, grazie a una governance rigorosa e ai sacrifici dei cittadini, vanno sostenuti e premiati dalla politica europea. C’è, quindi, un pro-

blema di responsabilità dell’Europa per fare in modo, attraverso le sue istituzioni, che i paesi “in linea” siano garantiti dalla Banca centrale europea. Per evitare questo fenomeno asincrono tra bilanci in regola e spread fuori registro gli speculatori devono sapere che la Bce interviene per regolare e indirizzare i mercati, attraverso una politica di annunci. Così come avveniva per evitare le impennate inflazionistiche dei vari paesi». Le misure annunciate sono, per Luigi Campiglio, professore di Politica economica presso la Cattolica di Milano, «un pezzo di un mosaico che fa leva su un meccanismo di finanziamenti incrociati, utilizzato in Europa dalle banche e fa perno sulla Bce, e che consente una sorta di finanziamento implicito. Si tratta di una situazione ancora mascherata, non istituzionale, ma che rimane fragile. Il focus rimangono le banche, perché si sta ripetendo in Europa una situazione non diversa da quello che era accaduto negli Stati Uniti nell’ottobre del 2008. Si tratta in pratica di un mantello che do-

vrebbe accompagnarci a un rafforzamento del fondo di garanzia dei depositi a livello europeo, per evitare in partenza delle turbolenze. A quel punto si potrebbe cominciare a ragionare per un’uscita da questa crisi di sistema.

Molto forte la critica di Campiglio a Berlino: «I tedeschi non si rendono conto, però, di essere un’isola felice in mezzo alla tempesta, a questo si aggiunge che la catena di comando politica ed economica ha bisogno di tempi decisionali lunghi. Oggi la Francia e l’Italia, anche grazie alla credibilità di Monti, devono essere assertivi e presentarsi a Berlino facendo capire, in modo molto deciso, che se il resto dell’Europa è sull’orlo del precipizio anche i tedeschi sono, insieme a tutti gli altri, sulla stessa barca. In sintesi la Germania deve smetterla di giocare a questo estenuante gioco a poker, prendendo le decisioni all’ultimo momento. Altrimenti il disastro è dietro l’angolo. Credo che l’area europea alla fine ne uscirà, noi ce la caveremo, ma la Germania


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I giganti del business scappano da Grecia e Spagna temendo il crollo della moneta unica

Per le multinazionali è cominciata la grande fuga dall’euro Dalla Procter & Gamble alla Heineken, dalla Glaxo a Carrefour: tutti cercano di convertire i capitali in dollari o sterline di Luisa Arezzo e multinazionali scappano dall’euro, e se fino a qualche settimana fa il fenomeno era tenuto in sordina, adesso non è più possibile. Perché è partita una vera e propria gara a chi fugge prima. Innanzitutto dalla Grecia, dove il 17 giugno si tornerà a votare e dove la possibile vittoria di Syriza potrebbe far sprofondare la moneta unica nell’incertezza. Ma anche dalla Spagna, dal Portogallo e dalla stessa Italia. C’è il colosso alimentare e di prodotti per l’igiene Procter & Gamble, il gigante farmaceutico GlaxoSmithKline ci sono fior di multinazionali europee come la Heineken olandese, il tour operator tedesco Tui, il colosso francese dei supermercati Carrefour e la catena inglese di store elettronici Dixons. Tutti protesi alla grande fuga. Il motivo è presto detto: la possibilità di un euro fallito, anche se ancora lontana, è possibile. E non si può rischiare nulla, perché ne va della propria sopravvivenza. La corsa, poi, è anche protesa al recupero dei crediti insoluti: il timore è che se la Grecia dovesse tornare alla dracma, questa sarebbe talmente svalutata da non poter più andare a coprire la cifra del debito. In poche parole: i crediti non verrebbero ripagati, se non in tempi lunghi e imprevedibili. Non solo: si rischia anche che il governo di Atene converta ogni euro presente nel paese in dracma, e questo significherebbe un ulteriore danno per le multinazionali, che vederebbero ridimensionato di punto in bianco il proprio capitale.

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Mettere in salvo il cash, per non vederselo trasformato in dracme, o congelato da improvvise restrizioni sui movimenti di capitali è dunque la parola d’ordine di chi fa il grande business. L’allarme partito dalla Grecia e che riguarda ormai anche la Spagna e in misura minore, secondo il Wall Street Journal di ieri, anche l’Italia e il Portogallo, è più forte che mai. La Heineken, per esempio, sta spostando i suoi capitali fuori dalla Grecia e convertendo l’euro in dollari americani e sterline. «Lo facciamo regolarmente» hanno detto i vertici della casa della birra, e questo è vero, solo che adesso lo stanno facendo tutti i giorni. Così come lo sta facendo il gigante Diageo e la la farmaceutica Glaxo Smith Kline. I piani di evacuazione delle multinazionali dalla zona euro, dice il WSJ, sono «gli stessi che furono messi a punto e collaudati più di un anno fa verso i paesi del Nordafrica coinvolti nella primavera araba». Un paragone che certo non depone a favore di Atene e Madrid.Tra le misure già avviate dalle multinazionali più prudenti: «Esigere dai clienti locali dei pagamenti anticipati

al 50%, accorciare l’incasso delle fatture a 15 giorni». Lo chiamano “contingency plan”ma assomiglia di più ai preparativi di una ritirata strategica. Il colosso dei tour operator Tui, sta convertendo tutti i pacchetti viaggi già acquistati per la Grecia, in pacchetti verso altre destinazioni. Nel settore assicurativo, due colossi come Allianz Natixis

In caso di ritorno alla dracma, le compagnie si troverebbero risorse totalmente svalutate

avrebbero già sospeso le polizze di garanzia sulle esportazioni verso la Grecia, considerando troppo elevato il rischio che gli importatori locali non paghino più la merce, oppuro saldino i debiti in una nuova moneta locale pesantemente svalutata. Alcune società di consulenza come Roland Berger, o grandi studi legali internazionali come Linklaters, fanno gli straordinari per rispondere all’assedio dei clienti, cioè le multinazionali in cerca di aiuto su come smobilitare il più presto possibile dai paesi a rischio dell’eurozona. O quantomeno, le cose dovessero peggiorare, ridurre i danni al minimo.

Paura ed apprensione per il destino della moneta unica serpeggiano fra i giganti del business: e sono sempre di più le multinazionali che non prendono più ordini dalla Grecia e dalla Spagna per accogliere invece le richieste del mercato cinese e delle nuove economie emergenti. Carrefour, colosso francese dei supermercati, sta convertendo buona parte dei suoi ipermercati in una sorta di discount, e questo sia in Grecia che in Spagna che in Italia (soprattutto al centro-sud). Ufficialmente per andare incontro alle esigenze dei clienti, che ormai spendono solo in beni alimentari essenziali, ma in realtà per investire di meno in paesi considerati a rischio. Stessa cosa la stanno facendo la Nestlé, Danone e i marchi rappresentati dalla Procter & Gamble. Insomma, tutti restringono la cinghia.Trump, uno dei più importanti giganti dell’ingegneria industriale e della tecnologia medicale, ha nei cassetti pronto il piano B. Ovvero un pacchetto di misure analoghe a quelle adottate durante la grande crisi del 2008-2009: riduzione dell’orario di lavoro per i dipendenti, maggiore flessibilità nei pagamenti e sistemi di consegna a durata standard. In sostanza: se i mercati finiranno nel panico per il collasso dell’euro, inzialmente in Grecia, l’azienda è pronta immediatamente a decelerare su consumi e produzione. In attesa di tempi migliori. Per capire cosa questo significhi, basti pensare che quattro anni fa la Trumpf tagliò i suoi costi di oltre 124 milioni di dollari. Il punto è che la fuga di capitali dalla Grecia è non solo in corso, ma sarà duratura. Anche se quest’ultima dovesse restare nell’eurozona. Ci vorranno degli anni prima che le multinazionali riprendano fiducia nel mercato ellenico, considerato strutturalmente a rischio. Il Wsj ammette che il piano di evacuazione intrapreso dai grandi del business ridisegnerà in larga misura i rapporti commerciali. Rendendo sempre più difficile operare nei Paesi dell’Europa meridionale.

che è riuscita ad ottennere grandi risultati, grazie alla Ue, se li scorda e rischia di crollare». Le ragioni delle posizioni tedesche, secondo il professor Paganetto, dipendono «dal sentiment degli elettori. La stessa Germania ha di che preoccuparsi se la situazione bancaria va in disequilibrio. Bisogna non dimenticare il richiamo dell’Fmi che ricorda come l’aumento delle tasse e il taglio dei deficit siano misure recessive. La ricerca del pareggio di bilancio, quindi, non deve tradursi in situazioni controproducenti, ma occorre, una politica prioritaria di sviluppo attraverso gli Eurobond per fare investimenti in tutta l’Europa».

Quella degli Eurobond, secondo Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison e professore di Economia industriale della Cattolica di Milano, è «il vero piano che sognava fare, al quale la Merkel si oppone da sempre. Parliamo di uno strumento di tremila miliardi, basato su garanzie reali per mille miliardi, la proposta Prodi-Quadrio Curzio dello scorso anno per intenderci, al quale concorrerebbero tutti gli stati con lo stesso sistema che vale per la Bce. Siccome si sono sfilacciati i rapporti tra i paesi della Ue e con gli altri Stati non si riesce a dare una risposta di sistema, con i tedeschi che stanno approfittando a mani basse di questa situazione nel breve periodo. È un problema di debolezza europea legata alle debolezze dei vari paesi di avere un esecutivo in grado di governare. Se si lasciano incancrenire le situazioni bisogna fronteggiare le varie crisi: la greca da debito pubblico, quella spagnola delle banche e così via. Gli italiani dovrebbero cominciare a pretendere qualcosa, visto che il nostro debito pubblico è tenuto sotto controllo da decenni, pagando lauti interessi agli investitori, abbiamo fatto il più grande avanzo primario della storia. Le nostre banche non erano esposti con greci, portoghesi, irlandesi, spagnoli e con i titoli che hanno intossicato il sistema bancario mondiale. Cosa che hanno fatto le banche tedesche, in alcuni casi salvate dallo Stato. Alcuni paesi europei, a questo punto, dovrebbero avere la forza per mettere con le spalle al muro Berlino. Bisognerebbe riscrivere la storia economica degli ultimi venti anni con paesi considerati perdenti, perché non crescevano come l’Italia. Dopo abbiamo visto che tutti quelli che crescevano hanno contratto tanti debiti privati poi diventati pubblici. Per non parlare delle operazioni di salvataggio delle banche d’affari americane o di quelle inglesi da parte degli stati. La Germania dovrebbe essere messe di fronte alle sue responsabilità. E non è stato un italiano, un greco o uno spagnolo a dire che la Germania rischia di distruggere l’Europa per la terza volta, ma l’ex ministro degli Esteri tedesco».


società

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Nell’intera operazione, emerge chiaro e netto il tentativo di ingigantire le difficoltà che già travagliavano il Pontificato di Benedetto XVI

I tre volti del corvo Isolare il Papa, colpire i suoi collaboratori, moltiplicare i dissapori. Ecco i veri obiettivi di chi trama in Vaticano di Luigi Accattoli ove portano le beccate e le imbeccate del corvo? O piuttosto dei corvi? È l’unico aspetto della nera questione che al momento possa essere affrontato da un osservatore esterno. Mettendo insieme criticamente le informazioni dirette e indirette che vengono dai “documenti” pubblicati e da ogni altra fonte si possono individuare tre obiettivi del corvo sovrano e dei corvidi suoi ausiliari: colpire i più diretti collaboratori del Papa, isolare Benedetto dal “consiglio” di chi non lo frequenta di persona, contrastare la sua opera di governo svelando e avvelenando le tensioni che attraversano la Curia e la Chiesa. Vedo nell’intera operazione un tentativo di ingigantire le difficoltà che già travagliavano il Pontificato di Benedetto

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XVI. Contro le patetiche affermazioni della fonte “Maria” che il collega Nuzzi ad apertura del volume Sua Santità accredita come intenzionato ad aiutare il Papa e la sua “azione di riforma” - sta il fatto oggettivo che la divulgazione di quelle “carte”(“Le carte segrete di Be-

Contro le patetiche affermazioni della fonte “Maria”, sta il fatto oggettivo che la divulgazione di quelle “carte”esaspera i contrasti tra gli uomini al vertice della Curia nedetto XVI” è il sottotitolo del volume) esaspera i contrasti e i risentimenti che dividono gli uomini che sono al vertice della Curia Romana e dell’intera cattolicità ma esercita anche un effetto paralizzante nei confronti di chiunque voglia appellarsi al Papa: d’ora in poi - finchè durerà la stagione nidificatoria dei corvi - nessuno

che non possa parlare di persona a Benedetto XVI potrà azzardarsi a inviargli un promemoria, una nota, un appunto su una qualunque materia “calda”, con la prospettiva di ritrovarlo all’indomani in bocca al corvo.

Per esemplificare questi tre effetti basterà fare riferimento alle ultime carte trafugate e consegnate ai media, delle quali ha dato conto La Repubblica di domenica mentre il Papa era a Milano, momentaneamente lontano dagli affanni curiali: una lettera del cardinale Burke e due biglietti “sbianchettati” di don Georg, il segretario personale del Pontefice. L’obiettivo di colpire gli immediati collaboratori del Papa è dichiarato nel messaggio con cui il corvo accompagna i tre documenti: “Cacciate dal Vaticano i veri responsabili di questo scandalo, monsignor Gaenswein e il cardinale Bertone”. Il corvo che al momento si trova in gabbia, il maggiordomo Paolo Gabriele, secondo questo messaggio è “il solito capro espiatorio”, mentre “la verità va cercata nel potere centrale”. Le due lettere con intestazione, data e firma del segretario del Pontefice, don Georg Gaenswein, sono state “sbianchettate”, precisa il messaggio, “per non offendere la persona del Santo Padre” in quanto segnalano “incresciose nonché vergognose vicende all’interno del Vaticano”; ma il loro con-

In queste pagine: un particolare della Cappella Sistina; un’immagine del Pontefice, Benedetto XVI; uno scatto del suo ex maggiordomo, Paolo Gabriele; uno scorcio della Basilica di San Pietro; il giornalista Gianluigi Nuzzi, autore del libro “Sua Santità Le carte segrete di Benedetto XVI”

tenuto - dice sempre il messaggio - sarà reso pubblico nel caso il Papa non si decida ad allontanare i suoi più stretti collaboratori. Siamo dunque davanti a un ricatto esplicito. Il terzo documento è una lettera del cardinale Raymond Leo Burke, prefetto della Segnatura Apostolica, indirizzata al cardinale Bertone a riguardo delle pratiche liturgiche dei Neocatecumenali, sulle quali il cardinale solleva forti obiezioni. Si tratta di un tema che divide la Curia e gli ambienti episcopali e sul quale il cardinale statunitense si esprime con grande libertà, immaginando di parlare al di fuori di occhi e orecchi indiscreti. La pubblicazione di quel testo ovviamente renderà più ardua ogni operazione papale di mediazione tra il rispetto dei “canoni” consacrati dalla tradizione e le novità di cui sono portatori i movimenti ecclesiali sorti dopo il Vaticano II.

Possiamo approfondire l’accertamento di questo effetto divisorio prendendo in esame alcuni dei documenti contenuti nel volume di Nuzzi, vera gerla

del corvo. Vi sono - come fu subito segnalato da tutti i media tre lettere di Dino Boffo sulla propria vicenda: due inviate per fax a don Georg (6 e 11 febbraio 2010), una inviata - sempre per fax - al cardinale Bagnasco (il 2 settembre 2010) e da questo girata “immediatamente” a Benedetto passando di nuovo per Gaenswein. Poniamo che domani il Papa, o il segretario di Stato, o il presidente della Cei, o i loro successori, vogliano tentare una mediazione o un riavvicinamento tra i due “direttori”o tra i “partiti” che li sostengono: la pubblicazione di quei testi faranno ardua o renderanno impossibile quella auspicabile pacificazione. Altrettanto si può dire delle due lettere inviate nel marzo e nel luglio del 2011, una al Papa e l’altra al Segretario di Stato, dall’arcivescovo Carlo Maria Viganò (già segretario del Governatorato, ora nunzio a Washington). Se domani si pones-


società

rere - in una lettera al Papa qualifica come “inaudito”il fatto che nel suo messaggio il cardinale Tettamanzi “tratta col Papa da pari a pari”.

se il problema di un recupero di rapporti con l’ex presidente dell’Ior Ettore Gotti Tedeschi, quella decina di messaggi e note (riguardanti l’Ici-Imu, l’acquisto del San Raffaele, l’andamento della crisi economica mondiale e italiana, le inchieste sullo Ior per riciclaggio, un documento del Consiglio Giustizia e Pace, il suggerimento al Papa di una “dichiarazione di preoccupazione”per la crisi politico-economica dell’Italia) da lui inviati all’Appartamento papale e dal corvo consegnati a Nuzzi di certo non aiuteranno una tale operazione.

Nel libro del collega Nuzzi c’è anche una lettera del cardinale Paolo Sardi (pochi lo conoscono ma è un curiale di prestigio) che in data 5 febbraio 2009 par-

la al Papa di mancanza di coordinamento tra gli uffici della Segreteria di Stato e lamenta i troppi viaggi del cardinale Bertone: “Il lavoro è fermo, in compenso si muove il cardinale Segretario di Stato”. Si può bene immaginare che la pubblicazione di quel testo non faciliti la collaborazione tra Sardi e Bertone. Nel volume c’è anche un altro testo del buon Sardi. Il cardinale Dionigi Tettamanzi il 28 marzo 2011 scrive al Papa per opporsi a una lettera con cui il cardinale Bertone a nome di Benedetto l’aveva “sollevato” dall’onere della presidenza dell’Istituto Toniolo: il Papa, uditi i due cardinali ricevuti insieme, darà ragione a Tettamanzi. Nella fase istruttoria che precede l’incontro il cardinale Sardi - richiesto di un pa-

Possiamo immaginare le facce, la prima volta che Sardi e Tettamanzi avranno a incontrarsi. Sempre in “Sua Santità” troviamo un fax - in Vaticano usano ancora i fax, ormai introvabili altrove - del cardinale Scola che da Milano agli inizi di dicembre 2011 chiede istruzioni a don Georg sull’acquisto

Ma in realtà, la tempesta ha ottenuto il paradossale risultato, certamente non previsto dal corvo e dai corvidi, di rinsaldare l’intesa tra papa Ratzinger e la sua stretta cerchia del San Raffaele dicendosi contrario anche per le “posizioni” difformi dalla dottrina cattolica sostenute da “molti professori dell’Università”. E qui è facile immaginare che quelle righe vengano usate contro di

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lui ogni volta che da arcivescovo ambrosiano avrà da stabilire un qualsiasi contatto con l’università Vita-Salute del San Raffaele, nella quale insegna per esempio - il suo amico veneziano Massimo Cacciari. Tra quelle “carte segrete” (!) troviamo ancora un “promemoria” non firmato, da attribuire - ci dice Nuzzi - a “una tonaca della Prefettura degli affari economici”, che segnala al Papa “situazioni problematiche” che si vengono creando nella Curia Romana a motivo dello “strapotere personale” del Segretario di Stato. Sempre lì apprendiamo che il preposito della Compagnia di Gesù Adolfo Nicolàs l’11 novembre 2011 scrive al Papa allegando la lettera dei coniugi Brenninkmeijer, “antichi e grandi” benefattori dell’Ordine che lamentano il “potere accumulato” al vertice della Curia Romana, insufficienze nelle nomine dei vescovi e nel modo di agire dei Consigli dei Laici e della Famiglia. Il preposito dice di “condividere” le preoccupazioni dei due. Anche qui è lampante l’effetto fiducia, rasserenamento e governabilità che la pubblicità data a quel testo confidenziale può avere guadagnato al “ministero petrino” affidato a Joseph Rat-

zinger. Sempre via Nuzzi apprendiamo che don Rafael Moreno dei Legionari di Cristo, per 18 anni assistente personale del famigerato fondatore Maciel, il 19 ottobre 2011 conferisce con don Georg per segnalare al Papa come gli fosse riuscito impossibile negli anni denunciare a Giovanni Paolo e al cardinale Sodano - ma anche ultimamente al cardinale De Paolis - le malefatte del “fondatore” dei Legionari. Un ultimo testo dirompente - presente in quell’antologia - mi pare giusto segnalare: il cardinale Zen Zekiun, già vescovo di Hong Kong, nel novembre del 2011 si appella al Papa contro la linea “diplomatica” nei confronti dei governanti di Pechino seguita dalla Segreteria di Stato. Benedetto XVI appare perfettamente consapevole che l’attacco del corvo e dei corvidi ha di mira innanzitutto i suoi aiutanti: “Rinnovo la mia fiducia e incoraggiamento ai miei più stretti collaboratori e a tutti quelli che quotidianamente con fedeltà, spirito di sacrificio e in silenzio mi aiutano nell’adempimento del mio ministero” ha detto mercoledì al termine dell’udienza generale in piazza San Pietro. In quell’occasione - l’unica nella quale fino a oggi abbia parlato dell’attacco corvino - il Papa si è mostrato ben avvertito della posta in gioco, che anch’egli considera mirata a intralciare il suo governo della Chiesa: “Gli avvenimenti successi in questi giorni circa la Curia e i miei collaboratori hanno recato tristezza nel mio cuore, ma non si è mai offuscata la ferma certezza che nonostante la debolezza dell’uomo, le difficoltà e le prove, la Chiesa è guidata dallo Spirito Santo e il Signore mai le farà mancare il suo aiuto per sostenerla nel suo cammino. Si sono moltiplicate, tuttavia, illazioni, amplificate da alcuni mezzi di comunicazione, del tutto gratuite e che sono andate ben oltre i fatti, offrendo un’immagine della Santa Sede che non risponde alla realtà”.

Dunque al momento, in attesa che le tre inchieste - poliziesca giudiziaria e cardinalizia diano risultati chiarificatori, possiamo dire che la tempesta ha ottenuto il paradossale risultato, certamente non previsto dal corvo e dai corvidi, di rinsaldare l’intesa tra il Papa e la sua cerchia più stretta. www.luigiaccattoli.it


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Le due Elisa

di Nicol

avvero si possono paragonare le due Elisabette d’Inghilterra? Elisabetta I Tudor e Elisabetta II di Windsor? Proviamoci e vediamo come va a finire. Ma preventivamente dobbiamo ammettere che serve uno sforzo supremo di fantasia, perché tempi, modi e abitudini sono così cambiati dal Cinquecento al Novecento (senza contare oggi che da un po’ abbiamo scavallato il Millennio...) che lì per lì a tentare un confronto verrebbe da dire: vabbè, non se ne fa niente.

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Pochi dubbi si possono avere sulla duplice eredità artistica. Elisabetta I fece Gentleman William Shakespeare, mentre la Seconda ha fatto Baronetti i Beatles. A parte la tutela ossessiva della burocrazia aristocratica in ogni tempo (ma Gentleman è meno che Baronetto, e all’epoca per diventare tale Shakespeare pagò una bella cifra di tasca sua: non gli bastò la chiara fama), c’è un altro elemento che colpisce: Shakespeare era uno, i Beatles quattro. L’uno e gli altri affondarono le mani in ciò che nelle rispettive epoche era la “cultura pop” ma con la particolarità che mentre Shakespeare era un genio che aveva a disposizione buoni attori, un pubblico pronto alla sua rivoluzione poetica e una compagnia di attori presumibilmente di ottimo livello, i Beatles (pur essendo dei geni) hanno saputo sfruttare una peculiarità artistica del loro secolo: l’interdisciplinarità e il lavoro di gruppo. Erano in quattro, appunto; e pochi giurerebbero sull’eventuale unicità sublime del batterista del gruppo. Ma conta il collettivo. Si può dire che la seconda stagione elisabettiana abbia dato il meglio di sé in ciò? No, perché l’ideologia della creazione collettiva è precedente la cultura pop degli anni Sessanta: le avanguardie del primo No-

vecento vivevano di questo. Pensate solo a Parade, 1917: musiche di Erik Satie, libretto di Jean Cocteau, scene e costumi di Pablo Picasso, coreografie di Léonide Massine. Direte che il cubismo non era pop ma ciò è vero fino a un certo punto: se la cultura pop usa e rielabora oggetti, strumenti e riferimenti popolari, che cosa fu la scelta di Picasso e Braque di inserire fogli di giornale, cor-

Sia la Prima sia la Seconda hanno sponsorizzato la cultura popolare: facendo Gentleman Shakespeare l’una e Baronetti i Beatles l’altra de, passamanerie nei loro quadri negli anni Dieci? No, la seconda stagione elisabettiana non fu la prima a coltivare la creatività collettiva. Fu la prima, semmai, a mettere questo bagaglio in collegamento diretto con il mercato. È opinione diffusa che i Beatles abbiano inventato (anche) i giovani come categoria di mercato, come fascia di consumatori ai quali sollecitare il gusto in modo diretto e ottenendo in cambio vendite massicce di prodotti a loro specificamente destinati: i jeans, i dischi, i giubbotti di pelle, i rayban ecc.. Se vogliamo, il Sessantotto è figlio (anche) di questa presa di coscienza, della raggiunta consapevolezza di essere protagonisti attivi del “mondo dei grandi”. Che è un altro modo per dire “mercato”. Possiamo dire che Elisabetta II abbia (inventato) il mercato? No di certo. Ma nella sua lunga stagione lo ha rivoluzionato più volte: prima allargandolo (ai “giovani”) con la Swinging London, poi rendendolo succube del capitalismo proto-finanziario (ciò di cui oggi paghiamo pesanti conseguenze, per altro) della signora Thatcher.

E Shakespeare? Anche Shakespeare ebbe a che fare con il mercato. Lui stesso lo rivoluzionò e lo utilizzò, ma non puntando sui giovani cui dare una nuova coscienza di consumatori di massa, bensì puntando sul popolo, cui dare una nuova coscienza poetica. Incidentalmente si può dire che Shakespeare si trovò anche a dover dare una coscienza “inglese” al suo pubblico di consumatori: perché senza affinarsi nel-

la comprensione della lingua (madre) inglese, sarebbe stato difficile per costoro godere appieno degli spettacoli teatrali shakespeariani. Si sa che il nostro ha inventato di sana pianta centinaia di parole che ancora resistono caparbiamente in vita, oltre quattro secoli dopo. La semplicità delle dinamiche emotive shakespeariane viene sovente ricondotta alla sua verosimiglianza, alla sua capacità di riprodurre alla perfezione ciò che comunemente sentiamo: una grande operazione di autocoscienza, per un pubblico popolare, moderatamente incolto, di sicuro straordinariamente inconsapevole di sé. Può dirsi lo stesso dei Beatles? Forse sì. Giacché tutti, veramente tutti furono introdotti alla poesia basic delle loro (splendide) canzoni. Anche in questo caso, insomma, c’è stato un enorme allargamento della platea di possibili consumatori. Non solo. Si può ben dire che se Shakespeare ha “inventato” l’inglese moderno, i Beatles lo hanno reso lingua sovranazionale ben più e ben prima del computare le ricchezze in dollari di oggi (anzi di ieri, perché oggi le cose sono cambiate ancora). Per dire: alzi la mano chi - a qualunque età - non ha mai cercato di capire il senso di una canzone dei Beatles imparando a recita-


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sabette pop

la Fano

re la perfetta dizione e a tradurla parola per parola. Diciamo che la seconda stagione elisabettiana ha completato un’opera avviata dalla prima.

Torniamo al pop. Qualcuno ricorderà il film The Queen di Stephen Frears che tanto successo ha avuto di recente anche qui in Italia.Vi è raccontato in modo magistrale il distacco con il quale la seconda Elisabetta accolse la morte di Lady Diana e la sua santificazione in diretta. Per scaricare i nervi dalla tensione, la sovrana - nel film - porta a passeggio i suoi cani, fino a piangere lacrime amare per la morte inaspettata di un cervo. Che quelle lacrime siano state versate, in realtà, per il proprio essersi ritrovata fuori dai tempi?, è il suggerimento bonario di Frears. Lady Diana è stata la quintessenza del pop, con tutto il suo bagaglio di banalità del bene e del male che nel corso del secolo scorso esso ha rimescolato. E la sovrana Windsor certo non poté dirsi a proprio agio con tutta quella roba. Avrebbe fatto lo stesso la sovrana Tudor? La storia non si fa con i se. Si può solo ricordare che Elisabetta I fece uccidere la cugina scozzese Maria Stuarda colpevole sì di tramare troppo platealmen-

te contro la cugina inglese, ma anche capace di troppa dimestichezza con le piazze. Le piazze del Cinquecento, beninteso, che (come si è premesso all’inizio) non sono quelle di oggi: diciamo che una parte dei salotti aristocratici, privati da Elisabetta della gestione dei monopoli tributari videro nella franciosa (e cattolica) Maria Stuarda una sovrana più sciocca e in quanto tale malleabile, gestibile, economicamente sfruttabile. È come se oggi i potentati

economici di Parma, messi fuori gioco dalla caduta di rappresentanza del berlusconismo, si fossero reinventati grillini: pura politica pop. Ma il film di Frears (per altro interpretato in modo eccezionalmente british da Helen Mirren) va ricordato per un altra scena-capolavoro: la faccia della protagonista all’annuncio che per le esequie di Lady Diana avrebbe suonato in Westminster il divo (tardo-pop) Elton John. Il Globe Theatre, tempio shakespeariano, prese fuoco nel 1613 quando una salve di cannoni a salve (sparata per celebrare la nascita di Elisabetta I in una scena di Enrico VIII di Sheakespeare, appunto) diede fuoco involontariamente alla copertura di paglia dell’edificio. Un anonimo poeta inglese, profondamente addolorato per l’evento come tutti gli spettatori dell’epoca, per l’occasione compose una ballata nella quale stigmatizzava la sorte che aveva fatto iniziare l’incendio dall’alto anziché dal basso. Perché se «fosse cominciato di sotto, non c’è dubbio/ che le mogli, dalla paura, ci avrebbero pisciato sopra». E se non è proto-pop questo! Ma poi, per dire, le cose cambiano. Sapete chi ha chiamato la regina Elisabetta II a suonare in suo onore per il Giubileo di diamante? Ovvio: Elton John!

Molto ci sarebbe da dire sull’eredità politica delle due regine. Storie di chiusure, di ruberie istituzionalizzate (da Francis Drake a Margaret Thatcher), di imperi fatti e disfatti nel corso di quattro secoli e spicci: Elisabetta I salì al trono nel 1558, la seconda nel

1952; la prima morì nel 1603 mentre la seconda è viva e lotta insieme a noi (God save the Queen!). Ma sarebbe ingeneroso sostenere che quel che la prima costruì la seconda ha distrutto. Perché il germe dell’impero britannico è nella decisione di Elisabetta Tudor di lasciare che - in assenza di eredi diretti le succedesse sul trono d’Inghilterra il re di Scozia - per inciso figlio di Maria Stuarda - Giacomo Stuart: il primo allargamento dei confini è lì, attraverso un trucco dinastico. Che, per altro, la regina non autorizzò mai in modo conclamato; si limitò a far circolare la voce e a non ostacolarla. Il fatto che Elisabetta II abbia di fatto segnato di sé la fine dell’impero medesimo e del suo figlio burocratico (il Commonwealth) è solo il segno che neanche la corona britannica può competere con la storia. Quel che è certo è che il regno dell’ultima dei Tudor fu di grande apertura, geografica, culturale e politica: l’ostinazione con la quale Elisabetta non prese marito (specie un francese) per evitare di sottostare al maschilismo delle diplomazie occidentali, la sua lunga e vittoriosa battaglia contro la supponenza un po’ beghina di Filippo II di Spagna sono rimasti segni di notevole modernità. Apertura a culture e consuetudini future, appunto. Non altrettanto può dirsi dell’omonima d’oggi. Ma soprattutto perché il Novecento ha riservato alle monarchie regnanti ben altro ruolo che in passato:

Nei giorni del Giubileo di diamante, un paragone (azzardato) tra le regine d’Inghilterra icone e basta. Al massimo, come abbiamo visto, simulacri pop tutti bamboline, orsacchiotti, bandierine e biglietti lacrimosi. Non è richiesto oggi a re e regine di essere anche statisti. E l’omonima seconda si è sempre guardata bene dal parlare troppo in politica, consapevole del proprio ruolo di immagine simbolo della continuità. È questo, in fondo, ciò che soprattutto gli inglesi stanno festeggiando in questi giorni: la solida continuità di un regno che in quasi mille anni di storia ha conosciuto solo quattro grandi dinastie (Plantageneti, Tudor, Giacobiani e Windsor) che si sono prese il lusso di dare al mondo molte meraviglie (dalla democrazia a Shakespeare ai Beatles, appunto). Tanto che oggi noi, qui, ci si può interrogare davvero se a quattrocento anni di distanza si possano fare paragoni attendibili tra due regine che, onestamente, in comune non hanno alcunché.

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grandangolo L’ambasciatore De Blasi: «Episodio molto grave»

Libia nel caos, i ribelli bloccano l’aeroporto. E slitta il voto Aerei dirottati, carri armati intorno agli edifici e voli annullati. A Tripoli ieri è tornata la guerra, quando un gruppo di miliziani di al-Awfiya ha occupato il primo scalo della capitale. L’incidente è poi rientrato, ma è sintomatico del delicato clima che si respira nel Paese. Dove le elezioni sono state rinviate al mese prossimo (forse...) di Antonio Picasso a notizia dell’occupazione dell’aeroporto di Tripoli, in Libia, piove sulle scrivanie delle redazioni mentre sguardi e obiettivi sono puntati altrove. Per tutto il pomeriggio la vicenda resta ingessata nelle poche righe dei flash di agenzia. Non si sa cosa stia accadendo. Non si capisce chi abbia sparato e se abbia sparato. Nella mattinata di ieri, un gruppo di miliziani, facenti parte della brigata alAwfia, ha bloccato l’intero traffico dell’hub tripolino, Qaser Ben Ghashir, come segno di protesta a seguito della scomparsa del loro comandante. All’inizio è sembrato che non ci fossero stati scontri, ma solo l’evacuazione dei passeggeri e il blocco dei voli. Poi però al-Jazeera ha parlato di un ferito. I rivoltosi accusano il governo provvisorio di aver arrestato o addirittura ucciso Abu Ujeila al-Habashi, il loro leader. Due giorni fa, questi si era recato nella capitale per consegnare all’esercito regolare alcuni carrarmati che i suoi uomini avevano utilizzato durante gli scontri con le truppe gheddafine. Da allora non se ne è saputo più nulla. Le autorità militari libiche hanno negato alcun loro coinvolgimento.

torbida la situazione. Secondo il governo provvisorio infatti al-Habashi sarebbe stato sequestrato da una banda rivale. Dopo ore di attesa quindi, al-Awfia ha sgomberato e l’aeroporto è tornato sotto il controllo delle forze regolari. Il tutto è avvenuto senza sapere nulla del destino di al-Habashi. L’episodio offre la possibilità di riflettere su quanto sta accadendo in Libia. AlAwfia è una delle tante milizie che, all’inizio della rivolta, era sorta spontaneamente per fronteggiare le truppe di Gheddafi. Una volta eliminato quest’ultimo, il Cnt si era assunto l’incarico di

I miliziani, dopo aver circondato lo scalo con i propri blindati, hanno chiesto di poter parlare con il presidente del Consiglio nazionale di transizione (Cnt), Mustafa Abdel Jalil. Ed è stato proprio il Cnt ad aver reso ancora più

disarmare al-Awfia e tutte le altre realtà scese in campo in suo sostegno. In realtà, il processo di pacificazione nazionale non ha seguito l’agenda che Jalil e soci si erano illusoriamente imposti. In primis la morte di Gheddafi aveva fat-

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Motivo dell’irruzione, la sparizione del leader di al-Awfiya: Bouajila al-Habashi. Ma anche la dura lotta fra i clan

to credere che i suoi sostenitori fossero stati facili alla resa. Così non è stato. Anzi, come un serpente colpito alla testa ma non ucciso, i fedeli del defunto colonnello si sono sparpagliati rapsodicamente nelle oasi del deserto. Prima per piangere, poi per tornare a combattere. Una volta elaborato il lutto, sono infatti passati alla fase vendicativa. Dune e piste si sono dimostrate ben più impervie da controllare e impossibili da raggiungere una volta che è venuto a mancare il supporto delle forze straniere.Tanto più che i gheddafini hanno trovato il sostegno delle tribù tuareg e delle altre milizie che controllano le oasi. Altro che guerra civile terminata quindi! E soprattutto altro che attuazione della risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza Onu! Il cessate il fuoco, quello previsto dal documento, non è mai stato raggiunto.

Il conflitto di conseguenza si è polverizzato, creando tanto attori, uno in guerra con l’altro. Anche tra coloro che, prima, si erano schierati fianco a fianco. È rimasto aperto il canale della degheddafizzazione. A fine aprile, le autorità libiche hanno comunicato al procuratore della Corte penale internazionale dell’Aja, Luis Moreno Ocampo, di aver raccolto prove certe contro Saif alIslam Gheddafi, catturato e imprigionato a Zintan dagli insorti a novembre. È la mossa con cui il governo punta a far autorizzare il processo in Libia del del-

fino del colonnello. Ed è il tentativo di accreditarsi la fiducia della comunità internazionale. Il Cnt vorrebbe condannare Saif con un proprio tribunale. Un po’ per dimostrare di essere già in grado di agire come autorità governativa a pieno titolo. È una questione di sfoggio di immagine. Di fronte agli alleati stranieri, come pure per l’opinione pubblica interna. Un po’ si percepisce l’intenzione di evitare che Saif al-Islam espatrii con i panni sporchi libici di quasi quattro decenni. Nel Cnt ci sono anche rivoluzionari dell’ultima ora, i quali rischierebbero di essere compromessi se venisse pronunciato il loro nome all’Aja. Quest’ultima, del resto, chiede di processare il figlio del colonnello per crimini contro l’umanità. E solo un tribunale internazionale è investito a svolgere tale funzione. Parallelamente, si è aperta la resa dei conti all’interno delle forze rivoluzionarie. Gli uomini del Cnt hanno chiesto alle milizie autonome di abbandonare armi e campo di battaglia. Un po’ com’era accaduto in Italia nel 1945, quando venne imposto il disarmo alle brigate partigiane. Sulla carta, quella del governo tripolino è una rivendicazione più che legittima. Se si vuole pacificare la Libia è necessario disarmarla. Molti gruppi però non ci stanno. C’è chi sostiene – e non a torto – che la guerra civile sia tutt’altro che finita. Altri invece non replicano nemmeno al governo Jalil e portano avanti la propria piccola guerri-


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Al vertice di San Pietroburgo lo zar del Cremlino non cambia posizione

Ue-Russia, ennesimo “niet”di Putin sulla Siria. Gli attivisti: strage di soldati di Giovanni Radini a crisi siriana è possibile che passi alla storia come il ping pong degli orrori. Dopo una settimana trascorsa a fare l’autopsia del massacri Houla – chi è stato e perché – senza comunque arrivare a capo di nulla, sembra che adesso sia giunto il momento di parlare di un’altra strage. Quella degli ottanta soldati filo-Assad, uccisi dai ribelli tra sabato e domenica scorsi. Non è Damasco a dirlo, bensì le milizie che operano parallelamente al Free Syrian Army. Anzi, l’osservatorio per i diritti umani, il Syrian Obersatory of Human Rights, fa cifra tonda e parla di un centinaio secco di vittime. Difficile però che nei prossimi giorni si spenderà dell’inchiostro per accusare i ribelli di strage. Perché stavolta non ci sono coinvolti minori. Fortunatamente. Ma anche perché, nel caso, sembra che sia tutti chiaro. I rivoltosi – alleati dell’Occidente – hanno fronteggiato e vinto contro un gruppo di fedelissimi di Assad, i quali (nemici) sono immanentemente caduti. Difficile che si prenderà posizione in favore di queste altre ottanta vittime. Così la strage di Houla, con i suoi lampanti chiaroscuri, resta imbrigliata nei giudizi morali e di merito. Mentre quest’altro episodio sarà velocemente archiviato.

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glia. Infine ci sono realtà apparentemente regolari come al-Awfia, che cercano di obbedire agli ordini superiori.

Tuttavia, sul terreno proseguono gli scontri. A febbraio, due clan rivali, Tibu e Zwei, sono arrivati alle mani – per così dire – lasciando sul terreno almeno un centinaio di morti. Per sedare gli

Il voto per l’Assemblea costituente libica, in programma il 19 giugno, è stato posticipato. Ma la data non c’è animi Tripoli ha mobilitato la brigata “Bengasi”, per sedare le due parti contendenti. Considerazioni da fare: lo scontro clanico non nasce con la guerra civile. Ha origini nelle rivalità ancestrali che caratterizzano antropo-sociale del deserto libico. Gheffadi faceva da catalizzatore. Una volta saltato questo, si è tornati al caos. Se il Cnt ha bisogno dei miliziani della Begasi, vuol dire che le truppe regolari che lo sostengono non sono ancora efficienti. Ergo: siamo lontani dall’esistenza di un esercito libico propriamente detto. Passano due mesi e a fine aprile si contano altri dodici morti tra i Tibu una brigata dell’esercito. Lo scontro è avvenuto nella zona di Kufra, nel sud est del Paese. «Dodici persone sono state uccise e 35 ferite» ha dichiarato Issa Abdelmajid Mansour, uno dei capi Tibu, che ha accusato gli uomini inviati da Tripoli di aver mes-

so in pratica un principio di pulizia etnica. «Gli attacchi contro le zone Tibu sono iniziati attorno alle 14.00 del 20 aprile e sono continuati fino oltre le 19.00 del giorno dopo», ha dichiarato un altro capo tribale, precisando che «una dozzina di case sono state incendiate». L’accusa è da prendere con le pinze, senza che la si scarti a priori. Già in passato si è detto di fosse comuni di ribelli e popolazione civile. Fosse in parte scavate dai gheddafini, ma altre di non precisata identità. Il culmine della crisi però è stato raggiunto solo un mese fa, quando il palazzo del governo a Tripoli è stato preso di mira dai mortai di un gruppo di guerriglieri. In questo caso, l’origine del commando – almeno duecento unità – sarebbe la città di Yafran, centro a prevalenza berbera, prossimo al confine con la Tunisia e che si è distinto per la tenacia nel resistere agli attacchi delle truppe di Gheddafi.

Conclusioni? La guerra civile è ancora in corso. Magari sotto tono e di complessa definizione. Ma in Libia si spara eccome. C’è il rischio che il conflitto degeneri in scontri etnici. In un Paese al momento armato nella sua generalità, anche il più banale dei contenziosi può essere risolto a colpi di kalashnikov. Bisogna poi chiedersi quale sia il livello di presenza straniera presso le varie milizie. Ribelli indefessi, nostalgici di Gheddafi, tuareg, jihadisti e forse anche takfiri e salafiti. Lo scenario libico rappresenta una ghiotta occasione per chiunque sia interessato a destabilizzare ulteriormente nordafricano-mediorientale. Non è un caso che, sempre ieri, la commissione di controllo delle quattromila candidature per le elezioni del 19 giugno si sia detta incapace di concludere il proprio lavoro e che, di conseguenza, abbia rinviato il voto forse alla seconda settimana di luglio. Forse.

Intanto il mondo si muove. O meglio, cerca di mobilitarsi per mettere fine alla crisi di Damasco. Sembra però che le iniziative sia una più debole dell’altra. Il summit che si è tenuto ieri a San Pietroburgo non avrebbe dovuto essere concentrato sulla crisi siriana. Putin avrebbe preferito parlare di ben altro, piuttosto che solamente di Assad. E forse anche i Barroso, van Rompuy e Lady Ashton, tutte e tre convocati e giunti nella città più europea di tutte le Russie, avrebbero gradito concentrarsi su altre questioni. La Siria invece blocca i lavori della comunità internazionale e fa decadere l’attribuzione di priorità a ciò che invece è urgente. Crisi finanziaria, questioni energetiche, scudo spaziale, lo stesso dossier iraniano. Argomenti, tutti questi, che stanno a cuore sia a Mosca sia a Bruxelles, intesa nella sua duplice veste di capitale Ue e di quartier generale della Nato. Ma se altre questioni sono così tanto importanti, perché non si arriva a un dunque in Siria? Forse perché quel “dunque” si teme che possa essere la

fotocopia, ancora più pericolosa, della guerra civile in Libia. C’è da pensare che non solo al Cremlino, oppure nella lontana Cina, Assad disponga di un sostegno strategico. D’altra parte, a San Pietroburgo si è avuta la conferma del caos sollevato dal Consiglio nazionale siriano (Cns) e la galassia di suoi più o meno affidabili alleati. Chi ufficialmente sta con questi ultimi è l’Occidente.

Tuttavia, proprio il vertice dell’Ue ieri ha cercato ancora una volta di penetrare nella gelida intransigenza di Putin. Questo ha piacevolmente giocato il ruolo che gli competeva. Tuttavia è facile superare la maschera di uno e dell’altro. Il fatto che il vertice di sia svolto implica che sia a Mosca sia a Bruxelles si nutra l’intenzione di chiudere la faccenda siriana nel più breve tempo possibile e contenendo ormai i danni. Non è un caso che si sia tornati a parlare del piano Annan. Ovvero di quel documento che, appena sette giorni fa alla vista della strage di Houla, lo si sconfessava. Mosca, per favorire Damasco e dietro suggerimento di Teheran, ne apprezzava ancora i contenuti. Meno tra Ue e Usa. Ieri una linea simile è emersa dall’incontro a Berlino tra il ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, e il suo omologo francese, Laurent Fabius. Del tutto contrario ma a questo punto un po’ più isolato appare il Cns. «Abbiamo deciso di porre fine al nostri impegni rispetto al piano Onu e a partire da venerdì abbiamo cominciato a difendere il nostro popolo», ha detto il maggiore Sami alKurdi del così chiamato Free Syrian Army. La dichiarazione si sposa con la richiesta di sostituire gli osservatori Onu con una missione di pace, sempre sotto l’egida del Palazzo di vetro. Si sposa, sì. Ma non si realizza. Perché per questa serve l’ok di Cina e Russia, le quali sappiamo essere contrarie. Sulla Siria non si va avanti, quindi. Perché è meglio non andare oltre. E a rimetterci è tutta la popolazione. «Vittima di violenze», come ha detto Fabius. Questa volta senza esporsi in tanti distinguo tra le responsabilità di Assad e quelle dei ribelli. Il ping pong va avanti. Questa è la settimana degli indugio.


mondo

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Accanto, i carri armati schierati su Piazza Tiananmen per ordine di Deng Xiao Ping, si fermano davanti a uno studente disarmato. È la foto più famosa della protesta cinese sfociata poi in una strage. Sotto, Ding Zilin, leader delle “Madri di Piazza Tiananmen”, che ieri è stata arrestata dalle autorità. A destra, l’ex sindaco di Pechino ai tempi della rivolta, che ha parlato di «clamoroso errore» del regime

Secondo il «South China Morning Post» di Hong Kong, le stesse autorità locali hanno definito le misure «da tempo di guerra»

Il ricordo proibito

A 23 anni dal massacro di piazza Tiananmen, la Cina vieta la commemorazione censurando il web e arrestando decine di dissidenti. Gli Usa: «Liberateli!» di Maurizio Stefanini l 23esimo della strage della Tiananmen non è in realtà una di quelle cifre tonde che portano la Storia a muoversi anche solo per la loro semplice rotondità: quasi che gli zeri si trasformassero in ideali ruote che all’improvviso fanno scorrere il ritmo dei mutamenti più veloci. E neanche si può dire in realtà che ci fosse stata una particolare mobilitazione internazionale. Sì, gli Stati Uniti hanno sollecitato Pechino a rilasciare «coloro che sono ancora incarcerati per la loro partecipazione» alle manifestazioni di Tiananmen. Pechino, ha chiesto una nota del Dipartimento di Stato letta dal viceportavoce Mark Toner, dovrebbe anche «rendere noto pubblicamente il bilancio delle vittime, dei dispersi e dei detenuti e mettere fine alle pressioni esercitate sulle famiglie dei dimostranti». Ma questa è robetta. Il minimo che un Paese che come gli Stati Uniti ritiene di essere il difensore della libertà mondiale deve fare, appunto per obbligo contrattuale. Così come la Repubblica Popolare Cinese, per conto suo, nell’obbligo contrattuale del ruolo di vilain che si è scelta deve continuare a ricordare che Taiwan è una «provincia ribelle» destinata prima o poi a «tornare con la Madrepatria», se

I

necessario «anche con la forza». Senza che ciò debba necessariamente costringere Washington a mobilitare le Forze Armate per impedire che nel Mar della Cina accada qualcosa di irreparabile, e neanche interrompere i più che proficui affari che le due Cine continuano a fare tra di loro.

No. Se la polizia cinese si è scatenata contro i dissidenti che ricordavano la protesta, la ragione non è né nell’anniversario in sé, né nelle scontate proteste di Washington, cui il ministero degli Esteri cinese aveva risposto con un altrettanto scontato comunicato stampa sulla sua «profonda insoddisfazione». In tutte le città del Paese la polizia ha avuto ordine di arrestare chiunque tentasse di commemorare il 23mo anniversario del massacro. E notizie di centinaia di arresti e fermi di attivisti per la democrazia sono in effetti arrivati da tutte le principali città del Paese. Dalla capitale, il cui nome significa “Capitale del Nord”, a Shangai, nel Sud; da Fouzhou, sulla costa

fine alla protesta degli studenti e uccise migliaia di attivisti e semplici cittadini. In realtà, l’agitazione studentesca era iniziata addirittura nel 1986, per cercare di appoggiare le timide prese di posizioni che il presidente del partito Hu Yaobang aveva fatto in privato a favore di Stato di diritto, separazione dei poteri e perfino pluralismo partitico e allentamento della repressione in Tibet.

Ma l’asse tra Deng Xiaoping e le vecchie cariatidi della noaveva menklatura bloccato tutto, fino alla primavera del 1989. A quel punto, sotto l’impressione per le cose clamorose che stavano avvenendo nell’Urss della perestrojika e nella Polonia della “tavola rotonda” con l’opposizione e nell’Ungheria della riforma pluralista, gli studenti tornarono ad accalcarsi ogni giorno sulla Piazza della Pace Celeste, chiedendo l’introduzione della democrazia e dei diritti civili. Vennero prodotti opuscoli e affissi manifesti murali in quantità: i famosi daze-

Il governo cinese non ha mai rivelato cosa sia avvenuto quando l’esercito intervenne, né ha mai fornito un resoconto credibile, né ha mai autorizzato un’inchiesta indipendente orientale, a Guiyang, nella Cina occidentale. A Pechino a oltre 100 attivisti è stato impedito di uscire di casa. A Guizhou, addirittura, la polizia ha circondato e trascinato in prigione un piccolo gruppo di anziani che avevano organizzato un sit-in in ricordo delle vittime del massacro. Da diversi giorni la navigazione su internet è limitata. Mi-

gliaia di siti giudicati pericolosi sono stati bloccati o chiusi. Solo a Hong Kong, ancora protetto dallo status“un Paese due sistemi” con cui l’ex-colonia fu retrocessa da Londra, un museo può raccontare ai giovani cinesi la verità sui fatti del 1989. Fu nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989 che l’esercito comunista intervenne per porre


mondo bao che all’epoca della Rivoluzione culturale erano stati strumenti di oppressione, e ora ridiventavano strumenti di libertà. Anche centinaia di migliaia di membri del Partito Comunista Cinese si unirono al movimento di protesta, che adottò come emblemi l’inno dell’Internazionale, ma anche la yankee Statua della Libertà. Deng disse al segretario di Stato degli Stati Uniti George Shultz che le proprie riforme avrebbero avuto successo, parlando con ironico disprezzo della strategia riformistica sovietica. Dal punto di vista economico, infatti, la Cina stava progredendo, mentre l’Unione Sovietica stava entrando in una grave crisi di produzione e di scorte. Deng rifiutò dunque di scendere a compromessi con i contestatori e rafforzò nuovamente l’autoritarismo politico, considerando sacrosanta l’unità del partito e della gestione del potere. Deng era sicuro che fosse quello l’unico modo con cui il comunismo cinese poteva uscire dal vicolo cieco in cui si era cacciato, e il 20 maggio decretò dunque la legge marziale.

È vero che nel contempo inviò anche il primo ministro Li Peng a trattare con gli studenti: ma stante la fama di implacabile sostenitore dell’ordine e dell’autorità che Li aveva, si trattava più di provocazione che di apertura. Li infatti disse: «oggi discutiamo una questione: come sollevare gli scioperanti affamati dalla loro presente condizione». Si scatenò allora il putiferio. «Scusami se ti interrompo, primo ministro Li Peng», gli rispose lo studente Wuer Kaixi agitando il dito, «ma non c’è molto tempo. Qui stiamo comodamente a sedere mentre fuori gli studenti soffrono la fame. Hai appena detto che dovremmo discutere una sola questione. Ma la verità è che non sei stato tu a invitarci a parlare, ma siamo noi - tutti noi di piazza Tiananmen - che ti abbiamo chiamato. Dovremmo dunque essere noi indicare le questioni da discutere». Li Peng provò a porgere la mano, ma il gesto fu respinto. «Vi siete spinti troppo avanti!», minacciò allora il primo ministro. E l’Esercito Popolare di Liberazione venne inviato nel centro della città, con l’ordine di liberare l’area dai contestatori. E la sera del 3 giugno cominciò infatti il massacro. I carri armati, solo rallentati in una famosa foto da un manifestante con un sacchetto della spesa in mano, avanzarono sul lastrico della piazza, schiacciando sotto i cingoli diversi studenti. I capi della protesta furono

Chen Xitong ammette (parzialmente) l’errore del regime

Mea culpa dell’ex sindaco di Pechino: «Strage da evitare» Nei giorni in cui il mondo assisteva all’orrore del massacro di Tienanmen, era stato il megafono del regime nel giustificare l’uso dei tank in assetto di guerra contro i dimostranti disarmati, parlando di un «complotto» orchestrato «da piccoli gruppuscoli». Ma oggi Chen Xitong, l’ex sindaco di Pechino, 81enne e malato di cancro, travolto da accuse di corruzione, per la prima volta in 23 anni, si allontana dalla versione ufficiale e ammette che il bagno di sangue - in cui secondo Amnesty furono uccise oltre mille persone - «è una tragedia che poteva e doveva essere evitata, nessuno sarebbe morto se le cose fossere state gestite in modo corretto». Il primo, anche se ancora parziale, ripensamento dell’anziano e malato ex membro del Comitato Centrale è stato raccolto da Yao Jianfu, un ricercatore governativo in pensione, che ha pubblicato un libro intervista - dal titolo Colloqui con Chen Xitong - che è stato pubblicato ad Hong Kong in occasione dell’anniversario del massacro. Nel libro Chen ci tiene, comunque, a difendere il suo operato, dicendosi estraneo alla stesura del documento in cui si giustificava l’azione dei militari, dicendo di essersi limitato a leggere «senza cambiare una virgola» un copione scritto dal qualcuno del partito centrale. «Non potevo rifiutarmi di leggerlo», si è schernito. «La vicenda di Tienanmen non è mai stata dimenticata, in particolare dal governo», ha dichiarato Bao Pu, l’editore di Hong Kong che ha sfruttato la relativa maggiore libertà di cui continua a godere l’ex colonia britannica per pubblicare il libro. Il padre di Bao, che nel 1989 era un alto funzionario pubblico, fu arrestato dopo il massacro e, anche se ora è libero, viene tenuto sotto stretta sorveglianza. Il partito, prosegue l’editore, «non vuole che si parli del massacro ma non può dimenticare perché vive con le sue conseguenze. La repressione ha fondamentalmente alterato la relazione tra i leader e il popolo».

poi condannati a lunghe pene da scontare nei campi di lavoro. Zhao Ziyang, l’esponente dell’Ufficio politico del Partito Comunista Cinese che aveva mostralo simpatia per gli studenti, cadde in disgrazia e venne sottoposto di gli arresti do-

miciliari. La censura venne rafforzata, mentre esercito e polizia venivano schierati per le strade a stroncare sul nascere ogni resistenza. Le stime di quel massacro oscillano a seconda delle fonti: da un minimo di 180 a un massimo di

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10.000 morti Il governo cinese infatti non ha mai rivelato in modo completo cosa sia avvenuto quando l’esercito intervenne, né ha mai fornito un resoconto credibile, né ha mai autorizzato un’inchiesta indipendente sugli eventi. In Cina non è permesso ricordare il massacro o parlarne, ma in questi giorni molti cinesi hanno raggiunto di nascosto Hong Kong, per partecipare alla marcia annuale organizzata nell’ex colonia britannica dalla Hong Kong Alliance in Support of Patriotic Democratic Movements in China a sostegno dei movimenti patriottici e democratici in Cina.

Secondo Lee Cheuk-yan, presidente dell’organizzazione, più di 150mila persone vi hanno partecipato. E centinaia di persone, soprattutto turisti, stanno visitando il museo che racconta la nascita e la successiva repressione del movimento di Tiananmen. Inaugurato in aprile dall’Alliance, il museo è l’unica istituzione sul territorio cinese che ricorda in questi giorni i moti del 4 giugno. Secondo Cheuk-yan, presidente dell’Alliance, esso sta dando la possibilità a molti giovani cinesi in visita ad Hong Kong di conoscere la verità sul massacro, rimasto indelebile nella memoria degli adulti, ma di fatto sconosciuto alle nuove generazioni. Dalla sua apertura oltre 7mila persone hanno visitato il museo, di queste circa 1400 provenienti dalla Cina continentale. «Ora ho capito perché i giovani protestavano e come i funzionari del partito gli hanno massacrati. Ho sempre pensato che il 4 giugno fosse solo una rivoluzione per chiedere il benessere sociale in Cina», ha detto un giovane che è venuto a conoscenza del Museo attraverso internet. All’inizio, il mondo inorridì. Molti osservatori ritengono che proprio per evitare il ripetersi di quell’orrore i governi dell’est Europeo in quell’autunno non opposero più resistenza all’ondata delle rivoluzioni di velluto. Ma proprio l’impressione per la fine del comunismo all’Est, la tragedia della ex-Jugoslavia, la guerra del Kuwait spesso fecero non proprio dimenticare la strage, ma certo consegnarla in un cassetto della Storia. E quando poi venne il boom economico cinese non mancò chi disse che in fondo i protestatari della Tiananmen avevano vinto. Magari non avevano ottenuto la libertà politica, ma il benessere economico sì. E il resto sarebbe venuto a tempo debito. Solo che l’ora della riforma politica in Cina sembra non arrivare mai.

e di cronach

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


cultura

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A cinquant’anni dalla prima uscita del fumetto noir firmato dalle sorelle Giussani, una mostra itinerante racconta il background del famoso criminale

Diabolik celebration Al re del terrore, ispirato a Fantomas, fu dato il volto di Robert Taylor, l’attore preferito di una delle autrici di Rita Pacifici el 1961 Angela Giussani fonda a Milano la casa editrice Astorina, una costola delle edizioni Astoria, di proprietà del marito, Gino Sansoni. Angela, affermata fotomodella, volto delle storiche campagne pubblicitarie della Radio Ducati e del sapone Lux, aveva sposato nel ‘47 l’editore condividendone l’avventura nella carta stampata. Insieme a Sansoni collabora a uno dei primi titoli del catalogo, Il Vademecum delle perfette spose, dove, raffinata e impeccabile, posa per elargire consigli alle padrone di casa. Poi, il primo tentativo di emancipazione professionale l’aveva portata a ritagliarsi un marchio autonomo specializzato in prodotti per ragazzi, trascinando nell’impresa la sorella Luciana, più giovane di sei anni, altrettanto bionda e affascinante, un titolo conquistato nel ‘48 come Miss Sport. Le due sorelle inventano gadget e giochi in busta all’interno di una minuscola stanza rubata alla sede dell’Astoria e li promuovono personalmente di edicola in edicola, offrendo fiori, cioccolatini e il loro dolcissimo sorriso (come ricorda la ricca biografia Le regine del terrore di Davide Barzi, edizioni BD). Un anno dopo, quella che sembrava una delicata creatura editoriale destinata a soccombere presto, partoriva un personaggio assai longevo e tutt’altro che edificante: Diabolik, il re del terrore, popolarissimo genio del male, cinquant’anni vissuti spericolatamente tra crimini impuniti, fughe ingegnose, sofisticate invenzioni tecnologiche. L’idea, si racconta, venne alla maggiore delle Giussani osservando le migliaia di pendolari che ogni giorno vedeva passare davanti alla stazione Cadorna. Uomini e donne che avevano bisogno di qualcosa di pratico da sfogliare in vetture sovraccariche e scomode. Letture da esaurire nel breve giro di mezz’ora, quanto durava il percorso dall’hinterland milanese al capoluogo. Magari un fumet-

N

to, genere sino allora riservato soltanto ai ragazzi, dal formato più agile di quello allora corrente. Diabolik non c’era ancora ma Angela ne aveva già intuito le misure giuste: diciassette per dodici centimetri, quanto bastava per far stare in una tasca il noir misterioso e leggero destinato a rivoluzionare l’editoria popolare.

In realtà le due signore della buona borghesia milanese ci avevano già provato a lanciare una storia forte. Il primo personaggio di Astorina è Big Ben Bolt, un fumetto tratto dalla serie americana scritta da Elliot

Caplin e disegnata da John Cullen Murphy. Il protagonista è un pugile al servizio della società ma Big Ben Bolt sopravvive appena due anni. Forse per Angela, ribelle, intraprendente, che va a cavallo e pratica tanti sport, guida l’automobile già negli anni Quaranta e ottiene persino il brevetto di pilota d’aereo, questo eroe è troppo convenzionale, troppo politicamente corretto. Forse basta rovesciare la prospettiva, mettersi dalla parte di ciò che inquieta, attraversare la linea d’ombra, come del resto ha già fatto tanta narrativa francese con Rocambole, capostipite della famiglia dei grandi ladri, Arsenio Lupin, ma soprattutto con Fantomas, il più famoso della schiera dei malvagi. Sarà proprio quest’assassino spietato, nato nel 1911 per mano di Marcel Allain, osannato da tanti intellettuali, tra i quali Artaud, Aragon e Magritte, celebrato persino come “il re dei surrealisti”per le sue trasgressioni dell’ordine e della moralità borghese, a ispirare Angela Giussani. Un precedente letterario riletto e attualizzato attraverso il filtro della cronaca nera, sempre alla ribalta nella stampa di quegli anni. Il primo numero del noir rivolto agli adulti si intitola Il re del terrore, il sottoti-

Alcune immagini dei protagonisti del fumetto creato da Angela e Luciana Giussani (nella foto in basso): Diabolik, la sua compagna Eva Kant e il commissario Ginko, antagonista del criminale “made in Italy”. La mostra itinerante “Cinquant’anni vissuti diabolicamente” sarà in questo mese a Cremona. Poi toccherà a Lucca, prima della conclusione a novembre a Milano

tolo è Il fumetto del brivido, costa centocinquanta lire ed esce il primo novembre del 1962, con cadenza trimestrale. Il soggetto è scritto da Angela rielaborando con fedeltà gli esempi francesi e mostrando una spiccata, quasi maniacale attenzione alla veridicità di ogni dettaglio che la porta a consultarsi con esperti di medicina, chimica e fisica.

La copertina è disegnata da Brenno Fiumali, il logo studiato da Remo Berselli e i disegni, deludenti, sono di Zarcone, un occasionale collaboratore subito sostituito. Le vignette sono due o tre a pagina, per inserire i campi lunghi e i dialoghi articolati necessari ai fumetti d’azione. Sulla copertina l’identità delle autrici non è rivelata del tutto. Per una prudente politica che voleva il mondo imprenditoriale esclusivamente in mano maschile, il cognome delle Giussani è preceduto soltanto dalle iniziali delle due sorelle. Il nome del protagonista, che circolava negli anni Cinquanta, con piccole varianti, associato a un romanzo e a una serie di delitti avvenuti nella provincia di Torino, è rivitalizzato effica-

cemente da quel kappa finale che avrà tanta fortuna e ritorna come comune denominatore nel nome degli altri due personaggi. Diabolik nasce con il volto dell’attore preferito di Angela, Robert Taylor, il fascinoso interprete di Il Ponte di Waterloo, Quo vadis?, Ivanhoe e nei primi numeri, come i suoi illustri predecessori, è uno spietato criminale in competizione con il tenace antagonista Ginko, conosce l’arte segreta di

Eva Kant, che apparve nel terzo numero con la fisionomia di Grace Kelly, incarna una nuova intraprendenza femminile che di lì a poco prese forma nella società trasformarsi grazie a prodigiose maschere in resina, parla dieci lingue e diffonde il terrore a Clerville, città immaginaria che ricorda Parigi. Diabolik indossa la stessa calzamaglia aderente di Phantom, l’uomo mascherato apparso in


cultura

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Un Diabolik più giallo che nero, meno feroce e morboso, costruito più sulla solidità dell’intreccio che sulla ricerca di effetti gratuiti. Se non proprio un gentiluomo, una figura percepita come eticamente corretta e che dagli Ottanta, anziché inseguire la cronaca nera, pur senza tradire le caratteristiche di un fumetto d’intrattenimento, prenderà spunto dall’attualità più scottante, schierando la celebre coppia di fuorilegge a fianco dell’infanzia abbandonata e dell’ambiente, contro la mafia, la prostituzione e la droga, problematica sulla quale le autrici si mostreranno assai sensibili.

America nel ’36, ma a renderlo inconfondibile ci sono gli occhi, grigi e gelidi e la macchina nera che accompagnerà sempre il re del terrore nelle sue avventure, la famosa Jaguar e tye coupé del ’61, anch’essa da poco cinquantenne. La coraggiosa Eva Kant, controparte femminile di Diabolik, arriverà soltanto nel terzo numero. Su indicazioni della stessa Angela assume la fisionomia di Grace Kelly e della Giussani si porta dentro l’intraprendenza e quella voglia di rompere lo schema rigido dei ruoli che la contestazione giovanile stava per spazzare via anche dalla società.

Quando appare Diabolik, il mercato dei fumetti è in fermento e registra una consistente crescita. Nelle edicole italiane, oltre agli eroi disneyani, dominano Tex Will, apparso nel ‘48 per mano di Sergio Bonelli, un western che anticipa il revisionismo storico americano, l’Intrepido, Il Monello, mentre in America, nello stesso anno in cui appare Diabolik, prende corpo Spiderman, altro vitalissimo supereroe. Nonostante rappresenti una novità assoluta, la prima storia firmata dalle Giussani, distribuita in una tiratura assai limitata, rimane per la maggior parte invenduta.

di costume, circolano parodie e racconti ispirati al genio del crimine, un gruppo di cantanti si presenterà al pubblico del Piper di Roma indossando la celebre calzamaglia nera e fa notizia il caso dello scrittore e pittore Dino Buzzati che, tra i primi a difendere i fumetti, chiama con il nome del cattivo protagonista il proprio cane. Nel ’67 Diabolik arriva sul grande schermo. Il film avrebbe dovuto essere prodotto da Tonino Cervi e interpretato da Jean Sorel ed Elsa Martinelli. In realtà la lavorazione non va avanti e la pellicola esce con la regia di Mario Bava, la produzione De Laurentis e il cast formato da John Piliph Lav, Marisa Mell e Michel Piccoli. Al cinema Diabolik ottiene un discreto apprezzamento, ma la critica lo stronca, come fanno anche le sorelle Giussani, insoddisfatte dai «comportamenti ironici alla James Bond» che non appartengono per nulla al ladro di carta al quale dedicheranno tutta la vita.

Ci vorranno alcuni anni e una decina di numeri per registrare un’inversione di tendenza. Nel frattempo Diabolik è cambiato, è diventato bimestrale, e dal ‘65 uscirà ogni due settimane. Il nuovo disegnatore, Gino Marchesi, gli ha ritoccato il volto ispirandosi allo sguardo magnetico di un amico di Brembo. Immutata invece rimane la tenacia delle sorelle Giussani che continuano a credere nell’uomo diabolico e nella loro diretta promozione sul campo e lo propongono persino davanti alle scuole. Anche Luciana inizia a collaborare alla scrittura delle storie, la redazione si incrementa di collaboratori determinanti per il futuro del fumetto, come Mario Gomboli, Enzo Facciolo, Patricia Martinelli, le

due redattrici Luisa Poli e Mirella Arisi e la distribuzione è affidata a canali più efficaci. Il traguardo sembra raggiunto nel’66 quando Diabolik vende trecentomila copie, lo superano solo Tex con quattrocentomila e L’Intrepido, con trecentocinquantamila, un boom di vendite che toccherà l’apice negli anni Settanta. Il successo della testata delle Giussani si misura dai numerosi tentavi di emulazioni, dagli epigoni che iniziano ad affollare il mondo dei fumetti e che mostrano una più spiccata inclinazione alla violenza e al sadismo: da Satanik a Kriminal, da Demoniak, a Mister X, allo Zakimort proposto, in competizione con la moglie, dallo stesso Gino Sansoni. Diabolik diventa un fenomeno

Accanto ai crescenti consensi di pubblico, il criminale in calzamaglia delle Giussani ha attirato l’interesse anche della censura e messo in moto la giustizia. Nel ’63 la prima delle tante denunce contro le autrici di storie ritenute offensive per il comune senso del pudore, considerate un’istigazione alla violenza e ai crimini. Saranno sempre assolte ma il fumetto, insieme con altre testate, è sotto un controllo opprimente e gli ordini di sequestro si susseguono. Tuttavia le sorelle Giussani non retrocedono, semmai si orientano verso una revisione moderata del personaggio e Diabolik perde subito la pelle dell’uomo senza scrupoli, il manicheismo alla Fantomas, per evolvere verso una dimensione più sfumata e articolata, regolato da un codice morale che lo porterà a essere spesso migliore dei ricchi contro i quali agisce con il suo infallibile pugnale, temuto dalla polizia ma anche dalla malavita.

Dopo mezzo secolo la diabolica creazione delle Giussani non è cambiata. Mario Gomboli, che ha affiancato le due sorelle nella sceneggiatura sin dal ’66 e, dopo la scomparsa di Angela, nell’87 e di Luciana nel 2001, ha ereditato la direzione dell’Astorina, porta avanti con rigore e continuità la filosofia di questo personaggio entrato nell’immaginario collettivo degli italiani. Il Diabolik del terzo millennio rinnova il proprio impegno in importanti battaglie sociali, prende posizioni contro la violenza sulle donne, la pedofilia, la vivisezione, riuscendo a rimanere ben saldo nelle classifiche, con quattro milioni di copie vendute l’anno, dietro a Tex e a Dylan Dog. Per festeggiare questo impor-

Nel 1966 300mila copie vendute premiarono l’iniziativa sostenuta con tenacia nonostante lo scarso successo iniziale. Ma il boom delle vendite fu raggiunto negli anni 70 tante compleanno, la casa editrice Astorina ha ideato la mostra itinerante Cinquant’anni vissuti diabolicamente, che, attraverso filmati d’epoca, cimeli, foto e disegni, racconta il background del celebre criminale. Partita a marzo da Milano, a Napoli fino al due maggio, toccherà poi Cremona a giugno e Lucca a novembre, per poi concludersi, sempre a novembre, nella città di nascita di Diabolik. Eroe profondamente milanese, rileva Gomboli, perché solo una metropoli ricca di fermenti creativi e di opportunità di lavoro come era allora la capitale del nord Italia, poteva permettere a due giovani donne di dare concretezza a un sogno insolito e ambizioso portando avanti la sfida editoriale di un fumetto noir interamente italiano.


ULTIMAPAGINA

Gualberto Cusi è un giudice della Corte costituzionale boliviana. E per emettere una sentenza si affida alla droga

Una giustizia alle foglie di Maurizio Frasca uella della Bolivia è una giustizia alla coca: l’accusa che fa l’opposizione è difficilmente confutabile, ma non ha il senso che potrebbe sembrare più ovvio. Non è che qui si parla infatti di magistrati al soldo dei narcos: quelli in realtà presumibilmente ci sono, ma non solo e non principalmente in Bolivia. Neanche si parla di magistrati che siedono in tribunale dopo aver assunto sostanze allucinogene: anche questa è una circostanza che temiamo si sia verificata e continuerà a verificarsi, ma anche in questo caso non come problema specifico della Bolivia. La polemica attorno a Gualberto Cusi, membro del Tribunale Costituzionale, è dovuta

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Il magistrato, per decidere sulla costituzionalità di una legge, “consulta” la pianta. Se cade al posto giusto, il parere è positivo, se plana in quello sbagliato, non c’è nulla da fare invece al fatto che lui usa proprio le foglie di coca quando deve decidere sulla costituzionalità o meno di una legge sindacata, o comunque deve decidere una sentenza. Ne prende una, la solleva, la fa cadere, e esamina il modo in cui è caduta. È finita in un luogo secondo lui “positivo”? La sentenza è anch’essa positiva. La foglia è finita invece in un luogo “negativo”? E anche la sentenza sarà negativa. In pratica, è una versione andina del testa o croce: solo con i lati della foglia al posto delle facce della moneta.

Un’ovvia, macabra e un po’blasfema battuta vorrebbe che lo stesso “testa o croce” sia stato utilizzato al tempo di Nerone per decidere il tipo di esecuzione da destinare a San Paolo e San Pietro, ma in realtà gli antichi romani quel gioco lo chiamavano navis aut caput, nel senso che da loro l’opposizione più diffusa al disegno di una testa sulle monete era il disegno di una nave. È il

motivo per cui l’head or tail inglese deriva dalla contrapposizione tra il sovrano regnante e il leone dell’emblema nazionale, coda ritta; in Irlanda si dice heads or harps, “teste o arpe”; in Germania Kopf oder Zahl,“testa o numero”; in Brasile cara ou coroa, “faccia o corona”; in Messico águila o sol; in Russia orël ili reska, “aquila o simbolo”; e a Hong Kong l’equivalente cinese di testa o parola. In effetti, prima dell’invenzione dei calci di rigore il sistema era utilizzato nel calcio per decidere di una partita in caso di parità dopo i supplementari: l’Italia eliminò alla monetina l’Unione Sovietica agli europei del 1968, ma la Roma uscì in questo modo pure in semifinale alla Coppa delle Coppe del 1970. Ma l’uso in tribunale è più raro, anche se non del tutto ignoto: nel 2004 il presidente del Tribunale dei Minori di Trento Carlo Alberto Agnoli decise al testa o croce se l’affidamento di un bambino durante le vacanze natalizie dovesse spettare al padre o alla madre. Per la cronaca, vinse la donna. In questi casi particolari, però, è evidente che la monetina subentrava dopo che si erano esauriti tutti gli altri elementi possibili di decisione. Nella tradizione degli aymara, che sono una delle due etnie indigene principali della Bolivia, questo ricorso alla foglia di coca è invece uno degli strumenti di decisione fondamentali, dal momento che la foglia è considerata sacra alle deità andine e rivelatrice del loro parere. L’indigenista Evo Morales, che è lui stesso di origine parte aymara oltre che quechua e uru, da presidente ha propugnato una nuova costituzione “plurinazionale” che non solo accoglie la cosmovisione andina tra i valori cui le istituzioni devono ispirarsi, ma ha anche portato a un’elezione diretta dei magistrati. Per la verità quella consultazione fu poi boicottata dalla maggioranza dell’elettorato, su indicazione dell’opposizione. Ma non c’era

quorum minimo, il voto è stato dichiarato comunque valido, e lo sciamano aymara Gualberto Cusi è risultato il più votato degli eletti alla massima assise giurisdizionale del Paese: motivo per cui ha chiesto di essere nominato presidente dell’organismo, istanza cui i colleghi non hanno acconsentito. In compenso, di fronte alla tv ha subito mostrato che anche nel nuovo incarico volerva continuare a decidere allo stesso modo in cui aveva sempre deciso nei giudizi che aveva presieduto come autorità tradizionale indigena.

«È una vergogna», è stata la protesta del suo collega Milton Mendoza, magistrato supplente allo stesso tribunale. «Il Tribunale Costituzionale è un organo nettamente tecnico, che deve valutare se le decisioni sono in armonia con la Costituzione, le leggi e i diritti fondamentali. Si deve fare una revisione di dottrina

di COCA attraverso la scienza del Diritto e non attraverso arti o cerimonie che, con tutto il rispetto, non costituiscono parte del Diritto». Insomma, Cusi avrebbe mostrato una «mancanza di idoneità» tale da generare «sfiducia nella cittadinanza». «Se è questa la nuova giustizia che ci mostrano, di sicuro molti di noi non vogliono questa nuova giustizia perché non ci offre garanzie, non ci offre sicurezza». È l’idea esattamente opposta a quella del presidente Morales, che ha iniziato la sua carriera proprio come leader del sindacato dei piccoli produttori di coca, che da tempo chiede all’Onu di depenalizzare la “foglia sacra”, e che nella sede del Tribunale Supremo ha appunto concluso un seminario sul tema “Nuova visione della Giustizia boliviana nel quadro della Costituzione” invitando i tribunali a affrontare la «grande sfida» di «esportare la giustizia boliviana». «Sento che bisogna nazionalizzare i codici. Non sono esperto in materia, sarò sincero. Ma alcuni dottori mi dicono: le nostre norme continuano uguali, copia fedele dei codici romano, francese e statunitense. Mi domando: per caso queste norme sono cadute dal cielo per non cambiare?».


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